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Ognuno è come il cielo lo ha fatto, e qualche volta molto peggio...

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Miguel De Cervantes di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 24 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il governo va di nuovo sotto due volte nelle votazioni alla Camera per il seggio al Parlamento europeo

Sembra un Prodi Bis

Lo stesso incubo: maggioranza sempre in bilico e caos rifiuti L’esecutivo scrive di corsa un decreto che media tra Cosentino e la Carfagna. La situazione però ha di nuovo raggiunto il livello di guardia e le foto di Napoli tornano ad essere un caso internazionale PROMESSE MANCATE

UN SISTEMA IN CRISI

È diventato il governo dello scaricabarile

Ormai l’alternativa è tra paralisi e armistizio

di Achille Serra

di Francesco D’Onofrio

on c’è limite all’impudenza di questa maggioranza. Al capogruppo del Pd alla Camera che ieri ha denunciato la poca tempestività del Governo sull’emergenza rifiuti, diversi esponenti della Lega e del Pdl hanno replicato che le responsabilità sono tutte degli enti locali e che bene farebbe il sindaco Iervolino a dimettersi. Senza procedere qui a un’analisi delle colpe e delle inefficienze accumulatesi in lunghi anni di cattiva gestione del problema, vorrei sottolineare come in alcune occasioni certa politica dovrebbe far appello al proprio senso del pudore, se ancora ne ha. E, magari, tacere.

attesa degli avvenimenti parlamentari previsti per il 14 dicembre sta sempre più assumendo le caratteristiche di una possibile alternativa politica tra quello che è stato definito l’“armistizio” e quella che può essere definita la “palude”. Non si tratta di una semplice questione di crisi di governo del tipo di quelle che abbiamo conosciuto anche nella cosiddetta Seconda Repubblica. Si tratta infatti di una questione di fondo che ha posto e pone questioni politiche e istituzionali di rilievo talmente grande da coinvolgere nella sostanza la legittimità stessa a governare.

N

Dopo la crisi irlandese

La caduta di Dublino mette paura alla Merkel (e all’Euro)

L’

Parla il costituzionalista Piero Alberto Capotosti

Indecisionismo, la bandiera della Seconda Repubblica «Siamo alla fine di questo sistema: le contraddizioni superate in nome del premio di maggioranza, prima o poi, emergono»

a pagina 2

Errico Novi • pagina 4

La Bank of Ireland cede il 22,11% e mette in difficoltà le Borse europee. E Berlino: «Stavolta è peggio che per la Grecia». Mentre negli Usa il pil torna a risalire Gianfranco Polillo • pagina 8

a pagina 5

il dibattito Colloquio con Giovanni Reale sul nuovo libro di Benedetto XVI, «Luce del mondo»

Ragionando sull’Apocalisse «Le resurrezioni sono due. La prima avviene al momento della conversione ed è spirituale; ma nell’ultimo giorno sarà la carne dell’uomo a tornare in vita per essere giudicata» seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

di Gabriella Mecucci l Giudizio Universale non è una metafora, non ha un valore puramente simbolico, accadrà realmente. «Vi sarà un autentico giudizio. Non siamo in grado di immaginarci questo avvenimento inaudito». Giovanni Reale, filosofo cattolico, non ha un attimo d’esitazione ad accettare il messaggio di Papa Ratzinger. «Sono in grado di spiegarlo anche perchè mi sono appena misurato con la traduzione del “Commento al Vangelo di Giovanni”di Sant’Agostino».

I

Missili tra le due Coree

L’erede al «trono» di Pyongyang gioca alla guerra

a pagina 18 I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

228 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Il Nord spara contro l’isola di confine di Yeonpyeong e Seul risponde al fuoco: accertati due morti e 14 feriti, di cui 3 gravi. Tutto l’Occidente condanna l’attacco Luisa Arezzo • pagina 14 19.30


prima pagina

pagina 2 • 24 novembre 2010

la polemica

Il governo del fare (scaricabarile) Dopo gli annunci e le promesse, Berlusconi dovrebbe rispettare i napoletani con il silenzio di Achille Serra on c’è limite all’impudenza di questa maggioranza. Al capogruppo del Pd alla Camera che ieri ha denunciato la poca tempestività del Governo sull’emergenza rifiuti, diversi esponenti della Lega e del Pdl hanno replicato che le responsabilità sono tutte degli enti locali e che bene farebbe il sindaco Iervolino a dimettersi. Senza procedere qui a un’analisi delle colpe e delle inefficienze accumulatesi in lunghi anni di cattiva gestione del problema, vorrei sottolineare come in alcune occasioni certa politica dovrebbe far appello al proprio senso del pudore, se ancora ne ha. E, magari, tacere. Napoli è nuovamente sepolta dall’immondizia, le immagini dei cumuli di schifezze che intasano le sue strade stanno facendo il giro del mondo, mentre la gente affronta condizioni igienico-sanitarie ogni giorno più

N

allarmanti. Ora, il rispetto per questa gente e per il dramma che sta vivendo avrebbe dovuto imporre ieri alla maggioranza un sacrosanto silenzio.

Tutti, infatti, ricordiamo gli annunci e le promesse che il presidente del Consiglio ha sciorinato in Campania negli ultimi due anni. Nel 2008 si vantò coram populo di aver ripulito definitivamente Napoli e provincia in appena dieci giorni. Un mese fa poi, mentre il problema assumeva nuovamente proporzioni spaventose e tornava alla ribalta delle cronache nazionali e internazionali, promise che entro tre giorni avrebbero regnato nuovamente decoro e pulizia. Tutti, poi, ricordiamo i militari, inviati a raccogliere sacchetti di spazzatura davanti alle telecamere e i commissari straordinari deputati a tradurre gli annunci in realtà, trasmetten-

do al mondo l’immagine di un’efficienza e di un’organizzazione impeccabili.

Eppure oggi quei cumuli raggiungono il primo piano delle abitazioni e un ministro del Governo minaccia di dimettersi per il caos che regna nel Pdl campano dilaniato - parole sue - da «bande che si combattono l’una contro l’altra». A coordinare il partito del fare, laggiù, d’altronde, è l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, dimessosi dal suo incarico di governo perché colpito da un provvedimento di custodia cautelare per il reato di concorso esterno in associazione camorristica. Questa, tuttavia,

è una storia meno nota perché, a differenza degli annunci e delle promesse sempre amplificate ad arte dalla corte mediatica del premier, è stata affossata e mascherata. La Giunta per le autorizzazioni a procedere ha impedito che il provvedimento di custodia cautelare venisse eseguito - Cosentino è un deputato - ma le accuse a suo carico rimangono e con la fine della legislatura dovrà saldare i conti con la Giustizia. Nel frattempo, però, continua a governare il partito di maggioranza in Campania, forte del fatto che se il dramma dei rifiuti non accenna a risolversi la colpa verrà prontamente scaricata su altri.

In Campania c’è ancora un coordinatore che deve rispondere dei suoi comportamenti di fronte alla giustizia

il fatto La Mussolini bacia Cosentino alla Buvette. E Maroni avverte: «Non so se arriviamo alla fine dell’anno»

Il bipolarismo dei rifiuti Maggioranza sempre battuta, caos per l’immondizia a Napoli: sembra tornata l’Unione. E il premier ripete: «Faccio tutto io» di Riccardo Paradisi n fantasma s’aggira nei palazzi della politica italiana, imbarazzando il governo e fornendo stura e destri alla rude polemica dell’opposizione. È il decreto sulla crisi napoletana che il governo avrebbe approvato lo scorso 18 novembre ma che nessuno ha ancora mai visto.Tanto meno, come è noto, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che quel provvedimento dovrebbe controfirmarlo e che invece come lamentava lunedì lo stesso inquilino del Colle quel documento non l’ha mai nemmeno visto. Arriverà nella tarda serata di ieri, dopo una giornata di polemiche.

U

della Difesa Ignazio La Russa che garantisce: «il decreto rifiuti è ormai pronto, Gianni Letta sta collazionando il testo e il suo arrivo al Quirinale per la firma è imminente. Comunque sia aggiunge il ministro della Difesa la situazione è sotto controllo: ”i

messa a suo capo la competenza sulla gestione del ciclo dei rifiuti. Era stato lo stesso Cosentino del resto, insieme al suo gruppo campano – Luigi Cesaro a Napoli e Edmondo Cirielli a Salerno, le due province, dove dovrebbero essere costruiti gli inceneritori – a bloccare l’attribuzione dei poteri commissariali al presidente Stefano Caldoro prevista dalla prima versione del decreto uscita dall’ultimo consiglio dei ministri. La posta in gioco è alta: si tratta di appalti per un ammontare complessivo di 600milioni di euro. «Quali pressioni state ricevendo chiede il capogruppo del Pd Dario Franceschini per cambiare il testo di quel decreto? Come potete pensare di affidare il commissariamento a quattro presidenti di provincia, che sono i responsabili della gestione e che sono tutti e quattro parlamentari in carica?» All’appello di Franceschini si

QUEL BACIO ALLA CAMERA

A Napolitano era arrivata infatti solo una mail con una bozza, uno schema di decreto. Una cosa a dir poco irrituale. A tentar di tamponare l’incidente istituzionale ci prova il ministro

militari pronti ad intervenire”.» Un modo di prendere ancora tempo accusa l’opposizione e per limare il restyling del nuovo decreto a vantaggio dell’ex sottosegretario dell’Economia Nicola Cosentino che chiede sia

unisce anche il capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino, che dopo aver dichiarato inesistente, ad oggi, le condizioni per un voto di fiducia al governo, in aula cita anche l’intervento di Saviano a Vieni via con me: «Riteniamo che il Governo debba fare chiarezza e presentare il decreto-legge in Parlamento quanto prima, affinché le Camere possano cominciare a lavorare su quel testo».Vuole chiarezza anche l’Udc definendo ”anomala” una prassi che porta ad «approvare in Consiglio dei ministri delle copertine e a delegare nelle settimane successive la formulazione del decreto, in una situazione così delicata come quella che sta vivendo Napoli. Anomalia che crea un vulnus istituzionale di prima categoria». La difesa d’ufficio del governo è affidata alla Lega: «Il governo – dice il capogruppo della Lega Nord Marco Reguzzoni – è costretto a intervenire per la seconda volta per risolvere un

problema che diventa un’emergenza perché qualcuno non fa il suo mestiere, qualcuno non si occupa dei rifiuti». È insomma la Iervolino che deve dimettersi e non Berlusconi come invece chiede espressamente l’Idv. Il Pd non può far dimenticare insomma le responsabilità che ha la giunta Bassolino sul terreno dei rifiuti». La domanda che però resta in piedi e unisce l’intera opposizione comprese Fli e Mpa è: «C’è o non c’è il decreto del governo sull’emergenza rifiuti? Perché il consiglio dei ministri di giovedì lo ha varato e ancora ci si sta lavorando sopra in queste ore? Idv, Pd, Udc, Fli e Mpa chiedono al governo di riferire al più presto sulla situazione in Campania. Le opposizioni (insieme a Fli e Mpa) vogliono sapere se il braccio di ferro tra Mara Carfagna e Nicola Cosentino sulla realizzazione dei termovalorizzatori in provincia di Napoli, abbia in sostanza rallentato la pubblicazione del decreto.


l’inchiesta La Regione ha assicurato che presenterà un nuovo piano a gennaio

E alla fine si svegliò anche la Procura

Continua il caos-rifiuti: «Nessun rischio sanitario», dice Fazio, ma parte un’inchiesta sulla differenziata di Marco Palombi

ROMA. E buona ultima arrivò anche la Procu-

Intanto prosegue anche lo scontro interno al Pdl. Il ministro Mara Carfagna tiene le posizioni e pretende un confronto con Berlusconi sulla partita napoletana senza farsi mancare un incontro con Gianfranco Miccichè dove Carfagna avrebbe dichiarato il suo vivo interesse per Forza sud. Al ministro per le Pari opportunità Miccichè aveva offerto di essere la numero uno di Forza del Sud in Campania e non solo in quella Regione. Muove anche Alessandra Mussolini che dopo aver baciato Cosentino nella buvette del senato cambia idea rispetto e dice che alla fine voterà la fiducia. Interviene anche Denis Verdini, riferimento nazionale del gruppo Cosentino: «Mi sembra abnorme e assurdo che in Campania, dove ha governato per un lunghissimo periodo Bassolino, la sinistra, Rosa Russo Jervolino, si accusi il Pdl di illegalità». E a proposito del caso Carfagna: «Penso che Mara (Carfagna, ndr) abbia una visione della politica che non sempre tiene conto delle difficoltà che ci sono». A cercare di sedare la situazione infine interviene lo stesso premier in una dichiarazione «Per quanto riguarda le questioni all’interno del Pdl conto di affrontarle quanto prima. Nel frattempo in-

vito tutti al senso di responsabilità, alla sobrietà e al rispetto dei nostri elettori».

Un’altra maggioranza difficile insomma per la maggioranza. Tanto più che ieri, complice Futuro e libertà, è anche andata sotto alla Camera. I finiani, si sono schierati con l’opposizione e a beneficiarne è stata l’Udc che si si vede assegnato un seggio in più al parlamento europeo. Il ministro leghista Roberto Maroni è pessimista: «Non so se arriveremo a fare il decreto di fine anno. Non so neanche cosa succederà il 14 dicembre» s’è lasciato sfuggire parlando ai sindaci lombardi all’assemblea dell’Anci. Gianfranco Rotondi, ministro all’attuazione del programma, cerca di minimizzare: «È fisiologico che ogni tanto ci siano difficoltà nel voto alla Camera. È inutile attribuire tutto alla tempesta politica che pure c’è. Sono convinto che otterremo la fiducia». Il problema è il day after. Che ci fa la maggioranza con una fiducia comunque risicata? Rotondi non elude il problema: «La rottura con Fini ha chiuso una fase politica. Ora se ne nasce un’altra necessariamente aperta a nuovi equilibri»

ra. Pare che i magistrati di Napoli abbiano deciso di capire come mai nel capoluogo campano non è partita la raccolta differenziata: ufficialmente il fascicolo aperto dalla sezione Ecologia coordinata dall’aggiunto Aldo De Chiara deriva da un’intervista rilasciata il 6 ottobre scorsa dal prefetto di Napoli, Andrea De Martino («la raccolta differenziata non funziona, ci si deve adoperare per questo obiettivo»), ma sembra che i pm siano stati messi in sospetto anche per via di tutti quei sacchetti dell’immondizia in mezzo alla strada. Come che sia, la Procura dovrà chiarire cosa è stato fatto negli ultimi due anni e con quali risorse: ad esempio, si chiedono oggi le toghe, sono stati definiti appalti e forniture nei periodi di tregua? In attesa che arrivi una risposta in nome del popolo italiano, in città ieri c’era – per il secondo giorno – la delegazione degli ispettori europei. Anche i tecnici della Ue, per dire, si sono accorti che c’è un problema con la differenziata a Napoli: «Napoli è la chiave di volta per uscire dall’emergenza e deve compiere uno sforzo per incrementare i livelli di raccolta differenziata – ha spiegato Pia Buccella, capo delegazione - Nel contempo, dovranno essere individuate soluzioni-ponte verso gli impianti capaci di evitare che si cada nell’ennesima emergenza. Non dico che bisogna fare tutto subito – è la sua concessione alla realtà – ma almeno che i lavori comincino ad essere realizzati. Le scadenze se le devono dare le autorità competenti, noi valuteremo se sono ragionevoli». La prima scadenza, già che se ne parla, arriva il mese prossimo, quando la regione ha annunciato che presenterà il suo Piano per la gestione dei rifiuti. Potrebbe sembrare un fatto puramente formale, l’ennesima paccata di carta da ammannire alle agenzie competenti, ma non è così: la Ue ha bloccato centinaia di milioni di euro di fondi destinati alla Campania perché mancano finanche progetti coerenti a cui assegnarli.

parole di Fabrizio Cicchitto ieri in aula alla Camera: per il capogruppo PdL Bersani, intervenendo con Maroni a favore del sindaco De Luca nel caso Salerno, ha dimostrato non si sa perché di “volere la crisi al buio”. Insomma il dibattito sulla monnezza a Napoli è tornato ad essere, come fu trionfalmente per il Cavaliere nel 2008, argomento da campagna elettorale. Romano Prodi, che evidentemente conosce il piacere della vendetta, s’è ricordato di come lo crocifissero a suo tempo: «Mi complimento col governo Berlusconi per come ha risolto…», ha irriso via radio.

Intanto la situazione a Napoli continua ad essere assai difficile: in strada ancora ieri c’erano tremila tonnellate di immondizia. «Siamo in attesa che provincia e regione ci dicano dove possiamo conferire l’immondizia per azzerare quella non raccolta – spiega l’assessore all’Igiene Paolo Giacomelli – L’attuale sistema di flussi non garantisce di ridurre le quantità». Gli esperti, da giorni, sottolineano i rischi per la salute connessi col permanere in strada di tutta quella sporcizia, ma il ministro della Salute minimizza: «A Napoli la situazione è molto grave sia dal punto di vista ambientale e della vivibilità, quindi va risolta, ma rischi immediati non ce ne sono». Sostanzialmente, dice Fazio, «non c’è aumento di germi nell’aria che si respira intorno ai rifiuti, ci sono dei rischi dovuti ai roditori, insetti, cani randagi, che possono aumentare le infezioni e le gastroenteriti, ma niente tifo né colera e quindi non epidemie». Potrebbe già bastare, ma il ministro bontà sua ha voluto citare pure i rischi «per quanto attiene le combustioni dei roghi che possono generare tossine o diossina». Nell’opinione pubblica, intanto, lo scandalo continua a montare e il centrodestra, per uscire dall’imbarazzo, ha individuato - come fa il premier già da un po’ – la persona su cui riversare tutta la colpa: Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli, unico livello istituzionale rimasto appannaggio del centrosinistra. «Cosa sta facendo il sindaco? Dov’è la raccolta differenziata a Napoli? La Iervolino deve avere la faccia di dimettersi», scandiva ieri il capogruppo della Lega alla Camera Marco Reguzzoni. Lei, il sindaco, non ci pensa nemmeno: «Il potere in materia di rifiuti non è dei comuni, ma di province e regione e l’emergenza non riguarda solo Napoli, ma decine di comuni della Campania». Tra governo e regione, province e comuni, destra e sinistra, anche le responsabilità rischiano di rimanere per strada, non raccolte da nessuno, come la monnezza.

Gli ispettori europei insistono: «Per sbloccare i fondi, devono essere individuate anche soluzioni transitorie, in attesa dell’entrata in funzione degli impianti»

«Le risorse le sbloccheremo quando avremo visto un Piano credibile, che individui anche le soluzioni transitorie nelle more dell’entrata in funzione degli impianti che richiederà almeno due, tre anni», ha chiarito la capo delegazione Ue. L’Europa, in buona sostanza, non si fida: anche perché gli impianti di cui parla Buccella sarebbero i famosi termovalorizzatori su cui si sta scannando il PdL campano in questi giorni. Ieri l’attrito polemico tra Carfagna e Cosentino si è attenuato, ma lo scontro di potere continua. Per capire il rilievo della questione basti citare le


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l’approfondimento

La farsa del decreto fantasma è solo l’ultimo episodio di quella che il presidente emerito della Consulta definisce «una lenta agonia»

Indecisionismo bipolare

Dopo due anni, Berlusconi è nella stessa condizione della vecchia Unione: «Siamo alla fine di questo sistema: le contraddizioni superate in nome del premio di maggioranza prima o poi emergono», dice Piero Alberto Capotosti di Errico Novi

ROMA. C’è una progressione negativa, nella capacità del governo di decidere. Paralizzato all’inizio dalle convulsioni sulla giustizia, l’ultimo esecutivo del Cavaliere si è prima avvitato attorno al dissenso di Fini, poi si è prodotto nell’affannosa corsa al consenso di piccoli gruppi in grado di sostituire i futuristi, fino all’ultima degenerazione, quella del decreto riveduto e corretto secondo i capricci di singoli parlamentari. Sembra un insetto impazzito per l’impossibilità di trovare la via d’uscita, la maggioranza di queste ultime ore. E per il presidente emerito della Corte costituzionale Piero Alberto Capotosti, il fenomeno ha una causa ben precisa: «Il fallimento del bipolarismo: questo sistema è arrivato alla fine». Servirebbe «una nuova legge elettorale, per impedire che anche dopo eventuali elezioni anticipate ci si ritrovi ancora nella stessa situazione, se non in una peggiore». Difficile immaginare d’altra parte uno scenario ancora più

devastato dell’attuale. Con il governo, e il suo leader, presi da una sorta di «indecisionismo bipolare». Da un’oscillazione continua, cioè, tra diverse opzioni – nella strategia delle alleanze, nella prospettiva elettorale, nei singoli provvedimenti – con il risultato di non imboccare mai con convinzione una delle due strade, in un infinito folle rimbalzo. «Certamente la situazione si aggrava di giorno in giorno proprio a causa del sistema politico. O forse», precisa Capotosti, «è meglio dire che a peggiorare è il sistema istituzionale dietro l’impulso di una crisi della politica». E di che si tratta, in ultima analisi? Di degrado morale? Di perdita di riferimenti politico-culturali? C’è anche questo, senza dubbio, dice il presidente emerito della Consulta, «è visibile un degrado della classe dirigente», per esempio. «Ma la crisi, all’osso, riguarda innanzitutto il sistema bipolare in cui ci troviamo da metà degli anni Novanta. È una crisi determinata da un sistema eletto-

rale che prevede contemporaneamente una soglia di sbarramento e l’assegnazione del premio di maggioranza a chi ottenga anche un solo voto in più, senza stabilire neppure un quorum minimo».

Se spesso l’analisi su questo tipo di degenerazione è stata svolta in termini molto generali, oggi è come se la si potesse osservare al rallentatore, nei suoi dettagli. «La combinazione di premio di maggioranza e sbarramento è un unicum nella pa-

«Serve una legge elettorale che non obblighi ad alleanze prive di contenuto»

norama delle democrazie occidentali, e fa in modo che si possa assegnare il 55 per cento dei seggi a chi prende il 35 per cento dei voti o giù di lì». Una sorta di lotteria, osserva Capotosti, «che spinge a formare alleanze di natura esclusivamente elettorale: alleanze destinate a durare lo spazio di un mattino, giacché non sono dotate di un fondamento programmatico né ideologico. Ci si mette insieme solo per assicurarsi la maggioranza in Parlamento. Poi al primo ostacolo va in crisi la capacità di decidere, perché se si decidesse si comprometterebbero la tenuta della coalizione e l’esistenza stessa del governo».

Vacilla paurosamente anche uno dei grandi miti di questa stagione politica, quello del programma: infallibile, inderogabile, sacro. Siamo allo spot illusionista persino su questo. Perché se il programma ci fosse davvero non si arriverebbe alle indecisioni parossistiche di questi giorni. «In realtà i programmi o sono estremamente generici o vengo-

no concepiti in termini tali da non essere davvero vincolanti. Visto che manca visione comune dell’interesse generale del Paese, è chiaro che alla prima difficoltà ogni gruppo tende a valutare in maniera separata piuttosto che ad offrire soluzioni». E qui siamo allo stadio estremo della degenerazione, spiega Capotosti: «La caccia ai voti è la fine del bipolarismo. Non si cerca il consenso di una formazione politica ma i singoli voti in quanto tali, perché utili a raggiungere un quorum. Altro che bipolarismo, siamo a un assetto multipolare, in cui ogni deputato diventa decisivo. Il paradosso discende direttamente dalla forzatura delle ultime Politiche, con Veltroni da una parte, Berlusconi e Fini dall’altra che hanno tentato di arrivare al bipartitismo.Tutto fallito in poco tempo, con Di Pietro che fa da battitore libero, i primi addii di Rutelli o di parlamentari come la Binetti, per non parlare del Pdl».

La fuoriuscita di Fini e del suo gruppo è l’ultimo tassello della fine del bipolarismo. «E in


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È la crisi economica internazionale a dettare l’agenda del nostro dibattito politico

Ma oggi la vera alternativa è tra il caos o l’armistizio

Lo scontro ormai è tra concezioni diverse dello Stato: da una parte, chi pensa agli interessi generali, dall’altra chi punta a quelli particolari di Francesco D’Onofrio attesa degli avvenimenti parlamentari previsti per il 14 dicembre sta sempre più assumendo le caratteristiche di una possibile alternativa politica tra quello che è stato definito l’“armistizio” e quella che può essere definita la “palude”. Non si tratta di una semplice questione di crisi di governo del tipo di quelle che abbiamo conosciuto anche nella cosiddetta Seconda Repubblica. Si tratta infatti di una questione di fondo che ha posto e pone questioni politiche e istituzionali di rilievo talmente grande da coinvolgere nella sostanza la legittimità stessa a governare. Coloro i quali infatti pongono in termini “brutali”la scelta tra un governo comunque legittimato dal voto parlamentare (come è il caso di governi legittimati dalla metà più uno dei deputati e dei senatori), e governo legittimato solo dal voto popolare, ribadiscono di fatto che il bipolarismo da essi difeso è un bipolarismo che non consente di dar vita a governi comunque diversi da quelli legittimati dal voto popolare.

L’

Si tratta della contrapposizione, più volte affermata, tra la vigente Costituzione ed una asserita “Costituzione materiale”, per tale intendendosi infatti quella in base alla quale soltanto il voto popolare costituisce base di legittimità per il governo della Repubblica. In base a questa visione non vi è pertanto spazio alcuno per qualsivoglia “armistizio” tra i due soggetti politici che avrebbero dato vita a questa cosiddetta “Costituzione in senso materiale”. Coloro invece che ritengono del tutto legittima la formazione di un governo di “armistizio” tra i due asseriti poli di questo bipolarismo “coatto”, affermano di essere portatori di una cultura di governo che può certamente essere anche bipolare, ma che non esclude l’eventualità di governi di intesa tra i due poli alternativi di governo. Si tratta di una cultura di che governo guarda alle esigenze dell’interesse nazionale posto a fondamento certamente di alternative anche

bipolari di governo, e allo stesso tempo capace di soddisfare le esigenze dell’interesse nazionale, se queste richiedono la comune gestione degli affari di governo. Sono pertanto due culture di governo profondamente diverse: l’una, quella che l’Udc ha ancora una volta affermato negli ultimi giorni, è una cultura di governo che comprende anche l’eventualità che per esigenze straordinarie di interesse nazionale sia del tutto legittimo dar vita in sede parlamentare ad un

Sul campo c’è anche la contrapposizione tra la Costituzione reale e quella «materiale» governo del quale facciano parte forze politiche dei due principali schieramenti alternativi di governo; l’altra, che ha portato ad un rifiuto persino pregiudiziale a governi di larga intesa, è espressione di una cultura di governo che non contiene anche l’eventualità di dar vita a governi di larga intesa, se lo richiedono straordinarie condizioni di interesse nazionale.

Queste due alternative culturali sono pertanto a fondamento del dibattito stesso tra fautori del e contrari al bipolarismo: se per quest’ultimo si intende pertanto un bipolarismo che non consente neanche l’astratta previsione di un governo di “armistizio” è di tutta evidenza che si tenderà ad affermare che i sostenitori di un governo di armisti-

zio sono di fatto i negatori del bipolarismo; quasi che questo fosse ormai giunto a dar vita ad una sorta di verità, per così dire, “teologica”, e non – come le culture di governo dovrebbero sempre esser capaci – fosse disponibile a combinare scelta bipolare ed interesse nazionale. Non vi è chi non veda che oggi le condizioni soprattutto economiche in cui versa l’Italia impongono di dar vita ad un governo di responsabilità nazionale o di armistizio tra i due poli maggiori (si tratta infatti di espressioni politicamente identiche), che si sono contesi la vittoria elettorale alle ultime elezioni politiche. Il contesto europeo sta infatti sollecitando alla assunzione di responsabilità finanziaria europea nei confronti di Paesi quali l’Irlanda e il Portogallo, le cui complessive condizioni finanziarie non sembrano compatibili con la salvaguardia stessa della moneta europea.

Chi pertanto volesse oggi non accettare la prosecuzione dell’attività di governo in un contesto definibile “di palude”, dovrebbe finire con l’avvertire l’estrema difficoltà di porre il ricorso anticipato al voto quale soluzione reale delle diverse necessità dell’interesse nazionale. L’alternativa dunque, mai come oggi, è tra armistizio e palude e non tra palude e voto popolare, se si ha riguardo all’interesse nazionale dell’Italia e non a questioni diverse più personali che politiche.

una simile situazione, nella tanto vituperata Prima Repubblica, il presidente del Consiglio sarebbe già salito al Colle. Qui non accade eppure il governo non riesce a decidere alcunché, neppure rispetto a una terribile emergenza come quella dei rifiuti: il decreto che c’è e non c’è, l’esecutivo continuamente battuto in aula: insomma è una lenta agonia». A questo punto è anche difficile stabilire cosa sia peggio: permanere nell’attuale condizione o andare di nuovo al voto. Ma il fatto più sconcertante, conviene Capotosti, è l’incapacità della maggior parte dei partiti di riconoscere il fallimento del sistema. «Fatte salve poche forze come l’Udc, ovunque si odono inni in favore del bipolarismo. Li innalzano anche Fini e Bersani. Eppure il sistema che impone il raggiungimento di una maggioranza purché sia una non funziona più da un pezzo, ormai». Servirebbe, secondo il presidente emerito della Corte costituzionale, «il coraggio di mettersi attorno a un tavolo e pensare a una nuova legge elettorale, partendo da poche certezze: eliminazione del premio, forte sbarramento, meccanismo tendenzialmente proporzionale ma corretto da un criterio uninominale per scegliere i candidati. Il bipolarismo non è congeniale alla storia e alla tradizione di questo Paese, e l’insoddisfazione traspare dalle intenzioni di voto, con Pdl e Pd precipitati addirittura sotto il 25 per cento».

E se invece la tenace incapacità autocritica prolungasse ancora per molto la sopravvivenza di questo sistema? «A un certo punto la piaga dovrà essere curata. Anche con le elezione anticipate. Adesso c’è un governo che è come se non ci fosse, incapace di offrire garanzie anche minime. Sarebbe inutile anche rinviare le scadenze: sento parlare di voto a maggio anziché a marzo, ma sarebbe peggio. Se non fosse che con il sistema di voto attuale si rischia di avere un Parlamento con due maggioranze diverse. Sarebbe il sintomo di una crisi di sistema, di regime: è per questo che occorrerebbe avere il tempo per un governo che sia transitorio, di armistizio, comunque in grado di modificare il sistema elettorale, in un senso più rispettoso delle regole democratiche. Siamo alla seconda legislatura che finisce in modo traumatico per implosione della maggioranza. Nel 2008 la crisi del governo Prodi fu attribuita ai giudici, a Mastella, ma quella fu la ciliegina sulla torta. Ora anche qui siamo a fine corsa. E viene da chiedere com’è possibile che con una maggioranza iniziale di cento parlamentari Berlusconi debba scommettere, persino con tono guasconesco, di potercela fare, magari per un pugno di voti».


diario

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Caos. Mentre gli equilibri al vertice dei democratici traballano, venerdì Veltroni e Fioroni presentano li loro «Movimento»

I separati in casa del Pd

La «rincorsa al centro» genera nuove invidie tra Bersani e D’Alema di Antonio Funiciello

ROMA. Bersani ieri l’ha ridetto chiaro e tondo: «Se si vota, vinciamo noi». Però le elezioni Bersani non le vuole e non vuole neppure le primarie contro Vendola che, di suo, è tornato a richiederle a gran voce: «È il momento giusto per le primarie, indipendentemente dalla vicenda del voto di fiducia e dalle sorti del governo». Insomma, lo stesso giorno, i due hanno detto tutto e pensato il contrario di tutto. Evidentemente, nonostante il siglato patto di consultazione, si consultano poco. A dirla tutta, nel Pd, ci si consulta poco in generale, soprattutto tra quelli che un tempo erano stretti alleati. Venerdì, Veltroni e Fioroni si vedranno al teatro Eliseo di Roma per il battesimo di Movimento democratico, mentre il loro ex leader Franceschini ha rinsaldato il suo legame con Bersani piazzando alcuni suoi uomini nella macchina del partito. Ma se Bersani può beneficiare del suo idillio col capogruppo democratico alla Camera, deve pure fare i conti con lo scetticismo che verso di lui arriva da D’Alema e Enrico Letta. Insomma, oggi come oggi, nella problematica geografia interna al Nazareno, gli alleati più fedeli di Bersani sono il suo ex sfidante al congresso e l’immarcescibile Bindi. Anche Fassino è più critico, pur essendo entrato in maggioranza, perché assai perplesso dal modo in cui il Pd sta gestendo la partita delle primarie torinesi, sempre più a rischio di un epilogo meneghino.

La distanza più significativa da Bersani l’hanno assunta però D’Alema e Letta: il primo, vero king maker dell’ex ministro allo Sviluppo; il secondo, fondamentale per legittimare un’elezione a segretario che sembrava tutta rientrare in un discorso tra ex Ds. Entrambi avrebbero voluto che Bersani schierasse nettamente il Pd verso un asse prefe-

renziale con Casini e Fini. Poi, alleanza grande quanto la si vuole, ma soprattutto una preferenza strategica di linea politica verso i due interlocutori centristi. È lo schema che D’Alema predica dai tempi della Puglia, quando avrebbe preferito dare la candidatura a governatore a un esponente dell’Udc, piuttosto che infilarsi nel gioco ambiguo delle primarie contro Vendola. Se la legge elettorale cambiasse come piace a D’Alema, in senso tedesco, si potrebbe pure andare per conto proprio e, solo dopo il responso delle urne, costruire un accordo di coalizione con le forze moderate. Tuttavia, nel caso in cui la situazione precipitasse e il voto sarebbe imminente, un accordo con Casini e Fini ancorerebbe il Pd ad una pro-

spettiva di governo più solida che non un asse con Vendola.

Anche Letta è di questo avviso. Già da tempo va predicando l’inevitabilità di uno schema po-

che vedrebbe il suo Pd alla mercé di un velleitario cartello elettorale di sinistra, modello Progressisti, si è spinto fino al punto di tornare a dialogare con Veltroni che, sulla faccenda, la

L’Unico vero alleato del segretario, ormai, è l’ex competitor Franceschini. Obiettivo comune: non cadere nel tranello di Vendola litico a tre poli, in virtù del quale il compito del Pd sarebbe quello di costruire l’ancoraggio di centro. Il vice segretario è il più a disagio nella fase attuale di schiacciamento a sinistra dei democratici. Pur di evitare che si riproduca il distorto schema a tre poli del ’94,

pensa allo stesso modo. E poi Letta soffre la liaison e l’influenza di Franceschini su Bersani, che non perde occasione di rilanciare, sfruttando la cassa di risonanza del gruppo Espresso, l’idea dell’alleanza costituzionale di tutti i buoni (da Fini a Ferrero e Diliberto) contro il cattivo Berlusconi. Letta a questa ipotesi non ha mai creduto. Ha lasciato che circolasse fintantoché gli tornava in qualche modo utile. Oggi, che le elezioni potrebbero costringere il Pd a scoprire le carte, il vice di Bersani sa che la strada del grande cartello elettorale anti-berlusconiano è impraticabile, nonostante Franceschini continui a sponsorizzarla. Ma Letta si è accorto di non riuscire più a tenere Bersani lontano dalle rapide della propaganda di Repubblica e teme,

con non poche ragioni, che il Pd in quelle rapide rischi seriamente di schiantarsi sulle rocce di un’ennesima sconfitta.

A parte il guerrigliero Franceschini, nel Pd le posizioni restano così assai sfumate. La speranza di tutti è che il Cavaliere trovi un qualche modo per tirare avanti. Lo sperano D’Alema e Letta, perché vorrebbero provare a correggere la poco cauta linea di Bersani e orientare il Pd verso Fini e Casini. Lo sperano Veltroni e Fioroni, perché un prolungamento dell’attuale situazione lascerebbe pure a loro un più ampio margine di manovra. Lo spera ardentemente Bersani che, dopo le primarie milanesi, teme di perdere nell’agone del momento quelle nazionali con Vendola. Il segretario ha bisogno di tempo per far quadrare il cerchio del Nazareno intorno a lui e compattare tutti contro il presidente pugliese. Anche se meglio sarebbe evitarle proprio queste benedette primarie, scegliendo un bel papa straniero che superi le rivalità interne al centrosinistra e neutralizzi l’Opa di Vendola sul Pd. Bersani, questo, non lo può dire. Ma si augura davvero che, in un modo o nell’altro, la situazione evolva in questa direzione.


diario

24 novembre 2010 • pagina 7

Con il voto di Parigi si formalizza la prossima sede dell’evento

Non bastano gli arresti, «investire al Sud resta un rischio», dice Bonanni

Expo 2015, il Bie approva Milano e passa la bandiera

Imprese in fuga dalla Sicilia, allarme Cisl

MILANO. L’assemblea generale del Bureau des Expositions (Bie) ha approvato il dossier di registrazione di Milano per l’organizzazione dell’edizione del 2015 dell’Expo. Con la decisione presa ieri, Milano è la sede ufficiale di Expo 2015. La designazione formale è avvenuta a Parigi con il passaggio della bandiera da Shanghai, dove l’Expo si è tenuto quest’anno, al capoluogo lombardo. La bandiera è stata consegnata nelle mani del sindaco, Letizia Moratti, dell’amministratore delegato di Expo 2015, Giuseppe Sala, del presidente Diana Bracco e del presidente del consiglio provinciale, Bruno Dapei. A consegnare il vessillo, dopo le relazioni di Shanghai e di Yeosu e prima di quella di Milano, il presidente del Bureau, Jean Pierre Lafon, e il segretario Vicente Loscertales. A presentare le formali “congratulazioni” a Milano, il presidente del comitato esecutivo Steen Christensen.

ROMA. Tanti gli arresti di per-

L’Inno di Mameli, suonato dall’Orchestra civica dei fiati, e un’esplosione di coriandoli tricolori hanno salutato, in piazza della Scala a Milano la notizia della registrazione. Alcune centinaia di persone si sono raccolte davanti a Palazzo Marino, sede del Comune, per attendere

Napolitano insiste: «Più fondi alla cultura» «Lo sviluppo economico del Paese passa anche di qui» di Francesco Capozza

ROMA. «Non troveremo le nuove vie per il nostro sviluppo economico e sociale attraverso una mortificazione della risorsa di cui l’Italia è più ricca: la risorsa cultura nella sua accezione unitaria», queste le parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante la consegna al Quirinale dei premi De Sica. «Adoperiamoci - ha aggiunto - perchè di ciò si convincano tutti e perchè se ne traggano le conseguenze». Il Capo dello Stato inoltre ha chiesto un’approfondita riflessione sui «problemi dello spettacolo e del suo finanziamento pubblico».

Le parole di Giorgio Napolitano sono arrivate proprio il giorno seguente lo sciopero indetto lunedì dai sindacati legati allo spettacolo in ogni sua forma. Napolitano, senza troppi giri di parole, chiede dunque una riflessione per assicurare risorse al mondo della cultura. Ma subito dopo aggiunge che «dobbiamo fare i conti con una riduzione, cui non possiamo sfuggire, del nostro debito pubblico». Dobbiamo farlo, ha spiegato, «nell’interesse soprattutto delle nuove generazioni, sulle cui spalle non abbiamo il diritto di scaricare il simile peso». Sulla crisi economica internazionale, il presidente della Repubblica ritiene che ci imponga «di ripensare molte cose in Italia e in Europa, anche per come siamo cresciuti finora, spesso al di sopra delle nostre possibilità nei paesi ricchi, ricchi nel contesto mondiale, per quanto segnati a loro interno da squilibri e iniquità». Il Capo dello Stato ha quindi osservato che «il mondo è cambiato e non ci sono sconti e via d’uscita indolori per paesi (ad esempio dell’Eurozona, come stiamo vedendo) che hanno conosciuto un’illusoria, troppo facile, crescita negli scorsi decenni». Sulla soppressione dell’Eti, Napolitano si è detto «rammaricato molto di questa forzata assenza», sottolineando che alla cerimonia per i Premi De Sica non era presente, al contrario dell’anno scorso, l’Ente teatrale italiano, «ente inspiegabilmente soppresso» e manchi-

no anche i premi «gli Olimpici del teatro». «Spero siano solo sospesi», ha detto. Napolitano ha poi sottolineato l’importanza del teatro citando Manfred Brauneck, eminente studioso tedesco cui la scorsa settimana è stato assegnato il Premio Balzan: «Il teatro in tutte le sue forme e con la sua lunga e ricchissima storia è parte integrante della cultura europea, e già alla sua origine in Attica era la manifestazione pubblica più convincente e splendida del nostro modello di civiltà democratica». Per il presidente della Repubblica, infine, occorre una rigorosa revisione della spesa pubblica: «Le sfide attraverso cui passerà il futuro dell’Italia richiedono revisioni rigorose nella spesa pubblica». Il capo dello Stato ha quindi sottolineato che «dobbiamo discuterne seriamente e trovare nuove vie per il nostro sviluppo economico e social». Scelte, ha concluso, che «non possono mortificare la cultura perché comprometterebbero il nostro sviluppo». Immediata la replica del ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, anch’egli presente ieri al Quirinale. Bondi, da tempo sotto ai riflettori per i suoi comportamenti per lo meno contraddittori (nulla ha fatto di concreto contro l’umiliazione subita dal mondo culturale in questi ultimi anni), ha esordito: «Sono grato al Presidente che ha interpretato la preoccupazione e il malessere, ma ha riconosciuto anche il mio impegno».

Consegnando i “Premi De Sica”, il presidente attacca i tagli. E Bondi si difende: «Io ho fatto il possibile»

l’annuncio ufficiale da Parigi. Tra la folla i ragazzi dell’associazione Giovani per Expo, vestiti con le classiche t-shirt bianche d’ordinanza, e gli allievi di una classe di una scuola media di Milano che hanno sventolato senza sostale bandierine dell’Expo. Accompagnate dalle note della banda, le persone raccolte in piazza Duomo hanno acclamato la registrazione del dossier con applausi e fischietti, mentre dalla facciata di Palazzo Marino sono state srotolati numerosi vessilli. Analoghi festeggiamenti si sono tenuti anche davanti alla sede di Regione Lombardia, davanti a quella della Provincia di Milano e di Expo 2015 spa.

sonaggi eccellenti, i colpi durissimi alla criminalità organizzata inflitti dal governo e giustamente rivendicati dal ministro leghista dell’Interno, Roberto Maroni. Ma la sfida per restituire alla legalità quella parte dell’economia controllata dalle mafie è ancora da vincere. Lo dimostra quanto sta accadendo in Sicilia dove, a lanciare l’allarme, è stato il segretario della Cisl regionale, Maurizio Bernava: ieri a Palermo, al Palazzo dei Normanni, il sindacato confederale ha celebrato un forum su “I grandi gruppi industriali e la Sicilia, un rapporto in crisi”. Sono emersi tutti i limiti di una «politica disattenta», come la definisce il presidente della

«Sono impegnato per il cinema, perché vengano reintegrati gli incentivi». Per quanto riguarda invece l’Eti, l’Ente teatrale italiano, soppresso dal governo, il ministro ha avuto toni più duri: «Sopprimerlo è stato una misura giusta. Ci siamo fatti carico per il teatro di affidarlo alla società civile. È stato il caso del Quirino, sarà così anche per il Duse di Bologna e la Pergola di Firenze e infine per il Valle di Roma. L’Eti - ha concluso Bondi - era una sovrastruttura inutile. Bisogna aderire al più presto ad una visione dello spettacolo sostenuto dalla società civile».

Confindustria siciliana Ivan Lo Bello, «un politica ancora convinta che la ricchezza si produca distribuendo risorse che non ci sono più, facendo debito o cercando di utilizzare fondi di investimento per la ripresa corrente». Ma l’intervento decisivo dovrebbe arrivare dal governo nazionale, riflette Raffaele Bonanni: «In Italia non si investe perché sono troppo alte le tasse e perché non funziona tutto ciò che fa la forza per un’impresa, soprattutto nel Meridione». Bisognerebbe, per esempio, «migliorare le infrastrutture», sostiene l’assessore alle Attività produttive della Regione, Marco Venturi. Serve una strategia anche dell’esecutivo regionale, è la conclusione a cui arriva Bernava: «Roma e Palermo utilizzino le risorse che ci sono per mettere al centro l’impresa vera e legale». Altrimenti il panorama dell’Isola rischia di «trasformarsi in una totale desertificazione industriale, e senza una strategia che renda il contesto più competitivo non riusciremo a fermare l’emorragia di aziende né tantomeno ad attrarne di nuove». La Cisl lancia l’allarme, dunque: calo di commesse, ostacoli burocratici e criminalità scoraggiano i (a.r.) grandi gruppi.


mondo

pagina 8 • 24 novembre 2010

Il dibattito sul possibile ritorno alla Lira è puramente pretestuoso

L’Euro, unico salvagente per i conti italiani La rete della moneta unica ha dimostrato la sua tenuta e l’Unione stavolta non si è fatta cogliere di sorpresa di Gianfranco Polillo ella giallistica americana, gli irlandesi sono quasi sempre killer o detective. È una costante che racchiude un tratto della storia di quel Paese. Furono soprattutto irlandesi i primi immigrati. E solo nel tempo si trasformarono in una componente importante della classe dirigente. Ma per alcuni che salirono lungo la scala sociale, molti altri rimasero ai margini: costretti comunque a convivere con il mondo violento della criminalità organizzata. Vicende del passato, segnate dal duro scontro tra cattolici e protestanti. Al tempo stesso, un apprendistato da mettere a frutto, una volta abbandonata la propria terra nella speranza di vivere «una storia americana». Le ultime parole che Brad Pitt pronuncia prima di morire per mano Harrison Ford, in un bellissimo film di qualche anno fa (L’ombra del diavolo). Vicende del passato, che sembravano consegnate alle immagini dell’industria di Hollywood, ma che oggi ritornano in un immaginario collettivo segnato dalla crisi e dall’incertezza. Questo è il retroterra più drammatico della crisi irlandese. Gli anni del lungo boom, con un tasso di crescita a due cifre – quasi un miracolo rispetto alla più antica tradizione – ed una pressione fiscale quasi inesistente, avevano fatto dimenticare. La tigre celtica, come ancora oggi viene chiamata questa terra in condominio con gli odiati in-

N

glesi, non solo ha perso slancio, ma rischia di evocare i fantasmi del passato.

Uscirà dal tunnel? È una speranza, più che una certezza. Ci vorrà tempo, un grande rigore, la ricostruzione dei patrimoni distrutti dalla falcidia del crollo dei prezzi nel settore immobiliare, una stretta nei consumi per far crescere il risparmio con cui pagare i mutui contratti. Ci vorrà tutto questo, ma soprattutto l’aiuto dell’Europa. Si poteva intervenire prima? Certamente sì. Ma, questa volta, non ci sono colpe da denunciare. La lezione greca è servita. L’Europa era pronta da tempo, le resistenze sono venute dall’i-

IL CON

ferenza nei tassi di interesse) con il bund tedesco è sceso, ieri, a 148 punti base. Gli 80 o 90 miliardi di euro – queste almeno le previsioni – che l’Europa utilizzerà per combattere la speculazione contro i titoli irlandesi sembrano quindi aver prodotto un primo effetto positivo. Ma è solo la prima battaglia di una lunga guerra i cui esiti non sono scontati. Al punto che sono, ormai, in molti a dubitare della solidità stessa dell’euro. Ipotesi, per lo meno, intempestiva.

Gli abitanti dell’Irlanda sono poco più di 4 milioni e mezzo: meno di una regione italiana, se si considera che la Campania ne ha un milione e mezzo in più. Sui grandi equilibri europei è solo un piccolo colpo. Può fare da detonatore di una crisi più ampia, è vero, ma prima di allora ogni previsione è prematura. La verità è che molte di queste previsioni sono in realtà un auspicio, pronunciato a mezza bocca. È quanto accade sia in Germania che in Italia. La spiegazione è relativamente semplice. Paventare questo pericolo contribuisce a deprimere l’euro nei grandi scambi internazionali: un modo come un altro per accrescere il volume dell’export. Questa è almeno l’accusa che alcuni economisti tedeschi lanciano nei confronti di Angela Merkel: Voleva essere confermata alla presidenza della Cdu e doveva, quindi, fa-

Oggi pesano solo tre grandi aree valutarie: dollaro, yen e la nostra. Chi ne è fuori, è costretto ad agganciarsi agli altri nelle scelte di politica economica nutile manifestazione d’orgoglio nazionale e dai malintesi calcoli elettorali del Governo in carica. Si voleva, a tutti i costi, evitare l’umiliazione. Come se il dissesto non fosse stato conseguenza degli errori compiuti negli anni precedenti, quando si riteneva che la finanza “creativa” potesse moltiplicare pane e pesci, come nella parabola evangelica. Oggi che la sbornia è finita non restano che i cocci ed il rischio di un contagio che, dopo la Grecia, possa estendersi a Portogallo e la Spagna, fino a lambire i nostri confini nazionali. Che, per fortuna, sono presidiati: visto che lo spread (dif-

re la faccia feroce, minacciando di decretare il default di quegli Stati sovrani incapaci di praticare la virtù del rigore finanziario. Operazione riuscita.

In Italia, invece, la situazione è diversa. Chi mette in discussione l’euro, lo fa sulla base di un ragionamento ellittico. Non si può avere – questa la tesi – una moneta unica senza una vera unità politica del Continente. Quindi Stato federale, un unico Governo. Insomma gli Stati Uniti d’Europa: carta carbone dell’esperienza americana. Come se il “legno storto” della storia, per riprendere la bella espressione di Kant, potesse essere piegato al razionalismo astratto dei desideri. Come se l’Europa non avesse alle sue spalle un susseguirsi di conflitti sanguinosi – la guerra dei trent’anni, come dicono gli storici francesi, solo per descrivere i due conflitti mondiali – che sono stato il lievito di una

sovranità nazionale e della sedimentazione di culture che solo un lento processo di contaminazione può trasformare in qualcosa di diverso e di unitario. L’impazienza, in questi casi, può giocare brutti scherzi e distruggere, nello spazio di un mattino, un processo faticoso, durato anni.

E poi: quale sarebbe l’alternativa? Il ritorno alla lira? La nostra moneta aveva diritto di cittadinanza in un mondo più angusto. Occidente da un lato ed ai confini del Continente un rublo non convertibile. Il resto del mondo non contava: era solo “sottosviluppo”. Terzo mondo: come allora si diceva. Qualcosa che non esiste più. Oggi pesano solo tre grandi aree valutarie: quella del dollaro, dello yen e dell’euro. Se non vi si partecipa, non resta altro che la strada del crawling peg: vale a dire l’ancoraggio ad una moneta più forte e quindi la dipenden-


mondo

24 novembre 2010 • pagina 9

Borse a picco, si accelera per il maxi prestito da 90 miliardi per Dublino

Si aggrava la crisi dell’Euro: le banche sotto pressione

NTAGIO

Jean-Claude Trichet, Angela Merkel e tre immagini di Dublino

za dalle scelte di politica economica di uno Stato estero, su cui è impossibile incidere. E’ il grande imbarazzo di una potenza emergente come la Cina. Lo yuan è, da tempo, ancorato al dollaro, nonostante le pressioni rivolte ad una sua rivalutazione. Il vantaggio di questo legame è dato dalla crescita delle sue esportazioni. Lo svantaggio dall’accumulo di riserve in dollari, che si svalutano ogni qual volta la moneta verde perde valore, traducendosi in altrettante perdite in conto capitale. Senza considerare, poi, gli effetti congiunturali. Una politica monetaria espansiva del Paese leader incide sugli aggregati monetari di quello dipendente. In Cina si sta sviluppando un processo inflazionistico che rischia di minare i delicati equilibri sociali di quell’immenso Paese. Attenti quindi alle facili suggestioni. L’euro non sarà il paradiso, ma senza si rischia l’inferno.

La Merkel lancia l’allarme «Siamo tutti in pericolo» Timori per l’instabilità politica. Il Fondo monetario avverte: il caso Irlanda mette a rischio anche la ripresa di Francesco Pacifico

ROMA. L’euro continua a correre in picchiata. Le Borse non riescono ad arginare le perdite. Ma la crisi dell’Irlanda rischia di travolgere anche la politica. L’ha dovuto accettare anche Angela Merkel, costretta ormai a usare termini più consoni alla Bild o al falco Schäuble, pur di convincere il suo Paese che il salvataggio dell’Irlanda è necessario. Che «l’attuale situazione dell’Eurozona resta straordinariamente grave». La cancelliera non vuole pagare un prezzo più alto del dovuto per evitare che i debiti delle banche tedesche verso l’Irlanda diventino carta straccia. Quindi, ospite della locale Confindustria ha ricordato che un conto è la stabilità della moneta unica, un altro «la solidarietà nei confronti dell’euro. Ma questa solidarietà è garantita soltanto se si assicura che le cause della crisi saranno eliminate». Quale sia la missione del leader cristiano democratico, l’ha chiarito meglio di altri Der Spiegel sul proprio sito. «Per la seconda volta in pochi mesi», si legge, «dovrà spiegare agli elettori il motivo per cui la Germania deve partecipare a un piano di salvataggio per un Paese dell’Eurozona. Ma lo scetticismo aumenta, tra gli elettori, nei media e nel suo stesso partito. E ancora: «Dato che il Portogallo non è molto lontano, i nostri politici hanno un problema: in qualità di economia più forte in Europa, siamo chiamati ancora una volta a dare un contributo più elevato». Guardando alle proteste di piazza che riguardano le capitali più colpite della crisi (Atene come Dublino) quanto quelle dei Paesi più solidi (Parigi), in molti rimpiangono gli sforzi fatti un po’ ovunque per entrare nell’euro. E soprattutto ci si rammarica per non aver fatto seguire all’unione finanziaria un’unità di intenti e sentimenti condivisi da saldare proprio sulla moneta. Anche negli ultimi mesi – quando l’Ecofin ha inserito con diversi passaggi tutti i tasselli per creare cordoni di salvataggio assenti in passato – gli stessi ministri delle Finanze che lo compongono si sono affrettati a tranquillizzare in patria i loro elettori che non ci sarebbero state lacrime e sangue. E il tutto nel silenzio dei Parlamenti nazionali. Salvo poi dover ammettere – come ha fatto anche Giulio Tremonti – che le nuove regole europee per la formazione del bilancio non permettono spesa in deficit. Lunedì sera Angela Merkel ha avuto un duro confronto con i suoi parlamentari. I quali hanno ammesso di non comprendere la sua decisione di intervenire a favore di Dublino. E se non l’hanno capito loro, figurarsi se si si prenderanno la briga di spiegarlo ai loro elettori. Anche perché in Germania è ancora forte il ricordo di Gerard Schröder che perse le elezioni

dopo aver presentato un duro pacchetto di tagli allo Stato sociale – Hartz IV – che portò alla luce 5 milioni di disoccupati. E poco importa che quelle misure sono le stesse che oggi permettono alla Germania di primeggiare nell’esportazione dei beni di lusso o più innovativi. I tedeschi temono che agli sforzi di questi anni (accanto alla perdita dei sussidi ci sono le durissime ristrutturazioni aziendali) non segua quel benessere conosciuto ininterrottamente dagli anni della ricostruzione fino alla caduta del muro Berlino. E se il prezzo per l’unificazione era poter tornare a essere una patria, non s’intravede un disegno nel tentativo di salvare un’entità indefinita come l’Europa unita. Angela Merkel ha spiegato in tutte le salse che non è possibile e non ha senso tornare al marco. Così non le resta, come ha fatto ieri, di scagliarsi contro il sistema bancario. Dell’Irlanda come della Germania, lo stesso che finora ha tenuto in piedi con oltre 100 miliardi e che l’ha spinta ad accollarsi le principali perdite di Dublino. Infatti ha ribadito la necessità «di inserire i privati nel meccanismo anti-crisi europeo dopo il 2013». Che paghino anche chi questa situazione l’ha generata.

Il Ft si è chiesto qualche giorno fa quale può essere lo stato d’animo di un irlandese o di un tedesco, che hanno votato per un governo in grado di abbassare le tasse e di aiutare le imprese. E che ora vedono quegli stessi esecutivi tagliare soltanto lo stato sociale. Brian Cowen, che tra qualche giorno dovrà presentare al Parlamento di Dublino una nuova manovra da 15 miliardi, non vuole passare alla storia come il politico che ha portato sull’orlo del baratro la Tigre celtica. E vuole dimettersi subito dopo l’ok al piano, nonostante l’Europa chieda a lui come alla fronda della Fianna Fail o ai Verdi, suoi partner di coalizione, uno scatto di responsabilità allontanando il voto anticipato. Il problema è di sovranità. Nel Paese la mente corre agli anni bui, quando l’Irlanda era un’isola che viveva della beneficenza degli Stati Uniti, per non parlare della dominazione britannica. Oggi, invece, il sentore è che le decisioni principali saranno prese a Bruxelles, senza che nessuno spieghi perché l’isola è passata dall’essere il simbolo del liberalismo a l’emblema delle pericolose triangolazioni tra investimenti immobiliari, eccessiva finanza e scarsa vigilanza. Il ministro del Commercio, Batt O’Keefe, che ben conosce il suo popolo, ha dichiarato qualche giorno fa: «La sovranità di questo Paese è stata difficile da ottenere e questo governo non l’abbandonerà a chiunque». Ma sarà difficile non barattarla con un assegno da 90 miliardi di euro, visto che – come ha paventato ieri il Fmi – la crisi irlandese potrebbe cancellare la ripresa.


panorama

pagina 10 • 24 novembre 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La Campania tra terremoto e post-terremoto l terremoto del 23 novembre 1980 lo ricordo molto bene. Avevo dodici anni. Era domenica e la serata era umida e nebbiosa. Scesi con mia nonna da casa dei miei genitori per andare a casa da nonno. Avevo in testa un gran cappello di mio padre che ancora conservo. La passeggiata fu rapida perché il freddo ci mise fretta. La casa dei nonni era al terzo piano di un palazzo di quattro piani con due ali e al centro la scala. La scossa ci sorprese nel punto più pericoloso e ballerino: le scale. Mio nonno aveva aperto la porta e attendeva sul pianerottolo, mentre io e mia nonna eravamo sul pianerottolo inferiore e dovevamo salire l’ultima rampa di scale. Tutto cominciò a tremare: le scale sotto i miei piedi diventarono mobili e mio nonno che era in alto lo vidi improvvisamente a me vicino. Non so come riuscimmo a salire gli ultimi gradini e afferrati da nonno Michele entrammo in casa mentre tutte le pareti del palazzo si muovevano.

I

La scossa fu lunga. Secondi, ma secondi interminabili. Provate a scandire trenta secondi e vedete che poi non sono così pochi. Entrati in casa ci rifugiammo sotto il muro portante del palazzo che sorge su un viale alberato di platani. Tra noi e gli alberi c’erano almeno trenta metri di spazio, ma la casa si muoveva così tanto e oscillava come un’altalena che mi sembrò di toccare con mano i rami dei platani. Ci stringemmo tra noi senza poter fare altro che attendere. Attendere e sperare che finisse al più presto. Ci andò bene visto che trent’anni dopo sto qui a raccontare quella serata che cambiò la storia d’Italia. Terminata la lunga e paurosa scossa, il timore maggiore era rimettersi su quelle scale che pochi secondi prima avevamo sentito ballare sotto i nostri piedi e visto muoversi senza credere subito ai nostri occhi. Ma non si poteva fare altro che scendere. La strada era buia, la nebbia ancora più fitta. Mio padre fu sorpreso dalla scossa al Circolo sociale in pieno centro storico di Sant’Agata dei Goti. Corse subito a casa e facendosi coraggio attraversò il ponte che unisce la parte antica e la parte nuova del paese. Riunì la famiglia felice di poter abbracciare moglie e figli. Quella notte la passammo fuori, in automobile insieme con tanti altri in una sorta di campo-base in cui fu acceso un fuoco mentre tutt’intorno si cercavano notizie da radio e televisione. Fu una notte strana e confusa ma, per i ragazzini come me, anche divertente. Il giorno dopo, invece, fu molto triste. Alle prime luci dell’alba ritornammo a casa e dormimmo sui divani. Le notizie che arrivavano dalla vicina Irpinia erano catastrofiche. Il pensiero e poi le immagini di quelle macerie di Lioni e di Sant’Angelo dei Lombardi ci fecero subito capire che eravamo stati graziati. Il terremoto da noi non fece danni né morti, il post-terremoto cambierà la vita civile e morale del paese facendo danni e morti.

Eutanasia, una voce contro a “Vieni via con me” L’intervento dell’Udc convince Masi a una replica pro-life di Martha Nunziata cominciato, o, meglio, è ricominciato tutto nove giorni fa, con gli interventi di Mina Welby e di Beppino Englaro a Vieni via con me. La trasmissione-cult di Rai3, condotta da Fabio Fazio e Roberto Saviano (che ha ospitato il ministro Maroni, che ha chiuso la polemica sul rapporto Lega-ndrangheta elencando il numero di superlatitanti catturati negli ultimi due anni), vista da 8 milioni di telespettatori, ha trattato l’argomento eutanasia con molta sensibilità e autentica commozione. Il monologo di Saviano, però, ha riaperto il dibattito sull’eutanasia: una questione molto sentita in Italia, e che ha riportato la polemica sull’assenza di una legge sul testamento biologico. E il dibattito successivo, dalla scena mediatica, si è spostato a quella politico-istituzionale. Una parte dell’opinione pubblica, soprattutto quella cattolica, si è risentita di non aver avuto la possibilità durante la trasmissione di intervenire a sostegno dell’altra tesi, quella della lotta per la vita. «Ho il massimo rispetto per chi vive sulla propria pelle momenti di grande sofferenza, ma c’è anche chi fa scelte diverse e penso che sia giusto dare la parola anche a loro»: così si è espresso Pier Ferdinando Casini, domenica scorsa, al convegno di Torino, dove ha chiesto al popolo dell’Udc di presentarsi a Viale Mazzini, per chiedere al presidente della Rai «che sia concessa la parola anche a coloro che scelgono la vita e lottano per vivere».

È

Paolo Ruffini di ospitare, in una delle prossime puntate di Vieni via con me chi, come i parenti dei malati, vive il dramma in prima persona, ma rifiuta il concetto di eutanasia. Punti di vista diversi, posizioni distanti, inavvicinabili, ovviamente agli antipodi: in Italia come nel mondo. Chi può decidere quale sia la forma di vita degna di essere vissuta?

Da qualche tempo, in rete, circola uno spot pro eutanasia, prodotto (ma censurato) in Australia, che ha lasciato sconcertato tutto il mondo cattolico: un uomo di mezza età, malato terminale, chiede la liberalizzazione della “dolce morte”. Lo spot era pronto per la messa in onda televisiva anche in Italia, su Telelombardia, ma il quotidiano Avvenire ha chiesto all’Ag.com di evitarne la trasmissione. Il messaggio, sottoscritto per l’Italia da Exit Italia (apertamente favorevole all’eutanasia) e dall’Associazione Luca Coscioni, è una provocazione ideologica, un tentativo di manipolare le coscienze, secondo gli oppositori alla teoria della liberalizzazione dell’eutanasia, una manifestazione di volontà, secondo chi, come gli stessi Welby, Englaro e Coscioni, ha scelto diversamente. Il punto centrale della questione, in effetti, è proprio questo: non c’è ancora, in Italia, regolamentazione giuridica in tal senso. Il cosiddetto “testamento biologico”continua ad essere oggetto di tentativi di ratifica che si infrangono, regolarmente, sugli scogli delle diverse posizioni. Eppure la stessa Chiesa cattolica, per voce del cardinal Bagnasco (presidente della CEI) ha sollecitato il Parlamento al varo di una legge sul fine vita che, «riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili e rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza, fuori dalle gabbie burocratiche». Un dibattito ancora dolorosamente aperto, nonostante siano centinaia, solo in Italia, le persone precipitate in quello che viene definito “stato vegetativo permanente”: un limbo dal quale c’è chi preferirebbe uscire ma nel quale c’è anche chi, al contrario, rimane per lottare, disperatamente aggrappato alla vita. Ognuno con le proprie ragioni: tutte, a loro modo, spinte dall’amore.,

Casini: «Spero che Fazio faccia parlare non i politici, ma quei malati che hanno fatto una scelta diversa da Welby»

A questa parte dell’Italia che soffre e che fa delle scelte diverse, condivisibili o meno, la trasmissione non ha lasciato alcuna voce: non c’è stato, almeno finora, lo spazio per chi, pur nel dolore, vuole percorrere un altro sentiero, vuole esprimere un’altra scelta, quella di combattere per vivere. «Io mi auguro che Fazio - ha aggiunto Casini in un’intervista al Giornale Radio Rai - dia voce non a me o ai politici, ma ai malati, ai loro familiari e alle associazioni che li rappresentano». «Vorrei che la Rai, che è servizio pubblico - ha concluso - desse la parola anche a coloro che scelgono la vita e che lottano per vivere», annunciando “Più voce alla vita”, la protesta del mondo cattolico di fronte agli uffici Rai di Viale Mazzini. E un risultato, almeno parziale, sembra essere arrivato: il Direttore Generale della Rai, Mauro Masi, ha chiesto al direttore di Rai3


panorama

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E-commerce. L’azienda Usa inaugura il dominio italiano con sconti del 30% ROMA. «Non è il solito pacco», recitava l’imponente campagna pubblicitaria dall’alto della cartellonistica milanese e romana più ambita. E la spedizione è arrivata puntuale nella Penisola, persino in anticipo, e pronta a mettere le tende nella Penisola con spirito d’assedio militaresco. Da Amazon è in arrivo un bastimento carico di libri: oltre due milioni di volumi pronta consegna all’allettante costo del meno trenta per cento del valore reale sul mercato. Queste le cifre della corazzata americana, sito leader al mondo per il commercio elettronico, che da oggi sbarca in Italia onusta di intenti bellicosi contro i concorrenti italici. Dai bestseller internazionali agli articoli in lingua italiana più difficili da trovare, l’ammiraglia del commercio 2.0 mette su piazza anche 450mila cd,120mila dvd e una vasta selezione di videogiochi, musica e elettronica.

«Il 3 Agosto 1995 abbiamo consegnato il primo ordine italiano – il libro Ranks of Bronze – a un cliente di Genova, inviato da uno dei nostri magazzini negli Stati Uniti. Da quel giorno, attraverso i nostri siti internazionali, abbiamo spedito milioni di articoli a clienti in Italia. Siamo ora entusiasti di aprire le nostre porte virtuali ai clienti italiani con un’offerta italiana», spiega il fondatore di Amazon, Jeff Bezos. «Finalmente possiamo offrire anche ai clienti italiani il programma Amazon Prime apprezzato in tutto il mondo, grazie al quale, i nostri clienti possono usufruire di spedizioni gratuite illimitate entro 2-3 giorni a un prezzo annuale di 9,99 euro», gli fa eco un fiducioso Diego Piacentini, senior vice president international per il retail dell’azienda. Il dominio italiano inaugurato ieri sembra particolarmente agguerrito. Amazon lo presenta come il più fornito di categorie commerciali nel mondo.

Ecco Amazon.it, milioni di libri low-cost Offerte speciali e servizi gratuiti. La creatura di Bezos è pronta a divorare il mercato di Francesco Lo Dico

Una schermata di Amazon, celebre piattaforma di e-commerce che privilegia il mercato dei libri. Qui sotto, Kindle, il lettore di e-book in aperta concorrenza con l’Ipad della Apple 19 euro, mentre il servizio Amazon Prime (consegne gratuite e illimitate a fronte di un abbonamento annuale) viene proposto a 9,99 euro, contro ale 49 sterline pagate da un suddito di Sua Maestà, i 49 euro di un transalpino e i 29 di un berlinese. La versione italiana non presenta invece, almeno per il momento, l’offerta di ebook Kindle e il download di musica in formato mp3. Clima

gozio virtuale ad inserire nel negozio virtuale in italiano di Amazon libri e autori di casa nostra.

L’azienda toscana è al lavoro sullo sviluppo delle versioni Kindle degli ebook, con l’o-

Dai bestseller internazionali agli articoli in lingua italiana più difficili da trovare, l’ammiraglia del commercio 2.0 mette su piazza anche 450mila cd e 120mila dvd Insieme al catalogo sterminato, ci sono infatti anche numerose anteprime di software, elettrodomestici, orologi e giocattoli. La filiale in lingua italiana è l’ultima di un progetto europeo che ha già visto la multinazionale americana piazzare le proprie bandierine in Germania, Gran Bretagna e Francia. Politica commerciale da subito aggressiva, anzi vorace. Le consegne saranno gratuite per ordini superiori ai

festoso in casa Amazon, ma trepido nella Penisola, dove alcuni osservatori paventano una forte pressione sugli altri operatori editoriali, e susseguenti scossoni nel circuito della distribuzione. Sussurri e grida per molti, ma non per tutti. A Pisa, per esempio, dove la GoWare, azienda del Polo tecnologico di Navacchio nel Comune di Cascina, dislocherà il proprio catalogo nella ricca vetrina di amazon.it. ne-

biettivo di estenderne la fruibilità a svariati sistemi operativi e dispositivi supportati da apposite applicazioni. Insieme ad amazon.it non approdano in Italia soltanto congerie di libri, ma anche una filosofia di distribuzione smilza e redditi-

zia. Le Kindle editions sono efficaci e sicure, e rappresentano uno dei modi migliori per confezionare e distribuire libri elettronici. Il nuovo schema di distribuzione dei ricavi tra Amazon e i detentori dei diritti, rappresenta perciò anche una buona opportunità per piccoli editori all’avanguardia. Il gran bazar americano ha aperto i battenti ieri, dopo gli insistenti rumors dei giorni scorsi. Ne avevano parlato con cautela nietn’affatto dorotea siti come Bitmat e ilPost. E proprio a Bitmat, Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il Consorzio del commercio elettronico, affida il suo commento sul tuffo a piè pari di Amazon nel bacino nostrano. «Ormai anche in Italia esistono le condizioni normative, logistiche e di mercato adeguate», ha spiegato Liscia. La tempistica prescelta per l’ingresso in Italia, non è frutto del caso. Pochi giorni fa l’Osservatorio promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano con la collaborazione di Netcomm Consorzio del Commercio Elettronico Italiano, ha valutato che nel 2010, dopo la frenata fatta registrare nel 2009, c’è un salto per le vendite online del 14 per cento, giunte a un giro d’affari complessivo di 6,5 miliardi di euro. Il boom dell’e-commerce è fragoroso a dispetto della crisi, e il mercato italiano vale circa due volte quello inglese e statunitense. Internet Bookshop Italia, prevede di chiudere ad esempio il 2010 con una crescita del 18 per cento salendo a quota 53 milioni di euro di fatturato. E Libraccio.it, in partnership con Ibs, chiude invece con 6 milioni di euro di attivo. Il doppio dell’anno scorso. Per amazon.it si prevedeva il lancio a partire dal 2011. il numero due di Amazon, Alessandro Merli, aveva spiegato che l’azienda americana aveva dato massima urgenza agli investimenti in Asia, e che l’Italia, ancora sprovvista di banda larga e di un commercio on line non troppo florido, non rappresentava ancora un buon affare.

Un’accelerazione improvvisa, spiegabile anche con la grande guerra ingaggiata contro il colosso di Brin e Page, Google. Il celebre duo che ha fondato il motore di ricerca più famoso del Pianeta hanno lanciato la scorsa settimana con un party a Soho Boutiques.com, il bazar elettronico di Big G . Facile immaginare per Mountain View una campagna di colonizzazione rapida e vittoriosa. E altrettanto strategico, per mister Amazon, fare trovare le proprie truppe schierate nella Penisola.


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ella sua recente visita a Pechino, il primo ministro britannico David Cameron ha dichiarato che la Cina reclamerà presto la sua posizione di più grande economia mondiale, un ruolo che ha mantenuto per diciotto dei passati venti secoli. Ma come sono riusciti Stati Uniti, Gran Bretagna e il resto dell’Europa ad interrompere questa supremazia? È stato merito della posizione. Perché l’Occidente domina il mondo? Gli europei si sono posti questa domanda dal XVIII secolo, e gli africani e gli asiatici dal XIX. Ma non c’è ancora molta concordanza sulle risposte. Un tempo si sosteneva che gli occidentali fossero semplicemente biologicamente superiori. Secondo altri la religione, la cultura, l’etica e le istituzioni occidentali sono straordinariamente eccellenti, o l’Occidente ha leader migliori. Altri ancora rifiutano in toto questi punti di vista ed insistono sul fatto che la dominazione occidentale non è stata altro che un caso. Tuttavia negli ultimi anni si è fatta strada una nuova teoria. Stili di vita diversi iniziarono ad emergere in diverse parti del mondo undicimila anni fa, quando i primi coltivatori crearono società più complesse. Da questi centri

N

agricoli (che corrispondono alle regioni che noi indichiamo con Asia sudoccidentale, Cina, Pakistan, Messico e Perù) nacquero grandi civiltà, ognuna delle quali si espanse con l’aumento della popolazione. Il più occidentale dei centri agricoli del Vecchio Mondo, in Asia sudoccidentale, gettò le fondamenta di quella che oggi chiamiamo Civiltà Occidentale. Il nucleo occidentale, nel 500 a. C. si era espanso in tutta Europa, spostando il proprio centro di gravità tra le culture mediterranee della Grecia e di Roma. Nel 1500 si era espanso ancora oltre ed il suo centro stava raggiungendo l’Europa orientale. Nel 1900 si era espanso attraverso gli oceani, spostando il suo centro all’America settentrionale. Questo suggerirebbe che le popolazioni siano le stesse in tutto il mondo. Il motivo per cui alcuni gruppi erano dediti alla caccia e all’agricoltura mentre altri avevano costruito imperi e condotto rivoluzioni industriali non ha niente a che vedere con la genetica, le credenze, le attitudini o i grandi uomini: è solo una questione di geografia. La Cina e l’India si tengono ovviamente pronte a raccogliere lo scettro di superpotenze mondiali, ma per spiegare perché l’Occidente governa, dobbiamo tornare indietro di quindicimila anni al momento in cui il pianeta si è riscaldato dopo la fine dell’ultima era glaciale. La geografia allora stabiliva che c’erano solo poche regioni sul pianeta in cui fosse possibile coltivare perché solo in queste sussistevano le condizioni atmosferiche e ambientali che consentivano la crescita di piante selvatiche e animali che potevano essere addomesticati. Le maggiori concentrazioni di queste piante e animali si trova-

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Uno studio dello Stanford University rivela come la conformazione dei terreni e

È la Terra che sceglie chi vince Oriente e Occidente si scontrano da anni per la supremazia. Ma è la geografia, non la guerra, a decidere per loro. E l’ascesa, il declino e la nuova ascesa della Cina lo dimostrano di Ian Morris

vano verso il confine occidentale dell’Eurasia, attorno alle sorgenti dei fiumi Eufrate, Tigri, e Giordano nella regione che adesso chiamiamo Asia sudoccidentale. È quindi in questo punto, intorno al novemila a. C. fa che è iniziata l’agricoltura, da qui si è diffusa poi in tutta l’Europa. L’agricoltura si è poi avviata in maniera indipendente in altre regioni, dalla Cina al Messico, ma poiché le piante e gli animali che potevano essere addomesticati erano in qualche modo meno comuni in queste zone rispetto all’Occidente, l’avvio del processo richiese migliaia di anni. Anche queste zone di complesse società agricole si espansero, ma l’Occidente continuò a mantenere il suo primato, dando vita alle prime città, stati e imperi del mondo.

Tuttavia se fosse solo questo che dice la storia – che l’Occidente ebbe e mantenne il suo primato – non ci sarebbero controversie sul motivo per cui l’Occidente governa. In verità quando si guarda indietro alla storia, vediamo che le cose si sono evolute in maniera molto più complicata. La geografia ha determinato il modo in cui si sono sviluppate le società, ma il modo in cui le società si sono sviluppate simultaneamente ha determinato il significato della geografia. I greci antichi la chiamavano Mesopotamia, quella regione fra i due fiumi Tigri ed Eufrate. Ma è anche la terra fra due mari, il Mediterraneo e il Golfo Persico. È anche la terra fra montagne e deserto,

laguna e palude salata. Occorre ricordarsi di queste caratteristiche geografiche quando si considera la patria delle prime civiltà. Geografia contro storia, è impossibile stabilire chi ha la precedenza. Non c’è modo di allontanarsi dai bru-

scarse, io la riassumerei così: difficile ma non impossibile. Nessun giardino dell’Eden, ma nemmeno una desolata regione selvaggia. Nei primi tempi dell’agricoltura era fondamentale avere le giuste temperature, precipitazioni e to-

tali eventi naturali – i fiumi che straripano per poi prosciugarsi, intermittenti piogge, montagne insormontabili, deserti ostili. Per applicare questo tipo di analisi alla Mesopotamia, dove le estati sono calde, gli inverni sono freddi e le piogge

pografia. Ma con l’evolversi dei villaggi in città, questi fatti geografici divennero meno importanti rispetto a vivere su un grande fiume come il Nilo, che aveva reso possibile l’irrigazione. Con l’evolversi degli stati in imperi, vivere sulle rive di


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e le mutazioni climatiche abbiano determinato i rapporti di potere fra le nazioni

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della fisica, chimica e biologia. Di conseguenza in Europa, non in Cina, ebbe luogo una rivoluzione scientifica. Gli europei, non i cinesi, trasformarono le visioni della scienza sulla società stessa nel XVIII secolo in quello che oggi chiamiamo Illuminismo. La Cina competerà presto con gli Stati Uniti? Molti commentatori credono di sì, ma non George W. Bush. In un’intervista al Times ha dichiarato che “i problemi interni”indicano quan-

Pechino ricreò un impero unificato nel VI secolo d.C., mentre l’Occidente non ci riuscì mai. Almeno fino al 1700, la Cina fu il posto più ricco e inventivo del globo intero. Ma una carestia ne sancì la fine

un fiume divenne meno importante rispetto all’accesso ad acque navigabili come quelle del Mediterraneo, che permise a Roma di trasportare cibo, eserci-

Un tempo si sosteneva che gli occidentali fossero semplicemente superiori dal punto di vista biologico. Ma le civiltà dominanti sono state decise da altri fattori ti e soldi. Con l’ulteriore espansione degli antichi imperi del mondo, tuttavia, cambiò nuovamente il significato della geografia. Le lunghe zone di steppa che si estendevano dalla Mongolia all’Ungheria si trasformarono in strade attra-

verso cui i nomadi si muovevano liberamente, a discapito degli stessi imperi. Nei primi cinque secoli dopo Cristo, i grandi imperi del mondo antico – da Roma per l’Occidente alla dinastia Han in Cina per l’Oriente – si sfasciarono; ma i cambiamenti politici ancora una volta mutarono la geografia. La Cina ricreò un impero unificato nel VI secolo d.C., mentre l’Occidente non ci riuscì mai. Per più di un millennio, almeno fino al 1700, la Cina fu il posto più ricco, forte e inventivo sulla terra e l’Oriente si portò in testa rispetto all’Occidente. Le scoperte degli inventori dell’est asiatico, una dopo l’altra, erano una svolta. Nel 1300 le loro navi potevano attraversare gli oceani e le loro armi primitive riuscivano a colpire bersagli all’altro capo. Ma allora, nel tipo di paradosso che riempie la storia umana, le svolte dell’Oriente cambiarono il significato della geografia ancora una volta.

L’Europa occidentale – tenendo duro nel nord Atlantico, lontano dai centri di azione - è sempre stata un angolo tranquillo. Tuttavia, quando gli europei appresero delle imbarcazioni orientali che navigavano gli oceani e delle armi, la loro posizione sull’atlantico divenne bruscamente un enorme aggiunta geografica. Prima che l’uomo riuscisse ad attraversare gli oceani, non aveva avuto importanza che l’Europa fosse due volte più vicina rispetto alla Cina alle vaste e ricche terre delle Americhe. Ma adesso

che l’uomo era in grado di solcare gli oceani, questo rappresentava l’evento più importante al mondo. L’Atlantico, lungo le sue tremila miglia, divenne una sorta di oceano ideale: né troppo grande, né troppo piccolo.

Era abbastanza grande da consentire la produzione lungo le sue coste in Europa, Africa e America di ogni sorta di merce, ed abbastanza piccolo da consentirne il facile attraversamento alle navi dell’epoca di Shakespeare. Il Pacifico, al contrario, era troppo grande, con le sue maree e correnti per raggiungere la Cina dalla California la distanza era di ottomila miglia, a mala pena possibile cinquecento anni fa, ma ben lontano da rendere redditizio il commercio. La geografia determinò che fossero gli europei, piuttosto che i più bravi navigatori del Quattrocento – i cinesi – a scoprire, saccheggiare e colonizzare le Americhe. I navigatori cinesi erano intraprendenti quanto gli spagnoli, i coloni cinesi intrepidi quanto i britannici; ma furono gli europei, non i cinesi, a impossessarsi delle Americhe perché solo gli europei erano a metà strada. Gli europei continuarono nel XVII secolo a creare una nuova economia di mercato lungo le coste dell’Atlantico, a sfruttare i vantaggi comparativi fra i continenti. Questo obbligò i pensatori europei ad affrontare nuove questioni sul funzionamento di maree e correnti. Impararono a misurare e calcolare con migliori risultati e decifrarono i codici

to sia improbabile competere con gli Stati Uniti a breve: «Se credo che l’America rimarrà l’unica superpotenza? Sì». Nel XIX secolo la scienza e l’economia di mercato atlantica spinsero gli europei occidentali alla produzione meccanica e all’estrazione di combustibili fossili. In Gran Bretagna ebbe luogo la prima rivoluzione industriale al mondo e nel 1850 si espanse in tutto il pianeta come un colosso.Tuttavia la potenza di trasformazione della geografia non si fermò qui. Nel 1900 l’economia globale dominata dalla Gran Bretagna aveva ridotto le risorse del Nord America, modificano il significato della geografia ancora una volta. Gli Stati Uniti, fino ad allora considerati una potenza periferica, divennero il nuovo fulcro mondiale. E il processo non si fermò lì. Nel XX secolo l’economia globale dominata dall’America a sua volta aveva ridotto le risorse dell’Asia. Le navi gli aerei cargo trasformarono anche l’esteso Oceano Pacifico in una pozza, le apparenti potenze perifereriche del Giappone, allora le“tigri asiatiche”, e alla fine la Cina e l’India divennero i nuovi fulcri mondiali. La “crescita dell’Oriente”, così scioccante per molti occidentali, era assolutamente prevedibile a coloro che comprendevano che è la geografia a determinare come si sviluppano le società e che il modo in cui si sviluppano le società simultaneamente determina il significato della geografia.

Quando il potere e il benessere si spostarono lungo l’Atlantico dall’Europa all’America a metà del XX secolo, il processo fu terribilmente violento. Andando verso la metà del XXI secolo il potere e il benessere si sposteranno lungo il Pacifico dall’America alla Cina. La grande sfida per la prossima generazione non è di fare in modo che la geografia smetta di funzionare, piuttosto di gestire i suoi effetti senza una Terza Guerra Mondiale.


mondo

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Crisi. Forte la condanna internazionale. Ban Ki-moon: «Gesto gravissimo». Obama: «Non rispettati gli obblighi»

Coree ad alta tensione Pyongyang bombarda l’isola di Yeonpyeong: 2 morti e 20 feriti. Seul: «Violato l’armistizio» di Luisa Arezzo lle 14.34 locali (le 6,34 in Italia) ieri la Corea del Nord ha sparato dei colpi di artiglieria contro l’isola sudcoreana di Yeonpyeong. Due soldati sono rimasti uccisi mentre almeno altri 20 (di cui 3 civili) sono feriti. E la risposta di Seul non si è fatta attendere: ha aperto il fuoco di risposta ed ha subito dato l’ordine per il decollo di alcuni caccia bombardieri F16. L’attacco, lanciato a 3 chilometri a sud del confine marittimo in acque sudcoreane ha lasciato l’isola in fiamme. Dei circa 200 colpi di artiglieria sparati nelle prime ore del pomeriggio almeno 50 hanno colpito diversi edifici. Alcuni dei 1300 residenti dell’isola hanno parlato di un gran caos, visibilità ridotta per il fumo e di case e vegetazione in fiamme.

A

Altri testimoni hanno confermato un’interruzione dell’energia elettrica e l’evacuazione dei residenti nei bunker. La marina sudcoreana, che in questi giorni sta conducendo esercitazioni nel Mar Giallo, ha risposto al fuoco (anche se

Pyongyang dice di aver bombardato l’isola in risposta al fuoco dell’esercito sudcoreano, che «ha sparato per primo»), e ora le truppe sono al massimo livello di allerta. Il governo di Seul ha parlato di una violazione dell’armistizio firmato dopo la fine della guerra fra le due

nordcoreano - il 26 marzo scorso) questo di ieri appare però molto grave perché giunto nel bel mezzo delle tensioni per le nuove iniziative nucleari della Corea del Nord. Proprio in questi giorni si è saputo di nuovi programmi di arricchimento dell’uranio da par-

Si teme un’escalation, abitanti in fuga o nei bunker. Il Nord accusa: l’esercito sudcoreano di aver aperto il fuoco per primo. «Ferma condanna» della Casa Bianca, «colossale pericolo» per Mosca Coree nel 1953 e il presidente sudcoreano Lee Myung-bak ha convocato un’immediata riunione di emergenza del governo ed ha annunciato una risposta ferma. Certo, l’intenzione è prevenire l’escalation militare. Ma se è pur vero che il confine marittimo fra le due Coree è già stato teatro, in questi ultimi mesi, di diversi scambi a fuoco, (come il caso dell’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan con 104 persone a bordo, affondata da un siluro - sembra

te di Pyongyang che, al pari di quelli conosciuti del plutonio, sarebbero capaci di dar vita alla produzione di armi nucleari.

Secondo lo scienziato Usa autore delle rivelazioni, infatti, la Corea del Nord non solo avrebbe ripreso ad arricchire l’uranio ma si sarebbe dotata di un impianto modernissimo con centiania di centrifughe, impianto che non sfigurerebbe neanche in un centro ricerche statunitense. La situazione preoccupa dunque la comunità

internzionale. Cina, Giappone e Stati Uniti in testa, che hanno circa 30mila soldati in Corea del Sud hanno condannato l’attacco. Obama ha detto ierio che Pyongyang «non rispetta gli accordi». La Cina ha espresso preoccupazione e ha invitato le parti a lavorare per la pace e la stabilità nella penisola. Il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei ha detto: «Ci auguriamo che le due parti facciano di più per contribuire alla pace e alla stabilità nella penisola coreana».

Anche la Russia è intervenuta, invitando ad evitare un’escalation di violenza. Il premier giapponese, Naoto Kan, ha riferito di aver detto ai suoi ministri di tenersi pronti ad ogni eventualità. «Ho ordinato di tenersi pronti in modo che possiamo reagire in maniera ferma, qualunque imprevisto accada», ha detto ai giornalisti dopo una riunione d’emergenza con i ministri presso la sua residenza. «Ho detto loro di far di tutto per raccogliere informazioni», ha aggiunto. La

Le “provocazioni”, anche quelle militari, servirebbero a rafforzare il terzogenito e delfino di Kim Jong-Il. Ma non solo...

È Kim Jong-un che gioca a fare la guerra? di Osvaldo Baldacci erché? Questa è la domanda. La crisi coreana non va sottovalutata, ma va anche compresa. Con il bombardamento di un villaggio si è oggettivamente superata una soglia di tolleranza, e il rischio che la Corea del Sud si senta costretta a rappresaglie gravi è alto. Con Pyongyang che non si tira mai indietro, accusa Seul di aver sparato per prima e si dice sempre pronta alla guerra contro tutti. Ma se a noi qui agli antipodi i lampi di guerra coreani sembrano tanto sorprendenti quanto lontani, la prospettiva cambia se si ammette con onestà quale sia l’asse del mondo nel nuovo millennio, specie dopo le chiare scelte in questo senso dell’amministrazione Obama. Il punto è che il focus oggi è sull’asse dell’Oceano Pacifico, con una particolare enfasi sul-

P

l’Asia orientale. E quindi quel famoso 38° parallelo che divide le due Coree non è più un confine marginale e lontano, dove si confrontano ideologie opposte come avvenne nel ’50-53. No, ora

centri economici e finanziari di primo piano come Tokyo e Seul, ma anche perché la tecnologia atomica e missilistica nordcoreana è esportata presso molti Paesi non allineati con le politiche occi-

Il 38° parallelo che divide i due Paesi, così vicino alla Cina, ma anche alla Russia e al Giappone, si trova nel bel mezzo di un centro pulsante degli interessi internazionali quel confine così vicino alla Cina, ma anche alla Russia e al Giappone, si trova nel bel mezzo di un centro pulsante degli interessi internazionali.

Senza considerare il pericolo creato dal programma nucleare nord-coreano non solo per la minaccia diretta posta a

dentali. Quindi Pyongyang si trova in una condizione molto particolare, cioè nel cuore di una situazione molto più grande di lei e in cui il regime nordcoreano rappresenta una imprevedibile anomalia che preoccupa molti. È la classica spina nel fianco. E sapendolo, Pyongyang cerca di sfruttare al massi-

mo questa sua rendita di posizione. Perseguendo una tattica che le ha dato molti buoni frutti in passato e che sembra potergliene dare ancora di più adesso: la tattica di minacciare per incassare, tattica che negli ultimi decenni ha permesso al regime di sopravvivere e al Paese di tirare avanti, grazie a numerosi aiuti internazionali e concessioni speciali. Pyongyang quindi continua questa sua linea di comportamento, tanto più accentuata dopo l’avvento di Obama alla Casa Bianca, approfittando della crisi economica internazionale e dell’approccio più morbido del nuovo presidente. Ma c’è di più. Difficile infatti non pensare che la crisi in corso non sia da inserire da un lato nella politica interna nordcoreana, dall’altra nello scacchiere geopolitico dell’Asia orientale e dell’in-


mondo

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così non sarà. Preoccupata ma più diplomatica, invece, la reazione dell’inviato speciale statunitense per la questione nordcoreana, Bosworth, che a Pechino ha incontrato le autorità cinesi per discutere della

do le capitali dell’area per cercare di riportare in vita il tavolo negoziale a sei sulla questione del nucleare nordcoreano. Non si può quindi escludere (anzi, è fortemente probabile) che Pyongyang abbia scelto la

Seul ha subito risposto al fuoco, mentre il governo ha decretato il massimo livello di allerta in tempo di pace, ha riunito il gabinetto di sicurezza e inviato i suoi caccia a sorvolare l’isola Casa Bianca ha «condannato fermamente» il bombardamento da parte di Pyongyang e chiesto di fermare le «azioni belliche», ma ha anche ricordato il fermo impegno americano a difesa della Corea del Sud. Il Pentagono, tuttavia, ha detto che è prematuro affermare che si stia immaginando un invio di rinforzi. Secondo alcuni esperti citati dal New York Times l’attacco sarebbe figlio anche del rifiuto da parte dell’Amministrazione Usa di diminuire le sanzioni nei

suoi confronti, soprattutto quelli relativi agli aiuti alimentari legati al dossier atomico.

Sull’episodio è intervenuto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon (già ministro degli Esteri del governo di Seul), che ha definito gli scontri tra le due Coree «uno dei più gravi incidenti dalla fine della guerra coreana» e si è detto «molto preoccupato» per quanto è accaduto.Tutta la comunità, internazionale, insomma, ha reagito e messo in guardia rispetto a

un’escalation, invitando tuttavia alla moderazione. Più forti, invece, i toni del ministro degli Esteri Franco Frattini, che ha chiesto una reazione dura da parte della comunità internazionale. «Se non reagissimo ha detto da Gerusalemme, dove è in visita - sarebbe un pessimo esempio per gli altri Paesi». Evidente l’allusione all’Iran. Sempre nel pomeriggio di ieri, si era anche sparsa la voce dell’imminente convocazione del Conisglio di Sicurezza dell’Onu: ma almeno per il momento

Il terzogenito di Kim Jong-il, ed erede designato, Kim Jong-un. Il padre lo ha nominato vice presidente della Commissione militare centrale del Paese. In alto, una batteria di missili del Sud e, a destra, un’immagine dell’isola colpita fluenza statunitense nell’area. Per la politica interna il punto è presto detto. In Nord Corea si sta giocando da tempo una durissima partita per la successione. Una partita che sembra essersi conclusa negli ultimi mesi con l’ascesa ad erede del terzogenito di Kim Jong-Il, il ventottenne Kim Jong-un. Per molti

esperti le “provocazioni” nordcoreane, anche quelle militari, servirebbero a rafforzare il delfino, dando un segnale agli apparati militari della sua capacità di tenere duro e di non avere cedimenti nei confronti dei nemici storici del Paese Eremita. Segnale rivolto specialmente all’interno, dunque, ma che vale con

posizione da adottare. «Il bombardamento di oggi dell’isola sudcoreana da parte dell’artiglieria di Pyongyang è un incidente molto spiacevole, ma non rappresenta una crisi».

Nell’imprescrutabile strategia nordcoreana questo attacco è un messaggio che dovrà essere decifrato con attenzione. Certamente la tempistica è stata scelta con cura visto che l’inviato Usa per la penisola coreana e l’Asia orientale, Stephen Bosworth, è a Tokyo e sta giran-

lo stesso identico significato anche all’esterno: Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti non si aspettino dal nuovo giovane leader alcuna forma di debolezza. Già in occasione del caso della Cheonan, la nave militare sudcoreana affondata da un’esplosione non chiarita ma dai più attribuita ad un siluro nordcoreano, alcune fonti parlarono di un ordine proveniente direttamente da Kim Jong-un. Quella della successione in un sistema autocratico è una questione sempre cruciale e delicata, ma tanto più adesso quando come dicevamo a fronte della centralità strategica ed economica della regione il regime sembra essere un residuo anacronistico. Inoltre ci sono le preoccupazioni per la possibile (ma remota) riunificazione: i gerarchi sanno che perderebbero tutto, e forse non si fidano del fatto che il Sud ideologicamente pro-unità è in realtà frenato dalle drammatiche conseguenze economiche che questa porterebbe. Poi c’è il contesto internazionale. Per prima cosa la questione del nucleare coreano. Proprio nei giorni scorsi è emerso che a fronte dei proclami di buone intenzioni per la ripresa dei colloqui a sei, la Corea del Nord ha rivelato di possedere un impianto per l’arricchimento dell’uranio in

tempistica con molta accuratezza. Il ministero degli Esteri di Seul ha detto che l’attacco di Pyongyang è stato «intenzionale e pianificato» e costituisce una «chiara violazione dell’armistizio» tra le due Coree. Particolarmente preoccupata è la Cina, che non ama avere un vicino imprevedibile e aggressivo e che tutto vuole tranne che una penisola coreana destabilizzata. Certo è che dopo settimane di relative quiete l’Asia orientale torna a vivere momenti di tensione.

grado di offrire una seconda strada per la fabbricazione di testate nucleari, oltre al plutonio. Bisogna ricordare che la Corea del Nord ha già testato delle bombe atomiche e disporrebbe ormai di alcuni ordigni nucleari. Sufficienti a preoccupare le capitali vicine. Questi incidenti violenti servono di solito alla Corea per dire che fa sul serio e che quindi non accetterà di essere messa all’angolo, anche se poi di solito è disposta a trattare alle proprie condizioni per incassare quanto ritiene utile.

A questo si aggiunge il ruolo delicato della Cina, l’unica potenza che tiene il guinzaglio di Pyongyang. Non che Pechino abbia interesse a scatenare una guerra nella regione, ma certo qualche volta può tollerare di sciogliere le briglie per ricordare agli americani chi è che ha davvero il controllo della regione e tiene il manico degli interessi. Tra l’altro proprio la Cina ha delle controversie di confine aperte nell’area, anche su isole che producono beni preziosi. E proprio in queste ore un inviato americano è in Asia per fare il punto su diverse problematiche. Inoltre è ancora in corso la guerra delle valute, dopo gli scarsi risultati del recente G20 asiatico.


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pagina 16 • 24 novembre 2010

Pakistan. Il presidente Zardari avrebbe firmato già ieri il documento a vicenda di Asia Bibi è connotata da ombre grottesche, ma anche da un elemento positivo. Quest’ultimo è connesso all’intervento della società civile occidentale e delle sue istituzioni. Di fronte a un caso di persecuzione religiosa, la Chiesa cattolica ha saputo sensibilizzare le coscienze dei leader europei e di oltreoceano affinché venisse evitato l’ennesimo spargimento di sangue, nel nome di un Islam comunque travisato. Le autorità di Islamabad, di conseguenza, si sono trovate alle corde e impossibilitate a non agire. È lecito pensare che il presidente pakistano Zardari avrebbe preferito non essere coinvolto nella vicenda. La sua presa di posizione rischia di gravare in modo ulteriormente negativo sulla sua già compromessa immagine nelle piazze del Paese. D’altra parte aveva alternative? Il Pakistan non è l’Iran. Qui il regime degli ayatollah si fa vanto nel recitare il ruolo del cattivo. La loro vittima sacrificale, in questo momento, è Sakineh. Non è un caso che gli appelli della comunità internazionale per la sua scarcerazioni siano risultati finora vani. Teheran non ha la minima intenzione di cedere di fronte a quei Paesi che parlano di rispetto di diritti umani. Questi, a giudizio di Teheran, sono gli stessi che hanno vessato l’Iran delle sanzioni contro la sua corsa al nucleare civile. Le regole del gioco degli ayatollah sono ispirate dal più crudele cinismo.

L

Diversa e molto più imbarazzante è la posizione del Pakistan. Il Paese è attraversato da quello che possiamo classificare come un conflitto etnico a tutti gli effetti. Cristiani, sciiti, sufi e altre minoranze di vario genere

Asia Bibi, mistero sulla scarcerazione Problemi per il rientro a casa: i blasfemi vengono uccisi dai fondamentalisti di Antonio Picasso

L’accusa giungeva da altre donne che l’avevano sentita parlare manifestando la sua fede. In una nazione dove la suscettibilità collettiva legata ai sentimenti religiosi è estremamente accesa, anche la minima scintilla può essere la fonte di un rogo. Il governo pakistano avrebbe preferito far passare l’accaduto sotto silenzio, eventual-

Per dimostrare l’innocenza della donna e scongiurare azioni punitive, il processo dovrebbe arrivare alla Corte Suprema sono vittime di attacchi terroristici, ma anche di un crescente integralismo che pervade l’intera società. Zardari e il premier Gilani da un lato non possono permettere che la folla dia libero sfogo ai propri eccessi, dall’altro, assumendo esplicite posizioni di difesa nei confronti delle minoranze, rischiano di finire sotto accusa dagli stessi integralisti. Da qui il lato grottesco del “caso Asia Bibi”. La donna, di fede cristiana, era stata arrestata per blasfemia, oltre un anno fa.

mente portando a termine la sentenza capitale. Tuttavia i media si sono mossi in modo più celere. Nel momento in cui le sorti di una cristiana libera cittadina di un Paese islamico e condannata a morte per aver difeso la sua Chiesa - sono apparse sulle prime pagine dei giornali occidentali, Zardari si è visto costretto a intervenire. Oggi al paradosso delle motivazioni per cui Asia Bibi sarebbe stata incarcerata, si sono aggiunte le notizie sul suo stato di detenzione e sul-

Tre milioni di fedeli su 170 milioni di abitanti

La comunità cristiana Quella dei cristiani in Pakistan è una comunità di 3 milioni di fedeli, oppressi non solo dalla stragrande maggioranza della popolazione (sono 170 milioni gli abitanti del Pakistan), ma anche da una ferrea legge sulla blasfemia. Da una parte il fanatismo delle piazze aizzato dagli imam, dall’altra un sistema giuridico impostato sulla shari’a, la legge islamica, e sull’impossibilità né di convertirsi dall’Islam ad altre confessioni, né per quest’ultime di professare apertamente la propria fede. Il caso di Asia Bibi e delle vittime più recenti conferma che l’instabilità del Paese ha una connotazione etnico-religiosa, in cui il gene che vorrebbe dominare è l’Islam fondamentalista.Tuttavia è da circa trent’anni che la leg-

ge sulla blasfemia rappresenta un punto dolente per i governanti di Islamabad. Nella seconda metà degli anni Novanta, Benazir Bhutto cercò di abrogarla. Non riuscendole il progetto, la sottopose a una revisione in senso moderato. I suoi successori, Nawaz Sharif e Pervez Musharraf, hanno riportato indietro le lancette dell’orologio. I loro calcoli sono stati dettati da interessi politici. Così però l’estremismo è tornato a guadagnare consenso nella società nazionale. In Pakistan il reato di blasfemia è perseguibile con la pena capitale. Le accuse nascono da un’interpretazione estremamente estensiva della legge. Asia Bibi è stata arrestata perché accusata dalle sue compagne di lavoro.

l’eventualità che, se tornasse a casa, rischierebbe comunque la vita. Lunedì, infatti, nel momento in cui le agenzie battevano la comunicazione di Zardari relativa alla grazia comminata nei confronti della donna, si è saputo che Asia sarebbe stata stuprata dai suoi stessi secondini. Questi, invece di proteggerla, ne avrebbero abusato, proprio perché infedele e quindi destinata all’inferno. Nel frattempo si vive in attesa della grazia. Ieri il vescovo di Faisalabad, monsignor Joseph Coutts, ha sottolineato che sarebbe meglio celebrare un processo presso la Corte suprema, «per dimostrare l’innocenza della donna». La grazia, in effetti, scagionerebbe Asia dalla pena capitale, ma non la solleverebbe dalla colpa di blasfemia.

Il vescovo Coutts in questo senso è stato chiaro: «una volta graziata, la donna potrebbe essere considerata ancora colpevole di blasfemia dai fanatici musulmani e quindi in pericolo di vita». A questo si aggiunge il problema della scarcerazione. A luglio, sempre a Faisalabad, Rashid e Sajid Masih Emmanuel, due fratelli cristiani anch’essi arrestati perché non musulmani, sono stati uccisi pochi istanti dopo che il tribunale li aveva giudicati innocenti. Il problema per Zardari si ripete con Asia Bibi. Tant’è che in questo momento è stata trasferita in isolamento. Il carcere costituisce una protezione relativa di fronte agli eccessi di violenza dei quali è capace la folla. L’assassinio dei fratelli Emmanuel era stato annunciato praticamente giorni prima, quando gli imam locali avevano invocato la morte su questi “senzadio”. Le autorità non si sono mosse per tempo. Lo stesso errore questa volta non è concesso. Se Asia Bibi dovesse morire, sul patibolo o per strada, il Pakistan dovrebbe rispondere di un nuovo caso di estremismo e di efficienza ai suoi alleati occidentali, i quali non solo si sono impegnati per la liberazione della donna. «Sono molto toccato e molto grato agli italiani per aver sollevato questo caso e per la loro solidarietà nei confronti di Asia e dei cristiani in Pakistan», ha detto ancora il capo della diocesi di Faisalabad. Infine, va ricordato che l’Occidente è anche finanziatore di un processo di modernizzazione dell’intero Paese dei puri. Processo che, però, appare lontano dall’essere messo in moto.


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24 novembre 2010 • pagina 17

L’uomo si spacciava per il braccio destro del mullah Omar

E David Cameron annuncia: «Sarà festa nazionale»

Beffa alla Nato, finto taliban al tavolo dei Grandi

William & Kate nozze reali il 29 aprile a Westminster

KABUL. La storia è veramente

LONDRA. Teste coronate di tut-

incredibile, ma purtroppo sembra vera. Il potente leader dei talebani che partecipava alle trattative di pace con il vertice del governo Karzai, assistito dagli americani e con il sostegno logistico della Nato, era un impostore. La storia è stata pubblicata dal New York Times e - precisazioni a parte - non è ancora stata smentita. Il quotidiano Usa, autore dello scoop sulle trattative segrete tra quattro alti comandanti taliban e il governo centrale di Kabul per cercare i termini di una possibile pace, ha così svelato un retroscena che mette in dubbio l’efficacia di un negoziato tra insorti e forze Nato e Isaf e tratteggia il torbido clima di una partita dove agiscono depistatori, agenti taliban e servizi segreti pachistani.

to il mondo hanno scritto a penna la data sul calendario: venerdì 29 aprile, Westminster Abbey. Il principe William e la commonerKate Middleton si sposeranno quel giorno nella stessa chiesa dei funerali di Lady Diana dopo meno di sei mesi di fidanzamento. L’annuncio del padre dello sposo, l’erede al trono Carlo d’Inghilterra, ha chiuso ieri una girandola di illazioni sul grande giorno che il premier David Cameron si è affrettato a proclamare festa nazionale. Incuranti del proverbio mediterraneo che “né di Venere né di Marte ci si sposa né si parte” William e Kate hanno optato per “regalare” ai britannici un lungo ponte di primo

Dopo aver avviato una trattativa con quattro presunti leader del Movimento degli studenti coranici - racconta il quotidiano statunitense - gli uomini di Karzai e gli americani sono entrati nel vivo della discussione. Le delegazioni erano raccolte attorno a un tavolo. In fondo sedeva sempre anche l’uomo più importante dei Taliban, quello che

garantiva la qualità degli accordi e degli interlocutori. Si trattava del mullah Akthtar Muhammad Mansour, considerato il braccio destro del mullah Omar, padre spirituale dei Taliban. Durante i primi due incontri, svolti nello stesso palazzo presidenziale, nessuno aveva messo in dubbio l’identità dei partecipanti giunti in gran segreto dal Pakistan a bordo di aerei Nato. Ma al terzo summit, fissato a Kandahar, era presente anche un ufficiale dell’esercito afgano che conosce tutti i comandanti taliban. E che alla fine dell’incontro, con assoluta certezza, rivela: «Quell’uomo non è Mansour, ne sono certo. Lo conosco molto bene e non è lui. È un impostore». E lo stesso presidente Karzai ieri ha dichiarato di non aver mai incontrato Mansour.

Wikileaks annuncia on line la sua vendetta Braccato dalla giustizia, Assange promette nuove rivelazioni di Pierre Chiartano ssange non demorde, neanche dopo essere finito nel mirino della giustizia svedese. Wikileaks è pronta a pubblicare la più imponente serie di scoop della storia. Il sito inglese, che nei mesi scorsi ha diffuso più volte informazioni top secret sulle guerre in Iraq e in Afghanistan, ha annunciato che «nei prossimi mesi» renderà note una serie di informazioni di peso «sette volte superiore» a quelle che hanno per giorni occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo in passato. Si sa solo che le rivelazioni riguardano la diplomazia americana. E da Foggy Bottom non arrivano segnali di alcun genere, ma è certo che la notizia non deve avergli fatto piacere.

A

La novità è stata data con un messaggio su Twitter e senza fornire alcuna indicazione sul contenuto della prossima pubblicazione o quando avverrà. Un’ora dopo, in un altro messaggio, ha però parlato di «prossimi mesi». Wikileaks ha conquistato quest’anno la ribalta internazionale con tre scoop. Uno ha portato alla luce un video secretato di un elicottero statunitense che uccide in un attacco due dipendenti della Reuters e altri civili. Il secondo ha divulgato 77mila documenti dell’intelligence statunitense sulla guerra in Afghanistan. Il terzo ha divulgato altri 400mila file che evidenziano la serie quotidiana di attacchi, detenzioni e interrogatori in Iraq. Rivelazioni che hanno costituito la più grande fuga di notizie nella storia dei servizi segreti statunitensi. Il sito sostiene di essere in possesso di un’enorme quantità di messaggi riservati del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la pubblicazione dei quali potrebbe fornire uno scenario «dietro le quinte» della diplomazia americana nel mondo. Il sito di Wikileaks ha fatto inoltre sapere di essere sotto «intensa pressione» per l’imminente divulgazione, un’allusione secondo molti ai problemi legali del fondatore dell’organizzazione, Julian Assange, contro il quale la Svezia

ha spiccato un mandato di arresto per sospetta violenza sessuale. O forse potrebbe rappresentare un riferimento alle costanti pressioni di cui Assange sostiene siano fatti oggetto i server, le finanze e la sicurezza dei siti. La polizia criminale svedese aveva infatti emesso, qualche giorno fa, un mandato d’arresto internazionale per il patron del sito web, il fondatore australiano di Wikileaks ricercato con l’accusa di stupro e molestie sessuali. L’ordine, sollecitato dal procuratore per i reati sessuali, Marianne Ny, era stato diramato al sistema Schengen e all’Interpol. Le accuse nei confronti di Assange risalgono ad agosto e sono state lanciate da due donne svedesi. Il 39enne australiano ha ammesso di averle incontrate a una conferenza stampa, ma ha negato di aver avuto con loro «rapporti sessuali non consensuali». Il suo avvocato in Svezia, Bjoern Hurtig, ha presentato ricorso contro il mandato d’arresto, ma l’appello non ha effetti sospensivi. Il procuratore svedese ha spiegato di aver chiesto un mandato d’arresto perché sarebbe il solo modo per interrogare Assange. E nel mondo della rete non tutti tifano per l’auAd straliano. esempio il fondatore di Wikipedia, Jmmy Wales ha fatto delle dichiarazioni critiche in una videointervista con la popolare giornalista americano Charlie Rose.

Il famoso sito web «nei prossimi mesi» pubblicherà una valanga di informazioni top secret sulla politica estera Usa

Si è trattato di un invito a riflettere sulla libertà di espressione nel web e sulle sue conseguenze. Che obbliga a chiederci quale debba davvero essere il compito di un giornalismo serio nella gestione e nell’elaborazione di informazioni così delicate. Wales dimostra di essere molto preoccupato per la strada che Wikileaks ha deciso di intraprendere, sia per quanto riguarda il controllo delle informazioni, sia per il tipo di protezione da concedere alle fonti che offrono spunti giornalistici. Il sito utilizzerebbe poche accortezze nello sfruttare quelle libertà d’espressione che la Costituzione permette di utilizzare oggi nel pubblicare sulla rete documenti coperti da segreto.

maggio che si conclude lunedì 2: il giorno del matrimonio sarà Bank Holiday, ha annunciato Downing Street, per dar modo a tutti i britannici di celebrare con i loro Reali.

La data è stata scelta pensando a Santa Caterina da Siena, di cui ricorre la festa quel giorno (Catherine è il nome completo di Kate). Quanto a Westminster Abbey, dove un giorno anche William come i suoi antenati, verrà incoronato Re, è la chiesa dove si sono sposati i nonni Elisabetta e Filippo, ma per il giovane principe non può che essere listata a lutto. William, che ha regalato alla fidanzata lo zaffiro della madre quando ha chiesto la sua mano, ci ha accompagnato la bara di Diana dopo che nell’agosto 1997 la amatissima “Principessa del popolo”era rimasta uccisa in un inseguimento con i paparazzi con il fidanzato Dodi Fayed a Parigi. Le immagini dei due principini, William 15enne e il fratellino Harry, in mezzo a dignitari e celebrità vestiti di nero commossero il mondo. E tuttavia William e Kate hanno scelto Westminster e non St. Paul dove si sposarono Carlo e Diana, forse perché sedotti dal senso di intimità che la grande chiesa millennaria offre ai fedeli.


società

pagina 18 • 24 novembre 2010

Fede. Nel suo libro-intervista, il Pontefice mette un punto fermo: l’Apocalisse esiste e il Giudizio universale è un evento reale. Parla il filosofo Giovanni Reale

Ragionando sulla fine Quella di papa Ratzinger «non è una provocazione ma un avvertimento agli uomini: Cristo tornerà per giudicarci» di Gabriella Mecucci l Giudizio Universale non è una metafora, non ha un valore puramente simbolico, accadrà realmente. «Vi sarà un autentico giudizio. Non siamo in grado di immaginarci questo avvenimento inaudito. Come sarà da un punto di vista visivo va aldilà della nostra capacità di immaginazione. Ma è molto importante che Egli è giudice, che avrà luogo un giudizio vero, che l’umanità verrà separata e che a quel punto vi è la possibilità di essere cacciati via». Sono queste le parole più difficili, più affascinanti e insieme più stupefacenti contenute nel libro intervista di Benedetto XVI, uscito ieri. E il Papa aggiunge per rafforzare il concetto: «Oggi le persone tendono a dire: in fin dei conti non sarà così terribile. No, invece, Egli ci prende sul serio. E l’esistenza del male è un fatto, che rimane e deve essere condannato».

I

Giovanni Reale, filosofo cattolico, non ha un attimo d’esitazione ad accettare il messaggio di Papa Ratzinger. «Sono in grado di spiegarlo - dice subito - anche perchè proprio di recente mi sono misurato con la traduzione del “Commento al Vangelo di Giovanni” di Sant’Agostino, che sarà in libreria proprio oggi».Il filosofo però, prima di entrare in argomento, ci tiene a fare due premesse. La prima riguarda più in generale le anticipazioni del libro del Papa: «Ne sappiamo ancora troppo poco, ma fra tutte, la più importante mi sembra proprio quella che lei mi ha letto». La seconda

tutti noi possiamo ammirare negli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina o in quelli di Luca Sinorelli nel Duomo di Orvieto, il cristianesimo crede che, dopo la fine del mondo, ci sarà anche nella resurrezione della carne. «Il grande Plotino - riprende il professore - parlava di resurrezione dalla carne (ndr. quando vivi secondo lo spirito e non secondo il corpo), ma solo col cristianesimo si arriva alla resurrezione della carne: quella dell’ultimo giorno, allora tutti i corpi riappariranno». L’operazione di definire un evento tanto grandioso e incomprensibile come una metafora, non è altro, che «il tentativo di ridurre il messaggio cristiano alle categorie umane». Mentre è vero il contrario: «Io sono cristiano perchè credo che Cristo è risorto. Ed è risorto non solo per sè ma anche per noi. La resurrezione di Cristo è la resurrezione dell’Uomo».

duce al Giudizio Universale, sapendo che questo è strettamente connesso al concetto di resurrezione. «Le resurrezioni - interviene Reale - sono due. Una, la prima avviene sulla terra ed è la conversione: quando cioè abbracci la fede e dalla notte passi al giorno, dalla morte alla vita. In questa resurrezione ciò che risorge è la tua anima, mentre il tuo corpo perirà». Ma come

difficili da credere: il primo è il Giudizio Universale e il secondo (che costituisce la sua premessa) che è la resurrezione della carne. Come è possibile dimostrare che ciò sia vero? «Guardi - risponde Reale - che anche per i discepoli di Gesù non fu semplice accettare questa realtà: San Tommaso è commovente quando vuol mettere le mani sulle pia-

premessa entra già in argomento: «Il Giudizio Universale non è comprensibile a chi vuole spiegare tutto con la ragione umana. Occorre la fede. Bisogna credere». È lo stesso Sant’Agostino, del resto, a definire «l’impossibilità della ragione umana, limitata per definizione, a comprendere: se qualcuno ritiene di aver capito Dio - diceva il vescovo di Ippona - ciò di cui parla non è Dio, è un’altra cosa. Perchè l’uomo non può capire Dio. Non si può chiudere l’infinito nel finito».

Accettate le premesse del professore, non resta che addentrarsi per una strada molto impervia: quella che con-

Tutto questo può essere capito ed accettato soltanto attraverso la fede. La ragione, davanti a questo concetto, si ferma perché non ha strumenti

E così siamo a due eventi


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La semplicità delle risposte non evita gli argomenti più spinosi

Affrontare con forza la sfida del Vangelo

Monsignor Rino Fisichella e Luigi Accattoli presentano “Luce del mondo”, intervista al Papa di Massimo Fazzi

CITTÀ DEL VATICANO. «Affrontare con tanto da lasciare ammutoliti. “Fin dal

Il “Giudizio Universale”, il capolavoro di Michelangelo Buonarroti. Nella pagina a fianco Benedetto XVI, che ha concesso il libro intervista Sotto “I quattro Cavalieri dell’Apocalisse” dipinti da Viktor Vasnetsov nel 1887 ghe di Cristo per poter credere. E se fu così difficile per gli uomini che erano del suo stesso tempo, che avevano sentito i suoi insegnamenti, che lo avevano seguito, certo non può essere semplice per gli uomini di oggi». Ancora una volta, dunque, ritorniamo al punto di partenza: non sarà la ragione a convincere, ma solo la fede. Credere che «sulla croce con Cristo muore la morte e che la resurrezione è strettamente connessa a questo evento». Del resto, spiega Reale, «la parola Pasqua ha due significati diversi, ma entrambi pertinenti: in greco vuol dire sofferenza e in ebraico vuol dire traversata per arrivare all’altra sponda. Passione e Resurrezione, dunque».

Torniamo però alla fine del mondo, al Giudizio Universale e al fatto che Benedetto XVI non lo consideri una metafora, ma qualcosa che accadrà realmente. Una realtà per noi inimmaginabile, ma una realtà. «Certo - interrompe Reale - e il giudice non sarà Dio, ma Cristo. E verrà così come è stato visto salire al cielo. E perchè lui? Perchè sarà il figlio dell’Uomo con la U maiuscola a giudicare gli uomini. E lo vedranno tutti, i buoni e i cattivi, ma attenzione qui s’innesta una profonda differenza. I cattivi lo vedranno solo nelle sue sembianze umane, mentre i buoni lo vedranno anche come logos, come Dio». Il Papa nel suo libro intervista accosta al concetto di giudizio, quello della possibilità “di essere cacciati via”. Il “cacciare via”, secondo Reale, si capisce bene proprio tenendo ben fermo il concetto di «non poterlo vedere nella dimensione divina: questa è la cacciata». E ancora: «Benedetto XVI ha per-

fettamente ragione, è vero che Dio ci prende sul serio ed è per questo che ci sarà un giudizio». Un giudizio comprende anche l’esistenza della punizione? «Di tutte le punizione la più grave è proprio quella di non vedere Dio, mentre i buoni, a cui è riservato il Paradiso, lo contempleranno». E gli uomini «verranno separati», dice il Papa. Giovanni Reale cita quasi testualmente la descrizione del Giudizio Universale: «Nel giorno del Giudizio, alla destra ci sono i giusti, alla sinistra gli ingiusti. Tutti vedono allo stesso modo il figlio dell’Uomo, colui che è stato trafitto e crocifisso, tutti vedono l’agnello della tribù di Giuda. La forma del servo sarà mostrata ai servi, la forma di Dio ai figli». Una parte dell’umanità, nell’ultimo giudizio, è dunque serva, l’altra parte è figlia: «Quanti sono alla sua destra vadano a prendere il possesso dell’eredità un tempo promessa loro, quella a cui i martiri, pur non vedendola, credettero e per la cui promessa versarono il loro sangue. I giusti vadano dunque alla vita eterna».

Reale ci tiene a ribadirlo: «Tutto questo può essere capito ed accettato solo attraverso la fede. La ragione davanti a ciò si ferma, non ha strumenti. Coloro che sperano di dare spiegazioni con questo strumento, tentano un’operazione impossibile. Il recente premio Nobel per la Medicina, Robert Edwards, padre della fecondazione in provetta, per spiegare la sua scelta di studiare l’inseminazione artificiale in un’ intervista aveva detto: “Volevo vedere chi era al comando: se io o Dio”». «Ecco - commenta Reale - questo è lo stesso peccato di Adamo ed Eva. Così Dio è incomprensibile».

rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo al mondo, impiegare tutte le nostre forze perché vi giunga, fa parte dei compiti programmatici che mi sono stati affidati». A dirlo è Benedetto XVI nel libro Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi. Una conversazione del Santo Padre Benedetto XVI con Peter Seewald, che è stato presentato ieri mattina in Vaticano. «Protagonista di queste pagine, comunque, appare da subito la Chiesa», ha detto tra l’altro, nell’occasione, mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. «Le tante domande che compongono il colloquio - ha proseguito - non fanno che evidenziare la natura della Chiesa, la sua presenza nella storia, il servizio che il Papa è chiamato a svolgere e, cosa non secondaria, la missione che ancora oggi deve continuare per essere fedele al suo Signore». «Viviamo un’epoca nella quale è necessaria una nuova evangelizzazione. Un’epoca nella quale l’unico Vangelo deve essere annunciato nella sua razionalità grande e immutata» (pp. 193-194). «Alla luce di questo riferimento - riprende il presule - è facile percepire l’obiettivo che segna questi anni del pontificato tesi a mostrare quanto sia decisivo per l’uomo di oggi saper cogliere la presenza di Dio nella sua vita per poter rispondere in modo libero alla domanda qualificante sul senso della propria esistenza. Il raggio d’azione su cui verte l’intervista è vasto, sembra che nulla sfugga alla curiosità di P. Seewald che vuole entrare fino nelle pieghe della vita personale del Papa, nelle grandi questioni che segnano la teologia del momento, le diverse vicende politiche che accompagnano da sempre le relazioni tra diversi Paesi e, infine, gli interrogativi che spesso occupano gran parte del dibattito pubblico». Siamo insomma «dinanzi a un Papa che non si sottrae a nessuna domanda, che tutto desidera chiarificare con un linguaggio semplice, ma non per questo meno profondo, e che accetta con benevolenza quelle provocazioni che tante questioni possiedono». «Il tono semplice delle sue risposte si fa forte della plasticità delle immagini che spesso ricorrono, permettendo di comprendere a pieno il dramma di alcuni fatti. Eppure, dalla pacatezza delle risposte e dallo sviluppo del suo argomentare, ciò che emerge in maniera netta è soprattutto la spiritualità che caratterizza la sua vita

momento in cui la scelta è caduta su di me, sono stato capace soltanto di dire solo questo: Signore, cosa mi stai facendo? Ora la responsabilità è tua.Tu mi devi condurre. Io non ne sono capace. Se tu mi hai voluto, ora devi anche aiutarmi”(p. 18; cfr p. 33).

Chi legge si arrende: «O si accetta la visione della fede come un autentico abbandonarsi in Dio che ti trasporta dove vuole lui, oppure ci si lascia andare alle interpretazioni più fantasiose che caratterizzano spesso il chiacchiericcio clericale e non solo. La verità, però, sta tutta in quelle parole. Se si vuole capire Benedetto XVI, la sua vita e il suo pontificato, bisogna ritornare a questa espressione. Qui si condensa la vocazione al sacerdozio come una chiamata alla sequela; qui si comprende il perché di una traiettoria che non può essere modificata nella sua visione del mondo e dell’agire della Chiesa; qui si coglie la prospettiva attraverso la quale è possibile entrare nella profondità del suo pensiero e nell’interpretazione di alcuni suoi atti». Un’intervista, sottolinea Fisichella, «che per molti versi diventa una provocazione a compiere un serio esame di coscienza dentro e fuori della Chiesa per giungere a una vera conversione del cuore e della mente. Le condizioni di vita della società, l’ecologia, la sessualità, l’economia e la finanza, la stessa Chiesa… sono tutti temi che richiedono un impegno particolare per verificare la direzione culturale del mondo di oggi e le prospettive che si aprono per il futuro». Benedetto XVI non si lascia impaurire dalle cifre dei sondaggi, perché la verità possiede ben altri criteri: «La statistica non è il metro della morale» (p. 204). È consapevole che siamo dinanzi a un“avvelenamento del pensiero che a priori dà prospettive sbagliate”(p. 77), per questo provoca a cogliere il cammino necessario verso la verità (cfr p. 79-80), per essere capaci di dare genuino progresso al mondo di oggi (cfr p. 70-71). Queste pagine, comunque, lasciano trasparire con chiarezza il pensiero del Papa e alcuni dovranno ricredersi per le descrizioni avventate date nel passato come di un uomo oscurantista e nemico della modernità: «È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta» (p. 87) con le sue conquiste e con i valori che ha saputo raggiungere a fatica.

Fin dal momento in cui la scelta è caduta su di me, sono stato capace soltanto di dire solo questo: Signore, cosa mi stai facendo?


pagina 20 • 24 novembre 2010

cultura

Tra gli scaffali. Il grande libro di Herman Melville letto da Barbara Spinelli, una delle più acute giornaliste contemporanee

Anatomia di «Moby Dick» di Dianora Citi

In questa pagina, un’illustrazione della balena Moby Dick e una del capitano Achab. Da poco è disponibile in libreria il nuovo libro della giornalista Barbara Spinelli, curato da Gabriella Caramore, “Moby Dick o l’ossessione del male” (Morcelliana): una brillante lettura dell’opera di Melville da parte dell’autrice

ul significato della scelta di chiamare “Ismaele” l’unico sopravvissuto della nave “Pequod”(il cui appellativo riprende quello di una tribù di indiani nativi d’America, i “distruttori”, nel linguaggio algonchino, abitanti nel XVII secolo della regione del New England, tra il Connecticut e Rhode Island) sappiamo: nel libro della Genesi è il nome del figlio di Abramo e della schiava Agar, cacciato nel deserto, ma salvato dall’angelo che riconoscerà in lui un profeta. Nel noto incipit letterario del romanzo Chiamatemi Ismaele (al primo posto tra i 100 migliori incipit della storia della letteratura e vincitore della selezione dell’American Book Review) Melville avrebbe potuto scrivere, esplicitando così il senso di ciò che voleva comunicare, «Chiamatemi esule, vagabondo». Ma perché scelse il nome di Moby Dick per la sua balena bianca?

S

Le due parole avevano a che fare con mob (plebaglia) o con to mob (assalire tumultuosamente), con dick (in gergo americano agente investigativo ma in tedesco grasso e pingue)? Nel XXXVI capitolo, quando appare la balena bianca, Tashtego dice che «deve essere la stessa che qualcuno chiama Moby Dick». Niente di più sul nome. Questa non è che una delle mille curiosità che la lettura di un testo come quello pubblicato da Melville nel 1851, peraltro allora con scarso successo, può destare. Barbara Spinelli, giornalista e scrittrice, se lo sarà chiesto? Un paio di anni fa partecipò alla trasmissione di cultura religiosa di Radio Tre Uomini e profeti, curata da Gabriella Caramore, e i suoi quattro interventi, in al-

trettante puntate, sono stati “trascritti” e pubblicati dalla casa editrice Morcelliana in un libro intitolato Moby Dick o l’ossessione del male. Le quattro “chiacchierate” sono di grande aiuto per «andare sotto la superficie» di quelle 206.587 parole, di quell’oltre milione e mezzo di caratteri (spazi inclusi) che costituiscono il terzo romanzo di Melville, riscoperto e apprezzato solo nel ’21, trenta anni dopo la morte del suo autore. Il simbolismo e le metafore usate nel romanzo sono tantissime e incrociano i piani più disparati soprattutto quello bi-

didattico-scientifico (nella famosa parte cetologica, frutto delle esperienze personali vissute sul mare da Melville ma che fecero travisare il contenuto del libro, visto come un manuale di cetologia) e filosofico-profetico. Il pensiero dominante, dannazione del capitano, l’identificazione in un soggetto del proprio nemico, tanto da catalizzare in questo riconoscimento ogni energia, rappresenta la negazione della realtà, l’ottimismo messianico. Achab «era giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esa-

Facendo rotta con Achab, l’autrice ci accompagna dentro lo spazio di una lotta mortale, dove la ricerca della verità e la lotta contro il male altro non sono che il poema della nostra vita blico: non si può leggere Moby Dick senza tener presente la Bibbia, soleva dire Pavese, il primo traduttore in italiano dell’opera. «Se dovessi collocare topograficamente Moby Dick lo metterei fra i libri profetici dell’Antico Testamento», così Barbara Spinelli in esordio al dialogo con la Caramore. Tensione verso la ricerca della verità e combattimento contro il male, il peccato, la colpa: questo il tema del libro sul piano teologico, due espressioni delle ansie umane impersonificate dal capitano Achab (nel primo libro dei Re dell’Antico Testamento Achab è il nome di un re d’Israele empio e persecutore di profeti, sordo alle parole del profeta Elia che gli predirà una morte violenta). Gli stili letterari variano con il progredire del romanzo: linguaggio parlato, poi aulico, poi

sperazione intellettuale e spirituale, […] incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini […] si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone» (cap. XLI). Il male (la Balena) è combattuto e adorato, «è dentro e fuori di noi. […] Moby Dick è l’unico essere dell’universo che il comandante giudichi alla propria altezza. Nessun altro suscita la sua attenzione o la sua cura». Achab, travolto da un destino che lo fa sentire talvolta prigioniero senza libertà di scelta, talaltra sicuro di vivere atti di indiscussa libertà, confida a Starbuck, il vice-capitano (invano tenta di riportarlo alla realtà con argomenti pratici) il sogno di tornare a casa, ma è consapevole di poterlo fare solo dopo aver ucciso Moby Dick. Dunque, una mèta dolorosamente irraggiungibile. D’altra parte il rapporto di Achab con il dolore (fisico, spirituale e morale), più volte descritto e analizzato con cura, riflette la profonda conoscenza che della sofferenza aveva Melville stesso: una vita sbandata trascorsa sul mare prima, poi la parabola economica, proprio dopo la pubblica-

zione di Moby Dick, fino all’interruzione della scrittura (passo terribile per un romanziere!) perché rifiutato dagli editori qualsiasi suo manoscritto (deciso a non cambiare il suo stile rispondeva “preferirei di no” alle proposte di cambiamenti degli editori); inoltre il suicidio di un figlio, la morte del secondogenito, la depressione e i contrasti con la moglie. I drammi di Achab sono «un romanzo di Melville, che l’autore vive sulla propria pelle». Chissà quante balene bianche (o meglio capodogli) vide il giovane marinaio Herman durante i suoi viaggi sulla baleniera Acushnet. Agli occhi di Achab-Melville la balena è tanto più metafora del male per alcune sue particolari caratteristiche: è muta (il silenzio come simbolo divino della imperscrutabilità, dell’attesa della parola, dell’esegesi), è bianca (il colore del non-colore, nel mondo orientale del lutto, del bianco sudario, ma anche dell’innocenza delle spose, della gioia nella Roma imperiale, del mitico elefante bianco del re del Siam, del pegno d’onore profondo tra i Pellerossa), è senza faccia («Tu potrai vedermi le parti posteriori, la coda – sembra dire la balena – ma la faccia non me la vedrai. […] Insinui ciò che vuole della sua faccia, io ripeto che la balena non ha faccia» (cap. LXXXVI).

Da allora comunque a Moby Dick si sono ispirati film, cartoni, opere teatrali e musical.“Moby Dick”si sono chiamati gruppi musicali serbi e ungheresi, programmi tv e radiofonici. Fino all’inserto culturale del sabato dello stesso quotidiano liberal. Si spera che la possibilità data dagli audiolibri de Il Narratore dalla fine del marzo 2011 di seguire con la voce di Pino Baldini (in formato cd audio Mp3 e in formato digitale per il download Mp3 sia in formato audio sia testo pdf) la lettura di Moby Dick, integralmente ritradotto da Alberto Rossatti, porti molti al piacere di rivivere, ascoltandole, le avventure di Achab.


cultura ohn Podesta, il presidente del Center for American Progress, racconta nel suo L’America del progresso (Marsilio 2010) di aver conosciuto Bill Clinton, di cui fu braccio destro negli anni presidenziali, durante la campagna senatoriale del reverendo Joe Duffey del 1970. Duffey insegnava etica all’Hartford Seminary in Connecticut ed era una delle voci più irreprensibili di parte democratica contro la guerra in Vietnam e contro il presidente Lyndon Johnson. Il senatore democratico del Connecticut era all’epoca Tom Dodd (padre del Chris Dodd che dal 1981 siede in Senato), un sostenitore di Johnson, e aveva annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi per motivi di salute. Duffey aveva così vinto le primarie per sostituire Dodd al Congresso, con un potenziale cambio di posizione del rappresentante in Senato del Connecticut democratico, che da amico del Presidente sarebbe diventato uno dei suoi acerrimi avversari.

24 novembre 2010 • pagina 21

cratico americano e il suo excursus storico ne risente fortemente, soprattutto quando tocca i temi che gli sono più cari come le libertà civili. L’iniziativa riformista decisiva del detestato Lyndon Johnson è praticamente derubricata ad accidente della storia. Johnson è descritto come un Presidente che «prende a cuore la causa dei diritti civili» solo dopo l’evento shock della morte di JFK e grazie al lavoro «gomito a gomito con Martin Luther King e gli altri militanti» dell’onda lunga progressista.

J

È utile ricordare che stiamo parlando sempre dello stesso Partito democratico, a cui tutti Johnson, Dodd e Duffey - appartenevano. Apriti cielo: col pericolo Duffey all’orizzonte, Dodd decideva di tornare in pista e lo scontro fratricida tra i due democratici portava all’elezione del repubblicano Lowell Weicker, che resterà in carica fino al 1989, quando sarà sostituito da Joe Lieberman. John Podesta e Bill Clinton facevano parte della squadra dello sconfitto Joe Duffey. Una storia come le altre, in quei torridi anni di guerra vietnamita, ma che dice molto dell’ispirazione all’impegno politico di un bel pezzo di classe dirigente democratica, che conoscerà i suoi fasti con l’ingresso di Bill Clinton alla Casa Bianca. Podesta, che è molto più di sinistra del presidente di cui fu capo gabinetto, cerca in tutti i modi di mostrare nel suo libro l’affratellamento tra lui e Clinton negli ideali del progressismo americano, che canta nelle pagine del suo testo. Clinton è stato, in verità, un democratico molto più centrista e, nell’azione di governo, continuatore del migliore umanitarismo e internazionalismo liberal. Altro orizzonte politico culturale quello di John Podesta, che oggi consiglia all’abbisogna Barack Obama e ha guidato il passaggio di consegne tra la sua amministrazione e quella precedente. L’America del progresso è uscito negli Stati Uniti due anni fa, prima ancora che il primo Presidente nero vincesse le primarie contro il suo attuale Segretario di Stato. Eppure scorrerlo due anni dopo non guasta la lettura, anzi la

Libri. John Podesta racconta un secolo di sinistra americana, da Roosevelt a Obama

Storia del progresso (made in Usa) di Antonio Funiciello

Una lettura audace delle vicissitudini del secondo ’900 e della battaglia degli States per liberare il mondo dall’ideologia politica rende più suggestiva, poiché è possibile mettere a confronto il succo della riflessione di Podesta con l’anno e mezzo di amministrazione Obama che ci ri-

troviamo alle spalle. La tesi di Podesta è intransigente: conservatori e neoconservatori hanno riportato gli States agli anni precedenti le riforme del primo Roosevelt, Teddy. L’intellettuale mette alla berlina anche il moderatismo wasp dei liberal, colpevoli d’aver regalato il primato culturale della sinistra americana alla destra di Reagan.

I germi della subalternità liberal, stigmatizzata dal progressista Podesta, risiederebbero nel disastro di Johnson in Vietnam

In alto, un’illustrazione del Molo delle Navi di Chicago. Qui sopra, un’immagine di John Podesta e, a fianco, la copertina del suo libro “L’America del progresso” (Marsilio)

e da lì proseguirebbero, fino agli inaccettabili voti a favore dell’intervento americano in Iraq dei parlamentari democratici. L’intransigentismo del giurista della Georgetown University si spinge, nell’ultimo capitolo scritto per l’edizione italiana, ad ammonire il presidente Obama di non farsi ghermire dalla tipica debolezza liberal del voler trovare compromessi coi repubblicani: «Non è possibile negoziare con l’opposizione», perché l’opposizione è brutta e cattiva. Podesta ce l’ha a morte coi centristi del Partito demo-

Questa lettura del politico Johnson è a dir poco riduttiva. Un altro uomo di Clinton, l’apprezzato Segretario alla Difesa Joseph Nye Jr, la smentisce seccamente nel suo ultimo libro (Leadership e potere, Laterza 2009), indugiando a lungo sull’azione che Johnson profuse a favore della rivoluzione dei diritti già da senatore democratico texano: «Negli anni Cinquanta il senatore Johnson desiderava ardentemente porre fine alle ingiustizie razziali nel Sud degli Stati Uniti d’America, ma non fece ricorso al soft power per divulgare o ispirare una nuova visione del mondo negli altri senatori; invece, nascose ai concittadini del Sud le sue vere intenzioni e adottò uno stile transazionale fondato sulla pressione e sulla negoziazione per realizzare gradualmente i suoi obiettivi trasformativi, facendo approvare nel 1957 una legge sui diritti civili fortemente osteggiata da molti dei sostenitori che lo avevano fatto leader della maggioranza. Johnson non cambiò i suoi seguaci, ma cominciò a cambiare il mondo degli afro americani del Sud». Il radicalismo progressista di Podesta non è un buon prisma interpretativo per ripercorrere la storia recente del suo Paese. È eclatante come, ad esempio, nell’intero suo excursus del Novecento americano, Podesta arrivi a fare il nome e il cognome dell’Unione Sovietica solo nelle pagine dedicate agli anni di Clinton, quando cioè il comunismo è stato definitivamente sconfitto. Per Podesta la guerra fredda, da contesto fondamentale entro cui si sviluppa la storia del mondo per quasi tutta la seconda parte del secolo scorso, diviene al massimo il pretesto per imputare ai suoi amici liberal un eccessivo, mal riposto e fuorviante anticomunismo. Una lettura audace della storia del secondo Novecento e della lunga battaglia condotta dall’America per liberare il mondo dall’ideologia politica che, dopo la seconda guerra mondiale, ha prodotto più morti e miseria.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Leggi regionali anti-nucleare: il 60 per cento degli italiani è pro atomo La Corte Costituzionale ha bocciato le leggi regionali di Campania, Basilicata e Puglia che vietavano l’installazione sui loro territori di centrali nucleari e i siti per lo smaltimento delle scorie. La competenza in materia energetica, di tutela dell’ambiente e di sicurezza è chiaramente dello Stato, così come dettato dall’art. 117. La nomina di Veronesi e degli altri membri dell’Agenzia nazionale per la sicurezza sul nucleare è un chiaro segnale della volontà del governo di accelerare i tempi per il ritorno dell’Italia all’energia atomica. Ora è necessario che il “Partito trasversale dell’atomo”, che rappresenta il 60% degli Italiani, prenda una posizione anche politica: la regione Lazio dovrà esprimersi su una mozione presentata dal vice-presidente della commissione Ambiente, Francesco Pasquali, e che impegnerà le istituzioni ad accettare gli impianti nucleari.Tale mozione non solo dovrà essere approvata dal Consiglio, ma dovrà essere anche riproposta e votata positivamente da tutte le regioni, in un impeto di responsabilità. Oltre vent’anni fa una politica irresponsabile abolì l’atomo in Italia costringendo le generazioni attuali ad un costo, in termini sia economici che di salute, troppo alto: i giovani amministratori di oggi non possono essere insensibili e devono pensare all’Italia del 2040.

Lettera firmata

LA PAR CONDICIO NON VALE SOLO PER LA POLITICA Il programma “Vieni via con me” mandato in onda dalla Rai costituisce un raro esempio di sintesi tra confusione e ideologia, nel quale l’individualismo liberale prevarica la cultura della solidarietà, il relativismo quella del bene comune. Non entriamo nel merito delle convinzioni personali dei conduttori e degli autori della trasmissione, ma sentir definire Luca Coscioni, Piergiorgio Welby e Beppino Englaro difensori del “diritto alla vita”umilia profondamente la sensibilità di quanti, distanti dai riflettori e talora persino derisi, da anni si battono davvero e quotidianamente per difendere il diritto alla vita, sostengono le donne in gravidanza difficile ed assistono i malati terminali. Mi auguro pertanto che la Rai, d’ora in poi, tenga in mag-

gior considerazione la logica del contraddittorio, non solo quando si tratta di bilanciare alla frazione di secondo la presenza dei politici, ma anche ed ancora di più quando si toccano temi eticamente sensibili che rischiano di avere, se proposti in modo univoco, effetti devastanti sul piano propagandistico. E, quel che è peggio, fanno disinformazione sul significato del diritto alla vita e hanno come effetto la sostanziale violazione di quel diritto nei soggetti più deboli ed indifesi.

Daniele Nardi

PROROGA ECO-BONUS GRAZIE ALLE OPPOSIZIONI La proroga dell’eco-bonus era data quasi per scontata, invece sono state necessarie pressioni notevoli, sia da parte dei gruppi parlamentari delle opposizioni che delle

Ghigno sinistro Qualcuno direbbe che si sta affilando i denti mentre pregusta un lauto spuntino. Ma per Todd Mintz, il fotografo subacqueo che ha realizzato questo scatto nelle acque delle Bahamas, lo squalo limone (Negaprion brevirostris) che vedete sta “sorridendo”

associazioni di categoria. È una delle poche misure che, anche nel comparto energetico, serve non solo a dare sostegno ma anche sviluppo al nostro Paese. Occorre ridare un po’ di vitalità alla miriade di aziende impegnate in questo settore. Quest’ultime, a loro volta, possono contribuire a rilanciare un’economia che sta arrancando.

Mauro

PENDOLARI MACCARESE OSTAGGI DELL’INCURIA DI TRENITALIA Piove sempre sul bagnato. Causa la cadu-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

ta della linea aerea, i treni della tratta ferroviaria Maccarese-Roma sono costretti a camminare su un unico binario a senso alternato. Centinaia i pendolari in attesa, ostaggi dell’incuria di Trenitalia che almeno sulla carta, dovrebbe gestire questa linea. Questa tratta ferroviaria è una delle più disastrate della nostra regione. Una tratta su cui non solo non si investe da anni ma che è in pieno stato di abbandono, senza alcuna manutenzione né ordinaria né straordinaria.

Ivano Peduzzi e Claudio Fiorella

da ”Der Spiegel online” del 23/11/10

Berlino, al Qaeda e la Costituzione a Germania è nel mirino dei terroristi e vuole nuove armi. Servono strumenti adeguati alle nuove minacce e come il metodo tedesco insegna, a scendere in campo con le nuove richieste sono stati i sindacati di polizia, seguiti a ruota dai vertici della agenzie che curano la sicurezza dello Stato. E il governo ha subito risposto pianificando un revamping, un ammodernamento sia delle agenzie d’intelligenze che delle forze di sicurezza. Le ultime minacce sembrano aver subito messo alla corda il sistema di controllo tedesco.

zioni ferroviarie e lughi pubblici in genere, sono stati riempiti di poliziotti, dopo l’allarme lanciato dal ministro degli Interni, Thomas de Maizières, la scorsa settimana. Ma le necessità di un controllo statale più stringente sulle libertà dei cittadini ha innescato in Germania lo stesso dibattito che provocò negli Usa all’indomani dell11 settembre 2001. Critiche emerse anche all’interno dell’allenza di governo. L’Fdp il partito liberale, partner della Cdu, non ha gradito il progetto della Merkel per introdurre la possibilità di controllare e registrare a tappeto le comunicazioni telefoniche e via internet.

L

Klaus Jansen, capo della Federazione degli agenti della polizia criminale (Bdk), uno dei più importanti sindacati di settore, è stato chiaro: per mantenere i livelli di presidio sul territotio innescati dai nuovi allarmi non c’è personale sufficiente. E questa situazione sembra poter durare ben oltre l’avvio del nuovo anno. Il sindacalista in divisa ha poi suggerito di utilizzare i reparti di polizia militare che, visto il loro addestramento a compiti di polizia, potrebbero integrare il lavoro delle altre forze. Però ciò che non rende facile l’applicazione di un dispiegamento di sicurezza entro i confini della Germania è la Costituzione. Memori dell’utilizzo dei militari per il controllo interno, fatto dal regime nazista, i costituenti teschi hanno posto mille impedimenti a una militarizzazione del patrio suolo. Oggi, che il pericolo viene da al Qaeda, la Costituzione è cieca e non vede la differenza. Per evitare ogni abuso le

forze armate possono essere utilizzate nel Paese solo in caso di «incidenti gravi e disastri naturali», recita la Carta.

È la Polizia ha doversi occupare della sicurezza dei cittadini tedeschi in patria. La kanzlerin Angela Merkel ha più volte tentato di promuovere un emendamento costituzionale che permetta l’utilizzo della Wehrmacht contro il terrorismo, ma non è mai riuscita a trovare l’appoggio politico necessario. Jansen da buon sindacalista ha proposto di recuperare i diecimila soldati che dovrebbero essere tagliati dal nuovo piano di riforma delle forze armate, per riutilizzarli nel contrasto al terrorismo, dopo un periodo di nuovo addestramento. Aeroporti, sta-

La Corte costituzionale tedesca già si era espressa, lo scorso marzo, a proposito di una legge del 2008 che obbligava le compagnie telefoniche a conservare la registrazione di tutto il traffico telefonico e di tutte le email per sei mesi. Aveva annullato gli effetti di quella legge. «C’è bisogno di più agenti di polizia non di altre leggi», aveva subito sentenziato Max Stadler, alto funzionario del ministero della Giustizia e membro dell’Fdp. La conservazione dei dati personali è un vero attentato ai «diritti civili e alle libertà personali» aveva aggiunto. Insomma, quando entrano in campo le divise e si parla del loro utilizzo, in Germania, si scatena sempre la bagarre politica. Ne sa qualcosa l’ex presidente della Repubblica. Intanto sembra che si voglia fondere la Bka, una specie di Fbi, con la Polizia federale che si occupa anche del controllo delle frontiere.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

Ladri d’albergo dai gusti particolari DEVON. Nel budget degli alberghi è prassi mettere una voce relativa alle “mani lunghe”dei propri clienti che di solito portano via shampoo o asciugamani dalle camere come souvenir. Ma una coppia britannica è andata un po’ più in là, e a farne le spese è stato un hotel d’epoca nel Devon, che si è visto sgraffignare sotto il naso l’intera doccia. I due - un uomo sui 50 e una ragazza di una trentina d’anni più giovane - hanno trascorso la notte in un letto a baldacchino del Globe Hotel di Topsham, edificio del XVII secolo nei pressi di Exeter. Quando le cameriere, dopo la partenza degli ospiti, sono venute a rifare la camera, hanno scoperto che il box doccia, staccato dalle pareti e dal pavimento, era scomparso.

Risultato: un conto per l’albergo, tra idraulici e muratori, di almeno 440 euro. I disinvolti clienti avevano lasciato l’hotel pagando in contanti e senza dunque lasciare tracce. Il quarantenne Donald Mosley Jr., invece, è entrato nel Cedars Inn hotel di Lewinston e, avvicinato l’addetto alla reception, lo ha minacciato facendosi dare i soldi che erano in cassa. Mosley, ottenuto il denaro, è uscito dall’albergo, ma invece di allontanarsi, ha pensato bene di fermarsi al bar a fianco dell’hotel a farsi un paio di drink, ma non ha avuto il tempo di berli, dato che è stato catturato immediatamente. Infatti, il personale dell’hotel subito dopo la rapina ha chiamato la polizia, che è

ACCADDE OGGI

GIÙ AL NORD Giù al Nord è un film francese sulla cattiva fama, almeno dal punto di vista climatico, che ha il settentrione della Francia per gli abitanti della solare Provenza. Imitato dal nostrano buonista Benvenuti al Sud, potrebbe essere il titolo di un film per scoprire quello che è già noto e che molti hanno fatto finta, o non vogliono, vedere. Il sistema malavitoso va dove ci sono affari, fregandosene del Nord e del Sud. Potremmo dire che la malavita si è globalizzata prima dei commerci mondiali. Ma nel settentrione d’Italia non c’e solo questo problema. L’idea che al Nord siano efficienti ed efficaci lascia il tempo che trova.

Primo Mastrantoni

SOSPENDERE STUDI SETTORE E PAGAMENTI IRES, IRAP, IVA NEL VENETO Dopo la passerella del governo dei giorni scorsi e tante belle parole, attendiamo ora i fatti. Bisognerebbe sospendere gli studi di settore, i pagamenti Ires e Irap di novembre e quelli dell’Iva di dicembre per i contribuenti veneti. Ci aspettiamo che l’esecutivo e la maggioranza diano un segnale di concretezza alle solite promesse. Il bilancio dei danni causati in Veneto dal maltempo è sotto gli occhi di tutti, anche di chi, come il tg1, si ostina a non vedere. Se tre morti, 3mila sfollati, più di 500mila persone e 121 comuni colpiti, zone agricole devastate e 150mila animali d’allevamento annegati non bastano a meritare la dovuta attenzione, è il servizio pubblico televisivo a rendersi ridicolo. Chi non ride, purtroppo, sono tutte quelle famiglie e imprese messe in gi-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

24 novembre 1963 Assassinio di John F. Kennedy: l’assassino Lee Harvey Oswald viene ucciso a colpi di pistola da Jack Ruby, a Dallas, in diretta televisiva 1969 L’Apollo 12 ammara nell’Oceano Pacifico, ponendo fine alla seconda missione dell’uomo sulla Luna 1971 Durante una violenta tempesta sullo stato di Washington, un uomo che si fa chiamare Dan Cooper si paracaduta da un aereo che aveva dirottato con 200.000 dollari di riscatto 1976 Ultima esibizione pubblica del gruppo rock The Band. Martin Scorsese filma il tutto 1991Il cantante dei Queen, Freddie Mercury, muore nella sua casa londinese, consumato dall’Aids. Nello stesso giorno muore anche il batterista dei Kiss, Eric Carr 1993 Nel Regno Unito, gli undicenni Robert Thompson e Jon Venables vengono condannati per l’omicidio di James Bulger 2002 Austria: il Partito popolare vince le elezioni

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

intervenuta nel giro di pochi minuti. Mentre gli agenti iniziavano a raccogliere le testimonianze, uno dei testimoni ha notato Mosley nel bar, segnalandolo agli agenti, che lo hanno prelevato e portato alla stazione di polizia per interrogarlo.

nocchio da una situazione drammatica, che rischia di diventare irrecuperabile se non saranno adottate misure straordinarie nonostante la positiva iniziale risposta data dalle banche in termini di elargizioni di fondi, di contribuzioni speciali e di moratorie sulle rate dei mutui delle prime case.

Luca Finocchiaro

NUOVE CARCERI PER IL 41 BIS Gli eccellenti arresti di esponenti al vertice delle mafie danno inizio a un’Italia migliore. Esprimendone enorme gratitudine al nostro governo con le sue forze armate e dell’ordine, e alla magistratura impegnata in tale lotta, m’impegno con essi e con tutti gli Italiani a considerare la priorità della lotta alla criminalità organizzata. Costruire nuovi carceri speciali per i detenuti sottoposti al 41 bis, pur proseguendo nell’incremento normativo e applicativo delle pene alternative al carcere a riguardo dei condannati per reati non di sangue e a meno di dieci anni di pena; senza omettere l’immediata ristrutturazione con ampliamento di capienza di tutte le carceri fatiscenti e/o sovraffollate. La magistratura irroghi ai condannati per reati di sangue e per strage, con ferrea determinazione e senza attenuanti, ergastoli col regime carcerario speciale 41bis! Ogni italiano si ricordi di far mancare il suo voto a esponenti e forze politiche che contestino il 41 bis o addirittura vogliano eliminare per legge l’ergastolo (che già di fatto non supera mai i trent’anni di carcere effettivamente scontati).

Matteo Maria Martinoli - Milano

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

I PERCHÉ DI UN CIRCOLO LIBERAL Scrivo queste brevi considerazioni per condividere quelli che secondo me potrebbero essere gli scopi di un Circolo Liberal. Osservo subito, in via preliminare, che politicamente il centro non è una sorta di “zona grigia”, di uno spazio intermedio o terra di nessuno, tra la destra e la sinistra. Oggi l’alternativa di centro rappresenta in Italia l’unica possibilità di autentico riformismo. Solo il centro, infatti, può imprimere al meglio alla società italiana un nuovo dinamismo e un nuovo impulso alla modernizzazione. Credo, a questo proposito, che debba essere ben chiara la distinzione tra il centro, la destra e la sinistra, soprattutto per quanto riguarda i valori di fondo. La sinistra inquadra l’individuo nel sistema. La destra sottomette l’individuo al “capo”, o al “gruppo di appartenenza”, con tutte gli apparati gerarchici che questa soggezione comporta. Il centro, invece, afferma e promuove il primato indiscutibile della persona. L’idea forte della visione centrista è quella di un nuovo rapporto tra il pubblico e il privato. Questo rapporto si fonda sul principio di “sussidiarietà”, cioè sul fatto che lo Stato e i poteri pubblici non si sostituiscono alla persona e alle libere associazioni di persone. Piuttosto, i poteri pubblici intervengono a sostegno delle persone e moltiplicano le opportunità di libera espressione che spontaneamente prendono forma nella società. I “nemici” di questa visione sono, non solo i totalitarismi di destra e di sinistra, ma le forme esasperate di assistenzialismo statalistico proprie delle socialdemocrazie. Poste queste premesse, gli orizzonti che si aprono sono molto ampi. Occorre promuovere all’interno della società italiana la nascita di una nuova cultura politica che si dovrà far strada tra un persistente marxismo a sfondo nichilistico proprio della sinistra e l’indifferenza (la delega o la vera e propria “resa” al capo) su cui prospera la destra. Credo che la diffusione di questa nuova cultura possa essere lo scopo dei Circoli Liberal, nello spirito del Manifesto di Todi. Indico solo alcune delle possibili aree tematiche di intervento: la riforma globale della pubblica amministrazione e l’affermazione del “sistema misto” (pubblico e privato), la riforma della scuola, il revisionismo storico. Per mettere in atto ciò, occorre sperimentare nuove forme di comunicazione: la rete internet, i giornali, anche quelli a diffusione locale. Luigi Neri C I R C O L I LI B E R A L BO L O G N A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

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ULTIMAPAGINA Esoterismo. Ai Churek era una leggenda: parlava con gli spiriti e guariva i malati. Un infarto l’ha stroncata

La Russia piange la sciamana di Luisa Arezzo er tutti, in Russia, lei era “Cuore di luna”: la sciamana dotata di grandi poteri. La leggenda, nella lontana repubblica di Tuva, al confine fra la Siberia e la Mongolia, racconta che discendesse direttamente dal Cielo-Padre e dalla Terra-Madre e che fosse capace di restare da sola nella steppa anche per settimane. La sua capacità di guarire gli altri, però, non è riuscita a proteggerla da un infarto, che ieri l’ha uccisa a soli 47 anni. Ai Churek, che discendeva da una famiglia di sciamani (e che da bambina, in piena epoca sovietica, era stata rinchiusa - confinata è più corretto - negli ospedali psichiatrici, per uscirne solo a ridosso del 1989) era famosissima, sia in Russia che all’estero, soprattutto grazie alle sue conferenze. Nel 1998 venne anche in Italia per prendere parte ad un congresso internazionale sulla medicina alternativa (durante il quale degli esperti le riconobbero le sue capacità di cura). La sua storia, come sottolineato dall’agenzia di stampa russa Interfax, venne anche raccontata in un documentario di produzione italiana: Moonheart. Il suo dono terapeutico (oltre alla capacità di cura) lo aveva ereditato dal padre, ed era quello di leggere il destino dalle pietre.

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Viveva a Kyzyl, una cittadina dove il tempo sembra essersi fermato: meno di 80mila abitanti, cinque o sei isolati di edifici da socialismo reale, una teoria di dacie e orti che scendono fino alle rive del fiume Yenisei. Kyzyl è l’improbabile capitale dell’altrettanto improbabile repubblica di Tuva: un pianeta alieno piantato proprio nel centro del centro dell’Asia, fra i monti Altai e le pianure di Siberia e Mongolia, sequenza infinita di steppe e foreste, laghi, montagne, sepolte per otto mesi l’anno sotto la neve e battute dal sole durante estati troppi brevi. È il “Paese delle aquile”, dicono le leggende, abitato da sciamani figli del DioOrso e pastori nomadi che si spostano ancora sui sentieri tracciati 800 anni fa da Gengis Kahn. In tutto, Tuva non conta più di 300 mila abitanti, metà d’origine mongola, metà russa. Gente che porta scolpiti addosso i segni di una storia sempre dettata da altri: prima i signori della Mongolia feudale e i funzionari cinesi dell’impero Manciù, più tardi i coloni russi, scesi a metà ’800 a cercare oro e ferro. Nel 1914 la Russia zarista s’è poi presa l’intero territorio, dopo due secoli di dominio cinese. Ma tre anni più tardi la rivoluzione bolscevica ha riaperto i giochi, precipitando quest’estrema periferia asiatica in una guerra di tutti contro tutti. A chiudere definitivamente il capitolo ci ha pensato Stalin. Terre e bestiame collettivizzati con la forza, buddhismo e sciamanesino al bando, monasteri rasi al suolo, monaci e stre-

CUOR DI LUNA La donna viveva nella piccola repubblica di Tuva, tra la Siberia e la Mongolia, un luogo isolato da millenni di domini stranieri e da 50 anni di regime sovietico. Un mondo di tundre, steppe e propenso a mescolare buddhismo tantrico e rituali sciamanici goni incarcerati o fucilati. Nel ’44 il paese diventa ufficialmente una repubblica autonoma dell’Unione Sovietica. E scompare dalle mappe geografiche. Un mistero nascosto nel ventre delsovietico. l’impero Eppure, dietro la facciata impenetrabile dell’oppressione sovietica, hanno continuato a scorrere, come un fiume invisibile, i segnali di una cultura originaria che mischia buddhismo tantrico e rituali sciamanici. Alla fine, con il crollo dell’Urss nel 1991, il “Paese delle

aquile” si è improvvisamente ritrovato padrone del proprio destino. Qui e là, le rocce raccontano del passaggio di civiltà remote: iscrizioni in tibetano, tumuli funerari sciiti e turchi.

Ma soprattutto , a riempire il vuoto di queste regioni sono gli “uomini di pietra”, che dominano la steppa di Bai Taga. Nessuno sa esattamente cosa rappresentino. Alcuni risalgono al 1200, forse lasciati dall’esercito di Gengis Khan per segnare il passaggio. Altri appartengono a epoche più lontane, a 3-4mila anni fa. Ai Churek si spingeva a volte fin qui. Per andare caccia di spiriti e ricaricarsi dell’energia necessaria a curare i malati. E quando tornava a Kyzyl, amava passare i pomeriggi guardando le telenovelas. Certe volte, soprattutto la notte, capitava di trovarla seduta sulla riva del fiume intenta a recitare formule oscure e percuotere il tamburo per attirare i fluidi benefici della natura. Più tardi, la si ritrovava dentro una dacia sulle colline, circondata da otto, dieci anziani ai quali trasmetteva, in trance, tutta l’energia che aveva accumulato. Quando finiva era completamente svuotata. Allora, si racconta, tornava a casa, si lasciava affondare sul divano e accendeva la tv.


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