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he di cronac
Il più certo modo di celare
agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli Giacomo Leopardi
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 26 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La votazione finale sul testo rinviata al 30 novembre. Polemiche sulla mancanza di copertura finanziaria
La Gelmini non passa l’esame Occupazioni e scontri in tutta Italia: gli studenti salgono sul Colosseo e sulla Torre di Pisa. Alla Camera maggioranza battuta sulla riforma che slitta. Il ministro: «Se cambia, la ritiro» POLIZIA E STUDENTI
«Non indica alternative alle discariche»
Il Paese in cui Poveri noi, i giovani non anche la politica sanno più che fare va per tetti
Il Quirinale boccia il decreto sui rifiuti
Chi sono e cosa vogliono gli studenti
“Flash mob” & insicurezza: anatomia di un movimento
Gualtiero Lami • pagina 10
Il premier punta ancora sulla fiducia: ma è inutile
Si renda conto che non governa più. E si dimetta erlusconi vuole l’appoggio esterno dell’Udc dopo il voto di fiducia previsto per il 14 dicembre. Noi, per la verità, non sappiamo se ci sarà ancora un governo Berlusconi a cui dare l’appoggio esterno dopo il 14 dicembre. In ogni caso, anche se ci fosse, non capiamo perché mai gli dovremmo dare un appoggio esterno. Se Berlusconi uscisse trionfatore dal voto di fiducia non avrebbe bisogno del nostro appoggio esterno. Se lo vuole, e ce lo chiede con un così largo anticipo, evidentemente è perché questa larga e trionfale maggioranza non pensa di averla. Che fare se Berlusconi dovesse avere un vantaggio di un paio di voti, quelli che bastano per non essere giuridicamente costretto a dimettersi ma molti meno di quelli che sono necessari per governare davvero? Dalla anticipazione di questo stato di fatto nasce l’ipotesi : governare con l’appoggio esterno dell’Udc. Ma perché mai l’Udc dovrebbe dare questo appoggio esterno? A prima vista sembra che un buon motivo ci sia: il Paese ha bisogno di essere governato e le elezioni anticipate non sono una buona cosa per il Paese. segue a pagina 10
B
seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
di Achille Serra
di Giancristiano Desiderio
n tanti anni di servizio nelle Forze di Polizia e presso il ministero dell’Interno, non ricordo nessun’altra manifestazione di protesta con un esito così grave: l’assalto e il tentativo di irruzione in un palazzosimbolo delle istituzioni del Paese. Due giorni fa siamo giunti a questo, con il Senato assediato dagli studenti inferociti e gravi difficoltà per impedire loro l’ingresso. Fortunatamente, il tempestivo ed efficace intervento delle forze dell’Ordine - costato il ferimento di diversi agenti - ha impedito degenerazioni ulteriori, ma la prossima volta potrebbe andare diversamente. È bene tenerlo presente prima di pronunciarsi sull’accaduto, soprattutto se si ricoprono ruoli politici o, peggio, se si hanno delicati incarichi istituzionali. segue a pagina 3
l momento è delicato e bisogna stare con i piedi per terra. La protesta degli studenti è campata in aria, ma proprio per questo il governo e l’opposizione farebbero bene e meglio se offrissero uno spettacolo più degno dei loro rispettivi ruoli. In particolare, Pier Luigi Bersani da una parte e il ministro Gelmini dall’altra è bene che non facciano scuola con i loro comportamenti mediocri: l’idea del segretario Pd di salire sui tetti della Sapienza non è stata, per contrappasso, all’altezza della situazione e da parte sua il ministro vola basso e si mostra ingiustificatamente saccente quando dà dello “studente ripetente” a un Bersani che, invece, come ha dimostrato con la pubblicazione del libretto universitario su Facebook si è laureato con 110 e lode. segue a pagina 3
I
Il testo dell’esecutivo, per il Colle, contiene un limite di sostanza (dove finiranno i rifiuti?) e uno tecnico (i poteri sono distribuiti male tra Regione e Province)
di Rocco Buttiglione
DESTRA E SINISTRA
La protesta che scorre per le piazze e sale sui tetti non ha nulla in comune con gli anni ’70. Chiede certezze e teme un avvenire che si ferma al prossimo week end Riccardo Paradisi• pagina 4
Al via l’incontro fra Putin e la Merkel
I
Nel mirino l’iniziativa che fece “fuggire” Air France
L’Europa vacilla, Mosca «Alitalia, falsa cordata» Baldassarre a giudizio flirta con Berlino di Gaia Miani
di Pierre Chiartano ister Volodja è arrivato in Germania. Sicuramente viene a lucidare gli ori della principesca ambasciata russa di Berlino, e a parlare d’affari con la Merkel, forte ormai di un’incoronazione al comando della Cdu ma con qualche problema nel Paese. Nell’agenda anche E.on, la società tedesca di energia che dovrebbe entrare nell’orbita del gigante russo Gazprom. a pagina 8
l presidente emerito della Corte costituzionale Antonio Baldassarre è stato rinviato a giudizio per aggiotaggio. Ai tempi della vendita di Alitalia ad Air France, secondo l’accusa, mise in campo una cordata inesistente per far fallire la trattativa che il governo Prodi stava legittimamente per concludere con la compagnia di bandiera francese. a pagina 7
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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230 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 26 novembre 2010
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Assedio. Tocca ai monumenti-simbolo del Paese: i giovani espugnano il Colosseo, la Torre di Pisa e la Mole antonelliana a Torino
Il governo va fuori corso
Con gli studenti in piazza, la maggioranza non riesce ad approvare la riforma dell’Università. E il premier, come al solito fa finta di niente di Errico Novi
ROMA. C’è un Paese in subbuglio. Un’insorgenza giovanile inedita perché le forme prevalgono sui contenuti. Sì, dal provveditorato di Palermo imbrattato con le uova alla Mole di Torino invasa dai “collettivi” risuona secco e universale il “No alla riforma”. Tutti contro il ddl università firmato da Mariastella Gelmini. Però è una posizione molto generica, contraddetta dalle voci più moderate, come quella cattolica della Fuci. C’è invece il chiaro tratto comune di una disperata ricerca dell’eccesso. E per questo, per cercare la massima risonanza possibile, studenti universitari e liceali puntano sui monumenti simbolo del Belpaese: a Roma si impadroniscono del Colosseo, a Torino appunto sciamano nella Mole antonelliana, a Pisa fanno scendere i turisti dalla Torre pendente, ci salgono loro e ci restano tre ore. Plateali atti dimostrativi che mirano a fsuscitare attenzione, a rendersi riconoscibili, in un Paese governato da un esecutivo stanco, debole in Parlamento e asserragliato nel bunker in vista dei voti di fiducia. È in fondo la protesta del Paese che reclama attenzione alla politica, che cerca di scuoterla dall’inerzia. Dall’altra parte però c’è una maggioranza preoccupata solo di gestire la propria sopravvivenza, eventualmente affidandola alle une. Nel primo pomeriggio Berlusconi riunisce l’ufficio di presidenza del Pdl a Palazzo Grazioli. Ripete quanto ha detto poco prima al tavolo del “piano per il Sud”: «Andare a votare è un danno, ma lo è anche restare in una situazione di ingovernabilità. Quindi vediamo cosa accadrà il 14 alla Camera, se non ci sono i numeri salirò al Colle per chiedere nuove elezioni». Fa qualche cenno al nuovo simbolo, si programmano manifestazioni dell’orgoglio pidiellino alla vigilia dei voti di fiducia, il 10 e l’11 dicembre. Ma non c’è una parola per quello che accade nelle piazze, per l’insofferenza manifestata da migliaia di giovani. Dovrebbero far testo le parole della Gelmini, convinta che ci sia «una saldatura tra gli interessi dei baroni e le proteste degli studenti». Ma dal bunker si fanno solo calcoli
La maggioranza va ancora sotto e slitta il voto finale: dovrebbe arrivare entro martedì sera
E alla fine Gelmini s’arrabbia: «O così, o ritiro la legge» di Marco Palombi
ROMA. C’è chi ancora pensa alla fiducia del 14 dicembre, come se ottenerla per un paio di voti significasse che il governo dispone ancora di una maggioranza parlamentare. Come ogni giorno, invece, nell’aula della Camera si è assistito allo sfarinamento di ogni vincolo di coalizione: anche ieri il governo è andato sotto - per la 61esima volta a Montecitorio dall’inizio della legislatura, dicono le statistiche - su un emendamento di Futuro e Libertà. I finiani infatti, anche ieri mattina, se ne sono allegramente fregati del parere negativo di governo e relatrice e hanno sostenuto la loro modifica votando insieme all’opposizione: 282 sì, 261 no e tre astenuti. Il paio di minuti successivi ai boati di esultanza dell’opposizione sono la plastica fotografia della situazione: un conciliabolo tra Fabio Granata, Benedetto Della Vedova e Italo Bocchino con tanto di fascicolo degli emendamenti in mano, un altro al tavolo della relatrice tra la presidente della commissione Cultura Valentina Aprea e i colleghi del Pdl Marco Milanese e Guido Crosetto; sola, ai banchi del governo, Mariastella Gelmini. La ministro, a quel punto, ha capito che aria tirava e s’è affrettata a consegnare ai gruppi di maggioranza, finiani compresi, un lista di emendamenti blindati su cui “non fare scherzi”. Per ora non è successo nulla, sostiene Gelmini: «L’emendamento di Fli era di scarso rilievo. Mi auguro però che non vengano votati emendamenti che stravolgano il senso della riforma: se fosse così dovrei ritirarla». Per ora il ddl è ancora vivo, ma il suo destino non è così certo: doveva essere approvato definitivamente ieri, ma la capigruppo ha posticipato il voto finale a martedì prossimo entro le 20. Uno stop sostanziale per una riforma che continua ad agitare le piazze italiane, ma uno stop anche per la mozione di sfiducia contro il ministro dei
Beni culturali Sandro Bondi, che doveva andare al voto dell’aula questa settimana. A questo punto non è escluso, in realtà, che non si riesca a “chiuderla” neanche per la prossima: se il ddl di riforma dell’università verrà licenziato martedì, Montecitorio sarà in ogni caso impegnata mercoledì e giovedì col decreto sicurezza e quello sull’imprenditorialità e poi con le mozioni – molte comunque a rischio per la tenuta delle truppe berlusconiane - sulla Rai dei finiani e di Italia dei Valori contro Roberto Calderoli, sulla riforma del fisco voluta da Pier Luigi Bersani e ancora con una sulle province. Bondi, insomma, rischia di guadagnare qualche giorno da ministro per l’ingolfamento della Camera dovuto proprio alla morte politica della maggioranza. Tornando al ddl università, il suo percorso continua ad essere a rischio. Esiste ancora, per dire, il problema delle risorse. Le opposizioni chiedono il ritorno del ddl in commissione perché l’emendamento sulle nuove assunzioni non è coperto.
Anche la sfiducia al ministro Bondi cambia data: dovrebbe essere votata subito prima della resa dei conti del 14 dicembre
Un altro voto a rischio, comunque, arriverà martedì non appena si tornerà in aula. C’è infatti un emendamento di Idv che è appoggiato da Futuro e Libertà e tenta persino la Lega: il testo vieta ai parenti fino al terzo grado di un professore universitario di concorrere per ottenere una cattedra nello stesso ateneo del congiunto. Granata ha già detto che Fli lo voterà «perché rappresenta un chiaro segnale politico» e, agli emissari del governo che proponevano una riformulazione agitando problemi di costituzionalità, ha risposto che i finiani sono «contrari a soluzioni fumose». Per il capogruppo del Pd, Dario Franceschini, ormai è tutto chiaro: «Capisco che non sia più una notizia che il governo sia stato battuto grazie ai voti di Fli, avviene ogni giorno, ma il dato che emerge è che i numeri per votare la sfiducia ci sono tutti, serve la volontà politica». Una cartina di tornasole, al netto del mercato delle vacche (che pare essersi chiuso per l’esiguo numero di vacche), potrebbe essere proprio la sfiducia a Bondi: se tutto procede normalmente, la Camera potrebbe votarla il 9 o il 10 dicembre, come fosse una sorta di prova generale dell’Armageddon del 14, e l’aria non pare buona per il poeta di Fivizzano.
sulla quota minima da raggiungere alla Camera, non sulle scosse che arrivano dalla piazza.
E prevale soprattutto l’immagine di un governo e di una maggioranza deboli. Mentre i monumenti diventano luoghi simbolo della mobilitazione studentesca, a Montecitorio l’esecutivo è ancora una volta battuto su un emendamento di Futuro e libertà, sostenuto dalle opposizioni. La Gelmini perde le staffe: «In questo caso non era in gioco un principio cardine, ma se dovessero essere messi in discussione aspetti decisivi della riforma, la ritiro». Poi però il neofiniano Roberto Rosso fa notare che «grazie all’emendamento firmato da Granata abbiamo evitato in realtà che la Bocconi venisse equiparata al Cepu». Se ne riparla martedì, con i deputati di Futuro e libertà gongolanti per aver fatto ancora una volta pesare la loro golden share. Comunque le voci flebili dei ministri (la stessa Gelmini e Alfano inciampano persino in un lapsus, votando per sbaglio con le opposizioni) sembrano troppo dimesse per poter reggere l’impatto anche incontrollabile delle manifestazioni. Ovunque si vedono iniziative clamorose, e i disagi pure sono notevoli. Nella sempre creativa Milano un drappello si stacca dal corteo anti-Gelmini e sale sul tetto dell’Agenzia delle entrate. Seguiranno tafferugli e qualche ferito, anche tra le forze dell’ordine. A Pisa oltre che sulla Torre, dove espogono uno dei tanti striscioni, i manifestanti si dirottano pure all’aeroporto, dove occupano le piste d’atterraggio e bloccano il traffico aereo per un paio d’ore. Pochi chilometri più in là, al Polo umanistico dell’università di Firenze, si verificano i fatti più incresciosi. Centinaia di militanti dei collettivi tentano di impedire un dibattito sull’immigrazione con Daniela Santanchè. La polizia ricorre alle consuete cariche di alleggerimento ed evita l’irruzione nella sala del convegno. Fuori però si sentono slogan che tradiscono la connotazione non proprio politicamente neutrale del movimento: «Fascisti carogne fuori dalle fogne» è uno dei cori più gettonati, segue un ancora più significativo inno alle foibe. Vengono denunciati in trenta, sempre nel capoluogo toscano, per lancio di oggetti contro le forze dell’ordine. Dentro l’ateneo
prima pagina
In questa pagina, tre immagini delle proteste studentesche di ieri. Nella pagina a fianco, la ministro Mariastella Gelmini la Santanchè trova anche il tempo di battibeccare con una studentessa albanese sul caso Ruby. E rivendica però a ragione quel diritto a discutere liberamente che il corteo dei collettivi vorrebbe rinegoziare. Altri segnali contribuiscono a definire il carattere pienamente politico di molti filoni del movimento: ad Ancona per esempio c’è reciproco appoggio tra gli universitari, la Cgil e gli operai della Fincantieri. Nella Capitale il traffico va in tilt. Si inizia davanti Montecitorio, con un sit-in comunque pacifico e al più vivacizzato da qualche fumogeno. Poi uno spezzone si dirige al Colosseo, anch’esso addobbato con il consueto striscione anti-riforma. Altri tronconi sciamano sul Lungotevere e paralizzano la già problematica circolazione. L’avanguardia è fatta in buona parte di ragazzi che indossano caschi da motociclista per non farsi sorprendere da eventuali conflitti con gli agenti. A freddo, commenta un berlusconiano preoccupato: «Qualcosa di strano c’è, in certi episodi: va bene la prudenza delle forze dell’ordine che
evitano di aggravare la tensione, ma se centinaia di giovinastri riescono a introdursi senza affanno addirittura nei palazzi del Parlamento c’è qualcosa che non va nella catena di comando. E anche da questo si capisce che ormai siamo allo sbando».
Successi conseguiti dal capo del governo nel corso della giornata? L’annuncio fatto davanti al gotha del Pdl che «con Mara è tutto a posto, ci ho parlato per due ore». La Carfagna non andrà via, persino Verdini tranquilllizza: «I parlamentari campani sono pronti a discutere con serenità, anche perché il decreto sui rifiuti è stato messo a punto in modo corretto». Peccato che il Quirinale non sia troppo d’accordo e chieda chiarimenti visto che «non ci sono adeguate alternative allo stop sulle discariche». Hai detto niente. Ma c’è la pace armata tra Carfagna e Cosentino. E poi? «Berlusconi è sicuro di avere la maggioranza alla Camera. Non ci ha detto come faremo a raggiungerla, però», è la chiosa di un anonimo partecipante al vertice.
26 novembre 2010 • pagina 3
La polizia lasciata sola come gli studenti
Gli errori contrapposti di destra e sinistra
Qui i giovani non sanno più che fare
Se anche la politica va per tetti
di Achille Serra
di Giancristiano Desiderio
segue dalla prima
segue dalla prima
Il ministro Gelmini, infatti, ha reagito accusando i giovani di essere «scalmanati» senza grande seguito. Atteggiamenti simili peccano, a mio avviso, di grande miopia politica e non fanno altro che esasperare gli animi. I gesti violenti commessi dai manifestanti vanno sicuramente condannati con decisione senza lasciare spazio a alcuna giustificazione di sorta, ma al contempo occorre comprendere a fondo il disagio che sta portando in piazza migliaia di studenti in numerose città e che non accenna a placarsi. Non si può liquidare la questione definendoli tutti dei perdigiorno, amici dei baronati, che salgono sui tetti per non studiare. E, soprattutto, non si può fare tabula rasa della nostra storia recente, rischiando di ripetere errori già commessi. Anche chi ancora non ha i capelli bianchi ricorda, infatti, le oceaniche folle di studenti che marciarono per protesta in tutto il paese tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Al loro fianco, spesso, una classe operaia altrettanto esasperata da una situazione economica, politica e sociale prossima alla paralisi. Una situazione per molti versi simile a quella odierna, dove i giovani non vedono luce in fondo al lungo tunnel del precariato e della disoccupazione in cui da troppi anni sono bloccati.
Viene in mente quella frase di Flaiano di cui spesso si abusa, ma intanto è sempre sorprendentemente utile e vera: “La situazione è tragica ma non è seria”. Non è seria soprattutto perché il governo dovrebbe parlare con la chiarezza della propria autorevolezza e invece non riesce a difendere la sua riforma universitaria neanche in Parlamento (con il voto favorevole per errore della stessa Gelmini, in evidente stato di nervosismo, all’emendamento di Futuro e Libertà).
Alle proteste studentesche di quarant’anni fa, seguirono alcuni degli anni più bui della nostra storia - gli anni di piombo - e non voglio qui azzardare parallelismi prematuri e fuori luogo con l’attualità. Certamente, tuttavia, vorrei invitare la classe politica a non sottovalutare in questo delicato frangente il fermento studentesco. Tanto malessere si deve gestire con serietà e lungimiranza, intraprendendo l’unica strada possibile, quella del dialogo. Non possono essere le Forze dell’Ordine a governare i disordini di questi giorni. Ad esse spetta solo il compito di isolare i violenti e sono sicuro che lo svolgeranno egregiamente. Il governo, nel frattempo, apra tavoli di confronto con gli altri studenti - senz’altro la maggioranza - ascolti le loro motivazioni, ne faccia tesoro. I giovani, come il resto del Paese d’altronde, capiscono le “ragioni della crisi”, quelle ragioni che hanno imposto tagli e sacrifici a molti settori e apprezzano la lotta agli sprechi e ai privilegi che il ministro Gelmini indica come priorità della riforma universitaria. Tuttavia, chiedono di avere voce in capitolo, contestano tempi e modalità delle scelte governative e denunciano le pesanti conseguenze di queste scelte sul proprio futuro già tanto incerto. A che titolo negare loro questa collaborazione?
La difficoltà del governo di andare avanti con dignità è palese. A parlare, infatti, sono gli stessi “atti parlamentari”: l’esecutivo non è nelle condizioni di condurre in porto i suoi decreti e provvedimenti. Fino ad ora la forza del governo Berlusconi, al di là della politica, erano stati i numeri. Ora anche i numeri non ci sono più e mentre gli studenti dell’università e delle scuole manifestano per le strade, sui tetti, al Colosseo e sulla Torre di Pisa il presidente del Consiglio mette su ancora una volta il disco di sempre: «O la fiducia o il voto anticipato». Ma mentre lo ripete per l’ennesima volta il governo va ancora una volta sotto alla Camera proprio su quella riforma che è contestata fuori dalla Camera. Anche qui, come si vede, la frase di Flaiano mostra tutta la sua attualità. Dopo l’approvazione dell’emendamento del gruppo di Fli, il ministro Gelmini ha detto che se la riforma sarà stravolta allora il governo ritirerà il provvedimento. Ma anche in questo caso la posizione del ministro, ci dispiace doverlo notare, è confusa: la riforma non va ritirata perché altrimenti sarà stravolta dagli emendamenti dell’opposizione che un tempo era maggioranza, sì piuttosto perché il governo non ha la forza politica e parlamentare necessaria e sufficiente per approvarla sia alla Camera sia sui tetti delle università d’Italia. Il problema del governo, data la situazione che si sta creando, è quello di recuperare serietà per sfuggire alla doverosa critica alla Flaiano. Si mettano da parte gli ultimatum, le scomuniche, gli interventi telefonici in Rai e si usi il linguaggio della compostezza e dell’autorevolezza. Qui in gioco non c’è né la fiducia né il voto anticipato, bensì la dignità istituzionale e la sicurezza sociale.
pagina 4 • 26 novembre 2010
l’approfondimento
Ritratto di una generazione spaventata e confusa, che sente i tagli per ricerca e università sulle proprie gambe
Anatomia di un movimento Più flash-mob che cortei: la protesta che scorre per le piazze, sale sui tetti e occupa i monumenti non ha nulla in comune con quella degli anni ’70. Non chiede rivoluzione ma sicurezza. E teme un avvenire che si ferma al prossimo week end di Riccardo Paradisi oichè l’Italia è il fanalino di coda nell’Unione europea, per quanto riguarda gli investimenti nella scuola e nella ricerca, è evidente che gli studenti hanno buone e fondate ragioni per mobilitarsi». Analitico e assertivo come ai vecchi tempi, quando era uno dei lider maximi del ’68, Mario Capanna, oggi presidente della Fondazione Diritti Genetici e già editorialista del Giornale, getta il suo sguardo paterno sull’agitarsi studentesco di questi giorni.
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E lo fa rispolverando un lessico tardonovecentesco che ai ragazzi in piazza oggi non si sa bene che possa dire: «L’inizio delle lotte studentesche è ampio e generalizzato nel Paese, ma il problema è quello della durata. Per ottenere risultati è auspicabile che il fuoco non sia di paglia e che la mobilitazione duri». Archeologia ideologica. Questi ragazzi che salgono sui tetti a Milano, sulla mole Antonelliana a Torino, sulla torre di
Pisa, sul Colosseo, che bloccano i ponti a Bari, che fermano i treni a Siena che a Trieste circondano l’edificio centrale dell’Università per dar vita a un grande abbraccio girotondino dell’istituto, non sono i vecchi katanga in eskimo di Mario Capanna. Al netto di qualche vecchio slogan questi se ne fregano del centralismo stalinista in vigore alla Statale di Milano negli anni Settanta del Novecento. La loro è una protesta fatta di flash mob più che di cortei, di striscioni evocativi più che rivendicativi. Sognano un lavoro che non sia precario più che la rivoluzione. I violenti ci sono anche qui: ma sono quelli che Capanna chiamerebbe agenti provocatori: elementi dei centri sociali, dei gruppuscoli che ci provano sempre a mettersi alla testa di qualche corteo, che spingono la protesta oltre il limite consentito in uno stato ordinato. Fino al picchetto violento per impedire agli studenti di entrare a lezione, fino alla pressione fisica sul Senato, fino al tentativo di im-
pedire a Firenze, un convegno con un sottosegretario inneggiando ai massacri di italiani nelle foibe istriane. Violenti e infami in questo caso. Il grosso della turbolenza studentesca e universitaria si muove però sulla spinta d’una protesta compiutamente post-ideologica. Che ha come obiettivo diretto i tagli ai finanziamenti per la scuole e la rude razionalizzazione dell’università ma che è percorsa più in profondità dal disagio che caratterizza un’intera generazione: la paura del
L’unica linea di continuità è quella col movimento dell’Onda
futuro, l’inquietante sensazione che l’unico avvenire immaginabile sia quello del prossimo week-end. Non a caso gli slogan più usati sono gridi di protesta per un futuro negato. C’è una linea di continuità con il cosiddetto movimento dell’onda studentesca di questi ultimi anni che ha quasi tre anni di vita nato proprio con il progetto di contrapporsi alla riforma universitaria, a partire dalla fine dell’estate del 2008, subito dopo l’approvazione dei decreti legge 112 e 137, convertiti rispettiva-
mente con la legge 133 dell’agosto 2008 e 169 dell’ottobre dello stesso anno, attraverso cui è stato programmato (con la forte riduzione dei fondi per il finanziamento ordinario e degli organici del personale, oltre al cosiddetto dimensionamento degli istituti) un taglio complessivo triennale di circa 8 miliardi di euro per la scuola e di quasi 2 miliardi per gli atenei.
L’apice della protesta si raggiunge il 30 ottobre 2008, quando gli studenti sfilano a Roma fondendosi con tutti i sindacati del comparto istruzione: il centro della capitale è invaso da quasi un milione di manifestanti. Il 28 ottobre del 2009, nella stessa giornata in cui viene approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge - che introduce i ricercatori a tempo e le valutazioni dei docenti e nuove modalità dei concorsi gli studenti, facenti capo alle diverse associazioni decidono di costituire un fronte unico anti-Gelmini. Sono ancora loro
26 novembre 2010 • pagina 5
«Non bisogna cadere nell’errore di presentarli come rivoltosi o violenti»
«Certo, i modi sono sbagliati, ma le loro ragioni sono giuste» Aldo Bonomi, Giulio Ferroni, Tommaso Gastaldi e Giovanni Sabbatucci: i professori giudicano gli alunni. «Però l’università deve cambiare» di Francesco Lo Dico
ROMA. Manifestazioni in tutta Italia, forti tensioni da Palermo, dove hanno lanciato petardi e fumogeni, a Torino, dove hanno occupato la Mole Antonelliana. E poi, secondo la triste abitudine consolidatasi da qualche tempo, cariche della polizia e tafferugli. Gli studenti universitari in rivolta contro la riforma Gelmini sono saliti sui tetti dei luoghi simbolo italiani per gridare il loro disagio. Anche a Roma, dove in netta contrapposizione con la diagnosi di Mariastella Gelmini, hanno affidato il malumore a uno striscione simbolico: “Né manager né baroni, i privati fuori dai maroni”.
Ma il disordine impera per le strade, tanto quanto nei media, e non è facile tracciare una precisa geografia della protesta. «I media amplificano tutto, ma la verità è che la maggioranza degli studenti universitari è del tutto rassegnata ai cambiamenti imposti dall’alto», commenta Giulio Ferroni, ordinario di Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma. «I rivoltosi sono una minoranza – prosegue Ferroni –mentre la maggior parte degli allievi solidarizza con la protesta in senso puramente simbolico». Meno disposto a concedere ragioni ai cortei di protesta è invece il sociologo Aldo Bonomi: «I giovani sono sempre indisponibili ad accogliere i cambiamenti, perché li reputano negativi a priori. La riforma Gelmini, che pure ha degli aspetti necessari a svecchiare gli atenei, viene percepita come una minaccia al loro avvenire». «Operazioni come l’assalto al Senato sono inqualificabili – annota Giovanni Sabbatucci, professore di Storia contemporanea alla Sapienza – Slogan e rivendicazioni sanno di vecchio e hanno una filosofia sorpassata, ma sebbene la riforma non sia male, all’origine della rabbia c’è un fatto incontestabile: il blocco delle risorse rende qualunque intervento legislativo indigesto. Più che le nuove norme e gli accorpamenti dei dipartimenti, ai giovani interessa un dato preciso: non ci sono soldi per la loro istruzione, per il loro futuro e per la loro condizione precaria. È questo che muove la loro agitazione. Che seppure in forme sbagliate, è del tutto lecita».
Minaccia, paura per il futuro. Sembra la chiave di volta, a giudicare dalla concorde opinione di Giulio Ferroni: «Non è la riforma il vero motore delle proteste studentesche, ma piuttosto uno scontento esistenziale che origina da uno scarso o nullo interesse mostrato dalle istituzioni per l’avvenire dei giovani, per il loro lavoro e il loro benessere. Naturalmente il gioco di farli passare per terroristi ha la meglio su tutto, ma
Il governo paga la sua disattenzione costante al mondo giovanile e ai suoi problemi sempre più gravi
ciò che viene eclissato è un fatto drammatico e palese: il taglio dei fondi mette a rischio il futuro delle università e della formazione. E questo va detto senza inganni: la qualità e la completezza della didattica peggioreranno ancora di molto, e in certi casi studiare sarà per i meno abbienti ancora più costoso e difficile». «È la conseguenza più probabile – concorda Sabbatucci – il diritto allo studio, senza investimenti pubblici, diventerà sempre più debole a spese dei giovani che hanno condizioni familiari meno agiate». «Alla Sapienza non mi pare che la protesta abbia attecchito granché – osserva Tommaso Gastaldi, professore di Statistica nell’ateneo capitolino – ma certo è che le regole dei concorsi devono cambiare, bisogna debellare questo sistema di assunzioni di stampo mafioso, e non so se la riforma Gelmini, che insedia i privati nel management universitario, potrà risultare efficace in tal senso». «In qualche caso i baroni appoggiano la protesta, perché hanno l’intenzione di fare muro contro il cambiamento. Si arroccano pure loro con gli studenti, nel mantenere lo status quo», commenta Bonomi. La riforma della discordia, quella del ministro azzurro. Che lettura ne danno gli studenti? «I tecnicismi propri del burocratese non favoriscono certo la comprensione dei nuovi dispositivi», argomenta Giulio Ferroni, «ma ad ogni modo il ministro dovrebbe comprendere come i giovani non possono e non vogliono focalizzare gli aspetti positivi del nuovo assetto universitario, se prima non vengono restituiti i fondi sottratti agli atenei. Di per sè è difficile fare le nozze con i fichi secchi. Figurarsi adesso che sono stati portati via pure i fichi».
«È un governo che non ha mostrato particolare sensibilità per la cultura e il mondo giovanile – osserva Tommaso Gastaldi – e adesso la rabbia di molti esplode. «La rabbia è diffusa, è vero, ma non sono molti quelli che battagliano. La maggior parte degli studenti si informa, teme, simpatizza, condivide, ma i tempi gli suggeriscono di anteporre l’interesse individuale a quello di tutti. Sono anni duri, di futuro incerto e presente senza orizzonti. E i più non scendono in piazza, perché provano ad arrangiarsi da soli». «I modi della protesta sono sbagliati – conclude Sabbatucci – ma la verità è che i giovani non si agitano senza ragione. Ne hanno motivo».
che ritornano a manifestare in questi giorni anche se in questo tratto l’onda si fa più esesa e più diversificata. Dentro c’è tutto: gli studenti, naturalmente, ma anche i precari dell’università e della scuole, le sigle sindacali più varie. Dentro questa corrente si mescola anche un’altra spinta che è quella degli studenti di destra del Movimento Studentesco Nazionale a cui ha aderito anche Azione Studentesca, il movimento delle scuole legato alla Giovane Italia. «Siamo stanchi di proteste strumentalizzate come quella dell’Onda che ha visto scendere in piazza gli studenti a favore degli interessi dei baroni».
È la tesi dello stesso ministro Gelmini secondo cui «I baroni, attraverso alcuni studenti, tentano di bloccare una riforma che rende l`università italiana finalmente meritocratica, che pone fine al malcostume di parentopoli, che blocca la proliferazione di sedi distaccate inutili e di corsi di laurea attivati solo per assegnare cattedre ai soliti noti. Non è un caso se tra le prime 150 università del mondo non c`è un solo ateneo italiano. Gli studenti che manifestano, sobillati dai baroni, difendono questo tipo di università e vogliono che nulla cambi». Argomentazioni opposte a quelle di chi fronteggia il decreto legge Gelmini ma che nascono dallo stesso disagio e dalla consapevolezza che il sistema formativo italiano è una specie di cattedrale nel deserto. Per questo la nuova onda se la prende anche con le scuole private, bestia nera e capro espiatorio di ogni protesta. «Dopo l’ultimo, sconcertante, aumento dei fondi alle scuole private dice infatti la Rete degli Studenti, una delle componenti del movimento - sembra palese che la scelta di tagliare sulla scuola pubblica nasconde un’intenzione ben precisa: eliminare l’alternativa culturale e il pensiero critico nel nostro paese, consegnarci un futuro fatto di precarietà, assenza di diritti, crisi». A proposito di vecchi slogan. A nessuno che venga in mente che forse la rivoluzione vera sarebbe l’abolizione del valore legale de titolo di studio, il buono scuola e scuole pubbliche non statali. Per ora comunque il problema, come dice a liberal Alessio Rotisciani, portavoce dell’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani, «è la precarizzazione della ricerca, l’abbattimento delle borse di studio per gli studenti meritevoli, la situazione fatiscente di atenei e scuole, il taglio di 1 miliardo e 350 milioni di euro a tutto il comparto della formazione. Il fatto che l’Italia, secondo i dati Ocse, è tra i Paesi europei che investono di meno nella ricerca». Si tagllia anche nel resto dei Paesi europei, è vero. Ma come sempre si tratta di capire quanto. E soprattutto come.
diario
pagina 6 • 26 novembre 2010
Ieri il Professore ha tenuto una lezione a un seminario con Bersani. Oggi l’ex segretario presenta il suo “gruppo”
Il ritorno di Prodi e Veltroni I fantasmi del passato scuotono l’immobilismo del democratici ROMA. La locandina della prima iniziativa pubblica di Movimento Democratico, la nuova area di Veltroni e Fioroni, che reca in bella mostra i nomi dei suddetti assieme a quelli di Gentiloni, Chiamparino e Follini, ricorda parecchio quegli infortuni che capitavano una volta nelle vecchie sezioni di partito. Quando a un manifesto già stampato, andavano di corsa aggiunti i nomi di nuovi partecipanti all’iniziativa o, peggio, di dirigenti di cui ci s’era dimenticati. I soldi erano pochi e così, piuttosto che ristampare tutto, si piazzava una pecetta col nome mancante. Vedere in particolare il nome di Follini stretto tra quelli di Veltroni e Chiamparino, fa un po’ questo effetto. L’ex vice premier dell’attuale premier (Berlusconi), che emigrato nel Pd era stato vicino a D’Alema fino all’altro ieri, oggi è lo straniero che gioca a centrocampo nella squadra di Movimento Democratico. Bricolage politico che dà comunque il senso dei sommovimenti interni al Nazareno e delle inquietudini che vivono gli ex Dc ancora nel partito. L’iniziativa di oggi doveva inizialmente svolgersi a porte chiuse e avere un profilo più organizzativo per la costituzione dell’area (guai a chiamarla corrente!). Doveva precedere la manifestazione pubblica fissata da Veltroni e Fioroni per l’11 dicembre. Poi Bersani ha rubato la data ai suoi due avversari interni, per piazzarci la manifestazione che il Pd terrà a piazza San Giovanni e MoDem ha deciso di riformulare organizzazione e significato politico dell’assemblea dell’Eliseo. Nella quale Veltroni, per rispondere alla contraerea stalinista che dal Nazareno insinua di continuo che l’ex sindaco capitolino vuol fondare un altro partito, farà invece un intervento
pugliese vincente alle primarie col 38% contro il 37% di Bersani. Due anni fa il Pd era al 33% e la lista Arcobaleno, che sommava tutte le sigle della sinistra massimalista, era al 3%. Questo ribaltamento radicale nei rapporti di forza interni è, non solo l’elemento di maggiore assillo per Veltroni, ma anche l’occasione del gran ritorno di Romano Prodi.
di Antonio Funiciello
L’ex sindaco vuole cementare una nuova corrente, ma senza minacciare scissioni né crisi interne
fortemente democrat. Veltroni è sempre più convinto che l’attuale linea del partito rischi di compromettere la sua sopravvivenza stessa. Per questo è tornato a ripercorrere i sentieri di un accordo col Pdl che, pena l’esclusione di Berlusconi, possa dare vita a un governo tecnico Pd-Pdl per occuparsi delle emergenze del paese e dare pure, in subordine, un po’ d’ossigeno ai democratici. È un sentiero minato che, nel 2008, subito dopo le elezioni,Veltroni provò a percorrere invocando l’esigenza di una legislatura costituente. Berlusconi gli andò pure dietro e lo stesso Casini non parve contrario. Ma, non bastasse il pericolo delle mine che un sentiero del genere reca di suo con sé, Repubblica cominciò a bombardare il Nazareno, finendo ben presto per espugnarlo, con la resa delle dimissioni veltroniane. Insomma, oggi Veltroni dovrà andarci piano con la responsabilità nazionale, lasciando distintamente intendere che Berlusconi deve farsi da parte, se non
vuole che il fuoco amico spari sull’Eliseo. Ancor più in vista dell’appuntamento del Lingotto 2, già fissato per il 15 gennaio 2011, intorno al quale tra i democratici sta montando un misto di interesse e fastidio. Avere contro Repubblica, equivale a dire addio ad ogni possibilità di far partire dal Lingotto 2 la rimonta per riprendersi il partito; anche se Veltroni non pensa più a sé come protagonista di questo ennesimo secondo tempo della generazione dei ragazzi di Berlinguer.
L’Eliseo di oggi guarda al Lingotto 2 di gennaio. Un tempo, certo, troppo lungo per fare previsioni. Anche il Pd dovrà passare, con Berlusconi e tutto il mondo politico, attraverso le Forche Caudine del 14 dicembre e Veltroni dovrà rimodulare la sua strategia in base a quanto accadrà. A Torino, come oggi all’Eliseo, il più importante degli inviatati di Veltroni sarà ancora una volta Sergio Chiamparino. La vicinanza tra i due è sempre più marcata e preoccupa i popolari di Fioroni. Il fatto è che il Pd ormai è ridotto ai vecchi Ds più un po’ di ex democristiani. Solo un ex diessino può così provare ad insediare la leadership di Bersani, prima che ci pensi Vendola. I più recenti sondaggi danno il presidente
Ieri l’ex premier è intervenuto al seminario promosso dal gruppo camerale del Pd nell’austera sede dell’Abbazia della Santissima Trinità di Spineto, in provincia di Siena. Lì ha spiegato, in una lunga lezione su globalizzazione e crisi economica internazionale, che è necessario un rilancio riformista dell’azione del campo democratico. Lo scetticismo di Prodi nei confronti della gestione Bersani del partito che lui ha contribuito a far nascere è noto, ormai da tempo, a tutti. Così come disturbano il professore le mille voci che si levano dal Nazareno per indicarlo come prossimo inquilino ideale per il Quirinale. In effetti, dopo due laici e, soprattutto, non ex democristiani come Ciampi e Napolitano, le probabilità che il prossimo Presidente sia cattolico ed ex democristiano sono altissime. Prodi lo sa e si schernisce. E deplora chi tra i democratici disegna scenari che comprendono anche cosa farà da vecchio il professore. Questa partita, vuole giocarla da solo, non fidandosi di nessuno. Sa che questo è il momento per provare a far valere la sua influenza sul corso delle cose che spetterà al Pd. Al momento, infatti, gli altri due leader storici della sinistra, D’Alema e Veltroni, sono in affanno e la loro capacità di risultare determinanti per le prossime mosse dei democratici è tutta da verificare. Il professore gode, altresì, di una straordinaria presa unitaria sullo zoccolo duro. Sia che resti in sella Bersani, sia che venga disarcionato da Vendola o da Chiamparino, Prodi intende essere della partita, padre nobile che legittima, col suo silenzioso avallo, lo sviluppo della situazione. Non basteranno di sicuro, alle ambizioni quirinalizie di Prodi, i soli democratici. Ma senza il Pd, il successore di Napolitano difficilmente sarà il professore bolognese.
diario
26 novembre 2010 • pagina 7
L’assessore all’ambiente Conte: «Ma le ragioni sono tecniche»
Dopo la assoluzioni al processo di Piazza della Loggia
La Lega insiste: «Niente rifiuti di Napoli in Veneto»
Appello per abolire il segreto di Stato
TREVISO. «Ai rifiuti della Campania ribadiamo il no del Veneto ed è un no tecnico e non politico». Lo ha dichiarato l’assessore leghista all’ambiente della Regione del Veneto, Maurizio Conte. Conte ha precisato che «pur nella consapevolezza che una mancata soluzione del dramma napoletano può comportare serie e gravi conseguenze per l’ambiente e la salute dell’uomo, c’è l’assoluta impossibilità tecnica da parte degli impianti di smaltimento di rifiuti ubicati in Veneto di poter ricevere, anche in quote minime, i rifiuti provenienti dalla Campania. Tali rifiuti, infatti, non sono differenziati e quindi non presentano le adeguate caratteristiche tecniche e qualitative che ne consentano un compatibile trattamento nei nostri impianti».
ROMA. «Via il segreto di Stato sulle stragi». Lo chiedono in un appello «al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, ai presidenti di Copasir e delle Commissioni parlamentari d’inchiesta» le associazioni delle vittime di piazza Fontana, piazza della Loggia, Bologna, Ustica, Rapido 904, via dei Georgofili e una sessantina tra intellettuali, scrittori, parlamentari e giornalisti: tra di loro, Carole Beebe Tarantelli, Rosa Calipari, Susanna Camuso, Felice Casson. Dario Fo, Gad Lerner, Franca Rame, Rosario Priore, Guido Salvini, Roberto Saviano. «Un’intera stagione, quella dello stragismo - si legge nel testo - che ha macchiato di sangue l’Italia, rischia di esse-
Dopo questa singolare lezione tecnica, in tutto e per tutto una scusa non richiesta, l’assessore Conte si è poi lanciato in una memorabile ramanzina all’indirizzo dei napoletani, degli amministratori campani, degli italiani e del mondo intero: «L’attuale crisi dei rifiuti in Campania è un dramma che non si può certo definire emergenza, ma una crisi annunciata, che viene da lontano, figlia dell’incapacità di una classe
Aggiotaggio su Alitalia, Baldassarre a processo «Una falsa cordata fece saltare la vendita ad Air France» di Gaia Miani
ROMA. Il presidente emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre rischia di finire sotto processo a Roma con l’accusa di aggiotaggio per aver diffuso, nel 2007, informazioni false e fuorvianti nella fase di privatizzazione dell’Alitalia. Questa è la piatta sostanza dei fatti. In realtà, dietro queste poche parole si insinua un dubbio ben più inquietante: ai tempi della cessione dell’Alitalia ad Air France, stabilita dal governo Prodi sulla base di una procedura di privatizzazione chiara e ufficiale, la presentazione di una finta cordata provocò il fallimento dell’operazione. Infatti la Procura di Roma ha chiesto il rinvio di Baldassarre proprio nella sua veste di rappresentante della cordata. Uno scenario particolarmente oscuro, se si considera che sul fallimento della trattativa per il passaggio di Alitalia a Air France Silvio Berlusconi condusse buona parte della sua campagna elettorale nel 2008 (oltre che sui rifiuti di Napoli, e abbiamo visto come è andata a finire). E soprattutto, una volta vinte le elezioni ed eletto premier, Berlusconi trovò subito una nuova cordata di imprenditori amici ai quali affidare le sorti di Alitalia. Salvo il fatto che i vertici stessi della nuova Alitalia (nella persona dell’ad Rocco Sabelli) cominciano già a parlare di una cessione definitiva della ex compagnia di bandiera a Air France.
l’acquisizione della quota delle azioni Spa Alitalia detenute dal ministero dell’Economia un’offerta in competizione con le società Air France ed Airone, producendo a garanzia della serietà della stessa offerta due documenti falsi: in particolare, una evidenza fondi con logo Ubs, apparentemente emesso da Ubs a favore della società Loraerive, in data 23 ottobre 2007, contenente la indicazione della esistenza presso la suddetta banca svizzera di un fondo di 500 milioni di euro».
Non solo, la procura attribuisce all’imputato la presentazione di un secondo documento falso e cioè una «lettera datata 8 novembre 2007 indirizzata al professor Baldassarre e sottoscritta da tale Jurg Haller nella quale Ubs indicava come proprio cliente una società denominata Loraerive sl (facente parte della “cordata Baldassarre”) attestando l’esistenza di fondi a disposizione della suddetta e la disponibilità della Banca a fornire appoggio tecnico finanziario all’operazione di acquisizione delle azioni Alitalia». Per gli inquirenti di piazzale Clodio - è detto nel capo d’accusa - si tratta di «documenti della cui falsità Baldassarre era al corrente per esserne stato informato da responsabili della banca Ubs nel mese di novembre 2007». Antonio Baldassarre si è subito difeso attaccando, con parole gravi, la Procura, come è ormai costume diffuso, purtroppo, nel nostro Paese. In una nota, ha spiegato che «l’accusa fonda la sua iniziativa sul presupposto che, in occasione della presentazione dell’offerta di acquisto non vincolante della compagnia, sarebbero stati allegati documenti e dichiarazioni che, solo all’esito di complesse attività di indagine, sono risultati falsi». E aggiunge di aver «dimostrato con prove inoppugnabili la correttezza del mio operato», come se non fosse compito della magistratura (e non degli indagati) valutare l’«inoppugnabilità» o meno delle prove prodotte.
Il caso getta un’ombra inquietante sulla cessione della compagnia di bandiera al gruppo guidato da Colaninno e Sabelli
politica che non ha saputo, o voluto, assumersi responsabilità e che ora farebbe bene ad andare a casa. Amministrare ha ribadito - significa anche e soprattutto assumersi responsabilità, significa anche impegnarsi affinché i cittadini abbiano la giusta attenzione verso un problema, quello dei rifiuti appunto, che è un problema di tutti e che tutti devono contribuire a risolvere, senza ricorrere ad aiuti esterni. Si tratta di una situazione che deve essere risolta una volta per tutte, non con interventi tampone, ma in loco con l’assunzione di responsabilità da parte di tutti». Insomma, è il momento di adottare il metodo Conte.
Ma torniamo alla cronaca in senso stretto. A chiedere il processo sono stati i pm Francesca Loy, Stefano Pesci e Gustavo De Marinis, coordinati dal procuratore aggiunto Nello Rossi. I fatti giuridici: Baldassarre presentò un’offerta di acquisto evidenziando la disponibilità di fondo di 500 milioni di euro. L’offerta della cordata Baldassarre condizionò, appunto, le trattative per la cessione di Alitalia ad Air France e determinò, per gli inquirenti, una turbativa del mercato. Gli inquirenti contestano al giurista di aver presentato in data 6 dicembre 2007 - è detto nel capo di imputazione - nell’ambito «della procedura finalizzata al-
re archiviata a seguito della recente sentenza sulla strage di piazza della Loggia, che ha assolto per insufficienza di prove tutti gli imputati. Un’assoluzione sulla quale ha pesato non il ricorso a segreti di Stato, bensì silenzi e reticenze di comodo, anche da parte di uomini appartenenti alle istituzioni. Per garantire un cammino trasparente alla giustizia, anche in relazione al resto delle inchieste tuttora in corso per altri fatti di criminalità organizzata, e rendere possibile la ricerca storica su quegli anni, avvertiamo sempre di più una triplice esigenza».
«Chiediamo - scrivono i firmatari - che siano aperti tutti gli archivi con una gestione che ne faciliti l’accesso a tutti i soggetti interessati, senza preclusione alcuna; chiediamo che vengano fatte decadere tutte le classificazioni di segretezza su tutti i documenti relativi all’evento - compreso i nominativi ivi contenuti - in possesso in particolare dei servizi segreti, della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza, che i documenti vengano catalogati e resi pubblici senza distinguere tra documenti d’archivio e d’archivio corrente».
mondo
pagina 8 • 26 novembre 2010
Geopolitica. La Merkel, primo partner economico russo, incontra l’ex nemico per parlare di energia e sicurezza interna. Tra interessi e diffidenze
Asse Berlino-Mosca Putin arriva in Germania forte dell’apertura Usa sulla Nato, ma la strada verso Ovest non sarà così facile di Pierre Chiartano ister Volodja è arrivato in Germania. Sicuramente viene a lucidare ori e ottoni della principesca ambasciata russa di Berlino, sulla Unter den Linden, e a parlare d’affari con la kanzlerin Angela Merkel, forte ormai di un’incoronazione plebiscitaria al comando della Cdu, ma con qualche problema nel Paese. Nell’agenda dell’incontro ci sarà l’affare E.on, la società tedesca di fornitura di energia che dovrebbe entrare nell’orbita del gigante russo Gazprom, con l’acquisizione del 3,5 per cento d’azioni, alla modica cifra di 4,5 miliardi di dollari. Ci sarà la proposta russa di creare una zona di libero mercato tra Russia e Unione europea. Putin discuterà di cooperazione economica, scientifica e tecnologica e parteciperà ad
M
aeronautiche e automobilistiche, le tecnologie spaziali, l’industria farmaceutica, l’energia nucleare e la logistica. Insomma, di tutto un po’. Nel settore dell’energia, il premier russo si dice favorevole a compartecipazioni tra aziende, con la richiesta sul piano politico dell’abolizione dei visti, poiché ciò costituirebbe «l’inizio di un’autentica integrazione tra Russia e Ue». Una notizia questa che sta facendo tremare molte agenzie di sicurezza, non solo tedesche. La Germania sta vivendo le prime esperienze di libero mercato. Nel dopo crisi finanziaria le ultime incrostazioni delle rigidità del modello renano sono state eliminate e a Berlino perdono il sonno. Entrano in confusione presi da reazioni protezionistiche e dalla consapevolezza di essere ormai completamente inseriti in un contesto europeo e internazionale, dove le barriere non farebbero che danneggiarli. Sono preoccupati della facilità con cui imprese straniere possano allungare le mani su quelle made in Germany. Con Mosca il rapporto è di attrazione e sospetto. L’attrazione viene dalla geopolitica, perché Berlino, nel centro dell’Europa, non può che essere ponte tra Occidente e Oriente e dal gran lavoro lobbistico dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder.
La Bundeskanzlerin si è mostrata fredda sulla proposta del premier russo per una zona di libero mercato da Lisbona a Vladivostok: «La politica economica dell’Orso non va in tale direzione» un forum organizzato da imprenditori tedeschi. La Germania è il primo partner economico della Russia, con un interscambio che nel primo semestre di quest’anno si è attestato sui 23 miliardi di dollari. Sono circa seimila le imprese tedesche che operano in Russia. L’Unione europea e la Russia devono creare un «un mercato comune continentale da Lisbona a Vladivostok». È questa la proposta lanciata ieri dalle colonne della Sueddeutsche Zeitung dal primo ministro russo, in Germania per una visita di due giorni e che oggi incontrerà la Merkel. Nell’articolo Putin scrive che l’obiettivo futuro potrebbe essere «una zona di libero scambio», per studiare «in che modo possiamo far arrivare sul continente europeo una nuova ondata di industrializzazione». Lo strumento più adatto per realizzare questo processo, secondo Putin, sarebbe la creazione di «alleanze strategiche» in settori come le costruzioni navali,
La diffidenza nasce dall’aggressività con cui i russi si muovono sul mercato e dalla ”disinvoltura” con cui l’intelligence moscovita marca le aziende tedesche. Il ritorno degli interessi nazionali spinge all’ipercompetizione, anche fra potenziali alleati. Francia e Spagna da lungo tempo hanno posto rimedio ai takeover ostili sulle proprie aziende con una legislazione che pone vincoli e contro-vincoli: una specie di campo minato per gli investitori stranieri con cattive intenzioni. E la cancelliere Merkel non vorrebbe veder fare spezzatini di im-
La cancelliere tedesco Angela Merkel e il premier russo Vladimir Putin ieri hanno aperto un vertice bilaterale a Berlino. Nelle altre due immagini, la Borsa di Madrid che in questi giorni è sotto l’attacco della grande speculazione finanziaria internazionale
La bolla immobiliare ha messo in ginocchio il Paese
Anche la Spagna comincia a tremare
Si parla di un maxiprestito da 100 miliardi per rifinanziare il debito pubblico del 2011 di Alessandro D’Amato
ROMA. Eppure sembra ieri. Il modello spagnolo portato ad esempio di tutti gli altri paese. Una economia, si diceva, florida, giovane, fondata su un capitalismo rampante tanto che il loro Pil ”pro capite”è risultato addirittura superiore a quello italiano. Poi la crisi dovuta all’esplosione della bolla immobiliare si è riverberata in tutta la sua clamorosa potenza; in terra iberica più che altrove. Il mercato del mattone è crollato. Oggi, i dati macroeconomici parlano chiaro, debito e deficit pubblico in repentina salita, crescita economica ferma al palo, tanto da farne con l’Italia il paese con il Pil più basso tra i grandi del continente. Ma a differenza del Belpaese, che per ora è piuttosto lontano dai rischi sistemici, un’ombra si allunga sul destino della Spagna: il fondo
europeo per il salvataggio degli Stati ad oggi non ha i fondi necessari per salvare il Paese in caso di default. L’Unione Europea può impegnare qualcosa come 440 miliardi di euro, ma il requisito tripla A potrebbe abbassarlo a 250, mentre il Fondo monetario internazionale si è impegnato per una cifra simile.
Ebbene, l’Irlanda chiede una cifra tra gli ottanta e i cento miliardi mentre il Portogallo ne avrebbe bisogno di una cinquantina per rifinanziare il debito: questo significa che i fondi sarebbero appena sufficienti a coprire il fabbisogno della Spagna. Ma gli iberici potrebbero trovarsi a breve con una necessità aggiuntiva: quella di rifinanziare anche le banche. A quel punto, per una cifra intorno ai cento miliardi, il banco salterebbe. E non ci sarebbero altre risorse nemmeno per un aiutino aggiuntivo a Grecia, Portogallo o Irlanda nel caso ne avessero bisogno. La soluzione in teoria ci sarebbe: bisognerebbe coinvolgere in maniera
mondo prese tedesche. Un incubo per il ministro dell’Economia, Rainer Pruderle che considera questo un esempio di libero mercato in una sua «perversione» non auspicabile sulle rive del Reno. La cancelliera stessa si era mossa, qualche tempo fa, presso l’emiro del Qatar per far intervenire un fondo sovrano che mettesse fuori gioco dei ”malintenzionati”spagnoli. Finanza islamica in soccorso dell’economia teutonica è un’im-
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magine ancora più stravagante. Ma ormai abituati allo stile russo, per così dire disinvolto, nulla dovrebbe più sorprendere il governo tedesco. Gli esperti temono che sia in arrivo un’ondata di acquisizioni non amichevoli sui bocconi più prelibati dell’economia tedesca. Almeno una dozzina tra le prime 100 aziende sarebbero considerate «a rischio». Un esempio di balena da fare a pezzi e il gigante dell’energia E.on, valutata circa 42 miliardi di euro. Quindi forse è meglio che sia Gazprom ad allungare le mani, magari dopo una trattativa a livello
Nell’agenda dell’incontro al vertice anche l’affare E.on, la società tedesca di fornitura di energia che dovrebbe entrare nell’orbita del gigante russo Gazprom
più sostanziale l’Fmi, che dopo i recenti cambiamenti è in grado di coprire passività ancora superiori.
I fondamentali del Paese preoccupano. L’ inflazione è al 5%. La fiducia dei consumatori è ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni. Il deficit è salito ben oltre le colonne d’Ercole previste dai parametri europei, anche a causa dei massicci interventi operati dal governo per cercare di ridurre al il calo dell’occupazione che peraltro è stato molto forte, tutto questo in paese dove non esiste un istituto come la nostra Cassa integrazione. L’eccesso di manodopera (specie quella meno qualificata) straniera ha
soccupazione arriverà a superare la fatidica cifra dei 3 milioni (in un paese che conta poco più di 40 milioni di abitanti). Secondo gli esperti il vero obiettivo della speculazione potrebbe essere proprio la Spagna, quarto paese della zone euro. Questo fantasma è aleggiato nei giorni passati sulla stampa di Madrid. Un nuovo campanello d’allarme è suonato proprio questa settimana quando lo spread, dei titoli di stato spagnoli ha registrato un picco storico di 250 punti base - il dato più alto da quando esiste l’euro - rispetto ai bund tedeschi. Un picco che è rapidamente ripiegato a 140, quando Il ministro dell’economia Elena Salgado ha subito dichiarato che la Spagna non avrà bisogno a sua volta di un salvataggio internazionale. Il paese, ha dichiarato la Salgado, ora è in «migliori condizioni» per resistere ad «attacchi speculativi». Però, ha poi chiamato, come si dice, in correo tutti gli altri partner dell’Euro: «L’attacco degli speculatori è diretto contro l’euro, non contro la Spagna». Per Jesus Castillo, economista di Natixìs, «se succedesse sarebbe una grossa botta per la zona euro, ma non credo che si possa davvero arrivare a quel punto, nessuno ha interesse che succeda davvero». Meno fiducioso invece è apparso Christian Tegllund, di Saxo Bank: «La Spagna chiederà aiuto nel 2011, l’anno in cui il governo dovrà rifinanziare buona parte del suo debito. Il Fondo europeo però è troppo piccolo per la Spagna, Madrid dovrà firmare accordi di prestito bilaterali con Germania o Francia». A conferma di questo assunto, l’economista Whitney Debevoise e Arnold Porter e
L’inflazione è al 5% e la fiducia dei consumatori è ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni: ormai la rivoluzione di Zapatero è soltanto un ricordo portato lo stesso esecutivo socialista ad inseguire le chimere più populiste varando un piano - dalle nostre parti piacerebbe alla Lega Nord - che prevede che circa un milione di stranieri (i più colpiti dal crollo del settore immobiliare) lascino il paese, in cambio di incentivi economici. I risultati appaiono tuttavia modesti, se si pensa che il deficit commerciale è schizzato oltre il 20%. Dopo un avvio incoraggiante, le promesse elettorali fatte dallo stesso Josè Luis Zapatero di 2 milioni i posti di lavoro nei prossimi quattro anni appaiono una pia illusione. Per quest’anno si prevede un aumento del Pil al massimo dell’1%, più o meno analogo alla crescita italiana, tanto da fare degli iberici il fanalino di coda della Zona euro. Un aumento irrisorio, se rapportato agli ultimi dieci anni spagnoli, mentre la di-
l’ex direttore della Banca Mondiale hanno confermato che «Il fondo di emergenza europeo, promosso per spegnere la crisi finanziaria nella zona euro, può anche non avere abbastanza soldi per coprire un piano di salvataggio per la Spagna». Cosa che avrebbe inevitabili ripercussioni su tutto il continente europeo. La Spagna rappresenta il 12% dell’economia dell’eurozona, il doppio di Grecia, Irlanda e Portogallo insieme: un boccone troppo indigesto per la tenuta dell’euro.
E c’è un ulteriore rischio: che la crisi economica contagi rapidamente anche la politica, come è già successo altrove. «Senza cadere nell’isteria – scriveva ieri El Pais, vicino tradizionalmente al governo socialista - pare urgente che le autorità economiche europee dispongano di un piano per contenere gli attacchi di panico dei mercati. L’Europa arde, da Lisbona e da Dublino - secondo il quotidiano ma il dramma si gioca in Spagna, a causa dell’abisso fra la minaccia per il suo debito pubblico e privato e l’apparente impassibilità del governo. Ci sono due fattori che indeboliscono ulteriormente la fiducia degli investitori nella Spagna: uno è la sua debole struttura fiscale, che affonda in periodo di recessione, l’altro la mediocre gestione del suo governo, che ha manovrato goffamente sulle pensioni, sul mercato del lavoro e sulla riforma finanziaria, fino a perdere molto del suo credito». Sembra quasi un de profundis per il progressista che ha fatto sognare l’Europa.
governativo. In fondo è la Casa Bianca, con Obama, che sta aprendo le porte della Nato agli uomini del Cremlino. Leggi: la Russia come «partner attivo del Patto atlantico». E dopo Londra, sono i tedeschi gli “affidabili” di Washington in Europa. Per cui prepariamoci a mesi di grandi manovre verso Mosca, con un misto di suasion e velate coercizioni, ricchi bocconi e guinzaglio corto. In sintesi, essere l’Occidente portatore di cambiamenti a Est, piuttosto che prenderci qualche brutta malattia, come la mafia russa in casa e trovarci i vory v zakone (ladri per legge) sparsi nei consigli d’amministrazione di aziende di mezza Europa. E infatti la sparata di Volodja non convince la Bundeskanzlerin.
La politica economica di Mosca non va in tale direzione, ha osservato il capo del governo tedesco ieri, mostrando scetticismo sui propositi formulati da Putin. Ora che Berlino ha puntato tutto sull’esportazione e sui mercati esteri, riuscendo a integrasi bene con i meccanismi della globalizzazione, ha paura di pagare il dazio di tanta integrazione. Specie se l’abbraccio economico viene da Oriente, visto che non c’è più il limes romano a proteggerli dai barbari. Sarkozy ha difeso lo yogurt, Zapatero l’Endesa proprio dai tedeschi di E.on. Ma Berlino cerca di resistere alle tentazioni protezionistiche, perché sa che in ballo c’è il nuovo modello di sviluppo che, per il momento, li portati fuori dalle secche della crisi in maniera molto veloce. Il mercato russo è da prendere con le pinze, ne sanno qualcosa i francesi, ma è meglio esserci per poterlo influenzare, piuttosto che lasciare che cresca senza troppe regole che non siano gli interessi dei nuovi nomenclatori del Cremlino e dell’Organizatsya.
panorama
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Il provvedimento (chiaramente scritto in tutta fretta) conteneva alcuni errori tecnici e un equivoco più sostanziale
Bocciato il decreto-rifiuti Il Quirinale rimanda il testo all’esecutivo: c’è troppa confusione sui poteri straordinari e mancano alternative alle discariche chiuse di Gualtiero Lami
Il Cavaliere punta ancora su qualche voto di fiducia, ma è inutile
Il premier si renda conto che ormai non governa più. E si dimetta di Rocco Buttiglione segue dalla prima
ROMA. Colpo di scena nell’emergenza rifiuti. Forse per la fretta o forse per le pressioni politiche interne, il governo ha sbagliato a scrivere il decreto sui rifuti del napoletano e il Quirinale è stato costretto a «bocciarlo». I problemi sollevati dal presidente della Repubblica sono due: da un lato il decreto legge del governo non prevede alternative alla cancellazione delle discariche inserite nella legge 123. Questo significa, in sostanza, che azzerando per esempio la costruzione della seconda discarica di Terzigno il governo non dice dove l’immondizia dovrà andare a finire. Inoltre, il decreto, attribuendo al presidente della Regione un ruolo di supervisore, rende tecnicamente impossibile assegnare le funzioni e i poteri di sottosegretario ai commissari straordinari che dovranno occuparsi della realizzazione dei termovalorizzatori. Il Colle, nei chiarimenti richiesti, avrebbe anche sottolineato che il provvedimento andrebbe a danneggiare le provincia di Napoli consentendo ai comuni di continuare a gestire il ciclo di raccolta e trasporto dei rifiuti. Sarebbero dunque diversi i chiarimenti chiesti dal Quirinale al decreto del governo, un provvedimento di 4 articoli arrivato al Colle 6 giorni dopo l’approvazione del Cdm. In particolare gli uffici legali di Napolitano avrebbero sottolineato che si sarebbe proceduto alla cancellazione di tre delle discariche previste dalla legge 123 (cava Vitiello a Terzigno,Valle della Mas-
seria a Serre e Andretta) senza individuare alternative idonee dove trasferire i rifiuti. Ed inoltre il provvedimento non conterrebbe misure adeguate per ottenere effetti positivi immediati sulla situazione, come invece richiederebbe la «necessità e l’urgenza» alla basa del decreto. Un altro chiarimento chiesto dal Colle, sempre secondo quanto si apprende da fonti governative, sarebbe relativo all’articolo che proroga fino al 31 dicembre 2011 la possibilità per i comuni di gestire le attività di raccolta, spazzamento e trasporto dei rifiuti. Un articolo che, così come è stato scritto, andrebbe a penalizzare la provincia di Napoli, cui per legge dalla fine di quest’anno spetterebbe la competenza. Altri dubbi il Quirinale li avrebbe sollevati in merito all’attribuzione delle funzioni di sottosegretario ai commissari che dovranno realizzare i termovalorizzatori. Funzioni che consentono di agire in deroga alle normali procedure e che eventualmente potrebbero essere assegnate dopo la dichiarazione dello stato di emergenza.
Infine, 106 senatori hanno presentato un’interpellanza al titolare del dicastero della Salute Ferruccio Fazio. L’iniziativa vede tra i firmatari i senatori Ignazio Marino, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda, Nicola Latorre e Felice Casson. «L’interpellanza chiede che sia affrontata immediatamente anche l’emergenza sanitaria».
Non sono una buona cosa perché la crisi economica c’è, è grave e morde nella carne viva delle nostre imprese, dei nostri lavoratori e delle nostre famiglie. Ci sono tanti tavoli di crisi industriali aperte. Vi è una difficoltà grave di tante famiglie. Il Paese si aspetta che le crisi vengano risolte, che si adottino misure per venire incontro alle famiglie, che si rilanci il lavoro, l’occupazione e lo sviluppo.Viviamo inoltre in tempi di crisi economica internazionale. Nel prossimo semestre deve essere collocato qualche centinaia di miliardi di buoni del tesoro e una situazione di instabilità politica può trasformare il Paese in un bersaglio privilegiato della speculazione internazionale. A Milano, al convegno dell’Udc, sono venuti la Confindustria ed il Sindacato (Marcegaglia e Bonanni) a dirci che il Paese chiede di essere governato e conta sull’Udc come forza decisiva di governo. Noi accogliamo quell’appello e ci facciamo carico della governabilità del Paese. A quell’appello, però, non possiamo rispondere da soli. Abbiamo bisogno del concorso di altri. Governare il Paese non significa tenere in piedi in qualunque modo ed a qualunque costo un simulacro di governo in carica. È infatti giudizio comune che in questo momento un governo in carica c’è ma il Paese non è governato. Per governare il Paese bisogna risolvere la crisi politica che ha generato l’ingovernabilità, la paralisi del governo e del Parlamento. Non si può fare una politica utile al Paese senza verità. La verità è che il progetto politico del predellino, il progetto politico del Popolo della Libertà, è fallito ed il Paese sta pagando con un anno di non governo quel fallimento politico che fino ad ora Berlusconi non ha voluto riconoscere. Il cadavere insepolto del Popolo della Libertà inquina la politica italiana e rende impossibile qualunque dialogo e qualunque ragionevole accordo.
Che il Popolo della Libertà sia morto è cosa accertata al di là di ogni ragionevole dubbio: i due cofondatori hanno divorziato e sono in lite per la divisione dei beni comuni. Di quel progetto politico non rimane nulla. Esso consisteva, in fondo, nello sforzo di legittimare e razionalizzare una democrazia plebi-
scitaria in cui il popolo ogni cinque anni legittima un leader e poi disciplinatamente lo segue fino alle prossime elezioni. La più grande minoranza del Paese riceve una ampia maggioranza in Parlamento ed il suo capo una investitura piena, diretta, assoluta. Non ha funzionato. I partiti troppo grandi tenuti insieme solo dal carisma del capo ma non da una vera condivisione di valori e di obiettivi si sfasciano facilmente e così si è sfasciato il Popolo della Libertà. Voleva essere più che un partito, la organizzazione di tutto il popolo.
È risultato essere meno che un partito, un coacervo confuso di ambizioni ed interessi non componibili oltre che, certo, anche di alcune idealità rispettabili ed alcune convenienze politiche. Dopo quel fallimento abbiamo il dovere di ricomporre il sistema politico. Quelli che hanno creduto nel Popolo della Libertà hanno anche bisogno di ridefinire il proprio partito. Da partito a vocazione maggioritaria a partito capace di entrare in coalizione con altri riconoscendo le ragioni degli altri e riconoscendo anche che il popolo non da a nessuno deleghe assolute ed incondizionate.Perché questo possa avvenire Berlusconi deve dare le dimissioni. Se è fallito il progetto politico su cui si fondava il governo bisogna prenderne atto e formare un nuovo governo. È questo il nodo che non può essere aggirato. Finché non lo affrontiamo continueremo a discutere sul mitico programma del 2008 come se in questi due anni non fossero successo più cose che nei venti anni precedenti ed i problemi di oggi non fossero abissalmente lontani da quelli di allora. Berlusconi è certo molto bravo. È ancora e sempre il più bravo di tutti, quello che meglio di tutti può risolvere i problemi del Paese? Si rimetta in gioco, dia le dimissioni e lasci che siano gli altri a dirgli che lui è il migliore, se glielo diranno. In ogni caso quello che serve all’Italia non è uno sforzo disperato di rivitalizzare un governo che ha ormai esaurito la propria prospettiva politica. Serve un governo nuovo. Se anche l’Udc decidesse di suicidarsi politicamente per tenere in piedi questo governo non riuscirebbe a salvarlo. Al massimo ne prolungherebbe di qualche mese l’agonia. Con danno proprio e con danno dell’Italia.
panorama
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Scommesse. Presentata alle parti sociali e agli enti la piattaforma per il Mezzogiorno ROMA. Con più di anno di ritardo prende forma il Piano per il Sud. Virtuali, invece, restano i 75-80 miliardi di euro da recuperare attraverso i fondi Fas, con i quali il governo vuole realizzare gli 8 punti presentati ieri alle parti sociali e alle Regioni. E l’agenda è ambiziosa, soprattutto nella parte che riguarda le grandi opere (l’alta capacità sulla Napoli-Bari, la fine dell’autostrada SalernoReggio Calabria e della Catania-Palermo). In programma anche una società in house per costruire nuovi edifici scolastici, 12,5 miliardi per l’università,una stretta al sommerso nel mondo del lavoro e nelle regole sugli appalti per incrementare la sicurezza, incentivi su base automatica, un fondo (Jeremie) per utilizzare al meglio i fondi infrastrutturali e la Banca del Mezzogiorno per fare mediocredito. Accanto alla promessa di «non guardare più la tv tra il primo e il secondo tempo di una partità», Silvio Berlusconi ha garantito che già oggi il piano vedrà la luce in Consiglio dei ministri. E non intende perdere altro tempo, «perché il Mezzogiorno è problema nazionale», oltre a essere uno dei cinque punti di rilancio dell’azione di governo. Sulla carta l’intento del governo è semplice – «Concentriamo i fondi su iniziative strategiche per non disperderli in mille rivoli», ha detto il premier – ma per raggiungere l’obiettivo prima bisogna intendersi su che cosa c’è da concentrare – i famosi 75-80 miliardi – e chi deve decidere quali sono le priorità. Temi che finiscono per contrastare l’autonomia delle Regioni, non fosse altro perché una parte dei Fas sarebbe di diretta gestione degli enti locali. Non a caso Vito De Filippo, governatore della Basilicata, ha lamentato che «c’è un equivoco di fondo: si fa una nuova programmazione ma sempre con gli stessi soldi, che vengo-
Sud, arriva il piano ma non i soldi Berlusconi: per noi è un problema nazionale. Le Regioni: si rischia un nuovo libro dei sogni di Francesco Pacifico
L’obiettivo principale del Piano per il Sud è quello di colmare il gap infrastrutturale attraverso la realizzazione di famose incompiute come la Salerno Reggio Calabria. In basso, Giulio Tremonti enti gestivano in piena autonomia, decidendo anche la destinazione dei Fas nazionali. Oggi il consiglio dei ministri voterà una legge delega che codificherà gli otto punti del piano per il Sud. Alla quale poi seguiranno appositi decreti per ognuna delle direttrici. Il ministro per i Rapporti con le
Le risorse dovrebbero arrivare dagli 80 miliardi di Fas non utilizzati o da riprogrammare, ma non è detto che siano ancora disponibili no spostati da una parte o dall’altra: morale: per il Sud non c’è un euro in più. Senza contare che più che un piano sembra una lista di desideri». Le risorse del piano per il Sud verranno attivare attraverso i residui dei fondi Fas non utilizzati per la programmazione 2000-2006 e quelli per il quinquennio 2007-2013. Euro che in buona sostanza sono stati già programmati dalle giunte regionali. E che in passato gli
Regioni, Raffaele Fitto, si è detto disponibile alla realizzazione di una cabina di regia, proposta nei mesi scorsi da Confindustria e i sindacati. Se questa sarà la sede dove stabilire la riprogrammazione e la concentrazione delle risorse disponibili e sottoutilizzate, ancora non è chiaro se l’ultima parola sarà del governo o degli enti locali. Al momento bisogna affidarsi soltanto alle parole di Fitto: «Vo-
gliamo lavorare in piena sintonia con le Regioni».
Ma i governatori aspettano chiarimenti anche sull’entità delle poste a disposizione. Nello scorso luglio il Cipe ha approvato una delibera che im-
pone una ricognizione sui fondi europei spesi o non utilizzati, che deve concludersi entro il 31 dicembre del 2010 e che è propedeutica a una riprogrammazione dei soldi. C’è il rischio – per usare le parole di Vito De Filippo – di «stabilire importanti misure per il mezzogiorno per poi accorgersi di non avere le disponibilità necessarie». Sempre oggi il Cipe dovrebbe deliberare un’accelerazione della ricognizione, ma gli enti locali nutrono forti timori sui fondi a disposizione. Non a caso la neosegretaria della Cgil, Susanna Camusso, teme che «ci possono essere anche ripercussioni per la spesa ordinaria del Mezzogiorno. Ieri infatti sono stati illustrati i titoli e se è abbastanza facile che si possano condi-
videre dei titoli, è più complicato invece vedere come saranno concretamente completati». Le altri parti sociali hanno mostrato un approccio diverso. Ma tutte – da Confindustria a Uil e Cisl, passando per Rete Italia e l’Ugl – considerano un punto fermo il confronto con le Regioni. Emma Marcegalia, per esempio, ha promosso soprattutto il metodo, perché l’incontro di ieri a Palazzo Chigi «consolida la logica di confronto tra le parti sociali e gli enti locali su grandi temi come il Sud». Dal canto loro i governatori temono che si possa materializzare un pericolo combinato disposto tra la riprogrammazione dei Fas e i tagli da 9,5 miliardi previsti nella manovra di luglio, che riguardano trasporto pubblico locale, edilizia sanitaria e aiuti alle imprese e alle famiglie. Segnala dalla Puglia l’assessore Maria Dentamaro: «È un’operazione di centralizzazione e siamo molto preoccupati perché si intravede che l’ultima parola spetterà al governo». Serena Sorrentino, segretaria nazionale della Cgil con delega al Sud, racconta: «Ieri abbiamo chiesto al ministro Fitto che novita c’erano sui 75-80 miliardi tra Fas vecchie e nuovi da riprogrammare e ci ha risposto soltanto che ci sarebbe stata un’ulteriore sessione del Cipe per deliberare la ricognizione delle risorse. A parte che restano da capire quante risorse ci sono e se le Regioni sono disposte a riprogrammarle, nel piano mancano interventi sul versante dei sevizi sociali che sono fondamentali per il Sud. Anche perché se agli enti togliamo i Fas per gli investimenti, e la cabina di regia non diventa il consesso nel quale prende forma il Piano per il Sud in un rischiamo soltanto di ottenere una grande flusso di spesa che viene deciso in spregio allo lo spirito del federalismo».
Giulio Tremonti, invece, ha promesso che si volerà alto. «Il piano per il Sud è la base del piano di sviluppo che presenteremo in Europa», ha detto il ministro dell’Economia, «È un lavoro del governo che la Repubblica italiana ha previsto di inserire in previsione del semestre europeo come parte qualificante». Quindi, guardando alla parte che gli sta più a cuore – la Banca del Sud – ha annunciato che martedì prossimo Poste e Bcc presenteranno proposta formale a Unicredit per l’acquisto del Mediocredito centrale. «Non è mai stato fatto un esercizio di questo tipo: il processo di costituzione della banca sta andando avanti».
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guardi che s’incrociano tornando ad attraversare lo spazio del Mediterraneo: un Festival, una grande mostra, e un libro che è molti libri insieme. Il Festival, intitolato alle Civiltà del Mediterraneo (si chiude domani a Roma) , accosta musica e letteratura. Scrittori, poeti, musicisti, daranno voce alle molte culture, alle molte tradizioni che nello spazio del Mediterraneo intrecciano i propri destini, sul Mediterraneo si affacciano e coabitano, dal Marocco alla Tunisia, all’Algeria, e, inevitabilmente, all’Italia. Con un intento, un fondamentale motivo d’ispirazione, e cioè promuovere il confronto, attivare il dialogo creandone le occasioni, per «far riflettere – dicono gli organizzatori – sulla naturale vocazione del Mediterraneo come spazio comune di convivenza e condivisione di interessi culturali e allo stesso tempo di creare un terreno fertile d’incontro e confronto fra i vari paesi,culture e tradizioni che coabitano nel suo bacino».
S
Non so se, oggi, il Mediterraneo sia quel “mare degli uomini” di cui parlava lo storico Braudel, spero che lo possa diventare. La via da imboccare – quella del dialogo e del confronto – è certamente difficile, gli ostacoli numerosi, numerose le resistenze e le inerzie mentali, ma ne va del futuro dell’Europa e dell’Italia che nel Mediterraneo si distende, si allunga quasi tagliandolo, dividendolo, facendo da punto di confluenza e di comunicazione. Da sempre. Il Festival delle civiltà del Mediterraneo scommette su questa seconda immagine. Ed è significativo che la gran parte dei suoi appuntamenti, che scandiscono quasi tutto l’arco di questa settimana, si sviluppino nel perimetro di sei biblioteche romane. Il Mediterraneo è anche una grande biblioteca, un grande archivio della storia e della memoria dei popoli. Ma non è soltanto il luogo in cui si custodiscono i segni del suo passato, le sue parole, le sue immagini, deve poter diventare il luogo in cui si progetta il nostro futuro. E mi pare che il Festival di Roma sia stato pensato a partire da questa fondamentale esigenza. E anche il confronto, o i confronti, che esso promuove, mirano a generare futuro. Il Mediterraneo – ha scritto Sami Nair – «vivrà, quando i suoi abitanti avranno preso coscienza delle divergenze e dei conflitti che li separano e troveranno insieme i modi adeguati per risolverli». La mostra - «Mediterraneo da Courbet a Monet a Matisse» (ottanta dipinti provenienti dalle collezioni e dai musei di tutto il mondo) - è aperta al Palazzo Ducale di Genova. Mentre è tuttora in corso, sempre nella bellissima sede del Palazzo Ducale, «Mediterranea.Voci tra le sponde», un itinerario d’incontri attraverso le “differenze”che solcano il“Mare Nostrum”. E le voci sono quelle di Predrag Matvejevic (l’autore del fortunato Breviario Mediterraneo), di Enzo Bianchi, di Gilles Kepel, di Orhan Pamuk, e altri. Ma torniamo alla Mostra: un Mediterraneo in pittura, nel varco fra due secoli, l’Ottocento e il Novecento, un Mediterraneo circoscritto alle
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Un festival, una mostra di dipinti e un libro che riunisce molti saggi fanno il p
I nostri infiniti
Non una sola identità, ma mille: è questa la peculiarità del Mare Nostrum. Da qui nascono la sua forza mitica e la sua debolezza in un’epoca in cui i localismi dettano legge di Maurizio Ciampa
coste del Sud della Francia, e tuttavia uno scenario grandioso, d’infinita, quasi inafferrabile, bellezza. DicevaVincentVan Gogh, che dall’entroterra provenzale - Arles - scendeva spesso verso il mare della Camargue, diceva che i suoi colori sono difficili da fissare tanto sono effervescenti, mobili. «Colore cangiante, non sai mai se sia verde o viola, non sai mai se sia azzurro, perché un secondo dopo il riflesso cangiante ha assunto una tinta rosa o grigia». Sono molti i pittori che si misurano con il colore e con la luce del Mediterraneo, tra Francia e Italia, da Cezanne a Monet, van Gogh, Matisse, Renoir. Scendono da Parigi e scoprono la luce del Sud con una sorta di fitta mentale che avrà, per molti di loro, un effetto sconvolgente. Dalla luce resteranno invasi, tanto da cambiare, e radicalmente, la loro vita e la loro pittura.
Il Mediterraneo è anche un luogo di trasformazioni, di mutamenti, di dinamismi incisivi. Attraverso il tempo, il mare non lavora solo la linea delle coste, la spezza, ne modifica i volumi, il mare lavora anche, in profondità, le identità e le culture, lavora le lingue e le rappresentazio-
«Mare degli uomini» lo chiamava Braudel: perché lo diventi davvero, devono vincere il dialogo e il confronto: è questa la sfida che la cultura lancia alla politica Petroliere al largo di Marsiglia, in Francia. A lato, un momento della semina nel Nord dell’Africa. Nella pagina a fianco, bagnanti al Cairo
ni mentali. Il Mediterraneo, come categoria rigidamente unitaria, non esiste. «È un mito», dice Florence Deprest. Non c’è un Mediterraneo, ma uno stordente pullulare di rappresentazioni, una stratificata molteplicità d’idee che è assai problematico anche soltanto comporne l’inventario o sintetizzarle. E dunque è necessario mettersi definitivamente alle spalle la densità del singolare: non il Mediterraneo, ma Mediterranei, come suona il titolo del libro cui ho fatto cenno all’inizio (a cura di Luisa Rossi e Luca E. Cerretti e pubblicato dall’editore Diabasis). Un libro plurale, intessuto da molte, differenti voci, in cui i temi di riflessione si accostano ai resoconti di viaggio, l’analisi scientifica
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punto su uno spazio sociale e culturale intorno al quale è nata la nostra storia
i Mediterranei
vibra insieme all’espressione letteraria. «Se scrivere di un territorio - avverte Luisa Rossi nella sua introduzione al volume - significa sempre fare i conti con l’“accumulo”, la stratificazione, occuparsi dello spazio mediterraneo è affrontare un ‘ingorgo’di patrimoni. Un ingorgo di cui non si vuole semplificare la complessità, impresa del resto impossibile, ma valorizzare i contenuti». Mediterranei è un libro importante, come tutti i libri che, squarciando il velo delle apparenze, liberano il nostro sguardo, lo proiettano in avanti mostrando il nudo profilo della complessità che stringe il futuro delle nostre società. Diceva Charles Baudelaire: «Vedo l’infinito da tutte le finestre». E l’infinito,
lo spazio aperto, senza delimitazioni, disorienta, stordisce. Alimenta le nostre ansie, che spesso si formano, come un nodo inestricabile, proprio attorno alla nostra difficoltà, o addirittura impossibilità, a disegnare limiti. Come l’infinito, di cui parlava Baudelaire, agisce la molteplicità, la pluralità delle idee, delle prospettive, dei punti di vista in cui ognuno di noi è immerso. Questo è il terreno, accidentato, frammentato, che il nostro tempo ci offre, sul quale siamo collocati e che dobbiamo quotidianamente attraversare. Ed è il terreno sul quale procede questo libro, Mediterranei, che libera il suo lettore dalle strettoie del singolare e lo espone alla pluralità, all’“infinito” o quasi. In modi diversi, e secondo le procedure di saperi diversi, i saggi del libro stendono un’accurata genealogia dell’“accumulo” simbolico che congestiona l’intera estensione del “Mare Nostrum”, e si spostano, con singolare dinamismo, fra coste, città e colline, fra rive bagnate dal mare e entroterra, che del mare è una sorta di spazio di risonanza. Lì ora andiamo, in quello spazio di risonanza. Ci allontaniamo dalla costa, lasciamo dunque il mare e le sue controversie, avanziamo nel vasto entroterra. Ci fa da guida uno dei maggiori geografi italiani, Massimo Quaini. Il suo saggio, Il tempo e lo spazio della collina e della montagna mediterranea è un resoconto problematico di grande efficacia.Voglio ricordare la citazione – da Frederic Jameson – da cui Quaini parte: «Le ontologie del presente richiedono archeologie del futuro, non previsioni del passato». Mi pare che la geografia di Quaini, e la sua riflessione storica, cerchino il punto di tensione fra passato e futuro. Il loro rapporto non è affatto scontato, non c’è un prima e un dopo, ma un difficile, paradossale intreccio. C’è il tempo lungo della memoria, le molte stratificazioni su cui cadono i nostri passi, e ci sono le accelerazioni imposte dal presente. E tutto si mescola. E tutto va a incidere sulla composizione del paesaggio. Quello di Quaini è l’entroterra ligure, un articolato sistema collinare a ridosso del mare, che Quaini legge come «grande isola mediterranea, come una montagna…che sorge in mezzo a due grandi pianure: la pianura liquida del mare e la pianura terrestre della Padania».
Ma questa capacità di penetrazione, che è quasi disvelamento delle forme del paesaggio, e insieme un accostamento amorevole, appassionato, questa capacità ha una domanda come suo presupposto, e Quaini la dichiara subito: «Cosa
fare oggi del tempo e dello spazio della collina e della montagna mediterranea?». E “cosa fare” vuol dire sviluppare una «pianificazione territoriale e paesaggistica” ancorata a un’“idea della mediterraneità». È dunque questa l’intenzione del saggio di Massimo Quaini e di altri saggi del libro, che sembrano raccogliersi attorno all’invito di Braudel che
A Genova, a Palazzo Ducale, Predrag Matvejevic, Enzo Bianchi, Gilles Kepel e Orhan Pamuk si confronteranno sulle differenze e le similitudini sollecitava a “vedere il mare”. Anche se “vedere il mare”non è poi facile: «Non si trova mai esattamente ciò che si era venuti a cercare», dice Jean-Claude Izzo, scrittore marsigliese, scrittore d’ispirazione mediterranea, autore fra l’altro di Frammenti di Mediterraneo da cui estraggo queste parole: «Non si trova mai esattamente ciò che si era venuti a cercare. Senza dubbio perché questo mare, con i porti che ha generato, con le isole che culla, con le linee e le forme delle sue rive, rende la verità inseparabile dalla gioia di vivere. L’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione. L’ho imparato a casa mia, a Marsiglia… Ore e ore a guardare passare i barconi che ritornano dalla pesca nel passaggio delle Croisettes… E ancora ore a tenere d’occhio il momento, magico come non ne ho mai vissuti, in
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cui un cargo entrerà nella luce del sole al tramonto sul mare e vi scomparirà per una frazione di minuto. Il tempo di credere che tutto è possibile. Qui, non si pensa. Solo dopo. È dopo che ci si ferma a pensare a tutte quelle ore nelle quali si sarebbe dovuto imparare, e a quelle in cui si doveva dimenticare». Anche questa strana fluttuazione fra sapere e oblio, riportata da Jean-Claude Izzo, anche questo è Mediterraneo. Il suo volto è inafferrabile, perché si frantuma e si disperde in mille apparenze. Questo libro, Mediterranei, che ospita punti di vista diversi, ha il merito d’inseguire i riflessi nello specchio di quel volto (Riflessi è il titolo della seconda parte del libro). Lo fa con tenacia osservando e trascrivendo il frenetico movimento di segni che attraversa questo mare dalle molte voci, dai molti suoni, dai molti racconti. Senza trascurare i problemi più ardui da affrontare: l’asset-
to del territorio, le alterazioni del paesaggio, la costruzione di ecomusei del Mediterraneo, il ruolo dell’immigrazione.
Molto del nostro futuro passa da questo mare, e molto passato, molta memoria, anche dolente, ferita. I cadaveri di uomini, donne, bambini, che il mare, il Mediterraneo civilizzato, scarica, come rifiuti della storia, sulle coste siciliane o calabresi o pugliesi, o anche spagnole, sono parte di questa memoria ferita, il segno che quello spazio liquido va riattraversato e ripensato. E bene fa l’editore Diabasis a dedicare molta della sua attenzione proprio al mare e al Mediterraneo, esplorando con molti dei suoi libri un territorio stretto fra “terra e mare”( questo è anche il titolo di una sua collana), e che comincia a essere sondato da una nuova geografia e da una nuova interrogazione filosofica, la geo-filosofia.Voglio ricordare l’Intervista sulla geofilosofia di Luisa Bonesio e Caterina Resta (uscito da Diabasis appena qualche settimana fa) che mette a tema il futuro dello spazio in cui abitiamo. Il senso dell’abitare umano, le sue possibilità: è la questione che l’Intervista solleva, ed è presente in buona parte dei saggi di Mediterranei. Si tratta di accelerare il passo lungo questa strada che s’incunea fra “terra e mare”. Questi libri, queste iniziative ( Festival, mostre, incontri) vanno in questa direzione: tornare a guardare il Mediterraneo come il grembo di vita che è stato, e non come il mare in cui troppo facilmente si trova la morte. Pensiamo al Mediterraneo dei pittori che saranno esposti a Genova, pensiamo ai loro colori, alla capacità di cogliere le tonalità di quella luce cangiante. Il Mediterraneo, il Mare nostro, può essere così.
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Haiti. Nonostante il terremoto, le alluvioni e i virus dilaganti la popolazione vuole a tutti i costi rinnovare la classe dirigente
Alle urne con il colera Il mondo aspetta il voto di domenica: deve ridare stabilità e sicurezza al Paese di Maurizio Stefanini na ex-first lady, il genero del Presidente in carica, un milionario, un poliziotto e un cantautore: sono questi i personaggi che domenica si con-
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tendono la Presidenza di Haiti, in uno scenario da tregenda tra macerie del terremoto del 12 gennaio ancora piene di cadaveri, colera che dilaga, sommosse contro i Caschi Blu, agguati a candidati. Ma Onu, Osa, Comunità Caraibica e Unione Europea convengono tutti: bisogna votare. Già il sisma ha provocato un rinvio del voto in origine previsto per il 28 febbraio, il colera è arrivato in Repubblica Dominicana e in Florida, e gli incidenti fanno sospettare che ci sia qualcuno che pesca nel torbido. Magari qualche gruppo criminale che vuole trasformare Haiti in una Somalia dei Caraibi, apposta per farne un porto franco del narcotraffico. Meglio dunque andare avanti e dare legitti-
ormai veleggia oltre le 1400 vittime, in aggiunta alle 250.000 del sisma: anche se è incontestabile che a Haiti il colera non c’era stato da un secolo ed è altrettanto incontestabile che il ceppo sia asiatico. Però tutti ricordano quegli altri Caschi Blu srilankesi che nel 2007 furono espulsi, per via degli abusi sessuali di cui si erano resi responsabili. E già il 15 ottobre, quando l’Onu ha prolungato la Minustah per un altro anno, davanti alla sede della Missione c’è stata una manifestazione di protesta in cui una bandiera brasiliana è stata data alle fiamme. Esattamente un mese dopo, ci sono stati gli altri moti contro l’Onu che sono durati quattro giorni, si sono estesi in attacchi alle Ong, e
Al momento del terremoto Wyclef Jean - noto per aver duettato con Shakira - era divenuto un punto di riferimento dopo il collasso delle istituzioni: anche grazie allo zio Raymond Joseph, ambasciatore mità a nuovi vertici, al posto di quell’Amministrazione René Préval che si è abbondantemente screditata per l’inefficienza nell’affrontare la catastrofe. Così come d’altronde l’inefficienza nella stessa occasione ha screditato la Minustah: la Missione Onu di Stabilizzazione, con 12.000 uomini a guida brasiliana. Magari non è vero che siano stati i Caschi Blu nepalesi a spargere il contagio di un’epidemia che
sono stati repressi al saldo di due morti e una trentina di feriti. Ma anche nella Repubblica Dominicana la situazione dell’ordine pubblico è tesa, per le misure d’emergenza che sono state prese al fine di evitare il contagio. Addirittura, il divieto di un popolare mercato ha portato a scontri che hanno a loro volta originati 5 feriti e 10 arresti.
Proprio chiedendo un nuovo rinvio, quattro dei 19 candidati alla Presidenza si sono ritirati. Ma gli altri 15 continuano, e inoltre ce ne sono 120 per gli 11 dei 30 seggi senatoriali da rinnovare, e 900 per i 99 seggi della Camera, divisi tra 66 partiti politici. D’altra parte, è vero che la campagna elettorale è stata ridotta nelle regioni centrali più toccate dal colera e è quasi cessata al Nord, dove sono avvenuti gli incidenti più gravi tra manifestanti e Caschi Blu. Ma i sondaggi rilevano che la maggioranza della gente vuole comunque votare, e comunque
queste si stanno rivelando come le elezioni più aperte di tutta la bicentenaria storia di Haiti. Le prime in cui il nome del vincitore non si sappia già in anticipo, anche se il presidente René Préval ha investito tutte le risorse possibili sul genero Jude Celestin, che è anche responsabile governativo per la ricostruzione delle infrastrutture. Queste risorse non sono però poi molte, e come si è già ricordato il governo è abbondantemente screditato dall’inefficienza con ci ha affrontato l’emergenza, per cui alla fine forse l’appoggio presidenziale per Celestin è addirittura controproducente. All’inizio il candidato più gettonato era Wyclef Jean: il cantautore famoso in tutto il mondo per aver duettato con Shakira in occasione del concerto per la finale dei mondiali di calcio del 2006, e la cui Fondazione ha fatto molto per i poveri dio Haiti, anche se è stata pure accusata di spreco di soldi. Oltretutto Wyclef Jean aveva già composto fin dal
Abitanti di Haiti portano i cartelli elettorali con il nome del candidato presidente Celestin. A sinistra il rapper Wyclef Jean. Nella pagina a fianco, un sanatorio per i malati di colera
2008 un vero e proprio spot elettorale che si intitolava If I was President. È vero che si riferiva alle elezioni degli Stati Uniti, dove vive da quando ha nove anni (è nato nel 1972) e dove è arrivato al successo musicale. Ed è vero pure che il testo era piuttosto jettatorio.
«Se fossi Presidente/ sarei eletto venerdì, assassinato sabato, / e seppellito domenica». Ma nella violenta sommossa popolare contro il carovita dei generi alimentari in seguito alla crisi agricola mondiale che era scoppiata poco dopo, i ribelli avevano iniziato a cantarla come una sorta di inno, scandendo anche lo slogan di “Wyclef Presidente”. Poi, al momento del terremoto Wyclef Jean era divenuto un punto di riferimento dopo il collasso delle istituzioni: anche grazie allo zio Raymond Alcide Joseph, ambasciatore negli Stati Uniti dal 2005, e in pratica diventato facente funzioni del Presidente. Ma la Commissione Elettorale ha poi cassato la candidatura. Motivo: non residente a Haiti negli ultimi cinque anni. «Ma se è stato Préval nel 2007 a mandarmi in giro per il mondo nominandomi ambasciatore di buona volontà!», ha provato a obiettare. Ma senza troppa convinzione: lui stesso sapeva che comunque non era stato certo per quella carica che non era vis-
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La conta aggiornata dei morti arriva a 1543. Le autorità sembrano impotenti
E intanto il popolo cede all’incubo del contagio Appare inarrestabile l’epidemia, che sarebbe stata portata dal contingente internazionale sull’isola di Massimo Ciullo e Nazioni Unite hanno raddoppiato la stima dei possibili contagi per l’epidemia di colera che sta falcidiando la popolazione di Haiti. Secondo i nuovi dati forniti dall’Onu, la malattia potrebbe colpire fino a 400mila persone. A lanciare l’avvertimento è stata Valerie Amos, coordinatrice per gli affari umanitari e gli aiuti di emergenza dell’Onu, giunta a Port-au-Prince mercoledì scorso. «Queste stime devono servire da campanello d’allarme», ha spiegato la Amos, esortando ad adottare misure di prevenzione in tutto il Paese. Ma l’impegno delle organizzazioni umanitarie potrebbe essere più efficace, nel caso in cui la comunità internazionale decidesse di adottare una risposta più energica per contenere il contagio. «Il lavoro degli operatori umanitari compiuto finora a Haiti...ha già salvato decine di migliaia di vite. Ma non è abbastanza per frenare la perdita di vite umane o mettere gli haitiani nelle condizioni di affrontare la crisi da soli» ha spiegato la coordinatrice dell’Onu. Le pessimistiche previsioni della Amos concordano con le più fosche prospettive già enunciate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo l’Oms, l’epide-
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suto a Haiti. A quel punto è balzato in testa Celestin, ma subito è sceso tra il secondo e il terzo posto, e altri sondaggi lo hanno dato anche più in basso. Comunque, è la sua carovana che è stata vittima di un agguato alle armi da fuoco che ha provocato due morti. Su chi sia primo nelle intenzioni di voto, però, non c’è accordo tra i rilevatori. Alcuni
Già a giugno fu però rimosso da un golpe, e quando ha provato a ricandidarsi nel 2006 ha preso solo il 12,40%, pur classificandosi secondo dietro Préval. Adesso ha deciso di far scendere in campo la
Dopo questo caso isolato, il Governo dominicano ha attuato severe forme di controllo per limitare l’ingresso di persone provenienti da Haiti nel Paese al fine di evitare il diffondersi del virus. «Il colera viaggia molto facilmente e ci sono molti lavoratori haitiani nella Repubblica Dominicana», ha detto a Ginevra il portavoce dell’Oms Gregory Hartl. La situazione igienicosanitaria nell’altra parte dell’isola caraibica è però, migliore rispetto ad Haiti Anche i confini statunitensi sono stati varcati. Una donna, rientrata da poco, dalle vacanze sull’isola è stata ricoverata in Florida, dove è stato accertato il contagio. Altri casi sarebbero al vaglio dei medici. Tre ricercatori hanno consigliato agli Usa di fare scorta di milioni di dosi di vaccino contro il colera per contenere l’epidemia. «I costi per creare a mantenere una scorta di diverse milioni di dosi sarebbero bassi mentre i benefici sa-
moglie, settantenne. Secondo altri sondaggi, invece, il favorito potrebbe essere Charles Henri Baker: figlio di un famoso calciatore e di una proprietaria di supermercati, studi negli Stati Uniti, dopo essersi costruito una piccola fortuna nell’agroindustria l’ha reinvestita nelle fabbriche tipo maquiladoras che lavorano a assemblare parti
Appare praticamente scontato che nessuno dei candidati raggiungerà il 50% più uno dei voti. In questo caso, tutto slitta al prossimo 16 gennaio indicano infatti Mirlande Manigat, che è la moglie di Leslie Manigat. Già professore universitario di storia a Parigi, Leslie Manigat è stato un ottantenne dalla vita politica abbastanza agitata: negli anni ’50 ministro degli Esteri del dittatore Jean-François Duvalier; negli anni ’60 suo oppositore, e come tale incarcerato e esule; negli anni ’70 fondatore di un partito democristiano; e nel gennaio del 1988 eletto anche presidente, ma con un’affluenza del 10% scarso.
che l’epidemia si trasformi in pandemia, andando ad innescare nuovi focolai al di là dei confini dell’isola. Un caso è già stato registrato nella Repubblica Domenicana, dove un haitiano ricoverato ad Higuey, affetto da colera è morto.
per il mercato Usa. Già vicepresidente della locale Confindustria, si candidò a sua volta nel 2006 e arrivò terzo, con l’8,24% dei voti. Ma tra i nomi che spuntano c’è anche quello dell’ex-capo della polizia, Jeune Léon. E anche quello di un altro cantautore: Michel Martelly, a sua volta considerato vicino a Préval. Sembra comunque certo che nessuno di loro dovrebbe farcela domenica a ottenere il 50% più uno dei voti al primo turno, come era sempre accaduto in tutte e cinque le volte che si è andati alle urne dalla fine del regime dei Duvalier: nel 1988 a favore di Manigat; nel 1991 e nel 2000 di Aristide; nel 1995 e nel 2006 di Préval. Insomma, quasi sicuramente si finirà al 16 gennaio.
Secondo i nuovi dati forniti dall’Onu, la malattia potrebbe colpire fino a 400mila persone. E i confinanti alzano filo spinato per evitare i profughi
mia si sta diffondendo più velocemente del previsto: i morti sono più di 1.500 e il tetto dei 200.000 casi sarà raggiunto in tre mesi e non in sei. Il numero delle vittime «potrebbe essere più vicino ai 2.000 che ai mille, perché i dati dalle aree più lontane dalla capitale arrivano in ritardo o potrebbero andare persi» ha detto un altro coordinatore Onu per gli aiuti umanitari ad Haiti, Nigel Fisher. Il numero dei ricoveri ha raggiunto invece quota 22.512 mentre le persone contagiate sono diventate 55.189. Il dipartimento di Artibonite, nel nord, dove è scoppiata l’epidemia, è il più colpito con la metà dei decessi (640) e circa 10.500 ricoveri. A Port-au-Prince, la capitale, dove si trovano numerosi campi di fortuna in cui vivono i terremotati del sisma dello scorso 12 gennaio in condizioni igieniche molto precarie, il numero dei decessi è salito a 67, contro i 64 del precedente bilancio. Per il dottor Gerard Chevallier, un medico francese che lavora con il ministero haitiano, il numero di focolai epidemici aumenta e i bilanci delle autorità sono «sottostimati». L’altro timore degli operatori sanitari è
rebbero enormi se si riuscissero ad inviare rapidamente in aree ad alto rischio come Haiti», affermano in una lettera pubblicata New England Journal of Medicine. Quello che si teme è un’epidemia nella capitale dove gli sfollati sono oltre un milione e mezzo. Negli ospedali di Port-auPrince sono numerosissimi i pazienti ed i casi aumentano sempre più. Intanto non si placano le polemiche circa la responsabilità della diffusione del virus. Nei giorni scorsi, il Presidente haitiano René Preval, è stato costretto a rivolgere un invito alla calma, dopo gli scontri in diverse città, tra manifestanti e Caschi blu dell’Onu, scoppiati a causa della pandemia.Voci incontrollate diffuse tra la popolazione, avevano addebitato al contingente nepalese dell’Onu la colpa della diffusione del colera. Alcuni contadini avevano detto di aver visto gettare in un fiume i rifiuti provenienti dal campo-base dei Caschi blu nepalesi. Per dissipare qualsiasi dubbio, l’Onu ha aperto un’inchiesta per verificare la fondatezza delle accuse rivolte ad una parte dei suoi peace-keepers di stanza nell’isola.
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Conflitti. Sempre più tesa la situazione nella penisola divisa in due a crisi coreana è pieno svolgimento e, stando a come si stanno muovendo le grandi potenze coinvolte, i suoi tratti sono ancora troppo fluidi. È presto, quindi, per esporsi in previsioni. Gli osservatori sono però concordi nel considerare sproporzionata la mossa di Pyongyang. «Attacchi di piccola portata e altre provocazioni non sono una novità», commenta Geri Morellini, autore di Dossier Corea (Cooper editore). Dopo i segnali di distensione, nel 2008, e un sostanziale silenzio lo scorso anno, gli ultimi mesi si stanno dimostrando inaspettatamente critici. «E questa volta credo che la Corea del Nord abbia esagerato davvero». Tralasciando il fatto che l’attacco sarebbe nato come reazione alle manovre militari di Seoul, oggi ci troviamo di fronte a un livello di tensione senza precedenti. «Peraltro la Corea del Sud è ben lontana dal cercare uno scontro», prosegue l’autore. Quale sia il vantaggio che ricaverebbe da un conflitto diretto, in effetti, resta un mistero. «Al contrario, la Sunshine policy (la politica di apertura voluta da Seoul dagli anni Novanta in poi verso Pyonyang, ndr) oggi si sta rivelando un fallimento».
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Scorrendo gli avvenimenti dall’inizio del 2010, si può concludere che la Corea del Sud è stata troppo morbida, e forse anche ingenua, nei confronti di un regime che non ha alcuna intenzione di aprirsi al mondo globale e tanto meno di avviare un dialogo in seno alla comunità internazionale. Un precedente indicativo, che avrebbe dovuto suonare come squilla d’allarme, è
La guerra in Corea, uno show del regime Vendere armi è una delle attività principali del Nord: ma deve mostrarle di Antonio Picasso
stioni di politica intera e interessi economici». Morellini parte da un presupposto che fuga qualunque ipotesi di complotto internazionale, ipotizzata da alcuni. «Dietro all’attacco non c’è nessuno. È tutta opera della Corea del Nord stessa». La crisi che si sta consumando è voluta solo da quest’ulti-
Nel Paese, spiega Morellini, circa un terzo dei 22 milioni di abitanti è sostenuto dagli aiuti umanitari inviati dalle agenzie Onu stato l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, a marzo scorso. Un attacco premeditato, con 46 morti al seguito. Già in quella occasione il ministro della difesa sudcoreano, Kim Tae-young, aveva presentato le sue dimissioni. Il governo di Seul, però, le aveva respinte. Ieri ha rilanciato l’idea di ritirarsi. «Possiamo individuare due ordini di ragioni in quanto accaduto. Il regime di Pyongyang ha mostrato i muscoli al mondo per que-
ma, che è capace di imboccare autonomamente strade tanti pericolose. Non c’è nessuna grande potenza che soffi sul fuoco per una guerra di procura. Chi lo vorrebbe infatti? Washington e Pechino si stanno confrontando sul piano economico. Mosca ha ben altre questioni da gestire.
Sul piano della politica interna, alla luce degli eventuali passaggi di consegna tra Kim Jong-il e suo figlio Jong-un. Il primo compirà
Si dimette il ministro Kim Tae-young
Seoul decapita la Difesa Il ministro della difesa sudcoreano, Kim Tae-young, è la prima vittima di rilievo nella crisi dell’Estremo oriente. Dopo lo scontro a fuoco tra i due eserciti, il responsabile della sicurezza di Seoul ha rassegnato le sue dimissioni. Il ministro Kim era già stato al centro delle polemiche tra marzo e aprile di quest’anno, dopo che la Corea del Nord aveva affondato una
corvetta nemica, la Cheonan, provocando la morte di 46 membri dell’equipaggio. In quel caso l’esecutivo di Seul aveva fatto scudo contro le proteste rivolte al titolare del dicastero. Ieri, le stesse critiche ma ancora più accese ne hanno
provocato la sua definitiva fuoriuscita. La reazione sudcoreana, comunque, è apparsa immediata. «Abbiamo risposto con ottanta salve di mortaio K9 in un attacco di precisione», ha dichiarato un portavoce del Comando Supremo di Seoul, il tenente colonnello Ju JongWha, all’agenzia di stampa Yonhap «È da supporre che le forze di Pyongyang abbiano subito gravi danni». La fierezza dimostrata dalle autorità in uniforme, tuttavia, non ha salvato il vertice politico delle Forze Armate. Del resto, era impensabile che, dopo tante provocazioni, il ministro Kim non pagasse personalmente lo scotto di fronte a un’opinione pubblica che sta cominciando a nutrire vendetta nei confronti del nemico vicino. La Corea del Sud, però, sa che una guerra sarebbe impossibile e inutile. D’altra parte, giunti a una tensione tanto elevata, a pagare tanto vale che sia l’establishment nazionale.
70 anni l’anno prossimo e la sua salute rappresenta uno dei misteri della diplomazia internazionale. Una dimostrazione di forza, come quella dell’altro giorno, non può che suggellare la continuità pseudo-monarchica che è propria del regime. Se il “Caro leader”, dovesse mancare oppure cedere parte del potere, è evidente che la Corea del Nord non cambierebbe la propria linea di intransigenza. «Da anni la Corea del Nord è vessata da lotte di potere in cui le dinamiche restano oscure. L’operazione di mercoledì dimostra però come le Forze Armate abbiano ancora saldo il controllo del Paese, rispetto alla nomenclatura politica». Inoltre, un’operazione militare non può che mettere in allarme la popolazione nordcoreana. Questa vive in una sorta di “1984 reale”. Nel momento in cui il governo dà prova della sua aggressività di fronte al mondo intero, il cittadino medio nordcoreano non può che tremare.
«Le sue speranze più recondite di allentamento dei lacci dittatoriali vengono troncate». «C’è poi un’altra questione da non sottovalutare», aggiunge Morellini. «Nel Paese circa un terzo dei 22 milioni di abitanti totali è sostenuto dagli aiuti umanitari provenienti dalle agenzie Onu. Se Pyongyang cominciasse a dimostrare maggiore clemenza come dittatura, i governi stranieri potrebbero pensare di ridurre il proprio sostegno alla popolazione». Nella realpolitik di una tirannia, questo non è possibile. Un regime sopravvive se evita di cedere il passo alle riforme e mantenendo il controllo esasperato della vita quotidiana dei suoi sudditi. In Corea del Nord il Grande fratello di Orwell funziona, purtroppo. Diversa è la questione degli interessi economici. «Pyongyang è il secondo esportatore al mondo di armamenti missilistici», preceduto solo dagli Usa. È logico pensare che la famiglia Kim voglia conservare questa posizione di leadership sul mercato bellico internazionale. Per farlo, però, deve dimostrare l’efficienza dei suoi prodotti. «L’attacco dell’altro giorno ha fatto da pubblicità all’arsenale nordcoreano», dice ancora Morellini. Una specie di war show, insomma, indirizzato ai suoi clienti nel mondo islamico e in America latina.
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Dopo la dura nota della Sala Stampa sulle ordinazioni
Le vittime cercavano di cacciare i fondamentalisti da una chiesa
La Cina replica al Vaticano: «Siete voi gli intolleranti»
Egitto, scontri fra copti e islamici: due morti
CITTÀ DEL VATICANO. IlVaticano «limita la libertà religiosa». È la replica della Cina alla Santa Sede, che mercoledì aveva diffuso una dura nota di protesta per la nomina autonoma decisa da Pechino del vescovo cattolico Giuseppe Guo Jincai nella provincia dell’Hebei, contro il parere del Papa. La Cina, ha detto il portavoce del ministro degli Esteri, Hong Lei, ribadisce il diritto della Chiesa cattolica patriottica cinese di scegliere e ordinare i propri vescovi in tutta indipendenza dal Vaticano. Secondo il Papa invece, che si definiva «offeso», la nomina di Guo Jincai rappresenta una «dolorosa ferita alla comunione ecclesiale e una grave violazione della disciplina cattolica». La Santa Sede ha denunciato anche «pressioni e restrizioni» della libertà di movimento per i cattolici cinesi che intendono seguire il Papa.
IL CAIRO. Due giovani copti sono morti nelle manifestazioni legate al tentativo dei radicali islamici di impedire la costruzione di una chiesa a Talbiya, Giza, nella zona delle Piramidi. I feriti nella dura reazione delle forze di sicurezza, sono almeno un cinquantina ha detto il procuratore generale Abdel Meguid Mahmud, dei quali sette ufficiali e 11 agenti di polizia. Cento persone sono state arrestate. Gli scontri si sono verificati quando circa duemila manifestanti copti hanno circondato la sede del Governatorato di Giza, responsabile di cercare di impedire con vari pretesti la fine dei lavori di una chiesa copta, la cui presenza è osteggiata dai fondamentalisti musulmani. Le au-
Nella comunicazione, molto franca e netta, si afferma che l’ordinazione illecita di p. Guo Jincai, è una “grave violazione della disciplina cattolica” e una “grave violazione della libertà religiosa e di coscienza”, dato che alcuni vescovi sono stati costretti a pressioni e restrizioni per obbligarli a partecipare. Il gesto ha provocato il “profondo rammarico”del pontefice e il do-
Bruxelles unanime a favore dei cristiani Pieno successo per la risoluzione presentata da Carlo Casini di Gabriella Mecucci
ROMA. Il Parlamento europeo ha approvato ieri sera, con il voto di tutti i gruppi rappresentati nell’assemblea, una risoluzione riguardante l’Irak. Due ne sono i punti messi al centro. Il primo riguarda la richiesta di commutare in altra pena la condanna a morte dell’ex ministro degli Esteri Tarek Aziz, come del resto ha già promesso il presidente iracheno. A partire da questo fatto, il documento chiede poi una moratoria sulla pena di morte. Il secondo punto della risoluzione prende in esame la feroce persecuzione contro i cristiani in atto in Iraq. Carlo Casini, deputato europeo dell’Udc, considera il voto sulla risoluzione “un eccellente risultato”, ma chiede che sui due argomenti, pena di morte e protezione dei cristiani, «il Parlamento faccia di più, dedichi a ciascuno di questi argomenti una trattazione meno marginale, magari si arrivi a tenere due sedute distinte per approfondire in una l’uno e nella seconda l’altro tema, trovando l’accordo su ulteriori indicazioni operative». Onorevole Casini, quali sono secondo lei i punti da approfondire e le cose da fare? Per quanto riguarda la moratoria sulla pena di morte, mi viene in mente la richiesta, già fatta da Giuliano Ferrara sul Foglio, di una moratoria anche nei confronti degli innocenti. Chiedo in buona sostanza che nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si scriva qualche cosa di più. E cioè che il diritto alla vita è garantito a tutti gli esseri umani dal concepimento sino alla morte. Di questo vorrei che si parlasse in sede di Parlamento europeo e vorrei anche che nei diversi stati si cominciasse ad operare. Perchè non fare una legge in Italia che garantisca il diritto alla vita di tutti gli esseri umani dal concepimento sino alla morte? Il Movimento per la vita ha già avanzato una proposta in questo senso. Ma questo implicherebbe la cancellazione della legge sull’interruzione di gravidanza? Non necessariamente. Io sono contrario alla 194, ma modificare il codice civile - nel senso
in cui ho detto - non significa doverla cancellare. Il presupposto della legge sull’aborto non è mica l’esistenza di essere umani con un diritto alla vita diverso? Anzi, non io, ma i difensori di quel provvedimento sostengono che esso contiene una serie di regole e di strumentazioni atte a ridurre le interruzioni di gravidanza. Questo avviene sia grazie all’emersione degli aborti dalla clandestinità, sia grazie all’attività dei consultori, che, purtroppo – aggiungo io – in Italia non c’è. Insomma,lei vuole una legge che stabilisca un principio? Le leggi servono anche a questo: non servono solo a stabilire divieti. Prima di arrivare alle fattispecie concrete, si è sancito che i bianchi sono uguali ai neri, che le donne sono uguali agli uomini. Vorrei che si scrivesse nel codice civile che la vita di ogni essere umano deve essere garantita dal concepimento alla morte. E per quanto riguarda la protezione dei cristiani, che cosa vorrebbe che si facesse? Purtroppo questa non è soltanto una questione irachena ma è generalizzata, soprattutto nel mondo islamico: dal Sudan all’Indonesia. Purtroppo nel Corano accanto ad espressioni di solidarietà e di perdono, ci sono anche incitamenti alla guerra santa, alla persecuzione dei cristiani. Noi non dobbiamo fare la guerra ai musulmani, non dobbiamo impedirgli di venire in Europa, ma non possiamo non riflettere su che cosa ciò significhi non solo sul piano economico ma anche su quello dei valori. Noi dobbiamo favorire il dialogo, far sì che gli islamici che vivono nei nostri paesi si sentano europei. Dobbiamo favorire una riflessione al loro interno. Credo che il Parlamento europeo farebbe bene a dedicare una sua seduta ad un simile approfondimento politico e culturale. Proporre di fare di più, non significa certo da parte mia non considerare importante la risoluzione approvata, in cui si chiede al governo iracheno di proteggere i cristiani. Dovremmo chiederlo anche a tutti gli altri.
Spiega l’eurodeputato: «Proteggere la vita e le minoranze ovunque deve essere un dovere per ogni governo»
lore della Chiesa cinese e universale. Si accusa la Cina di non essere sensibile alle preoccupazioni e sollecitazioni del Vaticano e di aver lasciato la direzione degli affari ecclesiali nelle mani del laico Liu Bainian, regista dell’ordinazione illecita. Ai vescovi implicati (Guo Jincai e gli ordinanti) si ricorda il rischio di una loro posizione canonica illecita e si manifestano dubbi sulla validità dell’ordinazione stessa. Inoltre si sottolinea il profondo rammarico con cui papa Benedetto XVI ha appreso la notizia, poiché la suddetta ordinazione episcopale «è stata conferita senza il mandato apostolico e, perciò, rappresenta una dolorosa ferita».
torità hanno dispiegato migliaia di agenti nella zona di Giza e di Omraniya per prevenire ulteriori manifestazioni, quasi alla vigilia delle elezioni legislative nazionali. La protesta di ieri è nata dopo la decisione delle autorità di bloccare i lavori nella chiesa. Dall’inizio di novembre le autorità locali hanno cercato con diversi pretesti legali di impedire l’ultimazione della cupola. L’ultima ragione addotta è che le autorizzazioni di costruzione si riferivano a un centro sociale, e non a una chiesa.
I copti nella regione di Talbiya sono oltre un milione, e non dispongono di nessuna chiesa. Sono obbligati a viaggiare per vari chilometri per assistere alle funzioni religiose. Le autorità copte locali protestano dicendo che le moschee possono sorgere senza nessun problema. Invece per le chiese le difficoltà si moltiplicano. Un rapporto governativo afferma che in Egitto ci sono 93mila moschee, contro duemila chiese. I copti costituiscono circa il 10 % della popolazione egiziana, e lamentano di essere discriminati e trattati ingiustamente. Nei giorni scorsi l’incendio doloso di 20 case di copti è stato definito un “atto del caso” nell’inchiesta giudiziaria.
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Ritratti. L’artista fiorentino, protagonista della Transavanguardia, produce da qualche anno bottiglie pregiate, premiate dalle giurie di tutto il mondo
L’arte del Sandro bevitore Castello Romitorio, la passione per il vino, la dedizione al lavoro. Chia racconta il suo capolavoro: il Brunello di Rita Pacifici al vino si chiede quasi un’evocazione di sentimenti, di ricordi, di esperienze sia fisiche che spirituali. Il vino è trascendenza, immaginazione, religione, paganesimo, poesia, è la vita stessa nella sua più elementare e piena beltà». Da New York a Montalcino, dai tempi dell’arte moderna ai filari strappati al giallo ocra del paesaggio senese, al silenzio delle cantine dove matura il Brunello che è l’aristocrazia dei prodotti di questo territorio.
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Per Sandro Chia, pittore dalla forte inclinazione lirica, approdato al mondo delle vigne circa vent’anni fa come produttore di nettari pregiati, tra la pratica artistica e quella enologica non c’è distanza ma affinità, osmosi. La stessa istrionica ispirazione, il medesimo impulso creativo che vaga e s’invera altrove, moltiplicando all’infinito i progetti e i luoghi di appartenenza. Un’attività che si aggiunge a un’altra in una vita segnata dall’eclettismo e dal nomadismo, che non è parola desueta ma la condizione più feconda per un’artista che è «come un soldato di ventura e va dove c’è da vedere», perché è, racconta Chia, l’irrequietezza, il volere essere sempre altrove, la spinta, il motore dell’esperienza creativa. Qualcosa che potrebbe definirsi, con uno strano ossimoro, la nostalgia dello spaesamento e che risulta il denominatore comune di molte vite illustri:«È un dato di fatto, pensiamo a Leonardo da Vinci, ad Antonello da Messina, a Michelangelo Merisi a Caravaggio e a El Greco, come le macchine hanno la loro targa, nel nome c’era il loro destino di nomadi... ». Nato a Firenze, vissuto a Roma, in Germania e poi in America, dove si è affermato presto come uno dei maestri indiscussi dell’arte contemporanea, l’avventura del vino per Sandro Chia non può che essere cominciata fuori percorso, quasi per caso. Impegnato a
NewYork nella realizzazione di una decorazione monumentale commissionata per un edificio pubblico di Manhattan, raggiunto dalla telefonata di un amico collezionista vola in Toscana a vedere un edificio antico che acquista e recupera al fascino originario. Castello Ro-
che più si approfondisce più si fa evidente, che lo «fa cadere in ginocchio» e convertire a questa pratica del mondo contadino perché «qui c’è anche un messaggio che estremizzato potrebbe istituire una micro-filosofia che dice che l’arte si può fare in qualsiasi modo».
Il vino ha accompagnato l’umanità sin dalla mitologia: è una macchina per sognare che spiega la nostra sopravvivenza
L’arte come libera avventura creativa, che non perde mai la sua complessità ma non si identifica più con il concettualismo ed è attraversamento di modi e stili multiformi. Il percorso di Chia ha origine alla fine degli anni Settanta, in quella transavanguardia teorizzata da Achille Bonito Oliva che prendeva atto dell’estenuazione dei linguaggi sperimentali constatando il ritorno da parte di alcuni giovani artisti, tra i quali Mimmo Paladino, Francesco Clemente ed Enzo Cucchi, alla pratica inattuale della pittura. Un recupero dell’immenso museo del passato senza alcuna valenza celebrativa attraverso frammenti, “citazioni trasversali” puramente esteriori. Chia è il capofila di questa nuova poetica che si riappropria di una lingua ormai morta eppure l’unico strumento che sembra in grado di spiegare l’uomo e le sue emozioni. «L’astrazione», ha detto, «è sempre con-
mitorio è una fortezza severa, essenziale, ben visibile nella continuità delle dune senesi. È un amore a prima vista per il luogo e le sue tradizioni: «Mi sono accorto che il vino insieme a pochissimi altri elementi ha accompagnato l’umanità dalla mitologia fino a oggi e questa sopravvivenza, la costanza di questi oggetti, di questa macchina per sognare che si chiama vino, aveva lo stesso significato della sopravvivenza dell’arte della pittura che dall’uomo delle caverne a oggi ancora persiste e viene ritenuta un valore». E proprio come la pittura che si fa con i colori e la terra, anche il vino è l’esito di un’alchimia, materia putrida sublimata nel caos della fermentazione. È questa coincidenza, questa similarità
Nella foto grande, “Wet Paint Don’t Touch” dell’artista fiorentino Sandro Chia (a sinistra, nella foto). Qui sotto, la Bmw M3 GTR street griffata dal pittore Nella pagina a fianco, in alto, la cantina del Castello Romitorio, dove Chia produce un pregiato Brunello. Sotto, “Untitled”
tro, la pittura è invece un’avventura. La prima manca di generosità al contrario delle mie figure. Loro si fanno riconoscere non si mimetizzano come un soldato nella giungla». Inconfondibile senza dubbio è il repertorio che l’artista è andato via via costruendo, attraversato da un’ossessione, non drammatica ma ironica e lieve, per immagini fecondate da un passato smisurato che comprende l’arte classica, moderna e d’avanguardia, i primitivi e l’espressionismo, che va da Ma-
saccio a Sironi, da Cezanne a De Chirico e Picasso. C’e qualcosa di eracliteo in questa iconografia, una visione palindroma dell’esistenza dove la fine e l’origine coincidono, tutto ritorna e tutto emigra di figura in figura, di quadro in quadro, in un moto perenne e vorticoso dai colori accessi ed arbitrari.
Un’arte vorace che naviga nel tempo, categoria ineludibile anche per chi ha che fare con il lavoro della terra e delle vigne perché «il vino si fa con il tem-
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coincidenza tra arte e vita, né all’arte che si fonda sul mondo e ne accoglie le cose più spurie, come nell’estetica pop dilagata negli anni Sessanta, crede piuttosto che vita e arte si incontrino» sul piano del mistero e dell’inconoscibile». Sente l’importanza esistenziale, l’avventura umana che c’è nel destino di pittore, un lavoro che «consente di trovare se stessi nella condizione più pura, primaria e originaria» ma che richiede una dedizione totale perché «non ci sono scorciatoie e bisogna mirare al capolavoro, ben sapendo che questo è irraggiungibile. L’opera deve esalare questo desiderio immancabilmente frustrato e in questo senso non c’è un’arte mediocre».
po, impone un progettualità che va ben oltre il presente e questo è una buona educazione per la morte, ti rende immortale»
Nella cantina ai piedi del castello, nei tremila metri quadrati occupati dalle botti tra cui si insinuano le sue suggestive creazioni dai tratti arcaici, l’arte è sopraffatta da una dimensione austera e sospesa, dalla lunga attesa necessaria affinché si manifesti la celebre bevanda ricavata dal vitigno sangiovese. Cinque anni occorrono per fare un Brunello e infatti il suo primo prodotto, un vino innovativo, di fantasia, dal gusto internazionale, Chia
lo realizza acquistando la materia prima dalle aziende vicine. Ora Castello Romitorio esporta sette etichette, oltre centocinquantamila bottiglie prodotte annualmente destinate prevalentemente al mercato estero perché «questo vino è frutto di un genius loci e tanto più è se stesso tanto più è globale ed è importante che questo messaggio vada altrove e semini un’idealità perché è la nostra maniera di stare al mondo». Un valore aggiunto è offerto dalle etichette con riproduzioni delle opere del pittore, ricercatissime dai collezionisti, che portano in tutto il mondo quelle creature dilatate, espanse, «a metà tra lo stato solido e gassoso», con cui Chia ha conquistato pubblico e critica e che sono state acquisite dai più importanti musei, il MoMA, il Guggenheim, il Centre Pompidou, la Tate Gallery. Anche qui, nella campagna toscana, l’artista ha inserito le sue forme a dialogare con questo paesaggio che evoca tutta la storia della pittura, dai primitivi senesi ai rinascimentali. Sculture dove si ritrovano trasferiti nella materia nobile del bronzo i temi di sempre, i corpi femminili opulenti, le figure ipertrofiche e i personaggi alati
con i quali Chia ha arricchito il suo repertorio, che fanno pensare a Chagall ma che in fondo non sono nè uomini, né angeli ma segni di un’essenza mercuriale, forme che transitano, materia che è sul punto di sprofondare o di elevarsi. Una stratificazione di simboli e significati che in fondo si costruiscono da soli perché ogni opera d’arte è il risultato di un processo il cui senso ultimo non appartiene più agli elementi primari. «La pittura non è altro che un mezzo, il risultato deve esser una sorpresa, per me per primo, io divento la cavia di un lavorio pochissimo definibile che però da luogo a un oggetto, a un trofeo». L’artista semmai intercetta un’epifania, un momento d’eccezione e la sua opera è qualcosa poi gettata avanti, oltre il presente, «se dico Tiziano non è l’antico, è ancora qui, una cosa concreta, c’è un continuo futuro nella pittura, la bellezza viaggia nel tempo». C’è nel pensiero estetico di Chia la profonda consapevolezza del valore sacrale dell’esperienza artistica. «Ateo mistico della pittura», come si definisce, egli non crede alla
È in fondo questa stessa intensità, questa tensione che mira all’assoluto propria della creazione artistica a caratterizzare anche la ricerca enologica di Sandro Chia, il quale nel tentativo di fare non un vino qualsiasi ma il vino ideale, utilizza nuovi e vecchi mezzi, contamina le tecnologie apprese dal suo girare per il mondo da animale curioso e «portate come Marco Polo con il suo baco da seta», ai metodi tradizionali come la selezione manuale e accuratissima dell’uva, pratica che resiste ormai in pochissime aziende del territorio. Il risultato è l’eccellenza di un prodotto che ha ottenuto titoli ambiti come quello assegnato nello scorso settembre dalla ventisettesima edizione dell’International Wine Challenge, storica competizione inglese che ha eletto la Riserva Brunello 2004 del Castello Romitorio il vino rosso migliore del mondo. «Creo vini con la stessa passione con la quale dipingo. Si tratta di una storia di devozione e sacrificio, che apporta i massimi risultati», ha commentato l’artista, ma cercare di definire, di afferrare il quid che fa di questa bevanda d’autore qual-
cosa di prezioso e unico è un’impresa impossibile: «È impensabile che con il linguaggio logico si possa descrivere l’ interazione tra noi e questo fenomeno Brunello, bisogna far intervenire qualcos’altro e non mi viene in mente nient’altro che la poesia». È un successo che va ad aggiungersi ad altri recenti, a conferma della vitalità dell’ingegno multiforme di Sandro Chia, come la grande retrospettiva romana nei primi mesi di quest’anno, la più importante fino a oggi in Italia, e la partecipazione nel 2009, per la quarta volta, alla Biennale di Venezia. Un riconoscimento fondamentale che tuttavia proviene da un’istituzione che appartiene al passato perché «questa rassegna era l’occasione per incontrarsi in un periodo in cui non esistevano mezzi di comunicazione, niente a che vedere con il mondo di oggi». Il significato di questa esperienza è piuttosto un altro: «Per me partecipare alla Biennale significa un rispetto basato sulla memoria perché la parola Venezia evoca qualcosa che trascende qualsiasi considerazione logica». È ancora una volta la dimensione del mito, più che quella della storia, l’evocazione e l’aura delle cose più che la loro sostanza a catturare l’immaginazione del pittore che approda a un universo dal respiro classico profondamente originale, espressione di una leggerezza che è all’opposto della semplificazione e con il quale sfida ormai da decenni un’epoca in cui i codici espressivi si consumano in fretta.
L’esperienza della transavanguardia, dice, è ormai conclusa, «sono linguaggi che si autodistruggono per generare altri linguaggi, ci sono delle cose che sono state inventate prima e chi le pratica non sa nemmeno da dove provengono e ci sono delle identità che sono carsiche che si inabissano e poi di nuovo riaffiorano, se esiste qualcosa di simile alla transavanguardia questa va cercata non dove non c’è più ma dove è in un’altra forma. Come il vino che per cinque anni sparisce e poi riappare».
cultura
pagina 20 • 26 novembre 2010
Tre luoghi-simbolo delle religioni monoteiste: un’immagine di San Pietro, un’illustrazione del Tempio di Salomone e uno scatto della spianata delle Moschee. Il 27 novembre, il pluralismo religioso e l’identità dell’Europa saranno oggetto di un convegno dell’Ateneo Salesiano a Roma
Incontri. Pluralismo religioso e identità: un convegno dell’Ateneo Salesiano a “moderna deriva presentista”non è in agguato, è già in atto. Non è alle porte, è già in casa. Quale il rimedio? La memoria. Fisarmonica di eventi, melodia cangiante di uomini e cose, sentiero curvilineo di fatti, libertà e mistero, la storia è la medicina di cui abbisogna il vecchio mondo. Malato non ancora terminale, il vecchio mondo non è un altrove immaginario qualsiasi, non è una utopia senza carne, un mitico “mondo delle idee” totalmente altro dalla “caverna” della condizione umana. Il vecchio mondo è la patria di una cultura universale, della filosofia e della scienza, del diritto e delle arti che hanno segnato il cammino dell’uomo trascendendone luoghi e tempi, ma senza rinunciarvi. Il vecchio mondo è l’Europa, la “Vergine Europa” di Henrik Bünting, fascinosa rappresentazione tardo-cinquecentesca che la vuole donna regale, formata sull’antico Mare Mediterraneo ed estesa dalla Spagna alle remote regioni della Russia, avendo per testa la Corona iberica, per braccio destro l’Italia cattolica e per corpo il continente dai piedi rivolti a Oriente. Religione e politica giocano un ruolo decisivo nel raffigurare una Europa già moderna e non ancora completamente secolarizzata, già secolarizzata e non ancora completamente avulsa dalle radici spirituali che l’hanno plasmata, una Europa che alla fine del secolo XVI cercava e trovava Oltreoceano, nel “nuovo mondo” americano, una parentela, una amicizia salda, nonostante le difformità.
L
È però l’Europa il cuore storico, la testa geoculturale di un Occidente bifronte, plurale e “multiculti”, provato dal disincanto globale. E all’antico continente dedicano in queste ore un convegno, Oltre le iden-
Oltre le radici storiche e culturali d’Europa di Giulio Battioni tità. Sulla questione delle radici storiche, culturali e religiose dell’Europa, la Pontificia Università Salesiana e l’Association Internationale d’Etudes Mèdico-Psychologique et Religieuses. Nata negli anni ’50 del Novecento, l’Aiempr è la coraggiosa impresa di un gruppo di studiosi, scienziati e umanisti,
cerca sull’uomo. L’intervento della Corte di Strasburgo sulla presenza del crocifisso nelle scuole italiane è il punto di partenza di una discussione che impegna alcuni tra i più autorevoli esponenti della cultura internazionale: da Gaspare Mura, emerito di Filosofia e presidente dell’Accademia di Scien-
ze Sociali e Umane, a David Meghnagi, psicanalista e docente di Psicologia clinica; da Hassania Fakhreddine, matematica ed economista musulmana, esperta in cooperazione e diritti umani, a Carlo Cardia, professore di Diritto ecclesiastico a Roma Tre. Il programma manifesta la chiara vocazione
Il «vecchio mondo» è la patria di una civiltà universale, è la culla della filosofia e della scienza, del diritto e delle arti che hanno segnato il cammino dell’uomo trascendendone luoghi e tempi. Ma senza rinunciarvi che nella consapevolezza della complessità del mondo contemporaneo hanno scelto il metodo della interdisciplinarietà e la via laica della osservazione della realtà senza pregiudizi ideologici, al servizio della “buona battaglia”, per una cultura che sappia conciliare scienza e fede, medicina, psicanalisi, antropologia culturale e le diverse esperienze religiose, nel segno di una comune riinterreligiosa di una iniziativa in cui si distinguono le voci dei tre monoteismi abramici. Religione “nazionale” escludente, il contributo dell’ebraismo alla civiltà europea è fondamentale per l’innesto dalla teologia biblica nel tessuto umanistico dell’antichità classica e non meno prezioso per la sua
peculiare profondità sapienziale, la tensione spirituale verso un Dio personale e il conseguente riconoscimento della dignità morale dell’uomo; religione “universale” altrettanto escludente, l’islam è stato positiva parte integrante del processo di formazione dell’Europa, dalla sua interazione con il mondo cristiano-bizantino alla sua permanenza nella penisola iberica, e al suo fondamentale apporto nella trasmissione dei saperi e nel progresso delle scienze; religione universale includente, il cristianesimo compie il cammino del popolo d’Israele aprendone la storia della salvezza a ogni uomo e società, nel senso di un definitivo incontro tra la condizione umana e un Dio di carità, Deus caritas est, che non agisce contro la sua natura e nemmeno contro le sue creature.
La teologia cristiana, spiegata da Benedetto XVI all’Università di Regensburg, dispone di una capacità di amore della natura umana che trascende, senza per questo negarla, qualsiasi cultura, qualsiasi forma di libertà, qualsiasi espressione dello spirito. In questo senso il Vangelo è “oltre le identità” in quanto annuncio di salvezza sovrannaturale, di vita dopo la morte, rivolto a ogni uomo nella sua condizione radicale di essere incarnato, in relazione a Dio e al prossimo come Altro da sé. È per questo che la teologia cristiana ha una capacità filosofica di esperienza dell’universale nella concreta particolarità della vita umana che le altre religioni non hanno. È per questo che il pluralismo, il dialogo interreligioso e i “diritti umani” sono figli anche della fede nel Dio crocifisso, un Dio che ama “oltre” ma “non senza” le identità, oltre ma non senza la carne viva di ogni uomo e delle sue relazioni sociali. È per questo che l’Europa non deve dimenticare la storia, i simboli e la cultura che le hanno consegnato lo scettro di “prima pars Terrae” di una civiltà davvero umana.
società
26 novembre 2010 • pagina 21
Tra gli scaffali. La delicata e “filosofica” autobiografia di Gian Lupo Osti “Invecchiare in giardino. De senectute in horto”
L’uomo che sussurra alla Natura di Dianora Citi a dedica è a Maria Grazia con «riconoscente gratitudine» per essergli accanto «con affetto e pazienza» dal 1953. Non sono i sette decenni di Helmuth e Loki Schmidt ma penso che Maria Grazia sia stata ugualmente favorita dalla sorte vivendo quasi sessant’anni accanto a un uomo irripetibile come Gian Lupo Osti. Pochi (o tanti) fortunati lo frequentano da tempo ma adesso anche il grande pubblico può avere l’occasione di farne la conoscenza leggendo la sua breve, delicata e “filosofica”autobiografia Invecchiare in giardino. De senectute in horto (Ponte alle Grazie). Forse meglio dire un diario, la storia per sommi capi di una vita attraversata dalla passione per le piante, una raccolta delle riflessioni spontanee nate in seguito alla paziente osservazione della Natura, che «ci mette a contatto immediato con il principio stesso della vita, col suo mistero. […] In che cosa mai la Divinità, […] può rivelarsi più autenticamente che nella Natura?».
L
Osti, felice novantenne, non è sempre stato “giardiniere”: nel dopoguerra ha ricoperto un ruolo da protagonista della rinascita industriale italiana. «Alla soglia dei sessant’anni consideravo di aver fatto la mia parte» nel mondo del lavoro, ritenevo «che fosse opportuno fare un passo indietro», aiutato dal «fatto di non credere più nella possibilità di realizzare i sogni che negli anni della rapida ricostruzione postbellica italiana sembravano lì a portata di mano». Inoltre «giunti ad una certa età credo sia fisiologico, equo e salutare ritrarsi dalle attività che implichino […] responsabilità esecutive». «Occorre trovare nuovi interessi o sviluppare quelli che durante la vita professionale erano stati posti giocoforza in secondo piano». «I miei interessi botanici mi vennero in soccorso. Osservando la natura, mi lusingo di aver compreso un po’ meglio come funzionano le cose del mondo». Grazie alla nonna materna, fin da piccolo era stato educato «all’interesse per la natura e a vedere nella bellezza non solo un fatto estetico ma anche un’occasione di elevazione spirituale». «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti,
Il volume rappresenta una sorta di diario, la storia per sommi capi di una vita attraversata dalla passione per le piante ma per seguir virtute e canoscenza», ci dice il Poeta nell’Inferno. In un certo senso Osti (in onore del quale i botanici cinesi hanno dato il nome a
una nuova specie di fiore, la Paeonia ostii) segue le parole di Dante: l’aspirazione alla conoscenza non ha limiti né di tempo né di età, «mantenere corpo e mente in esercizio è una necessità. […] La Natura, il giardinaggio rappresentano uno dei modi più piacevoli di farlo […]. L’età avanzata […] ti sollecita a godere dei semplici piaceri che offre la Natura: sedere all’aperto in giardino e, con un bicchiere di buon vino, riscaldarsi al sole in una bella giornata d’inverno, godersi una tazza di tè
A sinistra, Gian Lupo Osti. A destra, il suo libro “Invecchiare in giardino. De senectute in horto”. Qui sopra, la Paeonia ostii. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
[…] in estate aspettando il tramonto e la frescura della sera, cosa c’è di meglio?». Non tutto quello che viene fatto giornalmente deve avere un suo immediato e estrinseco profitto: è importante anche la pura e semplice bellezza di un gesto, di un pensiero, di una visione. La nostra vita frenetica non ci fa apprezzare talvolta l’emozione della bellezza di un tramonto o di un fiore! Poesia e Verità dice und Goethe (Dichtung Wahrheit): e Osti esorta: «La loro complementarietà è assoluta per una piena rappresentazione dell’esistente. […] Facciamo del nostro meglio per comprendere e migliorare la realtà in cui viviamo». Questo è possibile con un rapporto sincero con la Natura che ci circonda. «Nel microcosmo del nostro giardino ritroviamo in miniatura i problemi dell’universo e ci rendiamo conto di quanto sia inadeguata la nostra […] mente umana a comprenderne gli innumerevoli misteri», gli stessi misteri che danno un senso alla nostra vita spingendoci verso un progresso intellettuale, morale e scientifico vissuto con passione. «Una vita senza passioni, quindi senza obiettivi, senza interessi? Quale mai sarebbe il suo scopo?». Il nostro primo dovere «è conoscere e capire cosa vogliamo per dare alla nostra vita un significato che possa soddisfarci. Così che in vecchiaia» guardandosi indietro, possiamo considerare il nostro passato «con serena
tranquillità: è impossibile non aver commesso […] la nostra parte di errori, ma nel complesso […] possiamo sentirci ragionevolmente soddisfatti». E solo in “vecchiaia”, da “vecchi” si può riflettere sul passato. «Quale senso ha avuto la mia vita? […] Se non si cercano di capire i perché dei nostri errori e dei nostri successi, come si potrà mai progredire?». Voltaire fece dire a Candide: «“So anche che bisogna coltivare il proprio giardino”.“Hai ragione” disse Pangloss; “perché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, ci fu posto ut operaretur eum, perché lo coltivasse; il che dimostra che l’uomo non è fatto per il riposo”. […] “Ben detto”rispose Candide “ma dobbiamo coltivare il nostro orto”». E Osti riprende: «Il primo nostro dovere è quello di coltivare noi stessi, ed è solo così che potremo fare qualcosa di buono anche per gli altri». Il giardino di Osti esiste per Osti stesso: non per essere mostrato e riceverne i complimenti, né per rimanere nascosto agli sguardi altrui. Esiste per donare serenità, per ritrovare, lavorandoci e coltivandolo, un più vicino rapporto con la la vita, che ha un inizio e una fine terrena. Esiste per un bisogno egoistico: ritrovare le piante donate dagli amici fa ricordare gli amici stessi; osservare la crescita di una pianta, se ha attecchito fa riflettere su quanto siamo stati capaci di riconoscerne le necessità, rispettare gli equilibri, se siamo riusciti a curarla con un giusto senso della misura.
Ma tutte queste attenzioni non sono le stesse che dovremmo tenere presenti nella convivenza umana? Queste perle di saggezza che Osti ci permette di condividere hanno però come premessa fondamentale due elementi di partenza senza i quali non sarebbero possibili: un dono (la lunga vita, in salute di corpo e di mente, di Osti) e un lusso (avere possibilità economiche, frutto di una lunga e fruttuosa vita lavorativa). Detto questo il miglior omaggio possibile è accogliere le parole di Osti come regali che la saggezza dell’età elargisce a pochi eletti.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Volontariato: “Ascolta il cuore, accogli la vita” Ecco le linee strategiche dell’attività del volontariato per la vita nei prossimi mesi. La prima urgenza è quella dell’obiezione di coscienza all’aborto. Bisogna organizzare un pool di giuristi capaci di garantire assistenza agli operatori sanitari che sempre più numerosi vengono trascinati in tribunale o vedono minacciato il posto di lavoro per la loro scelta e, al tempo stesso presentare una proposta di legge che sull’onda del recente pronunciamento del Consiglio d’Europa, chiarisca la liceità dell’obiezione per tutte le figure sanitarie, compresa quella dei farmacisti, che è già presente nella legge 194. Altro tema è quello della riforma dei consultori che, attraverso una legge nazionale renda evidente che se lo Stato rinuncia a punire l’aborto non rinuncia a manifestare il favor vitae sostenendo le donne in difficoltà per una gravidanza. E i consultori devono essere lo strumento per rendere evidente questa vicinanza delle istituzioni. Ma la madre di tutte le riforme è la riforma dell’articolo 1 del Codice Civile che deve riconoscere la capacità giuridica di ogni essere umano fin dal concepimento.
Daniele Nardi
L’ETICA È LA VIA MAESTRA CONIUGAMOLA ALLA GLOBALIZZAZIONE Gli ortopedici operano e operano con successo, ma poi? Cosa accade a un giovane che non esce da uno stato vegetativo o a un anziano - spesso solo - che perde la propria autonomia fisica e si scompensa sul piano psicocogntivo, specie in periodi di crisi economica come questo? La nuova sfida per clinici, amministratori e politici si potrebbe chiamare “etica e globalizzazione”, evitando riduzionismi e semplificazioni ambigue e non soddisfacenti.
alle famiglie. Finora i fatti parlano chiaro: crollano le adozioni internazionali, vengono cancellati i finanziamenti del Fondo adozioni, nella legge di Stabilità licenziata dalla Camera non c’è un centesimo per i minori e le famiglie, il Piano nazionale dell’infanzia è stato varato senza alcun finanziamento, la Conferenza nazionale della Famiglia si è conclusa con un elenco bellissimo di buone intenzioni. Quando si accorgerà il governo che esistono mondi vitali ai quali prestare attenzione? Invece degli spot, a quando i fatti concreti?
IL NULLA PER MINORI E FAMIGLIE
UN DIO INFINITAMENTE GIUSTO
Il messaggio del presidente della Repubblica inviato in occasione della Giornata nazionale per i diritti dell’infanzia, richiama la necessità dell’azione dello Stato e degli enti territoriali in favore dell’infanzia e dell’adolescenza attraverso il sostegno
Egregia Gabriella Mecuccci, è francamente consolante imbattersi in articoli come il suo che oltre a trattare di cose elevate e interessanti, mostrano la possibilità concreta di trattare argomenti che, per oggetto, non abbiano né le beghe politiche, né il de-
Paola
L.C.S.
Chi prima arriva... Vedersi soffiare il bottino da sotto il naso è un inconveniente che alcuni animali conoscono bene. Questa volta però è toccato a un pescatore rimanere a bocca asciutta. Al momento di ritirare la rete Valery Krugersky ha visto una grossa rana balzare fuori dall’acqua e sottrargli il pesce
litto di Avetrana. Il giudizio universale non è comprensibile (e quindi accettabile) per chi non ha la fede. Per chi pensa, cioè, che l’universo non presuppone una mente creatrice, che gli avvenimenti umani siano retti dal caso, che non c’è altra vita che quella terrena e che, quindi, non ha senso porsi il problema della giustizia... Costoro sembrano voler dire: ”Chi ha avuto, ha avuto e avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdam-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
moce o passato...ma anche l’avvenire!”. Per colui che crede, la fede nel giudizio è conseguenza diretta e necessaria della sua fede. Se per credente, si intende almeno colui che crede in un Dio infinitamente misericordioso e infinitamente giusto. Un Dio infinitamente giusto dovrà necessariamente rendere giustizia e renderne una alla sua altezza, cioè infinitamente giusta.
Carlo Signore
da ”Asharq Alawsat” del 23/11/10
Quando il vento di Ciro solleva il chador el mondo sciita a marchio iraniano sta succedendo qualcosa che in Occidente non è stato ancora ben compreso. In un recente intervento, il capo carismatico di Hezbollah, il movimento sciita libanese, si è esibito in una lunga filippica sulle radici culturali dell’Iran: sono islamiche e fuori dall’islam non esiste nulla. Figuriamoci una cultura che potrebbe definirsi persiana. Le ragioni di questo intervento sono sfuggite ai più. Ma un articolo sul quotidiano saudita edito a Londra di Adel al Toraifi, spesso ospite sulla Cnn, Bbc e al Arabya, spiega le ragioni di quello che sembra essere un’onda culturale di ritorno nella terra dei mullah. Il concetto d’identità iranica e persiana dei pronipoti di re Ciro sta montando con forza. I processi d’identità musulmani sembrano dunque mostrare le prime crepe, proprio nella terra della rivoluzione khomeinista. Il grande ayatollah aveva a sua volta dovuto fare un’operazione cultural-teologica per creare le basi di un nuovo movimento islamico su base nonaraba. La ummayad è un’idea di islam, dove essere arabi è un titolo preferenziale. Chiaramente dovendo lanciare una rivoluzione esportabile in tutto il Medioriente, Khomeini doveva esaltare i concetti di fratellanza universale, dove nazionalismi, etnia e differenze culturali si potessero sciogliere nella grande umma sciita. Insomma, doveva utilizzare gli stessi metodi del vecchio internazionalismo comunista. Dunque il coté arabo dove essere messo in ombra. In Libano, Hassan Nasrallah sembrava essere stato
va reggere a lungo le semplificazioni khomeiniste e oggi in Iran il vento dell’identità “iranica”soffia sempre più forte sollevando veli, niqab, chador e barbe lunghe. L’effetto in Libano sarebbe immediato – ma non così importante in un contesto culturalmente già molto frammentato – se dovessero presentarsi partiti come arabi e altri no, mettendo in secondo piano la radice musulmana.
N
spinto a intervenire dall’eterno confronto interno tra sciiti e sunniti, dove invece l’appartenenza araba ha un significato, per non parlare delle simpatie filo-occidentali, di un popolo abituato a dialogare col mondo. A Beirut ci si domandava sempre quanto Hezbollah fosse fedele allo Stato libanese e non eterodiretto dall’estero. Un vero nervo scoperto che, da tempo, vede il Partito di Dio giocare una complessa partita a scacchi con Teheran, tra fedeltà sbandierata in pubblico e una forte autonomia esercitata in pratica, almeno in certi ambiti come il Libano meridionale. Per Nasrallah la «civiltà persiana non esiste» e Ciro è probabilmente il nome di uno scugnizzo napoletano, non quello di un grande condottiero della dinastia achemenide. La raffinata cultura persiana non pote-
Allo stesso modo in cui Khomeini voleva annullare il nazionalismo arabo, Nasrallah, mutatis mutandi, vorrebbe annullare l’identità persiana. Ma ciò che sembra più probabile è che l’attacco del leader di Hezbollah contro l’identità iranica sia una guerra per procura. In perfetta linea con una tradizione mediorientale che non gradisce attacchi diretti su questioni controverse. La critica deve partire da oltre confine, poi si valutano gli effetti ed eventualmente si prende una posizione. Ciò dimostra come a Teheran ci sia preoccupazione per una controtendenza culturale che potrebbe minare alla base il movimento sciita. «Gli iraniani sono molto fieri della loro identità persiana», scrive Toraifi. Inoltre ciò che Nasrallah dimentica che lo stesso Khomeini aveva più volte puntato sul nazionalismo persiano per compattare il Paese. Ad esempio durante la lunga guerra contro l’Iraq. E lo stesso Ahmadinejad sa di non poter contrastare questa forte radice culturale, tanto che recentemente ha parlato di Ciro come di un «imperatore del mondo».
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
Tiene un blog in cui spiega come evita di lavorare ELKHART. I fannulloni non sono certamente un esclusiva della pubblica amministrazione italiana, come insegna la storia di Emmalee Bauer, 25enne di Elkhart nello Iowa, ormai ex dipendente della catena di hotel Sheraton. C’è da dire che la ragazza non si accontentava di scansare il lavoro, ma ha pensato bene di tenere (ovviamente, durante l’orario di lavoro) un blog in cui spiegava come faceva a lavorare il meno possibile. A partire dallo stesso scrivere i post, dato che «scrivere su questo blog fa sembrare che stia lavorando duramente su qualcosa di importante». Sempre nel blog Emmalee si è più volte vantata di aver
raggiunto una condizione per certi versi invidiabile, poiché «lavoro molto meno e vengo pagata molto di più che in tutti i miei lavori precedenti». La giovane però ha dimenticato una regola a tutti nota, e cioè che non è molto intelligente pubblicare su internet fatti e questioni che sarebbe molto meglio tenere per sé. E infatti, uno dei responsabili di Emmalee ha scoperto il suo diario telematico, e la ragazza è stata inevitabilmente e immediatamente licenziata. Non solo, il giudice
ACCADDE OGGI
TRA MEMORIA E PRESENTE La Terra, ci ha ricordato il Papa, è «affidata da Dio Creatore all’uomo – come dice la Genesi – affinché la coltivi e la custodisca». E ha poi aggiunto che, nonostante la crisi, in Paesi di antica industrializzazione si incentivano ancora «stili di vita improntati ad un consumo insostenibile, che risultano anche dannosi per l’ambiente e per i poveri». Ogni grande emergenza infatti, oltre al carico di morte e dolore, spesso porta a galla anche aspetti più amari, come povertà e situazioni di abbandono del territorio, scollamento e disfunzione delle istituzioni. Il pensiero va ai tanti, troppi disastri che hanno ferito l’Italia: dalle recenti alluvioni in Veneto, Toscana, Campania, Calabria alle frane nel Messinese, al terremoto in Abruzzo, solo per citare le più eclatanti. Fino a tornare a quel tragico 23 novembre del 1980, al terremoto che sconvolse una vasta area, tra Campania e Basilicata. L’area più colpita è nel cuore dell’Irpinia, in provincia di Avellino, ma danni gravi si registrano anche nelle province di Potenza, Napoli, Salerno. A trenta anni di distanza sono ancora aperte le crepe di quel minuto e venti secondi che ha seminato morte e distruzione, ma che ha anche generato una straordinaria solidarietà.
Lettera firmata
IL SUICIDIO DEI CATTIVI Molte persone al di là del muro di cinta mi scrivono e mi chiedono spesso perché i detenuti in carcere si tolgono la vita. Forse in galera ci si uccide perché la stanza assomiglia ad una bara e mentre in una cassa da morto hai la fortuna di stare da solo, in una cella spesso sei messo uno sopra l’altro, in
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
26 novembre 1942 Prima del film Casablanca all’Hollywood Theater di New York 1949 L’assemblea costituente indiana adotta la costituzione dell’India 1983 A Londra, 6800 lingotti d’oro vengono rubati dal caveau della Brinks Mat all’aeroporto di Heathrow 1985 Il presidente Ronald Reagan firma il contratto per cedere i diritti della sua autobiografia alla Random House, per la cifra record di 3 milioni di dollari 1996 La Juventus vince la sua seconda Coppa intercontinentale battendo 1 - 0 il River Plate, rete di Alessandro Del Piero 2003 Ultimo volo di un Concorde 2004 In Cina muore, poche ore dopo la nascita, il primo bufalo acquatico clonato. Il responsabile del progetto, il dottor Shi Deshun, spiega che dopo 342 giorni di gestazione ed un parto cesareo, l’animale era nato sano, ma la perdita di troppo sangue a causa del taglio del cordone ombelicale ne ha provocato la morte
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
del lavoro le ha anche negato l’accesso all’indennità di disoccupazione, dato che il comportamento della ragazza evidenziava “divertimento” nell’evitare il lavoro affidatole.
due, tre, quattro, cinque persone o più. Forse in galera ci toglie la vita per togliere il disturbo e non essere di peso a questa società, perché meglio non esistere che annegare nella disperazione. Forse in galera ci si suicida semplicemente perché alcuni non accettano l’assoluta disumanità del carcere, dato che nelle carceri italiane la vita è priva di significato. Forse in galera ci si uccide perché con il passare degli anni la maggioranza dei detenuti perde la facoltà di pensare, di lottare e di andare avanti. Forse in galera ci toglie la vita perché molti di noi vivono senza sentirsi vivi e consciamente o incosciamente invidiano e imitano chi ha avuto il coraggio di farlo. Forse in galera ci si suicida semplicemente perché la morte ti fa vedere la libertà e tutto quello che desideri dalla vita. Forse in galera ci si toglie la vita semplicemente perché la morte è l’ultimo atto d’amore alla vita. Forse non lo so perché dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita 58 persone. Diciamoci la verità: tutti lo pensano, ma sono pochi coloro che dicono che le carceri in Italia non sono solo luoghi di sofferenza, solitudine e abbandono, ma sono anche luoghi dove le persone sono tenute come animali allevati in cattività. E negli istituti italiani non esistono diritti, perché è inutile averli se non c’è nessuno che li fa rispettare. Nelle carceri italiane non esiste lo Stato di diritto, ma un gruppo di burocrati che gestisce le persone che ci lavorano e i carcerati, che scontano una pena a volte in un modo violento e tragico. Il carcere con queste modalità e con questi funzionari non recupera un bel nulla, ma piuttosto elimina, distrugge e ammazza.
Carmelo Musumeci - carcere di Spoleto -
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
CREATIVITÀ È LIBERTÀ La creatività, a mio modesto avviso, per potersi esprimere al meglio, necessita di un habitat adeguato, di un insieme di regole, di quell’humus culturale politico e civile che non la isolino in un anfratto come riserva privilegiata al servizio di pochi, o come compendio da tirare fuori dal cassetto al momento della solita e infruttuosa convegnistica. Il creativo deve essere lasciato libero di esprimersi al meglio e di assumersi tutte le sue responsabilità nelle sue iniziative, sul lavoro, in famiglia, con gli amici. Splendido a questo pro il caso di tante aziende oltreoceano, in cui si creano forme collaborative orizzontali tra dipendenti a prescindere dai ruoli; in cui anche i livelli intermedi hanno la possibilità di giudicare il lavoro e le decisioni dei capi, di proporre metodi e prassi innovative che i capi non rifiutano ma assumono al contrario come “valore” per la propria
azienda, facilitando quel clima creativo di collaborazione per lavorare insieme e senza pregiudizi per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. A tutto vantaggio per l’ambiente esterno e interno. In poche parole, per esprimersi al meglio il creativo deve poter essere “libero”. La libertà è quindi fattore necessario per poter aumentare le iniziative di confronto, di crescita, di condivisione e quindi di conoscenza. Il dibattito pertanto non può che iniziare da una analisi e da una riflessione di chiara matrice culturale per espandersi successivamente all’applicazione pratica dei concetti, all’adozione di sistemi e consuetudini utili partendo dal dato - come affermava Herbert Simon (nella foto) - che per ottenere risultati da azioni innovative in qualsiasi campo, ci vogliono minimo dieci anni. È pronta la nostra società regionale? Il dibattito è aperto. Vincenzo Fierro C I R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
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ULTIMAPAGINA Follie. Il gigante dei social network vuole acquistare la parola “face”, sparigliando il mondo di Internet
Facebook vuole brevettare di Massimo Fazzi e, dopo anni e anni di lavoro, siete finalmente pronti per mettere online il sito internet www.thefaceslap.com - il maggior archivio di schiaffi in faccia nella storia del cinema – siete arrivati molto probabilmente in ritardo. Perché, dopo aver messo le mani sui rapporti personali e sociali di mezzo miliardo di persone, Facebook ha deciso di mettere le mani anche sulla faccia. Inteso come parola, ovviamente, e in inglese: tra molto poco, infatti, il termine “face” usato su internet sarà di proprietà di Mark Zuckerberg e compagni. Il gigante di internet ha infatti appena ottenuto una prima, ma fondamentale, luce verde nel proprio sforzo di proteggere tramite le vie legali questo termine. Secondo l’Ufficio statunitense per i brevetti, una prima “Notifica di permesso” è stata già recapitata alla sede centrale del colosso. E Neil Friedman, uno dei maggiori esperti dell’argomento nonché socio dello studio legale Baker e Reynolds, ha spiegato alla Fox: «Volete sapere se alla fine di questa storia il richiedente sarà tutelato? La risposta è ovviamente sì». GoDaddy.com è il maggior sito di registrazione di indirizzi internet al mondo: nel suo archivio sono almeno 53mila i termini “face” nel globo virtuale. E secondo le stime degli esperti, soltanto nell’ambito degli indirizzi .com ce ne sono almeno altri 89mila. Un brevetto (o un marchio registrato), spiega ancora Friedman, «può coprire un’infinità di cose. Dalle siglette idiote che sentite nelle pubblicità alle parole, o le frasi, o le lettere e i numeri. Persino simboli particolari, come la virgola della Nike, un o tono di colore specifico come il cosiddetto “blu Pepsi”.
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Nel caso in esame, il marchio registrato coprirà servizi telematica, chat online e bollettini elettronici di trasmissione di messaggi attraverso i computer». L’inusuale richiesta di tutela nasce dalla storia della compagnia: il social network si era inizialmente scagliato nel 2005 contro il sito britannico Faceparty.com, di proprietà di una compagnia chiamata Cis. In quell’occasione perse la causa, ma i giudici costrinsero i britannici a dividere in maniera artificiale la compagnia in modo da eliminare dai servizi offerti - che comprendevano l’acquisto di biglietti teatrali e prenotazioni al ristorante - la possibilità di parlare tramite il computer con gli altri utenti del sito connessi in quel momento. Questo non rappresentò una battaglia vinta; lo scioglimenti della compagnia venne aggirato con un cambiamento di nome al servizio di chat, che poi venne reintegrato nel sito principale. Zuckerberg, che oramai sembra essere affetto da una sindrome di onnipotenza non troppo virtuale, non deve averla presa bene e ha cercato il modo legale per vincere il confronto. Avendolo trovato, lo sta portando avanti con pervicacia. Questo, spiega però sempre Friedman, «non significa che avrà il campo totalmente libero. Al momento ci sono
Mark Zuckerberg, ideatore e fondatore di Facebook. Il più popolare sito internet del momento conta 500 milioni di utenti. In alto il logo di FaceParty.com
la FACCIA L’idea di Zuckerberg, per quanto suggestiva, non è nuova: al momento, spiega l’Ufficio brevetti degli Stati Uniti d’America, sono “bloccati” anche il “blu Pepsi” e la virgola della Nike. Chi volesse usarli, secondo la legge, deve chiedere il permesso altri 34 brevetti che riguardano facce e internet». In pratica, «Facebook non potrà costringere i siti nati prima di lei a cambiare nome. Perché, d’altra parte, quella di Zuckerberg non è la prima faccia apparsa sulla Rete. Tuttavia, si tratta di un passo avanti importante quanto inquietante». La compagnia non è alla sua prima assoluta all’Ufficio brevetti: sin dalla fondazione, infatti, ha tutelato legalmente i termini “like” - l’italiano “mi piace” - e “wall”, la nostra “bacheca”. Ma il mondo delle parole è quello più redditizio, e bloccare ogni chat con il termine “face”aumenterà senza dubbio il potere su piazza di Facebook. Che ha già annunciato pronte cause milionarie contro chi intende ribellarsi. In pratica, se ti inventi un modo nuovo per chiacchierare sulla Rete, evita come la peste di associarci una faccia. Soprattutto la tua.