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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 20 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Bossi continua a ripetere: «È meglio andare a votare.Anche con la fiducia». E oggi a Milano inizia la convention dell’Udc
La finta guerra del 14 dicembre Berlusconi punta tutto sull’ora X della fiducia: ma se pure ce la facesse,il suo sarebbe comunque un governo finito.Il Centro rilancia: l’unica soluzione è un esecutivo di responsabilità nazionale LA CRISI DIMENTICATA
di Riccardo Paradisi
Le tre condizioni per evitare di seguire Grecia e Irlanda
ROMA. Bossi ha gettato la maschera: meglio le elezioni, anche se il governo ottiene la fiducia. Insomma, la «grande guerra» del voto del 14 dicembre è inutile: il governo non c’è più. E oggi i centristi da Milano rilanciano la proposta di un governo di responsabilità nazionale.
di Enrico Cisnetto inora è andata bene. L’Italia è riuscita a piazzare tutti i tioli pubblici che ha dovuto emettere in sostituzione di quelli in scadenza e a copertura del nuovo debito, seppure pagando quasi un punto di più di rendimento rispetto ai tassi precedenti. E ci conforta sapere che sono solo 10-12 i miliardi da tirar su entro fine anno, missione per nulla impossibile nonostante che l’Europa sia ripiombata nuovamente nel pieno di una tempesta finanziaria, questa volta per colpa dei problemi dell’Irlanda e, per possibile contagio, del Portogallo. Ma se i segnali che arrivano dai mercati fanno presagire che anche questa volta la Ue potrebbe vincere il braccio di ferro con la speculazione – perché negli ultimi giorni sono scesi tanto i differenziali tra i titoli dei vari paesi europei e quelli tedeschi (i Btp italiani viaggiano intorno ai 160 punti contro il record di 191 toccato venerdì 12 novembre) quanto i credit default swaps, cioè i costi per assicurarsi contro eventuali fallimenti degli Stati – altrettanto vero è che nulla può dirsi scongiurato. Lo dimostra il fatto che questa estate, dopo il salvataggio della Grecia e la costituzione dell’apposito Fondo europeo anticrisi tutti erano sicuri che la storia non si sarebbe ripetuta. segue a pagina 6
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a pagina 2
Ormai è guerra aperta nel Pdl campano
Scoppia il caso Carfagna: «Sono pronta a dimettermi» La ministro delle Pari Opportunità vuole lasciare il governo e il Pdl «ma solo dopo il voto del 14 dicembre». «Il partito non mi ha difeso ogni volta che mi hanno offesa in questi mesi» Giancristiano Desiderio • pagina 3
Quattro lettere aperte all’Assemblea dell’Udc
Unite il Paese con la ricerca Andrea Olivero La q u estio n e crist ian a al N or d Biagio de Giovanni U n n u ov o d estin o per la Nazio n e Carlo Lottieri Il p op o lo è st an co d i fa ls e pr omes se Carlo Ripa di Meana
alle pagine 4 e 7
ELEZIONI E PARLAMENTO
La politica è al buio: ci vuole un nuovo patto costituzionale di Francesco D’Onofrio uesta lunga crisi di governo pone in evidenza tre fatti di grande rilievo politico e costituzionale: la sostanziale sottrazione delle scelte fondamentali di politica economica alle vicende proprie di una crisi di governo (la legge di Stabilità votata prima delle votazioni concernenti la vera e propria crisi di governo); il rapporto tra voto popolare e voto parlamentare per quel che concerne la legittimità a governare il Paese (solo il voto popolare rende legittimo il governo del Paese o, al contrario, qualunque voto parlamentare consente di dar vita a qualunque governo in una sorta di assemblearismo parlamentare, più che di vero e proprio governo parlamentare?); la riforma federalistica dello Stato. Si tratta di tre questioni fondamentali per la definizione di un equilibrio costituzionale stabile, quale certamente era quello racchiuso nella Costituzione repubblicana del 1948: la sovranità nazionale rispetto all’integrazione europea da un lato; il rapporto tra voto popolare e voto parlamentare per la legittimità di un governo della Repubblica; scelta non federalistica dell’ordinamento territoriale della Repubblica. segue a pagina 3
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La Turchia disposta ad accettare lo Scudo «solo se non è contro l’Iran»
La nuova scommessa di Obama Il vertice Nato cerca di ricomporre il puzzle Usa-Russia-Europa di Enrico Singer
Nessuna novità sostanziale dalla nuova dottrina
onvincere Mosca che lo scudo antimissile non è puntato contro la Russia e tentare, anzi, di associarla al nuovo piano di difesa immaginato da Washington. Convincere l’Europa che la Nato, ormai, è un’alleanza che sposta la sicurezza fuori dai suoi confini, soprattutto a Oriente. Senza irritare troppo la Turchia a pagina 26
Il Patto formalizza il ritiro dall’Afghanistan
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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
di Antonio Picasso a dottrina della nuova Nato partirà dall’Afghanistan. Prima però farà scalo in Europa: Washington vuole infatti iniziare a trattare con Bruxelles, non con le singole Cancellerie sparse per il Continente. a pagina 27
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la crisi italiana
pagina 2 • 20 novembre 2010
il fatto Continua lo scontro nella maggioranza. I finiani chiedono a Berlusconi una svolta di governo ma il Cavaliere punta alle urne
La guerra dei bottoni
Bossi garantisce una fedeltà a scadenza: dopo il federalismo vuole mani libere. Con o senza la fiducia, l’esecutivo di fatto non c’è più la polemica di Riccardo Paradisi
he cosa voleva davvero dire Gianfranco Fini nel suo videomessaggio di giovedì evocando la responsabilità di tutti? Qual è la valenza reale della richiesta rivolta al premier di realizzare i punti programmatici su cui il governo ha ottenuto l’ultima fiducia? Si tratta di una retromarcia? Di un messaggio rivolto ai moderati del suo partito per dimostrare che c’è ancora una estrema volontà di trattare? O semplicemente di una mossa interlocutoria per prendere tempo?
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Fini ieri era in Piemonte per una serie di appuntamenti istituzionali; a chi gli chiede, facendo una similitudine con un gran premio di Formula 1, perché c’è questa situazione di ”stop and go” nel governo il presidente della Camera risponde: «Io non faccio il Gran Premio. Siamo al pit stop. Non parliamo di queste cose». Fini insomma tace, lasciando spazio alle più diverse interpretazioni: da quella di Bossi per cui al presidente della Camera «è presa paura» – paura di non sfondare, di perdere la battaglia della sfiducia del prossimo 14 dicembre – a quella del falco futurista Fabio Granata che garantisce: «Non c’è alcun colpo di freno. Noi abbiamo aperto formalmente la crisi. Il presidente della Camera, dando voce alle preoccupazioni del presidente della Repubblica, ha invitato il presidente del Consiglio al senso di responsabilità». Insomma per la sinistra finiana se non ci saranno cambi di rotta del Cavaliere Fli voterà la sfiducia. La destra finiana suona però una campana diversa. «Da qui al 14 dicembre c’è tempo un mese, e un mese è lungo» dice il capogruppo di Futuro e Libertà al Senato Pasquale Viespoli: «Questo mese che precede il voto di fiducia al Senato e sfiducia alla Camera sarà utilizzato per discutere e confrontarci. Mica noi stiamo qua a fare gli attendisti...». Anche se «finora la risposta che ha dato Berlusconi non ha sciolto il nodo politico». Ma cosa si attendono i finiani da Berlusconi? Una nuova agenda
La ministro minaccia le dimissioni «ma solo dopo il voto sulla fiducia»
Scoppia il caso Carfagna: «Pronta ad andarmene» di Giancristiano Desiderio ara Carfagna saluta e se ne va. Forse. Bisogna attendere la verifica delle verifiche del 14 dicembre o giù di lì per sapere se sotto l’albero di Natale ad Arcore Silvio Berlusconi troverà anche questo bel regalino del suo ministro delle Pari opportunità: via dal Pdl e via dal governo. La notizia, se confermata - perché questa al momento è un’anticipazione dell’Ansa - sarebbe clamorosa ma non inaspettata. Sono mesi che la Carfagna non ha più quel particolare feeling che un tempo la legava anima e corpo a Forza Italia prima e al Pdl poi. Perché Mara Carfagna ne ha fatta di strada da quando è entrata in politica grazie all’incontro con Berlusconi e poi al suo lavoro personale nel partito e nella
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tito, al ministro delle Pari opportunità è sembrata la cosa più naturale e giusta rafforzare l’intesa con l’uomo più vicino a Fini, vale a dire Italo Bocchino. Ancora una volta un campano. Ancora una volta un campano in contrasto con Cosentino. La decisione della Carfagna di lasciare il Pdl, se effettivamente ci sarà, ha qui le sue ragioni e i suoi torti. I litigi con Giancarlo Lehner, Mario Pepe e Alessandra Mussolini sono solo un dettaglio irrilevante o la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso che altro non aspettava.
In questa storia di relazioni pericolose in cui la Carfagna è in bilico tra Fini e Berlusconi è in gioco anche la candidatura a sindaco di Napoli. Più volte è stato fatto il suo nome e più volte lei ha rilasciato dichiarazioni che in realtà erano critiche e accuse rivolte prima di tutto al suo stesso partito. Negli ultimi tempi il rapporto con l’ex sottosegretario Cosentino, che però è ancora il coordinatore del Pdl in Campania - coordinatore non sostituibile - è sfociato in una guerra aperta: Cosentino ha lanciato come candidato a Palazzo San Giacomo il consigliere regionale Fulvio Martusciello, un tempo amico-nemico di Cosentino insieme con il fratello Antonio, deputato della prima ora di Forza Italia e manager Publitalia. Può darsi che la Carfagna alla fine abbia ceduto a una crisi di nervi oppure può darsi che la già navigata politica stia facendo bene i suoi calcoli. Un dato è comunque certo: ormai la situazione non è più sanabile perché in gioco non c’è solo la politica ma anche i rapporti personali e umani. L’eventuale uscita di scena della Carfagna segnerebbe un duro colpo per il partito del premier. Il suo è un partito ormai in disfacimento e la crisi appare tanto più decisiva quanto più il Pdl non è un partito ma un raggruppamento di uomini e donne unite solo dall’ubbidienza al capo. Ma in questa storia ciò che manca è un po’ di stile. Proprio “quel non so che” che ci aspetterebbe da una donna di stile come Mara Carfagna. Viene da pensare: povero Berlusconi (ma si fa per dire, perché certi incidenti se li andati a cercare).
Tutto nasce dal duro conflitto con Nicola Cosentino sulla gestione del partito in Campania sua Campania. La ex valletta è originaria di Salerno e ha avuto la lungimiranza di curare, come si usa dire, il rapporto con il territorio. Quando Napoli e la Campania erano il regno di Antonio Bassolino fu proprio la Carfagna a impegnarsi in un’azione di opposizione convinta che affiancò il lavoro svolto a Napoli e nel grande hinterland casertano da Nicola Cosentino e i suoi uomini. È proprio qui, nella sua terra, che la carriera politica della ministro più bello della Repubblica comincia a cambiare pelle.
La Carfagna, infatti, non ha mai legato bene con gli uomini del suo partito (Forza Italia), mentre ha coltivato buoni rapporti politici con gli ex dirimpettai di Alleanza nazionale. Quando, poi, i due partiti di Berlusconi e di Fini si sono fusi in un solo par-
sociale – dicono – le riforme, compresa quella elettorale e, soprattutto, il percorso che porti a un nuovo governo. Certo è che se la risposta di Berlusconi è ”o la fiducia o il voto” il nodo di cui parla Viespoli non si scioglie ma anzi si stringe.Tuttavia l’oracolarità di Fini apre a un’altra domanda: nuovo governo potrebbe anche significare un Berlusconi-bis per i finiani? A leggere tra le righe del videomessaggio è un’ipotesi che non si può escludere. Un’ipotesi che l’asse Berlusconi-Bossi non prende però nella minima considerazione. Anzi, il premier e il leader leghista avrebbero già preso la decisione di andare comunque al voto entro primavera, fiducia o no. Da parte sua infatti Berlusconi, che è convinto di avere i numeri anche alla Camera, avrebbe spiegato a Carlo Giovanardi e al ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi che anche se dovesse ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento non resterà con il cerino in mano a farsi logorare. «Appena Fini creerà l’incidente di percorso, se dovesse impedirmi di governare, io sono pronto a salire al Colle per chiedere le elezioni anticipate, perché non resterò con solo qualche voto in più e una maggioranza risicata».
La fiducia però, sebbene risicata, sarebbe comunque una battaglia vinta nella lunga guerra di posizione all’interno della maggioranza. Il Cavaliere confida naturalmente nell’asse con la Lega per realizzare questo percorso, asse assicurato ieri dalle dichiarazioni di Bossi che ribadisce il no assoluto del Carroccio a qualsiasi governo tecnico, aggiungendo che il presidente della Repubblica «essendo saggio non avallerà mai una simile ipotesi anche perchè la reazione del paese sarebbe ”molto forte». Ma Bossi va oltre.Dice cioè che anche se Berlusconi ottenesse la fiducia dovrebbe comunque portare il paese al voto: «Fanfani una volta ebbe la fiducia e si dimise. Mancano i numeri, tutte le volte devi andare a chiedere i numeri e soprattutto con la crisi che ci aspetta sarebbe meglio stare all’opposizione». Ma il presidente del Consiglio non è dell’avviso di Bossi, procede per la sua strada: «Nel lessico non esiste la parola ritirata anche quando il combatti-
l’analisi Il nodo del rapporto tra consenso popolare e voto parlamentare
Ci vuole un nuovo patto costituzionale
Dietro la crisi della maggioranza c’è anche quella del bipartitismo e del suo assetto istituzionale di Francesco D’Onofrio L’equilibrio costituzionale originario ignorava, come era del tutto ovvio, il rapporto tra l’Italia da un lato e l’integrazione europea dall’altro; per quel che concerne il rapporto tra voto popolare e voto parlamentare si viveva in una sorta di doppia legittimità, l’una fondata sul patto costituzionale originario di Cln, e l’altra sul consenso popolare rappresentato in modo proporzionale dai partiti politici; per quel che concerne la scelta regionalistica e non federalistica della Costituzione, occorrerà valutare in qual modo è necessario un nuovo equilibrio costituzionale concernente la stessa struttura del Parlamento repubblicano. La crisi di governo in atto ha pertanto messo in discussione con evidenza persino rude tutti e tre gli equilibri costituzionali originari.
Sopra il presidente della Camera Fini insieme al leader dell’Udc Casini. Nella pagina accanto il ministro delle Pari opportunità Carfagna, che ha ventilato le sue dimissioni. In basso il ministro degli Interni Maroni mento la prevede – dice Bossi in una considerazione che suona come un affettuoso rilievo critico – la Lega lo seguirà fino a quando non abbiamo fatto le riforme». Tradotto: Berlusconi è un amico ma più amico alla Lega è il federalismo. Da parte sua il presidente della Camera, deposta la clava, ora lavora di fioretto. Offre sponde alle tesi di Saviano sulla mafia del nord «Io mi meraviglio di chi si meraviglia», dice in un convegno sulla legalità a Novara e ai ragazzi di una scuola raccomanda di «non fidarsi di chi in politica dice ci penso io».
Dove il riferimento al ghe pens mi di Berlusconi non è casuale. Ma appunto si tratta di punzecchiature, colpetti per tenere calda la base e non smorzare del tutto la tensione. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, un ex colonnello di Fini, uno dei suoi più stretti collaboratori ai tempi di An, spiega che «segnali di rottura completa non ne ho registrati nel suo discorso e mi pare che abbia sempre difeso il programma elettorale». È necessario tradurre ancora dalle paludate circonlocuzioni di palazzo: Fini potrebbe non votare la sfiducia al governo.Teoria accreditata anche da rivelazioni provenien-
ti da fonti interne alla maggioranza e dell’opposizione le quali concordano su questa versione: temendo di restare a metà del guado Fini, che non riesce a controllare i suoi uomini attratti da un rentrè nel governo, si limiterebbe il 14 dicembre a dare l’appoggio esterno al governo, magari in nome della responsabilità. Confidando che il governo non avrebbe comunque vita lunga e sperando nell’opzione che il Centro torna a rilanciare: un governo cioè di responsabilità nazionale. Intanto, a proposito di arrivi e partenze ai Grand Hotel Montecitorio e Palazzo Madama si registrano le vibrate minacce di dimissioni del ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna. Secondo l’Ansa il ministro starebbe valutando l’ipotesi di lasciare l’esecutivo ed il partito anche se all’indomani della votazione di fiducia al governo prevista per il 14 dicembre. Motivo? Gli insanabili contrasti con i vertici campani del partito e l’incapacità dei coordinatori nazionali del Pdl di affrontare i problemi interni al partito in Campania. Alla base della scelta anche «gli attacchi volgari e maligni» di esponenti del partito come Giancarlo Lehner, Alessandra Mussolini e Mario Pepe. Sul Titanic ora si va di sceneggiata.
Il fatto di aver sottratto la legge di stabilità alle vicende anche costituzionali della crisi di governo indica il grado di riduzione della sovranità nazionale rispetto al processo di integrazione europea, perché è di tutta evidenza che la legge italiana di stabilità è in sostanza poco più di un capitolo locale di una vera e propria decisione strategica europea. Si può ovviamente contestare anche a fondo questa decisione europea, ma la contestazione ormai non può più essere basata su decisioni nazionali integralmente autonome e sovrane. L’appartenenza all’Europa costituisce ormai la presa d’atto di una sostanziale riduzione della sovranità nazionale, che l’andamento anche irrituale di questa crisi di governo rende persino costituzionalmente visibile.
le diverse parti di essa. Occorre pertanto proporre con lucidità storica il passaggio dal vecchio ad un nuovo equilibrio costituzionale: rapporto tra la sovranità nazionale e il processo di integrazione europea da un lato; adeguamento della legittimità parlamentare a dar vita a nuovi governi sulla base del significato stesso del voto popolare in regime di premi di maggioranza e quindi di bipolarismo anche coatto; nuovo ordinamento territoriale della Repubblica. Sono queste le tre questioni di fondo che i protagonisti della vicenda politica in corso sono tenuti a valutare, pur nella distinzione dei ruoli costituzionali che ciascuno di essi è chiamato a ricoprire o sulla base di un voto popolare o sulla base di un voto parlamentare, integrato o meno che esso sia dalla partecipazione di rappresentati regionali, come avviene ancora oggi in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, o sulla base della investitura popolare diretta della funzione di Presidente di una Regione. Assume particolare rilievo in questo contesto il comportamento complessivo della Lega Nord che, pur non apparendo immediatamente interessata al rapporto con l’Europa da un lato, e all’equilibrio tra il voto popolare e il voto parlamentare dall’altro, introduce e – non da oggi – la questione della riforma federalistica della Repubblica.
Il federalismo deve prevedere una nuova relazione tra lo Stato e l’Europa. E non è detto che i leghisti siano disposti a prevederlo
Per quel che concerne il rapporto tra voto popolare e voto parlamentare il dibattito non ha sino ad ora affrontato al cuore la questione: la Costituzione vigente è una costituzione scritta che si fonda sul primato del voto parlamentare per la legittimità stessa dell’esistenza o meno di un governo in carica. Ma l’originaria distinzione tra patto costituzionale di Cln e funzione anche costituzionale dei partiti politici, il cui consenso si registrava alle elezioni con il metodo proporzionale, è oggi messo in discussione da parte di quanti affermano che esiste una vera e propria “Costituzione materiale”, che avrebbe sostituito la funzione stessa del Parlamento inteso quale organo costitutivo della legittimità dei governi. Il dibattito sul federalismo fiscale sta sempre più mettendo in evidenza l’intreccio profondo tra riforma federalistica della Repubblica e sistema di finanziamento del-
Si tratta anche in questo caso della ricerca faticosa di un nuovo equilibrio costituzionale rispetto alla Costituzione originaria, che proprio sul tema del rapporto tra Stato centrale e autonomie locali aveva imboccato una strada, quella del regionalismo, che era in qualche modo a metà tra esperimenti federalistici compiuti (quale quello statunitense) e valorizzazioni delle autonomie comunali dall’altro (sull’onda dell’originaria intuizione sturziana). Da un lato infatti è in opera l’attuale fase del processo di globalizzazione che rende l’integrazione europea sempre più decisiva per la stessa capacità competitiva dell’Italia tutta; dall’altro agisce la spinta crescente verso il valore costitutivo delle elezioni, per quel che concerne anche le istituzioni di governo nazionali. Entrambe inducono pertanto alla ricerca ed alla proposta di un nuovo equilibrio costituzionale, che tenga conto anche della diversa articolazione federalistica dello Stato, perché questa ultima finisce necessariamente con l’interferire con il processo di integrazione europea da un lato e con la struttura stessa del Parlamento nazionale dall’altro.
la crisi italiana
pagina 4 • 20 novembre 2010
Inizia oggi l’assemblea nazionale dell’Udc: tavola rotonda con Marcegaglia, Bonanni e Sangalli. Domani Casini intervistato da Riotta
Il Nord tradito
La politica leghista ha finito per mettere metà del Paese ai margini dell’Europa. I miracoli promessi da Berlusconi si sono trasformati in un aumento della disoccupazione. Le “accuse” di Marco Vitale, Paolo Feltrin e Giacomo Vaciago di Franco Insardà
ROMA. «Le cose che servono a chi produce sono semplici: etica, legalità, buona economia, lavoro, investimenti e lotta all’evasione fiscale. Questo è il messaggio che deve arrivare da una classe politica responsabile ed è un progetto da portare avanti con chi ci sta, altrimenti il rischio è che si continui a tirare a campare mentre il Paese peggiora, i migliori se ne vanno e il reddito cala». È questa in sintesi la fotografia che fa l’economista Giacomo Vaciago dell’attuale situazione economica e politica.
Per Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’Amministrazione dell’università di Trieste, è necessaria «una proposta che tenga insieme il Paese, evitando conflitti interni e radicali, e garantisca un’economia controlla e gestita. Deve essere chiaro che senza il Nord il Paese non si governa. Una regola che valeva anche nella Prima Repubblica quando le maggioranze erano formate dal Nord e dal Sud, con le regioni rosse del Centro all’opposizione. In questi ultimi
venti anni si è provato due volte a formare un governo senza il Nord con Romano Prodi e quelle esperienze sono finite male. Nel frattempo siccome la frattura Nord-Sud si è ulteriormente aggravata la situazione è diventata ancora più esplosiva e chiunque pensi di voler governare l’Italia deve farlo con una consistente rappresentanza settentrionale. In stati fortemente centralizzati si preferisce governare dalla Capitale, piuttosto che dal territorio. È lapalissiano ma è giusto ricordare che la politica nazionale conta più di quella locale.Ed è quello che ha fatto la Lega».
Un invito a Milano, dove si sta svolgendo l’assemblea nazionale dell’Udc con lo slogan “meno promesse più Nord per far ripartire l’Italia”, fu lanciato il 13 maggio scorso, dalle pagine del Corriere della Sera, con un manifesto da Marco Vitale, Giangiacomo Schiavi e Fulvio Scaparro. E oggi l’economista Marco Vitale ribadisce che «è tempo che il Nord riprenda in mano il suo destino secondo le
linee di fondo che lo hanno fatto grande e che in questo cambio di direzione Milano riprenda la leadership che le compete per forza economica, professionalità, creatività, inserimento nelle reti internazionali». A proposito del Carroccio Vitali sottolinea come «storicamente il pensiero e la politica Federalista (da Hamilton, alla Svizzera, a Cattaneo, al miracolo del Sud Africa) sono stati strumenti per
unire i diversi non per frazionare e segregare come fa la Lega, movimento populista demagogico e non certo federalista». L’economista milanese ricorda quanto diceva Giuseppe Prezzolini: «La civiltà italiana è stata grande, quando ha saputo essere universale». E aggiunge: «Noi, sempre di più, sosteniamo forze politiche, come la Lega, che tendono a chiuderci in una incultura superlocalistica e par-
Da Milano per far ripartire l’Italia Lo slogan dell’assemblea nazionale dell’Udc che inizia oggi a Milano è molto chiaro: “- promesse + Nord per far ripartire l’Italia”. I lavori saranno aperti da Savino Pezzotta, presidente della Costituente di Centro, a seguire la relazione di Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, e Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, moderati dall’editorialista del Corriere delle Sera Dario Di Vico, daranno vita alla tavola rotonda sul tema “Quale impulso per lo sviluppo”. Nel pomeriggio di oggi l’assemblea riprenderà con l’intervento di Ferdinando Adornato, coordinatore della Costituente di Centro e con la conclusione di Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc. Domani, dopo la santa messa, alle 11,30 Pier Ferdinando Casini sarà intervistato da Gianni Riotta, direttore de Il Sole 24Ore.
rocchiale. La civiltà italiana e soprattutto quella del Nord è fiorita economicamente quando ha saputo felicemente inserirsi, con autorevolezza e rispetto, nel processo di integrazione europea, diventandone tra i maggiori protagonisti; e noi, con i comportamenti del nostro presidente del consiglio, con la politica leghista, ci siamo posti ormai ai margini di questo cruciale processo».
Sul ruolo della Lega il professor Vaciago è ancora più critico: «Il federalismo è un modo per guadagnare efficienza e ripartire, ma parliamo di una riforma, che se va tutto bene si farà nel 2018. La crisi e i disoccupati sono un problema che va risolto oggi. Non è soltanto il Nord deluso dalle promesse di Lega e Pdl, ma l’intero Paese». Il professor Massimo Cacciari, invece, ritiene che «sarebbe una pura illusione che l’opinione pubblica del Nord si stia allontanando dalla Lega. Se si vuole recuperare rispetto al partito di Bossi e al Pdl occorre un lungo lavoro di lunga prospettiva che
20 novembre 2010 • pagina 5
Il fenomeno leghista ha cambiato pelle, finendo per tradire le ragioni per cui nacque
Vent’anni sprecati: il popolo settentrionale non vi crede più Le spinte al cambiamento che si manifestarono alla fine della Prima Repubblica si sono radicalizzate dopo la stagione delle false promesse di Carlo Lottieri uando alla fine degli anni Ottanta si dissolse la cortina di ferro e, insieme a essa, cominciò a entrare in crisi anche la Prima Repubblica, ci fu chi iniziò a immaginare una svolta in senso liberale dell’Italia. Specialmente al Nord, ovviamente. Nelle regioni centro-settentrionali esiste infatti una struttura produttiva basata su piccole imprese: una rete che affonda le proprie radici in quella grande rivoluzione capitalistica che, durante il Basso Medio Evo e nel corso dell’età rinascimentale, ha fatto del nostro Paese il cuore pulsante dell’Europa. Se l’Italia ha dato al mondo Dante Alighieri, Leonardo da Vinci e Galileo Galilei, questo è in larga misura connesso al trionfo economico delle libere città: da Firenze a Genova, da Milano a Siena, da Lucca a Venezia. Quell’universo di banchieri, mercanti e artigiani non è scomparso del tutto e nella mentalità di larga parte del Nord è ancora riconoscibile una spinta verso la libertà d’impresa e la competizione.
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Vent’anni fa si iniziò insomma a pensare che l’Italia, a lungo politicamente ingessata dall’impossibilità di un’alternanza (data l’egemonia del Pci sulla sinistra), avrebbe potuto riscoprire le proprie radici migliori grazie a un’autentica rivoluzione liberale, la quale avrebbe affermato i valori del merito e della responsabilità. Quando la Lega uscì dalla provincia varesina per riscuotere consensi più vasti, non a caso usò soprattutto due parole d’ordine: federalismo e liberismo. L’ipotesi di un’Italia che desse maggiore autonomia alle regioni e alle città mirava proprio a rivalutare quel pluralismo istituzionale che l’unificazione risorgimentale ha tanto umiliato. Ma l’obiettivo ultimo – da qui il richiamo al liberismo – era di uscire dalle trappole di una regolamentazione asfissiante e una tassazione oppressiva. E proposte simili vennero da Silvio Berlusconi, dato che nel corso degli anni Novanta egli si rivolse all’elettorato del Nord con l’obiettivo di “urbanizzare” il leghismo: raccogliendo quelle parole d’ordine e dandone una lettura meno aspra. Mentre le inchieste della magistratura dissolvevano i partiti tradizionali, Lega e Forza Italia conquistavano il voto settentrionale offrendo alla gente qualcosa di più del “meno peggio” a cui si era abituata. Molti vissero quella fase
con la speranza che tanti vizi italici potessero essere sradicati, ma purtroppo le cose sono andate diversamente.
In primo luogo, la scomparsa dell’impero sovietico non ha affatto comportato la dissoluzione del meccanismo ricattatorio che permetteva ai partiti moderati di mantenere il consenso con una gestione mediocre del potere. Le forze del centro-destra hanno continuato a chiedere voti invocando il rischio che a
Non è da escludere che la frattura geopolitica che già allora stava per spezzare il Paese, si riproponga vincere fossero i “comunisti”. Invece che proporre una svolta in positivo, si tornò a paventare esiti disastrosi: a domandare il consenso solo per scongiurare esiti apocalittici. Per giunta, nonostante quanto si dice, il reale peso del Nord si è poi ridotto. È certamente vero che Berlusconi, Bossi, Fini e altri leader delle forze moderate sono settentrionali, ma
se all’inizio degli anni Novanta la pressione del voto padano era forte, oggi le cose sono cambiate. Vent’anni fa, quando alla televisione il talk show di punta era Milano, Italia, la richiesta di limitare il peso dello Stato esprimeva il ribellismo di una base sociale settentrionale composta di lavoratori autonomi ed estranea alle retoriche unitarie. Con il trionfo del berlusconismo, l’asse del conflitto ha però smesso di collocarsi lungo la direttrice Nord-Sud, ma ha riproposto la ben più consueta dialettica Destra-Sinistra. A quel punto nell’area moderata hanno trovato ampia ospitalità gli appelli alla spesa pubblica, all’assistenzialismo, al dirigismo. Il ministro Giulio Tremonti ha consacrato tutto ciò quando ha evocato quale figura simbolica di riferimento il primo ministro del Re Sole: il protezionista Colbert.
Con il successo politico di Berlusconi, la Lega stessa ha cambiato pelle, indebolendo la propria sintonia con il mondo produttivo veramente indipendente e facendosi invece paladina di quanti al Nord rigettano la globalizzazione perché avversano gli immigrati, temono di perdere il posto per la concorrenza cinese o indiana, auspicano uno Stato forte e chiedono per sé un assistenzialismo non dissimile da quello che da tempo avvelena il Sud. Se la politica economica dell’ultimo quindicennio è stata ben poco liberale, le conseguenze stanno allora nella progressiva trasformazione degli attori politici che, a varie riprese, hanno garantito al centro-destra un ampio consenso. La svolta liberista non c’è stata perché i partiti moderati hanno progressivamente disinnescato tutto quanto vi era di effettivamente “eversivo” nell’insoddisfazione dei ceti produttivi settentrionali all’indomani di Mani Pulite. Sotto certi aspetti, ora siamo tornati al punto di partenza. Ma non è detto che tutto sia perduto, perché un iceberg si dirige verso il nostro Paese e si tratta, ovviamente, del possibile collasso dei conti pubblici. Difficile dire se in una situazione tanto drammatica la leadership nazionale saprà compiere le scelte più doverose. Ma certo non va esclusa la possibilità che la frattura geopolitica che già due decenni fa stava per spezzare la Penisola non si riproponga. Di fronte al dissesto economico, non è escluso che prevalga lo spirito del “si salvi chi può”. E quel Nord desideroso di una trasformazione liberale che non c’è stata potrebbe, alla luce di quanto è successo, tornare a chiedere di fare da sé.
passa per la formazione, dando spazio alle iniziative di base, ascoltando le persone che se ne intendono, come il sottoscritto. Guai a pensare che ci possano essere delle scorciatoie». Vaciago insiste sulla reazione degli elettori in questi periodi di crisi che «percepiscono con maggior fastidio l’evasione fiscale, i festini di palazzo e il non rispetto delle leggi. Occorre serietà e responsabilità per tentare di attrarre investitori esteri a cominciare dalla Cina, come stanno già facendo gli altri paesi europei. In questo momento il problema dell’Italia non è il debito pubblico, unica preoccupazione di Tremonti, ma spendere bene i soldi, guadagnando produttività. La Tremonti ter che era una buona misura a giugno è finita. La posizione di Confindustria in questi mesi è chiara: basta con le chiacchere, vorremmo i fatti. La Germania, negli anni scorsi, non si è vergognata di tirare la cinghia e investire nell’industria. Gli alleati della Merkel non è la sinistra estrema, parliamo di un centrodestra e allora non si capisce perché quel modello non può essere riproposto qui da noi. Noi abbiamo ancora un futuro da Paese industriale, ma occorrono gli investimenti, ma Tremonti e Berlusconi non sono vicini alle industrie. La cassa integrazione straordinaria è l’anticamera del licenziamento. Il Nord non va enfatizzato, ma la ripresa passa per il sistema industriale settentrionale che va ricostruito».
Passando dall’economia alla politica il discorso inevitabilmente si incentra sul futuro del governo e di Berlusconi «un ciclo – secondo Feltrin - al tramonto. Bisognerà a questo punto capire che fine farà una parte dell’elettorato berlusconiano, concentrato soprattutto al Nord, e da chi sarà intercettato. In politica bisogna anche pesare gli interessi, oltre che i voti, e quelli economici sono al Nord». Sul futuro di Berlusconi Giacomo Vaciago ricorda: «Erano stai promessi miracoli, mentre la gente si è ritrovata con disoccupazione e cassa integrazione. La delusione degli elettori del centrodestra è stata grande: che fine hanno fatto le promesse e la sua maggioranza incredibile? Il messaggio che si percepisce è chiaro: tante promesse non mantenute ora bisogna cambiare, cominciando a dire qual è la situazione reale dell’Italia. Non voglio dire che un altro governo avrebbe fatto meglio, ma avrebbe dato se non altro la sensazione di aver capito che eravamo messi male. Perché come ha ricordato Confindustria la ripresa sta già rallentando, da noi come nelle altre nazioni. Non per essere moralisti, ma dare l’impressione, come ha fatto questo governo, che alla sera ci si diverte quando il Paese soffre non è una bella cosa».
la crisi italiana
pagina 6 • 20 novembre 2010
Dopo la Grecia, l’Irlanda: il dissesto economico europeo dovrebbe pesare molto di più sulle nostre scelte politiche
14 dicembre? Sì, ma 2015 La guerra della fiducia è finta: chiunque la vinca, solo un nuovo “governo forte” può farci uscire dalla crisi. In cinque anni e a queste condizioni... di Enrico Cisnetto segue dalla prima E invece sono bastati cinque mesi perché la crisi dei debiti sovrani continentali si riproponesse e la speculazione ripartisse alla grande. Per altro il fondo messo in piedi l’estate scorsa è lo stesso da cui si dovrebbe attingere quella cinquantina di miliardi, pari a un terzo del pil di Dublino, necessaria ad evitare il crollo del sistema bancario irlandese. Ma rispetto all’estate scorsa, a rendere assai critica la situazione, c’è l’ennesimo riproporsi delle divergenze interne al club dei paesi dell’euro, e questo proprio mentre è in corso tra i grandi della Terra uno scontro micidiale sulle strategie di uscita dalla crisi che contrappone gli Usa a Cina e Germania e la Federal Rserve alla Bce, con il pericoloso risvolto di una guerra valutaria con modalità e protagonisti inediti.
Tutto questo per inquadrare il contesto internazionale in cui si svolge la crisi politica italiana. Stiamo ballando sul Titanic, e la possibilità che affondi – facciamo tutti gli scongiuri possibili – non è così remota da farci stare tranquilli, al di là
delle inevitabili e opportune parole di rassicurazione che ci vengono dal governo. E dal fronte della congiuntura non provengono dati capaci di rasserenarci. Perché, per esempio, se nei primi nove mesi dell’anno il nostro export ha recuperato il 14,3% (solo la Germania ha fatto meglio), nello stesso tempo la bilancia commerciale è peggiorata quintuplicando il disavanzo rispetto al 2009 (19,2
Siamo a rischio speculazione sui mercati internazionali: per difenderci ci vuole una progetto politico a lunga scadenza miliardi). Così come sul fronte del pil, Ocse e Confindustria sono concordi nel fissare nell’1% l’incremento massimo traguardabile quest’anno, poco meno della metà del risultato di Eurolandia, oltre la metà di quello della Ue27, lontano dal +2,7% degli Usa, dal +2,8% della media Ocse, dal 3,7% del Giappone, dal 3,9% della Ger-
mania, per non parlare delle performance asiatiche e degli altri paesi emergenti. Cifre che confortano la tesi del Centro Einaudi illustrata da Mario Deaglio: l’Italia recupererà la ricchezza bruciata con la recessione non prima della metà del 2015, mentre per fronteggiare il debito pubblico avremmo bisogno di una crescita annua non inferiore al 3%.
Sia chiaro, i mercati sono relativamente attenti alle dinamiche politiche, specie dei paesi in perenne fibrillazione come il nostro. Contano di più altri fattori. Tuttavia, crisi lunghe e ad alto tasso mediatico – come appunto quella che stiamo vivendo – possono rappresentare agli occhi della speculazione una ghiotta occasione, la scusa giusta per montare qualche attacco. Dunque, stiamo maneggiando nitroglicerina in una fabbrica di fiammiferi. E la cosa che più preoccupa è che nessuno dei possibili sbocchi della crisi politica sembra poter portare fuori dal labirinto. Anzi, il rischio è che s’inneschi anche una crisi istituzionale mai vista. Proviamo a vedere i diversi scenari con gli occhi degli ope-
ratori dei mercati. Prima ipotesi: il governo ha la fiducia sia al Senato, dove è più scontata, sia alla Camera, dove è improbabile. Apparentemente sarebbe il segnale meno gradito alla speculazione. Ma qualche operatore potrebbe non mancare di ragionare sul fatto che, invece, si tratta di una situazione assai precaria, perché l’esecutivo rimarrebbe in piedi solo per il rotto della cuffia e con l’alta probabilità che Berlusconi e Bossi, incassata la sconfitta politica di Fini e delle opposizioni, procurino loro dopo qualche settimana la crisi che porti alle elezioni. Dunque l’occasione per attaccare ci sarebbe lo stesso, anche se in questo caso il premier ne uscirebbe rafforzato. Seconda ipotesi: il governo va sotto in almeno uno dei due rami del Parlamento. Inevitabile l’apertura della crisi, ma l’occasione buona per i mercati dipenderebbe non tanto da questo atto – che invece avrebbe il pregio di mettere fine alla lunga agonia del governo – quanto dai possibili sbocchi della crisi. Se fossero le elezioni, questo sbocco, allora molto dipenderebbe dalle aspettative del loro risultato e quindi dalla possibi-
lità che ad esse si vada o meno con l’attuale legge elettorale. Con il porcellum è ragionevole pensare – o così almeno è facile che pensino gli operatori, più avvezzi al calcolo delle probabilità che alle alchimie del gioco politico – che a Berlusconi possa andare la Camera ma non il Senato, e questo porterebbe ad uno stallo post-elettorale che rappresenterebbe il massimo dell’instabilità e quindi dell’opportunità di incursioni speculative. Se invece si cambiasse, allora tutto dipenderebbe da quali nuove regole di voto si adottano e da quali scenari ne possono discendere. Tutto sarebbe comunque rimandato a dopo. Se, infine, lo sbocco della crisi non fossero le elezioni ma un nuovo governo, in questo caso molto dipenderebbe non tanto da chi lo formerebbe e da chi lo presiederebbe, quanto dal grado chiarezza, o viceversa di opacità, quella operazione avrebbe.
Come si vede, ci siamo infilati in un tunnel dal quale è complicato uscire. E i pericoli sono tanti. Meglio accendere un cero e allacciare le cinture. (www.enricocisnetto.it)
la crisi italiana
20 novembre 2010 • pagina 7
Un leader ambientalista, il presidente Acli e uno storico del Sud: tre lettere all’assemblea di Milano dell’Udc
Ripartire dalla ricerca per cambiare tutto il Paese
Mettete in campo il progetto di un nuovo destino nazionale
di Carlo Ripa di Meana
di Biagio de Giovanni
l Nord, e in particolare il Nord-Est in questo momento si sente alluvionato. In effetti è stato colpito da un evento di intensità catastrofica. Parto da qui per proporre di creare un centro di studi e di sperimentazione concreta della regimazione delle acque. Mi spiego meglio. Il territorio del Nord-Est ha subìto gravi danni per un uso dissennato delle sue fertili pianure, dei suoi corsi fluviali e delle sue montagne. Un’antica saggezza creava e puliva le aree golenali che consentivano di governare le piene del Piave o del Tagliamento. Così come manuteneva la montagna. Occorre riproporre in chiave moderna un grande piano che recuperi questa tradizione. Del resto, il problema della regimazione idraulica riguarda
crivo dal Sud comprendendo le ragioni serie del Nord, di un Nord motore produttivo d’Italia, che avverte sempre più il Mezzogiorno come palla al piede per il proprio sviluppo. Non mi lamento di questo, come fanno in tanti, cerco piuttosto di capire; e cerco di capire perfino quel senso comune diffuso ampiamente nel Nord, sentimento antisudista che sfocia non di rado in qualcosa
I
Il Nord è stretto fra il nucleare francese e quello sloveno. Continuare a lanciare, in questa situazione, lo slogan del no assoluto a centrali nucleari sarebbe da gonzi
anche una città come Venezia: il Mose infatti non lo risolverà. Nel Nord-Est e nell’altaToscana c’è poi una grande cultura nella produzione di energia idroelettrica e geotermica. Una cultura che ha affidato storicamente all’Italia un primato mondiale nello sfruttamento di queste due forme di energia. Il Centro studi che propongo dovrebbe far leva su questa tradizione e riprendere a studiare e sperimentare.
La seconda proposta riguarda sempre il campo energetico. Il Nord è stretto fra il nucleare francese e quello sloveno. Continuare a lanciare, in questa situazione, lo slogan del no assoluto a centrali nucleari sarebbe da gonzi. Siamo stati bersaglio in questi anni di due forme di isteria fra loro contraddittorie. Da una parte quella del global warming che richiederebbe grandi investimenti nelle rinnovabili, compreso il nucleare. Dall’altra, la seconda isteria, ha riguardato però proprio il nucleare, diventato in Europa un vero tabù. È tempo che con tutte le prudenze e le cautele del caso si riprenda la strada del nucleare. Del resto, è di questi ultimi 15 giorni la notizia che la scienza sta rendendo riutilizzabili le scorie. L’ostacolo più grosso sarebbe dunque abbattuto. La terza proposta che mi sento di fare è lo sviluppo della bioagricoltura. Carlin Petrini con il suo Slow food ha avuto un’idea geniale. Ma il suo progetto si è fermato agli “assaggi”. Credo che Piemonte e Lombardia potrebbero diventare luoghi di sperimentazione ed investimento nella bioagricoltura: la domanda di consumo alimentare di qualità sta crescendo in tutto il mondo sviluppato.Tutto ciò che propongo ha bisogno naturalmente di incorporare studio, ricerca e innovazione. Il Nord c’è già riuscito in passato ed ha tutti i numeri per riuscirci anche oggi.
La questione settentrionale della comunità cristiana di Andrea Olivero alluvione in Veneto, la polemica sulle infiltrazioni mafiose in Lombardia, l’uso strumentale dei simboli politici nelle scuole, gli interrogativi sull’Expo. La cronaca di questi mesi e queste ore torna a raccontarci l’inquietudine che segna ormai da troppo tempo il territorio del Nord Italia. Il Nord operoso e industrioso, tradizionalmente capace di buon governo e pragmatico riformismo, chiede e reclama a gran voce la giusta considerazione e attenzione da parte della classe politica. Ma il rischio serio che corre è quello oggi di rimanere imprigionato nella logica rivendicativa e nei facili schematismi: Nord-Sud, rettitudine-delinquenza, lavoratori-fannulloni, imprenditori-statalisti.
L’
Attraverso queste lenti distorte il Nord non ha saputo vedere i suoi limiti accanto ai suoi meriti, i suoi problemi, le sue ferite. Crisi sociale, indebolimento delle relazioni, diffuso individualismo sono cresciuti e hanno minato la possibilità di crescere bene, in modo “sano”. Siamo ancora capaci, accanto alla ricchezza, di far crescere responsabilità, coesione sociale, comunità solidali? Da cattolici impegnati nel so«Non vogliamo un Nord chiuso al mondo, all’Europa e forse alla stessa nostra Italia. Preferiamo la grande tradizione sociale del Nord delle cooperative bianche, dei santi sociali, delle opere di solidarietà» ciale, infine, ci domandiamo se non esista una “questione settentrionale”anche nella comunità cristiana che abita questi territori, dove il leghismo – inteso come chiusura particolaristica e timore per l’altro – sembra aver fatto breccia. Ma è questo il Nord che vogliamo? Chiuso al mondo, all’Europa e forse alla stessa nostra Italia? Oppure è la grande tradizione sociale del Nord – delle cooperative bianche, dei santi sociali, delle opere di solidarietà – il vero patrimonio da custodire e riscoprire? Queste sono le vere radici cristiane del Nord Italia. Operosità e solidarietà, efficienza e insieme responsabilità, amore per il proprio territorio e apertura verso il resto del mondo. La scommessa sul futuro dell’Italia e del Settentrione passa inevitabilmente da queste strade.
S
«Un destino comune ci lega per ragioni di storia e di economia, di cultura e di politica, perché il Nord ha bisogno di un Sud rinnovato che riprenda coscienza delle proprie potenzialità»
che somiglia al razzismo, e quando giunge a tanto diventa sicuramente cosa da respingere con ogni energia.
La ragione di questo mio atteggiamento, per dir cosi, comprensivo, sta nel fatto che ho avvertito e avverto da molto tempo la responsabilità delle classi dirigenti meridionali nel crescere e consolidarsi di culture e atteggiamenti antisudisti; cerco di rendermi conto di quanto le loro insufficienze abbiano contribuito a creare una immagine e una realtà del Mezzogiorno, del suo chiudersi in una visione particolaristica delle cose, dove prevale più una volontà di sopravvivenza che una schietta capacità di autogoverno. E mi spingo anche a capire i riflessi più direttamente politici di questa situazione, che stanno nel nascere e nel crescere di un partito come la Lega, che è riuscita e modificare l’agenda politica del paese, dalla centralità della questione meridonale a quella della questione settentrionale e delle ingiustizie dello stato fiscale. Ma le mie comprensioni, che come vedete sono tante, si fermano qui: quelle giuste ragioni diventano distorte e negative, per tutti non solo per noi meridionali, quando si amplificano irresponsabilmente in secessione e divisione dell’Italia. Un destino comune ci lega per necessità di cose, per ragioni di storia e di economia, di cultura e di politica, perchè il Nord ha bisogno di un Sud rinnovato che riprenda coscienza delle proprie potenzialità, e non di una improbabile regionalizzazione delle proprie ragioni. Come fare perché questo destino comune si trasformi in proposta politica è il problema che abbiamo davanti. È il problema che dovrebbe impegnare tutti, oltre i rozzi disconoscimenti reciproci che oggi dominano la scena italiana.
diario
pagina 8 • 20 novembre 2010
Società. Nell’annuario, il ritratto di un Paese a rischio disoccupazione e privo di servizi all’altezza della pressione fiscale
L’Italia ritorna in famiglia
La fotografia dell’Istat: delusi dalla politica, puntiamo sul privato di Alessandro D’Amato
ROMA. Meno lavoro, servizi scadenti, il tasso di natalità si ferma nonostante l’apporto degli immigrati. È un’Italia a tinte grigie quella che disegna l’Istat nell’Annuario Statistico Italiano 2010: sono 832 pagine di statistiche, analisi suddivise per capitoli, accompagnate da tabelle, grafici e sondaggi. Un’Italia che se vede nero nella vita sociale, dal punto di vista della vita privata ha sguardi meno foschi: i dati sulla soddisfazione economica nel 2010, anticipati qualche giorno fa, mostrano una percentuale di ’soddisfatti’ che sfiora il 50%. L’Annuario aggiunge la valutazione sulla situazione lavorativa, se ne dichiara soddisfatto il 75,3%, dato in lieve rialzo rispetto al 2008 (74,6%); sul tempo libero (molto o abbastanza soddisfatto il 64,4% della popolazione); sul proprio stato di salute (i ’soddisfatti’ arrivano all’80,4%); sulle relazioni amicali (soddisfatti l’82,7%). E poi: tre italiani su quattro sono proprietari di casa, i depositi bancari sono cresciuti di ben 90 miliardi, superando i 906 miliardi di euro (nonostante il 2009 sia stato un anno di crisi nera), nove famiglie su dieci hanno almeno un telefono cellulare.
I dolori cominciano quando si parla della vita pubblica: nel 2010 la quota di famiglie che denunciano difficoltà di accesso a servizi di pubblica utilità è decisamente rilevante. Si lamenta delle difficoltà di accesso al pronto soccorso il 55,1% degli intervistati, delle difficoltà di collegamento con le forze dell’ordine il 38,5%:
Ieri a Milano, in piazza Duomo, è comparso quest’albero di Natale carico di sontuosi gioielli di Tiffany. La Curia ha protestato per questa ostentazione di ricchezza a fronte di una popolazione in crisi o in grandi difficoltà. Proprio come descritto dall’annuario dell’Istat Sud le file sono molto più lunghe che al Nord: nel primo caso per esempio fanno file esagerate per il ritiro della pensione il 67,9% dei cittadini, contro il 34,4% del Nord. Il lavoro è un problema sempre più pressante: nel 2009 gli occupati totali sono calati dell’1,6%, ed è la prima volta che si registra un calo dopo 14 anni consecutivi di crescita. Nella media del 2009, 300 mila occupati dichiarano di non aver lavorato o di aver lavorato meno ore nella settimana di riferimento dell’intervista per-
Il lavoro è un problema sempre più pressante: nel 2009 gli occupati sono calati dell’1,6%: è il primo calo dopo 14 anni di crescita dei problemi di accesso agli uffici comunali il 34,9%, ai supermercati il 28,6% e agli uffici postali il 26,8%. C’è persino un 21% che denuncia difficoltà nel raggiungimento delle farmacie (21%) e ai negozi di generi alimentari (21%). Poi, i tempi di attesa: tra chi segnala file allo sportello superiori ai venti minuti c’è il 54,2% di chi ritira le pensioni alla Posta, il 47,2% di coloro che effettuano un versamento in conto corrente, il 46,7% di chi usufruisce dei servizi presso le Asl. Inutile ricordare che al
ché in Cassa integrazione. Si tratta di un valore quattro volte superiore a quello del 2008. Ne sono coinvolti principalmente i dipendenti delle regioni settentrionali (nel 69,6 per cento dei casi), quelli delle imprese con più di 50 addetti (nel 61,9 per cento dei casi), e gli occupati delle classi d’età centrali (59,4 per cento di occupati tra i 25 e i 44 anni).
All’università calano le iscrizioni: -3,6% nell’anno accademico 2008/2009 rispetto all’anno precedente (-3,6%).
Napolitano chiede aiuti anche all’infanzia
«Più fondi alla cultura» ROMA. «Ho già avuto modo di richiamare la necessità che l’azione dello Stato in favore dell’infanzia e dell’adolescenza si imperni innanzitutto sul sostegno alle famiglie nel primo, fondamentale percorso educativo e sulla destinazione alla scuola e alla società civile di risorse economiche e culturali adeguate»: la ha ribadito il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato in occasione della celebrazione della «Giornata nazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza». «Si tratta – ha aggiunto il capo dello Stato - di uno sforzo necessario al quale l’intera collettività è chiamata a concorrere, offrendo al mondo dell’adolescenza, ancora fragile e impegnato in un delicatissimo cammino formativo, modelli positivi e non effimeri che riaffermino con chiarezza il primato dello studio, dell’impe-
gno e del sacrificio nel conseguimento di ogni importante conquista individuale». «Sono certo – ha concluso il presidente - che in questa direzione continuerà ad indirizzarsi la Commissione parlamentare dell’infanzia, che ha avuto il merito in questi anni di raccogliere, ordinare e promuovere le istanze di maggior tutela dell’infanzia». Sempre ieri, il Presidente, alla cerimonia di assegnazione dei Premi Balzen, ha lanciato un appello in favore della cultura che «è necessario e vitale sostenere». «Ritengo mio dovere - ha spiegato - testimoniare l’impegno necessario e vitale dell’Italia per lo sviluppo della cultura e della ricerca. Chi, se non l’Italia, dovrebbe considerare fondamentale questo impegno, che non possiamo mai dimenticare anche nei momenti più difficili e dinanzi alle scelte più controverse».
Gli studenti delle superiori iscritti all’anno scolastico 2008/2009 sono scesi al 92,7% dal 93,2% dell’anno precedente, con una selezione particolarmente dura tra il primo e il secondo anno, quando la percentuale dei respinti supera il 21%. Più facili gli esami di terza media, con la quasi totalità degli studenti (99,5%) che li supera, anche se uno studente su tre si ferma alla sufficienza. La quota più alta di lettori accaniti (oltre il 70%) si trova nella classe di età 11-14 anni. I giovanissimi sono anche i maggiori fruitori di computer e Internet. L’uso del pc tocca il livello massimo tra i 15 e i 19 anni, fascia in cui lo utilizza il 90% circa. Ma la connessione al world wide web è sempre più utilizzata (48,9% della popolazione, contro il 44,4% dell’anno precedente). E sta aumentando la quota di persone di età compresa tra i 65 e i 74 anni, che arriva al 13,7%, quasi quattro punti in più rispetto all’anno precedente. Per il resto, nel tempo libero anche nel 2010 gli italiani si dedicano alle consuete attività: cinema, sempre in cima alle preferenze, ci sono andati almeno una volta quest’anno i due terzi degli italiani; visite ai musei e alle mostre (30,1%); spettacoli sportivi (26,4%); teatro (22,5%, si tratta dell’unico tipo di attività culturale nell’ambito della quale la percentuale di donne, 24,4%, supera di molto quella degli uomini, 20,5%); frequentazione di discoteche e balere (22,4%); visite a siti archeologici e monumenti (23,2%); altri concerti di musica (21,4%); concerti di musica classica (10,5%).
Federconsumatori e Adusbef, invece, si soffermano sul dato diffuso dall’Istituto di Statistica circa il grado di soddisfazione delle famiglie: ”I cittadini sono davvero stanchi di mistificazioni di questo genere” denunciano le associazioni secondo le quali quella dell’Istat è ”una vera e propria pubblicità ingannevole che denunceremo all’Antitrust” . ”La Caritas - continuano Federconsumatori e Adusbef ha recentemente attestato una crescita del 25% del numero di persone che si rivolgono alle sue strutture. L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha calcolato, dal 2007 ad oggi, una caduta del potere di acquisto del 9,6%.
diario
20 novembre 2010 • pagina 9
Pace fatta, ma non per Bossi: «Mafia al Nord? È colpa del Sud»
Un’insegna in stile nazista all’ingresso dell’aeroclub
Accordo con Ruffini, lunedì Maroni a “Vieni via con me”
Proteste a Treviso dove «Il volo rende liberi»
ROMA. Maroni prenderà parte
TREVISO. Per contestare l’Enac e la società di gestione Aertre, l’aeroclub di Treviso ha riprodotto sulla propria cancellata la scritta che sovrasta il cancello di Auschwitz, mutando la frase «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) in «Fliegen Macht Frei» (Il volo rende liberi). Un’iniziativa che voleva essere provocatoria, ma che ha suscitato subito un mare di polemiche, come ha riferito il quotidiano La Tribuna di Treviso. «A parte l’ignobile cattivo gusto, c’è anche un’offesa specifica», così ha detto il procuratore capo di Treviso Antonio Fojadelli che ha aggiunto: «Se le cose stanno così provvederemo a far togliere ed eventualmente a sequestrare l’insegna in questione».
alla prossima puntata di Vieni via con me. Anticipata da liberal, la notizia è stata confermata dallo stesso ministro degli Interni. Nella nota affidata alla sua portavoce Isabella Votino, l’esponente leghista esprime soddisfazione per «la risposta del direttore di Raitre, Paolo Ruffini, che ha accolto la sua richiesta di intervenire».
Si chiude dunque la querelle che ha monopolizzato l’intera settimana. L’accordo arriva in porto dopo che Maroni e Ruffini erano sembrati a un passo dalla clamorosa rottura. «Vieni via con me non è un talk show. Se Maroni non intende fare una precisazione, ma leggere
Per i rifiuti ormai è emergenza infinita Continuano i roghi e le proteste a Napoli e a Palermo di Marco Palombi
ROMA. Bombe a mano, roghi, blocchi delle
un elenco in veste di ministro degli Interni, attenendosi al linguaggio del programma, sarà anche in questo caso il benvenuto», aveva commentato il direttore della terza rete. Ma Ruffini aveva tenuto a precisare che «le parole di Roberto Saviano non sono state in alcun modo offensive né per la persona del ministro né per il movimento politico al quale il ministro appartiene. Saviano ha posto un altro tema drammatico: quello del tentativo delle mafie di infiltrare il tessuto economico sociale e politico del Nord come di tutte le altre comunità». Sull’argomento ha preso posizione nella mattinata anche Gianfranco Fini. «Non capisco come qualcuno si possa indignare se c’è chi dice che la mafia è anche al Nord. Non è una polemica contro un partito o contro un territorio nazionale. La mafia è ovunque c’è un interesse». La difesa di Saviano da parte del presidente della Camera pare non essere andata giù a Umberto Bossi, che dell’infiltrazione della ’drangheta a Nord fornisce uan curiosa versione: «Siamo sempre stati contrari all’invio di mafiosi al nord per soggiorno obbligato. Hanno creato una situazione negativa e la situazione più negativa è in Brianza».
strade, regioni contro regioni, regioni contro il governo, prefetti contro sindaci, magistrati contro sindaci, cittadini contro sindaci. È una normale giornata nella nazione che si suicida affogando nell’immondizia. I dati Istat di ieri sulla raccolta differenziata, con la nettezza adamantina dei numeri, fotografano bene un Paese teatralmente avviato verso la catastrofe: nel 2008 abbiamo prodotto 542,7 chilogrammi di rifiuti per abitante, solo il 30,6% dei quali differenziato. Scomponendo il dato: la percentuale di riciclaggio si attesta al 45,5% al nord (col 56,8% il Trentino Alto Adige è la prima in classifica), al 22,9% nel centro fino a precipitare al 14,7% nel Mezzogiorno.Visti i dati, la domanda non è perché Napoli e Palermo siano ridotte a pattumiere, ma perché non lo sono tutte le altre città del centrosud. Di fronte all’ennesima emergenza rischia di servire a ben poco la nuova missione della Commissione europea, lunedì e martedì prossimi, chiesta dall’Italia: l’ultima volta nella Cava Sari di Terzigno scoprirono che si sversava di tutto, il che avrebbe comportato la necessaria chiusura dell’impianto e relativa bonifica. La Cava Sari, ovviamente, è ancora aperta.
rica di Chiaiano che, al massimo, può contenere 650 tonnellate al giorno, una situazione davvero critica. Se non ci sarà una proroga degli accordi con le altre province campane non sapremo dove andare a sversare i nostri rifiuti». A Palermo la situazione è ancora più surreale: il problema infatti non sono tanto le discariche, quanto i disservizi dell’Amia, l’azienda comunale che si occupa dello smaltimento dei rifiuti. «La bonifica della città è quasi completata», ha sostenuto ieri l’azienda, purtroppo non riuscendo a convincere quei cittadini che vedono ancora l’immondizia in strada. Nel quartiere di Bonagia, nella notte di giovedì, qualcuno ha pensato di risolvere il problema da solo dando fuoco a tutta l’immondizia del rione.
Nessuna buona notizia, finora, nemmeno dai comuni vesuviani. Ieri i sindaci di Terzigno e Boscoreale hanno revocato l’ordinanza del 14 novembre con cui vietavano il passaggio nei loro comuni agli autocompattatori diretti al sito Cava Sari. Cittadini della cosiddetta zona rossa e relative amminisono strazioni convinte che, cona trariamente quanto previsto da un recente decreto del governo, nella discarica di Terzigno continuino ad arrivare anche i rifiuti di Napoli, ma l’ordinanza fu ufficialmente giustificata coi dati allarmanti sull’inquinamento da metalli pesanti delle falde acquifere nella zona degli sversamenti. Il prefetto di Napoli, però, non ha gradito e ha spedito una nota agli altri sindaci dell’area diffidandoli da provvedimenti analoghi e ritenendo non motivata la correlazione tra inquinamento delle falde e presenza della discarica. Ieri, infine, i due sindaci sono stati inquisiti dalla Procura di Nola per interruzione di pubblico servizio. Se le ordinanze sono state revocate, difficilmente potrà esserlo l’incazzatura dei cittadini: giovedì nella zona della discarica sono state trovate tre bombe a mano e ieri, con l’avvicinarsi della notte e del momento in cui sarebbero arrivati i primi camion di immondizia, la tensione si faceva altissima.
«Il forte richiamo ai campi di concentramento è tutt’altro che una mancanza di rispetto verso i martiri del nazismo – ha provato a difendersi in modo poco convincente, per la veritò, il presidente dell’associazione Volo Treviso, Francesco Montagner -, bensì un atto di devozione nei loro confronti». Per il rabbino capo della comunità ebraica di Venezia, Elia Richetti, però, si tratta di un messaggio di pessimo gusto in quanto banalizza l’Olocausto. L’ associazione Volo Treviso (questo il no-
In Campania scoppia una nuova guerra delle discariche con il blocco degli impianti tra province differenti
A Napoli, intanto, niente miglioramenti in vista, nonostante i comunicati dell’assessorato all’Igiene indichino una diminuzione dell’emergenza: in strada ieri c’erano ancora 2.400 tonnellate di immondizia, impastate per bene alla strada da pioggia e vento ma comunque 400 in meno rispetto a mercoledì. Situazione in via di normalizzazione? Neanche per sogno: da oggi tutto il processo dovrebbe tornare a peggiorare. Proprio il 20 novembre, infatti, scade l’accordo che permette al capoluogo campano di conferire parte della sua spazzatura fuori provincia e precisamente nelle discariche di Savignano Irpino, Avellino, e nel sito di San Tammaro nel casertano. L’assessore Paolo Giacomelli è preoccupato. Parecchio: «Da domani avremo come unico sito dove sversare la disca-
me dell’aeroclub), ha spiegato Montagner, ha attuato una manifestazione di protesta perché «l’Enac e la società esercente Aertre Spa, controllata al 51 per cento da Save-Venezia, stanno portando la scuola di volo trevisana alla chiusura». In ogni caso, per Elia Richetti, rabbino capo della comunità ebraica di Venezia, una trovata di «pessimo gusto», anche se la protesta dell’aeroclub è complessa ed articolata. Dal 3 novembre scorso, hanno spiegato i dirigenti dell’associazione, «una nuova barriera sovrastata da reticolati impedisce l’accesso ai visitatori e limita fortemente l’attività addestrativa degli allievi piloti e degli istruttori».
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economia
Via libera di Montecitorio (con il sì dei finiani) alla legge di stabilità e al pacchetto per lo sviluppo da 5,7 miliardi
Tremonti non risparmia il volontariato Ridotti di 400 milioni i fondi per il 5 per mille. L’Udc: ripristinare subito le risorse di Francesco Pacifico
ROMA. Il non profit è sul piede di guerra. Emma Marcegaglia non nasconde la sua «grandissima delusione perché ancora una volta non viene supportata la ricerca e l’innovazione». Gli enti locali lamentano di aver pagato per tutti. La stabilità dei conti pubblici – come chiesto dal capo dello Stato – sarà anche salva, ma il sì della Camera alla manovra di fine anno finisce per generare non poche polemiche. Anche perché il successivo passaggio al Senato deve essere una formalità da concludere entro il 10 dicembre. Quindi, almeno sulla carta, sono banditi nuovi emendamenti.
L’Udc ha fatto passare un ordine del giorno che impegna il governo a trovare i fondi mancati. Anche perché, dichiarano Gian Luca Galletti e Antonio De Poli, «per le associazioni di volontariato il taglio del 75 per cento è stato un colpo durissimo. Continueremo a stare alle costole dell’esecutivo finché non ripristinerà le risorse». Sempre da via dei Due Macelli Paola Binetti ricorda che così «la sussidiarietà viene smantellata con un tratto di penna da parte di un governo che a parole si dice vicino al mondo del volontariato, e poi nei fatti lo colpisce con
una durezza senza precedenti». La battaglia passa dal Parlamento al Senato. Ma a ben guardare il pacchetto da 5,7 miliardi approvato ieri da Montecitorio non mette in campo le risorse necessarie per far ripartire il Paese o per risolvere buchi ormai strutturali del nostro welfare. Accanto agli 800 milioni per detassare il salario di produttività, difficile considerare misure espansive il miliardo e mezzo di Fas destinato all’edilizia sanitaria o il rifinanziamento dell’ecobonus per le ristrutturazioni, i 50 milioni per la linea Tav Torino-Lione o i
400 milioni per i Comuni (tra rimborsi Ici e fondi per pagare i fornitori) che si spera possono sovvenzionare almeno microopere viarie. Briciole anche sul versante del welfare tra il miliardo per la cassa integrazione, quello per l’università, i 240 milioni per le scuole paritarie, l’esenzione dei ticket sanitario coperta soltanto per 5 mesi, meno di 300 milioni per i treni dei pendolari che non eviteranno un rincaro dei biglietti, fino ai 100 milioni usciti in zona Cesarini per la lotta alla Sla. La leader di Confindustria, Emma
A scatenare le maggiori polemiche il taglio al fondo per il 5 per mille, di fatto unico esempio di sussidiarietà fiscale vigente nel Paese. Dai già risicati 400 milioni di euro dello scorso esercizio si passa a soli 100 milioni. Il
Mancano risorse per lo sviluppo. Marcegaglia si dice «delusa perché non viene supportata la ricerca e la scuola» che vuol dire che il grosso di quanto raccolto resterà nelle casse statali, lasciando alla finalità del balzello soltanto l’1,25 per mille. Il centrodestra smentisce la cosa. Il vicepresidente Camera, Maurizio Lupi, garantisce che «non ci sono tagli al 5 x mille. Anche con il decreto di luglio lo abbiamo sempre salvato. Sono stati coperti solo i primi quattro mesi del 2011, ma Il ministro Tremonti è il primo a essere sensibile al tema tant’è che ha promesso la copertura anche per il 2011». Di diversa idea è il mondo del non profit. Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo Settore, ammette che «ora possiamo soltanto sperare che al Senato prevalgano la responsabilità e il buon senso e vengano assegnati fondi adeguati e non elemosine». E se il Codacons minaccia di denunciare Tremonti, Damiano Rizzi di Soleterre sintetizza che in questo modo «il governo tradirebbe la volontà dei donatori di destinare i loro soldi alle loro associazioni beneficiarie». Il presidente della onlus che ieri ha lanciato una raccolta di fondi per un programma di oncologia pediatrica internazionale attraverso un sms al 45502, spera che «non venga confermata la proposta contenuta nella legge di stabilità».
La Bce chiede di rafforzare il dollaro, la Fed difende gli stimoli
Più lontani Trichet e Bernanke Jean Claude Trichet ha mandato un messaggio molto chiaro a Washington. Durante una tavola rotonda alla quale ha partecipato anche il suo omologo della Fed, Ben Bernanke, il presidente della Banca centrale europea ha spiegato che «avere un dollaro forte e solido è un elemento molto importante dovrebbe essere credibile rispetto alle altre valute».
Ma per il banchiere francese i mali dell’Europa si superano attraverso «riforme molto ambiziose che assicurino politiche fiscali solide e una sorveglianza più efficace». Soltanto così sconfigge quel «triangolo di criticità», che sono la gestione malferma dei conti pubblici, le politiche economiche inadeguate, i buchi nella
sorveglianza. Che incidono in un sistema finanziario internazionale sempre più interconnesso.
Dal canto suo il numero uno della Fed ha ha difeso gli stimoli monetari americani, sostenendo che aiuteranno l’economia mondiale. Quindi ha scaricato – neanche tanto implicitamente – tutte le colpe sulla Cina per tenere la sua valuta debole. Perché «il modo migliore per sostenere il dollaro e la ripresa globale è attraverso politiche che portino a una crescita robusta in un contesto di stabilità dei prezzi negli Stati Uniti». Il direttore del Fondo monetario, Dominique Strauss-Kahn, suggerisce alla Ue di «dotarsi di una strategia comune di crescita».
Marcegaglia, dice: «Aver visto nell’ultimo maxi emendamento che ancora una volta non viene supportata la ricerca e l’innovazione, per noi è stata una grandissima delusione. Un Paese che non investe in questo non va da nessuna parte, e non guarda al futuro e ai giovani». Quindi consiglia al governo «di investire sul capitale umano e non può dire che non ci sono soldi».
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, spiega che «il provvedimento che è stato approvato ieri mi pare che non incroci in nessun modo le questioni di fondo del Paese. Non si può dire che la legge di stabilità sia uno strumento di politica economica, è un banale aggiustamento della finanza pubblica che Tremonti aveva detto non ci sarebbe stato e che non ce n’era bisogno». Per concludere: «Invece si è coperto qualche buco ma sostanzialmente lì dentro non c’è niente di significativo per i problemi seri che abbiamo».
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SCOPRENDO
Identikit di Van Gogh
VINCENT di Pier Mario Fasanotti
a quanto piace pensare, e anche dire e ribadire, che i sommi artiera lettore accanito, s’interessava di filosofia e di storia dell’arte. Solitario sti erano pazzi. Pagine a non finire sono state scritte, del recome artista, non era del tutto isolato come essere sociale. Non era Mentre sto, sulla correlazione tra follia e arte. E il peso, così sugnemmeno povero: poteva contare su una rendita dignitosa, più o Roma lo gestionante, di questi studi ci ha sempre indotto a meno una somma che era superiore alla paga del postino Roucelebra con una mostra risolvere l’equazione arte-pazzia intravedendo nella selin, che lui ritrasse con i fiori sullo sfondo. Certamente conda parola quasi la genesi della prima. Tutti belli non è da dimenticare che Vincent anni prima dell’ulal Vittoriano, due libri - di cui e dannati, alla fine. Non che sia falso, ma attentimo soggiorno a Auvers-sur-Oise, dove trovò uno della sorella Elisabeth - rovesciano zione a non scivolare nello stereotipo. Queuna luce «solennemente bella», si tagliò un i luoghi comuni, descrivendolo come sto è il messaggio, assai ben documentato, orecchio e fu rinchiuso in un manicomio. Ma lanciato dal bellissimo libro edito dall’editore è inesatto affermare che le sue turbe, dovute forun artista motivato e riflessivo Contrasto e intitolato Vincent Van Gogh - Sotto il ciese ad attacchi epilettici e più in generale al mal di vie un uomo consapevole vere, siano state l’unico baricentro della sua intera esistenlo di Auvers, di Peter Knapp e Wouter Van Der Veen (303 padella sua za. Gli autori di questo libro ridimensionano l’immagine di Van gine, 45,00 euro). Vincent aveva sicuramente disturbi mentali, Gogh come uomo perennemente depresso (lavorava tantissimo e con ma non era un pazzo scatenato. E nemmeno una sorta di gorilla con sofferenza metodi rigorosi), alcolizzato ed esaltato. il pennello magico, tutto istinto e poco pensiero. Parlava diverse lingue,
M
Parola chiave Strada di Maurizio Ciampa La neoelettronica di Brian Eno di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Baudelaire, maestro di moralità di Filippo La Porta
Goethe e i colori 200 anni dopo di Pasquale Di Palmo Maria e Gesù visti da Guido Chiesa di Anselma Dell’Olio
Gli scatti italiani del sovversivo Liu Bolin di Marco Vallora
scoprendo
pagina 12 • 20 novembre 2010
vincent
Non un folle, ma un martire col sorriso sulle labbra di Massimo Tosti uò essere definito sano di mente un uomo che torna a casa con il cavalletto sotto il braccio e annuncia di essersi sparato una revolverata? E che poi attende tranquillo la morte fumando la pipa? O che rincorre, con un rasoio in mano, un suo amico e collega al quale ha offerto ospitalità nel proprio appartamento? O che si taglia un orecchio per donarlo a una ragazza? O che veste in modo trasandato, dona tutto quel che ha ai poveri, confondendosi con loro? Per quasi cent’anni filati, la critica ha scelto come modello dell’equazione genio uguale follia Vincent Van Gogh. Ne ha riconosciuto la grandezza artistica, ma lo ha descritto come un folle, uno suonato fin dagli anni dell’adolescenza, quando i genitori si domandavano perché non finisse gli studi, perché si faticava tanto a cavargli una parola di bocca, perché non riuscisse a conservare un posto di lavoro. Questa tesi (inizialmente condivisa più o meno da tutti) da qualche tempo vacilla. Una botta consistente gliela diede una decina di anni fa un medico, FrançoisBernard Michel, autore di un saggio (Il volto di Van Gogh) nel quale, ricostruen-
P
do gli ultimi mesi di vita dell’artista - a partire dall’amputazione dell’orecchio giungeva alla conclusione che Vincent era più malinconico che folle. Che aveva scelto di isolarsi perché avvertiva il disagio della propria diversità. «Se son matto, pazienza», scrisse una volta: «Preferisco la mia follia alla saggezza degli altri». Una voce, quella di Michel, che s’aggiungeva all’invettiva di Antonin Artaud, scrittore surrealista: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh». Michel andò oltre, accusando più o meno espressamente Gauguin (l’amico inseguito rasoio alla mano) di aver mentito nelle sue accuse, e il dottor Gachet di leggerezza e incompetenza, nel non aver impedito il suicidio di Van Gogh. Un matto sanissimo, dunque. E, uscendo dallo stereotipo del genio e sregolatezza, sarebbe in effetti lecito domandarsi come uno squilibrato potesse rappresentare tanto bene i sentimenti, e come soprattutto - potesse lavorare con tanto rigore. Un quadro al giorno, per mesi e mesi di seguito. La sorella minore di Vincent, Elisabeth Van Gogh, queste cose le aveva scritte nel 1910 in un libretto - Vin-
Lo fanno esaminando le lettere che l’artista spedì al fratello, alla cognata e alla sorella durante gli ultimi suoi settanta giorni di vita. Aveva 37 anni quando giunse in un borgo meraviglioso, a circa 30 chilometri da Parigi. In 70 giorni compose 70 tele. Tutte meditate. Si sparerà un colpo al petto poco lontano dall’albergo Ravoux dove aveva preso in affitto una stanza coerentemente alla sua inclinazione per il sobrio e per l’essenziale. La pallottola s’infilzò sopra il cuore, lui raggiunge da solo la locanda. Venne chiamato d’urgenza il dottor Gachet - figura importantissima nella vita dell’artista, del quale fu buon amico - mentre il fratello Theo, gallerista a Parigi, fu avvertito l’indomani. Vincent morì al settantunesimo giorno del suo soggiorno ad Auvers. Al fratello consegnò le sue ultime parole: «Vorrei poter partire così».
Demolizione del sentito dire: è ciò che vien fuori leggendo le sue ultime lettere e collezionando notizie vere, magari meno romantiche ma vere. La pittura di Van Gogh non è il parto della sregolatezza mentale, bensì continuo tentativo di innovare l’arte. Gli autori mettono bene a fuoco il genere di arte dell’olandese che in Francia, quindi al Sud, voleva ritrovare «la luce del Nord». Il rischio è sempre quello di vedere le sue tele come opere di un allucinato «stese alla bell’e meglio da un uomo che non aveva pieno dominio di sé: ma questo significa negarne il genio». Indubbiamente Vincent, malgrado la forma fisica robusta e sana, era fragile nella sfera mentale. Aveva avuto lunghe sofferenze che gli avevano impedito di dipingere, «ma non era in uno stato permanente che lo scollegava dal reale, facendolo entrare, suo malgrado, in una pittura d’alienato… ognuno può anno III - numero 41 - pagina II
cent, mio fratello - pubblicato soltanto ora, per la prima volta, in Italia (Skira editore, 94 pagine, 15,00 euro) in concomitanza con la grande mostra del Vittoriano di Roma. L’affetto - e un comprensibile pudore borghese - impedirono a Elisabeth di raccontare le circostanze della morte, e le suggerirono di sorvolare sugli altri due incidenti clamorosi (l’orecchio e il rasoio brandito contro Gauguin). Ma il ritratto che lei ci offre del suo amato fratello somiglia molto alle sue pennellate: è umile e sincero. Ricorda quel che scrisse l’unico critico, Albert Aurier, che si occupò di Vincent quando era ancora vivo (ma gli mancava pochissimo a morire): «Questo artista vero, gagliardo, di pura razza, dalle mani brutali di gigante, dai nervosismi di donna isterica, dall’anima di illuminato, così originale, così a se stante in mezzo alla miserevole arte odierna, conoscerà un giorno la felicità della riabilitazione, le lusinghe pentite della moda? Forse. Ma è troppo semplice e troppo sottile per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà forse compreso completamente dai suoi fratelli, gli artisti solo artisti, e dai felici del popolo minuto, del popolo più umile». O a quel che seppe scrivere lui stes-
trovare una chiave d’accesso a quella pittura selvatica e controllata, esaltata e riflessiva, semplice in apparenza eppure così complessa». Era scontroso, incurante delle forme sociali della cortesia, ma al contempo parlava con la gente, gustava i momenti di beatitudine come «pittore contadino» in mezzo ai campi, s’accalorava sui movimenti artistici, sul rapporto tra galleristi e opere. Molti insistono ancora nel cercare segnali di pazzia nei colori scelti da Van Gogh. Il giallo abbonda, ma collegarlo costantemente all’assenzio pare riduttivo. Anche perché quale significato si potrebbe conferire ai blu e ai verdi? Arbitrariamente pericolosa la para-psicoanalisi applicata a un genio. A Theo il 2 luglio 1890 scrive: «Cerco anch’io di fare il meglio che posso ma non ti nascondo che non oso sempre contare di avere la salute necessaria. E se il mio male tornasse mi scuserai… mi piacciono ancora molto l’arte e la vita, ma quanto ad avere una donna tutta per me non ci credo molto.Temo che, mettiamo, verso la quarantina - ma non mettiamo niente dichiarerò di ignorare, ma assolutamente assolutamente, che piega possa prendere». Un quieto avviso di morte? Vincent dice che tutto può avvenire, il meglio come il peggio. Quel «non mettiamo niente» è inquietante, indubbiamente. Il 65esimo giorno prima della morte scrive al fratello: «Per quanto mi riguarda mi applico sulle tele con tutta l’attenzione». Non mette in dubbio la propria sicurezza di pittore, anzi. Il pessimismo è rivolto alla situazione degli altri pittori. Convisse con Gauguin, in modo fallimentare: «l’unione non ha fatto la forza». Condividere l’atelier con un altro artista, secondo il suggerimento
so,Vincent, in una lettera di quel periodo nel quale il confine fra vita e morte divenne improvvisamente labile: «Le emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza sapere di lavorare, e le pennellate si susseguono con una progressione e una coerenza simili a quelle delle parole in un discorso o una lettera». A Theo, il fratello che l’aveva sempre aiutato, confidò in quei giorni: «È più facile per me morire che vivere. Morire è difficile, ma vivere lo è ancora di più». E Theo, comunicando alla sorella la scomparsa di Vincent, le scrisse con molta tenerezza: «Dicono che sia un bene che finalmente riposi. Io non riesco a dirlo. Sento piuttosto che è stata una tragedia. Deve essere annoverato fra i martiri che muoiono con il sorriso sulle labbra. Non aveva più voglia di vivere, ma era contento perché aveva lottato per le sue convinzioni, le stesse degli uomini migliori e più nobili che lo avevano preceduto. Amò profondamente il padre, il Vangelo, i poveri e i derelitti, i Maestri della letteratura e dell’arte». E aggiunse: «Il tempo gli darà il posto che gli spetta; molti saranno addolorati al pensiero della sua scomparsa prematura… Ma lui voleva morire».
di Theo? Non ne voleva sapere. Prosegue nella sua «esistenza intellettualmente solitaria». Quando dipinge Campo di papaveri, avvisa Theo: «È uno studio di vigna che è molto piaciuto al Signor Gachet».Vincent è dentro a una inesauribile febbre di lavoro. Ci si potrebbe senza dubbio chiedere se questa «febbre» comandi il pittore o se il pittore sia in grado di comandare la propria opera. Il dottor Gachet, esperto omeopata, sapeva bene che la dedizione al lavoro era uno strumento curativo primario. Ma non è un semplice buttarsi sui colori, un lasciarsi andare follemente.Vincent medita sull’arte. Dice in una lettera alla sorella: «Ci sono facce moderne che si guarderanno ancora a lungo, che si rimpiangeranno forse tra cent’anni. Se avessi dieci anni di meno, con quello che so oggi, che ambizione avrei di lavorarci. Nelle condizioni attuali non posso fare granché, non frequento né saprei frequentare abbastanza i tipi di persone che vorrei influenzare».
È stato conscio della propria solitudine fino alla fine. A sua madre: «Per me la vita potrebbe rimanere solitaria. Le donne cui sono stato legato, le ho contemplate come attraverso uno specchio oscuro. Eppure c’è un motivo per la maggiore armonia che c’è ora nel mio lavoro. La pittura è qualcosa in sé. Leggevo l’anno scorso che scrivere un libro o fare un quadro è come avere un figlio». Quanto all’ipotesi che Vincent non avesse venduto una sola tela nella sua vita, occorre obiettare che mancano documentazioni. Se all’inizio insisteva con Theo perché vendesse i suoi quadri, in seguito si mostrò più refrattario. Preferiva aspettare, intendeva proporre un insieme di quadri «coerenti» piuttosto che liquidare capolavori sparsi.
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20 novembre 2010 • pagina 13
STRADA arsi strada è l’azione umana per eccellenza: è proprio dell’uomo, come mettere in esercizio il suo essere e insieme manifestarlo, perché l’uomo è egli stesso strada». Questo pensiero di María Zambrano, una delle voci più alte della cultura del Novecento, mostra l’intima venatura di una parola sicuramente chiave come è strada.Tutto, potremmo dire, procede per strada, e tutto per strada accade. Nel Fantasma della libertà, Luis Buñuel, con quella spiccata vocazione alla rappresentazione paradossale che lo caratterizza, immagina i protagonisti del suo film costantemente in cammino, sulla strada. Parlano, discutono ininterrottamente fra di loro sempre camminando, come se la strada fosse il luogo stesso della parola dialogata e della comune interrogazione. Significativa l’immagine attorno a cui si sviluppa il film di Buñuel. È vero: la strada alimenta la parola, il racconto, la confidenza, ma anche il respiro dell’immaginazione, il sogno. Sulla strada si mette in scena il mondo, fermenta la vita. Inevitabile ricordare quel «classico» del Novecento che è Sulla strada di Jack Kerouac, uscito oltre cinquant’anni fa. Libro eminentemente giovanile che ha portato alla luce una nuova generazione di scrittori e di poeti, la beat generation. Fra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, la generazione beat innova la lingua e la letteratura americane, andando poi ben oltre i confini geografici in cui aveva mosso i primi passi. E sviluppa una critica radicale degli stili di vita, dà uno scossone a modelli probabilmente troppo rigidi e chiusi, anticipando quello che accadrà in America, a partire dalla metà degli anni Sessanta, nelle sue università (il mitico inizio è a Berkeley, in California) e poi in Europa e nell’intero Occidente.
«F
Torniamo al libro di Kerouac che può essere letto come un grande repertorio dei miti americani. E il primo, irriducibile mito è forse proprio quello della strada, che è lo sviluppo e probabilmente l’esito della «pista» del pioniere e dell’immagine della «frontiera», forse l’ultima sequenza del sogno americano. Il nastro d’asfalto che si sviluppa quasi all’infinito, come una viva ramificazione del corpo degli Stati Uniti, segna il percorso o i percorsi di una nuova, moderna Odissea. E come l’Odissea, anche il libro di Jack Kerouac fa da modello, o da matrice, a tanti racconti successivi, che si muovono sulle strade americane rinnovandone l’epopea. Penso ad esempio a Strade blu di William Least Heat Moon, una celebrazione della periferia americana. Non più l’autostrada come in Kerouac, ma la via secondaria, percor-
È dove l’umano nasce e si sviluppa. Perché tracciarla, come insegna María Zambrano, è azione e conoscenza insieme. Dall’Odissea a Least Heat Moon, passando per Kerouac e per Gesù...
Incontro alla vita di Maurizio Ciampa
Cristo è “l’uomo che cammina”, non sosta, non si trattiene, teso all’altro è sempre in movimento. È la “via” e colui in cui ci si può imbattere compiendo un percorso. Anche Buddha e Lao-Tse indicano modi per intraprendere un’esperienza religiosa, ma la strada rappresenta l’intimo respiro della parola cristiana sa a bassa velocità, come se la vita avesse preso un altro ritmo. La piccola strada, che non attraversa il Paese da costa a costa ma semplicemente raccorda i suoi lati, diventa il teatro di questo mutamento. Strade blu è l’emblema di un rallentamento, di una decelerazione intervenuta nella vita americana agli inizi degli anni Ottanta. Non a caso il racconto parte da una crisi esistenziale, quella personale dell’autore (il fallimento del suo matrimonio), e soprattutto termina dove inizia, nello stesso luogo. Il movimento di Strade blu è dunque circolare e di piccole proporzioni, e il suo dinamismo è come contratto, le sue strade, potremmo arrivare a dire, non portano da nessuna parte.
I tempi sono cambiati: le strade non s’inoltrano più nella «terra incognita» del vasto continente americano, che ha esaurito il suo spazio e forse anche le sue risorse. Le tentacolari megalopoli si sono mostruosamente dilatate; l’America, e non solo l’America, pare un’unica grande città che ha divorato tutto o quasi tutto quello che c’era attorno a sé. Se questa non è una realtà già dispiegata, è sicuramente l’incubo che sovrasta, oggi, la vita americana. Ancora un momento lungo le strade dell’America per ricordare un filosofo europeo - Gilles Deleuze - e un grande poeta dell’Ottocento americano - Walt Whitman. Deleuze dice che, contrariamente a quella europea, la letteratura americana esce dal proprio spazio,
esplora, si avventura, va verso l’ignoto, si mette a repentaglio, vive il rischio. Withman mette il rischio in poesia. Foglie d’erba, il suo grande libro, è un’avventura dello spirito che non solo si muove sulla strada americana, ma della strada sente il fermento, le minute vibrazioni sonore, il «brusio», il vivo pulsare. Della strada sente le voci: «Voci delle infinite generazioni di prigionieri e di schiavi,/ voci degli ammalati e dei disperati e dei ladri e dei nani,/… dei deformi, dei futili, degli insulsi, dei disprezzati, degli sciocchi…». Lasciamo l’America per guardare un po’ più lontano, non nello spazio, ma nel tempo. Perché da lontano parte l’immagine della strada. Anzi, credo si possa dire che essa è all’origine. L’umano nasce e si sviluppa dove si apre una strada. Questo ci fa capire María Zambrano proprio attraverso le parole che abbiamo ricordato. «Scoprire una strada, scoprirla, tracciarla - dice ancora la Zambrano - è l’azione più umana perché è azione e conoscenza insieme». L’umano, la sua vicenda, sono dunque scanditi dall’immagine della strada.
Ricordo che nel Vangelo di Giovanni Gesù si presenta come «via» e negli Atti degli Apostoli, in passaggi diversi, i cristiani vengono definiti «quelli che erano della via» o anche «quelli della strada di Gesù». Gesù è uomo di strada, e sulla strada parla e vive. Non ha dimora: il «Figlio dell’uomo» - sono sue parole - «non sa dove posare il capo». È «l’uomo che cammina», secondo l’espressione dello scrittore francese Christian Bobin. Non sosta, non si trattiene.Teso all’altro, costantemente si rimette sulla strada. E la strada è il suo luogo proprio: non la stabilità e la sicurezza della casa, ma il movimento della strada. Angelo Casati, un sacerdote e poeta che ha seguito una strada di ricerca e di libertà, in un libro recente, Ospitando libertà (pubblicato dal Centro Ambrosiano), stringe il fuoco della propria attenzione sull’immagine della strada, che considera l’intimo respiro della parola cristiana. Forse, a guardar bene, ogni esperienza religiosa traccia una strada e indica i modi per percorrerla. Buddha e Lao-Tse parlano appunto di «via». Ma nel cristianesimo la «via» è una vita, quella vita, il suo concreto, inconfondibile profilo. «È un viso - dice Angelo Casati - sono delle mani, dei piedi, dei sentimenti, è un modo di guardare Dio e di guardare gli altri». A chi gli chiede: «Come possiamo conoscere la via?», Gesù, nel Vangelo di Giovanni, risponde: «Io sono la via, la verità, la vita». È poi questo, anche prescindendo dalla cornice della parola cristiana, che può incontrare chi si mette sulla strada: «la vita».
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MobyDICK
Cd
musica
CONDANNATI A VITA a vongole e noantri di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi i Brian Peter George St. John Le Baptiste De La Salle Eno, in sintesi Eno, ce ne sono due: quello dotato di sorprendenti qualità canore, che una volta fuoriuscito dai Roxy Music per incompatibilità caratteriale con Bryan Ferry s’inventò dal 1973 al ’77 Here Come The Warm Jets, Taking Tiger Mountain (By Strategy), Another Green World e Before And After Science, dischi/manifesto del glam futurista; e il «non musician» (si definì così) dell’ambient infinitesimale: liquidi tocchi di sintetizzatore che sfociarono in Music For Films (’78), Music For Airports (’79) e altre sciccherie da ascoltare in sottofondo. In più l’inglese di Woodbridge, classe 1948, è andato ogni volta là dove lo portava il cuore: cioè a produrre dischi per U2, Coldplay e Talking Heads, a suonare con David Bowie, Robert Fripp, John Cale, Robert Wyatt, David Byrne. E pensate: si è perfino riappacificato con Bryan Ferry partecipando al suo Olympia. Lo stratega elettronico, ormai, potrebbe permettersi di tutto: far suonare i muri più coriacei, gorgogliare sinfonicamente le acque, rockeggiare gli spazi siderali… Insieme al chitarrista Leo Abrahams e al pianista Jon Hopkins, si è invece concesso il lusso d’incidere Small Craft On A Milk Sea che è il risultato, spiega, «di un’occasionale collaborazione. Il loro modo d’intendere la musica, legato come il mio alle potenzialità e alla libertà espressiva dell’elettronica, non ha prodotto “composizioni” in senso classico ma improvvisazioni, paesaggi sonori, sen-
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lle vongole» è la locuzone del moralista indignato contro un qualche aspetto dell’italico (mal)costume. Se la gioca non «de noantri» per indicare una cosa fatta in piccolo, provinciale, che per le tare congenite italiane non può aspirare alla serietà. Ma qui abbiamo una notizia che cambia le carte in tavola, e niente di meno ci sconvolge la semantica. Il fatto che il flamenco sia stato ufficialmente considerato patrimonio immateriale dell’umanità dalla commissione mondiale preposta già ci riempie di gioia (e ci consiglia un riascolto dei duetto tra Camaron De La Isla e Paco de Lucia; se esistono questi signori quol dire che Dio c’è ed è benevolo verso l’uomo), ma ci sconvolge proprio sapere che la cucina mediterranea sia parimenti considerata patrimonio dell’umanità. Alle vongole, alle vongole, quindi e senza sensi di colpa. Moralisti riaggiornatevi, e includete le vongole in una sfera positiva, insieme al nero di seppia, al pescespada alla griglia, all’insalata di polpo, al pomidoro. Il tinello che puzza di sugo è uno stemma araldico. E per venire alla cucina musicale ci sarebbe da riflettere sul fatto che il flamenco è lì dov’è, ossia nel patrimonio immateriale dell’umanità, e la tarantella no, la pizzica nemmeno, la montemaranese e i lallallero di Ceriana neppure, gli stornelli umbri manco, le cantate a tenores nisba. Tutta una compagnia di musica, danze, ottave rimate o meno che, a differenza delle vongole e del flamenco, non sono un patrimonio dell’umanità. E la vicenda è tutta una parabola sul provincialismo italiano. E suona anche un po’ come una condanna, al noantri. A vita.
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Sperimentazioni ambient in un mare di latte
Jazz
zapping
sazioni di un luogo, suggestioni di qualcosa che è accaduto». In buona sostanza: ambient music. Che noia che barba che noia, mi son detto approcciando con scetticismo il nuovo repertorio. Eno è bollito. Avrebbe potuto cantare e invece non canta. Che peccato. In effetti, gli impulsi elettronici e le onde sonore di Calcium Needles, le cocciute implosioni di Lesser Heaven e l’evanescente, cosmica Late Anthropocene sono il festival del già sentito. Superfluo tornarci sopra, e per giunta in tre. Fatica sprecata. Poi, però, il guru computerizzato mi ha dimostrato che c’è spazio per altre musiche ambientali: categoricamente ripetitive ma molto orecchiabili (Emerald And Lime), celestiali (Slow Ice, Old Moon), a un passo dalla new age (Written, Forgotten), soffuse, dolci e pianistiche (Emerald And Stone). E mi ha fatto soprattutto scoprire, giusto a metà di questa traversata su un mare di latte, che nel nuovo millennio è ancora possibile sperimentare. D’improvviso, infatti, tutto cambia, si rabbuia, aggredi-
sce: Flint March, con le sue atmosfere da rave party, sfoggia ritmi elettronico/tribali; Horse, febbricitante drum & bass, fa imbizzarrire a più non posso la chitarra elettrica; 2 Forms Of Anger, funk ipergalattico, si trasforma in un rock assassino; Bone Jump, felpata come il miglior trip-hop, è un geniale fermo immagine di Kraftwerk e Art Of Noise; Dust Shuffle, che ribadisce l’idioma funk, è cinquanta per cento Talking Heads (multietnici) di Remain In Light e l’altro cinquanta King Crimson (quasi metallari) di Thrak; Paleosonic, che definisco bolero avanguardista e disturbante, punta tutto sulla distorsione. Insomma: se mi va di ascoltare il Brian Eno che preferisco punto senza indugi (consigliandoveli) su Here Come The Warm Jets e Before And After Science. Se voglio tastare il polso della neo-elettronica, credo proprio che la realtà giusta (ambient o non ambient, chissenefrega) sia Small Craft On A Milk Sea. Brian Eno with Jon Hopkins & Leo Abrahams, Small Craft On A Milk Sea, Warp Records, 17,90 euro
Parigi 1952: un trionfo italiano in venti minuti
stato recentemente rintracciato, grazie alle ricerche effettuate da alcuni colleghi della Radio francese, un documento che si pensava fosse andato irrimediabilmente perduto. Si tratta della registrazione di uno dei brani che il Sestetto di Nunzio Rotondo eseguì il 29 marzo 1952 alla Salle Pleyel di Parigi nel corso del suo concerto al Secondo Salon International du Jazz. Rotondo, allora ventottenne, considerato la tromba più inventiva e innovativa del jazz italiano, venne invitato da Charles Delaunay a quella che giustamente era considerata la più importante manifestazione jazzistica europea. Parigi, dal 29 marzo al 6 aprile, aveva ospitato sul palcoscenico della Salle Pleyel, sui Bateaux-Mouches che navigavano lungo la Senna e nei locali jazz di St. Germain-des-Prés, quanto di più importante e significativo vi era nel jazz mondiale. La presenza di Dizzy Gillespie, Lester
È
di Adriano Mazzoletti Young, Ella Fitzgerald, Sidney Bechet, Max Roach oltre ai migliori musicisti europei, aveva fatto giungere a Parigi giornalisti, critici e appassionati da ogni parte d’Europa. In rappresentanza del jazz italiano venne invitato Nunzio RotonNunzio do con il suo Sestetto Rotondo dell’Hot Club di Roma. A lui l’onore, ma anche l’onere, di aprire il concerto e il Festival la stessa sera in cui suonò Dizzy Gillespie con il sassofonista Don Byas. Ciò malgrado, il pubblico decretò a Rotondo, Franco Raffaelli, Ettore Crisostomi, Carlo Pes, Carlo Loffre-
do e Gilberto Cuppini, presentato da André Francis, nel corso della diretta radiofonica, con il nome di Gabriele (!!), un vero e proprio trionfo, come si può ascoltare dalla registrazione ritornata alla luce dopo cinquantotto anni. La critica fu concorde e le recensioni apparse sulle maggiori pubblicazioni europee non furono avare di elogi nei confronti di Rotondo, Cuppini, Crisostomi e del giovanissimo sassofonista Franco Raffaelli, che malgrado avesse dimostrato notevoli qualità, abbandonò ben presto
l’attività musicale. Negli anni successivi, pur partecipando saltuariamente a qualche concerto o jam session, visse sempre nel ricordo di quel concerto alla Salle Pleyel. La presenza di Rotondo e dei suoi musicisti sul palco della Salle Pleyel durò solo venti minuti, il tempo necessario per eseguire tre brani, due composti dallo stesso Nunzio e uno standard del jazz, il celebre Move del batterista Denzil Best che Miles Davis aveva inciso tre anni prima. È quest’ultimo che è stato ritrovato. Sarà pubblicato, assieme ad altre rarità registrate nel corso di alcuni concerti (la grande orchestra di Giampiero Boneschi, l’Ottetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini, il Sestetto di Giancarlo Barigozzi e uno splendido Lover for Sale del trio di Piero Piccioni) in un nuovo cd della piccola Riviera Jazz Records che da quasi vent’anni è impegnata nel recupero dei tesori del jazz italiano.
MobyDICK
arti Mostre
ai peccare di presunzione. E soprattutto mai presupporre. Per esempio di aver visto abbastanza del grande Doisneau, e di conoscere tutto: retrospettive, mostre tematiche, libri e libroni. No, quando uno è un genio, e Doisneau è indubbiamente un genio (della leggerezza, della gioia, dell’agguato, pur meno rigoroso di quello di Cartier-Bresson, ma più monello e ammiccante) che davvero non si finisce di scoprirlo, mai. E di domandarsi ogni volta come facesse miracolosamente a essere proprio lì, non per immortalare un evento storico o documentare un accadimento epocale, ma per inquadrare in un secondo quel magnifico teatro dell’impersistente (e impertinente: i protagonisti di questi scatti teatrali complici della sua simpatia). Divertendosi, anche nel dramma persistente della povertà, perché, ahimè, sfido chiunque a dire che il nostro mondo, «complesso e accelerato», sia più divertente e geniale di quello che vien fuori da questi scatti: la simpatia inventiva dei bambini, la felicità d’un mondo biricchinamente geometrico, l’onestà di criminali e la bellezza grafica dei clochard, un baffo al Bauhaus, in un’atmosfera-semper-Prévert). Uno non li ricorda magari più, quegli scatti, al dettaglio, che per un attimo ti paion capitali, indimenticabili, ma vieni fuori con una felicità dentro, che purtroppo le nostre mostre, pensose quanto cretine, non comunicano più. Attenzione, non il solito lamento del temporibus actis, proprio no: perché poi siamo i primi disposti a stupirci del genio sbarazzino e ad ammirare la vispa vivacità imprevista d’un Doineau sessantenne, che inviato a Palm Springs nel ‘60, per un servizio (praticamente e sempre «imparare da Las Vegas») per intanto affronta il famigerato, detestato colore (dai puristi più barbosi) e si getta poi a scoprire quel mondo di latta, paccottiglia e ricchezza cafona, da casinò, che, sì, è assai in stile Diane Arbus (ma siamo quasi in contemporanea) e ci spia-
M
Moda
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Gli scatti italiani del sovversivo
Liu Bolin di Marco Vallora
ce, però, ma lo fa molto meglio, e meno sussiegosamente, dei tanti Martin Parr o Eggleston e peggiori epigoni, che i cattedratici dell’avanguardia, a gogo, c’infliggono come originalissimi. Se gli preferite Vanessa Beecroft, fate pure voi: a ognuno la sua omicida nutella. (Leggiamo: «Il mitico Eggleston, pioniere della “scandalosa” fotografia a colori che ha scioccato il mondo dell’arte, con una memorabile mostra al Moma nel 1976». Pioniere?! Questi sciocchini sentenziosi, che si choccano sempre e vedono tutto «memorabi-
le» e mitico. Magari sfoglino un poco). Ecco, noi il nostro atto di contrizione l’abbiamo fatto: pensavamo di vedere a Forma un fotografo cinese che c’intriga molto, e abbiamo scoperto il nuovo del vecchio Doisneau, mentre il cinese se n’era già partito, per un’altra galleria di Verona, in cui l’abbiamo recuperato. E val davvero la pena. Ci si domanda soltanto perché alcune cose, in Italia, arrivino così in ritardo e di straforo, l’avevamo già incontrato chissà se a Salisburgo o a Bruxelles, in una stimolante rassegna di artisti cinesi,
che invece nelle kermesse italiane, curate da curatori «mirati» e poco mirabili, mai ci permettono di scoprire. Per esempio a quel mostruoso convegno di mostruose cose, che ci ha passato il Palazzo Reale di Milano, secondo i gusti e i diktat della milanese Galleria Marella: un incubo di ammiccamenti pedofili e di truculenze grafiche, che uscivi da Palazzo, domandandoti: ma che ho fatto di male, per meritarmi questo? Poi ovviamente vai all’estero o a Pechino, e scopri che ci sono ben altri artisti interessanti. Anche la mostra torinese China Power Station, il nome è già tutto un programma, non è altro che lo specchio dei vezzi d’un preparato ma pedissequo Olbrist, che per le sue maratone cosmogoniche ha convocato nella Little Turin degli artisti analfabeti, che non superano una righetta di risposta, in ping pong (Mao adieu!) con le sue elucubrate, tetragone domande. Parlando di Robbe Grillet e Derrida a dei primordiali, che domandano a dei traduttori improvvisati: «che cosa è il capitalisme? non ho mai sentito questa parola» e fanno dei video, che dire sotto-dilettanti è dire poco, ed è ovvio che il pubblico allibilito se la sfili, poco a poco, come nella sinfonia degli Addii di Haydn, facendo infuriare Hans Urlich. E dire che Liu Bolin, che presenta qui alcuni scatti «girati» in Italia, all’Arena di Verona o in platea alla Scala (un fantasma evanescente, che gli artisti potrebbero usare contro i tagli-Bondi) è quanto mai interessante e sovversivo, per il suo Paese. Perché avendo assistito e documentato lo scempio degli ateliers degli artisti, nel Suojia Village, giudicato troppo pericoloso e smantellato dal potere, convinto che l’artista nella società d’oggi sia un’ombra impalpabile, si «cancella» in luoghi simbolici, talvolta cartolineschi, secondo un’arte del camouflage animale, del mimetismo cromatico, camaleontico, che un maestro del trucco gli permette di realizzare. E ogni volta diventa una maschera-fantasma della nostalgia maoista: ex-timoniere del nulla.
Liu Bolin, Verona, Galleria Boxart, fino al 4 dicembre
Chic, come applicare il low cost a uno stile di vita e donne che sanno come stanno le cose riescono ad avere l’aspetto di milionarie, anche se non sono ricche. Certo, la faccenda richiede un po’ di impegno (raramente si ottiene qualcosa in cambio di niente in questa valle di lacrime) ma ne vale la pena». Marjorie Hillis ha scritto Chic! nel 1937, quando l’America cominciava a riprendersi dal disastroso crollo del ’29, ma molte fortune erano ormai perdute, e bisognava adattarsi a vivere low cost, a cominciare dal guardaroba. Questo spiega il successo del libro (venduto, all’epoca quanto il mitico Via col vento) e la sua sorprendente attualità (lo ripubblica B.C. Dalai, 143 pagine, 16,50 euro). Redattrice di Vogue per vent’anni, spiritosa, elegante e piena di ironia, Marjorie Hillis sarà utilissima alle Nuove Recessioniste, a tutte le vedove dell’I love shopping, che però non vogliono rinunciare a vestirsi. Prima regola. Restare fedeli a un unico colore, nero, blu o marrone, così tutto si abbinerà con tutto. Seconda regola: stare alla larga dai capi troppo estrosi. Possono essere seducenti i primi due mesi, ma non dopo due anni. «E non pensiate che vi stiamo incoraggiando a creare un guardaroba sciatto. I migliori abiti acchiappa-fidanzato non sono necessa-
«L
di Roselina Salemi riamente quelli che fanno girare la testa ai passanti». Terza regola: procuratevi un tubino nero. Non si sporca facilmente e può essere accostato a ogni tipo di giacche, gioielli, sciarpe e scarpe finché non tira le cuoia. Raccomandazione: un vestito poco costoso, abbinato a splendidi accessori, fa più scena di un abito costoso accompagnato da accessori dozzinali. Perle di saggezza: 1) Se avete un reddito basso, non cercate a tutti i costi di essere un tipo all’ultima moda. Lo stile Chanel è dispendioso «e se quest’anno la frangetta e la cloche possono essere chic, dieci a uno che l’anno prossimo saranno considerate vintage»; 2) Fate attenzione agli abiti stretti in vita, specialmente dopo i quaranta; 3) Un cappotto caro può rappresentare un saggio investimento se vi sta bene ed è elegante; 4) Tre vestiti neri non vi annoieranno mai quanto tre abiti di qualsiasi altro colore; 5) Colloquio di lavoro. Non si può convincere un capo del personale di avere un cervello sopraffino se non si è abbastanza intelligenti da mettere assieme un abbigliamento che non gli faccia pensare: questa si è vestita al buio; 6) Se siete costrette a comprare con i saldi, andate in un bel negozio a fine stagio-
ne, non in uno a buon mercato all’inizio. Ma tutto questo non basta. Chic! è uno stile di vita che include tra gli accessori costosi, anche l’argenteria, i ricevimenti e un marito «perché tralasciando la questione sopravvalutata dell’amore, è perfettamente comprensibile che una donna voglia avere accanto un marito quando ha ospiti a cena, ha bisogno del quarto a bridge, o di qualcuno che l’accompagni a teatro, apra il vino e le porti il ghiaccio», e i gli uomini più affascinanti sono un disastro in fatto di soldi. Vale lo stesso principio del cappotto: la scelta più saggia può essere quella di prenderne uno carissimo per il semplice piacere di comprarlo. L’importante è che vi renda felice.
MobyDICK
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il paginone
Due secoli fa, quando fu pubblicata poco dopo le “Affinità elettive”, la “Teoria dei colori” non poteva ancora essere recepita. E se rappresenta un enigma nella produzione dello scrittore tedesco, c’è chi la considera l’opera di un genio anticipatore, e chi solo un hobby di un uomo geniale. Quello che è certo è che lui ne andava orgoglioso… di Pasquale Di Palmo o non mi inorgoglisco per tutto ciò che ho prodotto come poeta. Insieme a me hanno vissuto eccellenti poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima e altri ve ne saranno dopo di me. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono il solo che conosce il giusto nella difficile scienza del colore, e nutro perciò una certa coscienza della mia superiorità rispetto a molti». Queste parole di Goethe, che figurano nelle conversazioni che il poeta ebbe con Eckermann, documentano la presa di coscienza manifestata nei confronti della sua Farbenlehre, da noi conosciuta come Teoria dei colori, origina-
«I
variegata di Goethe: se da un lato vi è chi la considera un lavoro altamente significativo, teso ad anticipare ricerche che si svilupperanno in epoca moderna, soprattutto sul versante artistico e filosofico, influenzando pensatori come Wittgenstein e pittori come Klee o Kandinskij, dall’altro c’è chi imputa a Goethe la mancanza di un metodo scientifico adeguato, relegando i suoi esperimenti nel contesto di una dimensione dilettantistica e velleitaria. Risulta emblematico, d’altronde, che l’estensore di una recensione rimasta anonima, già all’epoca della pubblicazione dell’opera, avanzasse le seguenti riserve: «Il nome dell’au-
una scuola che appunto non brilla per la perspicuità e la determinazione delle sue proporzioni; infine l’autore stesso ci aveva dato nella sua Ottilia (personaggio del romanzo Le affinità elettive, ndr) un saggio dello stile con cui egli tratta oggetti fisici. In conformità a ciò era quasi prestabilito che la nuova teoria dei colori sarebbe stata romantica, poetica e per nulla prosaica, e che noi non avremmo potuto aspettarci altro che una spiegazione, travestita nell’artificioso linguaggio del trascendentalismo, delle note manifestazioni di natura». In tale critica non si può non ravvisare come lo spirito del tempo fosse in grado di recepi-
I suoi interessi spaziavano dalla botanica alla geologia, dalla mineralogia all’anatomia. E mentre sopportava le critiche su romanzi e poesie non tollerava appunti sul suo sapere scientifico riamente uscita nel 1810 a Tübingen, presso l’editore Cotta, in due volumi, con allegato un sottile quaderno contenente sedici tavole.
A due secoli dalla sua pubblicazione (una parte didattica era apparsa nel 1808 e un precedente studio intitolato Contributi sull’ottica aveva visto la luce nel 1791), la Teoria dei colori continua a rappresentare una sorta di enigma nell’opera
tore Goethe attira, come è facile immaginare, l’attenzione del pubblico tedesco. Goethe è famoso come poeta, e ora si annuncia come fisico, come scienziato della natura... Nondimeno molti [...] già all’uscita di questo libro erano dell’opinione che la scienza non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio. Era noto che egli non si intendeva per nulla di matematica, e anche che non era un fisico pratico. Era nota la sua appartenenza a
re solo in parte quelli che, secondo Goethe, erano i presupposti fondamentali che hanno contraddistinto la sua esperienza. In primis è quanto mai discutibile, anche se con il senno del poi, considerare gli approdi della scienza moderna (Einstein docet) su un piano antitetico rispetto a quello poetico e filosofico; secondariamente è difficile riscontrare, se non raramente e quasi di sfuggita, dei passaggi in cui si indulga alla
Goethe come appare nel suo ritratto più celebre, di Tischbein, che lo immortala nella campagna romana. Sopra il titolo, lo scrittore tedesco nel 1828 in un dipinto di Joseph Carl Stieler; accanto, di spalle a Roma in un disegno di Tischbein; sotto un suo disegno e la copertina della “Teoria dei colori” nell’edizione del Saggiatore anno III - numero 41 - pagina VIII
L’occhio d rêverie romantica in un contesto dove l’autore si limita a elencare, in maniera rigorosa e metodica, una serie di esperimenti ottici. La teoria dei colori è un’opera a tratti ostica rispetto alla godibilità insita nei testi dall’esplicito orientamento narrativo o poetico. Le stesse entusiasmanti digressioni presenti nel Viaggio in Italia o in Poesia e verità lasciano il posto a una sequela di argomentazioni tese a sottolineare l’aspetto empirico di un determinato esperimento, senza nulla concedere sul piano prettamente stilistico.
Nondimeno si deve considerare quanto l’attività parascientifica di Goethe abbia arricchito, influenzandolo profondamente dall’interno, tutto il suo itinerario creativo. I suoi interessi spaziavano dalla botanica alla geologia, dalla mineralogia all’anatomia umana e animale, dalla meteorologia all’ottica. Una sete di conoscenza davve-
ro inesauribile, nell’utopico tentativo di abbracciare ogni forma di dottrina in direzione di un umanesimo che, sulla falsariga di quella compostezza di derivazione classica prospettata all’epoca del sodalizio con Schiller, fosse in grado di conciliare gli stilemi raziocinanti dell’epoca dei lumi con la vertiginosa temperie dello Sturm und Drang. Già nel 1784 il poeta si era esaltato per aver scoperto nell’essere umano un osso intermascellare che si riteneva fosse presente solo negli animali (ma alle stesse conclusioni era arrivato, con una manciata d’anni di anticipo, un ricercatore francese, Félix Vicq-d’Azyr, che rese pubblica la sua scoperta nello stesso 1784). Visitando i giardini botanici di Palermo a Goethe balenò l’idea della Urpflanze, sorta di pianta originaria che avrebbe dato origine a tutti gli altri tipi di piante. Nel 1790 pubblicò la Metamorfosi delle
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Torben Bergmann De attractionibus electivis (1782) in cui si descrive quel particolare processo di attrazione e repulsione tipico di certi elementi naturali. Goethe rimase fino alla fine dei suoi giorni impassibile riguardo alle critiche che venivano mosse ai suoi romanzi o alle sue poesie mentre diventava intrattabile quando qualcuno si permetteva di avversare le sue concezioni in campo naturalistico. Nella Teoria dei colori solo qua e là trapela la generica descrizione ambientale dalla quale scaturisce un particolare che colpisce Goethe per il legame con le ricerche sostenute sul versante ottico, come nel seguente passaggio: «Dopo che, verso sera, fui entrato in un’osteria e un’avvenente fanciulla, dal volto bianchissimo, ca-
quella che era l’assurdità della concezione newtoniana della luce nella pretesa che la luce bianca fosse composta di luci più scure, e in generale che quell’elemento indiviso che è la luce potesse essere pensato composto di qualcosa d’altro come raggi, fasci, ecc.». Goethe si convinse dell’inattendibilità delle teorie newtoniane, osservando una parete bianca attraverso il prisma. Nonostante il poeta tedesco si attendesse di vedere lo spettro dei colori, la parete apparve in tutto il suo lindore, senza la benché minima traccia di colore, con l’eccezione di un punto in cui una zona chiara confinava con una zona più scura. «La conclusione di Goethe fu che, affinché il colore sorgesse, era necessario un confine, un margine dove luce e oscurità pote-
revoli sono, al riguardo, gli esperimenti descritti da Goethe nella Teoria dei colori e non è un caso che Giulio Carlo Argan parlasse di una stretta relazione con l’attività pittorica intrapresa soprattutto durante l’Italienische Reise, sostenendo che «Goethe era persuaso che alla verità non si arrivasse per illuminazioni improvvise, ma con la pazienza e l’onestà della ricerca e della sperimentazione». I primi studi in tal senso risalivano al 1790, subito dopo quel viaggio in Italia che, oltre a rivelargli il mondo classico, lo mise in contatto con alcuni dei più importanti artisti tedeschi dell’epoca: da Angelica Kaufmann a Wilhelm Tischbein, autore del celeberrimo ritratto Goethe nella campagna romana, da Philipp Hackert a Heinrich Kniep che lo accompagnò
La sua “Farbenlehre” contrasta con la teoria di Newton secondo la quale i colori vengono percepiti attraverso la scomposizione della luce per effetto del prisma. Per lui invece era necessario un confine
di Goethe piante, che fa pendant con la poesia didascalica intitolata Metamorfosi degli animali, edita nel 1820. Nel 1817 licenziò una raccolta di saggi sulla morfologia e la cromatica.
I t a l o A l i g h i e r o C hi u s a n o , nella sua ormai classica Vita di Goethe, sostiene che gli studi scientifici e naturalistici del poeta tedesco «meritano e hanno in effetti avuto trattazioni tutte particolari, e valutazioni che vanno dall’indulgenza per l’hobby di un uomo geniale che avrebbe fatto meglio a pensare solo alla letteratura fino all’esaltazione di chi vede in Goethe un genio anticipatore, il primo che uscì dalle strettoie di una scienza troppo ristretta nella pura classificazione e registrazione dei fatti, senza mai uno sguardo a leggi e principi universali». Il germanista aggiunge: «Il minimo che possa dire un biografo e critico letterario come il sottoscritto è che
quegli studi diedero un’impronta decisiva a tutta la personalità di Goethe, indirizzandola a una grande precisione nell’osservare, a un sereno realismo privo di ogni patetismo nel contatto col mondo; inoltre, anche come scritti giudicati dal solo punto di vista poetico-letterario, fanno spicco sulla letteratura scientifica del tempo (e non solo del suo) per l’eleganza e la pregnanza della formulazione, la vividezza non mai aridamente tecnica del linguaggio, la continua urgenza - pur nelle questioni più squisitamente tecniche - di un afflato più vasto, che si vorrebbe definire tra lirico e religioso». Quanto il sapere scientifico abbia influenzato la stessa Weltanschauung goethiana è evidente fin dal titolo di uno dei suoi romanzi più noti, Le affinità elettive, pubblicato nel 1809, qualche mese prima della Teoria dei colori e ispirato all’opera del chimico svedese
pelli neri e un corsetto rosso scarlatto entrò nella mia camera, la fissai mentre stava a una certa distanza da me, in una debole luce. Quando infine ella si mosse, sul fondo della parete bianca a me dirimpetto scorsi un volto nero circondato da un bagliore chiaro, e le vesti della nitida figura di un bel verde mare». Ma, per il resto, il periodare goethiano procede sulla base di riflessioni dirette, spesso procurate dall’accostamento di carte e figure di varia foggia e colore posizionate entro un particolare effetto luminoso.
Goethe si pone palesemente in contrasto con la teoria di Newton secondo la quale i colori vengono percepiti attraverso la scomposizione della luce per effetto del prisma. Renato Troncon, curatore dell’eccellente traduzione italiana edita da Il Saggiatore, precisa al riguardo come Goethe indichi «molto esplicitamente
vano incontrarsi e dar luogo al colore» osserva ancora Troncon. Lo stesso Goethe, nella prefazione all’opera, asserisce: «La teoria dei colori di Newton è paragonabile a un’antica rocca che, edificata dal costruttore con giovanile precipitazione, venne da lui in seguito a mano a mano ampliata e munita secondo le necessità dei tempi e delle circostanze, e sempre più fortificata e consolidata in occasione di ostilità e di inimicizie».
Goethe suddivide i colori in tre categorie: fisiologici, fisici e chimici. «Innanzitutto consideriamo i colori in quanto appartengono all’occhio e dipendono da un suo meccanismo d’azione e reazione; quindi ci rivolgiamo a quelli che possiamo osservare su mezzi incolori e con il loro ausilio, per infine indirizzarci a quelli che potevamo pensare come appartenenti agli oggetti. Abbiamo dato il nome di colori fisiologici ai primi, di fisici ai secondi, di chimici ai terzi. Mentre i primi sono senz’altro fugaci e i secondi sono transitori e tuttavia possono essere trattenuti, gli ultimi resistono per la massima durata» precisa lo stesso Goethe. È fondamentale, per la nascita di un colore, che esistano le condizioni legate al binomio luce e oscurità, chiaro e scuro, «oppure, con un’altra formula più generale, luce e non-luce». Innume-
in Sicilia per dipingere i paesaggi che maggiormente catturarono l’attenzione del poeta. In tale contesto non bisogna dimenticare il contrasto nato con Arthur Schopenhauer, accusato dal poeta di aver saccheggiato nel saggio La vista e i colori, pubblicato nel 1816, le sue teorie. Fu Goethe, che frequentava il salotto letterario della madre di Schopenhauer, a invitare il futuro autore del Mondo come volontà e rappresentazione a studiare i fenomeni ottici nell’inverno 1813’14 finché, trasferitosi a Dresda, quest’ultimo continuò le ricerche per proprio conto, arrivando a conclusioni analoghe a quelle del maestro. «Il dottor Schopenhauer si mise dalla mia parte da benevolo amico. Su parecchie cose ci trovammo d’accordo, ma infine non si poté evitare una certa separazione; come quando due amici, che fino a un certo punto hanno camminato insieme, si danno la mano e l’uno si dirige verso nord, mentre l’altro vuole andare a sud, sicché ben presto si perdono di vista» osservò Goethe. L’interesse manifestato da Goethe per la vista e i colori si concretizzerà anche in ambito poetico: del 1817 è Colori entoptici, la lirica accolta nella silloge Gott und Welt (Dio e mondo). La chiusa di questa poesia recita emblematicamente: «Lascia pure che il macrocosmo/ sviluppi le sue forme spettrali!/ Giacché i dolci microcosmi/ posseggono invero le più belle immagini». E come non pensare a «Mehr Licht!» («Più luce!»), le parole che Goethe pronunciò, secondo alcuni biografi, in punto di morte?
Narrativa
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libri
Sándor Márai IL SANGUE DI SAN GENNARO Adelphi, 346 pagine, 19,00 euro
uno dei romanzi più intensi di Sándor Márai, l’ungherese che nel 1948 abbandonò la patria e, dopo un breve periodo in Svizzera, si stabilì a Napoli dove rimase fino al 1952 per poi trasferirsi in America. Parla dell’Italia, ma principalmente di Napoli - città più mediterranea che italica - in tono affettuoso considerando saggi, commiserevoli e divertenti noi dello stivale. Márai non descrive direttamente il protagonista, ne registra i tratti disegnati da testimoni. Sullo sfondo c’è la stranezza partenopea che, sia pur ripetitiva, teatrale e lagnosa, sfodera spiccate dignità. È tempo di migrazioni, e l’Italia è un ponte affollato. C’è uno straniero che incuriosisce e tutti offrono di lui versioni diverse. È un esule che si mette in testa l’idea di come poter redimere il mondo. La domanda è l’effetto di una spaventosa disillusione. L’esule soffre come tutti gli esuli e teme di continuo la deprivazione della propria identità, a cominciare da quei piccoli particolari attinenti alla grafia, e soprattutto agli accenti, dei nomi. Le scritture amministrative omettono o sbagliano e allora uno si trova a essere infilato in una cartellina di polizia che proprio per certe inesattezze conferma la sciagura di un’identità persa, o slabbrata. Lo straniero, sospettato d’essere un po’ una spia e un po’ un ex comunista, aspetta il giorno dell’imbarco per l’Australia, mentre la sua compagna si prepara a salire su una nave diretta verso gli Stati Uniti. Ma un giorno cattivo e di mare capriccioso, il corpo dell’uomo viene trovato sulla spiaggia, senza vita. Si è buttato dal parapetto l’uomo che, pellegrino e straniero come San Francesco, rifletteva dolorosamente su una redenzione che non passasse attraverso i vicoli sporchi, astuti e pretenziosi della politica? Nessuno sa. In un certo senso accarezzava l’idea del miracolo. Sì, proprio come quello del sangue di San Gennaro. E a questo guardano i napoletani, sia signori che lazzaroni, tutti nella promiscuità, incomprensibile a tutto il mondo, di una città che mette insieme principi, guappi, poveri, malavitosi, imbroglioni e anche intellettuali di rango come Benedetto Croce. Márai, attraverso le testimonianze attorno all’enigmatico straniero, dà prova di acume umano e politico quando descrive il comportamento della gente sotto i regimi autoritari, nazisti e bolschevichi. È frate Carmi-
È
Márai
a Napoli in cerca di redenzione Uno dei romanzi più intensi dello scrittore ungherese che visse nella città partenopea fino al 1952: un atto d’accusa contro le dittature
Riletture
di Pier Mario Fasanotti
ne incaricato di riportare affilate verità, sentite dall’esule con fama di scienziato. Lo straniero che sosta nella Napoli teatralizzata. Le dittature sanno bene che il consenso degli intellettuali è importante. Meglio se restano in patria, «anche se in silenzio». Ma lui se n’è andato: «non tollerava l’idea di divenire, proprio in quanto oppositore inoffensivo, una sorta di opera d’arte che i comunisti avrebbero mostrato con ironica devozione alle loro masse e al mondo intero». Quanto alla redenzione politica, così ingannatoria, alla fine l’uomo si stacca «dall’obbligo di credere a ogni genere di assurdità ufficiale, di menzogna statale… le sfilate, le assemblee, gli entusiasmi meccanicamente suscitati, le continue vessazioni, le tasse, i ricatti di ogni tipo». Il polacco misterioso che ammira il golfo, sempre secondo il teste francescano, riferisce di milioni di persone che nelle dittature violente conducono una vita «straordinariamente monotona». «È incredibile quanto sia primitiva l’immaginazione degli entusiasti, degli ingannati e degli speranzosi…». Certe popolazioni dell’Europa centro-orientale si sono lasciate afferrare dalla speranza che il comunismo della «lontana e barbara Russia» fosse o potesse essere diverso, più umano, più moderato. Inoltre sono sempre i mediocri e gli insignificanti ad aderire al fascismo. Infine l’atto di accusa di Màrai, pesante come un masso: «Molte delle menti migliori della cultura occidentale non sono disposte a condannare il bolscevismo con la stessa incondizionata fermezza con cui respinsero il nazismo». Una cosa a ben vedere strana, visto che nazismo e comunismo, decretando la filosofia come accessorio superfluo, favoriscono «gli sciancati dello spirito che godono nell’evirarsi». L’esule quindi non crede più ad alcuna «soluzione sociale», ma solo a una diversa redenzione. È un’aspirazione da malati di mente? Ecco la risposta di chi convive con il miracolo di San Gennaro: «Forse individualmente c’è qualcosa di patologico in un uomo che si assume il ruolo di redentore, ma la sua impresa non lo è affatto». Gesù non era pazzo. E i comunisti non intendono redimere, ma solo dominare, mentre gli uomini d’affari vogliono solo vendere.
Vita avventurosa e libera di Pico della Mirandola entre Carlo VIII entrava a Firenze e conquistava l’Italia «con il gesso», Giovanni Pico della Mirandola moriva nella città di Lorenzo il Magnifico all’età di trentun’anni, otto mesi e ventiquattro giorni. L’ingresso del re di Francia fu lento e in pompa magna. Da giorni e giorni era atteso e i fiorentini seppero accoglierlo con onori e non furono neanche sfiorati dal pensiero di fargli resistenza: «Sulla porta a San Friano, l’aspettava la signoria, con bellissima compagnia di cittadini di grave età e giovani fiorentini riccamente vestiti alla franzese. Mancavano un paio d’ore al tramonto, il cielo era corrucciato e alla fine piovve. Solo un rovescio breve, abbastanza però per scompigliare il corteo». Firenze era in festa, ma la casa del conte della Mirandola era in lutto. Aveva soltanto trentun’anni e morì avvelenato. Forse. Giulio Busi, professore ordinario alla Freie Universitat di Berlino, dove dirige l’Istituto di giudaistica, filologo, studioso del misticismo ebraico e tante cose ancora, ha scritto il curioso libro dal titolo Vera Relazione sulla Vita e le Opere di Giovanni Pico Conte della Mirandola edito da Aragno. Libro doppiamente curioso per la materia di cui tratta e per il modo
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di Giancristiano Desiderio in cui la tratta: è un saggio, uno studio di filologia, una ricostruzione storica, un racconto. Tutto è unito, dall’inizio alla fine, dalla vita di Pico della Mirandola: «Elegante, rubacuori e prodigiosamente ricco, Giovanni Pico della Mirandola può essere considerato il simbolo dell’inquietudine intellettuale del Rinascimento italiano». Lo studio e il racconto di Giulio Busi possono essere letti come la «rilettura» della vita e dell’avventura intellettuale e religiosa dell’autore del De hominis dignitate. Una rilettura quanto mai utile non per come usa dire in casi del genere - conoscere il passato, bensì per comprendere il presente e dargli una dignità che a tratti dubitiamo di conservare. La vita di Pico della Mirandola - confesso che il nome stesso del Conte è una meraviglia che invoglia alla conoscenza della sua figura e del suo pensiero - è entusiasmante: sotto la diversità delle culture e delle religioni c’è un senso comune dell’umanità e tutte le cose del mondo e
Giulio Busi ripercorre la vicenda dell’autore del “De hominis dignitate”
della natura sono segni della parola di Dio. Il Conte della Mirandola, amico di Lorenzo il Magnifico e di Girolamo Savonarola, era aristotelico e platonico, scolastico e rinascimentale, greco e cristiano, egizio ed ebreo e tutta la sua grande sapienza riunì in novecento tesi da discutere in una riunione di dotti e teologi e giuristi e insomma grandi testoni fatti arrivare a Roma a sue spese. Aveva ventitré anni. Il risultato, dopo breve lettura interrotta alla settima tesi, fu l’accusa prima e la condanna poi per eresia. Pico scappa, lascia Roma, viaggia verso Parigi, ma è arrestato alle porte di Lione. Ma la cattura suscitò grandi proteste e il Conte della Mirandola fu liberato con l’obbligo di lasciare la Francia.Tornò a Firenze accettando l’invito del Magnifico che però non riuscì nel suo intento: fargli ottenere il «perdono» di Innocenzo VIII. Oggi perdoniamo Innocenzo VIII: la dignità dell’uomo di Pico è la nostra stessa cultura della libertà.
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poesia
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Baudelaire, maestro di moralità di Filippo La Porta iamo proprio sicuri che Charles Baudelaire fosse il padre di Mallarmé e del simbolismo, il teorico della poesia pura? O anche che nella sua produzione poetica «tutto è incanto, musica e sensualità astratta», come sostenne Paul Valery? In realtà Baudelaire, che pure nel 1858 tradusse la Filosofia della composizione di Edgar Allan Poe, prima formulazione teorica della poesia pura, sta stretto in ogni formula. Se va indubitabilmente considerato l’iniziatore della modernità in poesia, ci aiuta a capire come questa modernità comprenda molte più cose del dogma estetico che poi nel Novecento diventerà egemone, e cioè l’idea di Poe (e prima di Novalis) che la specificità poetica consista unicamente nel linguaggio, in una «forma» che non comunica niente, in pura sonorità e magia verbale, indifferente al significato. I Fiori del male, usciti nel 1857, non sono affatto «oscuri», come invece molta poesia simbolista, né possono ricondursi a un ideale di poesia pura e in fuga dal significato. Anzi la loro novità consiste nel nominare qualsiasi oggetto della vita quotidiana, nel dare rappresentazione alla metropoli («città formicolante, città piena di sogni! Anche in pieno giorno lo spettro adesca i passanti», Quadri parigini), e poi agli aspetti più torbidi e in un certo senso più «brutti» dell’esperienza (la sua idea della bellezza come qualcosa che può implicare la bruttezza, al fine di provocare il gusto corrente, muove dal barocco ed è probabilmente all’origine dell’arte contemporanea).
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Baudelaire insomma, assai più «moderno» dei suoi eredi, è un impietoso diagnosta della nostra civiltà, uno smascheratore delle ipocrisie della borghesia (come i coevi Nietzsche e Kierkegaard). La contraddizione è il suo elemento, portata fino alle estreme conseguenze: degrada l’amore per fargli esprimere il «nuovo» (che pure è qualcosa di vuoto), elogia l’artificiale contro il naturale in difesa dell’arte e della libertà dello spirito, abbraccia agnosticamente il satanismo come forma paradossale di fede cristiana, si sente dannato ma ne gode voluttuosamente, affonda compiaciuto nel vizio ma per richiederne un riscatto nella forma, è misogino ma anche attratto dalla misteriosa alterità della donna, celebra il ripugnante in odio al «vizio della banalità». Debitore nei confronti del romanticismo se ne distacca radicalmente perché separa in modo netto la poesia dall’«intossicazione del cuore», dalla sentimentalità personale e teorizza la fantasia come «un operare guidato dall’intelletto» (Hugo Friedrich, che pure nella sua Struttura della lirica moderna privilegia un mainstream poetico novecentesco a senso unico, tutto dominato dal simbolismo). La poesia di Baudelaire nulla concede all’irrazio-
il club di calliope
nale e al mistero, ama la logica e disprezza «chi si abbandona all’inconsciente, alla notte, a coloro che sarebbero divenuti i surrealisti» (Giovanni Macchia). E anzi pretende di coincidere con una precisione matematica, con una «scienza» esatta delle corrispondenze e analogie dell’esperienza. Leggendo per la prima volta Baudelaire restai affascinato dalla morbosità, dall’esaltazione delle droghe e dell’alcol, dell’estremismo sado-maso, dall’identificazione con Satana (in quanto sconfitto e con una propria orgogliosa sofferenza). Poi leggendo Stendhal, anche lui «dilettante» scarsamente compreso dai contemporanei, ho sentito la profonda affinità che li lega: ad agire è quella stessa devozione alla verità, all’«aspra verità» che troviamo in epigrafe al Rosso e il nero. Il primo lungo componimento dei Fiori del male si conclude con l’appello all’«ipocrita lettore, mio simile, mio fratello», insidiato dal mostro più immondo, la Noia, che «in uno sbadiglio ingoierebbe il mondo». La sua opera, sia in versi che in prosa (è stato un critico sommo), lungi dall’essere «spersonalizzata» (in senso antiromantico) nasce da violente idiosincrasie, da una immedicabile avversione alla società, da una passione autolesionista per la verità, che origina dal giansenismo.
In uno dei suoi poemetti in prosa (Lo
DON JUAN AGLI INFERI Allorché Don Giovanni scese all’onda d’abisso, dato a Caronte l’obolo, un mendicante scuro che aveva, come Antistene, lo sguardo fiero e fisso, prese i remi con braccio vendicativo e duro. Mostrando i seni penduli, e con le vesti aperte sotto la volta buia, donne si contorcevano, e come un vasto branco di vittime lì offerte, dietro di lui lunghissimi ululati emettevano. Sganarello ridendo gli chiedeva la paga, don Luigi, col dito tremolante ed ossuto, mostrava a tutti i morti, turba labile e vaga, l’empio figlio, oltraggioso del suo capo canuto. La casta Elvira, in lutto, tremante e smunta in viso, presso il suo sposo perfido, il suo amante violento, sembrava lo implorasse d’un estremo sorriso che avesse la dolcezza del primo giuramento. Un grande uomo di pietra, chiuso nell’armi, stava immobile al timone, fendendo il nero flutto, ma, curvo sulla spada, calmo, l’eroe guardava il solco della barca, disdegnoso di tutto.
spleen di Parigi) - «Scanniamo i poveri» - racconta di aver preso a calci e pugni un povero mendicante anziano, ma solo per provocarlo ed esserne poi ripagato («mi pestò gli occhi, mi ruppe quattro denti… mi picchiò di santa ragione»), e per concludere così: «gli avevo dunque reso l’orgoglio e la vita». Altro che immoralista o esteta delle sensazioni squisite! Qui, in questo «dandy che riesce a sentire il valore della carità» (Macchia), ritrovavo - ben al di là della famigerata «stroncatura» di Sartre - un intrepido maestro di moralità, un interprete lucido del pensiero critico. Torniamo ai Fiori del male. Il mito di don Giovanni ha avuto innumerevoli versioni dalla commedia seicentesca, e vagamente controriformistica, di Tirso da Molina: si passa dal personaggio di Moliére, quasi un Tartufo, arido e calcolatore, all’eroe mozartiano, edonistico e tragico, che per Kierkegaard incarnava l’immediatezza sensuale proprio in quanto ope-
Charles Baudelaire
ra musicale. Eppure nessuno ha saputo descrivere in modo paradigmatico, come Baudelaire, la natura intimamente borghese e «autistica» di questo libertino impenitente. Nei versi su riportati ci appare come una figura calma e immobile (le calme héros), che guarda fisso la scia della barca, indifferente a tutto (ne daignait rien voir). Come sempre la pena è già, al presente, nell’atto del peccato, cioè nel come vive chi pecca. All’inferno il don Giovanni di Baudelaire è esattamente com’era sulla terra: solo, catatonico, con la sua tetra serietà. Seduce continuamente le donne per non essere sedotto: ricurvo gravemente sulla spada (che tiene per difendersi dall’«altro»), sigillato per sempre nel culto della sua identità granitica, illusoriamente compatta.
L’IO DI COLE IMPRIGIONATO IN UNA SFERA in libreria
Avere paura in una casa vuota con la notte che preme oltre il vetro. Spavento del lato sterminato del mondo dietro il mondo dietro tutte le cose. E resto qui. Nella casa gelata. Resto, non torno.
Mariangela Gualtieri Da Bestia di gioia, Einaudi
di Giovanni Piccioni
utoritratto con gatti di Henri Cole, a cura di Massimo Bacigalupo (Guanda editore, 20,00 euro), è un’antologia di tre raccolte: L’uomo visibile (1998), Terra di mezzo (2003) e Il merlo e il lupo (2007). Come scrive Bacigalupo, con tali opere il poeta americano compie una svolta dal formalismo accademico e dall’impersonalità del lavoro precedente a una poesia «insieme scoperta (visibile), dalla dizione lineare e ricca di sfumature, colloquiale e formale». Cole si mette in gioco e dà forma d’arte a una realtà indistricabile. Quest’ultima appare perlopiù come un riflesso dell’io; un io sentito nella sua precarietà: il poeta è un uomo del Sud,
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omosessuale, single, cattolico per formazione, con forti tensioni problematiche nei confronti delle figure dei genitori. È una poesia della «vita reale», al cui centro sta l’esplorazione autobiografica («un senso dell’io imprigionato in una sfera,/ che non si sarebbe mai rivelato a nessuno»). La sincerità concisa, l’uso di immagini come simboli di sentimenti e la frequente forma del sonetto non rimato sono le caratteristiche formali più evidenti. Quanto alla complessa componente religiosa, essa ispira versi conflittuali e invocazioni, come nella chiusa di Autoritratto con calabroni: «… Signore, insegnami a vivere. Insegnami ad amare. Stenditi su di me».
Classica
MobyDICK
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spettacoli DVD
QUATTRO PASSI TRA LE STELLE DEL JAZZ
di Jacopo Pellegrini
ltro che invecchiamento; il destino cui è andata incontro la Nuova musica del secondo dopoguerra non è stato - in barba al pronostico del critico e pensatore tedesco Heinz-Klaus Metzger - di precoce senescenza, dovuta all’incessante ricerca del nuovo a ogni costo, ma di oblio, e completo per giunta. È così potuto accadere che la riproposta, nell’ambito dell’estrosa rassegna parmigiana Traiettorie (un panorama della produzione recente e contemporanea senza prevenzioni o paraocchi), d’una tra le prime «azioni teatrali» (non opere, dio liberi!) concepite in seno alla consorteria dei compositori postseriali, Die Schachtel (La scatola) di Franco Evangelisti (1926-’80), questa riproposta, dicevo, abbia assunto i tratti d’un revenant, d’un messaggio dall’aldilà. Romano, autodidatta o quasi in fatto di musica, dopo La scatola, che risale al 1962, Evangelisti smise in pratica di comporre. L’afasia, la negazione assoluta (adornianamente parlando) era una delle eventualità connesse a questa ricognizione dell’inaudito, e colpì proprio lui. Che, d’altra parte, era ben cosciente del pericolo (infatti, passò l’ultima parte della vita a scrivere un libro intitolato Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro) e volle dargli consistenza auditiva e visuale nella nostra «azione mimoscenica» per voce, mimi, proiezioni, nastro magnetico, orchestra da camera, ideata di concerto col pittore Franco Nonnis (1926-89). Pittore, non scrittore, giacché non d’una storia lineare, con un inizio uno svolgimento e una fine, si tratta, bensì d’un concentrato di suggestioni visive e sonore, unico modo possibile - stando a Evangelisti - di «far sopravvivere l’azione teatrale in musica»; e voce recitante, non canto, dal mo-
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Quell’apologo amaro sui destini della civiltà
Televisione
retha Franklin, George Gershwin, Sarah Vaughan e Glenn Miller. Sono quattro i jazz hero prescelti da Dolmen Video per un prezioso cofanetto rieditato in questi giorni, «I maestri del jazz». La Regina del Soul, primo della serie, contiene rare performance dal vivo (Respect, Chain of Fools). Seconda puntata è George Gershwin Remembered, dove spiccano i brani classici del maestro eseguiti dalla Royal Philharmonic Orchestra. Sarah Vaughan & Friends vede l’artista impegnata a duettare con Dizzy Gillespie, Maynard Ferguson, Herbie Hancock e Billy Higginson. Infine, Glenn Miller L’eroe della musica americana, con testimonianze d’autore.
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mento che col pubblico non si vuole stabilire un’empatia sentimentale, ma se del caso intellettuale, aiutarlo cioè a prendere coscienza dell’alienazione imperante nella società odierna (ancora Adorno, Marcuse, ecc.). Non più ripresa da oltre trent’anni, a Parma Die Schachtel ha potuto contare su un’esecuzione musicale inappuntabile, con Marco Angius intento a coordinare bravamente un pugno di solisti eccellenti (ricordo il flauto, il fagotto, il contrabbasso e i due percussionisti, come coloro che vantavano le più sbalorditive modalità strumentali, ma erano peritissimi tutti) e con Salvatore Sciarrino, nientemeno, supervisore-revisore della partitura. Della parte visiva, affidata a Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, funzionava l’impianto scenico, cogli artisti e gli spettatori (entusiasti) sistemati all’interno d’una «scatola» formata da quattro schermi per le proiezioni; né mancavano soluzioni eleganti e suggestive (gli effetti luce/ombra). Discutibile, invece, la decisione di trasformare i mimi in attori: le diverse
componenti è prescritto che restino separate, pertanto i frammenti testuali devono provenire da un altoparlante, al pari dei rumori stradali fissati sul nastro; e farneticante l’inclusione di affreschi correggeschi (la cupola del duomo parmigiano) tra le immagini proiettate, quasi a suggerire una soluzione positiva per questo «apologo amaro sui destini della civiltà» (Mario Bortolotto). In riferimento al quale Giordano Ferrari, in un bel saggio uscito su Musica/Realtà del marzo 1996, ha parlato di primo spettacolo multimediale. Si può essere o meno d’accordo, fatto sta che dal vivo l’elemento sonoro (di musica vera e propria è difficile parlare: altezze e ritmi di rado sono indicati), imperniato sull’effetto fisico di procedimenti dinamico-agogici elementari (addensamento/rarefazione, crescendo/diminuendo, esplosioni/silenzi, ecc.), attira irresistibilmente l’attenzione su di sé e mantiene sempre vigile l’ascolto grazie a un lavorio incessante intorno alle proprietà timbriche e ai modi d’attacco degli strumenti.
LIVE
A ROMA LA FESTA DEI TALENTI D’EUROPA arco Maccarini e Orsetta Borghero presentano La notte della musica emergente, la grande festa live della musica emergente, gratis e per tutti. In concerto il 27 novembre all’Atlantico, discografici, addetti ai lavori e appassionati pronti a lanciare il meglio delle band italiane ed europee, da La Fame di Camilla a House of Noises, dagli inglesi The Lottery agli spagnoli Festour. Tra gli ospiti Mogol, Marcello Balestra (Warner Music Italy), Dario Giovannini (Carosello Records), Massimo Bonelli (Cni Music), Giampaolo Rosselli e molti altri addetti ai lavori.
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di Francesco Lo Dico
Il sociale a Geo&Geo: la resurrezione parte dai ragazzini l programma Geo & Geo, così bene condotto da Sveva Sagramola (Rai 3, pomeriggio) è un’alternativa intelligente alla cascata di serial disneyani - pur costruiti bene - improntati sulla comicità, sulle gags, sulle soap-opera per giovani adulti con personaggi fissi. Da un po’ di tempo Geo & Geo ha una sorta di introduzione documentaristica a carattere sociale. Domanda: chi la segue veramente? Padri e madri lavorano, i ragazzi o fanno i compiti, sport o sono attratti dalle sirene dei filmati umoristici. Forse i nonni? È un peccato quindi che la scuola non saccheggi questi reportage per usarli come materiale didattico. Ma, si sa, la scuola ha uno scheletro ancora rigido, salvo eccezioni dovute alle sensibilità dei singoli insegnanti. In ogni caso le varianti al programma scolastico si limitano in gran parte alle cosiddette gite culturali. O al Colosseo (Roma) o al castello Sforzesco (Milano). Oppure incursioni in qualche cascina o laboratori dell’hinterland. In una delle
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puntate di Geo & Geo la macchina da presa s’è fermata sull’Italia che certa propaganda politica non tanto oscura relega nel silenzio in quanto deprimente, o addirittura offensiva per il vessillo dell’ottimismo nazionale. Capita in piccolo quel che è capitato al film Gomorra tratto dal romanzo-saggio di Roberto Saviano. Un atteggiamento che ricorda certe massaie inglesi che buttano la polvere sotto i tappeti. I panni sporchi sono considerati una vergogna, ancora di più se il film si esporta. Salvo poi porre domande sull’origine di certi atti criminali, individuali o collettivi. C’è sempre un preciso humus dove nasce la malapianta del disagio sociale o psichico. Periferia (orrenda) di Napoli, ancora una volta. Casermoni-case che indurrebbero chiunque a intentare
un processo contro l’assessore all’urbanistica. Sporcizia ovunque, polizia assente, controllo sociale zero. Siamo in un quartiere di Ponticelli. Ma il reportage vira sull’ottimismo del fare: non quello statale, che manca proprio, semmai quello dei volontari, delle comunità sociali le cui iniziative saranno anche, come è stato detto, «una goccia nel mare», ma hanno il pregio di tracciare il percorso verso il salvataggio dei diseredati, la resurrezione urbana. Partendo dai ragazzini.Tutti vorrebbero fare i calciatori o i «meccanici di motorino».Van-
no a scuola in modo irregolare, allora c’è chi li recupera e affianca all’attività didattica quella ludica. Con intelligenza e senza retorica. Un esempio: in un grande spazio viene organizzata una gara con i trampoli. Sembra una sciocchezza, invece dietro c’è una spiegazione: «Sono in genere ragazzi che usano la violenza, che si muovono con grande sicurezza fisica. Il fatto di essere instabili, allegramente instabili, sui trampoli dà loro una nuova sensazione, quella dell’instabilità, e un nuovo bisogno, quello di chiedere il sostegno di qualcuno. L’intenzione di questi eroici volontari è anche quello di insegnare i rudimenti di un mestiere. Sì, perché la camorra è in agguato. E la polizia non si vede mai: tutti vanno in motorino senza casco. Ma queste cose la signora Jervolino, sindaco di Napoli, le sa oppure fa finta che non esistano? (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
n Io sono con te di Guido Chiesa, l’Annunciazione avviene senza apparizioni, arcangeli, pronunciamenti. Maria, una pastorella mediorientale dalla carnagione ambrata e i capelli ricci, sta mungendo le pecore del suo gregge. D’un tratto lei si blocca. L’espressione del viso è un misto di allarme e sorpresa, mentre in colonna sonora udiamo il rumore di un’orda invisibile di cavalli al galoppo, il massimo di sovrannaturale che il film si permette: è sottile ed efficace. La macchina da presa si sposta verso il basso: l’unico segno tangibile dello sconvolgente concepimento avvenuto è la macchia di bianco che s’allarga per terra e il secchio della mungitura rovesciato. Il regista, che ha sceneggiato il film con Nicoletta Micheli, che è anche sua moglie, ha risposto con lucida passione all’esortazione perenne agli artisti: «Rendi nuovo il già noto». È il caso della vergine madre e suo figlio. Il progetto narrativo, che segue i primi dodici anni di Gesù, è stato ispirato da una donna, Maeve Corbo, che ha incantato Micheli e Chiesa con un’intuizione folgorante, che come le migliori idee ha il dono della semplicità. La mente, la personalità, il carattere rivoluzionari di Gesù di Nazareth, così liberi da condizionamenti tribali (lapidazioni di adultere, sottomissione delle donne) era il frutto dell’educazione e dell’esempio in primo luogo della madre. Il senso del film risiede nella certezza che la madre di un bambino che era divino ma anche pienamente umano, non era un vessillo passivo, ricolmo solo di bontà e dolore. Era la prima e fondamentale educatrice di chi era stato mandato a svegliarci dal torpore morale.
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nica una straordinaria serenità». I film vincenti al Festival di Roma, non affascinanti, sembrano scelti dalla giuria per i temi politicamente corretti più che per le qualità cinematografiche, a eccezione della nerissima commedia grottesca vincente Kill Me Please (a favore della correttisima eutanasia, però). Io sono con te meritava il Marc’Aurelio d’oro o un riconoscimento importante; basta vedere gli altri per fugare ogni dubbio - e non è stato premiato proprio a causa del tema assai impolitico e pochissimo di moda nel mondo del cinema insofferente di temi religiosi. Da non perdere.
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Pura sin dal concepimento e dalla nascita, Maria doveva essere per ciò stesso illuminata, dolcemente ribelle a precetti e consuetudini crudeli; e anche lungimirante rispetto ai tempi. Come poteva essere altrimenti? Nulla nasce dal nulla, e l’onnipotente si serve delle persone per compiere il suo disegno, non di burattini ma di esseri consapevoli, autonomi. Una donna con lo sguardo largo sul mondo (figlia di un’altra donna di straordinaria apertura) ha tirato su un uomo libero. Questa lettura dà più spessore alla figura defilata e pallida di Giuseppe, qui un vedovo con due figli, unico elemento tratto dai Vangeli apocrifi. «È una lettura eterodossa ma non eretica» afferma il regista, per il quale l’avventura del film è diventata un percorso di conversione per lui e Micheli, che s’accingevano a diventare genitori. Il carattere docile e mansueto di Giuseppe s’arricchisce vicino a una moglie di carattere forte e sicura di sé, e s’illumina di significati. Accetta la paternità di un figlio non suo, e di anticipare i tempi del matrimonio con qualche perplessità ma un’istintiva fiducia nella giovane sposa trasparente e raggiante. Il falegname legge nello sguardo della ragazza che i suoi occhi non hanno mai tradito nessuno. È attratto più dalla ferma dolcezza della moglie che dal paternalismo prepotente e dogmatico del fratello maggiore Mordocheo. Giuseppe l’asseconda, media, evita gli scontri; riconosce la superiorità del baricentro morale di Maria. Chiesa è un ottimo regista con pedigree di rispetto. Ha
Ave Maria piena di grazia di Anselma Dell’Olio
fatto il tirocinio con Jim Jarmusch e Michael Cimino negli Stati Uniti, è tra gli autori rispettati del nostro cinema. Il film è girato in Tunisia con gli attori in gran parte presi dalla strada. Esce in versione doppiata, ma al festival di Roma era in originale: un misto di dialetto arabo (quello dei suoi attori non professionisti) per gli ebrei della Palestina e latino per i Saggi (professionisti come Giorgio Colangeli, Fabrizio Gifuni, Jerzy Stuhr) e per un roboante Erode (Carlo Cecchi). Scene e costumi sono semplici ed essenziali, i colori accattivanti, etnografici, la direzione degli attori ottima. Il tono, importantissimo per la riuscita di un film, è chiaro e sicuro dalla prima inquadratura, il ritmo buono e senza cali. Come scrive un critico non sospettabile di fideismo cattolico, Lietta Tornabuoni: «Il film… singolare e ben fatto, comu-
Avrebbe meritato di vincere il Festival di Roma il film di Guido Chiesa “Io sono con te” incentrato sulla figura della Vergine madre di Dio. “Illègal” di Olivier Masset-Depasse, dedicato alla condizione dei sans papier, ben fatto e ritmato, ha il pregio di non essere demagogico. Da vedere anche “I fiori di Kirkuk”
Illégal è il film belga che ha vinto al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Realisateurs. Opera seconda di Olivier Masset-Depasse, racconta la storia di Tania, un’immigrata clandestina russa (Anne Coesens, ottima), madre sola con un adorato figlio adolescente, Ivan. Con il ritmo e il taglio di un thriller psicologico, l’autore racconta le spaventose disavventure di una donna che si vede rifiutare la residenza permanente in Belgio, dove vive da otto anni; ma tornare nel suo Paese è impensabile. Arrestata senza documenti e rinchiusa in un centro di detenzione amministrativa, decide di fare scena muta. Sa che se non riescono a identificarla dovrà essere liberata dopo qualche mese. Angosciata per la separazione dal figlio, dalla noia della detenzione, e confusa dal complicato dedalo burocratico in cui è arrovellata, è disposta a tutto per ricongiungersi con Ivan e non essere deportata. Incontri e scontri con la burocrazia e con altre detenute, in particolare un’africana pestata brutalmente perché si convinca a farsi espatriare, elaborano un quadro degli orrori spesso kafkiani che incontrano i sans papiers, abbarbicati alla speranza di una vita che promette un futuro decente a se stessi e alla propria famiglia. È trattato con intelligenza e un’ideologia di sinistra non troppo demagogica. Masset-Depasse assicura che tutto quello che succede a Tania è capitato nella realtà «almeno una volta» (N.B. anche se, magari, non tutto alla stessa persona). È un film abile, ritmato e senza un attimo di noia. Da vedere. Golakani Kirkuk, i fiori di Kirkuk, di Fariborz Kamkari, è un’opera prima di produzione italiana, in concorso al Festival di Roma. È il primo film girato interamente in Iraq con soldi italiani, basato su eventi realmente accaduti durante il regime di Saddam Hussein. Attraverso la storia d’amore tra l’irachena araba Najla e il suo collega medico Sherko, un curdo conosciuto in Italia, si racconta la brutale persecuzione e genocidio della popolazione curda da parte del dittatore, che molti pacifisti e «realisti» vorrebbero ancora padrone di quel tormentato Paese. Per amore del suo uomo, Najla abbandona i privilegi e la protezione della sua famiglia, rifiutando la corte di un ufficiale per assistere Sherko, un partigiano curdo in clandestinità. La regia, un po’ acerba, è rinforzata dalla passione dell’autore curdo nel raccontare il calvario del suo popolo, così poco ricordato nella rissa perenne tra sostenitori pro e contro la guerra al terrorismo. La storia prende alle viscere e si ha paura per la coppia e per i loro amici e sodali perseguitati. Il cast è ben scelto, e Kamkari mette a buon frutto la sua affinità per il neo-realismo italiano. Da vedere.
Imisteri dell’universo
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ossediamo una piccolissima parte di quanto i nostri avi hanno prodotto a livello culturale e trasmesso o in forma orale o scritta. La distruzione di popolazioni nel corso di guerre o catastrofi ha certamente portato alla scomparsa del loro patrimonio culturale, spesso affidato a una o a poche famiglie. Si pensi che il libro degli annali del Kashmir, detto Rajatarangini, apparteneva a una singola famiglia di scribi che lo conservava negandone l’accesso agli estranei; gli inglesi per averne una copia fecero forti pressioni sulla famiglia reale, finché il testo in sanscrito fu dato al grande studioso Aurel Stein. Costui aveva molto viaggiato in Asia Centrale e a nord del Tibet, acquisendo gran parte dei preziosissimi manoscritti dal Sesto e al Dodicesimo secolo scoperti in una nicchia murata nel monastero buddista di Dung Huang. Stein, che passò i suoi ultimi anni fra le montagne di Afghanistan e India, tradusse il Rajatarangini, aggiungendo un’incredibile quantità di commenti, miranti soprattutto a individuare i luoghi citati negli annali, i quali partono da tempi assai remoti.
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Similmente esiste il rischio di perdita dei documenti epici ancora trasmessi solo in forma orale, causato dalla modernizzazione che tende a rendere i popoli dimentichi delle loro tradizioni (nell’Ottocento vivevano in Africa circa diecimila tribù, i cui membri si distinguevano per le tipiche scarnificazioni facciali; i giovani africani ora tendono a rifiutare questi segni tradizionali). Si pensi alla colossale epica di Manas dei pastori kirghisi, ancora memorizzati e recitati durante feste tenute periodicamente. Solo una piccola parte di questi versi è in forma scritta ed è stata tradotta in russo o inglese. E il nome dell’eroe Manas potrebbe riferirsi a Manu, ovvero «Uomo dotato di mente», con cui è in Asia spesso citato un sopravvissuto al diluvio, forse il Noè biblico, se la misteriosa terra di Urartu, dove l’ arca approdò secondo il Genesi, sia da localizzare non in Armenia (Urartu non è parola semitica o sumera) ma nella zona a nord dell’Himalaya, vicino al monte Kailash, dove sta il sacro lago di Manasorovar. E non possiamo dimenticare come l’India, dove antichi testi storici nel nostro senso occidentale praticamente non esistono, salvo il Rajatatarini, ha tuttavia un immenso e ancora poco esplorato patrimonio di informazioni storiche nei Purañas, composizioni in strofe, lette o cantate
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ai confini della realtà
Nel database di Plinio il Vecchio
di Emilio Spedicato da cantori speciali, in particolare nell’India meridionale. La maggior parte dei Purañas, composti in sanscrito o sue variazioni, esiste solo a livello orale, per un totale di circa due milioni di strofe; quelle scritte sono circa un quinto del totale, il che costituisce comunque un formidabile impegno di lettura, e si tenga conto che solo una piccola parte è tradotta in inglese. Passando ora al mondo classico grecoromano, anche qui esistevano poderosi lavori ora perduti, come in generale si è perduto oltre il 99% dei libri di allora. Ovvero dei settecentomila rotoli che pare esistessero nella Biblioteca di Alessandria, ne possediamo ora meno di settemila. Si sono perdute le opere di
guerre germaniche in venti volumi, dove certamente entravano anche ricordi dei suoi giorni di guerra in Germania. Plinio ebbe importanti funzioni nell’amministrazione dell’impero, ma nessuno poteva accedere a cariche civili se non avesse fatto anche il servizio militare, della durata una volta di dieci anni, poi ridotta a tre. Le Storie naturali, acquistabili ora in varie edizioni a un prezzo sostenuto, trattano di vari temi, come geografia, zoologia, mineralogia, economia, medicina. Sono basate su materiale che Plinio raccolse nel corso di numerosi anni, sia leggendo personalmente, sia facendosi leggere libri da uno schiavo quando ad esempio era a cavallo. Era
Le sue “Storie naturali” sono basate su materiale raccolto nel corso di molti anni e presentato senza essere inserito in una teoria generale. Alla maniera di Newton e del suo “hypotheses non fingo”. Ma immenso è il patrimonio culturale degli antichi andato perduto scrittori estremamente prolifici, come i 4000 libri del grammatico Didimo citati da Seneca nelle Lettere a Lucilio, e la Storia Universale in 144 volumi di Nicola Damasceno, più volte citata da Ateneo nel suo meraviglioso libro Deipnosofista, sopravvissuto in un singolo manoscritto. Ma fortunatamente siamo in possesso di una delle opere più belle dell’antichità, ovvero le Storie naturali di Plinio il Vecchio, in 37 volumi. Ricordiamo che Plinio aveva scritto altri lavori importanti ma ora perduti, fra cui una storia delle
uomo di memoria straordinaria. Lasciò al nipote, noto per le epistole dove sono citati i cristiani, centosessanta volumi di appunti, basati sulla lettura di circa 2000 libri di 500 autori (e mi vien da pensare che questo è circa il numero di libri che io ho letto negli ultimi trent’anni, da quando ho deciso di affrontare ricerche interdisciplinari...). Plinio presenta il materiale come un data basis, senza volerlo inserire in una teoria generale, come fece Aristotele con risultati generalmente errati. Possiamo quindi assimilarlo a Newton il quale, in merito a fenomeni come la gravitazione che gli erano in-
spiegabili nella loro natura profonda, rifiutò persino di spiegarli in via ipotetica, hypotheses non fingo (ma qui dovremmo anche ricordare che la maggior parte dell’opera di questo gigante del pensiero non è mai stata pubblicata).
Plinio nacque verso il 23 a.C. a Como, città fondata da Giulio Cesare nel 59 a.C. quale punto di partenza per raggiungere i territori oltre le Alpi. Cesare vi passò alcuni giorni di vacanza con Cleopatra, che da lì ripartì incinta per Alessandria, mentre lui andava a Roma per preparare la spedizione contro la Persia; e per essere ucciso, avendo imprudentemente sciolta la sua scorta di guardie ispaniche... Raggiunse Como da Milano, passando per la strada comasina o dei Giovi, costruita dai romani per collegare Genova al lago di Como. Strada che passa vicino a casa mia e quando la percorro il pensiero corre spesso a lui e Cleopatra, che forse viaggiavano in carrozza. Plinio come è noto morì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 AD, forse per soffocazione facilitata dall’asma di cui soffriva. Da Miseno, dove comandava la flotta imperiale, si era recato a Stabia vicino al Vesuvio per cercare di salvare delle persone. Un uomo, Plinio, fra i migliori rappresentanti della cultura e della humanitas romane.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Nel profumo del Sud, l’essenza dell’Unità d’Italia
LE VERITÀ NASCOSTE
Se il Sud risorge, l’Italia riparte. È questo che credo in riferimento all’unità d’Italia e alle scarse infrastrutture del Sud (strade, ferrovie, porti, aeroporti), al dover vivere continuamente nell’emergenza, ai giovani meridionali, intelligenti ed entusiasti, con quasi sempre buoni studi ma con poco lavoro, alla presenza di diversi movimenti per il rilancio del Meridione, attivi in tutto il Sud. Malgrado il Meridione sia sempre stato vessato, malgrado abbia cementato, con tanto sangue innocente versato contro l’esercito piemontese invasore, la costruzione di una unità nazionale, si ribadisce la volontà piena e convinta di dire no ad un’Italia che si divide sempre di più. Noi ci battiamo per abbandonare un percorso di individualismo e valorizzare la vasta rete di eccellenze che distingue e ha sempre distinto la gente del Meridione. E a chi ci denigra, ci maltratta perché non creiamo risorse e non ci sappiamo riscattare, diciamo che l’arte, la cultura, le bellezze paesaggistiche, le bellezze naturali, i siti archeologici, i frutti della campagna, le colline, il mare, il sole e l’aria che profuma di Sud sono la nostra risposta e l’essenza su cui basare la strategia e la filosofia del nostro risorgere.
Domenico
NON SONO NÉ DI DESTRA NÉ DI SINISTRA Non ho valori né di destra né di sinistra. Perché credo sia troppo riduttivo parlare di due schieramenti che sempre più rappresentano la faccia della stessa medaglia. Non ho valori né di destra né di sinistra, perché prima di quei “presunti” valori affronto problemi quotidiani. Non credo in quella dicotomia, perché ho quasi 30 anni e, nonostante abbia fatto i più disparati lavori, non sono mai riuscito a firmare un contratto che abbia previsto uno straccio di contributi. Non ci credo (in quei valori) perché non mi si dà la possibilità di lavorare, secondo i canoni del diritto che lo regolamenta. Non credo nella destra e nella sinistra perché trovo anacronistico che un laureato debba fare il suo primo step nel mondo del lavoro attraverso la formula dello stage non retribuito. Trovo anche assurdo che nessun ente o organo di Stato sia disposto a controllare quello che accade nell’aziende di questa penisola. Non sono né di destra e né di sinistra, perché la destra e la sinistra (come vengono intese oggi) mi hanno disinnamorato e mi hanno fatto rifiutare anche l’unico aspetto che questo mondo possa donarti: l’idealismo. Salute, istruzione, sicurezza e lavoro. Queste quattro paroline non dovrebbero essere vanto di una o di quell’altra parte. Dovrebbero essere un diritto di ogni italiano
e, quindi, neanche essere menzionate in proclami e annunci. Dovrebbero essere tutelate a prescindere con la tua nascita. Sono state invece strumentalizzate e divenute un valore della destra o della sinistra. Vorrei capire se pagare una stanza in subaffitto 500 euro sia più di destra o di sinistra, vorrei capire se ambire a due legislature per godere di una lauta pensione da parlamentare sia più di destra o di sinistra. E, infine, comprendere se la mia aspirazione a diventare un adulto sia, appunto, più un valore di destra o più di sinistra.
Alessandro Ribaldi
MUTAZIONI (CENTRO)SINISTRE La base del centrosinistra italiano di oggi sembra preferire i candidati comunisti a quelli cattocomunisti. È quanto confermano le elezioni primarie di Milano che hanno eletto a maggioranza Giuliano Pisapia, già deputato di Rifondazione comunista e oggi - con l’appoggio di Nichi Vendola già eletto alle primarie in Puglia - candidato di Sinistra e libertà al comune del capoluogo meneghino. Un ritorno al passato che fa credere piuttosto che avesse ragione Fausto Bertinotti e torto marcio i vari D’Alema, Prodi e Veltroni. A questo punto tanto varrebbe che in casa cattocom tornassero al Pds, alla Margherita, a Rifondazione e ai Verdi.Tutti assieme sarebbero
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Italia by night Osservare dall’alto la nostra penisola fa sempre un certo effetto. Ma vederla illuminata dalle luci delle città regala uno spettacolo mozzafiato! Ad ammirare per primo questo paesaggio è stato Douglas H. Wheelock, un astronauta statunitense che ha trascorso gli ultimi mesi a circa 350 km dalla Terra
Licenziato per un by-pass doppio WELLINGTON. Il neozelandese Murray Gardiner, 60 anni, è stato operato d’urgenza per praticargli un doppio by-pass coronarico in seguito a forti dolori al petto. Fortunatamente, l’intervento dei medici è stato tempestivo e gli ha salvato la vita. Dopo qualche giorno, anche il titolare della ditta dove lavorava da 11 anni, Julian Proctor, è passato a trovarlo in ospedale, ma non tanto per augurargli una buona guarigione, quanto per… licenziarlo. L’uomo ha motivato la decisione con il fatto che i tre mesi di riposo che i medici avevano prescritto a Gardiner in seguito alla delicata operazione erano troppi, e non si poteva permettere di pagarlo per lasciarlo a casa tanto tempo. Gardiner, comprensibilmente, sta valutando di fare causa all’ex-datore di lavoro, anche perché sostiene che l’emozione del licenziamento poteva causargli ulteriori problemi fisici. Già diversi avvocati si sono dichiarati disponibili ad aiutarlo. Proctor, dal canto suo, ammette che il licenziamento in ospedale è stato indelicato, ma sostiene che non aveva alternative: «Ho altri cinque dipendenti da pagare e devo fare funzionare l’azienda. Cos’altro potevo fare?».
destinati a perdere sempre e comunque in eterno, ma, almeno, con dignità. Se analizziamo infatti i risultati vediamo come il centrosinistra italiano abbia ereditato unicamente voti e una base politica e culturale che apparteneva al vecchio Pci, alla sinistra Dc e a settori dell’ambientalismo più radicale. Il tentativo di costruire un Pd all’americana era destinato a perdere in quanto il Pd americano è da sempre lontano anni luce non solo dalla sinistra come la intendiamo in Europa, ma ancor più lontano dal comunismo che ha sempre combattuto. Il centrosinistra dal ’93 ad oggi, peraltro, rappresenta culture profondamente conservatrici e minoritarie con un programma di governo statalista, burocratico, sindacatocratico, fondamentalista sull’ambiente e per nulla aperto nel campo dei diritti civili e individuali. L’economista Francesco Giavazzi, non a caso, in un saggio di qualche anno fa spiegava che «Il liberismo è di sinistra». Sì, ma di una sinistra europea: ovvero di matrice liberalsocialista e liberaldemocratica. Profondamente antistatalista e antiburocratica. Ovvero l’opposto del nostro centrosinistra in salsa cattocomunista. Oggi, questa compagine, grazie anche all’assurdo sistema delle primarie, sembra voler tornare al ’94, ovvero allorquando presentò l’armata Brancaleone di Achille Occhetto, senza prospettive alcune di radicali riforme liberali, liberiste e libertarie. Forse, magari, una sinistra laica, liberale e libertaria, in Italia, potrebbe anche vincere. A differenza dei vari centrosinistri che ancora mettono ceri a Togliatti e Berlinguer, dimenticando che loro furono amici dell’Impero sovietico. Occorre costruire, dunque, un nuovo schieramento politico che guardi ad un programma di riforme che attendono l’Italia dal ’94: laico, liberale, libertario e liberista. Addio, dunque, ai baffoni, ai baffini, alle mortadelle, alle croci e ai martelli.
Luca Bagatin
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grandangolo Geopolitica. Il generale Carlo Jean spiega l’intelligence moderna
Metti una spia nella Borsa (e difenderai lo Stato)
Basta con James Bond: il nuovo modello di agente segreto al cinema è Gordon Gekko. La separazione tra finanza, economia e nazione pone nuove sfide a tutte le agenzie di spionaggio: l’Occidente deve difendersi non solo dal terrorismo, ma anche dalla distruzione della ricchezza interna. Con nuove tecnologie e capitali senza frontiere di Pierre Chiartano rollano i muri, le torri gemelle e le borse, cambia il mondo e cambia anche l’intelligence. Dopo la prima ondata di globalizzazione, c’è il ritorno degli Stati con il corollario di interessi nazionali che sono la molla e la mission di ogni servizio segreto. Com’è cambiato l’universo della “barbe finte” e soprattutto cosa serve all’intelligence moderna per essere efficace? «Gli Stati tornano a causa della dissociazione tra finanza ed economia. Basta vedere quanto forti ed incisivi sono stati gli interventi a sostegno del sistema finanziario durante la crisi. L’obiettivo era che il tracollo non investisse anche l’economia reale», spiega il generale Carlo Jean, grande esperto del settore, intervenuto all’apertura di una serie di conferenze sul tema, organizzate dalla Fondazione Dragan a Roma. La storia racconta come l’intelligence sia nata con l’interesse degli Stati a difendere i propri affari, il benessere dei cittadini, il presente e il futuro delle istituzioni. Nella storia non mancano neanche i riferimenti biblici, «quando Mosè mandò i capi delle tribù a vedere cosa avrebbero trovato in Palestina, la terra promessa». L’antica Roma e prima ancora in Grecia il settore della raccolta delle informazioni e della cifratura dei messaggi era molto sviluppato. Sono gli ateniesi ad aver inventato la steganografia: messaggi tatuati sulla testa rasata dei messaggeri che partivano per la loro missione una volta rinfoltita la capigliatura. Non era però un sistema velocissimo. L’italiano Leon Battista Alberti,
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nel XV secolo, è stato il padre di un famoso sistema di codifica, come pure il francese Vigènere. «Si è cercato di evitare un fenomeno come nel 1929 e si tornasse a nazionalizzare le banche, le economie, si diffondesse un mercantilismo galoppante in cui la competizione economica si spostasse, poco a poco, in campo politico e militare. Il che fu una delle non ultime ragioni dello scoppio della seconda guerra
L’ipercompetizione economica ha riportato in auge l’interesse nazionale degli Stati, la cui difesa è la missione dei servizi segreti mondiale», spiega il generale, già addetto militare del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Quindi l’intelligence serve per preservare i sistemi democratici da malattie sistemiche, default economici e derive belliche. Non come vorrebbe certa pubblicistica in voga in Italia, dove i servizi sarebbero geneticamente «deviati», inclini al tradimento delle istituzioni e patologicamente concentrati a cancellare la verità storica di un Paese. Poi queste
realtà sono fatte da uomini e le persone sbagliano, deviano, tradiscono, cancellano, ma non per statuto o dovere d’ufficio, ma per volontà propria. «Ora il pericolo maggiore è stato evitato, ma la competizione continua a livello di sistemi Paese che sono diventati molto più autonomi che durante la guerra fredda. In un clima di forte competizione i governi devono prendere delle decisioni e devono avere elementi di conoscenza di ciò che faranno i loro competitori. Tutti i Paesi che non hanno un tipo d’organizzazione efficiente rischiano un declino molto rapido. Si rischia il collasso della comunità internazionale, perché ognuno tende a fare da sé. Basta vedere ciò che sta facendo la Germania o la Turchia con la ripresa del neoottomanismo». In Medioriente e nel Nord Africa, grazie a un attento utilizzo del soft power il ministro degli Esteri turco, Davutoglu sta aumentando l’influenza di Ankara. Per mezzo anche dell’attento utilizzo dei fondi sovrani dei Paesi del Golfo. «La geopolitica è la visione spaziale e la sintesi politica degli interessi nazionali», un tema vecchio come il mondo. «Il primo fu Mosè, quando mandò degli agenti segreti in Terra Santa per scoprire di quali risorse godeva». «Un servizio di altissimo livello fu quello della repubblica di Venezia.Tutti i comandanti di navi in partenza e in arrivo nella Laguna si recavano in uno speciale ufficio del Doge, dove ricevevano e fornivano informazioni. Ad esempio se la destinazione era Haifa, gli venivano segnalati i funzionari amici o corrut-
tibili. Una delle principali ragioni della durata della repubblica veneta fu proprio la sapiente organizzazione della sua intelligence. I rapporti degli ambasciatori veneziani sono, ancora oggi, citati come esempio mai superato di conoscenza totale di un Paese e della capacità di individuare i punti chiave utili alla politica della repubblica marinara». Ricordiamo che all’epoca il grosso, la moneta di Venezia, era un po’ come il dollaro oggi.
«La globalizzazione non si fermerà perché si basa sullo sviluppo delle Information and communication technology (Ict) e sulla basso costo dei trasporti. A patto di un pesante intervento della politica, continuerà. Ciò porterà a una ipercompetizione», con una differenza importante rispetto al passato: frontiere porose e dissociazione tra ricchezza, economia e Stato. «Lo Stato mantiene i propri doveri rispetto ai cittadini, ma la ricchezza è diventata nomade». I servizi segreti, se devono preservare gli Stati dai pericoli, devono muoversi bene nel campo dei meccanismi della distruzione della ricchezza: nelle borse e nel movimento di capitali. «Nel 1980 i prodotti di finanza derivata avevano un valore pari al doppio del pil mondiale, oggi sono sette volte la ricchezza prodotta globalmente». Un esempio della necessità di avere informazioni riservate riguarda le decisioni che deve prendere il ministro dell’Economia italiano in ambito europeo o del G20, che sono influenzate in modo notevole dal peso del
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La notizia della disfatta di Napoleone fu gestita in maniera spregiudicata sul mercato
I primi a speculare usando le barbe finte? I Rotschild, che fecero i soldi grazie a Waterloo debito e dalla capacità di apertura ai mercati. Decisioni che verrebbero enormemente facilitate «dal saper prima cosa faranno gli altri». Si può attingere alle fonti aperte, a fonti confidenziali, ma ci saranno aspetti mantenuti riservati. «Il segreto da forza durante un negoziato». La moltiplicazione dei tavoli di trattative internazionali conferisce all’intelligence, applicata allo spionaggio diplomatico, «un’importanza determinante». È cambiato anche il concetto classico di sicurezza, un tempo molto legato alla sfera militare. Oggi, i confini tra settori sono più sfumati. Gli Usa investono nel settore difesa il 45 per cento delle spese militari mondiali; fino al 2040 gli americani manterranno 11 gruppi portaerei, dopo dovranno decidere se eliminarne uno. Non c’è paragone con tutte le altre forze navali. Nessuno ha una capacità di copertura mondiale come quella di Washington. Le agenzie d’intelligence Usa, nel loro insieme, hanno un budget annuale da 80 miliardi di dollari, per fare un paragone si tratta di circa il 4 per cento del pil italiano. Ora tutti i governi vogliono avere dei servizi segreti all’altezza di un compito molto complesso.
Anche l’Italia, dall’unificazione in poi si è impegnata per sviluppare uno spionaggio funzionale. La società geografica italiana, la Società geografica commerciale, fondata da Pirelli e dalla Carlo Erba, oppure l’Istituto orientale di Napoli, avevano lo scopo di sostenere l’esplorazioni e la mappatura delle risorse minerarie nel mondo. Le missioni archeologiche, invece, potevano rilevare la struttura sociale delle zone in cui l’Italia avrebbe potuto sviluppare interessi economici. Con la guerra fredda questa visione si è persa, per motivi fin troppo
Il generale Jean: «Mosè fu il primo, quando mandò degli agenti segreti in Terra Santa per scoprire di quali risorse godeva» evidenti. Anche se si sono mantenute delle buone collaborazioni tra interessi economici e intelligence, «come ai tempi del Sifar con l’Eni». Enrico Mattei aveva un interesse particolare alla collaborazione istituzionale, perché serviva alla sicurezza energetica dell’Italia.
«Ogni grande gruppo disponeva di una propria struttura privata di intelligence». Oggi, in borsa l’andamento dei comportamenti non sempre è razionale, ma è dettato spesso dalla casualità. Il sistema stocastico e numeri di Fibonacci servono solo a codificare lo standard dei valori di borsa, speculazioni a parte. Dunque di fronte all’indeterminatezza degli eventi, per chi crede, serve aver fede. Per gli Stati serve un apparato di intelligence che sappia tener conto di una miriade di fattori che spesso scavalcano i confini delle vecchie competenze. Servono analisti con un grande intuito e una larghezza di vedute fuori dal comune, esperti in social engineering ed economia. Insomma, gli spioni del Duemila devono essere un po’guru e un po’ indovini.
no degli esempi storici più famosi delle intersezioni tra gestione delle informazioni, conflitti ed economia – portato ad esempio da Carlo Jean – è legato a un nome storico della finanza europea, capostipite delle dinastie dei grandi banchieri internazionali ed a una battaglia Napoleonica, punto di svolta di un epoca. Parliamo dei Rothschild e di Waterloo. È stata spesso trattata come una delle leggende che circolavano sul conto dei Rothschild, che avevano trasformato un soprannome Rot Schild (scudo rosso) – che campeggiava a Francoforte sull’ingresso della bottega orafa del capostipite – nel proprio cognome. Si narra che Nathan, il figlio inviato in Inghilterra da Amschel abbia seguito di ora in ora l’andamento della battaglia di Waterloo, attraverso le informazioni portate dai piccioni viaggiatori spediti da un corrispondente sul campo di battaglia. Un particolare questo di cui Jean dubita. «Avevano una rete di spie con un fiuto particolare sulle notizie che potevano influenzare l’andamento di borsa e le decisioni sugli investimenti». La sua fortuna sarebbe nata proprio con la battaglia combattuta nei pressi di Bruxelles. Ma se l’episodio dei piccioni non è certo, è invece provato che, di ora in ora, una sua imbarcazione attraversava la Manica per ottenere informazioni. L’interesse per l’esito della battaglia nasceva dalla volontà di speculare in borsa. A Nathan era chiaro che con una vittoria inglese, i titoli sarebbero saliti alle stelle, specialmente le ben conosciute rendite dello Stato, i cosiddetti «consolidati», mentre in caso di una sconfitta di lord Wellington, sarebbero crollati. Il giovane Rotschild, conoscendo in anticipo rispetto agli altri l’esito della battaglia favorevole agli inglesi, si precipitò in borsa dove anziché comprare come logico, vendette i titoli, ingannando gli altri operatori che subito lo imitarono credendo – in base al comportamento di Nathan – che gli inglesi fossero stati sconfitti. Ma forse fece di più: «mise in giro la notizia che a Waterloo gli inglesi avessero perso e che la guerra contro Napoleone sa-
U
rebbe continuata a lungo» spiega il generale Jean. L’inganno riuscì così bene che tutti si precipitarono a vendere e i Rotschild iniziarono a ricomprare rapidamente tutto quello che erano in grado di rastrellare, prima che venisse diffusa le vera notizia della sconfitta dei francesi. «Il guadagno netto di tutta l’operazione fu di circa un milione di sterline di allora. Intorno ai 20 miliardi di euro di oggi. Un esempio di come la gestione della comunicazione abbia scatenato fenomeni di panico, caratteristici dell’economia della paura».
I governi per poter reagire a questo tipo d’operazioni speculative, ne devono essere informati. Aggiungiamo anche che spesso sia nelle grandi battaglie, come per le grandi speculazioni finanziarie, il caso gioca la sua parte. Il grande scrittore russo Lev Tolstoj era un convinto assertore di questa teoria e aveva espresso una sua analisi sulla vicenda militare di Waterloo. Narra Tolstoj che «Napoleone non diresse l’andamento della battaglia (…) nessuna parte del suo piano fu attuata, e durante la battaglia egli non sapeva che cosa accadesse davanti a lui». Tolstoj nacque nel 1828, sette anni dopo la morte di Napoleone. Ma combatté nel Caucaso, osservò attentamente la guerriglia cecena, difese le mura di Sebastopoli, durante il lungo assedio della guerra di Crimea. Quando descrive due fra le maggiori battaglie napoleoniche sembra aver compreso ciò che molti generali rifiutano di apprendere. Sa che i grandi piani e gli ambiziosi disegni strategici scompaiono nel momento stesso in cui un nuovo generale, «il dio della guerra», scende sul campo di battaglia e si diverte a impartire i suoi ordini. Non esistono altre leggi, quando si combatte, fuorché quelle divine del caso e del caos, secondo il grande romanziere russo. Gli uomini credono di agire razionalmente e di conformarsi ai loro progetti. Ma possono soltanto, nella migliore delle ipotesi, rincorrere affannosamente avvenimenti imprevisti e inattesi. (P.Ch.)
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Lisbona. Si discute sullo scudo anti-missile. Mentre Germania e Francia trovano un compromesso sulla difesa nucleare
Obama e il rebus Nato Nuova missione impossibile del presidente: convincere Mosca senza irritare Ankara di Enrico Singer onvincere Mosca che lo scudo antimissile non è puntato contro la Russia e tentare, anzi, di associarla al nuovo piano di difesa immaginato da Washington. Convincere l’Europa che la Nato, ormai, è un’alleanza che sposta la sicurezza fuori dai suoi confini, soprattutto a Oriente.Tutto questo senza irritare troppo la Turchia che insegue un suo ruolo autonomo in una regione che comprende punti caldi come Iran, Siria, Israele e che non vuole vestire soltanto i panni del gendarme degli Usa. Quella di Barack Obama a Lisbona è una partita molto delicata, anche perché, prima di ogni altra cosa, il presidente americano deve dimostrare che né la crisi economica, né la batosta alle elezioni di Midterm lo hanno indebolito al punto di dover concedere trop-
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po a chi non la pensa come lui. Ieri, nella prima giornata del vertice del Patto Atlantico, sono state messe le carte sul tavolo. Oggi si tireranno le conclusioni. Con un solo - per quanto importante - punto già al sicuro: l’approvazione del documento preparato dal segretario generale, il danese Anders Fogh Rasmussen, sul nuovo concetto strategico della Nato. E con un impegno, confermato anche alla presenza del presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, di avviare il passaggio delle consegne - il termine “ritiro” è bandito dal vocabolario dell’alleanza - nel 2011 e di concluderlo nel 2014, se le condizioni lo consentiranno.
La triangolazione più difficile da realizzare è quella tra Russia, Europa e Turchia. Perché gli interessi dei protagoni-
sti non coincidono. A partire dal capitolo del sistema di difesa anti-missile. Lo scudo di Obama è un piano ben più ambizioso e costoso (20 miliardi di euro in 10 anni) di quello che era stato concepito dall’amministrazione Bush, che aveva scatenato le ire di Mosca e che il neopresidente americano, appena entrato alla Casa Bianca, aveva cancellato. Se Bush aveva pensato di costruire due mega-stazioni radar in Polonia e Repubblica ceca da interfacciare con rampe di missili terra-aria, il progetto di Barack Obama prevede di partire nel 2011 - e di concludere nel 2020 - con lo schieramento in quattro fasi di sistemi d’arma contro ogni tipo di minaccia balistica, da quelle a corto e medio raggio a quelle intercontinentali, per contrastare eventuali lanci di missili dal
Medio Oriente e dall’Asia centrale contro l’Europa e gli Stati Uniti. È sullo scudo che Russia e Turchia sollevano le loro obiezioni. Di segno opposto, perché Mosca pretende che sia messo in chiaro che il nuovo dispositivo di difesa non è rivolto contro la Russia e Ankara non vuole che l’Iran sia indi-
cato come la possibile minaccia da tenere a bada con lo scudo. Le preoccupazioni russe sono facilmente comprensibili. Quelle turche si spiegano in nome della nuova dottrina «zero problemi con i vicini» sulla quale Erdogan vuole costruire la potenza regionale della Turchia.
L’opinione di Robert E. Hunter, ex ambasciatore statunitense presso la sede atlantica e oggi alla Rand Corporation
«Ma oggi il Patto difende il mondo» l vertice Nato in corso in queste ore a Lisbona promette di essere particolarmente significativo, sia per l’Afghanistan che che per la presenza del presidente russo Medvedev. Robert E. Hunter, ex ambasciatore Usa alla Nato e oggi alla Rand Corporation spiega i punti salienti dell’incontro. Quello di Lisbona è un cambiamento epocale dell’Alleanza, soprattutto se paragonato a quello vissuto direttamente da lei in prima persona, quando era ambasciatore Usa presso la Nato fra il 1993 ed il 1998... Uno degli eventi più importanti che potrebbe verificarsi è che la Nato sistemi l’ultimo tassello del puzzle creato dall’ex presidente George H. W. Bush nel 1989 quando parlò di come costruire un’Europa unita, libera e pacifica. Il tassello mancante era un’efficace relazione tra la Nato e la Russia, e che la Russia svolgesse un ruolo positivo nel futuro della sicurezza europea. La visita di Medvedev è indicativa. Quanto di questo ha a che fare con la politica interna, Medvedev contro il primo ministro Vladimir Putin, non si può sapere, ma fa pensare che i russi abbiano calcolato che alla Russia convenga essere
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di Bernard Gwertzman più impegnata con la Nato e più partecipativa nei tentativi della Nato di ridefinire la sicurezza europea. Ora, un aspetto emblematico di questo ragionamento sarà fino a che punto i russi saranno disposti a firmare sulle nuove metodologie Usa-Nato di difesa missilistica balistica, pianificate, ovviamente, in primo luogo contro eventuali attacchi missilistici iraniani, ma in cui la Russia beneficerebbe di un miglioramento della propria sicurezza contro le minacce da sud e da est. In passato la Russia fece una battuta dichiarando che i tentativi degli Stati Uniti di portare alcune componenti di difesa missilistica in Polonia e nella Repubblica Ceca erano diretti contro la Russia. Si trattava sempre di propaganda di depistaggio, sembra comunque che i russi adottino un’attitudine
positiva a Lisbona e possano addirittura firmare quanto sarà proposto circa il sistema di difesa missilistica della Nato indicato dagli Stati Uniti. Il sistema di difesa missilistica è molto diverso da quello che aveva discusso l’amministrazione dell’presidente George W. Bush? Il primo sistema fu chiaramente percepito come un piano per proteggere gli Stati Uniti in quanto parte di una difesa missilistica a tre sia contro la Corea del Nord che contro l’Iran. L’attuale piano proteggerebbe anche tutta l’Europa, e proteggerebbe persino parti della Russia. Obama ha detto che gli Stati Uniti avrebbero iniziato a ritirarsi dall’Afghanistan nel luglio 2011. Il summit della Nato dovrebbe adottare un piano affinché l’Isaf riman-
ga in Afghanistan fino al 2014. Questa ovviamente è una modifica all’approccio statunitense, giusto? Annunciare un termine di tempo, anche se si tratta di alcuni anni, aiuterà i leader europei, la maggior parte dei quali subisce pressioni politiche per spiegare quanto a lungo ci si aspetta che i propri Paesi impegnino i loro eserciti in Afghanistan. Affermare che le operazioni militari della Nato termineranno nel 2014, ad eccezione dell’addestramento, ovviamente pone la questione su cosa succederà nel prossimo futuro, su quello che si chiederà agli alleati di fare militarmente nel frattempo ed inoltre non previene la revisione interna negli Stati Uniti che il presidente Obama sostiene di voler condurre il mese prossimo. Tuttavia il termine del 2014 contribuirà a evitare che l’Afghanistan dirotti questo summit. Ciò nonostante, i Paesi Nato dovranno ancora decidere quello che hanno realmente intenzione di fare, militarmente, nell’era “post-Afghanistan”. Adesso non si può prendere alcuna reale decisione, anche se il nuovo Concetto Strategico della Nato, che sarà presto reso pubblico, evidenzierà alcune dichiarazioni generali sul suo ruolo futuro.
mondo
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Washington vorrebbe trattare direttamente con l’Unione europea
E il concetto strategico riparte dall’Afghanistan Il Patto atlantico rinnova le regole per la sicurezza fuori dai confini. E ridà il potere a Karzai (nel 2014) di Antonio Picasso a dottrina della nuova Nato partirà dall’Afghanistan. Prima però farà scalo in Europa. A margine del vertice dell’Alleanza atlantica di ieri, ospitato a Lisbona, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto: «L’incontro di oggi e quello di domani Ue-Usa restano fortemente legati. È da questi che dovrà ripartire l’Alleanza». Il leader della Casa Bianca ha voluto sottolineare la necessità che la Nato si trasformi da un consesso multipolare, composto da Washington e dai singoli governi degli Stati membri, a uno essenzialmente bipolare. Gli Stati Uniti preferiscono confrontarsi solo con Bruxelles, in rappresentanza dell’Ue, piuttosto che con le singole cancellerie europee. È una questione di snellimento delle relazioni diplomatiche e militari. La proposta appare positiva. Per la Nato si potrebbe aprire una strada di semplicità politica e operativa. L’Unione europea stessa ne trarrebbe giovamento, sarebbe chiamata per forza di cose a definire quella politica estera e di difesa comunitarie che le mancano. Bisogna chiedersi, d’altra parte, quanto attori di un certo peso e che reclamano sempre un ruolo da protagonisti accetterebbero questa novità. Le ambizioni di Francia, Germania e Gran Bretagna – ma possiamo aggiungervi anche Italia e Spagna – spesso collidono con una politica estera Ue, che ridimensionerebbe la loro singola sovranità sul piano internazionale. Per tutto questo, bisogna aspettare in primis il vertice che si terrà oggi. Successivamente, si dovrà capire la direzione della Casa Bianca. Per quanto riguarda l’Afghanistan, il capitolo si potrebbe concludere con un “nulla da segnalare”. Se non fosse che le decisioni adottate ieri sono state formalizzate. E qui risiede l’importanza del vertice di Lisbona. In termini generali, è stata ufficializzata la trasformazione della sua identità. Secondo la nuova dottrina strategica, l’Alleanza passa dall’essere un soggetto statico a uno dinamico. Fondata all’inizio della Guerra fredda come blocco monolitico di protezione dell’Occidente di fronte ai Paesi del Patto di Varsavia, oggi la Nato dimostra la propria disponibilità a uscire dai confini macroregionali. È intervenuta nei Balcani e soprattutto è presente in Afghanistan. Il suo raggio d’azione è diventato globale. Il suo punto di riferimento non è più interno. Le decisioni in precedenza venivano esclusivamente prese dal collegio dei Paesi membri, anch’esso basato a Bruxelles. Oggi l’Alleanza si confronta direttamente con le Nazioni Unite e organizza missioni di pace per conto di
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Non solo: Ankara - che a differenza di Mosca è già parte integrante della Nato - chiede un posto di vertice nella catena di comando dello scudo e non vuole che i dati dei centri radar siano passati a Israele. La Russia, da parte sua, condiziona la sua eventuale partecipazione allo scudo a una «posizione paritaria in ogni stadio del sistema», come ha detto il ministro degli Esteri, Serghej Lavrov. Rasmussen ha anticipato al Financial Times che nei documenti del vertice della Nato l’Iran non sarà additato come la «principale minaccia» da fronteggiare. E Oba-
colga adesso quello di Obama. Ma il varo del nuovo dispositivo di missili anti-missili ha fatto emergere sensibili divergenze anche in Germania e in Francia sul concetto più generale del sistema di difesa europea che comprende anche l’ombrello di dissuasione nucleare.
Parigi e Berlino hanno raggiunto un accordo in extremis, proprio alla vigilia del vertice di Lisbona, sul testo del documento finale che sarà sottoscritto oggi. Naturalmente, è un compromesso. La Germania ha rinunciato a condizionare il
Il problema è riuscire trovare un nemico da cui difendersi: la Russia non vuole essere il bersaglio, mentre la Turchia insiste per non mettere nel mirino la Repubblica iraniana ma sembra disposto a rassicurare Mosca che, in cambio, è pronta ad ampliare le vie di transito per l’Afghanistan sul suo territorio e potrebbe anche mettere a disposizione di Kabul elicotteri e addestratori riproponendo - sia pure in forma minima - la presenza a Sud del fiume Amudaria degli shuravi, come gli afghani chiamavano i sovietici ai tempi dell’invasione. La realpolitik ha le sue regole. Ma, alla fine, è sempre meno chiaro perché e contro quale minaccia deve essere costruito lo scudo anti-missile. Le perplessità attraversano anche l’Europa. Quella orientale, che è stata per mezzo secolo sotto l’impero comunista e che, ancora oggi, conserva nei confronti di Mosca una buona dose di sospetto, aveva accolto lo scudo di Bush meglio di quanto non ac-
suo sì allo scudo a un «impegno collettivo per il disarmo nucleare», come voleva finora Angela Merkel. E la Francia di Nicolas Sarkozy, che non vuole abbandonare la sua force de frappe atomica, ha accettato che la difesa antimissile non sia definita come un «semplice complemento della dissuasione nucleare». Il giornale francese Le Figaro, che ha dato la notizia dell’intesa, ha scritto che il testo, redatto in inglese, ricorda che «la dissuasione, fondata su un dosaggio appropriato delle capacità nucleari e classiche, resta un elemento centrale della strategia d’insieme», ma definisce anche il futuro scudo come «un elemento centrale» della «difesa collettiva». Per Obama, dopo il voto di Midterm e le delusioni del G20, un altro risultato a metà.
queste ultime. Resta aperto il capitolo sull’allargamento. L’intenzione di coinvolgere altri Paesi, in particolare ex satelliti dell’Unione sovietica, non è stata scartata.
La realizzazione di quest’altro progetto sarebbe un’ulteriore dimostrazione che la Nato miri a essere un interlocutore a 360 gradi sullo scacchiere mondiale. Tuttavia, il silenzio sulla questione può far pensare che non si sia voluto infastidire Mosca, con cui il dialogo resta prioritario. Nello specifico dell’Afghanistan, la Nato ha voluto ascoltare sia le pressioni di cominciare a scrivere le ultime pagine dell’esperienza afgana, sia quelle del presidente Karzai di cedergli progressivamente le responsabilità della sicurezza nazionale già dal prossimo an-
Secondo la nuova dottrina, l’Alleanza passa dall’essere un soggetto statico a uno dinamico: in pratica dimostra la propria disponibilità a uscire dai confini macroregionali
no e per concludersi nel 2014. Non c’è ombra di dubbio che si tratti di una scelta azzardata. Dopo quasi nove anni di guerra, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato e le istituzioni di Kabul dispongono di un consenso che non era mai stato così basso da dopo la caduta dei talebani. Ritirarsi ora può vorrebbe dire abbandonare il Paese alla sua guerra, creando una fotocopia della Somalia o dell’Iraq nel cuore dell’Asia. Strategicamente il pericolo non giunge solo dai talebani, ma anche dalle opportunità che si offrono alle potenze regionali – dall’Iran alla Cina, dalla Russia all’India, senza trascurare il Pakistan – di fare del Paese una loro preda. Se così fosse, il fallimento non sarebbe da attribuire solo alla Nato e all’Ue, ma anche all’Onu. È di quest’ultima la paternità della missione Isaf con la Risolizione n.1386 del Consiglio di Sicurezza, datata 20 dicembre 2001. Del resto, bisogna ammettere che, se in nove anni il problema non è stato risolto, è giusto che la Nato riveda la propria tattica sul campo e cerchi di capire il motivo di una missione di pacificazione non riuscita.
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Usa. Il nuovo lavoro del regista di “No End in Sight”, candidato agli Oscar opo No End in Sight sulla cattiva gestione della guerra in Iraq, nominato nel 2008 per il premio Oscar, il regista Charlie Ferguson ha girato un nuovo documentario sulla crisi economica americana: Inside Job, presentato fuori concorso all’ultimo festival di Cannes, è uscito negli Stati Uniti solo poche settimane fa. In inglese l’espressione “Inside Job” viene colloquialmente definita come «un atto criminale, un furto, attribuito ad una persona assunta dalla vittima o ad una persona della quale ci si può fidare perché al di sopra di ogni sospetto». Per Ferguson questo è ciò che è accaduto all’economia americana a partire dalla crisi del 2008. Coloro di cui ci si poteva fidare hanno derubato i cittadini che avevano affidato loro il proprio denaro e non solo non sono finiti in galera, ma provano non neanche il minimo rimorso per quello che hanno fatto. Composto di numerose interviste cucite per dare un quadro d’insieme del problema, con un narratore d’eccezione come Matt Damon, il film presenta accuratamente il mondo ovattato e irreale della finanza americana. Molti di coloro a cui sono state richieste interviste tra cui ministri del Tesoro, manager di Goldman Sachs o ad di grandi banche come Robert Rubin, Henry M. Paulson o Geithner hanno rifiutato.
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Sotto accusa ambedue i partiti politici americani le cui rispettive amministrazioni hanno incoraggiato ed espanso ad libitum il mercato dei cosiddetti “derivati”, quello che ha causato la crisi economica, mentre l’allarme lanciato da economisti come Rajan Raghuram dell’International Monetary Fund nei confronti di un “crollo catastrofico”è passato inosservato. Allo stesso tempo i banchieri, specialmente alla Goldman Sachs, scommettevano contro i prodotti che loro stessi suggerivano ai loro clienti. Si è creato così un complesso sistema di scatole cinesi nel quale dopo avere erogato prestiti a clienti che non avrebbero potuto onorarli questi venivano ac-
“Inside Job”, la crisi vista dall’interno La deregulation, le truffe azionarie e la cupidigia hanno distrutto il Paese di Anna Camaiti Hostert
Oltre al mondo economico e politico, Ferguson mette sotto accusa anche il mondo universitario, suggerendo che molti economisti siano corrotti cumulati in buoni del Tesoro, apparentemente sicuri, in realtà semplicemente certificati da agenzie pagate dalle banche e assicurati attraverso strumenti finanziari concepiti per ridurre i danni derivanti da un fallimento creditizio. Scommessa su scommessa si è arrivati ad un collasso dell’intero edificio con la conseguente perdita di posti di lavoro, case, pensioni e fiducia nella classe politica. Ferguson non si nasconde dietro teorie del complotto e neanche propende per spiegazioni strutturali o sistemiche. I mercati, secondo la sua tesi, non si spostano da soli. Mani visibili scrivono le leggi e fanno accordi tra pochi eletti guidando uomini (e, va
detto, soprattutto uomini) seppure di grande talento verso una follia collettiva. Oltre al mondo economico e politico, Ferguson mette sotto accusa anche il mondo universitario, suggerendo che molti economisti, mantenendo posizioni accademiche che dovrebbero essere al di sopra di ogni partigianeria, sono stati corrotti attraverso consulenze stellari o partecipazioni molto lucrative a consigli di amministrazione di banche o di aziende di credito. Ferguson, con una laurea in matematica e un dottorato in scienze politiche conseguito al M.I.T., è divenuto durante gli anni ’90 imprenditore e consulente tecnologico. Dopo avere studiato il
rapporto tra tecnologia, economia, politica e globalizzazione si è infatti immerso nella sua “seconda vita” durante la quale con la sua società ha creato uno strumento di sviluppo del Web chiamato FrontPage.
Nel 1996 ha venduto la sua società Vermeer Technologies a Microsoft per 133 milioni di dollari. Solo in seguito - in parte con il ricavato della vendita della sua società e della sua invenzione, in parte con il supporto di persone qualificate - è divenuto regista. In Inside Job Ferguson con la stessa lucidità mostrata in No End in Sight, presenta, tra le altre, interviste a persone interne al sistema come Glenn Hubbard esperto economico di George W. Bush e a Paul Volcker, Chairman, sotto Carter e Reagan, della Federal Reserve. L’idea del documentario gli è venuta nel 2008, leggendo il li-
bro di Charles Morris The Trillion Dollar Meltdown nel quale l’autore spiega dove il mercato abbia compiuto una svolta sbagliata e si sia verificata una caduta libera dell’economia che ancora sta devastando il Paese e il mercato.
«All’inizio, dopo aver letto il manoscritto – ha affermato Ferguson in un’intervista al Wall Street Journal- ho pensato che Morris stesse esagerando. Poi mi sono reso conto che quello che aveva scritto si stava verificando. L’argomento centrale del mio documentario è che la deregulation, iniziata sotto Reagan negli ani ’80, ha portato alla crescita di quella che, senza esagerazione, è stata l’ascesa di un’industria criminale. La finanza americana è divenuta infatti un’industria criminale, particolarmente quella degli investimenti bancari. Questo è vero in due sensi: il primo, estremamente letterale, riguarda il fatto che questa gente ha infranto la legge e alcune importanti istituzioni finanziarie sono già state condannate per questo. Il secondo ha determinato una trasformazione della cultura degli investimenti bancari: è scomparso ogni tipo di restrizione a ciò che si può fare a certi livelli. Dal momento in cui l’industria è divenuta più ricca e potente si è determinata una corruzione esponenziale delle istituzioni e della gente che avrebbero dovuto controllarla. Una delle cosa che mi hanno sorpreso di più, in una situazione analoga a quella che si è verificata nella guerra in Iraq, è stata l’incredibile incompetenza governativa. Infine quello che mi ha deluso più di tutte, è stato il comportamento dell’amministrazione Obama, che non è riuscita a trovare soluzioni adeguate a questo grave problema che continua a persistere. Penso che solo una crescente rabbia popolare e il rifiuto dell’attuale situazione potrà determinare un cambiamento. Certo se si mettessero metà dei top manager di Goldman Sachs di Morgan Stanley, di Lehman Brothers o di Merryl Lynch in prigione, forse non ci sarebbe bisogno di ulteriori regolamentazioni del sistema».
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La polizia cerca di frenare i manifestanti dopo la guerriglia
Altre 16 nazioni “chiedono tempo” per dare una risposta
Thailandia, i “rossi” scendono in piazza
Nobel a Liu, aumentano le defezioni alla cerimonia
BANGKOK. La polizia a Bangkok
OSLO. Sei Paesi hanno decli-
ha cominciato a creare blocchi stradali nei crocicchi più importanti del quartiere commerciale della città in preparazione di una marcia di protesta di migliaia di camice rosse che si terrà verso sera. La protesta vuole far ricordare le dimostrazioni violente avvenute sei mesi fa, quando in seguito alle proteste e alla severa repressione delle forze dell’ordine 90 persone persero la vita.
nato, senza fornire motivazioni, l’invito del Comitato per il Nobel per la pace a partecipare alla cerimonia di consegna del premio conferito al dissidente cinese Liu Xiaobo, detenuto in carcere dal 25 dicembre scorso. La cerimonia si terrà il 10 dicembre a Oslo: Russia, Kazakhstan, Cuba, Marocco, Iraq e la stessa Cina non parteciperanno. Liu, dissidente e autore del manifesto democratico Carta ’08, è stato condannato a 11 anni di carcere da un tribunale cinese per “sovversione del potere statale”. Nel documento, che ha raccolto migliaia di firme in tutta la Cina, Liu chiede al governo di introdurre una riforma politica
Il Piccolo Principe contro i talebani
Le ambasciate hanno avvertito i loro connazionali di stare alla larga dalla zona interessata dalla protesta, dal momento che la polizia e gli organizzatori stimano i partecipanti alla marcia in un numero oscillante fra le dieci e le quindicimila unità. Una sfida implicita al decreto che proibisce manifestazioni pubbliche di più di cinquecento persone. Gli organizzatori hanno promesso che la manifestazione sarà pacifica, e che il corteo si disperderà dopo tre ore. Parecchie centinaia di membri del Fronte unito per la democrazia contro la dittatura, vestiti di rosso e nero, hanno già dato vita a una manifestazione pacifica fuori della prigione in cui sono detenuti 19 leader del movimento, sotto giudizio con l’accusa di terrorismo. Iniziata verso la metà di marzo 2010, la protesta dei ma-
Iniziativa spagnola per i bambini e le donne afghane di Etienne Pramotton un personaggio della fantasia a correre in aiuto della pace in Asia centrale. Anche Il piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery può favorire la sicurezza dell’Afghanistan, contrastando l’influenza dei talebani sulla popolazione. Ne è convinta l’avvocatessa spagnola, Fuencisla Gozalo, promotrice della traduzione in dari, il dialetto del farsi (parsi) più parlato in Afghanistan, del libro e della sua distribuzione nella provincia di Baghdis, nel nord-ovest del Paese. In quella regione sono impegnate le truppe del contingente spagnolo dell’Isaf, la missione multinazionale della Nato. Ieri la presentazione ufficiale dell’iniziativa alla stampa internazionale. Questa volta non si tratta di una guerra culturale per stabilire la supremazia di un modello politico, come avvenne durante la guerra fredda, ma solo il tentativo di aprire la finestra tra un universo dove i bambini muoiono, vengono sfrittati e diventano merce di scambio e quello c cui dovrebbero ambire tutti i giovani uomini che stanno preparandosi ad entrare nel mondo dei grandi. Giocare imparando i valori universali di lealtà, amicizia e umiltà. La Gozalo colleziona da anni copie de Il piccolo Principe in tutte le sue traduzioni e, ad oggi, vanta una raccolta in 200 lingue. È un libro, scritto nel 1943, che ha venduto più di 50 milioni di copie in tutto il mondo e una delle opere letterarie più conosciute del XX secolo. Proprio dalle sue ricerche bibliografiche, la Gozalo si è imbattuta nella storia del traduttore afgano Ghulam Sakhi Ghairat, che nel 1977 aveva un’edizione del libro in dari, andata distrutta durante un bombardamento della sua casa.
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do da poterlo far leggere a donne e bambini afgani», ha raccontato la Gozalo a El Pais. Sono così stati raccolti 2.500 euro per 5mila copie della traduzione di Sakhi. Quindi la collezionista si è rivolta al ministro della Difesa per chiedere che fossero i militari a «distribuirlo nelle scuole, nelle biblioteche, tra le donne e i bambini». Il ministero ha accolto con entusiasmo la proposta e così Gozalo è volata in Afghanistan per assistere alla consegna.
«Nessun ragazzo aveva potuto leggere fino ad oggi Il piccolo Principe. Ora sì - ha detto l’avvocatessa - impareranno così i valori del libro: onestà, lealtà, amicizia. Il traduttore mi ha detto che la cosa più importante per gettare le basi per la sicurezza del Paese, in modo che i bambini non finiscano nei campi di addestramento talebani, è l’istruzione». Così i semplici disegni dell’autore morto ai comandi del suo aereo durante la seconda guerra mondiale, corredati con alcuni acquarelli, riempiranno l’immaginario di migliaia di bambini afghani. Si spera che la favola del viaggio tra gli asteroidi e l’arrivo sulla terra in cerca di roseti del candido ragazzino possa fare breccia nella mente e nel cuore dei cacciatori d’aquiloni dell’altopiano asiatico. Lo scrittore afgano Khaled Hosseini nel suo libro diventato un best seller (Il Cacciatore di Aquiloni) , aveva ben descritto le condizioni di vita di molti bambini nel suo Paese. L’estrema durezza dell’ambiente sociale, dove anche nel gioco inapparenza più innocente, far volare degli aquiloni, si imparavano le dure regole della legge del più forte. Una innocenza perduta prematuramente che il racconto dello strano abitante dell’asteroide B612, con i suoi tre vulcani a la rosa solitaria che ne illumina le giornate, potrà preservare. Anziché aspettare che il tempo guarisca le ferite di un’infanzia violata, l’iniziativa punta a costruire le premesse per un’infanzia protetta. Ma la strada verso questo obiettivo è ancora lunga nel Paese dei pashtun e degli hazara.
Fuencisla Gozalo ha curato la traduzione in dari, il dialetto più parlato del Paese, del libro capolavoro di Saint-Exupéry
nifestanti anti-governativi a favore del tycoon Thaksin Shinawatra è durata circa due mesi e ha paralizzato il distretto economico e finanziario della capitale. La maggioranza dei partecipanti, della fascia povera e contadina della popolazione, accusava il governo di Abhisit Vejajiva di non aiutarli e di aver eliminato Thaksin con modi anticostituzionali. L’esecutivo ha infine autorizzato l’intervento dell’esercito. La guerriglia urbana ha causato circa 90 morti e quasi duemila feriti. La Thailandia conferma dunque la propria instabilità, aggravata anche dall’esodo di decine di migliaia di persone dalla Birmania.
«Io mi salvai perchè ero a New York», raccontò l’uomo, oggi Direttore della Scuola diplomatica di Kabul, al ministro della Difesa spagnolo Carme Chacon. «Il giorno del mio compleanno ho chiesto ai miei amici di aiutarmi a finanziare la traduzione in dari de Il piccolo Principe, invece di farmi un regalo, in mo-
per superare la dittatura del Partito comunista e spinge per una nuova politica economica e alla libertà religiosa. L’assegnazione del Nobel ha irritato Pechino, che lo definisce “un comune delinquente”: la diplomazia cinese ha iniziato un lavoro accurato per boicottare la cerimonia. Geir Lundestad, segretario del Comitato, ha confermato la defezione dei 6 Paesi e ha aggiunto che altre 16 nazioni non hanno risposto all’invito. Parlando alla stampa della cerimonia, Lundestad ha anche spiegato che – secondo il preciso lascito testamentario di Alfred Nobel – il Premio può essere consegnato soltanto al vincitore o a un membro della sua famiglia.
Nel caso di Liu Xiaobo è un problema serio: la moglie Liu Xia è agli arresti domiciliari sin dall’assegnazione del premio, mentre due dei tre fratelli del dissidente - Liu Xiaoguang e Liu Xiaoxuan, che in un primo momento si erano detti disponibili a ritirare il Nobel – sono spariti nel nulla. A questo punto, ha aggiunto Lundestad, il dissidente cinese Liu Xiaobo potrebbe essere l’unico nella storia a non ritirare il premio, pur essendo “uno dei premiati più importanti”.
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il personaggio della settimana Sin dalla sua fondazione il Cern colleziona successi imponenti a livello internazionale
Chi ha incastrato l’anti-materia?
Rolf-Dieter Hauer è un’autorità mondiale nel campo dei positroni, le “particelle del vuoto”. Tra il Big Bang e la scoperta del World Wide Web viaggio al centro del fiore all’occhiello d’Europa di Maurizio Stefanini u fondato nel 1952 come un ancora provvisorio Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare, il laboratorio di cui in molti celebrano le sempre più straordinarie scoperte, ma qualcuno teme anche che rischi un po’ troppo di giocare a fare il ruolo di Dio. E la sigla Cern è rimasta anche dopo che nel 1954 si è trasformato in una più solida Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare. Sembra perché il dittongo di Oern era di meno facile pronuncia. Comunque Cern è soprattutto il laboratorio: il più grande del mondo nel settore della fisica delle particelle, a quella periferia occidentale di Ginevra che si trova anche in prossimità del confine tra Svizzera e Francia. In origine nacque da un rimorso: la volontà di dare una specie di indennizzo alla scienza europea, e un’occasione per riprendersi dopo lo spaventoso salasso di cervelli per emigrazione specialmente negli Usa, che era stato dovuto molto alle vicende delle due guerre mondiali; e ancor di più alla scervellata oltre che criminale politica delle leggi razziali antisemite, in Germania e in Italia. Oggi tutti pensano alle particelle: ma già il fatto che al Cern sia nato il World Wide Web basterebbe ad assicuragli un posto imperituro nella storia dell’umanità. Dal 2007, l’attuale direttore generale è Rolf-Dieter Heuer: cittadino di quella Germania che è la
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prima finanziatrice con 144 miliardi di euro, equivalenti al 19,88% del bilancio. Nato nel 1948 nel Baden-Württemberg, barba bianca appuntita che lo fa assomigliare vagamente a Keplero, laurea a Stoccarda e dottorato a Heidelberg, è considerato un’autorità nel campo dei positroni. Che sarebbero poi quella particolare particella di anti-materia corrispondente a un anti-elettrone che fu scoperta nel 1932, e che forse per il suo nome evocatore è stata poi saccheggiata dagli scrittori di fantascienza. Più di recente, però, è stato il Cern nel suo complesso a accendere le fantasie dei romanzieri. In Angeli e Demoni, ad esempio, Dan Brown immagina un furto di antimateria dal Cern per far saltare in aria il Vaticano. In perfetto stile Dan Brown, il libro è fitto di spropositi e incongruenze. Un cilindro di antimateria alimentato a batterie, manco fosse una radio a transistor; il camerlengo presentato come segretario del Papa; scritte in italiano sgrammaticato; cronologie e topografie sballate…
In Avanti nel Tempo Sawyer invece, sebbene la data da lui indicata al 21 aprile del 2009 sia trascorsa senza il verificarsi del metafisico sconquasso da lui immaginato, quando nel 1999 scrisse il romanzo effettivamente azzardò qualche previsione da far sospettare che almeno lui un effetto “cronolampo” lo avesse vissuto sul serio. Su tutto, un presidente americano negro e un papa che si chiama Benedetto XVI. Ha invece sbagliato la previsione sull’effettiva partenza del Large Hadron Collider: il potentissimo aggeggio in grado di accelerare protoni e ioni pesanti fino al 99,9999991% della velocità della luce e farli successivamente scontrare, raggiungendo un’energia che nel centro di massa è già equivalente a 7 teraelettronvolt, e per l’inizio del 2013 potrà arrivare a 14. Ma di poco: Saywer ipotizzava il 2006, il Collider è partito effettivamente il 10 settembre del 2008. Ed è da allora che si è scatenata l’ulteriore fantasia sulla macchina che giocava a riprodurre Dio, e che avrebbe potuto
creare un Buco Nero tale da inghiottire l’intero pianeta, più area di Spazio adiacente. Ma la scienza è a volte molto più sorprendente della stessa fantascienza.“In principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e deserto, le tenebre coprivano gli abissi e un vento impetuoso soffiava su tutte le acque. “Dio disse: ‘Vi sia la luce!’. E apparve la luce. Dio vide che la luce era bella/ e separò la luce dalle tenebre”. Così la Genesi. Fu nel 1927 che Georges Lemaître disse che il cosmo era in espansione: una teoria nata dalla scoperta del 1912 di Vesto Slipher che le nebulose si stavano allontanando l’una dall’altra; più gli indicatori di distanza messi a punto nel 1924 da Edwin Hubble, per calcolare di quanto effettivamente quelle nebulose fossero distanti, e scoprire così che si trattava in effetti di altre Galassie distinte dalla Via Lattea. Nel 1929 lo stesso Hubble avrebbe poi formulato quella relazione tra la distanza di una galassia e la sua velocità di allontanamento che è appunto conosciuta come la legge di Hubble, e nel 1931 Lemaître avrebbe meditato sul processo inverso. Se il Cosmo si sta espandendo, allora andando indietro nel passato lo vedremo invece contrarsi, fino al punto in cui tutta la massa dell’Universo ammassata in un “atomo temporale” dove spazio e tempo ancora non esistono. Se qualcuno sta pensando che in effetti quest’idea dell’Universo che nasce da un’espansione improvvisa assomiglia proprio alla descrizione della Bibbia e che quella fase primeva priva di struttura spazio-temporale evoca la famosa battuta di Sant’Agostino su Dio che prima della creazione passava il tempo a creare l’Inferno per metterci coloro che chiedevano cosa facesse Dio prima della creazione: Lemaître era un prete. Belga, formatosi al collegio gesuita di Charleroi, e poi docente all’Università Cattolica di Lovanio.
Era invece dichiaratamente ateo Fred Hoyle: cioè, colui che nel 1949 durante una trasmissione radiofonica aveva commentato la teoria di Lemaître in
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tono di disprezzo come l’idea di un “Grande Botto”. E Hoyle diceva anche che si trattava di una visione troppo “conforme alla teologia giudeocristiana”, per potere essere presa sul serio. Brillante astrofico, Hoyle pensava invece che l’Universo fosse stazionario, così come sua è la teoria della panspermia. Un po’ ironicamente, entrambe sono oggi del tutto screditati. E di Hoyle resta solo quel Big Bang che invece di demolire la teoria del prete belga, ha finito invece per fornirle il logo più efficace. Nel 1964, in particolare, la sco-
pratica, hanno spiegato lo scienziati, si è ricreato un mini-Big Bang, in condizioni molto simili a quelle che dovevano caratterizzare il nostro universo nel milionesimo di secondo successivo al Big Bang, circa 13,7 miliardi di anni fa. Un esperimento da cui è scaturita una temperatura un milione di volte più calda di quella esistente al centro del Sole: oltre 10.000 miliardi di gradi centigradi. È vero che Stephen Hawking ha di recente fatto rumore con un libro secondo il quale malgrado il Big Bang sia stato dimostrato, il Dio della Genesi non
Gli esperimenti condotti dentro il laboratorio hanno creato polemiche fra scienza e fede cristiana. Subito rientrate perta radiazione cosmica di fondo, residuo della fase iniziale dell’Universo, diede un primo importante riscontro. Nel 1998 la sempre più massiccia utilizzazione dei dati di satelliti come il Cobe, l’Hubble e il Wmap dimostrò anche che la velocità con cui l’universo si sta espandendo è in aumento: il cosiddetto “Universo in accelerazione”. Gran finale, adesso il Big Bang è stato ricreato in laboratorio. L’8 novembre al Cern di Gonevra la collisione di due fasci di particelle composte da ioni di piombo ha creato un plasma super-denso e super-caldo di particelle primordiali. In
serve più, perché al suo posto basterebbero le leggi della fisica. Hawking però si basa su una versione della teoria secondo la quale a un certo punto l’Universo arriverà al massimo dell’espansione, dopo di che inizierà a ritrarsi, fino a tornare al punto iniziale. Anche questa idea non è del tutto nuova, e ad esempio nel 1956 Isaac Asimov scrisse un racconto che si intitolava L’ultima domanda, e che lui stesso considerava la vetta della sua arte letteraria. “Dati insufficienti per una risposta significativa”: è la risposta ricorrente alla domanda se sarà possibile invertire la se-
conda legge della termodinamica e quindi ridare luce al sole e alle stelle una volta che si saranno spenti. La danno, via via, un super-computer a transistor a due tecnici ubriachi, il 21 maggio 2061. Il terminale domestico di un grande computer a valvole molecolari a una famigliola in viaggio da un pianeta all’altro, “parecchi secoli dopo”. Un computer galattico occupante un intero pianeta a due funzionari di un’umanità ormai divenuta immortale, nel 22.000 d.C.. Un computer universale a cavallo tra spazio e iperspazio a due intelligenze che dopo aver rinunciato al corpo sono divenute puri esseri mentali erranti per l’Universo, tra 7,5 miliardi di anni. Un computer cosmico iperspaziale “né materia né energia” a un “Uomo” in cui si sono fuse tutte le menti umane, tra 100 miliardi di anni. Lo stesso “Ac” all’Uomo che sta per fondarsi con esso, tra 10 trilioni di anni. Infine, dopo altre “centinaia di esalioni di anni”, la soluzione e la risposta per dimostrazione, perché se no non c’è più nessuno a qui riferirla. “La coscienza di Ac abbracciò tutto quello che un tempo era stato un Universo e meditò sopra quello che adesso era Caos. Un passo alla volta, così bisognava procedere. ‘La luce sia’ disse Ac. E la luce fu…”. Prima della fantascienza, sono state però le teorie cosmologiche orientali a immaginare questo tipo di Universo Pulsante. Per cui, piuttosto che a una dialettica teismo vs ateismo, la recente polemica di Hawking potrebbe rimandare all’altra contrapposizione tra fedi abramitiche e redi di derivazione induista-buddhista.
La Genesi però ricorda anche le “tenebre che coprivano gli abissi”. Pur ispirata alla Rivelazione, la Scienza ha spiegato che la peculiare Tenebra rappresentata dall’Anti-materia si sarebbe generata assieme a tutto il resto. E una nove giorni dopo aver creato il Big Bang, il Cern è riuscito anche a creare l’Antimateria. Alcuni atomi di anti-idrogeno, per la precisione 38, che sono stati “intrappolati” e mantenuti in vita per una frazione di secondo. È il modello
L’Italia ha fornito 3 dei 15 direttori L’Italia è la quarta finanziatrice del Centro di Ricerca europeo sull’energia nucleare con 83,4 miliardi di euro equivalenti all’11,5% del bilancio. Ma è soprattutto importante e imponente il capitale umano e di “menti” che il nostro Paese, in base a delle consuetudini europee, ha messo a disposizione del laboratorio “fiore all’occhiello” dell’Unione europea. Il Belpaese fornì in particolare tra il 1976 e il 1989 Paolo Zanella: il capo divisione informatica che fece entrare definitivamente il computer nel mondo della ricerca, aprendo una nuova era per la fisica. Ma ha dato anche al Cern ben tre, o meglio quasi tre, dei suoi quindici direttori generali. In particolare, tra 1952 e 1954 lo stesso primo della lista: l’ex compagno di Fermi Edoardo Amaldi. Poi dal 1989 al 1993 seguì Carlo Rubbia, che nel 1984 aveva ottenuto il Nobel. E il “quasi” si riferisce a Luciano Maiani, tra 1999 e 2003; nato a Roma, laureato a Roma, docente a Roma, Accademico dei Lincei, ma tecnicamente cittadino di San Marino. È stato comunque con Maiani che il Cern si è dotato prima del Large Electron-Po sitron Collider e poi del Large Hadron Collider , le macchine che ricreano il Big Bang e incastrano l’anti-materia.
standard della fisica dei quanti a dire che a ogni particella di materia elementare deve corrisponde il suo equivalente di antimateria, con carica e spin speculari. Dunque un’antiparticella di elettrone, che è chiamata positrone. E di protone, neutrone e tutto il resto.
Un po’ come nell’antichità i Pitagorici dicevano che doveva esistere un’Antiterra speculare alla nostra e nel Medio Evo le religioni monoteiste immaginarono un regno degli Inferi con gerarchie speculari a quelle celesti. Se l’Antiterra non esiste, in compenso è da tempo che l’antimateria è stata trovata. Ipotizzata nel 1898 da Arthur Schuster, dedotta nel 1938 da Paul Dirac, fu sperimentalmente provata nel 1932 da Carl David Anderson, appunto con la scoperta del positrone. Nel 1959 furono poi Emilio Segrè, altro italiano costretto a emigrare dalle Leggi razziali, con Owen Chamberlain a scoprire l’antiprotone, ricavandone un Nobel. E nel 1965 fu ancora un italiano, Antonio Zichichi, a trovare al Cern il primo nucleo di antimateria, che era poi antideuterio. Nella tomografia a emissioni di positroni questa antimateria aveva già una sua importante applicazione pratica, ma studiarne la caratteristiche era ancora un problema, vista la rapidità con la quale tendeva a annichilarsi. Adesso, per la prima si è riusciti a farla durare. E si potrà iniziare dunque a risolvere il problema: come mai se il Big Bang ha fatto in teoria scaturire identiche quantità di materia e antimateria, è la prima a prevalere nell’Universo che conosciamo? Ed è possibile che davvero l’enigma sia spiegabile con l’esistenza di un anti-Universo parallelo, da noi non percepibile?
ULTIMAPAGINA Ecologia. Ogni 50 anni, una mitologica invasione di roditori mette in ginocchio India, Birmania e Bangladesh
Asia, arriva l’armata dei topi di Vincenzo Faccioli Pintozzi contadini locali la chiamano “l’inondazione”, un flagello che arriva ogni 50 anni. Per altri si tratta di una punizione divina, inevitabile come la morte. Ma non si parla di acqua, che pure scende copiosa nell’area nordorientale del subcontinente indiano, ma di topi. Il fenomeno si ripete una volta nella vita di ogni generazione, ma la prossima ondata – in arrivo nella zona – sarà la prima a essere tenuta sotto osservazione da scienziati e biologi: fino ad oggi, infatti, l’attacco di questa armata di ratti mannari è stata tramandata oralmente. E i racconti sono così spaventosi che molti, in Occidente, hanno seri dubbi sulla loro veridicità. L’adunata di roditori ha una spiegazione tecnica, che giustifica anche la cadenza cinquantennale: la morte dei bambù, che avviene infatti ogni cinque decadi. L’area geografica che subisce l’invasione è ricoperta da enormi foreste di questo vegetale, che è la base dell’impianto umano: fra India, Bangladesh e Birmania le canne sono innumerevoli e altissime, e forniscono di tutto ai contadini locali. Che ne ricavano cibo, ovviamente, ma anche materiale da costruzione e malta di primo tipo, che si ottiene con la macerazione della pianta in acqua: in tutta l’Asia, i ponteggi con cui crescono le megalopoli sono fatti di bambù, in grado di resistere ai tifoni che spazzano la regione senza crollare. Il rapporto fra queste due specie, che tenute a distanza sono relativamente innocue, diventa letale e può arrivare a distruggere l’economia interna di un’area grande quanto il doppio dell’Irlanda del Nord.
I
Sono circa 26mila chilometri quadrati che partono dallo Stato indiano del Mizoram, attraversano le colline dei Chin in Birmania e finiscono nella zona di Chittagong, in Bangladesh. La Melcocanna baccifera, questo il nome scientifico del bambù locale, ha però una caratteristica propria che la differenzia dal bambù cinese e da quello dell’India meridionale: vive esattamente per 50 anni, passati i quali tutte le canne insieme fioriscono e muoiono. Macerandosi forniscono l’humus per permettere ai semi rilasciati con la fioritura di re-impiantarsi, dando vita a nuove foreste. Fra i vegetali più aggressivi del mondo, ha completamente sterminato la concorrenza ricoprendo “a tappeto”l’area. Questo significa anche che, quando muore, muore tutto; l’orologio interno del bambù e la straordinaria precisione con cui crollano tutti insieme, spiega l’ecologista Steve Belmain, dell’Università londinese di Greenwich, «è il modo con cui la Melcocanna si assicura la sopravvivenza del seme». Di conseguenza, dopo la morte a terra rimangono soltanto i semi: e 80 tonnellate di semi per ogni ettaro di terreno sono un richiamo irresistibile per i roditori. Per Belmain e i suoi colleghi la prossima fioritura, che esploderà nel 2011, è un’occasione unica per studiare un evento che si ripete due volte in un secolo: «Prima di poter vedere con occhio, abbiamo avuto soltanto aneddoti. Questa invasione è divenuta una leggenda, perché quasi nessuno dei testimoni oculari dell’ultima è ancora vivo». Se l’ar-
MANNARI ora, le terre abitate prima sono abbandonate. Nel terreno locale abbondano semi, che attirano ancora più topi. I governi non sembrano preparati all’avvento della prossima ondata: la giunta militare birmana, come sempre, non fa nulla e lascia che siano i locali a organizzarsi; il Bangladesh, uno dei Paesi più poveri dell’Asia, semplicemente non ha risorse da destinare alla guerra ai topi e l’India non intende sprecare denaro per il Mizoram, uno degli ultimi Stati a confluire nell’Unione di Delhi abitato da un’etnia molto poco favorevole al centralismo.
Le enormi foreste di bambù che ricoprono l’area del Mizoram muoiono dopo cinque decenni e nel procedimento seminano il terreno. Si tratta di 80 tonnellate di cibo che per i ratti è irresistibile: impossibile calcolarne numero e danni causati mata di ratti mannari si limitasse a divorare i semi di bambù, spiegano gli esperti, il danno sarebbe comunque limitato: innanzitutto perché è impossibile mangiare tutta quella quantità di sementi; in secondo luogo, perché comunque i semi vengono portati anche dal vento. La tragedia è invece nella voracità dei roditori, che nella marcia verso l’enorme campo di semi distruggono tutto quello che trovano: in primis le risaie. I testimoni dell’ultima invasione dicono che, quando i bambù muoiono, è inutile lavorare; è inutile seminare ed è inutile sperare di raccogliere qualcosa. L’apatia, dicono gli scienziati che si sono recati sul posto per cercare una soluzione, sembra permeare tutta la zona: non va dimenticato che in Birmania, alcuni mesi fa, il ciclone Nargis ha ucciso 140mila persone e che, Una foresta di bambù del nord del sub-continente indiano. Le piante muoiono ogni 50 anni dopo la fioritura, attirando i roditori. Sopra alcuni contadini mostrano i topi uccisi: i governi li pagano
Ma bisogna pensare anche che il nemico, questa volta, è fortissimo e i governi temono di perdere il confronto. Il Bandicota savilei, la specie di topo più comune nell’area, si riproduce a velocità impressionante e ha bisogno di mangiare ogni giorno il 15 per cento del proprio peso corporeo soltanto per mantenersi vivo. Gli occidentali inviati nell’area hanno pensato a qualche soluzione – come delle enormi trappole che, di fatto, sono semplici buche in cui affogare i topi – ma per ora non trovano molta collaborazione locale. Per quasi tutti, infatti, l’armata è una punizione divina da affrontare a capo chino, sperando che passi il prima possibile.