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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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QUOTIDIANO • SABATO 4 DICEMBRE 2010

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

De Rita presenta il suo Rapporto annuale: «Il Paese non ha più desideri ed energie. Bisogna riscoprire il senso della comunità»

Arriva la Grande Depressione Impaurita, cinica ed egoista: il Censis fotografa un’Italia fiaccata, che ha tenuto “botta” alla crisi ma adesso non crede più in se stessa. E avvisa: l’era del berlusconismo è finita L’ERA DELLA RESPONSABILITÀ

Il Cavaliere a tutto campo: «Non sono malato e non ho interessi personali»

Leaderismo addio, è il momento del gioco di squadra

Silvio difende l’asse con Putin e si scaglia contro il terzo polo. Risponde la mozione di sfiducia: «Ci vuole un nuovo governo» Il premier garantisce «amicizia affettuosa» alla Russia, liquida Wikileaks come «gossip» e la nuova area dei moderati come “una bufala”. Presentato il documento di Udc, Fli, Mpa e Api firmato da 85 deputati. E Fini assicura: «Dopo il 14 cambierà tutto» Errico Novi • pagina 8

di Enrico Cisnetto

ppiattiti, acquattati, depressi, cinici e narcisi, anzi “narcinici”: ecco la condizione sociale e mentale degli italiani che esce dall’analisi del 44° rapporto del Censis presentato a Roma da Giuseppe De Rita. Un Paese, l’Italia, dove sono evidenti «manifestazioni di fragilità personali e di massa», «comportamenti spaesati», «passivamente adattivi», dove non si riesce più a individuare un dispositivo di fondo morale o giuridico che disciplini comportamenti, atteggiamenti e valori. Si afferma così «una diffusa e inquietante regolazione pulsionale».

idare agli italiani il senso della loro responsabilità». È questo il messaggio politico più significativo dell’annuale Rapporto del Censis, che fotografa con efficacia lo “stato d’animo”- «manca il desiderio» - di un Paese sfiduciato, appiattito, svogliato. Un’analisi molto condivisibile, quella di De Rita, quando considera ormai chiusa la stagione della Seconda Repubblica, e quindi del cosiddetto “berlusconismo”, morti, l’una e l’altro, per ragioni socio-culturali prima ancora che politiche. Il punto nodale è rappresentato dal fallimento del “leaderismo”, che De Rita considera figlio legittimo del “soggettivismo”, inteso come processo sociale “non governato”che per effetto del combinato disposto tra la deresponsabilizzazione prodotta dal leader politico che assicura di pensare a tutto lui, e l’apatia del singolo, mette in crisi la società, sia nella sua accezione di comunità che di polis. L’appannamento della figura di Berlusconi è la conseguenza di questo processo.

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di Riccardo Paradisi

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Il saggio Il rettore della Cattolica di Milano al convegno della Cei

Anteprime Nelle sale il nuovo film di Allen

Ricucire Nord e Sud, o è la fine

Woody, il nichilista

L’unica via è costruire un “federalismo solidale”

Da Shakespeare alla disperazione

di Lorenzo Ornaghi

di Anselma dell’Olio

i potrebbe temere, per più di un motivo, che anche la riforma istituzionale del federalismo, non diversamente dai passati progetti di riforme costituzionali, sia purtroppo affetta dal micidiale ‘paradosso dell’impossibilità’. Non pochi studiosi hanno sottolineato come risulti del tutto inutile varare leggi quando manca l’essenziale per dare a queste concreto ed efficace compimento. E aumenta la percezione che anche per il federalismo stia ormai scadendo il tempo. a pagina 24

ncontrerai l’uomo dei tuoi sogni è l’ultimo degli intrattenimenti annuali che il prolifico Woody Allen offre ai suoi fan. Con una puntualità da regnanti, il regista ricicla il suo noto nichilismo con un patchwork di nozioni ricavate dalle sue oltre quaranta pellicole. a pagina 21

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

I

• ANNO XV •

NUMERO

236 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Naomi Watts

19.30


prima pagina

pagina 2 • 4 dicembre 2010

Dal 44° rapporto del Censis emerge un Paese senza energia, avvitato su se stesso, fondato sul patrimonio e l’insicurezza

L’Italia si sta arrendendo Siamo una Nazione con ”evidenti fragilità personali e di massa” Se non riscopriamo il desiderio di fare, il declino è alle porte di Riccardo Paradisi

ppiattiti, acquattati, depressi, cinici e narcisi, anzi “narcinici”: ecco la condizione sociale e mentale degli italiani che esce dall’analisi del 44° rapporto del Censis presentato nella consueta sede del Cnel a Roma da Giuseppe De Rita. Un Paese, l’Italia, dove sono evidenti «manifestazioni di fragilità personali e di massa», ”comportamenti spaesati”, ”passivamente adattivi”, dove non si riesce più a individuare un dispositivo di fondo morale o giuridico che disciplini comportamenti, atteggiamenti e valori. Si afferma così «una diffusa e inquietante regolazione pulsionale, una società ad alta soggettività che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che però non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori dalla realtà italiana».

A

Resistenza passiva alla crisi. Certo, davanti all’epocale crisi economica e sociale che ha caratterizzato il biennio 2009-

Povertà in aumento, giovani sfiduciati, ammortizzatori sociali nulli Nel 44° Rapporto Censis si legge che nei primi due trimestri del 2010 si è registrato un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9 per cento, a fronte di una riduzione media dello 0,9. Poco fiduciosi nella possibilità di trovare lavoro, ma anche poco disponibili a trovarne uno a qualsiasi condizione, a causa di salari modesti e scarsa tutela dei diritti. Sono 2.242.000 le persone tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, nè cercano un impiego: cifre che parlano di un sentimento preciso:rassegnazione. Ben il 91 per cento dei disoccupati di famiglie monoreddito in Italia sono da considerarsi a rischio povertà. La prova più evidente che gli ammortizzatori sociali sono quasi del tutto inesistenti e inefficaci, a differenza che in Europa, contro il 32 del Belgio, il 55 della Spagna e il 75 del regno Unito.

Naturale conseguenza, il fatto che sei italiani su dieci esprime un giudizio negativo sugli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati. Simile la percezione della lotta alla povertà, che sei connazionali su dieci considerano inadeguata. Grande timore anche per chi lavora; il 40 per cento si dice molto preoccupato che in vecchiaia il reddito non sarà sufficiente a un livello dignitoso di vita. A livello giovanile il 21 per cento degli over 18 anni è convinto che sarà costretto ad andare in pensione piu’ tardi rispetto all’età pianificata, un altro 20 pensa che dovrà provare a risparmiare di più per quando sarà in pensione e il 19 ritiene che la propria pensione sarà inferiore a quanto si aspetta.

2010, la società italiana è riuscita a resistere. Si tratta però di una resistenza che «in qualche misura ci ha appagato, ma anche un po’ consumato, facendo sorgere il dubbio che, anche se ripartisse a breve la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe spessore e vigore adeguati alle sfide complesse che dovremo affrontare». E qui sta il punto, il nodo psicologico, la malattia dell’anima italiana. Nel Paese, dice il Censis, si registrano «sensazioni di fragilità che hanno a che fare con

chiude la propria nicchia, si afferma se stessi negandosi allo scambio con gli altri. Una società segnata dal ”pericolo dell’anoressia”. Tutto si appiattisce solo in una dimensione orizzontale, spesso vuota, tanto che è stato detto che il mondo globalizzato è «un campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla».

Sregolatezza senza genio. Insomma soggettività e orizzontalità punti di forza del carattere

Siamo in una società pericolosamente segnata dal vuoto, dove al conflitto va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento degli interessi l’insicurezza della della sua sostanza umana». La crisi non è più solo economica, la crisi è soprattutto sociale, «è una crisi da assenza di vigore» – dice De Rita – nella sua suggestiva e ispirata prolusione. E il vigore è figlio dello spessore e della consistenza di una società, il guaio è che il Paese ha poco spessore progettuale, mentale, programmatico. Interessa il proprio tornaconto personale e famigliare, ci si ri-

nazionale, a forza di non essere canalizzati e governati, sono esplosi nel loro rovescio degenerato facendo esplodere l’indistinzione generalizzata la sregolazione delle pulsioni e dei comportamenti individuali. «L’indistinto lo si avverte nella dialettica politica sempre meno chiara e bipolare, nella permanente guerra istituzionale, nel mercato del lavoro segnato da una nebbiosa sovrapposizione di disoccupati,


prima pagina precari e lavoratori sommersi». Nel tessuto sociale italiano, osserva il Censis, si sono così appiattiti anche i riferimenti «alti e nobili della nostra vita sociale e sociopolitica» quali «l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la stessa fede in uno sviluppo continuato e progressivo». L’enorme patrimonializzazione italiana, il rifugio nel mattone, i giovani lontani dal lavoro e a ricasco delle famiglie fino ad età avanzata – dati che emergono analiticamente nel rapporto del Censis – sono tutte spie d’un ri-

ha trovato in Berlusconi non colui che l’ha creata ma colui che l’ha cavalcata. Lui nel modo di fare i soldi, di gestire i rapporti personali ed il potere dà il senso di questa libertà. Il meccanismo del leaderismo però – ha sottolineato De Rita – non è stata un’intuizione di Berlusconi ma di Craxi già negli anni ’90. L’unica differenza è che Craxi non aveva i soldi da investire, elemento che non è mancato al premier. Per fare decisionismo bisogna realizzare una verticalizzazione del potere e per farlo occorre personalizzare il potere».

di interessi e di conflitti sociali, «si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti». Il vuoto finisce per generare negli individui una crescente insicurezza personale: un fenomeno questo, «non facilmente accettabile in una società che per generazioni ha perseguito la sicurezza come valore fondante e ha lavorato per garantirsi lavoro stabile, casa di proprietà, consistente volume di risparmio. È l’insicurezza il vero virus che opera nella realtà sociale di questi anni». Gli italiani sono delusi dei propri politici che giudicano troppo litigiosi e inconcludenti, vivono in territori iperurbanizzati dove, soprattutto al sud, è sempre più presente la criminalità organizzata e sono costretti a barcamenarsi fra spese alte (tariffe, multe, parcheggi e gabelle varie), budget bassi e la continua e sempre più pressante promozione dei consumi. Inoltre è sulle spalle dei singoli ricade il peso del welfare: le famiglie si vedono costrette a caricarsi di compiti assistenziali, particolarmente gravosi per situazioni drammatiche come la disabilità di fatto sopperendo ai vuoti del sistema pubblico. «In Italia – osserva infatti il ”Rapporto” – mancano quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge, vista l’inermità istituzionale in cui viviamo anche in realtà a forte componente carismatica e ne è esempio evidente la Chiesa.

Riaccendere la libido. Da qui l’invito del Censis a ”tornare a desiderare” che rappresenta «un ritornante raccoglierpiegamento in se stessi, d’una scarsa propulsività collettiva, dove l’energia frustrata o non impiegata si scarica in attività alternative o in atti distruttivi, violenza e bullismo gratuiti, in fughe dal mondo (gioco d’azzardo, alcoolismo, tossicodipendenze).

La fine del berlusconismo. Di pari passo a questo processo il Censis rileva una progressiva delusione per le istanze del primato del mercato e della liberalizzazione dell’economia, e il declino della scelta per una verticalizzazione e personalizzazione del potere. Insomma anche il decisionismo italiano sembra sul viale del tramonto. Ed è Silvio Berlusconi – sostiene De Rita – l’icona del soggettivismo politico, della verticalizzazione del potere, di un ciclo cominciato 50 anni fa e che oggi ha esaurito la sua potenza». Un ciclo, quello della soggettività, di cui il Cavaliere presenta la punta estrema che De Rita fa partire con l’obiezione di coscienza di Don Milani e che si è poi sviluppato negli anni ’70 con le lotte per il divorzio e l’aborto, con il femminismo e la liberazione dei diritti. «Questa soggettività, ovvero libertà di essere se stessi,

Obiettivo che, secondo De Rita, si può raggiungere «con i media e i soldi». Questo ciclo di soggettivismo è però giunto alla fine, perché ha consumato il suo credito presso cittadini disillusi che non riconoscono all’uomo solo al comando l’auctoritas. La politica deve tornare a coinvolgere le responsabilità del singolo che deve uscire dalla sua apatia.

Il virus dell’insicurezza. Già perché è al singolo che fa appello l’analisi-monito del Censis, al recupero del vigore individuale tanto più necessario in una società dove tutto si appiattisce e «vince solo una dimensione orizzontale, spesso vuota». In una società così ”piatta” hanno finito per franare a«anche tutti i soggetti presenti in essa, e in particolare la loro capacità e il loro vigore soggettivi». È l’unico rimedio a «una deriva cinico-pragmatica in cui disciplina e autorità perdono giorno per giorno anche il significato simbolico, quello che più coerentemente è connesso alla psicologia individuale e collettiva». Siamo insomma una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno

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Le famiglie senza welfare: pochi risparmi, scarsi consumi e con malati a carico Quasi il 40 per cento degli italiani dice di non avere risparmi da utilizzare ma le famiglie che possono investire confermano fiducia in mattone liquidità e polizze: i pilastri per reggere l’urto della crisi. Emerge un leggero progresso nelle compravendite di case (+3,4 per cento rispetto al 2009). Nel primo trimestre del 2010 i mutui erogati sono aumentati del 10,1 per cento rispetto al 2008. Nel biennio è aumentata la liquidità delle famiglie (+4,6% i biglietti e depositi a vista, +10,3% gli altri depositi); nei primi 9 mesi del 2010 i premi per nuove polizze vita sono aumentati del 22 per cento su base annua. Fra le famiglie che pagano a rate, con mutui o prestiti, il 7,8 non ha rispettato le scadenze, mentre il 50 per cento ha faticato. Il

È Berlusconi l’icona e il simbolo della verticalizzazione del potere, di un ciclo cominciato 50 anni fa che oggi ha esaurito la sua potenza. Il singolo deve tornare a partecipare

Imprese ed export a picco: l’Italia è sempre più un paese per turisti Nel resto del mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali con l’auto-imprenditorialità. Ovunque, tranne che in Italia, dve crolla la componente del lavoro non dipendente: 437.000 imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 al 2009 (-7,6 per cento). L’Italia è anche il Paese europeo con il piu’ basso ricorso a orari flessibili nell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con piu’di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica e il 38% al lavoro di sabato. Ed è anche il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili (solo il 3 per cento contro una media europea del 14). Sebbene il nostro contributo alla produzione manifatturiera mondiale sia del 3,9%,

la quota italiana sui mercati esteri si assottiglia. Nei comparti produttivi più rilevanti, si registrano tra il 2000 e il 2009 flessioni assai significative. Come nel caso dei materiali per l’edilizia, dove l’indice di specializzazione registra 3 punti di flessione. Scende anche la quota dell’export dal 3,8% al 3,5%. Si registra una sostanziale stagnazione del commercio (le imprese crescono dell´1,4%, gli occupati dello 0,9%), dovuta alla forte contrazione del piccolo commercio al dettaglio. In crisi nera trasporti e logistica con una forte contrazione di imprese (-6,5%). Si salva il turismo (alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio) che cresce a livello di imprese e di occupati (+10,2%). Siamo quindi in piena deindustrializzazione.

21,8 punta sulla liquidità, mentre l’ 8,5 azzarda in borsa. Ma le famiglie devono fare i conti con i tagli della riforma Gelmini, supplendo di tasca propria per fare studiare i figli. La frequenza della richiesta del contributo volontario aumenta al crescere dei livelli scolastici: si va dal 34 per cento di scuole dell’infanzia all’85,6 dei licei. Ma sono le famiglie a supportare anche familiari in difficoltà e ammalati. Ad esempio, la spesa sostenuta da famiglie che assistono un malato di Alzheimer ammontano a un esborso medio annuo complessivo per paziente di più di 56mila euro. Le famiglie sono costrette a metter mano al portafoglio, dice il Censis, per le «carenze nell’offerta sanitaria e socio-assistenziale, tanto più gravi quanto più si considera il significativo numero di famiglie coinvolte».

si sulla dimensione più intima dei singoli e delle comunità» ed è «la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Solamente il desiderio non ci appiattisce al deserto tutto orizzontale su cui siamo via via franati, solo il desiderio «fornisce orizzonte progressivo alle pulsioni e può darci lo slancio per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata». Secondo De Rita è insomma il desiderio il fuoco da riaccendere per ripartire, per risuscitare l’ardore perduto, quel desiderio che sta perdendo forza a causa di una realtà socioeconomica «che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri covati per decenni se non per secoli – la casa e il suo arredo, la mobilità territoriale con auto e aereo, la frequenza della formazione e il titolo di studio, la vacanza e il tempo libero – e dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati». Insomma oggi all’inconscio, manca la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio e il desiderare, anche perché non è più riconosciuta alcuna potestas interiore o esterna per inibire o dilazionare il desiderio. «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria – dice dunque De Rita – per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita. Senza aver paura dei conflitti individuali, collettivi e istituzionali che un rinnovato vigore del desiderio può comportare: meglio il conflitto, oggi, che l’appagamento».


l’approfondimento

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Una riflessione sulle tesi di De Rita: forse finalmente può cominciare la Terza Repubblica

L’era del gioco di squadra Il cambiamento di rotta del Censis, che fino a qualche anno fa negava il declino della nostra società, è confortante. Ma ora è tutto più difficile. Importante per riprendersi è sapere che l’epoca del leaderismo paternalistico è finita di Enrico Cisnetto idare agli italiani il senso della loro responsabilità». È questo il messaggio politico più significativo dell’annuale Rapporto del Censis, che fotografa con efficacia lo “stato d’animo” «manca il desiderio» - di un Paese sfiduciato, appiattito, svogliato. Un’analisi molto condivisibile, quella di De Rita, quando considera ormai chiusa la stagione della Seconda Repubblica, e quindi del cosiddetto “berlusconismo”, morti, l’una e l’altro, per ragioni socio-culturali prima ancora che politiche.

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Il punto nodale è rappresentato dal fallimento del “leaderismo”, che De Rita considera figlio legittimo del “soggettivismo”, inteso come processo sociale “non governato” che per effetto del combinato disposto tra la deresponsabilizzazione prodotta dal leader politico che

assicura di pensare a tutto lui, e l’apatia del singolo, mette in crisi la società, sia nella sua accezione di comunità che di polis. L’appannamento della figura di Berlusconi – che del leaderismo ha fatto la sua arma vincente in politica – è proprio la conseguenza di questo processo, lento ma inesorabile, di crescente evidenza della contraddizione tra l’esplosione dell’individualismo so-

ciale (ognuno pensa per sé) e l’implosione del decisionismo da parte del leader cui tutto è stato delegato.

A mio giudizio era chiaro fin dagli albori che il nuovo sistema, sostitutivo di quello certo un po’ consociativo ma comunque efficace della Prima Repubblica, non avrebbe dato i frutti sperati. E a maggior

Il bipolarismo era basato sul confronto tra vecchia politica e un “discutiamo ma non decidiamo”

ragione mi fu chiaro in corso d’opera – su questa valutazione è nata Società Aperta – che il bipolarismo italico era basato sulla contrapposizione tra una vecchia modalità di fare politica e di governare il cui schema era sostanzialmente “discutiamo ma non

decidiamo” (centro-sinistra) e una modalità più moderna ma egualmente negativa all’insegna del “diciamo che decidiamo, ma non lo facciamo” (centro-destra).

Purtroppo il Censis di qualche anno fa, quello che negava il declino, aveva idee diverse da quelle di oggi, e anche per questo abbiamo dovuto attendere che tutto fosse più che evidente per dirci che bisogna voltare pagina. Solo che ora è tutto maledettamente più complicato. Un po’ perché siamo nel pieno di una crisi economico-finanziaria che rende le cose più difficili. Un po’ perché gli effetti di una politica che ha puntato tutto sulla raccolta del consenso per il tramite di un rapporto diretto con l’elettore (inteso come utente finale e non come cittadino), saltando le forze intermedie e chiedendogli continuamente cosa desidera per il trami-


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Il direttore dell’Aaster analizza i dati del Censis: «L’immobilismo ha spento la speranza»

«È un’Italia di tartarughe rassegnate a vivere in uno stagno» Aldo Bonomi: «Nessuno usi la crisi come la coperta di Linus, questo Paese è malato da decenni perché rifiuta ogni mutamento» di Francesco Lo Dico

ROMA. «I numeri del Censis quantificano ciò che è sotto gli occhi di tutti ogni giorno e ad ogni livello. Il sistema Italia è in stato di fallimento, vige l’immobilismo e le penalizzazione delle eccellenze, la politica latita e qualunque tentativo di rilancio viene affossato da un ostinato rifiuto del mutamento. La rabbia cede il passo alla rassegnazione: delle collettività, delle famiglie, dei singoli. Qualcuno parlerà di perversa spirale della recessione globale, ma la verità è che l’Italia è un paziente dalla prognosi riservata. Viviamo da troppo tempo nell’apnea di uno stato arcaico e arcaizzante. Nessuno utilizzi la crisi, che pure ha acuito i nostri problemi sistemici, come la coperta di Linus». Sociologo ed economista, direttore del Centro studi Aaster, Aldo Bonomi affida alle nostre pagine una dura disanima. Professore, il Rapporto del Censis sembra una specie di lettera di dimissioni. Gli italiani sono stufi di questo Paese. Molti non cercano più neanche lavoro. L’Italia è ormai un muro di gomma contro cui è rimbalzato di tutto. I singoli vedono infranti i propri desideri e non riescono nemmeno più a fare del proprio lavoro la base minima per affrontare le spese familiari. Le imprese tentano di competere nella sfida globale, e attendono da anni misure che le mettano in grado di reggere il confronto con le economie in ascesa. Le famiglie sono costrette a erodere i risparmi per fronteggiare le spese vive, far studiare i figli e assistere i propri malati. Tutto rimbalza contro un muro invalicabile che si chiama immobilismo e rifiuto del cambiamento. Come si è arrivati a tutto questo? La maggior parte delle colpe vengono dalla politica, incapace di indicare ai cittadini una direzione, un sacrificio in nome di qualche cosa, un obiettivo che non si riduca a mera propaganda elettorale. Il nostro Parlamento è immerso in

un clima rissoso e inconcludente che tralascia gli interessi reali del Paese per discutere delle proprie beghe di potere. Manca la fiducia. Che fare? I soldi e gli investimenti sono necessari, ma non sono l’unica emergenza. Ciò che più importa è attuare subito misure capaci di restituire fiducia a imprese e cittadini. Chi sarebbe disposto a darci fiducia, se noi per primi non ne abbiamo in noi stessi? Ma perché gli altri Paesi sono in ripresa, e noi invece continuiamo a inabissarci? Innanzitutto c’è l’enorme problema delle infrastrutture. Quelle che abbiamo sono per lo più carenti, quelle promesse non sono mai arrivate, e anche quelle fattibili vengono arrestate e

«La maggior parte delle colpe viene da una politica incapace di indicare una direzione al Paese» rimandate alle calende greche da una cultura del rifiuto a prescindere. Permane poi una concezione del lavoro antiquata e incapace di adeguarsi agli standard dell’economia globale. Un conto è tutelare i diritti del lavoro, un altro è arroccarsi in posizioni di scontro che cancellano anche il poco lavoro che il sistema è in grado di offrire in questo quadro di sviluppo deprimente.

Il Censis dice che l’Italia è un paese appiattito, che ha smesso anche di desiderare il futuro. Siamo stretti in una tenaglia che vede da una parte i giovani e dall’altra gli anziani. I lavoratori esperti tendono a rimandare la pensione e a fare da tappo perché la pensione presenta loro troppe incertezze e svantaggi palesi. I nuovi lavoratori sono invece all’inseguimento di mansioni economiche adeguate ai loro studi ma non ne trovano, molti si appoggiano alle famiglie alla ricerca dell’’occasione giusta, e succede che il poco lavoro che c’è rimane scoperto creando danni conseguenti in alcuni settori che pure sono stati e restano importanti per l’economia di questo Paese. Come resta decisiva l’evasione fiscale. Ci si deciderà mai a combatterla davvero? O c’è la tendenza a suggerire agli italiani: “arrangiatevi come potete”. Va combattuta senza se e senza ma, sfruttando le leggi che già ci sono. Il recupero di questi “fondi perduti”, riuscirebbe parecchio d’aiuto per dare sollievo a un’economia sorretta solo dai sacrifici di chi è onesto. Casa, liquidi e polizze. Gli italiani hanno pochi risparmi, e quei pochi che possono vanno sul sicuro. Con quali conseguenze? I tradizionali investimenti sicuri come la casa, o la priorità accordata alla conservazione dei risparmi hanno purtroppo l’effetto collaterale di non garantire la circolazione del denaro. Senza misure in grado di incentivare i consumi, le famiglie si chiudono nel guscio e diventano come le tartarughe. Costrette a inseguire il grado base della sicurezza, rassegnate a un’azione politica insignificante, sacrificano il coraggio e il desiderio di avvenire, e perciò finiscono per restare nello stagno.

te dei sondaggi, è un virus a rilascio lento ma pervasivo contro il quale non è facile produrre anticorpi. E un po’, infine, perché la rimozione delle macerie del crollo, in corso, del sistema politico, sarà un lavoro lungo e faticoso. «Bisogna ritrovare la voglia di mettere in gioco le proprie energie», dice il Rapporto del Censis. E facendo riferimento ai compito del (nuovo) ceto politico indica quello di «ridare agli altri il senso della responsabilità». Che tradotto significa che la politica deve tornare ad essere un gioco di squadra, perché la complessità dei problemi è tale da impedire a chiunque di potersi ergere a “decisore unico”, e che i cittadini devono tornare a d essere tali, evitando di dare deleghe in bianco.

Più facile a dirsi che a farsi. Ma pur sempre una strada priva di alternative. Il fatto che ora, secondo quanto certifica il Censis, quasi tre italiani su quattro ritengano che dare più poteri al premier o al governo non risolverebbe i problemi – dopo che con l’ubriacatura di qualche anno a favore del bipolarismo e del presidenzialismo, si era diffuso il pensiero opposto – è un segnale confortante per il lavoro che c’è da fare. Ma trattasi pur sempre di una premessa. Quello che occorre, ora, è che l’analisi preziosa del Censis sia analizzata e dibattuta soprattutto da quelle forze, interne ed esterne all’attuale circuito della politica, che hanno l’ambizione di costruire la Terza Repubblica. Non solo per capire che il consenso al progetto di costruzione di una nuova stagione nazionale si può conquistare solo se si riesce a sconfiggere il germe dell’apatia che si è diffuso nel Paese, ma anche per cogliere il senso e la porta del cambiamento che occorre saper realizzare. Un cambiamento che riguarda, certo, il sistema politico, gli assetti istituzionali, il personale politico. Ma che deve riguardare prima di tutto la mentalità collettiva del Paese, il pensiero diffuso. Se si vuole, sono i cittadini con il voto a poter determinare la cesura con un presente che si trascina da 16 anni, la cui definitiva archiviazione sarebbe letale procrastinare, ma è anche la politica che deve farsi carico di “ritrasformare” la società, ridandole quelle responsabilità che le sono proprie. Un grande progetto di rinascita dell’Italia, insomma. Difficile, molto difficile. Anzi, che oggi ci appare quasi impossibile. Ma così affascinante che merita di provarci. (www.enricocisnetto.it)


diario

pagina 6 • 4 dicembre 2010

Gli studenti anti riforma di nuovo contro il Senato ROMA. Alcune centinaia di studenti delle scuole superiori della Capitale e di tre istituti tecnico-commerciali di Frascati hanno bloccato venerdì mattina parte di Piazza Venezia a Roma per manifestare contro la riforma Gelmini. «Blocchiamo la riforma», «Studenti uniti contro tagli e privatizzazioni» e «È arrivata la Gelmini per la scuola dei cretini»: questi alcuni degli striscioni portati dai ragazzi. Davanti ai manifestanti, che si sono messi proprio ai piedi dell’altare della Patria, si è schierato un cordone di agenti di polizia in assetto antisommossa. Il corteo si è poi mosso verso Piazza Navona. Obiettivo: il Senato, «è lì che ora verrà discusso il ddl Gelmini»; spiegano alcuni dei ragazzi che sfilano. A bloccare l’accesso per raggiungere Palazzo Madama, dove i manifestanti volevano arrivare, due camionette dei Carabinieri e militari dell’Arma in assetto antisommossa. Alcuni studenti hanno acceso fumogeni rossi a piazza Navona.

Caso Yara, trovato giubbotto simile a quello della 13enne MILANO. Nella zona di Mapello, al confine di Brembate Sopra, è stato trovato abbandonato un giubbotto simile a quello di Yara Gambirasio, la 13enne bergamasca, scomparsa esattamente da una settimana. L’indumento è stato rinvenuto in seguito alla segnalazione di una donna che ha raccontato di avere visto gettare dal finestrino di un’auto in corsa un sacchetto sul tratto stradale che collega Brembate e Mapello, nei pressi del cantiere del centro commerciale dove si sono concentrate le ricerche degli inquirenti. Gli inquirenti non si sbilanciano: al momento non esistono elementi per affermare che si tratta del giubbotto indossato dalla giovane promessa della ginnastica ritmica. A distanza di sette giorni, comunque, manca ancora un vero sospettato. Non c’è alcuna novità, oltre al giubbotto sospetto, nessun indagato, al momento non esiste una pista privilegiata e ci sono pochi elementi certi da cui ripartire.

Carburanti, schizza la verde: un litro di benzina a 1,44 euro ROMA. Raffica di aumenti sulla rete carburanti. Alla pompa, la benzina supera 1,44 euro al litro, mentre il gasolio viaggia verso 1,33 euro, ai livelli massimi da maggio. Stando alla rilevazione della Staffetta Quotidiana, sul mercato del Mediterraneo c’è stata un’ennesima impennata dei prezzi dei prodotti raffinati. Il prezzo del gasolio in euro ha sfondato quota 500 per mille litri (l’ultima volta era successo il 9 ottobre 2008), mentre quello della benzina si è attestato a oltre 482 euro per mille litri, livello record dal 12 settembre 2008. Gli aumenti sono stati pari a circa 1,1 centesimi al litro sulla benzina e 0,9 sul gasolio. Con questi rialzi, ben pochi effetti può avere il lieve recupero dell’euro sul dollaro registrato giovedì. E così venerdì sulla rete carburanti si riversano gli aumenti che si sono susseguiti lunedì, martedì e mercoledì sul mercato del Mediterraneo.Tutte le compagnie hanno ritoccato i listini al rialzo seguendo la mossa di Eni.

I capigruppo Pdl alla Camera e al Senato chiedono un’audizione di Angelino Alfano sull’operato del ministro Conso

«La sinistra trattò con la mafia» Gasparri e Cicchitto attaccano sulla revoca del 41 bis nel ’92-’93 di Pietro Salvatori i riapre, con fragore, uno dei capitoli più bui nella storia della Repubblica italiana. Il Pdl, nelle persone dei capigruppo alla Camera e al Senato, ha infatti deciso di riprendere in mano i faldoni del rapporto fra lo Stato e Cosa nostra: le trattative Stato-mafia di inizio anni Novanta, nel caso ve ne fossero state, sarebbero state condotte da esponenti del centrosinistra. Lo hanno dichiarato Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera del Pdl e Maurizio Gasparri presidente del gruppo Pdl al Senato, nella Sala Nassiriya di Palazzo Madama nel corso di una conferenza stampa incentrata sulla vicenda della revoca del 41 bis a centinaia di mafiosi, attuata dal governo Ciampi nel 1993. «Chiediamo che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, venga ascoltato dalla commissione Antimafia in modo che siano ricostruite le vicende legate alle stragi del 1992-93», hanno spiegato i due esponenti del Popolo della libertà. E Gasparri ha aggiunto: «Si deve dare una spiegazione del fatto che i governi Amato e Ciampi di quegli anni revocarono o cancellarono le misure del carcere duro nei confronti di un centinaio di mafiosi. Dopo le rivelazioni dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso è calato il silenzio sulla vicenda». E mentre il centrodestra conduceva e conduce una ferma battaglia contro la criminalità, ha sottolineato Gasparri, «il centrosinistra deve spiegare le ragioni di quelle scelte inquietanti». I due capigruppo Pdl hanno anche chiesto l’audizione da parte della commissione Antimafia, degli ex capi di Stato, Scalfaro e Ciampi, dell’ex ministro del-

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Sulla vicenda dei rapporti fra le istituzioni e Cosa Nostra pesano le dichiarazioni di alcuni personaggi molto discussi dall’opinione pubblica. Come Massimo Ciancimino, che sostiene di aver visto e letto il “papiello” delle condizioni poste dalla mafia, o Spatuzza

l’Interno, Nicola Mancino e di Luciano Violante. «L’obiettivo è capire le preoccupanti inerzie che hanno visto come responsabili i governanti del tempo che nulla hanno a che spartire con Berlusconi o il governo attuale», ha osservato Gasparri. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Cicchitto che ha ricordato come «alla fine del 1993 Berlusconi fosse ben lontano dallo scendere in campo e anzi sperava che Segni e Martinazzoli creassero loro un partito politico». Insomma, ha spiegato il capogruppo Pdl a Montecito-

rio, «nel caso di eventuali trattative Stato-mafia il gioco lo avrebbe potuto svolgere solo chi era sul campo e stava al governo». E sulla vicenda Conso, a cui hanno fatto seguito tanti «non ricordo», Cicchitto ha attaccato: «Chissà cosa sarebbe accaduto se al posto dell’ex Guardasigilli ci fosse stato un esponente del centrodestra». Ma qual è stata l’esigenza dei capigruppo del Pdl in Parlamento di convocare in tutta fretta una conferenza stampa su questi temi? Siamo a metà novembre. L’un-

dici, per l’esattezza. Normale seduta di routine della commissione antimafia, che ha convocato in mattinata l’ex ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso. Di fronte ai parlamentari che lo ascoltavano, il guardiasigilli dei governi Amato e Ciampi ha sostenuto candidamente che fu una sua precisa decisione quella di non rinnovare il carcere duro ad un nutrito gruppo di detenuti per mafia al carcere dell’Ucciardone di Palermo. «Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Uc-

ciardone ed evitai altre stragi», sono state le esatte parole dell’ex ministro. Una dichiarazione che per certi versi ha destato scalpore, e che per altri è passata sottotraccia, in un momento nel quale la contingenza politica di una maggioranza in rapido sfaldamento ha occupato gran parte della cronaca quotidiana su tutti i media.

Prese singolarmente, le affermazioni di Conso sono il primo caso in cui un uomo di Stato si è assunto pubblicamente la responsabilità di un atto “distensivo” nei confronti di cosa nostra. Lo stesso ex ministro ha negato che la sua decisione rientrasse in una più ampia trattativa tra le istituzioni della Repubblica e le cosche mafiose: «Da parte mia – ha detto Conso – non c’è mai stato neppure il barlume di una possibilità di trattativa. Fu il frutto di una mia decisione, solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al Presidente del Consiglio, né al capo del Ros Mario Mori, né al capitano De Donno, nemmeno al Dap. C’era la necessità di mantenere il massimo riserbo. La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione». La speranza del guardiasigilli di due governi che dovettero far fronte ad una crisi sociale e politica senza precedenti dal secondo dopoguerra ad oggi, era quella che, allentando un poco la morsa su Cosa Nostra, questa potesse interrompere quella strategia stragista che stava destabilizzando non poco l’intero Paese. Il politico ottantottenne ha d’altra parte rivendicato un pieno successo per la sua iniziativa: «Ho fatto quel


diario Indagine Infinito: maxi sequestro dei beni della ’ndrangheta Ammontano a circa 15mln di euro i sequestri effettuati ieri mattina dal nucleo di polizia tributaria della Gdf di Milano, nelle province del capoluogo lombardo,Varese, Pavia, Bergamo, Como, Lecco, Catanzaro, Crotone,Vibo Valentia e Reggio Calabria. In particolare i militari delle Fiamme Gialle hanno sottoposto a sequestro 39 abitazioni, 37 box, 14 locali commerciali e 6 aree edificabili. I sequestri seguono gli accertamenti patrimoniali condotti nei confronti di oltre 160 arrestati, affiliati alla ’ndrangheta, insediati nel tempo nell’hinterland milanese. Si tratta degli arresti seguiti nella nota operazione “Infinito”condotta dal comando provinciale dei carabinieri di Milano. Nella mappatura del patrimonio immobiliare hanno collaborato, Scico della Gdf di Roma e gli uomini del gip di Milano. L’attività investigativa è stata delegata dalla direzione distrettuale antimafia della procura della Repubblica di Milano al Gruppo Investigativo Criminalità Organizzata della Gdf di Milano, organo di polizia economico-finanziaria specializzato nelle investigazioni patrimoniali di contrasto alla criminalità organizzata, ed è stata orientata, con il supporto del Servizio centrale investigativo criminalitè organizzata

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I giudici di Napoli la convocano per chiarimenti

Caso Cosentino, sentita la Carfagna della Gdf di Roma, a mappare il patrimonio immobiliare degli arrestati e a verificare la sussistenza dei presupposti per l’emissione di un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca. Secondo le norme antimafia, infatti, in caso di sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio accumulato, ove l’indagato di una serie di delitti molto gravi, tra cui l’associazione di stampo mafioso, non sia in grado di dimostrarne la legittima provenienza, l’autorità giudiziaria deve disporre la confisca dei beni sospetti. Le indagini sono state rivolte a dimostrare l’effettiva disponibilità degli immobili agli affiliati alla ’ndrangheta, anche se, spesso, intestati a familiari o prestanome.

di Giancristiano Desiderio che ho fatto per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio 1993 a Firenze, quelle del luglio 1993 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista». Tutto bene, dunque? Non proprio. Nella stessa udienza della Commissione, si sono sollevati i primi dubbi. Come faceva Conso a sapere dell’esistenza di una parte di Cosa Nostra attenta agli affari piuttosto che alla lotta contro le istituzioni? Da chi aveva saputo dell’esistenza di Bernardo Provenzano, all’epoca sconosciuto alla stampa locale e nazionale e poco considerato anche dagli investigatori? A domanda, Conso ha preferito non rispondere e tutelare dunque le proprie fonti. Quel che è bastato per riaccendere il dibattito e la polemica sulla gestione del periodo stragista. Ma occorre considerare altri due elementi.

Innanzitutto le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Secondo il figlio del’ex sindaco di Palermo, condannato per associazione mafiosa, nel 1992 il padre si incontrò proprio con Provenzano. Ciancimino, considerato uomo della mafia all’interno della Democrazia Cristiana, vide l’astro nascente di Cosa Nostra nell’ottobre di quell’anno, e con lui discusse del futuro della malavita in Sicilia e non solo. Se si considera che le polemiche che hanno investito Ciancimino jr. hanno ferocemente attaccato la tesi di fondo del pentito, secondo la quale tra il 1992 e il 1994 vi fu una vera e propria trattativa tra mafia e Stato, il pensiero che il livello di tali trattative si possa essere alzato fin al di dentro delle stanze di via Arenula è inevitabile. Detto esplicitamente, più di qualcuno ha letto dietro il riserbo di Conso sulle proprie fonti proprio il nome di Ciancimino. Tutte cose che fanno parte di un torbido passato sul quale fa-

re luce. Ma non solo. Al quadro vanno aggiunte le rivelazioni dell’altro pentito più chiacchierato degli ultimi mesi, Gaspare Spatuzza.

L’ex Guardasigilli sostiene di aver tolto il carcere duro ai mafiosi «per evitare stragi»

Secondo Spatuzza, infatti, gli interlocutori privilegiati di Riina e Provenzano furono gli uomini della nascente Forza Italia, nella persona, ovviamente, di Marcello Dell’Utri. Uno scambio di merci molto semplice: pace sociale e voti per il costituendo partito in cambio di un occhio di riguardo da parte del governo. Una tesi forse spericolata, in un momento, quello tra la fine del ’92 e l’inizio del ’93, nel quale nulla si sapeva delle reali prospettive di un movimento che non era ancora chiaro se avrebbe o meno visto la luce. Ma della quale non si può, almeno giudizialmente, non tenere conto. La triangolazione tra le ammissioni di Conso, e le teorie complottistiche di Ciancimino e Spatuzza, hanno riportato nuovamente al centro della ricostruzione storico-giudiziaria di quegli anni confusi l’eventualità di una trattativa tra Berlusconi e Cosa Nostra. Per questo, anche alla luce delle rivelazioni fatte dall’ex ministro di Giustizia, Giovanni Conso, Cicchitto e Gasparri hanno sollecitato la convocazione in Commissione Antimafia degli ex presidenti della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi che proprio nel 1993 era presidente del Consiglio, Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno e Luciano Violante, a capo della Commissione Antimafia. Sono queste le figure istituzionali con le quali la mafia poteva trattare, secondo Cicchitto, non certo personaggi della società civile che ancora nulla avevano a che fare con la stanza dei bottoni. Inoltre, è l’opinione di Gasparri, se delle responsabilità ci sono state, sono da imputare a governi di transizione, come quelli Ciampi e Amato, che se non di centrosinistra, di certo non erano riconducibili al centrodestra. Insomma, se trattativa veramente vi fu, l’entrata di Berlusconi a palazzo Chigi non solo non ne fu il frutto, ma al contrario contribuì a interromperla.

ara Carfagna colpisce ancora. Questa volta il ministro è stato ascoltato in Procura a Napoli e c’è da giurarci che i pm Narducci e Milita per un’inchiesta e Woodcock e Curzio per un’altra indagine sull’eolico le abbiano fatto più di qualche domanda su quanto la “persona informata sui fatti” dovrebbe sapere sull’ex collega di governo e tuttora collega di partito Nicola Cosentino. Le due inchieste, infatti, sembra che ruotino intorno alla figura del coordinatore regionale del Pdl in Campania.Tuttavia, qui la notizia non è Cosentino, ma la Carfagna. Perché questa storia dell’annunciata uscita dal governo, dell’abbandono del Pdl con le relative critiche mosse dal ministro a Cosentino e alla politica del partito di Berlusconi in Campania è davvero curiosa. Infatti, tanto per riepilogare: dopo lo scontro con Cosentino - tramite il botta e risposta con la Mussolini definita dalla Carfagna né più né meno che una vajassa - e con lo stesso Pdl, visto come un partito in cui ci sarebbe in corso“una guerra tra bande”, la Carfagna era di fatto uscita dal Pdl, ma un colloquio con lo stesso Berlusconi ha risolto come per incanto tutto. La questione politica è subito rientrata. Ma la questione giudiziaria no. E così il ministro è andato in Procura e, si potrebbe dire, la “guerra tra bande” continua. La Carfagna ha sempre fatto professione di garantismo. Il suo partito di provenienza, Forza Italia, non le poteva consentire una diversa posizione. Eppure, quando un avversario politico incappa in problemi di carattere giudiziario c’è sempre la tentazione di mischiare insieme politica e giustizia per raccogliere i frutti della debolezza dell’avversario. Cosentino, pur militando nel medesimo partito della Carfagna, è un suo avversario politico. Sia le elezioni regionali, sia il voto di primavera per il comune di Napoli hanno visto Nicola e Mara “l’un contro l’altro armati”. Il ministro ha fino all’ultimo resistito alla tentazione di giocare la carta giustizialista, ma la sua clamorosa decisione, poi rientrata, di uscire dal governo e lasciare il Pdl è un aspetto della politica giustizialista condotta contro Cosentino all’interno del Pdl. Se è vero che i panni sporchi si lavano in famiglia, la Carfagna ha scelto di risciacquarli un po’ in piazza.Tuttavia, come per magia si è fermata e ha riportato i panni in famiglia. A questo punto, però, i magistrati ne hanno voluto sapere legittimamente di più. Le critiche del ministro verso il suo stesso partito e verso Cosentino sono state radicali e senza appello. Il suo dietrofront è parso a tutti come una nota stonata. Come è possibile che la Carfagna e Cosentino possano convivere senza colpo ferire nello stesso partito e nella stessa regione? Oltre a parlare con i magistrati, il ministro dovrebbe dire qualcosa anche agli italiani e ai cittadini di Napoli e della Campania. La gestione dei termovalorizzatori (ancora inesistenti) e dei fondi (150 milioni di euro) sembra essere stata al centro dello scontro interno al Pdl, ma è proprio su questo che ora proprio il ministro avrebbe il dovere di dire parole chiare: se è cambiata la sua posizione e sono mutate le sue decisioni, allora, sono cambiati anche i fatti che avevano mosso la sua indignazione? È bene essere chiari non solo con i magistrati, ma anche con i cittadini.

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politica

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Rimozioni. L’area della responsabilità deposita alla Camera il documento contro l’esecutivo sostenuto da 85 firme

Dalla Russia con livore Berlusconi difende l’asse con Putin e attacca il Terzo Polo. Ma Fini: «Il 14 cambierà tutto» di Errico Novi

ROMA. Sorride. Molto più del solito. Berlusconi ha Medvedev a fianco e gli regala un ammiccamento che, in giorni come questi, vale più di mille strette di mano: «Con il presidente russo c’è un rapporto di sincera stima e profonda amicizia». L’unica certezza, e anche l’unico conforto che resta al Cavaliere in questa fase turbolenta, è dunque il rapporto con Mosca. E anzi la visita al potente alleato, il summit di Soci, il viaggio in ovovia con Medvedev e Putin, sembrano regalare a Berlusconi qualche ora di distacco dalla cruda realtà dei numeri. Quella che l’attende in Italia, e che prende forma poche ore dopo con la mozione di sfiducia presentata dall’area della responsabilità. Le firme sono 85. Bocchino fa notare che basta «sommarle alle 230 del documento di Pd e Italia dei valori per capire che i nu-

prattutto su report e dispacci che lo descrivono stanco, malato e logorato dai wild parties, il premier impone il bollino del «gossip». Sulle sue relazioni con la Russia, compresi gli accordi sul dossier energia, dichiara: «Non c’è mai stato in questi anni un solo interesse personale, mai in nessuna occasione, tutti abbiamo lavorato nell’interesse dei rispettivi Paesi». Nulla di rilevante dunque.

Eppure al Cavaliere scappa una battuta rivelatrice: il caso di Wikileaks costituisce «un grave infortunio» che però non cambia «i rapporti tra gli Stati». Ma allora vuol dire che non si tratta di notizie irrilevanti, e nemmeno che queste non attestino un qualche tipo di difficoltà tra le diplomazie. «Giudizi certamente fastidiosi ai quali però non bisogna attribuire soverchia im-

Il presidente del Consiglio liquida i dispacci di Wikileaks come «gossip». E nelle intese con Putin «non ci sono mai stati interessi personali, solo il lavoro per il bene dei rispettivi Paesi. Letta? Non è ambiguo» meri per una nuova maggioranza ci sono». Non solo, perché nel testo depositato da Udc, Fli, Mpa e Api sono enunciate poche, secche critiche al governo, alle quali il premier sembra saper rispondere solo con le battute («il terzo polo è una bufala»). Vi sui legge che la crisi economica e «il malessere sociale di ampie fasce della popolazione» richiederebbero «la piena operatività di un governo solido e sicuro». E che invece quello attuale è inadeguato a garantire «oltre alle misure di contenimento del deficit, il risanamento strutturale della finanza pubblica e il sostegno della ripresa economica e dell’occupazione».

È un terreno sul quale ormai il presidente del Consiglio non cerca più il confronto. Pesano gli stop ai provvedimenti che avrebbero dato attuazione ai cinque punti, a cominciare dall ddl sulla giustizia e dalla terra di nessuno in cui si è subito arenata la riforma fiscale. Non è materia per Berlusconi, questa. Lo sono casomai le insinuazioni dei cable di Wikileaks. Su quelli, so-

portanza», è la valutazione di Berlusconi. Nel frattempo però i suoi parlano di una «manina» che starebbe selezionando le notizie (vedi Capezzone), e comunque del tentativo di «destabilizzare il governo». Silvio dà l’impressione di volerci passare su confortato dalla solidità del rapporto con Mosca. Anche rispetto alle informazioni diffuse a proposito di Gianni Letta: «È falso dire che è ambiguo, è la persona più limpida e leale che si possa immaginare». Contemporaneamente nel suo partito cresce il volume del mormorio che ipotizza la nascita di un nuovo esecutivo guidato proprio dal sottosegretario alla presidenza. E persino il fedelissimo Cicchitto sembra non covare assoluti pregiudizi verso l’idea di un Berlusconi-bis – eventualità che suona già come una bestemmia alle orecchie del Cavaliere – quando, interrogato

La mozione di sfiducia

Un nuovo governo per salvare l’Italia a Camera dei Deputati, preso atto che la delicata situazione internazionale, la crisi economica e monetaria che aggredisce l’Europa e lo stato di malessere sociale di ampie fasce della popolazione italiana richiedono la piena operatività di un governo solido e sicuro; alla luce della attuale inadeguatezza dell’esecutivo a garantire, oltre alle misure di contenimento del deficit, il risanamento strutturale della finanza pubblica e il sostegno della ripresa economica e dell’occupazione; auspicando l’avvio di una nuova fase politica della legislatura ispirata al senso di responsabilità nazionale e istituzionale, che punti a modifiche della legge elettorale per restituire la scelta degli eletti ai cittadini, con un governo capace di prendere le misure adeguate per evitare il declino del Paese e garantire il suo futuro civile ed economico; esprime, ai sensi dell’art. 94 della Costituzione, la sfiducia nei confronti del Governo.

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sul tema, risponde: «Inutile parlare di cose a cui mancano i presupposti».

A Soci c’è tempo e modo per divagazioni calcistiche, con un’impennata d’orgoglio del premier secondo il quale «se la Russia si è vista assegnare i Mondiali del 2018, una piccola parte di merito spetta anche a noi», cioè all’Italia, perché «abbiamo votato a favore e abbiamo convinto i nostri amici». Ma il nodo è il 14: che

scattare» in modo che lo stesso terzo polo possa essere «arbitro della situazione scegliendo l’alleanza con la sinistra per il governo».

Fini risponde a stretto giro. Negli stessi minuti in cui la mozione di sfiducia viene depositata alla Camera, spiega che «è ridicolo dire, come fa Berlusconi, che quest’area di responsabilità è alleata alla sinistra». E poi «prima di dire che chi non la

Fini replica: «Ridicolo affermare che chi non sta con lui è un traditore, il premier si chieda perché tanti nel centrodestra dicono che non si può andare avanti così. Non ci saranno le elezioni, il 14 cambierà tutto» succederà? «Si va avanti, sarebbe da irresponsabili far cadere il governo». E appunto l’idea che possa esserci una maggioranza alternativa di 317 deputati, grazie anche alla mozione del terzo polo ,«è una bufala: do appuntamento a tutti il 14 dicembre, sono determinato a continuare». L’area della responsabilità? Piccoli partitini, dice, «il terzo polo è esile nei numeri ma certamente smisurato nelle ambizioni». Fino a una sorta di illuminazione politologica con cui Berlusconi sembra esercitarsi già per la campagna elettorale: «Vogliono cambiare il sistema di voto e introdurre un tetto al premio di maggioranza per non farlo

pensa come lui è un traditore» il presidente del Consiglio dovrebbe riflettere sulla ragione che spinge «molta parte del centrodestra a sostenere che così non si può più andare avanti». I numeri sono numeri, e l’ex leader di An si dice convinto «che non si andrà a votare e che l’Italia non continuerà come oggi». Cambierà tutto, ne è sicuro Fini. Perché la trasformazione in atto «ha una forza tale che spazzerà i tatticismi e le meline di questa fase». Sui tempi e sui modi, «è chiaro che nel momento in cui il governo è sfduciato o si dimette, è il Capo dello Stato che sa cosa deve fare, nel rispetto della Costituzione».

Non maramaldeggia su Wikileaks, Fini. Si limita a dire che «ho mosso tante critiche a Berlusconi esprimendo la mia opinione, ma quando il mio Paese


politica

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Dal vertice bilaterale Italia-Russia a Sochi nuovi affari e tante smentite

Medvedev: «Grazie a lui rapporti superlativi» La presidenza di South Stream nel 2008 fu offerta a Prodi: «Se avessi voluto fare soldi avrei accettato, ma dissi di no» di Enrico Singer e Hillary Clinton, appena tre giorni fa, lo aveva definito «il nostro amico migliore», ieri Dmitri Medvedev è andato ancora più in là. Grazie a Berlusconi, i rapporti tra Russia e Italia «sono arrivati a un livello superlativo in tutti i settori, da quello economico a quello strategico». Pronunciate sotto il cielo grigio di Krasnaja Poljana, sulle montagne che dominano la cittadina di Sochi, sul Mar Nero, a conclusione del vertice bilaterale, queste parole del presidente russo sono la risposta del Cremlino al ciclone Wikileaks. Altro che affari opachi e interessi personali: tra Mosca e Roma soltanto «accordi nell’interesse dei due Paesi», come gli ha fatto eco Silvio Berlusconi. La diplomazia ufficiale, per di più quella al massimo livello, reagisce così alle rivelazioni dei report riservati spediti dai diplomatiici americani al Dipartimento di Stato e finiti su internet. Naturalmente, Medvedev non si lascia sfuggire l’occasione per un attacco a Washington e dice che quei cablogrammi «mostrano il cinismo delle valutazioni dei diplomatici americani» che hanno, sì, il «diritto di fare le loro considerazioni», ma che rischiano di «danneggiare la politica estera e la fiducia tra Stati una volta che sono rese pubbliche». Chissà come avrebbe reagito Medvedev se Wikileaks fosse riuscita a intercettare e a mettere in rete i dispacci riservati che arrivano a Mosca dalle sedi diplomatiche russe sparse per il mondo. C’è da scommettere che non sono meno imbarazzanti di quelli americani. Lo ha ammesso con una battuta lo stesso presidente russo: «Anche altri Paesi non sarebbero contenti leggendo i giudizi dei nostri ambasciatori sugli altri leader». Ma Julian Assange - almeno per ora ha preso di mira soltanto il Dipartimento di Stato Usa e il Cremlino ha buon gioco nel reclamare il rispetto delle regole.

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è sotto attacco lo difendo sempre». Anche se qui non si può parlare di attacchi, casomai di «valutazioni delle diplomazie mondiali». Quello che è certo però è che «con questi chiari di luna non si può chiedere il voto». E qui di fatto Fini sfida Berlusconi su un terreno concreto di responsabilità di governo, perché fa riferimento ai «120 miliardi di euro in titoli che l’Italia deve mettere sul tappeto»: come si può «andare verso la campagna elettorale?». Tutti si assumano le loro responsabilità, dice il presidente della Camera, che aggiunge anche di non avere assolutamente idea di abbandonare lo scranno più alto di Montecitorio nel caso in cui la legislatura dovesse continuare. E su questo anzi Fini ha una sostanziale certezza: «Il Parlamento tra qualche giorno testimonierà quello che tutti sanno, e cioè che il governo non c’è più o non è in grado di governare». Perché sarebbe «bizzarro e autolesionistico» pensare «di salvare per il rotto della cuffia il Paese che, piuttosto, va governato».

Il presidente della Camera Gianfranco Fini. In alto Silvio Berlusconi, che ha incontrato al vertice dell’amicizia tra Italia e Russia che si è svolto a Soci il presidente russo Dmitri Medvedev. A destra il primo ministro di Mosca Vladimir Putin. Sotto accusa i rapporti privati. Nella pagina a fianco il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini

Smentite, polemiche e precisazioni a parte, il vertice bilaterale tra Russia e Italia - che arriva a quattro giorni da quello Ue-Russia del prossimo 7 dicembre - ha confermato lo speciale rapporto, soprattutto economico, che Berlusconi si è guadagnato con Putin che, finita la parte ufficiale dell’incontro tra le delegazioni, è sbarcato dal suo elicottero a Sochi per salutare l’«amico Silvio» e visitare l’ultimo gioiello della cooperazione tra l’industria aeronautica italiana e quella russa. Il “Superjet 100”, frutto di una joint-venture tra l’Alenia Aeronautica e la Sukhoi, è un aereo da cento posti che sarà utilizzato sulle medie distanze - finora ne sono stati ordinati già 155 esemplari - e ieri faceva bella mostra di sé sulla pista dell’aeroporto della cittadina di vacanze sul Mar Nero. Poco prima, alla presenza di Medvedev e di Berlusconi, l’amministratore delegato di Poste Italiane, Massimo Sarmi, e il direttore generale di Russian Post, Alexandr Kiselev, avevano firmato un accordo commer-

ciale per l’ammodernamento dei 40mila uffici postali russi che sarà realizzato con tecnologie e know-how italiani per l’introduzione di servizi finanziari e di telefonia mobile che, attualmente, le Poste russe non forniscono.

Poco si è parlato a Sochi, e ancora meno si è pubblicamente detto, del business più grosso che è in ballo tra Russia e Italia: il gasdotto South Stream. Proprio quello che è stato al centro della rivelazione più clamorosa di Wikileaks che ha pubblicato il dispaccio dell’allora ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, che nel 2008, riferendo una confidenza del suo collega georgiano, avvertiva il Dipartimento di Stato che «Putin ha promesso a Berlusconi una percentuale sui profitti di ogni gasdotto sviluppato da Gazprom insieme con l’Eni». Nella conferenza stampa conclusiva del vertice, Silvio Berlusconi ha detto testualmente: «Posso dare la garanzia assoluta che nei rapporti tra

Italia e Russia, ed anche nei miei rapporti personali con Putin, non è stato mai perseguito un interesse personale». Resta il fatto che la strategia di Mosca per South Stream ha seguito, sin dall’inizio, lo stesso schema utilizzato per North Stream (la pipeline gemella diretta dalla Russia alla Germania sotto il Mar Baltico) la cui presidenza è stata assunta dall’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, Gerhard Schroeder. Già nel 2008 la presidenza di South Stream era stata offerta da Putin a Romano Prodi. «Se avessi voluto fare soldi, avrei accettato, ma gli ho spiegato che è meglio che un politico non lavori a un progetto che ha contribuito a realizzare quando era in carica», ha detto l’ex premier italiano in un’intervista all’agenzia di stampa francese Afp il 16 marzo scorso, rivelando che la trattativa c’era realmente stata. Per il momento la South Stream Ag - aspettando che il progetto decolli - è una piccola società di diritto svizzero basata nel cantone di Zug con un capitale sociale di appena centomila franchi ed è amministrata da due professionisti - Ivo Johannes Bechtiger e Beat Badertscher - entrambi di Zurigo. In attesa di diventare una major dell’energia e di trovare un presidente. Che, per usare la formula di Prodi, «abbia voglia di fare soldi».


economia

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Auto. Secondo l’azienda «non ci sono più margini di trattativa» e speranze riposte nella convocazione di tutti i sindacati al tavolo di Mirafiori sono sfumate ieri, dopo che l’accordo fra l’azienda e i rappresentanti delle sigle sindacali non hanno trovato l’accordo sui contratti. E quello che veniva presentato come “un nuovo modello” dopo il fallimento di Pomigliano deve essere ripensato. Al termine di una riunione ristretta con i sindacati, che si è svolta ieri presso l’Unione industriale di Torino, la Fiat «ha preso atto che non esistono le condizioni per raggiungere una intesa sul piano di rilancio dello stabilimento di Mirafiori». Mentre il Fismic ha confermato la sua disponibilità a sottoscrivere l’intesa (così come l’Ugl), la Fiom, la Fim e la Uil si sono riservate una decisione. L’interruzione è avvenuta su un punto nodale, il contratto: «La cornice contrattuale della joint venture creata per Mirafiori nell’ultimo passaggio non prevede alcun riferimento all’accordo nazionale».

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E questo ha spinto non soltanto la Fiom ma tutte le altre sigle sindacali presenti al tavolo a «dover riconsiderare» la proposta. «Si conferma che il modello Pomigliano, proposto anche per lo stabilimento di Mirafiori, punta a superare il contratto nazionale, a cancellare i diritti dei lavoratori e ad affermare in Italia un modello aziendalistico e neocorporativo» ha detto il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini. «Abbiamo provato a sbloccare la situazione - ha commentato a caldo Roberto Di Maulo, segretario generale Fismic -, ma Fiom, Fim e Uilm si sono riservate di decidere assumendosi una responsabilità gravissima. L’azienda ha detto che non accetta riserve e riferirà a Marchionne che non ci sono le condizioni per concludere il negoziato. La trattativa è chiusa». Spiega invece Bruno Vitali, responsabile nazionale della Fim: «Ci siamo riservati per il contratto nazionale, che noi

Mirafiori, salta il tavolo della Fiat Alla base del fallimento il contratto, che non si basa su quello nazionale di Massimo Fazzi

Sergio Marchionne, l’italo-canadese amministratore delegato del Lingotto. In basso, lo stabilimento Fiat di Mirafiori dove ieri è saltato il tavolo di confronto crediamo vada applicato anche nella joint venture per Mirafiori. Su questo le posizioni si sono irrigidite e la trattativa si è interrotta. Ora siamo sul fi-

Fiat deve pensarci bene». «La prima cosa da fare ora è parlare lunedì con i lavoratori, per questo chiederemo alle altre organizzazioni di convocare

Fismic e Ugl: «Pronti a firmare l’intesa». Ma Fiom, Fim e Uil (dopo un iniziale assenso) fanno un passo indietro. Sacconi: «Molto preoccupato» lo del rasoio ma anche Fiat lo è perchè la partita è troppo importante per farla sfuggire in questo modo. Noi faremo le valutazioni al nostro interno ma anche la

subito le assemblee - ha detto invece il segretario generale della Fiom torinese, Federico Bellono -. Già alla luce di quanto emerso ieri sera era chiaro che non c’erano le con-

dizioni, tutte le nostre richieste sono state rigettate e l’unica novità vera di oggi è stato un ulteriore peggioramento sul contratto nazionale. Il nostro giudizio, già critico, non può quindi che essere confermato e rafforzato». A rendere complicata la trattativa è stato, dunque, il contratto ad hoc proposto dalla Fiat per la joint-venture con Chrysler.

Se giovedì sera, infatti, l’azienda aveva fatto sapere che il contratto specifico per Mirafiori

avrebbe fatto riferimento al contratto nazionale di categoria per quanto riguarda il fondo pensione Cometa, le ferie, i permessi retribuiti e le festività, oggi, alla ripresa del negoziato l’azienda, a quanto si apprende, avrebbe evitato qualsiasi collegamento con il contratto collettivo. Durissima la reazione di Roberto di Maulo della Fismic: «Fim e Uilm si sono assunte una responsabilità gravissima che contraddice il percorso fatto da Pomigliano in avanti» dice il sindacalista che si era dichiarato pronto a firmare anche da solo. Anche il leader delll’Ugl Antonio D’Anolfo, che voleva firmare, chiede «di riprendere nel piuù breve tempo la trattativa scongiurante un devastante destino per il sito di Mirafiori e per tutto il territorio piemontese».

La Fiom invece, che sembra uscire dall’isolamento grazie alla ritrovata unità d’azione contro il contratto “Mirafiori” con Fim e Uilm ribadisce le buone ragioni della sua opposizione: «Ciò che chiede Fiat si può fare nel rispetto delle leggi e del contratto nazionale».Preoccupato anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, secondo cui «l’investimento ipotizzato da Fiat per lo stabilimento di Mirafiori è talmente importante per il futuro dei lavoratori, del territorio, dell’intero gruppo e dell’economia italiana da meritare la ripresa del dialogo tra le parti con priorità di attenzione a quegli aspetti sostanziali che consentono la piena utilizzazione degli impianti con i conseguenti incrementi retributivi detassati». «Ciò richiede aggiunge il ministro in una nota - l’abbandono di ogni pregiudizio e di ogni rigido formalismo da parte di tutti per ricercare ciò che unisce nel nome del lavoro e dell’impresa. Faccio appello alla responsabilità di tutti gli attori del negoziato affinché intelligenza ed esperienza conducano a far prevalere il bene comune».


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

PILLOLE

di Pier Mario Fasanotti a musica è insolitamente sempre la solita, nel senso che oscilla tra due poli assai distanti. Dicono di noi gli stranieri: cialtroni, servili, disorganizzati, chiassosi, inaffidabili, a volte molto volgari, mafiosi. Ma anche: inventivi, geniali, colti, ricchi di umanità, simpatici, anticonformisti. Questo dipende molto dall’immagine che l’Italia, a seconda dei periodi, offre di sé all’estero. Se con il fascismo eravamo diventati quasi una caricatura, con gli ultimi governi abbiamo davvero acquisito cattiva nomea e facilmente siamo accusati di essere maniaci del sesso, barzellettieri, affaristi corrotti, insomma non degni delle pagine più belle e limpide del nostro passato (antica Roma, Rinascimento, ecc.). Significativa la copertina dedicata da Newsweek a Berlusconi: in bella mostra due gambe femminili. La versione giapponese è ancora più cruda: il premier La Fallaci che guarda in alto, verso una ragazza in micommuoveva nigonna che

L

Opinioni doc per conoscerci meglio

si davanti al tricolore, Montanelli rimpiangeva un Paese che non c’era più, Croce deplorava i moralisti da caffè… Nell’anno del 150° anniversario dell’Unità, una divarica le gamraccolta di 43 giudizi be. «Saranno ricordad’autore te come il nuovo luogo co-

D’ITALIANITÀ Parola chiave Rabbia di Gennaro Malgieri Il nuovo inizio di Fergie & Co. di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Pietas e riscatto nei Sepolcri di Foscolo di Roberto Mussapi

Nostalgia di Walter Matthau di Orio Caldiron Tutti i déjà vu del nichilista Woody di Anselma dell’Olio

mune italiano nel mondo. Come la P 38 sugli spaghetti dello Spiegel negli anni di piombo» dice Beppe Severgnini. Se i poli di opinione all’estero sono sempre quelli (tutti molto negativi e qualcuno positivo) tutto s’ingarbuglia quando siamo noi stessi a interrogarci sull’italianità, all’affannosa e contorta ricerca di elementi comuni. Ciò in ogni caso conferma il nostro essere un popolo complesso e variegato. Un popolo che s’inalbera con stizza se viene insultato. Come dire: noi, solo noi, siamo autorizzati a parlare male del nostro carattere, ma guai se lo fanno gli altri. I più avveduti s’interrogano. Come hanno fatto Filippo Maria Battaglia e Paolo Di Paolo nel libro edito da Laterza (Scusi, lei si sente italiano?, 181 pagine, 15,00 euro). È una ragionatissima raccolta di opinioni, con buona pace di Benedetto Croce che (nel 1912 sulla Voce) s’innervosiva dinanzi a certi «moralisti da caffè o da farmacia», pronti ad «annunziare e dimostrare che l’Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire economicamente o dissolversi nella corruttela».

Montagne sacre tra cielo e terra di Guglielmo Bilancioni


pillole d’

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italianità

Viva l’Italia… (bene o male) ome ogni ricorrenza, anche quella dei 150 anni di unità d’Italia solleva ignoranze, diffidenze, sorprese, e pure un po’ di noia per l’inevitabile patina retorica di certe ricostruzioni storiche. In ogni caso è occasione per riflettere su ciò che sta dietro il glorioso e contradditorio lavorio che ha portato lo stivale a diventare nazione. L’italianità, il senso di appartenenza. Carlo Fruttero e Massimo Gramellini, nel libro La patria, bene o male. Almanacco essenziale dell’Italia unita in 150 date (Mondadori, 330 pagine, 12,00 euro) hanno voluto allontanarsi dal grigiore della storia insegnata a scuola. Un po’ come fecero decenni fa Montanelli e Cervi. Brevi e argute zoomate sulle giornate importanti del Risorgimento, senza la paura di imbrattare gli ideali con semplici, e divertenti, cronachette. Dicono gli autori: «Non sembra il caso di suggerire ai nostri lettori di non aspettarsi i grandiosi affreschi di Tucidide o Tacito, di Machiavelli o Gibbon.Tutti sanno che non siamo storici e non avremmo comunque il mestiere e il genio per guardare a tali altezze. Ma da quei maestri una lezione l’abbiamo pur appresa: la Storia obiettiva, la Storia imparziale, la Storia definitivamente veritiera non esiste, può essere soltanto un’aspirazione, una meta intravista e irraggiungibile». Ugualmente accattivante, oltreché ben documentato, è il libro di Aldo Cazzullo Viva l’Italia! (Mondadori, 150 pagine, 18,50 euro). Il sottotitolo recita così: «Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione». Cazzullo narra l’Italia in modo preciso e impietoso, in un momento in cui si moltiplicano le avvisaglie di una crisi non passeggera. Il giornalista-saggista del Corriere della Sera afferma che l’outlet è «metafora dell’Italia in svendita, della mercificazione dei valori, del degrado dei valori umani». Saremo anche un popolo dalle mille risorse, ma siamo anche quello che ha tre regioni in mano alla criminalità organizzata, un Paese dove la politica è spesso mezzo per far soldi e macchina di scandali, un Paese dove carabinieri e polizia sono sempre visti «come nemici al soldo di uno Stato ostile». I segnali s’infittiscono. E intristiscono. «In nessun Paese è così netta la separazione tra ricchezza e cultura: i ricchi sono spesso ignoranti, le persone colte spesso sono povere». La preparazione non

C

Indubbiamente un buon profeta, il filosofo napoletano. Così come era genialmente sprezzante, sessant’anni dopo, Giuseppe Prezzolini quando s’occupava di un Paese che «fa compassione e disperazione», chiedendosi, alla fine: «Chi sarà il becchino dell’Italia?». C’è in effetti, ed è un leitmotiv, il timore dello sfascio. Salvo sorprendersi, poi, che ce la possiamo fare come è avvenuto dopo più visibili e tragiche catastrofi (la guerra). Comunque l’interrogazione su noi stessi è un gioco tormentoso, è la mente che s’interroga sulla propria struttura. Pare quasi un percorso ontologico, o metafisico. Difficile, o forse impossibile, spiegare questa accanita auto-vivisezione. Lo notava anche Leonardo Sciascia, con il suo acume: «Gli italiani… così ossessivamente s’interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nella consapevolezza che non è colpa dello specchio se i loro nasi sono storti». Sempre Sciascia, manzoniano convinto, vedeva in un passo del grande romanzo «un disperato ritratto dell’Italia». In un articolo del 1985 sul Corriere della Sera ricordava ciò che Manzoni sosteneva, ossia che il Renzo che irrompe nella casa di Don Abbondio e «ha tutta l’aria dell’oppressore, eppure alla fin de’ fatti, era l’oppresso». Specularmente l’«assediato» e pavido Don Abbondio «parrebbe la vittima, eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso». I misteri caratteriali degli italiani sono, come si vede, cosa difficile.

La complessità dei giudizi aumenta se si considerano le varie immagini, o desideri, che noi abbiamo del nostro Paese. Oriana Fallaci non nascondeva la commozione dinanzi al tricolore e alle memorie patrie, ma faceva un distinguo: «Naturalmente la mia Patria, la mia Italia, non è l’Italia di oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’anni…. l’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene…». Lei amava l’Italia «seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest’Italia, un’Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade». «Mi sento profondamente italiano» ammette il anno III - numero 44 - pagina II

è premiata, la cultura non paga. La desolante cronaca degli ultimi tempi mostra impudicamente quel che avviene: «mercimonio tra sesso e fama televisiva o seggio parlamentare». Una parte della politica sbraita. È la Lega. Che, secondo Cazzullo, «recupererà la parola d’ordine delle origini: secessione». Magari non giuridicamente, ma Bossi e i suoi fedeli col fazzoletto verde sempre ben ostentato sono una minaccia all’unità d’Italia. Cazzullo contesta il carattere «nordico» della Lega, che definisce «il più mediterraneo dei partiti», governato dalla legge dell’amicizia e del rapporto personale con il capo. Gioca e agisce con le corporazioni. «La Lega è la risposta sbagliata, non all’altezza delle sfide della modernità, a una domanda giusta: la protesta contro uno Stato oppressivo e inefficiente, la rivendicazione di una specificità economica e culturale, il rifiuto di una globalizzazione senza regole e di un’immigrazione senza controlli». Che cosa direbbero gli eroi di Cefalonia e i partigiani che scrivevano alle famiglie «domani mi impiccano ma ce la faremo a costruire un Paese migliore»? Viene in mente il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Un ufficiale fascista gli chiedeva: «Cosa farete dell’Italia, ragazzi?». Lui rispondeva così: «Una cosa alquan(p.m.f.) to piccola, ma del tutto seria».

critico letterario Cesare Garboli. Il quale però si sente avvilito all’estero a tal punto da immaginare di voler essere rappresentato, semmai, da De Gaulle. E così continua: «L’identità nazionale è sempre sentita in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso. Senza pace, senza naturalezza, senza semplicità». Doti invece che appartengono ai francesi, per esempio. Malinconicamente Garboli pensa che «noi siamo stati il giardino dell’Impero, come diceva Dante». Vocazione servile? Certamente sì, «nel bene e nel male». Ma occorre guardare con estrema attenzione a Enea, il vero fondatore dell’Italia, «il nostro archetipo nazionale: noi ne siamo la parodia, la caricatura degradata». Enea ricco di pietas, scettico, cinico, eroe passivo che fonda un impero quasi a malincuore perché la storia è già scritta». Già, aggiunge Garboli: «L’italiano colto si comporta come se tutto fosse già avvenuto». «Perché è così complicato essere italiani?» s’interrogava Pietro Citati nel 1973. A proposito dei nostri vizi, «quando vogliamo averli davanti alla memoria, basta pensare che quell’ignobile attore, quell’astuto evocatore di fantasmi che fu Mussolini seppe individuarli tutti nelle pieghe più nascoste del nostro Paese, e li portò ingigantiti sulla scena pubblica: la mediocrità intellettuale, la fragilità nervosa, la bassa furbizia, la vanteria fallica, la presunzione immotivata, la fantasticheria a occhi aperti, il rozzo buon senso, il disprezzo per le idee, l’arroganza verbale». Per assurdo dovremmo essere grati a Mussolini per ciò che ha portato alla luce: secondo gli psicologi da qui si parte per la liberazione dai difetti. Ma «purtroppo gli studiosi di psicologia - avverte Citati - non hanno sempre ragione. Gli istinti, i desideri, i sogni, una volta che sono scatenati fuori dalle caverne del nostro io, non vi rientrano più: continuano ad agitarsi per il mondo, si diffondono, si moltiplicano e contaminano le persone più lontane». Insomma, non riusciamo a maturare, e «qualcuno ripete per anni le stesse parole, come un malinconico automa». E continuiamo a interrogarci.

Aveva dunque ragione Ennio Flaiano: «Viviamo nel secolo delle domande». Lui si sentiva italiano proprio perché si sentiva anche inglese, spagnolo, tedesco, svedese e così via. Sullo scivoloso crinale della battuta, aggiungeva: «Tuttavia, che io sia italiano potrebbe essere innegabile: infatti mi piace dormire, evitare le noie, lavorare poco, scherzare, e ho un pessimo carattere, perlomeno nei miei riguardi… per molti l’italiana non è una nazionalità, ma una professione».

Pare proprio che se ci si vuole rimettere su una carreggiata di dignità e di decoro, non si debba prescindere dal nostro passato, quello migliore. Ragionava Indro Montanelli, nel 1997, della nostra illusione a credere di aver liquidato alcune bruttissime pagine della nostra storia, soprattutto quelle che hanno impedito all’Italia di essere se stessa. Invece non è così: ci sono stati cambi di regime, ma «erano cambiate le forme, non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie». Montanelli così conclude: «Rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e di interesse. L’Italia è finita. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria». Un anno dopo, una simile accorata riflessione di Eugenio Scalfari che cita il Leopardi dello Zibaldone: «Gli italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Poche usanze e abitudini che si possano dire nazionali, ma quelle poche sono seguite piuttosto per sola assuefazione. A prevalere sono soltanto l’abitudine e il conformismo, non la moralità perché l’Italia è, in ordine alla moralità, più sprovveduta di fondamenti che alcun’altra nazione europea e civile». Parole pesantissime. Rese ancora più grevi e attuali dal periodo eticamente difficile che stiamo attraversando.


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parola chiave

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RABBIA è nell’aria invernale un morbo difficile da definire. Ne avvertiamo la presenza nei piccoli gesti quotidiani, nell’insofferenza che riscontriamo attorno a noi, nel contatto con il prossimo. Non si parla più, si urla. Non ci si confronta, si cerca di imporre il proprio punto di vista. Non si accolgono le ragioni degli altri, si respingono. Nel pubblico come nel privato la dissacrazione è d’obbligo. Ossessiva. La condivisione viene interpretata come consapevole accondiscendenza, dunque come inclinazione alla debolezza. Si respinge l’altro da noi con lo stesso disprezzo che si prova per il nemico assoluto. E ciò appare come una suprema conquista dell’intelligenza liberata dalla sovrastruttura della tolleranza. Perciò gli avversari non hanno cittadinanza: chi non si sottomette a un punto di vista, va semplicemente abbattuto. Lo spirito del tempo ha aperto le sue braccia alle nevrosi di tutti i tipi. Sfuggire al destino dell’incomprensione, dell’indifferenza, della sottile malvagia voluttà del disfacimento dell’estraneo sembra impossibile. Accade così che il diverso, di tutti i generi, è «pericoloso» e, dunque, contro di lui ogni illecito comportamento assume le fattezze della buona causa da combattere per annientarlo. La civiltà delle opinioni che si affrontano è degenerata nell’inciviltà dell’inesistenza delle stesse e nella deificazione del pregiudizio. In famiglia, nei luoghi di lavoro, nella scuola, nell’università, per strada, al parcheggio, nei ristoranti, nei caffè dovunque, insomma, vi sia vita sociale, il demone della rabbia s’affaccia e s’impone; travolge perfino i più miti; fa vittime tra adulti e bambini; la sua glorificazione è nei talk show televisivi, nelle fiction granguignolesche, nel giornalismo arrabbiato.

C’

Ci chiediamo, nei rari momenti di resipiscenza, quando cioè riusciamo a guardare dentro noi stessi e a trovare la compagnia dell’anima smarrita davanti al nostro furore, se è umano, semplicemente umano, ciò che ci accade sempre più frequentemente al punto di renderci estranei alla nostra natura. La risposta si fa sempre più difficile. E piuttosto cerchiamo giustificazioni agli indecenti comportamenti che teniamo. La conclusione è surreale, dopo l’indagine introspettiva: la rabbia è connaturata alla nostra dimensione, si è assicurata un posto permanente tra gli elementi della nostra fragile umanità. E si indirizza contro chiunque provi a scalfire un qualsiasi interesse ci stia a cuore. Non saprei dire

Come un morbo che si diffonde, un demone che si impone dappertutto, si è assicurata un posto permanente nella nostra fragile umanità. È la spia di un declino che si consuma fin dentro le nostre privatissime vite

Litigo ergo sum di Gennaro Malgieri

Gli individui e gli Stati sono in preda a un delirio di onnipotenza dovuto al disconoscimento della temperanza. Una virtù che non è lecito praticare in un tempo in cui è permesso prendersi tutto ciò che si desidera. Senza considerare che il confine della libertà è dove inizia quella degli altri... come e quando tale mostruosa tendenza si sia radicata. Resto però sconvolto nel constatare che i parametri comportamentali contemporanei sono informati a una rabbiosità crescente che viene ritenuta normale. Ed è talmente normale che gli studenti, senza sapere perché, aggrediscono la polizia, spaccano le vetrine, innescano immotivate rivolte, mettono a soqquadro centri cittadini, inveiscono contro chiunque osi ricondurli alla ragione. È altrettanto normale che il crimine, anche efferato fino all’omicidio, si diffonda a macchia d’olio in aree sociali nelle quali mai si sarebbe pensato che potessero insorgere focolai appunto di rabbia tali da provocare la distruzione dell’antagonista reale o immaginario. E viene considerata in linea con quanto si vede in televisio-

ne la sconsiderata prassi di non riconoscere una via d’uscita a chi si oppone a una qualsivoglia tesi. Insomma, si deve litigare perché si possa dire di esistere. Sembra fantascienza, ma non lo è. In tutta Europa, tralasciando il resto del mondo dove pure gli idilli non fioriscono come margherite a primavera, viviamo nella sinistra ombra di un declino che si consuma fin dentro le nostre privatissime vite. Senza vie d’uscita ci neghiamo il piacere di riconoscerci in qualcosa di più alto dell’egoismo che si estrinseca rabbiosamente nel tentativo di imporre ragioni che, nella maggior parte dei casi, tanto «ragionevoli» non sono. Gli individui e gli Stati sono in preda a un delirio di onnipotenza dovuto al disconoscimento della temperanza, una

virtù che non è lecito evidentemente praticare nel tempo in cui è permesso prendersi tutto ciò che si desidera e desiderare tutto ciò che si ritiene di potersi prendere, senza considerare minimamente che il confine della libertà è laddove inizia quella altrui. Si spiega così perché, chiuse dietro le nostre spalle tutte le porte possibili e immaginabili, c’immergiamo, ormai senza neppure più rendercene conto, in una sorta di solipsismo che ci fa considerare «unici» e dunque fastidiosi tutti gli altri. L’asocialità è una sorta di malattia endemica che quando si esprime collettivamente dà luogo a quel disagio i cui frutti riempiono le strade delle città e delle nazioni opulente.

Rabbia e soltanto rabbia muove il potere, i contropoteri, i falsi poteri. Rabbia e soltanto rabbia eccita famiglie fragili a compiere follie che fanno inorridire. Rabbia e soltanto rabbia motiva giovani in cerca di qualcosa che nessuno gli ha mai spiegato, posto che i cattivi maestri si affacciano a ogni ora del giorno dagli schermi televisivi, da internet, dagli iPad, dai display dei telefonini, pulpiti dell’odio che pure viene spacciato, arditamente, per amore. In occasione della tragica morte di Mario Monicelli, ho visto uno striscione precedere un corteo di studenti sul quale era scritto: «Mario, la faremo noi la rivoluzione». La rivoluzione? E quale? E come? E perché? Se ne sente il bisogno? Forse sì, ma probabilmente quella che ci vorrebbe non è la rivoluzione di un manipolo di scalmanati, strumentalizzati da altri rabbiosi odiatori, ma la rivoluzione della conservazione dei valori qualitativi della vita. Se le energie s’incanalassero verso la riscoperta di un sentimento comunitario dell’esistenza e si aprissero alla trascendenza, al sacro probabilmente non assisteremmo più alla distruzione della ragione stessa che, secondo qualcuno, giustifica e indirizza la rabbia che rischia di travolgere ogni cosa. Ma ciò che è auspicabile, difficilmente diventa possibile. Bisognerebbe cambiare troppe cose, mentre si è presi dall’incubo della sopravvivenza alla devastazione quotidiana che annichilisce politici e operai, borghesi e proletari, studenti e disoccupati. Cominciare è possibile, naturalmente, ma a patto che si riaprano le antiche botteghe del sapere e si chiudano gli ipocriti dispensari di parole senza idee, di idoli di cartapesta, di controfigure di verità semplici. Una rivoluzione culturale? Ma sì. Purché fatta con rabbia. La rabbia divina di De Maistre e di Pasolini.


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Pop

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musica

Così parlò il venerato maestro LORENZO CHERUBINI di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi occherà a loro, il 6 febbraio a Dallas, esibirsi durante l’intervallo della finale del Super Bowl. I losangelini Black Eyed Peas saranno la prima contemporary band a farlo dopo lo «scandalo» di Janet Jackson, che nel 2004 duettando con Justin Timberlake «uscì di seno» di fronte alle telecamere. Apriti cielo.Tant’è che nelle ultime edizioni dell’epico match di football americano ci si è affidati ad artisti meno rischiosi e più ingessati (Paul McCartney,Tom Petty, Bruce Springsteen, Who) per non turbare l’audience televisiva. Fra due mesi, però, quella bomba sexy di Fergie (al secolo Stacy Ann Ferguson) farà sudare freddo qualche anima pia. E rapperà sul filo del rasoio, a metà partita, con Will.I.Am (William James Adams Jr), Apl.de.Ap (Allan Pineda Lindo) e Taboo (Jaime Luis Gómez) ricordando a tutti che i Black Eyed Peas hanno venduto più di ventotto milioni di dischi e trentun milioni di tracce digitali; tenuto più di trecento concerti in ventinove nazioni, staccato due milioni e mezzo di biglietti e vinto sei Grammy Awards. Più che logico, allora, che il loro hip-hop votato al crossover con elettronica, pop e rhythm & blues dia una bella verniciata modaiola all’evento dell’anno. sportivo D’altronde, il curriculum parla chiaro: dalla fine degli anni Novanta, i «piselli dagli occhi neri» hanno inciso dischi a loro modo innovativi (Behind The Front, Bridging The Elephunk, Gap, Monkey Business, The E.N.D.) riempiendo il penultimo di illustri partecipazioni (Sting nel brano Union, James Brown in They Don’t Want Music, Justin Timberlake in My Style) ed estrapolando dall’ultimo il singolo Boom Boom Pow rimasto in vetta alla prestigiosa classifica Billboard Hot 100 per

T

Jazz

zapping

sempre bello trovarsi di fronte a un artista nel pieno della maturità. Ovvero, per dirla con Arbasino, al passaggio topico dal momento «solito stronzo» a quello «venerato maestro». Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti è proprio lì. Gli inizi non furono esaltanti. Il Jovanotti di Sei come la mia moto, si prese della testa di legno da buona parte dell’intelligenza del Paese, tra cui un ferocissimo Michele Serra. Poi si sarà elevato lui o saranno scesi gli intellettuali (la faccenda non è chiarissima), c’è stato un momento freak apprezzato da molti. Lorenzo 1994, L’ombelico del mondo, Lorenzo con una spettacolare zazzera no global e sotto la zazzera idee no global. A posteriori si può quasi pensare che avesse ragione a esaltare Cuba e il Che e Fidel, in omaggio al cattiverio, ma allora non lo faceva per cattiveria. Poi il periodo Per te, canzone meravigliosa non foss’altro che per il ritornello: «È per te ogni cosa che c’è/ ninnanà ninnaè» (e peccato per i leziosissimi violini e corni inglesi dell’arrangiamento). Ma finalmente siamo nel periodo avanguardia. Disco in arrivo con tanti ospiti (di solito è segno di bollitura), copertina di Cattelan (ci metterà il bassista Saturnino colpito da un meteorite?), intervista sul Corriere pacata, acuta. I cantautori sono un fenomeno esaurito per Lorenzo, che rivaluta gli anni Ottanta, elogia il classico Vasco, e tiene a far sapere che per lui l’ottimismo è non il profumo della vita ma un atto di volontà. E poi nel suo pantheon privato fa alcuni nomi, il Jovanotti, tra cui Carmelo Bene. Avete letto Bene, lui, l’antidemocratico, lo spregiatore delle buone intenzioni. Fini non potrebbe citare Bene, Bersani non ne parliamo. Forse solo Vendola, che non lo farà mai. Ma lui, Lorenzo, può citarlo tranquillamente. Jovanotti è proprio entrato nella fase venerato maestro.

È

Benvenuti nell’era

della Pea domination dodici settimane consecutive. In più, il quartetto ha partecipato al Live 8 (2005) e al Live Earth (2007), rappato con gusto per Barack Obama (2008), fatto da supporter agli U2 nel tour americano del 2009 e griffato lo scorso 10 giugno il concerto d’apertura dei Mondiali di calcio in Sud Africa. Al Super Bowl, garantito, proporranno schegge del nuovo The Beginning che secondo Will.I.Am «non solo si riferisce all’inizio di ciò che sta accadendo nel campo delle tecnologie (3D, video a 360 gradi…) ma sintetizza la nostra voglia di sperimentare prendendo canzoni del passato e stravolgendole». Come The Time (The Dirty Bit), che ruota attorno a una traccia di (I’ve Had) The Time Of My Life tratta dal film Dirty Dancing dell’87 per poi avvitarsi in una spirale techno. The Begin-

ning piacerà soprattutto a chi, come il sottoscritto, ha puntualmente litigato con l’hip-hop e non potrà che apprezzare le «digressioni sul tema», cyber-melodiche, di Just Can’t Get Enough e il technopop frizzantino di The Best One Yet (The Boy); l’immediata orecchiabilità di Love You Long Time e il rap con tutti i crismi di Xoxoxo e Do It Like This; le virate a sorpresa nel rock (Someday) e l’incedere romantico di Whenever che a un certo punto si trasforma in dance; l’energia discotecara di Fashion Beats e il trascinante battito elettronico di Don’t Stop The Party; il passo robotico di Play It Loud e il coinvolgente rhythm and blues di Light Up The Night. «Questo disco è l’inizio di una nuova Pea World Domination Era», ha dichiarato Taboo con la giusta spocchia. «Allacciatevi le cinture di sicurezza, Pea-ple, e godetevi il viaggio!». Dalla notte del Super Bowl in poi, Fergie permettendo. The Black Eyed Peas, The Beginning Interscope/Universal, 19,50 euro

Stefania, Elga e Silvia... tre signore per piano e voce di Adriano Mazzoletti uando Paolo Conte cantava che alle donne non piace il jazz non avrebbe mai immaginato che trent’anni dopo molte ragazze si sarebbero distinte come eccellenti musiciste, ma non solo. Oggi le donne, forse più degli uomini, amano questa musica che in tempi non troppo lontani gradivano assai poco. Così mentre i ragazzi sono più attratti dal rock e dalle sue innumerevoli varianti, le ragazze sono affascinate dalla nuova liricità del jazz. Ai concerti e ai festival la presenza delle donne è assai numerosa, ma anche fra i musicisti sono apparse strumentiste degne di attenzione. È il caso di tre pianiste, tutte attive nella Capitale, Stefania Tallini, Elga Paoli e Silvia Manco, le due ultime anche cantanti, i cui dischi recentemente pubblicati hanno favorevolmen-

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te colpito pubblico e critica. La più conosciuta è Stefania Tallini, diplomata a Santa Cecilia, le cui prime incisioni risalgo al 2002. Nel suo ultimo lavoro discografico, The Illusionist (Alfa Music), dimostra ormai grande maturità e personalità mentre nel suo stile riesce a coniugare energia e delicatezza, emozione e lucidità. Assai diverse, Elga Paoli e Silvia Manco. Nei loro lavori hanno privilegiato la par-

te vocale a quella strumentale, anche se ambedue sono eccellenti strumentiste, come si evidenzia nei brani per solo piano come i riusciti Incongruenze e Spleen-Dream, con il sassofonista Gian Piero Lo Piccolo, della prima (in Profumo di jazz, Koinè Records) e in alcune parti di solo piano nelle canzoni incise dalla seconda (in Afternoon Songs, Nuccia Records). Mentre Stefania Tallini ha

scelto di registrare l’intero disco - quindici brani - di solo pianoforte, Paoli e Manco hanno voluto al loro fianco musicisti eccellenti, la tromba Fabrizio Bosso e il contrabbassista Francesco Puglisi con Elga Paoli, il batterista Roberto Gatto, il bassista Dario De Idda, il chitarrista Fabio Zeppetella, il sassofonista Daniele Tittarelli, la tromba Giovanni Falzone, musicisti ben conosciuti e altamente apprezzati, con la Manco. Di strumentistecantanti il jazz non è certamente ricco. Le prime che vengono alla mente, dall’inizio del jazz a oggi, solo le pianiste Lil Hardin, Una Mae Carlisle, Nellie Lutcher, Nina Simone, Tania Maria, Blossom Dearie, la trombettista Valaida Snow, la chitarrista Mary Osborne e naturalmente Diana Krall. Ben vengano dunque, Silvia Manco e la talentuosa e jazzistica Elga Poli ad arricchire questo settore del mondo del jazz.


arti Mitologie

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era, un tempo, un picco del Monte Meru famoso nel trimundio. Questo picco traeva la sua discendenza dal Sole ed era chiamato Luminare; era ricco di ogni sorta di gemme, incommensurabile, inaccessibile a tutte le genti». È scritto nel Mahabharata, il grande poema epico della mitologia hindu. La Montagna Sacra è un archetipo dell’ascensione mistica, del difficile passaggio fra terra e cielo, simbolo della situazione dell’uomo nell’universo, luogo splendente e assoluto di pace e di potenza. «Questa montagna di neve è l’ombelico del mondo (...) Qui si può raggiungere la Perfezione trascendente». L’immenso Kailash sull’Himalaya, il monte Olimpo dei Greci, l’Ararat armeno ove trovò salvezza l’Arca, il Tabor in Galilea, l’Athos costellato di monasteri, o il «Sacro Monte» in Italia, uniscono mito, religione e antropologia come manifestazioni terrene della montagna cosmica, asse del mondo e sostegno del cielo. Stabilità, concentrazione, elevazione e centralità hanno fatto sorgere dalla terra le prime architetture, simulacri della montagna: piramidi, ziqqurrat e templi a gradoni sono stati edificati, da tutte le civiltà antiche, in luoghi molto differenti, per realizzare una mediazione fra questo mondo e i mondi superiori e sconosciuti. Per intraprendere una incomparabile scalata, e oltrepassare in silenzio, tentando di raggiungere quel punto ove la terra possa vivere in armonia con il cielo. I Templi-Montagna, gioielli incastonati nella crosta della Terra, sono la meravigliosa apparizione di questo anelito al superamento: Prambanan e Borobudur a Giava, Ellora in India, Angkor Wat in Cambogia, e ogni chorten in Tibet, ogni Stupa o Sikhara, obelisco o piramide, dall’Egitto al Messico. Julien Ries, teologo, antropologo e storico delle religioni, ha curato un libro prezioso su questi temi mistici, raccogliendo una cospicua serie di saggi che affrontano in modi differenti le varie forme di questa grande realtà spirituale.Tutte le mitologie si riferiscono alla montagna-uni-

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Moda

Montagne sacre tra cielo e terra di Guglielmo Bilancioni verso come origine, misterioso ricettacolo della devozione e simbolo dell’ascesa verso il sole: in Mesopotamia, in Egitto, in India, in Cina e in Giappone. Mosè salì su un monte a incontrare Dio e la sua Legge. E, ancora, «nella vita di Gesù la montagna occupa un posto di privilegio»: il discorso

della Montagna, il Monte degli Ulivi, laTrasfigurazione, il Golgota, o Calvario. Meta di pellegrinaggio, «cammino verso un centro al fine di incontrarvi una Realtà trasformante», «ogni santuario è assimilato a una montagna», che è luogo e oggetto di culto. Qualcosa che, di per sé e in quanto tale,

spinge alla preghiera e alla meditazione, al raccoglimento sotto la volta del cielo e alla gratitudine per la vita ricevuta in dono. Il paesaggio sublime raggiunto dal pellegrino è il paesaggio interiore. Conquistato con umile determinazione, verso una direzione non deviabile, e con enormi fatiche, che mostrano i limiti umani. È l’esperienza della cosmoteoandrìa, secondo la definizione di Raimon Panikkar, mistico moderno e audace attivista del dialogo interreligioso: universo, Dio e uomo sono uno nei luoghi in cui assoluto e relativo si confondono nel mistero, ove le certezze sono rafforzate dai dubbi, nei momenti mistici in cui vedere e ascoltare confluiscono nella percezione dell’Altro. Il «totalmente Altro», diceva Rudolf Otto, che è il Sacro. Panikkar, che viveva fra le montagne della Catalogna, fra nubi, luci e nebbie mistiche, mostra grande saggezza anche in questo: «Quale montagna non è sacra?». Eppure la montagna non esiste in sé, dice il Maestro traendo questa nozione dalla dottrina buddhista della vacuità, secondo la quale tutti i fenomeni sono privi di un sé separato e indipendente, privi di sostanza intrinseca, transitori e privi di identità. E continua, impiegando l’altra dottrina buddhista della co-produzione condizionata, secondo la quale Questo esiste perché Quello esiste: la montagna è «spettacolo» che richiede uno «spettatore». Essa non è che immagine della coscienza umana, che tende verso l’alto: oggetto-evento ove appaiono i numi, maestoso e tremendo, la montagna rivela il sacro mentre, intangibile, lo trattiene in se stessa. Coloro che «brillano nell’ascesi», come è scritto nel saggio sulla Montagna Sacra nel mondo Bizantino di Gaetano Passarelli, mirano alla luce che essi stessi saranno capaci di produrre con il loro risveglio nelle altezze spirituali.Vi sono molti altri saggi in questo libro prodigioso: sulla Mesopotamia, sul Tibet, l’Iran, la Cina, la Grecia Antica, ciascuno illustrato con meravigliose fotografie, ognuna delle quali mostra la stessa semplice verità: lassù c’è Qualcosa. Julien Ries, Montagna Sacra, Jaca Book, 254 pagine, 80,00 euro

Quando vanità fa rima con sostenibilità

i può essere frivoli e buoni? Fashionisti senza colpa? Adesso sì. Concessi i jeans, ma di cotone organico e colorati con tinture vegetali. Concessa la seta, ma vegana, filata senza uccidere il bruco. Siamo entrati nell’era della moda etica, dove vanità fa rima con sostenibilità e qualche volta con carità. Perciò l’animalista Stella McCartney ha reso trendissima l’ecopelle dei suoi stivali. Gucci ha chiesto sia la certificazione SA8000 (per tutelare i diritti dei lavoratori lungo tutta la filiera produttiva) che la ISO 14000 (impatto ambientale ridotto) e Giorgio Armani utilizza sempre di più poliestere riciclato, canapa e cotone bio. C’è chi usa il laser per ottenere l’effetto stone washed sui jeans senza sprecare acqua (Marithè + François Girbaud) e chi, come Beppe Angiolini, presidente della Camera Buyer Moda teorizza «fashion a chilometro zero». La consacrazione dell’ecofriendly è arrivata da Vogue, con la cover dedicata a Sarah Jessica Parker, e allo snobissimo *Wisb, famoso per i suoi materiali senza trattamenti chimici. Etichetta e cartellini sono realizzati con semi di fiori essiccati e colorati con un inchiostro di soia. Il cartellino, poi, o può essere piantato in un vasetto e volendo occuparsene, nascerà una piantina. Invece il simbolo di Cangiari è un abito in tessuto di ginestra, di un morbido bianco grezzo, filato a mano su antichi telai restaurati. Un capolavoro di mo-

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di Roselina Salemi

Proposte ecosostenibili di Class da minimalista, ma soprattutto un manifesto. In calabrese e in siciliano cangiari vuol dire «cambiare». Ogni gonna, giacca, sciarpa, parla di diritti umani, partecipazione, bene comune, legalità, ecologia e nonviolenza, a

cominciare dalla seta Muga (il bruco diventa farfalla e i fili che ha spezzato saranno riannodati). Sui tessuti, restano le rigature e i segni del telaio. Beauty is different è la parola d’ordine. Ognuno ha la sua. Per Carmina Campus, cioè Ilaria Venturini, Fendi è «creare senza distruggere». Sedili di vecchie auto, serrature, cerniere, cuscini, tende veneziane, va tutto bene. Sacchi neri della spazzatura, doppiati come se fossero di pelle, si trasformano in shopping bordate in cuoio e borse da postino, molto chic. Per l’avanguardia assoluta, c’è Class (Creativity Lifestyle and Sustainable Synergy). Materiali organici, riciclati o innovativi: biopolimeri derivati da proteine del latte, soia, alghe, bambù, fibre del legno, carapace di granchio. Due esempi: Agostina Zwilling crea gioielli e accessori sorprendenti con il feltro tinto e trattato, e Margot (LauraVedani) produce bijoux congelando fiori naturali (quest’anno ha scelto il mandorlo e la viola) con una resina atossica. E arriviamo a «So Critical So fashion», un’associazione passata dal recupero al glamour. I tessuti boliviani di Emanuela Venturi (alpaca tinta con erbe locali e cocciniglia), lo streetwear di Mitzica (camere d’aria al posto della pelle), i rammendi couture di Riciclabò, gli abiti rebus di Shamat, i mix di damasco e lana cotta infeltrita a vapore dimostrano che la moda è già cambiata. Niente paura. La frivolezza etica ci salverà.


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il paginone

Nel 2010 avrebbe compiuto novant’anni Walter Matuschanskayasky in arte Matthau, ebreo figlio di immigrati russi, nato a New York dove frequenta il teatro yddish della Seconda Avenue, entrando a far parte così della grande tradizione dei comici che sanno ridere di tutto. Il «Cary Grant ucraino» amava definirsi, in ricordo delle sue poverissime origini. Dagli esordi a Broadway ai successi firmati da Billy Wilder, è a tutti gli effetti un’icona del nostro immaginario collettivo di Orio Caldiron uando la moglie è in vacanza (1955) è irresistibile nonostante il piccolo editor rimasto solo a casa in una torrida estate newyorkese sia privo di carisma. Puntualmente frustati dal candore assoluto dell’inquilina del piano di sopra, i suoi goffi tentativi di conquista si concludono solo con l’ammissione paradossale ma vera: «D’accordo, ho una bionda in casa. Ho Marilyn Monroe nella doccia!». L’editor alle prese con the girl è Tom Ewell, che l’aveva impersonato a Broadway nella commedia da cui è tratto il film. L’attore non piace a Billy Wilder che fa un provino a Walter Matthau con risultati straordinari, senza riuscire però a imporlo alla 20th Century Fox. Il film va male al botteghino e molti danno la colpa al basso profilo del prota-

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gonista. Sarebbe andato meglio con Matthau? Chissà. Nel 1955 Walter Matthau - nato a New York nel 1920, morirà a Santa Monica nel 2000 - al cinema è un perfetto sconosciuto. Si chiama in realtà Walter Matuschanskayasky e viene da una famiglia ebrea di immigrati russi di desolante povertà, che esorcizza frequentando il teatro yddish della Seconda Avenue. Durante la guerra si arruola in aviazione e porta a casa parecchie medaglie.

Attore nato, fa l’impiegato, il radiotecnico, il pugile, l’allenatore di baseball e altri mille mestieri prima di affermarsi a Broadway come uno dei commedianti più estrosi e promettenti. Sullo schermo comincia con Il Kentuckiano (1955), dove è il sadico westerman che frusta Burt Lancaster. Nella decina di film del periodo si deve accontentare del ruolo del vilain dal volto arcigno e dalla tenace aggressività. Come avviene anche in Sciarada (1963) di Stanley Donen, un intrigo internazionale che ha le scandite simmetrie del musical. Bartholomew, lo stravagante funzionario della Cia che bazzica l’ufficio soltanto durante la pausa-pranzo, è un cattivo da ridere, ironico, sornione, doubleface. Anche se lui e Cary Grant si inseguono tra le colonne del Palais Royale, mentre Audrey Hepburn teme di sporcarsi il costosissimo Givenchy che indossa, i colpi sembrano a salve tanto il clima da mascherata prevale su tut-

Quel ragazzo ir to. La consacrazione arriva poco dopo con Non per soldi… ma per denaro (1966) di Billy Wilder, il film della svolta grazie al quale la sua carriera s’impenna fino a raggiungere lo statuto del protagonista di primo piano che conserverà per oltre un trentennio. Con l’esuberanza del mattatore che conosce le sottigliezze della recitazione ma anche le ricette del successo. Se il regista è in forma smagliante in una delle sue commedie al vetriolo più acide e frastornanti, l’interprete si muove con straordinaria scioltezza nello spazio claustrofobico della stanza d’ospedale e dell’appartamen-

Jack Lemmon (41 anni), una delle più vivaci e inossidabili della commedia brillante americana. Si è detto coppia, ma bisogna intendersi. Ci sono tanti modi di far coppia, sullo schermo come nella vita. Se qualcuno fa tutto da solo, c’è un altro tipo di attore che si completa con la presenza del compagno senza del quale neppure esisterebbe. Se si possono confrontare, Chaplin e Totò - l’uno viene dal music-hall, l’altro dal varietè - sia pure in modo diverso hanno bisogno della spalla. Stanlio e Ollio non sono nulla al di fuori della coppia, soltanto quando sono assieme si animano co-

importanti. Quando sono assieme i due giocano la partita con le loro carte più personali e vincenti. Matthau è l’eccesso, l’accumulo dei segni, la moltiplicazione dei gesti. Lemmon è la sottrazione, il sottotono, la minimizzazione. Quando il primo strafà, il secondo gioca di fair play. La rivincita se la prende semmai puntando i piedi. Non ci sta più, si sottrae alle imposizioni del partner, se non ricorre addirittura alle stesse armi del compagno, riappropriandosi dell’estrosa invadenza dei protagonisti. Si sbilanciano di continuo, tra prevaricazione e arrendevolezza, ma si conquistano

Con Jack Lemmon è stato capace, in un abile gioco di fair play, di formare una coppia unica nel cinema. Nessuno dei due fa da spalla, ognuno è uno straordinario solista in perfetta armonia con l’altro to di Harry Hinkle, il cameraman che ha investito il giocatore nero «Boom Boom» Jackson durante una partita di football. L’avvocato imbroglione Willie Gingrich è la maschera irripetibile della grande truffa, tutta giocata sugli atteggiamenti volpini, il passo ondulato, le ammiccanti strizzate d’occhio, gli insinuanti giri di parole usati sempre a colpo sicuro. Come fosse in un’aula di tribunale. Il film è fondamentale anche perché l’incontro con il grande Billy coincide con la nascita della coppia Walter Matthau (46 anni) e

me un perfetto meccanismo d’orologeria, una macchina da guerra puntata contro la logica.

Il caso di Matthau e Lemmon sta a sé. Sono anzitutto due straordinari solisti. Lemmon l’ha dimostrato in tante occasioni «prima» di incontrarsi con Matthau. Come dimenticare A qualcuno piace caldo (1959), L’appartamento (1960), Irma la dolce (1963), i tre capolavori con Wilder? Matthau lo dimostrerà soprattutto «dopo» con un gran numero di titoli importanti e meno

il fotogramma a colpi di risate come in un cartoon. Sono due maschere dai caratteri complementari e contrapposti che si esibiscono in un duetto da commedia dell’arte in cui la tempistica è tutto. La strana coppia (1968) inaugura il rapporto con Neil Simon, il commediografo della middleclass metropolitana più rappresentato nel mondo. Il film di Gene Saks, anche lui un affidabile artigiano che viene da Broadway, ripropone la celebre pochade sull’amicizia virile che aveva trionfato a teatro. Il successo è clamoro-


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rresistibile so anche al cinema. Nel grande appartamento in cui convivono Oscar Madison (Walter Matthau) e Felix Ungar (Jack Lemmon) - i due neodivorziati che litigano in continuazione tra una partita di poker e un attacco di casalinghitudine - sembra di essere in un ring dove le battute rimbalzano micidiali come colpi bassi. Sono loro, Walter che fa la voce grossa ma non riesce a nascondere l’autoironia e Jack il nevrotico dalla lacrima facile ossessionato dall’ordine, sono loro la strana coppia, un titolo che da allora in poi li perseguiterà come un marchio di fabbrica. Fino a La strana coppia II, il deludente sequel di trent’anni dopo che moltiplica figli e nipoti, location e parolacce ma fa acqua da tutte le parti. Se negli anni successivi Lemmon sterza sul versante drammatico, è a Matthau che Neil Simon offre alcune tra le occasioni più allettanti della sua carriera di attoreorchestra. Appartamento al Plaza (1971) di Arthur Hiller è quasi una serata d’onore, un omaggio al tempismo comico del grande attore che sfoggia la sua versatilità in tre caratterizzazioni memorabili. Dal marito che ritorna nella stessa stanza d’albergo della prima volta al produttore cinematografico che riesce a sedurre raccontando i suoi incontri con i divi hollywoodiani, al padre di una riluttante promessa sposa che cerca di convincere la figlia a uscire dal bagno il

giorno del matrimonio. I ragazzi irresistibili (1975) di Herbert Ross è un’incursione nel mondo affascinante del vaudeville, il passato remoto dello spettacolo americano recuperato tra un tormentone e l’altro attraverso due vecchi comici scorbutici che non si parlano da anni ma vengono convinti a rimettersi assieme per uno special televisivo. Una rentrée impossibile perché l’arte della sopraffazione sgradevole non sembra aver segreti per Walter Matthau. Da parte sua, George Burns si esaspera sempre di più alle ditate e agli sputi che il compagno continua implacabile a infliggerli.

Sotto il gioco sottile dell’umorismo si avverte la tentazione della violenza, il lato oscuro della comicità scatenata e compulsiva di un attore dalle molte fac-

ce. Già il perfido barbablù al verde di È ricca, la sposo e l’ammazzo (1971) di Elaine May medita di eliminare l’ereditiera e impadronirsi del malloppo, ma siamo ancora nella commedia brillante sia pure virata in nero seppia. Solo pochi anni dopo l’attore è al centro di tre gangster-movies, ora dalla parte della legge ora da quella dei cattivi. Suspense a alta tensione, Il colpo della metropolitana (1974) di Joseph Sargent contrappone il quartetto di criminali che blocca un convoglio pieno di ospiti giapponesi all’apparente indolenza del tenente Garber-Matthau della polizia trasporti. Sembra acconsentire alle loro condizioni, ma all’ultimo sfodera tutta la sua astuzia quando tentano inutilmente di fuggire con il denaro del riscatto. Se L’ispettore Martin ha teso la trappola (1974) di Stuart Rosenberg percorre sentieri più tradizionali, insolito è il poliziotto MartinMatthau, stanco, amareggiato, all’antica ma per niente moralista, che indaga nei bassifondi di San Francisco. Chi ucciderà Charley Varrick? (1974) di Don Siegel, quello dell’Ispettore Callaghan, è il piccolo capolavoro di un maestro del noir in cui VarrickMatthau, l’ultimo degli «indipendenti», rapina una banca senza sapere che la mafia vi ricicla il denaro sporco. Braccato dai killer, si salva montando un’abile messinscena per beffare l’Orga-

di Fiore di cactus (1970) di Saks non si accorge dell’avvenenza dell’infermiera Ingrid Bergman, apparentemente scialba e trasandata, fino a che non la vede scatenarsi in discoteca. Nonostante le arie da seduttore, il medico di Visite a domicilio (1978) di Howard Zieff si lascia accalappiare dall’aggressiva Glenda Jackson che gli tiene testa anche sul piano dell’ironia. Il breve sodalizio con l’attrice inglese prosegue in Due sotto il divano (1980) di Ronald Neame, in cui l’agente della Cia bistrattato dai superiori spedisce le sue memorie ai servizi segreti della concorrenza. In Una notte con vostro onore (1981), ancora di Neame, tocca a Jill Clayburgh, prima donna alla Corte Suprema, far le spese della sferzante misoginia del collega Matthau. Negli anni Ottanta sembra perdere qualche colpo, ma prima della fine del decennio si rifà con un paio di performance da fuoriclasse. Sul galeone spagnolo di Pirati (1986) Capitan Red è poco

(1974), strepitosa incursione nel cinico mondo della carta stampata in epoca pretelevisiva. Dove non c’è posto per le donne. Almeno a giudicare dal comportamento del direttore BurnsMatthau, deciso a impedire in tutti i modi che Johnson-Lemmon lasci il giornalismo per sposare la bella Peggy.

Nei corrosivi giochi di ruolo e di potere, ancora una volta la vera coppia è quella formata da Walter e da Jack, una coppia che non ammette il divorzio anche a costo di farsi ammanettare assieme. «Continuerei a fare film con loro fino alla fine dei miei giorni», diceva Wilder, che conclude la sua carriera con Buddy Buddy (1981). Concitata black comedy cupa e ossessiva come una cerimonia degli addii dove è di scena l’omicidio, l’esplosivo sottotesto della comicità. Quando il killer TrabuccoMatthau non riesce a liberarsi dall’appiccicoso Clooney-Lemmon, il logorroico della inquilino stanza accanto,

Negli anni Ottanta sembra perdere qualche colpo, ma si rifà sul galeone spagnolo di “Pirati”, dove Capitan Red è un’ossessione colorata, un abito rosso sognato da Roman Polanski sin dall’inizio delle riprese nizzazione. Senza l’humor sarcastico del protagonista solo contro tutti, il piano non andrebbe a segno. L’attore si faceva chiamare «il Cary Grant ucraino» in ricordo delle sue poverissime origini, orgoglioso di appartenere alla grande tradizione dei comici ebrei che sanno ridere di tutto, anche di se stessi, soprattutto nei momenti drammatici. Se c’è il nero, naturalmente c’è anche il rosa nella debordante filmografia del comedian newyorkese. Scapolo sempre sulla breccia, il dentista

più di un’ossessione colorata, un abito rosso sognato da Roman Polanski sin dall’inizio delle riprese. Una delle tante grottesche caricature della rivisitazione postmoderna dei gloriosi cappa e spada d’un tempo, mentre un arpeggio di chitarra accompagna le gesta degli eroi davanti al mare brulicante di squali. Superato lo spaesamento iniziale, Padre Matthau, il prete esorcista di Il piccolo diavolo (1988) ripropone i tic liberatori e le esilaranti effrazioni dello slapstick più trasgressivo in coppia con il diavoletto Benigni, entrambi vivaci e incontenibili come in una vecchia comica. L’omaggio di un giullare candido e spiritato alla mimica facciale del grande corpo comico del cinema d’Oltreoceano non potrebbe essere più clamoroso. Qualche anno prima la strana coppia si era ritrovata con Billy Wilder sul set di Prima pagina

non sappiamo che se lo ritroverà tra i piedi anche nella sperduta isoletta in cui approda alla fine. Negli anni Novanta gigioneggiano nella sgangherata epopea della terza età di Due irresistibili brontoloni (1993) di Donald Petrie, That’s amore. Due irresistibili seduttori (1995) di Howard Deutch, Gli impenitenti (1997) di Martha Coolidge. Sembrano perennemente impegnati a sfidarsi all’ultimo bisticcio, mentre non hanno occhi che per l’oggetto del desiderio, si chiami Ann-Margret o addirittura Sophia Loren. La nostalgia per la commedia brillante hollywoodiana colpisce ancora. Se ci chiediamo dove sono finiti, facciamo in tempo a rivederli quando l’imbroglione e l’inconsolabile fanno gli intrattenitori-ballerini nella sala da ballo del transatlantico diretto ai Caraibi. Sintonizzati entrambi sull’andante con brio dei grandi comici che, leggeri e sfuggenti, ci fanno ridere della nostra pesantezza.


Narrativa

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libri Maria Pia Ammirati SE TU FOSSI QUI Cairo editore, 158 pagine, 12,00 euro

lle sei del mattino nel letto del papà Matteo, che dorme solo perché la moglie Luisa soffre di terribili emicranie, la bimba Alice s’avvicina al babbo e lo guarda con occhi grandi e lacrimosi e dice: «Papà, ma la mamma non risponde, è morta… Papà, la mamma è ferma e fredda da un sacco di tempo». Matteo si alza subito ma è in dubbio sul da farsi, traccheggia, non vuole credere alla bimba, pensa che la moglie dorma profondamente, finché si decide a entrare nella sua stanza: Luisa è morta. Con questo drammatico e agghiacciante inizio si apre il bel romanzo di Maria Pia Ammirati Se tu fossi qui. Nelle prime, scolpite novanta pagine, si segue con esattezza, quasi con scrupolo, momento per momento, tutto lo svolgimento dei fatti che accadono in una casa colpita dal lutto. Con una crudezza che stringe la gola, ecco lo spostamento del cadavere, l’arrivo dei parenti, la vestizione seguita fase per fase, l’arrivo delle pompe funebri, il distacco dalla casa, il deposito della bara per la successiva cremazione. Personaggio centrale, quasi monologante, è il marito Matteo che soffre terribilmente per il grande amore che lo legava alla giovane moglie e che contemporaneamente sa che dovrebbe reagire per le tante incombenze che fanno sempre seguito a un lutto. Soprattutto pensa all’immediata sistemazione delle due figlie, alle pratiche per disdire molti impegni presi, non trova e non troverà pace per molto tempo, passando tuttavia veloci le giornate. Il marito è in cerca di una tregua che possa farlo pensare ai tempi successivi, dove mandare le bambine per pochi giorni prima di trascorrere con loro una vacanza al mare, amici, nonni, cognati, nipoti a poco a poco si allontanano. Matteo rimane praticamente solo e forse preferisce soffrire in solitudine, pensare al futuro, ricordare l’amore per Luisa, fare sì che il clima un poco si addolcisca… «Aver visto Luisa stesa sopra il letto - pensa Matteo che parla in prima persona - mi ha fatto pensare anche alla mia morte, anzi confesso che più volte mi sono visto al posto di Luisa. Ho confuso la mia con la sua morte senza capire se il mio è un atto di arroganza, di prevaricazione. Piangendola - prosegue - ho sentito che piangevo per me, per la paura di essere rimasto solo a occuparmi di tutto, per la tristezza che mi faccio… C’è un modo per tornare normale, invece che vedermi camminare come una persona già morta?».

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Autobiografie

Eros e Thanatos Storia di Matteo e Luisa Cronaca di un lutto con colpo di scena, nel nuovo, scolpito romanzo di Maria Pia Ammirati di Leone Piccioni

Ho parlato delle prime novanta pagine: poi la storia riserba una svolta forse imprevedibile. Matteo ritrova per caso il cellulare di Luisa ancora acceso e si accorge di strani messaggini scambiati tra Luisa e un uomo sconosciuto. Sembrano a prima vista messaggi di amicizia con una persona più anziana, forse un medico, perché si incontrano spesso parole che hanno a che vedere con una grave malattia di Luisa, malattia terminale della quale lei non aveva mai parlato in famiglia, ma che ha confidato solo al suo interlocutore telefonico. Ma gli ascolti dei messaggi tendono sempre più a delineare un rapporto sentimentale. Matteo, dopo lo choc subito mette in atto un piano che si potrebbe definire diabolico: siccome ha capito che l’amante non era ancora al corrente della morte di Luisa, seguita a mandare messaggi a nome suo aspettando con ansia ogni risposta. Ed ecco. «Ho bisogno di vederti e di baciarti» - scrive l’amante - e lui risponde: «Anch’io». Lo scambio dei messaggi dura lungamente e Matteo pare di non essere in grado di distaccarsene finché decide di fissare, sempre attraverso i messaggi, un incontro con questo «lui». La prima volta non lo riconosce, ma dopo un certo numero di appuntamenti scopre chi è la persona, e cercando di essere il più pacato possibile gli racconta tutto.Vorrebbe mantenere un certo stile, sentirsi al di sopra mettendosi nei panni di chi sa capire, ma alla fine lo aggradisce e lo picchia. Dai colloqui emerge comunque il grande amore che il medico aveva per Luisa… «Avrei voluto trovarla io morta accanto a me… Le avevo chiesto di finire accanto a me, le avevo detto che quando sarebbe stata peggio l’avrei accompagnata in una clinica e le avevo promesso che avremmo finito insieme… Ma lei non trovava il coraggio di parlargliene e decidere con lei il momento giusto per non far soffrire le bambine». Il romanzo finisce con il ritrovamento di una pace per un amore assoluto che può superare divergenze e tradimenti. Dice Matteo nelle ultime righe: «Salendo le scale sorrisi a Luisa, all’infelicità del suo amico, al mio dolore e alla nostra solitudine. La implorai di aiutarmi, avevo ancora bisogno di lei, della sua forza e della sua ostinazione, della sua bellezza. Le chiesi di riconciliarci, le chiesi di perdonarmi. Feci tutto senza piangere».

Ritratto di una famiglia in disparte

lan Bennett, uno dei più migliori narratori e drammaturghi inglesi di oggi, ha sempre considerato un po’ disdicevole parlare di sé. E in Una vita come le altre infatti non lo fa, pur concedendosi ovviamente il ruolo dell’osservatore attivo visto che racconta dei suoi genitori e di alcuni parenti. Un’autobiografia molto indiretta, dunque. Vien fuori la fotografia di gruppo di timidi, senza alcuna banale o rabbiosa frustrazione. Padre e madre raramente avevano effusioni, e quando il padre bacia la moglie in ospedale gli sembra di dare l’impressione del commiato. Genitori che non hanno mai voluto «finire in prima pagina», che hanno desiderato di vivere in campagna, con un giardino. Che bello stare in disparte. La tentazione di quei famosi quindici minuti di celebrità era - ma lo è anche per Alan - una stravaganza da evitare, una cosa ridicola. Il racconto, tra ironia e compassione, inizia con il ricovero della madre in un ospedale psichiatrico, uno dei tanti che frequenterà. Diventa così «l’apostolo del suo mondo buio». Il padre percorre ogni giorno ottanta chilometri per far visita alla moglie, che a poco a poco ha difficoltà a riconoscere gli altri, e anche se stessa. Ben-

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di Pier Mario Fasanotti nett con estrema arguzia, e senza mai infierire, descrive il rapporto tra un malato psichiatrico e le istituzioni, l’accanita vocazione di queste a classificare le personalità. Lo fa con un candore a volte disperato dato che confessa: «Ero arrivato alla mezza età senza praticamente un’idea di che cosa fossero le malattie mentali». C’è il disagio del padre che, pressato dalle domande del medico, alla fine confessa che sì, ci sono «precedenti»: nonno Peel non morì d’infarto, come molti credevano, ma si buttò in un fiume. Per Alan questo e altri episodi suonano come spunti narrativi, ma anche come strumenti ottici per vedere meglio la composizione di un nucleo familiare. L’idea di diagnosticare con (presunta) esattezza gli fa un po’orrore: «Fare una diagnosi, cioè dare un nome, vuol dire inserire una persona in una categoria. Mamma e papà non hanno mai aderito a nessun gruppo e per loro il fatto di “non legare” non è stato solo un cruccio, ma anche un vanto». Il figlio vuole tenere fuori la madre dal «mucchio» e riflette sulla spiegazione che la stessa mamma dette dei suoi disturbi allucinatori e depressivi. Prima

La maestria di Alan Bennett: come raccontare di sé senza parlare di sé. In “Una vita come le altre”

ipotesi: magari è lo stesso fatto di entrare e uscire dagli ospedali e case di riposo causa del malessere. Seconda ipotesi, molto domestica se vogliamo ma di straripante buon senso: da quando in casa faceva tutto papà, e la mamma si è sentita deprivata, catapultata «nell’improvviso vuoto creatosi nella sua vita». Alan descrive le visite alla madre, nota che in ogni istituto c’è sempre una signora che crede di aver chiamato un taxi per andare via. Alan si concede una confidenza quando si descrive dinanzi alla tomba dei genitori.Vorrebbe dire «due parole in preghiera, anche se mi sarebbe difficile dire quali e rivolte a chi. Più o meno si riducono a “Insomma…”. O a “Ecco fatto”, che è quello che dicono i vecchi quando hanno concluso una transazione». L’umorismo di Bennett emerge quando parla delle zie. C’era Eveline con il suo «petto mastodontico», e fu quello a creare nel nipote preadolescente «una certa confusione sull’anatomia femminile». E più giù che c’era mai? In ogni caso la zia copriva la scollatura con davantini ricamati, come quelli che si posano sulle poltrone. Schienali di poltrone e seno della zia: «non c’era questa gran differenza». Alan Bennett, Una vita come le altre, Adelphi 172 pagine, 17,00 euro


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poesia

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Compassione e riscatto secondo Foscolo

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove più il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ di perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve tutte cose l’obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo.

di Roberto Mussapi Sepolcri, uno dei capolavori della poesia di ogni tempo, ha inizio con immagini di buio e ombra, di chiusura: «All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne». Le stesse parole ombra e urna comunicano foneticamente un senso di chiusura, e pare vano, in quegli spazi stretti e ermetici, il conforto del pianto. E immediato, per contrasto, luminosa fonte di vita e energia, il Sole. Il sole fecondante la bella famiglia di erbe e animali, è il potente simbolo vitale contrapposto al buio della morte, enigmatico, in Foscolo: «sonno della morte», infatti, e sonno è spesso sinonimo di situazione illusoria, stasi frequentata dai sogni. Non dobbiamo dimenticare che nel patrimonio culturale di un uomo colto dell’età del Foscolo, le valenze simboliche del sole erano tutt’altro che inaccessibili. Tramite i viaggiatori greci e poi romani si poteva avere ampia conoscenza dell’antico Egitto e dei culti solari relativi alla rinascita cosmica, attraverso la maschera aurea del Faraone. Il mito egizio, quindi, in certo senso orientale rispetto al pantheon grecoromano, e sicuramente metafisico rispetto al regno buio e disperato di Ade, è presente in tutto il poema, nella sua natura primigenia e quintessenziale di luce, energia e rinascita.

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Il sole appare quindi in momenti culminanti come il baluginare di una rinascita nell’atto stesso della morte: «perché gli occhi dell’uom cercan morendo /il Sole, e tutti l’ultimo sospiro/ mandano i petti alla fuggente luce». Ma il sole appare, potentemente, nei versi finali, a siglare il riscatto della specie, attraverso la poesia che è essenzialmente memoria, relazione, atto di compassione. La visione del sole nel momento finale ha il senso di un riscatto pieno, poiché la digressione in crescendo ci ha ricondotti a un peccato d’origine, a una colpa che ha dannato e maledetto la specie: lo strazio del cadavere di Ettore. Se noi torniamo al canto omerico in cui vediamo l’eroe troiano combattere e morire, constatiamo alcuni fatti essenziali: Ettore esce per andare incontro a un semidio. Sotto mentite spoglie gli dei lo inducono alla sfida diretta, e l’inganno prosegue con il trucco della lancia. L’episodio evocato da Foscolo è quindi quello di un pantheon greco che non corrisponde a un’idea di giustizia. Inoltre, il semidio, Achille, l’essere per sangue imparentato col pantheon, contrappone alle richieste di Ettore quella che definiremmo la legge della giungla. Ettore gli parla e chiede, in caso di sconfitta e morte, che il suo corpo sia restituito ai suoi cari, per avere giuste esequie e rituale sepoltura. Promette che farà lo stesso nel caso fosse lui a uccidere Achille. A questa proposta fondata sul codice umano, Achille risponde urlando secondo le regole del mondo preumano, quello che Foscolo definisce del-

il club di calliope

le «umane belve»: gli animali non si scambiano i cadaveri ma si sbranano, e basta.Alle parole seguiranno i fatti: Achille farà scempio del cadavere di Ettore. Questo peccato d’origine segna la storia della nostra civiltà e, sulla scia ettorica di Enea, Foscolo parla dalla parte dell’esule, dello sconfitto, dell’uomo cui è stato negato il rito in morte. La memoria foscoliana, quindi, oltre a collegarsi alla nota interpretazione vichiana della storia dell’umanità, si fonda su quel nucleo di compassione e rappresentazione che lo storico delle religioni Julien Ries definisce costitutivo dell’homo religiosus, rivoluzionando le interpretazioni occidentali del concetto di religione, sempre assimilata a un credo teologico o a una professione confessionale inscritti in un contesto storico che li determina e fonda. Ma c’è di più: nel suo procedere cinematografico dal buio dell’urna alla luce del sole, dagli oscuri momenti della nostra lontana origine al definirsi delle civiltà, attraverso le fondamentali, vichiane conquiste di «nozze e tribunali ed are» (umanando gli istinti di quelle umane belve con cui Foscolo anticipa il termine «ominidi» della moderna paleoantropologia), nel suo crescendo verso i grandi edifici della civiltà, fino alla memorabilità dei costruttori esemplari, Foscolo evidenzia due realtà complementari e ineludibili: chiunque, purché lasci eredità d’affetti, ha vita dopo la morte nel ricordo dei vivi, e quindi l’amore genera vita, mentre gli uomini insigni, Repreresentative men, scriverà Emerson, non solo conseguono vita nella memoria ma anche, attraverso la memoria stessa e l’esempio, sollecitano resistenza vitale nei viventi, in un certo senso accrescendo e perpetuando la vita.

Più ancora dei grandi poeti, dei sacerdoti insomma della musa nel cui nome Foscolo sta scrivendo, giganteggiano la figura di Michelangelo e quella di Galilei. I due eroi che si spingono al confine della volta celeste: Galilei spostando l’orizzonte umano nelle regioni del cielo, Buonarroti dipingendo la cupola in cui il cielo e la terra si incontrano, nel brivido liminare delle dita che si sfiorano: brizer le toit de la maison, per citare un famoso titolo di Mircea Eliade, «spezzare il tetto della casa», uscire verso l’alto facendo breccia, entrare in comunicazione con il cielo sul modello arcaico dell’albero, che sale alimentato dalla sua

Ugo Foscolo da I Sepolcri

linfa, quell’albero presente come custode sin dall’inizio dei Sepolcri,, seppure nella versione funerea del cipresso. La volta della Sistina che la mano di Michelangelo affresca ripete l’antico rito della volta della caverna che la mano dei nostri antenati istoriava con i suoi cavalli e i suoi bisonti, i suoi dei, e le storie divine della specie tra terra e cielo, tra luce e tempo. Il volo di Foscolo, dalle prime cattedrali dell’umanità, culmina nella cattedrale che tutte le rappresenta nel mondo, nella cupola in cui le storie umane e la storia divina s’incontrano. Poi, dopo l’esploratore del cielo e il pittore della volta, dopo che il tetto è stato spezzato, i poeti. La poesia viene dopo l’esplorazione stellare e la pittura orante nella cupola, la poesia appare in forma scritta subito dopo, nei Sepolcri come nella storia dell’uomo, in forma di memoria di quegli eventi, una memoria che non fossilizza ma continuamente evoca e trasforma, fondamenta dell’immaginazione, fonte generante di vita, ponte tra i morti e i viventi, inafferrabile dono incluso nel codice genetico della stirpe umana.

IL BENE E IL MALE IN 33 STANZE in libreria

Un colpo di fucile e torni a respirare. Muso a terra, senza sangue sparso. Cose guardate con la coda di un occhio che frana mentre l’altro è già sommerso; e tutto s’allontana. Gli alberi si piegano su un fianco perdono la voce in ogni foglia che impara dagli uccelli e per pochi istanti vola. Franca Mancinelli

di Francesco Napoli

n poema ben compiuto, in 33 stanze, quante una cantica dantesca, per campire coraggiosamente l’inferno vissuto da uomini veri, protagonisti di una vicenda che è ormai nel conto della Storia. Emilio Zucchi nel suo recente Le midolla del male (Passigli, 64 pagine, 10,00 euro) con passo solidamente lirico riconduce sul piano di un fluido racconto in versi la «deriva criminale del fascismo», come scrive Conte nella sua Prefazione, incarnata da un aguzzino, Pietro Koch, e dai suoi martiri, tra cui

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la qui simbolica figura di Anna Maria Enriques. Una potente e lacerante storia delle vittime dove il poeta ha saputo rintracciare «l’abisso/ della parola divenuta carne», sostanza tangibile che ha poi trasformato in un’epica del male in cui intravedere certo «tutto/ l’errore che comprime il mondo» ma anche distinguervi, nella toccante e commovente (alla latina) ultima stanza, la forza del bene nelle parole della vittima al suo carnefice, parole pronunciate con la medesima vis poetica di un grande coro tragico.


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di Enrica Rosso l Teatro in scatola di Roma sarà possibile assistere fino al 12 dicembre a dieci dei diciassette episodi di Spara/Trova il tesoro/Ripeti, il ciclo epico di micro drammaturgia di Mark Ravhenill messo in scena da Fabrizio Arcuri con l’Accademia degli artefatti, vincitore del Premio della Critica 2010. Ai primi otto episodi presentati in prima uscita al Teatro Mercadante di Napoli nel 2009 si aggiungono ora Mikado e Terrore e miseria andati in scena al Fabbricone di Prato nello scorso gennaio e inediti per la Capitale. Il testo, tradotto da Pieraldo Girotto e Luca Scarlini e pubblicato da Editoria e Spettacolo, si compone di sedici atti unici autonomi più un epilogo, riconducibili a un tutto più complesso. Non un seriale quindi come il fortunato Bizarra attualmente in scena all’Angelo Mai, ma piuttosto diciassette finestre da cui assorbire le tensioni che andranno a formare un unico corpo stilistico il cui perno emotivo è il conflitto tra Occidente e Medio Oriente espresso attraverso la rappresentazione di situazioni organiche. Ciascun episodio si presenta con un titolo che risuona in una composizione virtuale di grandi classici: Delitto e castigo, Guerra e pace, Paradiso perduto, Intolleranza, Paradiso ritrovato, Donne in amore, Le troiane, Terrore e miseria, Il mikado, La madre. Insomma un catalogo di déjà vu, che immediatamente scatenano rimandi, ma non è che un trucco per regalare a ogni pièce un peso specifico e appropriarsi di un pensiero libero in grado di esprimere punti di vista opposti senza svalutare i precedenti, mantenendo come unica costante la perplessità sulla violenza a qualsiasi livello come espressione di potere. Nel corso delle varie serate sarà possibile assistere ai vari episodi (due a sera, fondamentale prenotare) per cogliere appieno la potenzialità del testo. In apertura del ciclo abbiamo assistito a Delitto e castigo. Quando, dietro al grande vetro specchiato che fa da sipario e che ci rimanda la nostra immagine, si materializzano gli interpreti, un primo spunto di riflessione sul ribaltamento del

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Televisione

Teatro Dostoevskij in Iraq MobyDICK

spettacoli DVD

IL CINEMA ITALIANO? UN CARO ESTINTO montato con il rigore di un’inchiesta sui tanti misteri degli anni 70. Di me cosa ne sai è la traccia di una detection impossibile alla ricerca del cinema italiano. Com’è potuto accadere che la patria di Monicelli, Risi e Fellini sia stata lentamente inghiottita da una labirintite acuta, che spinge gli autori contemporanei a circumnavigare ossessivamente attorno al proprio ombelico? Francesco Apolloni, Giulio Manfredonia e Valerio Jalongo ci guidano in un interessante viaggio che fa tappa in alcuni snodi cruciali della nostra decadenza. Culturale, prim’ancora che cinematografica.

È

PERSONAGGI

FABI E MINA INSIEME PER L’AFRICA punto di vista che cambia la percezione dell’esperienza che si sta vivendo e ancora, sul potere occulto di chi intangibile, ci usa e abusa (citando il precedente ciclo di lavori degli artefatti) per raggiungere i propri scopi. In scena il conflitto Usa-Iraq prende corpo nelle sembianze di un soldato americano e di un’intellettuale irachena durante un interrogatorio di guerra. I due sono a loro volta spiati da una telecamera che ne proietta i primissimi piani sul fondale creando per lo spettatore uno spazio interiore amplificato e ipnotico, una sorta di specchio magico di Alice in cui affondare lo sguardo alla ricerca di una verità che trascenda l’apparenza. Battute brevi, botta e risposta all’inizio, per poi scivolare ognuno nell’impellenza della sopravvivenza.

Due vittime della guerra: lui della sua pistola, lei dei suoi lutti; entrambi traditi nei loro ideali. Fabrizio Croci e Caterina Spigola i due interpreti, belli e ammirevoli nella loro ricerca di essere oltre ad apparire. Fabrizio Arcuri sceglie ancora una volta di immergersi in un progetto dilatato nel tempo, un’esplorazione che non si esaurisce in un’unica stagione, ma cresce e matura con un più ampio respiro restituendo senso a un lavoro che cresce di anno in anno attraverso scelte mirate a rappresentare e vivere il tempo presente con pienezza e partecipazione.

Spara/Trova il tesoro/Ripeti, Teatro in Scatola fino al 12 dicembre, info@teatroinscatola.it tel 347 6808868

a qualche giorno nelle radio nazionali, le voci di Niccolò Fabi e di Mina rispolverano l’arcana bellezza di Parole parole, ma l’operazione non ha soltanto apprezzabili virtù cosmetiche. Il brano inciso dal cantautore romano insieme alla tigre di Cremona rientra infatti nel progetto Parole di Lulù, dvd in uscita 15 dicembre, che è il commovente omaggio tribuitato da Fabi alla figlia scomparsa. I proventi del lavoro saranno devoluti alla ricostruzione dell’ospedale pediatrico di Chiulo, in Angola, da poco avviata dall’ong Medici con l’Africa. Solidarietà e alta qualità duettano insieme a sostegno di una causa ammirevole.

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di Francesco Lo Dico

La riscossa dei morti viventi (sulle orme del fumetto) l genere è quello fanta-catastrofico. Non nuovo, certamente, ma suggestivo. Parlo di The Walking Dead (su canale Fox). L’idea portante è quella dell’umanità che si sveglia e trova un mondo completamente diverso, paralizzato, annientato da una sciagura di cui non riesce a delineare né i contorni né la causa. La zona-madre è Atlanta: città morta, strade intasate da auto ferme. La metropoli si fa deserto, i grattacieli vetro-acciaio sono torri assurde sul nuovo deserto, il ricordo della normalità. L’aspetto più spettrale è comunque lo sbandante esercito degli zombie, i morti che camminano, personaggi molto presenti nella letteratura fantastica e nel cinema. Il protagonista è il vice sceriffo Rick Grimes, l’americano medio con indosso una divisa e una stella appuntata sul petto. Uno che è destinato a garantire l’ordine e ad applicare

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la legge, in tempi normali. Che non sono quelli in cui si svolge l’azione, dove le regole sono diverse, ferocissime, incerte. Il nodo narrativo è proprio questo: manca una bussola di comportamento, si è dissolto un codice etico, si deve vivere

alla giornata cercando la sopravvivenza e sperando che ci sia ancora un nucleo di simili. Il sogno è di trovare un centro governativo-scientifico dove magari si esperimenti un rimedio, un antidoto. Sì,

perché i morti viventi, così mostruosi, diffondono il «morbo» mordendo gli umani. È una specie di possessione: chi è stato «infettato» avverte la propria trasformazione, tenta di opporre resistenza, ma alla fine cede nello scontro ancestrale tra due entità. Il serial ha qualche lentezza evidente ma necessaria, anche per infilare nella trama i sentimenti (paura, terrore, compassione) e le storie individuali. Come sempre accade a causa di eventi così radicalmente impressionanti - la serie Lost ce lo ha recentemente insegnato - i vari personaggi sfoderano nitidamente le loro peculiarità caratteriali. C’è il leader naturale, c’è il rozzo, c’è il dubbioso, c’è chi sfiora il tradimento, c’è il saggio, c’è la madre disperata. Per neutralizzare gli zombie non basta sparare, occorre sfondare loro il cranio. Di una seconda morte hanno bisogno. The Walking Dead pesca nelle

paure ancestrali, trasforma in orribile realtà l’interrogativo che talvolta ci sfiora: e se domattina il mondo non fosse lo stesso che abbiamo lasciato fuori, nel buio, quando ci siamo addormentati? Lo scenario è la desolazione. Che può ricordare il famoso romanzo di Corman McCarthy La strada, diventato poi film (The road, con Viggo Mortesen, Charlize Theron e Robert Duval). Pellicola che, ricordiamo, qualcuno non voleva distribuire in Italia «perché troppo deprimente». The Walking Dead ha uno scheletro e una trama tipici dei cartoon horror. Infatti proviene dal fumetto di grande successo ideato da Robert Kirkman (pubblicato in America da Images Comics e in Italia da Saldapress). Kirkman è il produttore della serie, mentre la regia è di Frank Darabont, tre volte candidato all’Oscar. Indubbiamente sono narrativamente tutti creditori di Stephen King. Un’occasione, per i sopravissuti, di rifondare un ordine, di agire secondo i canoni della solidarietà. Una rifondazione dell’umanità, quando nessuno può (p.m.f.) sentirsi più un’isola.


Cinema

MobyDICK

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ornando a casa per Nadell’incantevole tale, autore norvegese Bent Hamer, è il film ideale per entrare nello spirito delle feste, ora che siamo nel mese della conifera agghindata e del presepio. Le storie sono tratte dai racconti di Levi Henriksen; se il film non raggiunge la grazia serena e profonda di O’Horten, opera precedente, tocca corde simili che sono la specialità di un autore singolare: la (tragi)comicità naturale sempre in agguato nell’accidentato percorso che costituisce una vita qualsiasi e la rende unica. Al posto della radiografia spirituale di un macchinista di treno che affronta la pensione, qui Hamer racconta le avventure di diversi personaggi in un paesino norvegese la sera della vigilia: un medico troppo dedito al lavoro per pensare di diventare padre, viene rapito da un immigrato clandestino perché assista la moglie prossima al parto; un uomo disperato perché la moglie lo ha sostituito con un altro e cambiato le serrature di casa, aguzza l’ingegno per aggirare il divieto di portare i regali ai figli la notte di Natale; un barbone ex campione sportivo incontra un vecchio amore, mentre tenta di tornarsene al suo paese per le feste; l’amante di un uomo sposato escogita la vendetta quando lui ritira la parola data di lasciare finalmente la moglie; un uomo anziano s’affanna a preparare la casa per festeggiare con una persona di grande riguardo. Ci sono anche un prologo misterioso, con un epilogo aggraziato. Da vedere. (idea regali: i dvd dei film di Hamer, tutti o a scelta.) Da vedere.

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tempo, ricamata sulla vera lotta delle operaie di una fabbrica inglese per aumentare i salari, dimezzati rispetto ai corrispettivi maschi, nel 1968. Sally Hawkins (Happy Go Lucky - La felicità porta fortuna di Mike Leigh) è Rosie O’Grady, una brava mamma e moglie, fattiva e determinata, che si mette a capo di 147 lavoratrici per il primo sciopero femminile alla Ford Motor Company britannica. Le donne lavorano in condizioni malsane e fatiscenti senza lamentarsi. S’arrabbiano solo quando sono declassate da operaie qualificate a semplici; ma la misura si colma alla scoperta che in busta paga loro prendono molto, molto meno dei maschi di pari grado. Ci sono tutti i nodi che vengono al pettine quando le donne recalcitrano: accuse di egoismo distruttivo dell’ordine costituito, difesa della superiorità «naturale» dei maschi, con in più la corruttibilità dell’ambigua leadership sindacale, ghiotta dei suoi privilegi e restia a rompere la comoda (per loro) sintonia con i capi aziendali. La sceneggiatura è scoppiettante, la regia di Nigel Cole briosa (Calendar Girls) e il cast ben assortito e calzante. Bob Hoskins è Albert, il caposala che tifa per le ragazze, Kenneth Cranham è Monty, il capo sindacale ruffiano e inaffidabile. La splendida Rosamund Pike è Lisa, laureata a Oxford e solidale con la rivolta rosa, stanca di essere infantilizzata dal marito, dirigente Ford pomposo. Miranda Richardson è straordinaria nei panni del ministro Barbara Castle, combattiva e solidale ma investita dai contraccolpi della realpolitik. Da non mancare. (Strenna per i figli: portarli a vedere Potiche e We Want Sex, un duetto illuminante.)

Tutti i déjà vu del nichilista Woody

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni è l’ultimo degli intrattenimenti annuali che il prolifico Woody Allen offre ai suoi fan. Con una puntualità da regnanti, il regista ricicla il suo noto nichilismo con un patchwork di nozioni ricavate dalle sue oltre quaranta pellicole. Ammantate di un’arcinota citazione shakespeariana, «La vita è un racconto di un’idiota, pieno di strepito e di furore, privo di significato», è messa in bocca dal poeta al pluriomicida MacBeth, ma è sempre presa come un distillato del pensiero dell’autore, mentre è assai discutibile che Shakespeare fosse un ateo depresso e privo di valori. Pensare che sia la filosofia del Bardo sublime è una tesi molto comoda per uomini che violano abitualmente le regole basilari della convivenza civile, come «non uccidere» e «non portare a letto la figlia di tua moglie». Nel competente ma non nuovissimo film ci sono le vite di varie coppie in crisi che si intersecano, con il loro carico di sogni e ambizioni frustrate, di meschinità e illusioni. Alfie e Helena sono sposati da quarant’anni, e nel più tradizionale dei rigurgiti anti invecchiamento, lui si sente ancora sgarzulino, e accusa la moglie di essersi lasciata appassire. Alfie (Anthony Hopkins al minimo sindacale come sforzo recitativo) sbianca i

di Anselma Dell’Olio denti, scurisce la pelle con la lampada e s’allena in palestra, nella speranza di attrarre un amore fresco che lo rinnovi. Helena, invece (Gemma Jones), corre da una rassicurante chiromante (Pauline Collins) che, annusando pingui alimenti, diventa la sua più fidata consigliera, confidente e veggente, con una previsione per la scaricata che dà il titolo al film. La coppia ha una figlia, Sally (Naomi Watts) che lavora in una galleria d’arte e mantiene (con l’aiuto di mamma) il marito Roy (Josh Brolin con la pancetta e un poco donante taglio di capelli) che ha scritto un solo libro di successo e non riesce a finire il secondo, affetto com’è dal blocco dello scrittore. Sally è stufa di rimandare il figlio desiderato ma il piagnucoloso scrittore non è mai «pronto», e inganna il tempo spiando la bellissima musicista della finestra di fronte (Freyda Pinto). Trova il modo d’incontrarla e farle la corte, confessando nientemeno il suo guardonismo. Solo nell’universo di Woody Allen, divinità longeva e autoreferenziale, uno stalker (pure sposato) non solo non fa paura alla concupita ma per il solo fatto di essere uno scrittore, lei s’innamora al punto di abbandonare un fidanzato più confacente sull’altare. Sally caccia Roy di casa per stanchezza e s’invaghisce del sensuale gallerista Gregg (Antonio Banderas) che a sua volta è in crisi con la moglie ma preferisce la maliziosa pittrice Iris, che Sally gli ha proposto di rappresentare. Con rodato professionismo, Allen riesce a tenerci agganciati fino alla fine del déjà vu. Solo dopo sentiamo il sollievo di esserci finalmente liberati da personaggi petulanti e vuoti. (P.S. Come sempre, il doppiaggio dei film di Allen rasenta la perfezione).

We Want Sex è il titolo scaltramente rivisto dell’originale Made in Dagenham. È una spassosa commedia agitprop come non se ne vedevano da

Nowhere Boy è l’opera prima della

Con rodato professionismo Allen riesce a tenerci inchiodati alle sue solite storie. Grazia e mistero nei racconti natalizi di Bent Hamer. Da non mancare “We Want Sex”, spassosa commedia agitprop. Meritevole l’opera prima di Sam Taylor-Wood sull’adolescenza di John Lennon

videoartista Sam TaylorWood, presentata al film festival di Torino appena concluso. Il film racconta gli anni centrali dell’adolescenza di John Lennon. La storia inizia con la morte dell’amato zio George (David Threlfall), il marito di Mimi (Kristin Scott Thomas), la zia che ha cresciuto il ragazzo quando la madre Julia non era in grado di farlo e il ragazzino rischiava di finire in istituto. Il punto di partenza è il libro della sorellastra di Lennon sulla loro madre. Vediamo il futuro Beatle mentre muove i primi passi nella musica e scopre l’esistenza della madre, residente da sempre in un quartiere vicino a lui con la nuova famiglia, a sua insaputa. All’inizio sembra un film banale, con un protagonista sensibile ma poco somigliante all’originale (Aaron Johnson). Solo alla fine, dove si arriva d’un fiato, ci si accorge di essere rimasti agganciati alla storia. Yoko Ono e Paul McCartney hanno fatto bene a concedere diritti e supporto morale. Da vedere, senza aspettarsi dei sosia.


ai confini della realtà I misteri dell’universo MobyDICK

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di Emilio Spedicato

el 1950 usciva negli Stati Uniti il libro Worlds in Collision, pubblicato da Doubleday, editrice specializzata in libri di carattere scientifico. Autore Immanuel Velikovsky, uno psichiatra ebreo figlio di un ricco commerciante ebreo moscovita, uno dei fondatori del movimento sionista e acquirente di un terreno nella Palestina allora turca in cui fu realizzato il primo kibbutz.Velikovsky lasciò la Russia durante la rivoluzione raggiungendo la Palestina dove allora migravano molti ebrei in fuga da pogrom e dagli scenari disegnati da teorie come quella di Hitler nel Mein Kampf. Velikovsky era vicino alle teorie di Freud, che mai conobbe personalmente, e divenne relativamente ricco in Palestina, dove persone stressate e alla ricerca di una cura psichiatrica ne esistevano molte. Fu leggendo l’opera di Freud su Edipo, così come tracciato nelle tragedie greche, che intuì una diversa lettura della storia di Edipo, in un contesto più ampio, dove la cronologia classica egizia doveva essere modificata e dove l’eco di catastrofi di origine extraterrestre permetteva una migliore comprensione della religione degli antichi. Il lavoro Oedipus and Akhnaton, dove identifica nel faraone Akhenaton, marito di Nefertiti e padre di Tutankhamen, il reale personaggio di Edipo, fu il punto di partenza della sua straordinaria opera di revisione degli scenari antichi.

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Immanuel si limitò al secondo millennio a.C. e a parte del primo, usando una cronologia basata essenzialmente sulla Bibbia e affermando che immani catastrofi di origine extraterrestre colpirono la terra, originate da inusuali eventi nel sistema solare. Chi scrive ha letto di un fiato Oedipus and Akhnaton assolutamente affascinato e nell’arco di sei ore... la stessa cosa è capitata al professore Alred De Grazia di Princeton, che in seguito a quella lettura ha totalmente modificato i suoi interessi scientifici. Ma il pri-

Mondi in collisione

sessant’anni dopo oggi sulla elevata probabilità di impatti, oltre che di passaggi ravvicinati; si ricordi che gli Oggetti Apollo erano praticamente sconosciuti (sono oggetti in orbita di collisione con i pianeti interni) e che l’idea di una cometa di grandi dimensioni che potesse spezzarsi in vari frammenti e schiantarsi su Giove, come avvenuto con la cometa di Shoemaker-Levy, era considerata un evento di bassissima probabilità. Non si conoscevano sistemi planetari extrasolari - alcuni li pensavano inesistenti - e l’evidenza di colossali impatti anche nel sistema solare data poi dall’esplorazione spaziale era carente. Doubleday fu attaccata per avere pubblicato un

Fu il primo libro pubblicato da Immanuel Velikovsky, autore di un’importante opera di revisione degli scenari antichi spiegati con fenomeni di impatti extraterrestri. Come nel caso dell’Esodo, dovuto a un’interazione con la coda di Venere… mo libro pubblicato fu Mondi in collisione, titolo editoriale che non corrisponde al contenuto del libro, dove si parla non di collisioni ma di passaggi ravvicinati. Il libro apparve in versione sintetica in Reader’s Digest, in Italia Selezione, una rivista che ha svolto un ruolo culturale importante anche se finalizzato ai valori degli Stati Uniti. Ricordo di avere letto questa sintesi quando avevo sette anni, restandone profondamente impressionato, in particolare per la spiegazione del fermarsi del sole nel cielo, in occasione delle guerre di conquista del territorio di Canaan (secondo il professor Salibi, non la Palestina ma l’Arabia del sudovest) da parte di Giosuè. Il libro di Velikovsky incontrò l’opposizione del mondo accademico, contrario a dare valore storico alla Bibbia e allora non informato come

libro eretico, ruppe il contratto con Velikovsky, che tuttavia ebbe un ritorno di pubblicità e il suo libro fu a lungo un best seller. Non discutiamo qui il contenuto del libro, ricordiamo solo che Velikovsky accetta l’affermazione mitologica della nascita di Venere da Giove. Non ne fornisce la causa, ora proposta in modo esauriente dal fisico John Ackerman, e la data troppo vicino, nel secondo millennio, quando una straordinaria affermazione nella cronologia Maya la collocherebbe al 6900 a.C. Questa data si accorda con una serie di eventi catastrofici simultanei che si sarebbero allora verificati sulla terra, stando al libro, non tradotto in italiano, Il diluvio c’è stato veramente, dei geologi e paleontologi Alexander e Edith Tollmann, dell’Università di Vienna.Velikovsky associa gli eventi dell’Esodo a una in-

terazione con la coda di Venere, allora non ancora in forma planetare (ma la temperatura di Venere sui 700 gradi può ancora essere presa come indicazione di una recente formazione). Una spiegazione alternativa è quella di chi scrive, basata su un passo di Paolo Orosio, collaboratore di Agostino, dove entrano in gioco due probabili oggetti Cruithne (corpi che seguono il nostro pianeta avvicinandosi e allontanandosi secondo una dinamica del tutto inattesa), uno dei quali, il Lampo di Omero, si schianta sull’Africa, l’altro, il Fetonte della mitologia greca, esplode sulla Germania del nord… L’idea di Velikovsky di introdurre le catastrofi nello studio del nostro pianeta nei millenni precedenti la nostra era è stata poi ripresa da vari studiosi, che qui non citiamo. Tuttavia va detto che all’inizio dell’Ottocento uno studioso, Johan Gottlieb Radlof, assai poco noto sino alla recente traduzione dal tedesco in inglese della sua opera a cura di Amy De Grazia, aveva prestato una grande attenzione agli eventi catastrofici dell’antichità. Nella monografia, che citiamo in italiano, La distruzione dei grandi pianeti Espero e Fetonte e le conseguenti distruzioni e diluvi sulla

terra, e nuove considerazioni sul linguaggio mitico degli anRadlof tichi, mette insieme una raccolta assai vasta e completa degli eventi catastrofici descritti nella letteratura classica greco-romana. Un lavoro assai importante, forse non noto a Velikovsky, che pure ignorò Paolo Orosio.

Dalla

lettura

del libro di Radlof chi scrive ha notato l’importanza in particolare del cosiddetto Diluvio di Inaco, che precede di sette generazioni il Diluvio di Deucalione, da Orosio associato all’Esodo, all’esplosione di Fetonte e ad altri eventi. La data dell’Esodo a partire dalla Bibbia, ovvero 1447 a.C., è corretta stando a varie argomentazioni. La data del Diluvio di Inaco non può essere esattamente stimata, data l’ambiguità nel definire i valori della generazioni, generalmente presi fra 25 e 30 anni. Dovrebbe trattarsi di circa due secoli, e potrebbe allora corrispondere a quel 1639 a.C. che è associato sia all’eruzione del vulcano di Santorini (ridatata recentemente dopo la scoperta di un ramo di ulivo sotto le ceneri) che a una crisi climatica, evidenziata da considerazioni sugli anelli di crescita degli alberi. Il Diluvio di Inaco potrebbe quindi essere stato causato dal collasso della caldera di Santorini, e la crisi climatica spiegare i sette anni di vacche magre in Egitto all’epoca di Giuseppe figlio di Giacobbe…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Povertà e mortalità materna vanno purtroppo a braccetto UNA PROPOSTA PER L’ITALIA Il 20 e 21 novembre si è tenuta a Milano l’assemblea nazionale dell’Udc verso il Partito della Nazione. Un’iniziativa che ha dato nuovo slancio a una forza responsabile che con proposte concrete, nell’interesse del Paese, vuole individuare una via d’uscita alla crisi che sta bloccando l’azione del governo e della maggioranza. Il Paese vive una situazione difficile, pagando ancora dazio a una crisi economica che ha colpito principalmente i ceti più deboli, i lavoratori dipendenti, le piccole imprese. Un Paese che poco in formazione, ricerca e sviluppo, in cui è ancora eccessivo il peso della burocrazia;e in cui la lentezza e le anomalie del sistema giudiziario rappresentano un freno allo sviluppo economico. Un Paese che vive un periodo di grande crisi etica e culturale. La rivoluzione liberale più volte promessa non si è mai compiuta, e oggi urge una grande opera di modernizzazione. Può questa legislatura avere un colpo di coda e avviare un serio percorso di riforma? L’Udc è pronta, con grande senso di responsabilità, a sedersi al tavolo del confronto e a sostenere l’apertura di una fase nuova. Ma questo potrà avvenire, a mio avviso, soltanto se si registrasse la disponibilità sostanziale, in primis del Pdl, a riscrivere i confini della maggioranza e a rivedere le priorità dell’azione di governo in funzione di quelle che sono le reali priorità del Paese. È necessario un chiaro atto di discontinuità rispetto a quanto finora fatto dall’attuale governo: le ricette proposte durante la scorsa campagna elettorale non sono più attuali, e non saranno i continui annunci e le continue promesse non mantenute a risolvere i problemi. Solo se il bene degli italiani rappresenterà la bussola di una fase nuova della legislatura, allora ci si potrà sedere al tavolo delle trattative e si potrà farlo coinvolgendo tutte le forze responsabili che vorranno dare il proprio contributo. Se invece questo non sarà possibile, chi vorrà portare il Paese a nuove elezioni anticipate se ne assuma pure la responsabilità. A quel punto sarà bene che il nascente Partito della Nazione si presenti al giudizio degli italiani forte dei propri valori, della propria visione di società, delle proprie proposte per il Paese, e del proprio senso di responsabilità, senza lasciarsi andare a facili suggestioni di arlecchinesche alleanze cementate solo dall’antiberlusconismo. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I

LE VERITÀ NASCOSTE

La mortalità materna è una delle più insopportabili conseguenze della povertà. Ogni anno nel mondo 350mila donne muoiono per complicazioni legate alla gravidanza e al parto. Molte di loro muoiono tra sofferenze atroci. Alcune a casa, senza l’assistenza di personale medico; altre mentre cercano di raggiungere un ospedale; altre ancora in un letto d’ospedale perché non sono state curate in tempo. La maggior parte di queste donne vive in povertà e risiede nei Paesi in via di sviluppo, tuttavia, anche nei cosiddetti Paesi ricchi le donne che appartengono a minoranze etniche vanno spesso incontro a ostacoli nell’ottenere l’assistenza sanitaria cui hanno diritto. Per fermare questa tragedia abbiamo lanciato una campagna mondiale per chiedere ai governi che l’assistenza ostetrica d’urgenza sia disponibile per ogni donna, che siano eliminati i costi che ostacolano l’accesso alle cure mediche di base e che sia rispettato e tutelato il diritto delle donne al controllo sulla loro vita sessuale e riproduttiva. Fino al 12 dicembre è possibile sostenere la campagna di Amnesty International “contro la mortalità materna”attraverso il numero 45506 inviando un sms.

www.amnesty.it

SIAMO UOMINI O PENDOLARI? La peggiore è la tratta Piacenza-Milano, dove il 100% dei pendolari è insoddisfatto del servizio ferroviario. Segue BergamoCarnate-Milano. L’area di Roma esprime il malcontento più esasperato, con il 79% di insoddisfatti e la maglia nera consegnata alle tratte Frosinone-Roma e Fara SabinaRoma. Nel complesso dell’indagine ciò che più esaspera i pendolari è la pulizia inesistente: sporcizia sui sedili e nelle carrozze, cattivo odore, vetri e bagni in condizioni antigieniche, presenza di rifiuti. Altroconsumo mette a disposizione dei viaggiatori che hanno subito disservizi gravi sulle tratte Piacenza-Milano e BergamoCarnate-Milano i propri legali per richiedere il risarcimento danni. Tra i motivi di insoddisfazione, oltre all’igiene, emerge la problematica della sicurezza, collegata al sovraffollamento.

Angelica Del Prete

AL NORD I RIFIUTI MA SOLO SE PARTE LA COSTRUZIONE DEI TERMOVALORIZZATORI Le Regioni del Nord non possono sottrarsi ad un vincolo di solidarietà nazionale di fronte ad una emergenza che rischia di diventare crisi. IL presidente Caldoro ha però l’obbligo morale, prima di chiedere aiuto ai colleghi settentrionali, di dare delle garanzie ben precise: far partire i bandi per la costruzione di almeno cinque ter-

movalorizzatori, uno per ogni Provincia; finanziare la costruzione degli altri impianti necessari a completare la filiera; riaprire discariche in ogni macroarea fino a quando le installazioni non saranno funzionanti; organizzare una raccolta differenziata che raggiunga almeno l’obiettivo minimo del 50% in ogni comune.

Lettera firmata

I CAMBIAMENTI CLIMATICI: FANNO AUMENTARE LE MALATTIE Le malattie aumentano e la salute umana peggiora a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici. Alcune azioni per ridurre le emissioni di gas serra e quindi il cambiamento del clima possono direttamente migliorare la salute umana. Invitiamo quindi i politici di tutta la Terra a valutare i benefici per la salute delle politiche di riduzione del danno ambientale. Questi benefici per la salute potrebbero in parte compensare i costi del cambiamento climatico e contrastare la convinzione che le politiche per combattere i cambiamenti del clima saranno necessariamente gravose da un punto di vista sociale ed economico.L’introduzione, per esempio, di 150 milioni di forni da cucina a bassa emissione in India potrebbe prevenire circa 2 milioni di morti premature causate dall’esposizione a inquinanti domestici e ridurre l’inquinamento da effetto-serra. Inoltre la

L’IMMAGINE

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “…VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

FLORIDA. Shannon Wriska, 34enne madre di tre figli, è stata arrestata per aggressione e incendio doloso. Il motivo? La donna era gelosa di Jennifer Lopez. Tutto era iniziato quando stava guardando un film con l’attrice come protagonista assieme al marito Robert, e a lei non piaceva come l’uomo guardava Jennifer Lopez. Hanno iniziato a litigare, ma alla fine tutto sembrava essersi calmato e i due erano andati a letto. Ma quando l’uomo ha chiesto alla donna di spostarsi leggermente nel letto, lei l’ha presa come una provocazione. Il giorno dopo, quando ha visto Robert che stava parlando con un vicino di casa, la donna è andata di nuovo su tutte le furie, e ha appiccato il fuoco a un go-kart di proprietà del marito. Mentre Robert si occupava delle fiamme, Shannon ha preso i cani dell’uomo e li ha caricati in macchina, minacciando di portarli a fare abbattere. Poi se n’è andata senza né auto né animali, ma ha sferrato un pugno al marito. Mentre l’uomo era a casa del vicino, che aveva chiesto notizie dello strano comportamento della moglie, la donna è tornata in casa, per dare alle fiamme la vasca idromassaggio e una barca di proprietà dell’uomo. La donna ha negato alla polizia di avere mai dato alle fiamme alcunché.

riduzione dell’uso delle auto private in città e la promozione di forme di mobilità alternative (come andare in bicicletta o camminare) ridurrebbero l’emissione di gas serra e farebbero diminuire il numero di malattie croniche. Il Professor Looi Lai Meng, membro dell’Accademia Malese delle scienze ha dichiarato: «Molti considerano i cambiamenti climatici soprattutto come una minaccia all’ambiente e sono meno consapevoli dei problemi per la salute. Inoltre, gli abitanti dei paesi più poveri, che sono meno responsabili delle emissioni di gas serra, sono i più vulnerabili e subiscono le maggiori minacce alla loro salute. I benefici per la salute umana costituiscono un incentivo a ridurre le emissioni di gas serra» .

www.iamp-online.org

SLA: IL GOVERNO GARANTISCA IL PROTOCOLLO DIAGNOSTICO

APPUNTAMENTI DICEMBRE SABATO 11 ORE 16 - SALERNO - TEATRO AUGUSTEO I Circoli Liberal della provincia di Salerno partecipano all’incontro dell’Udc “… verso il Partito della Nazione” con Pier Ferdinando Casini

Gelosa della Lopez, appicca il fuoco

Naturalmente spettinato Solo due cose possono far rizzare i 30mila aculei di un porcospino nordamericano: il vento di una giornata invernale e la presenza di un predatore nei paraggi. Quando una lince o un lupo si avvicinano, il mammifero inizia a sbattere i denti per spaventare l’aggressore e erige la pelliccia emettendo anche un odore sgradevole

Ogni malato di sclerosi multipla deve essere messo in condizione di sapere se è idoneo o meno al trattamento di angioplastica venosa. Anche nel dubbio che esso possa essere efficace, i pazienti hanno comunque diritto a una risposta e a una proposta. Non vorrei che, davanti a uno stato di sofferenza oggettiva, si dovesse sommare l’incertezza sull’accesso al protocollo diagnostico o, peggio, che quest’ultimo possa essere in qualche modo riservato solo a certi pazienti. Ogni giorno perso è percepito come un aggravamento della malattia. Un numero altissimo di malati di sclerosi multipla ha le vene giugulari e altre vene cerebrali e del torace malformate. Liberandole, tutti i malati di Sla che si sono sottoposti a questo intervento riferiscono di aver ricevuto indubbi benefici, tra cui il blocco della malattia, il recupero immediato della stanchezza cronica e il recupero di alcune funzioni fisiche.

P.B.


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grandangolo L’intervento al convegno organizzato dal Progetto Culturale della Cei

150 anni dopo: o federalismo (solidale) o addio Unità

Dentro il groviglio di antiche e nuove questioni da cui la proposta è avvolta, la secolare lacerazione tra Nord e Sud non solo è venuta rafforzando la sua collocazione centrale, ma sempre più spesso tende a farsi coincidente con l’intero tema. Ma, se bene interpretato, può rafforzare il contributo dell’Italia all’Unione Europea di Lorenzo Ornaghi i potrebbe temere, per più di un motivo, che anche la riforma istituzionale del federalismo, non diversamente dai passati progetti di riforme costituzionali, sia purtroppo affetta dal micidiale ‘paradosso dell’impossibilità’. Non pochi studiosi e commentatori politici hanno sottolineato come risulti del tutto inutile (e spesso controproducente) varare leggi, quando manca l’essenziale per dare a queste concreto ed efficace compimento. E in qualche osservatore disincantato cresce la sensazione che per il federalismo stia ormai scadendo (o già sia scaduto) il limite massimo di tempo concesso dai duri fatti della storia e della politica. Dentro il groviglio di antiche e nuove questioni da cui il federalismo è avvolto, d’altro canto, la secolare lacerazione tra Nord e Sud non solo è venuta rafforzando la sua collocazione centrale, ma sempre più spesso tende anche a farsi coincidente con l’intero tema. Anziché strumento possibile (pur se, di necessità, imperfetto) di ricomposizione o riaggiustamento di una tale lacerazione, il federalismo ne diventa l’espressione estrema, il suggello definitivo. In tal modo, però, quanto più le (comprensibilmente) differenti concezioni politiche intorno al federalismo tendono a ideologizzarsi, tanto più si diffonde l’erronea convinzione che il federalismo sia tutt’uno con la questione Nord-Sud. E tanto più tende a radicalizzarsi, simultaneamente, la persuasione dell’illusorietà di voler riformare ciò che non può o non intende essere utilmente e finalmente riformato. Della percezione sempre più ampia che il Paese sia malato di

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una sostanziale irriformabilità, studiosi e opinionisti anticipano per ora le conseguenze possibili o probabili. Resta invece sullo sfondo l’alternativa, secca e temibile, tra due esiti: o la capacità dell’intero sistema politico di non scivolare ulteriormente lungo il piano inclinato di una crescente stagnazione, o la rottura traumatica di alcuni (o molti) degli elementi costitutivamente strutturali del sistema politico-statale dell’età repubblicana. Le spie di allarme, che a tal proposito si stanno accendendo, non vanno tuttavia trascurate o sottovalutate. All’immagine – evocata qualche tempo fa – di una «secessione dolce», la cui natura più propriamente psicologica attiene alle rappresentazioni sociali, si vanno affiancando quelle di una «secessione silenziosa», praticabile o già praticata nella sfera dei comportamenti o degli intendimenti economico-industriali, e di un «secessionismo culturale», politicamente forse più rischioso al Sud che non al Nord.

Eppure il federalismo ha dalla sua, come elementi principali di sostegno, almeno due fattori storici (o due processi di lungo periodo), di cui l’uno attraversa l’intera storia unitaria sino a oggi e l’altro, già in atto, determinerà o comunque influenzerà il domani della nostra comunità nazionale. Se bene inteso, il federalismo – appunto nei suoi termini più ampiamente istituzionali – non è soltanto un modo di riorganizzare e riequilibrare i poteri ‘costituzionali’ ai vari livelli, o di spostare competenze e funzioni dello Stato pur rilevantissime quali quelle di natura fiscale, ma è anche e soprattutto la “costru-

zione” di corrispondenze funzionali (o le più funzionali possibile) tra centri politici e territorio, tra i gruppi in cui scalarmente si struttura la classe politica e le istituzioni di governo e di rappresentanza, tra le politiche pubbliche nei differenti snodi della loro decisione e attuazione e le aspettative dei cittadini, tra politica, economia e società. In questo primo senso, il federalismo è

Dopo uno Stato che somiglia alla provvidenza e uno Stato iper-invasivo, abbiamo bisogno di vere riforme (potrebbe essere) l’indispensabile ‘ammodernamento’ dello Stato e delle sue più tradizionali istituzioni, dopo la fase lunga dello Stato-provvidenza, e dopo quella della incontrastata pervasività della politica e dei partiti dentro la vita della società. Se bene inteso e intelligentemente attuato, il federalismo è (potrebbe essere) quell’assetto non solo politico-istituzionale, ma anche economico-sociale, maggiormente in grado di identificare e rafforzare il contributo dell’Italia all’ancora incerta definizione del ruolo dell’Unione Europea dentro il sistema globale. E maggiormente in grado, al tempo stesso, di contrastare il rischio di essere trasfor-

mati in un Paese sostanzialmente insignificante, per effetto di quegli spostamenti degli assi geo-politici e geo-economici che stanno ridisegnando il sistema globale, pur secondo i ritmi dei cambiamenti autenticamente epocali le cui accelerazioni più forti o violente si manifestano solo all’improvviso e pressoché inaspettatamente. Un federalismo bene inteso e intelligentemente applicato non può che essere un «federalismo solidale», basato integralmente sul principio di sussidiarietà e via via costruito col ricorso a un tale principio, come sua applicazione del tutto conseguente e coerente, oltre che innovativa perché adeguata alle urgenze del presente e previdente rispetto al domani. Un federalismo solidale, quando nel suo orizzonte mostrasse con chiarezza l’inscindibile nesso tra il necessario ammodernamento delle istituzioni e l’altrettanto necessaria (e realistica) prospettiva di ciò che sarà il futuro welfare per la cittadinanza, a far crescere e praticare la troppo spesso evocata e troppo raramente praticata virtù della ‘responsabilità’: nei confronti dell’intero Paese, a partire dalla responsabilità rispetto a se stessi. E di necessità comporterebbe, questo federalismo solidale, il radicamento di un ceto politico ‘territoriale’, che, saldamente raccordato alle rappresentanze sociali, con esse lavori fianco a fianco, operando insieme per finalità comuni e per obiettivi condivisi. Ceto politico e rappresentanze sociali: da qui, con ogni probabilità, si deve incominciare a cercare le più funzionali corrispondenze tra la legittimazione a governare (e il concreto esercizio dell’attività di ‘governo’) e la legittimazione a rap-


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Con l’unificazione d’Italia si rafforza la figura del papa “padre di tutto il mondo”

Ma il Risorgimento ha salvato soprattutto la Chiesa universale di Agostino Giovagnoli ollecitando l’unificazione italiana, di fatto l’Europa ha affidato all’Italia anche la soluzione di un problema che oltrepassava anche i confini europei: la collocazione della Chiesa cattolica e in particolare del papato nel mondo contemporaneo. È questo il secondo nodo che vorrei richiamare. Nella ristrutturazione ottocentesca dello spazio europeo, infatti, non c’era più spazio per formazioni politico-territoriali e istituti giuridici, tra cui gli Stati della Chiesa e il potere temporale del papa, nati nel Medioevo e modellati in relazione ad un potere politico multinazionale, quello imperiale, progressivamente svuotato dagli Stati nazionali e definitivamente tramontato dopo il Congresso di Vienna. E, forse, nell’ottocento, parte dell’opinione pubblica europea pensava che dovessero finire anche il papato e il potere spirituale del papa. Com’è noto, l’unificazione italiana si è realizzata imponendo la fine del potere temporale e Pio IX ha continuato sempre a protestare contro i “fatti compiuti”. La “questione romana” è stata poi risolta, a distanza di circa di sessant’anni dalla presa di Roma, con il Trattato Lateranense, che realizzò la conciliazione tra la Chiesa e l’ Italia, portando così a pieno compimento il Risorgimento, secondo il giudizio di Giovanni XXIII. Il dissidio tra Chiesa e Stato in Italia è stato oggetto di una vastissima letteratura, ma forse non è stato ancora pienamente compreso il ruolo di Pio IX e, di conseguenza, della Chiesa riguardo all’unità italiana, Indubbiamente, egli avversò le idee liberali e contrastò il nuovo stato nazionale. Ciò che egli disse e fece, però si inserì in modo complesso nel processo di unificazione italiana, come mostra il suo atteggiamento nei confronti del potere temporale. Rifiutandosi di guidare la guerra degli stati italiani verso l’Austria nel 1848, ad esempio, egli contribuì in modo decisivo a far fallire il progetto neoguelfo. Ma se realizzato, il progetto di Gioberti, Rosmini ed altri avrebbe inserito lo Stato della Chiesa in un assetto nazionale compatibile con i tempi e accettabile da parte dell’Europa: era forse l’unica possibilità concreta di salvare il dominio temporale del Papa. Ma Pio IX rifiutò questa possibilità, spiazzando i suoi sostenitori. La scelta di non partecipare alla guerra contro l’Austria non fu una scelta anti-italiana. Egli si ritirò perché il Papa non poteva assumere la causa di una parte dei suoi fedeli contro altri. Pio IX aprì, in questo modo, una strada nuova: fu il primo passo verso l’assunzione, da parte del Papa, della

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La nuova leadership dovrà essere pronta a svolgere l’azione aggregativa, rappresentativa e orientativa della collettività

‘movimento’, poi e soprattutto, proprio rispetto a quei più ampi campi in cui verrà richiesta e sarà chiamata a esercitarsi la leadership di una classe dirigente. Il domani che ci sta venendo incontro vedrà intensificarsi e moltiplicarsi, con ogni probabilità, le richieste di essere e sentirsi partecipi di forme di idem sentire, di essere e sentirsi appartenenti ad associazioni pubbliche in grado di agire nella vita politica il più direttamente possibile, o, almeno, senza dover essere sottoposte alla ‘mediazione’ in via esclusiva dei partiti.

presentare (e il suo grado effettivo di rappresentatività, vale a dire quanto una rappresentanza viene ‘sentita’ davvero come tale da coloro che sono rappresentati). Nella formazione di chi sarà chiamato a costituire la classe dirigente di domani, conoscenza e pratica del rapporto tra politica e rappresentanze sociali si riveleranno almeno altrettanto importanti di quanto lo saranno le competenze tecniche nei rispettivi ambiti di attività o l’abilità nel rispondere con successo alle sfide dell’internazionalizzazione. Una reale capacità e un’effettiva, continua manifestazione di leadership risulteranno decisive per entrare a comporre la classe dirigente. E – se posso concludere con un’immagine queste osservazioni sul ruolo e sulla formazione della classe dirigente, che avevo anticipato sarebbero state assai brevi – il ‘movimento’, e non già la conservazione statica della propria collocazione, dovrà caratterizzare vita e funzioni della classe dirigente. ‘Movimento’ (o ‘circolazione’, se si preferisce) tra politica e rappresentanze sociali. Ma anche attitudine al

La leadership di quote larghe della classe dirigente dovrà allora essere pronta, con la propria capacità di movimento, a svolgere un’azione al tempo stesso aggregativa, rappresentativa e stabilmente orientativa delle decisioni collettive, oltre che delle politiche pubbliche. E una tale azione sarà tanto più indispensabile, quanto più si consoliderà la tendenza già in atto in pressoché tutte le democrazie, sotto la spinta della quale la politica – anche nei momenti più puntuali di regolazione della competizione partitica attraverso la verifica del consenso elettorale – più che dai ‘valori’, quali cose desiderate o attese dall’individuo o da gruppi per il proprio materiale bene essere, viene scossa da quegli autentici valori che danno senso alla vita di ogni singola persona e dell’intera collettività. Integrando senza eccessive forzature il titolo di un saggio assai letto di un autorevole studioso, si potrebbe dire che, se i voti continueranno a contare, saranno soprattutto i ‘valori’ – i valori in quanto, anche, risorsa politica – a decidere della politica dell’incombente domani.

figura di “padre comune di tutte le genti”e verso una ricollocazione, in chiave più universalistica, del papato nel mondo contemporaneo.

Ispirata da motivazioni soprattutto religiose, questa scelta conteneva importanti implicazioni geopolitiche, senza esprimere un’avversione verso la causa italiana, nei cui confronti anche in seguito egli continuò a manifestare simpatie. L’atteggiamento di Pio IX potrebbe sembrare contraddittorio, ma si tratta di una contraddizione che riflette due spinte diverse, quella particolaristica e quella universalistica, entrambe presenti nell’ottocento europeo. E proprio questa “contraddizione” è indicativa della complessità di questo pontificato, all’interno del cui orizzonte i cattolici italiani si divisero tra conciliatoristi e intransigenti, ma furono in gran parte accomunati, come il Papa, sia da un sentimento filo-italiano sia dalla preoccupazione per la libertà della Chiesa. L’orientamento profondo di Pio IX fu intuito da un politico abile come Camillo Cavour. È nota la dura politica anticlericale da questi attuata mentre era alla guida del governo piemontese, negli anni cinquanta dell’ottocento. Ma quando iniziò a perseguire un più ampio disegno italiano, Cavour cominciò anche a prendere coscienza del valore universale di Roma e del papato. Nelle trattative con la S. Sede da lui promosse nel 1860-’6, egli cercò tenacemente di ottenere il consenso del Papa all’acquisizione italiana di Roma, suscitando le reazioni negative e sconcertate dei democratici, dei radicali e dei massoni. L’insistenza cavouriana per la proclamazione di Roma capitale nel 1861 esprime la consapevolezza che le sorti del nuovo stato passavano necessariamente attraverso una riconciliazione con la S. Sede e che le future vicende italiane sarebbero state legate alla collocazione internazionale del papato. Malgrado l’asprezza dello scontro, perciò, si può dire che fin dagli inizi siano state presenti le premesse di una riconciliazione che, non a caso, è poi venuta in tempi relativamente brevi sotto il profilo storico.Ancora oggi, la presenza del Papa a Roma rappresenta una realtà di cui l’Italia non può disinteressarsi, mentre la tensione tra l’universalità della Chiesa e la particolarità italiana continua a proiettare sollecitazioni feconde sulla collocazione italiana nel mondo, contrastando le tentazioni provincialistiche.


mondo

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Iran. La guida suprema Khamenei e i mullah di Qom in allarme per la nuova ondata culturale che appassiona i giovani

Ciro sfida gli ayatollah L’identità persiana nel Paese è sempre più forte e fa ombra a quella islamica voluta da Khomeini di Pierre Chiartano l vento degli achemenidi soffia sempre più forte sull’altipiano iranico. Nel mondo sciita a marchio farside sta succedendo qualcosa che in Occidente non è stato ancora totalmente compreso. In un recente intervento il capo carismatico di Hezbollah, il movimento sciita libanese, si è esibito in una lunga filippica sulle radici culturali dell’Iran. Per Nasrallah non ci sono dubbi sono islamiche e «fuori dall’islam non esiste nulla». Figuriamoci una cultura che potrebbe definirsi persiana. Dopo pochi giorni il presidente Mahmoud Ahmadinejad è finito nel tritacarne di una richiesta di impeachment. Motivo? La scarsa ortodossia islamica della sua condotta. Sembra che spiri un venticello nuovo in quello che un tempo fu il regno degli

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Achemenidi e della loro gloriosa stirpe. Forse il pendolo della storia spinto con forza dalla rivoluzione sciita pare abbia superato l’apogeo e si sia fermato sotto le mura di Persepoli. Le ragioni dell’intervento di Nasrallah come del cartellino giallo estratto dall’establishment dei mullah – leggi Alì Khamenei – sono ancora al vaglio degli esegeti del regime sciita. Ma un articolo sul quotidiano saudita edito a Londra Asharq Alawsat spiega le ragioni di quello che sembra essere un’onda culturale di ritorno nella terra dei mullah. Il concetto d’identità iranica-persiana dei pronipoti di Ciro sta montando con forza. I processi d’identità musulmani sembrano dunque mostrare le prime crepe proprio nella terra della rivoluzione khomeinista. Il grande ayatollah aveva a sua volta dovuto fare un’operazione cultural teologica per creare le basi di un nuovo movimento islamico su base non-araba. La Ummayad è un’idea di islam dove essere arabi è un titolo preferenziale. Chiaramente dovendo lanciare una rivoluzione esportabile in tutto il Medioriente, Khomeini doveva esaltare i concetti di fratellanza universale, dove nazionalismi, etnia e differenze culturali si potessero sciogliere nella gran-

de umma sciita. Insomma, doveva utilizzare gli stessi metodi del vecchio internazionalismo comunista. Dunque il coté arabo dove essere messo in ombra. In Libano Nasrallah era stato spinto a intervenire dall’eterno confronto interno tra sciiti e sunniti, dove invece l’appartenenza araba ha un significato, per non parlare delle simpatie filo-occidentali, di un popolo abituato a dialogare col mondo. A Beirut ci si domandava sempre quanto Hezbollah fosse fedele allo Stato libanese e non eterodiretto dall’estero.

Un vero nervo scoperto che, da tempo, vede il Partito di Dio giocare una complessa partita a scacchi con Teheran, tra fedeltà sbandierata in pubblico e una forte autonomia esercitata in pratica, almeno in certi ambiti come il Libano meridionale. Per Nasrallah la «civiltà persiana non esiste» e Ciro è probabilmente il nome di uno scugnizzo napoletano, non quello di un grande condottiero della dinastia achemenide. La raffinata cultura persiana non poteva reggere a lungo le semplificazioni khomeiniste e oggi in Iran il vento dell’identità “iranica” soffia sempre più forte sollevando veli, niqab, chador e barbe lunghe. L’effetto in Libano sarebbe immediato – ma non così

importante in un contesto culturalmente già molto frammentato – se dovessero presentarsi partiti come arabi e altri no, mettendo in secondo piano la radice musulmana. Allo stesso modo in cui Khomeini voleva annullare il nazionalismo arabo, Nasrallah, mutatis mutandi, vorrebbe annullare l’identità persiana. Ma ciò che sembra più probabile è che l’attacco del lea-

I processi di identità musulmana sembrano dunque mostrare le prime crepe proprio nella terra della rivoluzione khomeinista. E il primo a farne le spese è stato proprio il presidente Ahmadinejad

Il grande Ayatollah Khomeini, ideatore e leader della Rivoluzione islamica del 1979. In alto un’incisione di Ciro il Grande. Nella pagina a fianco, Ahmadinejad

der di Hezbollah contro l’identità iranica sia una guerra per procura. In perfetta linea con una tradizione mediorientale che non gradisce attacchi diretti su questioni controverse. La critica deve partire da oltre confine, poi si valutano gli effetti ed eventualmente si prende una posizione. Ciò dimostra come a Teheran ci sia preoccupazione per una controtendenza culturale che potrebbe minare alla base il movimento sciita. «Gli iraniani sono molto fieri della loro identità persiana», si legge su Asharq Alawsat. Inoltre ciò che Nasrallah dimentica che lo stesso Khomeini aveva più volte

puntato sul nazionalismo persiano per compattare il Paese. Ad esempio durante la lunga guerra contro l’Iraq. E lo stesso Ahmadinejad sa di non poter contrastare questa forte radice culturale, tanto che recentemente ha parlato di Ciro come di un «imperatore del mondo». La conferma di quasta analisi arriva anche da un’accredita fonte iraniana.

Kurosh Farrokhi è un esperto e uno studioso di cultura persiana che vive lavora in Europa. È uno pseudonimo scelto per proteggerlo da eventuali ritorsioni nel suo Paese d’origine, dove si reca periodicamente per non perdere il contatto con una realtà in divenire, soprattutto dopo la nascita del fenomeno dell’Onda Verde. «È la parte più giovane» della società iraniana ad essere portatrice di questi valori iranici che comunque continua a sostenere che l’islam vero sia un’altra cosa rispetto a ciò che si è prodotto nel proprio Paese a livello politico. Poi ci sono i valori patriottici e nazionalisti che hanno la loro migliore espressione nella valorizzazione dell’identità persiana. «I simboli di questa identità iranica che è pre-islamica, sono Zoroastro, Ciro con il suo buon governo, ricordiamoci il famoso cilindro


mondo chiama Cyrus News. Kavè ad esempio è un eroe il cui nome viene spesso sfruttato. Si tratta di un personaggio del Dante iraniano Ferdowsi che ha scritto nell’XI secolo d.C. il Libro dei Re che riprende tutte le tradizioni persiane ed è fortemente antiarabo». È tornata ad essere una lettura popolare in Iran, soprattutto tra i giovani. «È il libro madre dell’identità persiana, perché Ferdowsi col suo libro è quello che fa rinascere la lingua persiana dopo due secoli di dominazione araba. È considerato il Corano dei persiani». Ma serve domandarsi se siamo di fronte al solito movimento che si sviluppa in cluster pur importanti della società civile, ma alieno ai decisori e fuori dalle stanze del regime, oppure se c’è un elemento di novità.

dei diritti umani esposto al British Museum. Zoroastro è importante non tanto come fede religiosa quanto come filosofia di vita. È un trend che sta crescendo nell’Iran moderno con una data d’avvio che possiamo collocare nel 1997», spiega Farrokhi. Fu l’anno dell’elezione di Khatami il riformatore ma anche dell’entrata nella società della nuova generazione d’iraniani. «Se facciamo un semplice calcolo vediamo che dal 1979, data della rivoluzione khomeinista al ’97, passano esattamente 18 anni». Diciottenni cresciuti all’interno di un sistema islamico-religioso, ma stranamente hanno cominciato a sviluppare un’idea nazionalista. «Iranismo e islamismo hanno delle contraddizioni forti. Anche Khomeini – continua l’esperto iraniano – quando ha utilizzato il nazionalismo l’ha fatto in modo prettamente strumentale. La cultura sciita non è iranica è più arabo-musulmana». L natura di questo sentimento è così forte e radicato che chiunque voglia governare l’Iran ne deve tenere conto, anche Ahmadinejad e qui viene la sorpresa.«Ahmadinejad sembra voglia cavalcare questa corrente. Gli ayatollah sciiti sfruttavano quel sentimento per la guerra contro l’Iraq. In più ora nel parlamento iraniano c’è un blocco

che fa capo a Khamenei e un altro al Moussavhi, insieme rappresentano la maggioranza e sono contro l’attuale presidente. Ahmadinejad in questo momento vorrebbe uno Stato più laico. Non è più quello che alcuni definivano l’islamo-comunismo, fa parte del passato. Parlerei un islam “laico” di stampo militare. Si va verso una maggiore secolarizzazione della società, verso un regime meno confessionale che non vuol dire un governo più liberale». E non si deve tirare in ballo neanche il kemalismo, perché l’Iran ha un prodotto autoctono come il «rezashaismo negli anni Venti».

E l’identità iranica era già tornata in auge in quel periodo storico di forte nazionalismo è nel 1936 che venne chiamato Iran lasciando la vecchia denominazione di Persia. «Iran etimologicamente significa la terra degli ariani» lo studioso iraniano. Reza shià fu poi messo fuori gioco dopo la seconda guerra mondiale dagli inglesi per le sue simpatie tedesche. Ma Ciro e Zoroastro dove si possono trovare oggi, se non nei libri e nei musei? «Nei siti web, nei blog che sono strumenti di comunicazione importantissimi per le giovani generazioni. Una delle principali agenzie stampa si

«Paradossalmente la parte di establishment che ha meglio sposato questa corrente è quella vicino ad Ahmadinejad. Sono loro ad aver fatto venire il cilindro di Ciro in Iran. Il presidente ha esaltato l’antico monarca persiano definendolo un profeta. In netto contrasto con ciò che pensano molti ayatollah». Insomma, di questo passo potremmo trovarci a dover tifare per Ahmadinejad. Nella vita comune dei cittadini iraniani la radice persiana la trovi nel capodanno. È il Norouz che significa “nuovo giorno”e cade il 21 marzo. «All’inizio della rivoluzione islamica lo si voleva abolire passando al primo febbraio, anniversario della rivolta khomeinista». Non ci sono riusciti, non solo ma oggi lo Stato islamico deve cedere terreno nei confronti della cultura dei padri dell’antica Persia. La mitologia fa risalire questa data a oltre 2.500 anni fa, quando un re persiano prese il potere. «È solo un simbolo», ma i simboli sono importanti per gli esseri umani che non si nutrono solo di elementi razionali. «La cultura persiana è molto attenta alla natura. Il termine paradiso discende dal persiano pardis che era il giardino fuori dalla corte di Ciro, vicino a Persepoli». Per tredici giorni le scuole chiudono, aspettando che la natura rifiorisca dopo il lungo inverno sull’Altopiano. Il resto è come da noi: feste e visite ai

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parenti. «Anche il calendario occidentale è influenzato dalla data del 21 marzo. Giunse a Roma tramite il mitraismo veicolato dalla cultura ellenistica». Ottobre infatti è l’ottavo mese da marzo, non da gennaio. Continuando sulla falsa riga delle commistioni tra Medioriente e Occidente salta agli occhi come certe tradizioni sciite di alcune ricorrenze fanno venire in mente quelle più barocche del cattolicesimo che trovi ancora in Italia meridionale: perdoni, flagellanti e processioni. «Esatto, nel 1.500 per scopi politici vennero introdotte delle novità copiate dal cattolicesimo. L’impero safavide dopo molti secoli di frammentazione, fu il primo a ricostruire una certa unità, mettendosi in contrapposizione all’impero ottomano. I safavidi per costruire uno Stato forte presero lo sciismo come ideologia politica. In quel periodo la Persia era a

denza rispetto all’egemonia islamico-sunnita ortodossa. Nella disputa tra Ciro e l’islam, esiste un’agenda. «Non è un movimento che non scalzerà il regime, ma una cultura pervasiva». Le tv via satellite in lingua frasi dall’America hanno fatto un grande lavoro per la promozione della cultura iranica. «Negli ultimi dieci anni questi programmi sono programmi sono stati molto seguiti» spiega Farrokhi. E il vento di Ciro ha investito anche gli istituti bancari da Pasarghad, Pars, Persepolis tutti col marchio dell’antica Persia, scalzando i nomi della tradizione islamica. La resistenza dell’ortodossia sciita ormai può far conto solo sugli ayatollah di Qhom e sulla guida suprema Khamenei. Ma il vento di Ciro il grande soffia sempre più forte e comincia ad alzare il velo dei chador. Dario I figlio di Istaspe (522-485 a.C.) fu colui che compì l’opera

La Rivoluzione del 1979 doveva esaltare i concetti di fratellanza universale, dove tutti i nazionalismi, le etnie e le differenze culturali si potessero sciogliere nella grande umma sciita maggioranza sannita per cui dovettero importare esperti e giureconsulti. Il ministro del culto dell’imperatore fu inviato in Europa e copiò alcuni costumi occidentali, soprattutto cristianocattolici e li riportò nella tradizione locale. La processione del terzo imam è la copia delle processioni del Cristo, solo con qualche modifica. Costruendo così una forte identità sciita, ma gli scopi erano prettamente politici». Quindi lo sciismo che si afferma in funzione anti-ottomana. Sufismo e sciismo sono sempre state una risposta d’indipen-

di Ciro e portò l’Impero persiano all’apogeo della potenza. Il territorio fu diviso in venti satrapie, collegate da una vasta rete stradale e governate da una salda ed elastica organizzazione burocratica che faceva capo al sovrano: il potere centrale rispettava la libertà religiosa e assicurava la prosperità economica dei singoli popoli sottomessi. Perché mai allora i persiani moderni non dovrebbero far tornare a fiorire i giardini di Persepoli? Oggi, se gli ayatollah, a mezzogiorno, dicono che è notte fonda, gli iraniani non guardano più le stelle.


quadrante

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Liu Xiaobo rifiuta la libertà in cambio di una confessione

Hamas: se il popolo lo vuole, pronta la pace con Israele

PECHINO. A una settimana dalla cerimo-

GAZA. Hamas accetterà un accordo di pa-

nia di consegna del premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo ha detto no alla libertà. Il dissidente cinese, condannato a undici anni di prigione per“incitamento alla sovversione”, ha rifiutato la scarcerazione e l’espulsione immediata dalla Cina in cambio di una “confessione”. La proposta del governo di Pechino è stata rivelata ieri dall’avvocato del leader di Charta ’08: «Liu Xiaobo - ha detto Shang Baojun accetterà solo il rilascio senza condizioni». Le autorità cinesi, decise a minimizzare l’indignazione internazionale, avevano tentato in extremis di avviare una trattativa riservata con il protagonista delle proteste del 1989 in piazza Tiananmen. L’offerta è stata quella che negli ultimi anni ha consentito a centinaia di attivisti per la democrazia di andare in esilio: un passaporto di sola uscita con il visto per gli Usa, o per uno dei Paesi Ue. «Liu ha rifiutato anche per non abbandonare i suoi anziani genitori».

ce con Israele se sarà aprovato da un referendum. Lo ha detto Ismail Haniya, primo ministro di Hamas a Gaza ed esponente dell’ala «pragmatica». Finora il gruppo palestinese ha sempre rifiutato di riconoscere sia la legittimità di Israele che quella del presidente dell’Anp,Abu Mazen, a negoziare la pace con gli israeliani. Hamas «rispetterà il risultato di un referendum anche se in conflitto con le nostre posizioni», ha detto Haniya. Nel frattempo, Hillary Clinton ha dichiarato che gli Stati Uniti «continuano a lavorare intensamente alla pace tra Israele e Palestina». «Gli Stati Uniti lavorano intensamente per creare le condizioni che consentano alle parti di andare verso una risoluzione definitiva attraverso il negoziato», ha assicurato la Clinton durante un incontro con la stampa a Bahrein. Ieri un responsabile palestinese aveva detto che gli sforzi americani per un blocco alle colonie erano “falliti”.

Cina e India corrono, il resto dell’Asia rallenta DELHI. Aumenta la produzione di manifatture in Cina e India a novembre, aggravando il divario tra le 2 maggiori economie dell’Asia e il resto della regione. Esperti ipotizzano che in Asia sia in atto una divisione tra le economie di rapida crescita e altre, come il Giappone, il cui sviluppo è lento. I dati indicano che la produzione manifatturiera in Cina è in espansione da 7 mesi. L’Indice della produzione industriale è stato per la Cina di 55,2 a novembre, record da 7 mesi, rispetto al 54,8 di ottobre. Un indice superiore a 50 significa un’espansione della produzione, mentre un indice inferiore rappresenta una contrazione. Anche l’economia indiana è in crescita e addirittura accelera: nel trimestre luglio/settembre la crescita annua è cresciuta all’8,9%. Gli ordini di prodotti industriali sono in crescita da 4 mesi. Delhi è alle prese con una forte inflazione, comunque inferiore alla crescita economica, e il governo cerca di attirare investimenti esteri.

Sono quattromila gli emiri che possono aspirare alla corona del Regno arabo. Ma la lotta si aprirà soltanto con la morte del re

Il Risiko dell’Arabia Saudita

Il custode dei Luoghi santi dell’islam in ospedale. Si apre la caccia al successore di Antonio Picasso a scorsa settimana re Abdullah, 86 anni, Custode dei Luoghi Santi dell’Islam, La Mecca e Medina, è stato sottoposto a un intervento chirurgico per l’estrazione di ernia del disco. Il sovrano saudita si è recato negli Stati Uniti e nel giro di pochi giorni è tornato a Riyadh. Ieri ne ha subita un’altra, definita “banale” dai medici curanti. Non lo è il paziente però, carico della sua anzianità e del ruolo politico che ricopre. Ogni volta che un emiro saudita entra in una clinica, i mercati petroliferi trattengono il respiro. Nelle major degli idrocarburi, si ripete sempre la stessa domanda: e se morisse? Cosa succederebbe, o meglio, chi succederebbe al trono saudita nel caso re Abdullah venisse a mancare? Il monarca assoluto di Riyadh è salito al potere nel 2005. Non molto tempo fa. La scomparsa del fratello, re Fahd, non ha fatto altro che formalizzare la reggenza che Abdullah deteneva da un decenni. Nel 1995 infatti, Fahd era stato colpito da un ictus che lo aveva reso incapace di governare. Oggi, vista l’età e il suo imperscrutabile stato di salute, sembra che sia l’attuale monarca a necessitare un sostituto. Allo stato dell’arte, l’Arabia Saudita presenta una serie di incrinature sempre più difficili da nascondere. Restando aderenti alla cronaca, sono le incognite sulla successione al trono a destare apprensione. I re Fahd e Abdullah sono due dei 42 figli di Abdullah Aziz (1876-1953), fondatore e primo sovrano dell’Arabia Saudita moderna. Stiamo parlando della notte dei tempi. Ed è allarmante che l’erede al trono sia un altro fratello, il principe Sultan. Nato nel 1926!

L

Secondo la tradizione islamica, l’eredità della Corona viene trasmessa in senso “orizzontale”, tra fratelli. Tuttavia Sultan è affetto da un male incurabile, quindi molti dubitano del passaggio di consegne tra Abdullah e quest’ultimo. Alla fine del 2006, su iniziativa del sovrano, è stata creata una commissione ad hoc per la scelta dell’erede al trono. Con questo gesto il re si è dimostrato

Il re saudita ha un ruolo molto particolare nel mondo arabo: chi governa a Riyadh svolge infatti anche la mansione di Custode dei Luoghi santi dell’islam, ovvero la Mecca e Medina. Proprio per questo, la sua successione è guardata con attenzione

consapevole dei rischi ai quali è esposta la Corona e della necessità di avviare una stagione di riforme politiche. L’autoritarismo, la censura delle libertà individuali e la stretta osservanza religiosa rischiano di essere controproducenti per la monarchia. Risulta difficile, però, interrompere questa catena di potere tenuta saldamente nelle mani della dinastia al-Saud. Si calcola che, fra principi della Corona e di sangue, siano circa ventimila i detentori del titolo di Altezza Reale. Sono quattromila gli emiri del ramo al-Faisal. Questo vuol dire che ogni decisione politica nasce dal potere contrattuale che i singoli principi detengono con il sovrano. È impossibile quindi l’uniformità di prospettive politiche all’interno del sistema. In ambito sociale gli esempi di contraddizioni che si registrano nel Paese sono all’insegna della quotidianità. La condizione femminile è vincolata al rigido rispetto della Sharia. Solo due anni fa il governo di Riyadh ha permesso alle donne – che rappresentano il 50% circa dei 28 milioni di abitanti totali – di ottenere la patente di guida. Tuttavia rimane per loro il divieto di la-

vorare e viaggiare da sole se sposate, o semplicemente accedere ai servizi sanitari senza l’autorizzazione di un familiare di sesso maschile. Nel settore della scolarizzazione, i dati della Banca Mondiale hanno sottolineato un incremento della presenza femminile nelle scuole primarie. Le studentesse però non sono ammesse ai livelli di istruzione superiore. Alle donne sono vietate le facoltà universitarie di architettura, ingegneria e giornalismo. Il 2008 è stato l’anno delle prime cittadine saudite laureate in legge. Nel febbraio 2009 ha suscitato aspre polemiche presso le autorità religiose la decisione di re Abdullah di includere nel suo nuovo governo anche la signora Noura al-Fayez, in qualità di vice Ministro dell’Educazione, con delega per il settore femminile. Ben più ampio, purtroppo, è il capitolo delle criticità che affliggono il Paese. Storicamente, la dinastia degli al-Saud è legata alla dottrina teologica del wahabismo, fondata da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo vissuto nel XVIII secolo dell’Era Cristiana e protetto dal capostipite della Casa Reale, l’e-

miro Muhammad ibn Saud. interpretò Ancora oggi molti precetti religiosi e politici del regno discendono direttamente dalla rigida interpretazione del Corano, in linea con la scuola hanbalita, dettata da al-Wahhab. Tuttavia, i maggiori detrattori del governo, fra cui alQaeda, attribuiscono al sovrano e alla sua corte uno stile di vita corrotto e contrario al wahabismo stesso.

Il messaggio di Osama bin Laden trova terreno fertile presso la comunità straniera, composta soprattutto da immigrati clandestini, che raggiungono l’Arabia per trovare impiego come operai presso le infrastrutture dei giacimenti petroliferi. A questa manovalanza viene negata la cittadinanza e spesso le condizioni di lavoro sono ai limiti dello sfruttamento. Più volte Amnesty International e Human Rights Watch hanno accusato il governo saudita di non rispettare i diritti umani. La presenza di al Qaeda in Arabia Saudita non è una novità. Essa stessa è la terra di origine del suo leader e fondatore. Inoltre, nella visione di ricostituzione del Grande Calif-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Usa, disoccupazione al 9,8% La più alta dallo scorso aprile WASHINGTON. Il tasso di disoccupazione Usa è salito al 9,8% a novembre, ai massimi da aprile scorso quando fu 9,9% e dal 9,6% di ottobre. Gli analisti prevedevano che restasse stabile. Lo rende noto il Dipartimento del Lavoro. Nello stesso mese gli occupati sono aumentati di 39 mila unità ben al di sotto delle 140 mila previste, con il settore privato che ne ha creati 50.000 e quello pubblico che ne tagliati 11.000. Il settore manifatturiero ha registrato una contrazione dell’occupazione, con -13.000 posti di lavoro: si tratta del quarto calo consecutivo. Le rilevazioni mettono in evidenza come gli americani in cerca di lavoro sono 15 milioni. Il 41,9% degli americani disoccupati è senza lavoro da oltre sei mesi. Il tasso di disoccupazione sale al 17% se nel calcolo vengono compresi coloro che ha smesso di cercare un’occupazione e coloro che hanno accettato un part-time, anche se cercavano un lavoro a tempo pieno. Il tasso di disoccupazione americano è sopra al 9% dal maggior 2009, ovvero da 19 mesi: si tratta della serie più lunga con un tasso di disoccupazione così elevato dalla Seconda Guerra Mondiale. Nella recessione degli inizi degli anni ’80, il tasso di disoccupazione è salito al 9% nel marzo 1982 e vi è rimasto fino al settembre 1983. E le Borse europee, appresa la notizia delle percentuali così negative, hanno reagito in maniera conso-

fato, la liberazione delle città sante al Profeta Maometto, La Mecca e Medina alle quali dovrebbe seguire quella di Gerusalemme (al-Quds nella cultura araba) - rappresenta sia l’obiettivo ideologico, sia il target operativo delle sue attività terroristiche nel mondo. Nei vent’anni e passa di vita dell’organizzazione, si contano sette attentati, firmati da al-Qaeda, avvenuti sul territorio saudita e con un totale di quasi 90 morti. Attacchi, questi,

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri

na alla situazione virando in territorio negativo. I listini del Vecchio Continente perdono ora oltre mezzo punto percentuale (Stoxx 600 -0,58%) mentre il peggior listino è quello di Londra (-0,65%). Di seguito, gli indici dei titoli guida delle principali Borse europee: - Londra -0,65% - Parigi -0,22% Francoforte -0,05% - Madrid +0,02% - Milano -0,12% - Amsterdam -0,02% Stoccolma -0,63% - Zurigo -0,70%. Ora si attende la reazione della Federal Reserve di Ben Bernanke: la Banca centrale americana, che ha già annunciato un deprezzamento del dollaro per ribilanciare lo squilibrio con la Cina, potrebbe puntare su un nuovo bail out. L’immissione di capitali del governo centrale, però, fino ad ora non ha dato i risultati sperati.

me, in previsione della riduzione delle riserve petrolifere sul lungo periodo. Collateralmente Riyadh ha cercato di creare una unità monetaria fra tutti i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc): Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar. Il Khaleeji, questo il nome della moneta unica, sarebbe dovuto entrare in circolazione proprio all’inizio del 2010. L’obiettivo, nutrito fin dall’inizio degli anni Ottanta,

partner siano giganti produttivi con una struttura economica fragile, che necessita immediate riforme politiche e sociali per sopravvivere.

Detto questo, l’Arabia Saudita resta politicamente una potenza regionale. La sola in grado di tener testa all’Egitto da una parte e all’Iran dall’altra. Non è un caso che gli Usa appaiano sempre tanto disponibili all’alleanza strategica

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effettuati prevalentemente contro le sedi governative locali e le differenti realtà straniere presenti nel Paese: dalle basi militari degli Stati Uniti ai pozzi petroliferi. La monarchia di Riyadh ha deciso di applicare una rigida politica di contenimento del fenomeno. Attualmente sono centinaia i sospettati qaedisti detenuti nelle carceri del regno. La legge contro il terrorismo prevede, a questo proposito, un severo monitoraggio dei flussi di immigrazione dai Paesi asiatici, in particolare Pakistan, Malesia e Indonesia. Infine sul fronte economico, il fatto che la produzione industriale resti legata al comparto petrolifero appare penalizzante per tutto il Paese.

Le fluttuazioni del prezzo dell’oro nero sul mercato internazionale, soprattutto negli ultimi cinque anni, sono percepite come scossoni troppo violenti per l’economia nazionale. Ne è conseguita la scelta di avviare una lenta politica di diversificazione industriale, che permetta da un lato di evitare le brusche oscillazioni sul breve periodo, dall’altro di creare una fonte alternativa di in-co-

Solo due anni fa il governo di Riyadh ha permesso alle donne (il 50% circa dei 28 milioni di abitanti totali) di guidare era creare un sistema monetario concertativo, una moneta di scambio comune per circa 32 milioni di persone e soprattutto un soggetto forte, in ambito finanziario di fronte al dollaro, in quello petrolifero – vale a dire in sede Opec – di fronte all’Iran. Il progetto però è venuto meno in seguito alla crisi immobiliare internazionale del 2008 e all’insolvenza di Dubai alla fine del 2009. Questi due episodi hanno messo ancora di più in evidenza come l’Arabia Saudita e i suoi

con Riyadh. Per Washington è prioritario preservare le risorse energetiche saudite, utili per la sua locomotiva industriale, oltre che mantenere la possibilità di attracco, da parte della sua marina militare, ai porti di tutta la Penisola arabica. Opzione, questa, tatticamente utile in caso di escalation in Iran. Il caso Wikileaks, del resto, ha palesato il pieno accordo fra Stati Uniti, Israele e mondo arabo – Arabia Saudita, Giordania, Egitto ed Emirati – nel contrastare Teheran. Nel caso anche con le maniere forti. Per concludere, il governo varato lo scorso anno da re Abdullah è stato accolto sotto gli auspici delle riforme e di un futuro protagonismo dell’Arabia in sede internazionale. D’altra parte, scomparso re Fahd, sull’attuale sovrano si erano riposte le speranze perché il Paese intraprendesse un cammino di apertura al mondo esterno, in particolare a quello non islamico. Siamo all’inizio di questo cammino. È ovvio che l’eventuale morte del re, la salute malferma del principe ereditario e quindi l’assenza di un successore in seconda linea rappresentano un pericolo per il futuro del Paese.

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il personaggio della settimana Il fratello Cristiano e lo scrittore Martucci ci raccontano la quotidianità del tifoso ucciso

La vita giusta di un morto sbagliato

Dal Liceo classico alle partite di calcio con gli amici, dai primi amori alla grande passione per la Lazio. Viaggio nella bella normalità di Gabriele Sandri, a cui la Corte di Firenze finalmente ha reso giustizia di Antonella Giuli ulla è più facile da raccontare come la vita normale di un morto sbagliato. Nella rappresentazione banale e scontata di una realtà frequente, ormai ci si è abituati a vedere, se non addirittura a giustificare, l’atto estremo di un poliziotto chiamato a fronteggiare la violenza di un delinquente qualunque, in modo tanto più sostenuto quando dall’altra parte della divisa se ne sta un reietto, uno scarto sociale dalla vita difficile, privo d’affetti ma pieno di amicizie non raccomandabili e perché no, magari teppista da stadio e pure un po’drogato. Ma questa volta no. Questa volta nessuno è stato disposto a chiudere un occhio sulla brutale uccisione di Gabriele Sandri. Questa volta neanche uno a legittimare la follia di un gesto volontario che ha stroncato la vita di un bravo ragazzo nato e cresciuto bene. Questa volta il morto è sbagliato per davvero.

N

Gabriele Sandri non aveva una fedina penale macchiata da reati, non era un delinquente, poteva vantare il sostegno e l’amore di una famiglia sempre presente, affettuosa e benestante nonostante fosse figlio di genitori separati. Contava su una cerchia di amici affidabili che si divertiva senza sballarsi, andava allo stadio e non per questo metteva su un passamontagna o portava con sé delle armi. Amava la pastasciutta (piatto preferito la“carbonara”), la pulizia e teneva ordine nel grande armadio dove ogni giorno sceglieva vestiti sempre ben piegati. La sua camera non aveva niente fuori posto a catturare l’attenzione. Scarna e disadorna addirittura, senza poster o sciarpe appese che pure amava collezionare. Alle pareti, a fianco al suo letto a una piazza e mezza e alla lunga scrivania dove poggiava vinili e cd, solo qualche foto di amici stretti qua e là, a ricordargli i bei momenti di una vacanza o di una trasferta. Gli piaceva giocare a calcio (ruolo,“attaccante generoso”in rap-

presentative regionali). E spesso approfittava del suo proverbiale charme sulle donne per frequentarne qualcuna quando non era impegnato in altro di serio. Gabriele Sandri era insomma un ventiseienne normale e moderno dalla vita normale e moderna, con la passione per la Lazio, la musica e le belle ragazze. Sopra tutto amava la sua famiglia, l’adorata mamma Daniela, che chiamava così spesso al telefono quando di giorno era fuori a lavorare al negozio di papà Giorgio o la sera a metter dischi in qualche discoteca romana. Nato sette anni dopo Cristiano, che sin da piccolo chiamava col nomignolo “Tato”, nonostante la differenza d’età ha sempre vissuto letteralmente attaccato al fratello. «Certo, quando lui ne aveva sette e io quattordici era fuori discussione portarmelo dietro», ricorda Cristiano. «Ma una volta cresciuto, siamo diventati inseparabili. Dire che Gabriele ed io siamo stati fratelli è poco. Non esiste una parola precisa che possa descrivere il nostro rapporto. Posso solamente dire in tutta onestà che era la persona che amavo di più». Ed era anche la persona più coccolata di casa, ci racconta. «Come tutti i figli più piccoli era anche il più viziato, soprattutto da nostra madre. Ma non ha mai avuto il carattere del viziato. Era anzi solare, molto generoso, altruista. Come tutti hanno avuto modo di vedere dalle fotografie che abbiamo piano piano rese pubbliche, Gabriele era un ragazzo molto estroverso, sempre sorridente, chiacchierone. Tutto il contrario di me. Eravamo perfettamente complementari. Figurarsi che più di dieci anni fa ci siamo anche fatti lo stesso tatuaggio: due anelli concentrici con la scritta “fratelli abbracciati per l’eternità”. Condividevamo davvero tutto: confidenze, amicizie, dubbi, esperienze».

Sette anni di differenza sono bastati a Gabriele per vedere nel fratello quel modello, quella luce-guida da seguire passo passo nella vita di tutti i giorni. «Naturalmente ha solcato le mie orme anche nella scuola. Dopo i tre anni di medie s’è iscritto al mio stesso Liceo classico, il Tacito. E proprio come me, finì per fare a cazzotti

tutti gli anni col greco e con la matematica. Insomma, non è mai stato il primo della classe. È riuscito comunque a non farsi bocciare mai, ed era fortissimo in storia, forse l’unica materia che gli sia mai piaciuta davvero». Gabriele aveva scelto studi umanistici anche dopo le superiori, attratto com’era allora da quella nuova facoltà di Scienze delle comunicazioni. Qualche esame, lezioni seguite sì e no, eppure dei risultati ogni tanto a casa li portava. «In realtà la carriera universitaria di Gabriele non è stata né lunga né soddisfacente», ammette Cristiano. «È vero, aveva superato diversi esoneri con voti tutto sommato buoni, ma alla fine Gabriele capì piuttosto in fretta che l’università, o comunque quella facoltà, non faceva davvero per lui. È così che ha iniziato a lavorare nell’attività di famiglia, il negozio di papà, e a coltivare più seriamente la passione per la musica».

Era conosciuto come “deejay Gabbo”, Gabriele. Frequentava le discoteche di Roma più rinomate come il Piper, la Cabala o la Maison. Ed era talmente bravo da essere ricercato anche per diverse feste esclusive, come quella di compleanno del giocatore della Lazio, Lorenzo De Silvestri. Quell’occasione gli valse la conoscenza di altri calciatori biancocelesti come Fabio Firmani e Tommaso Berni. Spesso lavorava anche in Sardegna o a Cortina, in locali frequentati da giovani che però non lo hanno mai convinto fino in fondo. Ambienti forse troppo “leggeri”per stringere amicizie. «Mio fratello era selettivo per natura, credeva nelle affinità in qualunque ambito. Era sempre sorridente e professionale, naturalmente, ma non hai mai davvero amato quell’ambiente, lo giudicava spesso “falso” e “superficiale”. Eppure, posso dire con certezza che chiunque abbia avuto modo di conoscerlo, foss’anche per un paio di serate appena, lo ha apprezzato per lo spirito, per la schiettezza e per l’allegria». Tutte qualità che soprattutto le donne trovavano irresistibili, ci racconta sorridendo Cristiano. «Mio fratello era letteralmente un latin lover, un vero e proprio tombeur de


4 dicembre 2010 • pagina 31

Luigi Spaccarotella, l’omicidio e le sentenze Tre giorni fa, l’agente di polizia Luigi Spaccarotella è stato condannato a 9 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio volontario dalla Corte d’Assise di Firenze per la morte del giovane Gabriele Sandri. Il secondo grado di giudizio ha così ribaltato la sentenza emessa in primo grado, che lo aveva condannato a 6 anni di reclusione con l’accusa di omicidio colposo. Spaccarotella, l’11 novembre del 2007, aveva ammazzato con un colpo di pistola il ventiseienne deejay romano, mentre si trovava nei pressi dell’autogrill di Badia al Pino, in provincia di Arezzo. Nel corso del tempo, l’agente ha fornito ben 7 diverse versioni di quell’omicidio, 3 alla magistratura e le altre 3 a diversi organi di stampa. Nonostante Spaccarotella abbia dichiarato di aver scritto e inviato una lettera alla famiglia Sandri, non si ha traccia né della missiva né di altre dichiarazioni rivolte ai genitori o al fratello di Gabriele Sandri. Commentando la sentenza dell’Appello, ha dichiarato: «Sono un padre di famiglia ma di me e dei miei figli non importa niente a nessuno. Sono stato abbandonato da tutti e giudicato ancora prima della sentenza. Questa sentenza era già scritta. Sono stato condannato quel giorno, al casello di Arezzo». Le style c’est l’homme...

femmes... si può dire che sul mercato era molto ricercato. Spesso ci divertivamo a confrontarci, a commentare insieme questa o quella. Anche se a dire la verità negli ultimi tempi s’era legato a una ragazza di nome Livia, una cosa più seria, durata circa un paio d’anni». Però Gabriele non se l’è mai portate allo stadio, le donne, abituato com’era a condividere il tifo per la Lazio solo col fratello e con i soliti amici della domenica. «Una passione di famiglia che gli abbiamo trasmesso sin da piccolino. Ogni volta che la Lazio giocava a Roma nostro padre ci portava a vedere le partite in Tribuna Tevere. Quando però ho raggiunto l’età per poter andarci da solo allo stadio, circa a sedici anni, ho iniziato

che fosse ucciso. Era il 2006 e la Lazio giocava a Milano contro il Milan. Anche se a essere sinceri, la trasferta che davvero non scorderò mai fu quella del 6 maggio del 1998 allo stadio Parco dei Principi di Parigi per la finale di Coppa Uefa. Come tutti sanno purtroppo alla Lazio andò malissimo, l’Inter vinse ben 3 a 0 grazie ai gol di Zamorano, Zanetti e Ronaldo. Eppure Gabriele ed io, nonostante quei terribili 90 minuti di partita sofferta, ci divertimmo tantissimo. Improvvisammo anche una piccola partita di calcio tra di noi al Traforo. Così, tra amici e fratelli».

Quando Cristiano parla del fratello ha la voce ferma. Tenera certo, calma, ma

to piombato nella nostra famiglia quell’11 novembre del 2007. Quando sarà più grande e potrà conoscere la storia dello zio, sarà orgoglioso di portare il suo nome. Così come io sono orgoglioso di essere stato suo fratello per ventisei anni». Perché Cristiano Sandri, Gabriele se l’è vissuto e cresciuto davvero, ci ricorda anche il giornalista e scrittore Maurizio Martucci, autore tra l’altro del libro sull’uccisione di Gabriele 11 novembre 2007. «Gabbo per la verità aveva un rapporto splendido con tutta la famiglia. Si dichiarava innamorato soprattutto della madre Daniela. Quando per lavoro la lasciava sola a casa, al rientro la sera spesso si sdraiava accanto a lei e le raccontava la

Pulito e ordinato, aveva un debole per la carbonara, le belle ragazze e la storia. Peccato per quei voti in greco... a frequentare la Curva nord. A Gabriele andò meglio, cominciò a sganciarsi da noi e a frequentare l’Olimpico già a quattordici anni, prima in Curva nord e poi di nuovo in Tevere, sempre assieme a me. Niente gruppi, niente striscioni dietro ai quali identificarsi in tutto e per tutto. Gabriele era un“battitore libero”». Immancabili poi le trasferte fuori casa, sempre con gli amici, sempre con Cristiano. «L’ultima insieme, in verità, l’abbiamo fatta l’anno prima

sempre ferma. Ci dice che non passa giorno senza che un pensiero vada a Gabriele. Da quasi 20 mesi è diventato padre di un maschietto che ha chiamato come suo fratello. «L’unico che oggi riesce a far sorridere mia madre. Per lei, che con mio fratello aveva un rapporto intenso, quasi simbiotico, la sua morte è stata una perdita davvero terribile. È difficile reagire. Mio figlio, il piccolo Gabriele, sta piano piano riempiendo parte dell’enorme vuo-

A sinistra, un’immagine di Gabriele Sandri. In alto, il murales realizzato a Roma dai suoi amici più stretti. Qui sopra, il poliziotto che lo ha ucciso nel 2007, Luigi Spaccarotella sua serata». E poi c’era il rapporto tutto speciale col padre, Giorgio. «Sì. Sessant’anni compiuti giusto oggi (ieri, ndr), non dimenticherà mai l’ultima volta che ha parlato con suo figlio, la sera prima che Gabriele fosse ucciso. Era tornato tar-

di quella notte, aveva lavorato al Piper e stava riordinando i dischi. Giorgio gli ha chiesto: “Non vai a letto?”.“No papà, finisco qui e poi mi vedo con gli altri per andare a Milano a vedere Inter-Lazio”, gli ha risposto il figlio.“Ma non ci andare, sarai stanco...”. “Papà, per la Lazio faccio questo e altro”, ha chiuso Gabriele. Detto questo, se n’è andato all’appuntamento con gli amici. E non si sono mai più visti». Oggi la famiglia Sandri è impegnata in prima linea per ottenere giustizia per l’uccisione del figlio. «Sì. La signora Daniela non si fa vedere troppo in pubblico, il suo dolore è più intimo, raccolto. Giorgio Sandri invece ha il carattere di un leone, sempre in giro per incontri e interviste a parlare di Gabriele, a onorare la sua memoria con grinta e tenacia. Anche Cristiano si batte per il fratello con molta lucidità e determinazione. Certamente essere diventato padre lo aiuta ad andare avanti. L’anello debole della famiglia è sicuramente la madre».

Tre giorni fa la Corte d’Appello di Firenze ha ribaltato la sentenza del primo grado dando a Spaccarotella il capo d’accusa di omicidio volontario, oltre a un aumento di anni da scontare. «Finalmente s’è chiarita la reale dinamica dell’omicidio. Non dovrebbero esserci brutte sorprese in Cassazione. Questo almeno è quello che la famiglia Sandri, gli amici e l’intera opinione pubblica italiana si aspetta». La verità per un ragazzo il cui assassinio è nel tempo divenuto un esempio per tutti. Un omicidio che restituisce all’idea del morto comune la certezza della giustizia. Il riscatto forse delle vittime sacrificate nel nome di un anonimo principio secondo il quale, tutto sommato, non sia un reato uccidere un ragazzo che ha espiato in modo orrendo la “colpa” invisibile che ricade sulla natura agonista del tifo. E se in tutta questa brutta storia dell’eroismo impersonale c’è, sta in una semplice lezione: il morto sbagliato dimostra solamente che i morti giusti non esistono.



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