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Certo che la fortuna esiste.

Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri? Jean Cocteau

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 15 DICEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere resiste alla Camera, 314 a 311: «Questa è una mia vittoria», dice, ma poi chiede aiuto ai centristi

IlgovernoBerlusconi-Scilipoti Passa per tre voti un’armata Brancaleone:la crisi resta al punto di prima Decisive le giravolte dei dipietristi e di Fli. Fini: «Una mia sconfitta numerica ma non politica». Bossi e il premier aprono all’Udc. Ma Casini: «Adesso devono governare, sennò si vota» I NUOVI SCENARI

di Errico Novi

Allargare la maggioranza? No, una svolta o il voto

Incidenti e feriti anche a Milano, Torino e Palermo

ROMA. La politica non c’è, o se

di Giancristiano Desiderio omenico Scilipoti ha detto che tra qualche anno vorrà raccontare personalmente ai suoi figli «la notte prima del voto per il governo Berlusconi»: la sua ansia, i suoi dubbi, il suo dramma interiore. a pagina 2

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c’è si vede poco. C’è grande emozione, molti eccessi, pure qualche pugno (e un paio di deputati che si arrampicano per i banchi in modo da fiondarsi nella rissa). Alla Camera finisce 314 a 311: tre voti in più racimolati tra i finiani, i dipietristi e il Pd.Al Senato va liscia: 162 a 135 con l’intero gruppo di Futuro e libertà, più l’altro ex Pdl Enrico Musso, che si astengono. Fini ammette la sconfitta ma non si dimette, mentre il «ragionier» Berlusconi esulta come un vincitore e poi sale al Quirinale. a pagina 2

Scontri in mezza Italia, tra cariche e lacrimogeni. Poi i black bloc mettono a fuoco Roma

Parla il finiano Mario Baldassarri

«Non cambiamo strategia: nuovo patto per le famiglie» «Riducendo gli sprechi della pubblica amministrazione si possono recuperare risorse per il quoziente familiare» Franco Insardà • pagina 5

Finite le proteste di liceali e universitari, scoppia la violenza: auto in fiamme, blindati rovesciati e decine di feriti Francesco Pacifico • pagina 6

I dati impietosi del bollettino di Bankitalia

La sfiducia del debito pubblico: non basta tirare a campare Le entrate fiscali sono diminuite, i Bot costano molto e il deficit dello Stato ormai tocca 1.867 miliardi

Fotocronaca di una giornata difficile alla Camera. Dall’alto: il risultato della votazione; la carezza di Lupi a Scilipoti, Berlusconi ringrazia Moffa e la rissa finale

Il testo dell’appello dell’ex tycoon

«Vladimir Putin ha ucciso la mia Russia» Una lettera dei leader mondiali a Medvedev chiede la liberazione dell’ex patron diYukos. Per l’Italia firmano Ferdinando Adornato, Roberto Rao e Piero Fassino.

Gianfranco Polillo • pagina 4

filano dietro ai libri che ostentano come la loro unica arma, ma ieri Orwell, Pirandello, Fenoglio e Voltaire hanno fatto anche da scudo materiale agli studenti attaccati della polizia. Abbiamo visto città blindate e impaurite come in un brutto passato che i ventenni di oggi (per loro fortuna) non conoscono. All’epoca, le ragioni di chi protestava furono rubate da pochi, rumorosissimi violenti che poi ingrossarono le fila del terrorismo. Oggi questi ragazzi, cui una società cieca espropria il futuro, rischiano di veder bruciata la loro giusta protesta nei roghi accesi dai violenti centri sociali. Speriamo che quegli stessi libri con il proprio bagaglio di esperienza e conoscenza servano come scudo anche contro i black-bloc.

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di Mikhail Khodorkhovsky i ricordo l’ottobre del 2003. Il mio ultimo giorno da uomo libero. Alcune settimane dopo il mio arresto, mi hanno informato che il presidente Putin aveva deciso: avrei dovuto «mandare giù brodaglia» per 8 anni. Era difficile crederci allora. Sono già passati sette anni da quel giorno. Sette anni: un periodo abbastanza lungo, tanto più se lo passi in galera.Tutti noi abbiamo avuto tempo di riconsiderare e ripensare molte cose. a pagina 10

M

seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

• ANNO XV •

Non fatevi rubare il futuro anche dalla violenza

NUMERO

243 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’analisi

prima pagina

Allargare la maggioranza? No, una svolta o il voto

pagina 2 • 15 dicembre 2010

di Giancristiano Desiderio

omenico Scilipoti ha detto che tra qualche anno vorrà raccontare personalmente ai suoi figli «la notte prima del voto per il governo Berlusconi»: la sua ansia, i suoi dubbi, il suo dramma interiore. L’onorevole Scilipoti potrà dire con orgoglio - anche se lo dovrà condividere almeno con i tre deputati di Futuro e Libertà - di aver salvato Silvio Berlusconi e di aver così dato vita al governo Berlusconi-Scilipoti. Il racconto del deputato ex dipietrista, però, si fermerà qua. Infatti, un minuto dopo il voto del 14 dicembre alla Camera i problemi concreti dell’Italia si sono ripresi il loro «posto d’onore». Ritorna così la domanda: riuscirà il nuovo ma vecchio governo a fare quanto non è riuscito a fare finora? Riuscirà la nuova maggioranza a garantire al governo quella forza politica necessaria per rilanciare l’economia italiana? Il problema che ha davanti il governo Berlusconi-Scilipoti è questo e chi pensa che il vero problema era quello di sconfiggere Fini ha le idee confuse.

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Ieri, ancora a botta calda, è stato lo stesso Berlusconi ad “aprire”all’Udc: il governo ha appena ricevuto alla Camera la fiducia e già chiede di poter avere nuovi voti e altri contributi politici. Lo stesso Bossi ha sottolineato che verso i moderati non c’è alcuna preclusione. Insomma, il governo ritiene che sia suo dovere allargare i confini della maggioranza che lo sostiene e lo dovrà sostenere a partire da oggi in Parlamento. Eppure, il compito principale del governo che sta a galla è quello di governare, riformare, rilanciare. I moderati non hanno avanzato ieri l’idea di una maggiore responsabilità: è da prima dell’estate che i cattolici liberali hanno posto alla ex maggioranza del Pdl e allo stesso presidente del Consiglio la questione di una nuova fase e un «governo di responsabilità» per dare all’Italia un governo politico più forte sul piano sociale. La ex maggioranza del Pdl e il capo del governo hanno scelto un’altra strada che ha anteposto agli interessi dell’Italia gli interessi dei berlusconiani e la irreggimentazione di ciò che resta della vittoria del 2008. Ma siccome i problemi non basta ignorarli per risolverli, ecco che oggi il medesimo problema ritorna e si chiama con una parola impropria: allargamento. La parola è impropria per due motivi: primo perché la maggioranza non si allarga ma continua a dimagrire; secondo perché persino questo estremo tentativo di Berlusconi di allargare la maggioranza che dimagrisce è la continuazione della guerra personale tra Berlusconi e Fini. Il presidente del Consiglio sarà pienamente soddisfatto di sé solo quando avrà sconfitto definitivamente Fini, come il presidente della Camera sarebbe stato soddisfatto solo se Berlusconi si fosse dimesso e fosse uscito definitivamente di scena. È del tutto inutile nasconderlo: in quella che è una crisi politica che cade in una fase molto delicata della vita sociale italiana c’era e c’è una guerra personale che è una vicenda secondaria e minore che ha il forte torto di distogliere le intelligenze e le attività dai migliori propositi.

I numeri che ha il governo che politica valgono? Per essere ancora più chiari: che cosa potrà fare il governo Berlusconi-Scilipoti con 314 voti? L’idea di Berlusconi era semplice: avere la fiducia e confermare la sua leadership in quel che resta del centrodestra per andare al voto da una posizione di forza. Un modo per accentuare la polarizzazione politica e degli animi. È singolare, ma non suscita ormai più stupore che Berlusconi pur promuovendo una politica conflittuale si appelli poi alla cultura moderata. Qui c’è l’origine della sua crisi.

il fatto Bocciata per tre voti la sfiducia alla Camera: 314 a 311

Il ribaltone di Berlusconi Il premier incassa il sì di due finiani e dei transfughi della sinistra poi rilancia: «Apriamo il governo ai centristi e anche ai democristiani del Pd» di Errico Novi

ROMA. Più che la politica, va in scena una specie di carramba che sorpresa. Condita da molti eccessi, persino qualche pugno (e un paio di deputati che si arrampicano per i banchi in modo da fiondarsi nella rissa). Ma per esempio, una delle due donne decisive per la vittoria di Berlusconi, Catia Polidori, non annuncia nemmeno il suo voto in dissenso da Fli. Lo dà e basta. Sceglie Berlusconi. All’ultimo momento e tra lo stupore degli altri finiani. È lei ovviamente la donna della discordia, è subito dopo il suo voto che scoppia il parapiglia a Montecitorio, con momentanea sospensione della seduta. Tra urla da stadio e cordoni sanitari dei berlusconiani per proteggere i ravveduti dell’ultim’ora, il Cavaliere riesce dunque a ottenere la fiducia anche alla Camera. Finisce 314 a 311.Al Senato va liscia, 162 a 135 con l’intero gruppo di Futuro e libertà, più l’altro ex Pdl Enrico Musso, che si astengono. «È un gesto di apertura, la invitiamo a dimettersi prima della conta a Montecitorio», dice il capogruppo finiano a Palazzo Madama, Pasquale Viespoli, rivolto a Berlusconi. Il quale non accetta l’ultimo, estremo tentativo di mediazione proposto da Fini e dai suoi parlamentari. Incassata la fiducia il premier sale verso le cinque del pomeriggio al Quirinale per riferire sull’esito della sfida. Resta quella che Fini definisce «una vittoria numerica ma non politica». Restano gli avvertimenti dei futuristi, per esempio Granata («a Berlusconi renderemo la vita impossibile»), con lo stesso Fini che però dichiara «una evidente sconfitta». E resta anche la posizione

problematica della Lega: «Se Berlusconi riesce ad allargare la maggioranza bene, altrimenti non è che si può governare appesi a un voto», dice Roberto Maroni a vittoria già incassata. I lumbàrd restano scettici, e Umberto Bossi stavolta pecca un po’ di ambiguità. Tiene a dire infatti che «non esiste un nostro veto sull’Udc». È davvero una sollecitazione all’ingresso dei moderati nella maggioranza o è il doppio gioco di chi ha già in testa le elezioni? Quella che emerge chiara è la consapevolezza di Berlusconi sull’impossibilità ad andare avanti così fino al 2013. L’appoggio di Pier Ferdinando Casini lo cerca eccome.Va persino ad abbracciarlo in aula, tra battute e sorrisi.

La risposta dell’Udc non si fa attendere. La sintetizza un comunicato diffuso nel tardo pomeriggio: «Per dar vita a un governo di responsabilità più ampio abbiamo chiesto a Berlusconi di dimettersi prima o dopo il voto alla Camera. Ha ritenuto di non ascoltarci. Peraltro ha ottenuto la fiducia che voleva per tre voti e ora ha solo il dovere di governare. Se non sarà in grado di farlo si è lasciata aperta solo una strada: costringere irresponsabilmente il Paese alle elezioni. Sia chiaro», è il messaggio del partito di Casini, «che in quel caso siamo pronti a presentare agli italiani una proposta di governo alternativa al Pdl e al Pd». Che maggioranza è, d’altronde, quella che si rimette a stento insieme durante la chiama sulle mozioni di sfiducia? È la maggioranza segnata dalle «disinteressate folgorazioni sulla via di Damasco», sempre secondo la nota di Fini.Tre iscritti al gruppo di Fu-


il retroscena

Tra i finiani scoppia il “caso Bocchino” Dopo l’intervento in «stile dipietrista» alla Camera, c’è chi chiede la testa del capogruppo di Riccardo Paradisi a vittoria numerica di Berlusconi è evidente quanto la nostra sconfitta, resa ancor più dolorosa dalla disinteressata folgorazione sulla Via di Damasco di tre esponenti di Futuro e Libertà. Che Berlusconi non possa dire di aver vinto anche in termini politici sarà chiaro in poche settimane».Gianfranco Fini commenta così tra l’amareggiato e il risentito la bocciatura della mozione di sfiducia contro il governo, passata per soli tre voti anche grazie alla defezione di esponenti finiani. Un colpo duro per Fini che aveva personalizzato molto, forse troppo, lo scontro con Berlusconi: «Ci giochiamo tutto, la nostra storia, la mia e la vostra, il percorso che abbiamo condiviso in questi mesi» aveva detto ai suoi il presidente della Camera lunedì sera nella sede di FareFuturo.

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Un Fini ottimista: «Se non ci sono ripensamenti il governo va sotto», diceva. Il guaio è che i ripensamenti ci sono stati. E a determinarli sembra sia stato proprio l’intervento in aula di Italo Bocchino. Un discorso sopra le righe quello del capogruppo di Fli, dai toni incandescenti con impennate dipietriste, tanto frontale e velenoso nei confronti del presidente del Consiglio da mettere in imbarazzo non solo l’ultramoderato Silvano Moffa – che infatti s’asterrà dal voto di sfiducia chiedendo le dimissioni di Bocchino – ma recuperando alla fiducia Catia Polidori e Maria Grazia Siliquini, incerte fino all’ultimo ma certissime di non poter seguire su quella china il

leader Fini. Uscito dallo studio del presidenza della Camera dove Fini riunisce i suoi Bocchino rilascia nuove dichiarazioni: «Berlusconi ha vinto numericamente, politicamente non va da nessuna parte». A chi gli fa notare che intanto Moffa ha chiesto le sue dimissioni lui replica che a lasciare la presidenza del gruppo non ci pensa minimamente: «Non ha votato la sfiducia, ora non può chiedere le mie dimissioni, se proprio ci tiene le proponga al gruppo e vediamo

«Che Silvio non possa dire di aver vinto in termini politici – dice Fini – sarà chiaro in poche settimane» che succede». Poi Bocchino cita Togliatti: «Pajetta nel 1947 per protesta contro Scelba occupò la prefettura di Milano perché era stato rimosso il prefetto. Togliatti lo chiamo e gli disse: mo’che l’hai occupato che ci fai. E così noi diciamo a Berlusconi: e mo’ che hai preso la fiducia per due voti che ce fai?». A metterci il carico da undici arriva Luca Barbareschi che definisce gli esponenti Fli della defezione «gente che cambia idea per ragioni palesi. Non so come questa gente torni a casa la sera dopo quello che ha fatto». Accuse pesanti che richiamano la replica di Katia Polidori che annuncia il suo pasaggio al gruppo misto: «Il voto di oggi è stata una

turo e libertà votano per Berlusconi. Maria Grazia Siliquini, Catia Polidori e Giampiero Catone, le cui intenzioni però erano note. Uno, Silvano Moffa, non partecipa al voto. Ma già le due donne, da sole, sono decisive: se avessero votato in conformità al loro gruppo, Berlusconi avrebbe perso 312 a 313. Non sarebbero bastati i diversi casi di trasmigrazione dal centrosinistra alla maggioranza: il dipietrista Razzi, i tre ineffabili fondatori del Movimento di responsabilità nazionale Calearo, Cesario e Scilipoti. Nella lista va inserito anche uno dei tre liberaldemocratici, Maurizio Grassano. Una pattuglia nutrita e soprattutto variegata, certo. Ma appunto, non sarebbe servita a nulla se non ci fossero state le due finiane, Polidori e Siliquiini.

questione di coscienza e di responsabilità».

Toni molti diversi da quelli di Barbareschi e soprattutto di Bocchino quelli usati nell’intervento in Senato da Pasquale Viespoli. Tanto che Berlusconi mentre ascolta il capogruppo di Fli alla Camera scrive di getto un biglietto al suo capogruppo Fabrizio Cicchitto «Viespoli e Bocchino, due discorsi opposti! Come fanno a stare nello stesso partito!». E in effetti che in Fli esista nei confronti di Bocchino un certo malanimo non è un mistero: a molti esponenti finiani, non solo tra le colombe, non va giù l’iperattivismo del capogruppo Fli. Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa del Pdl, rivela oggi dopo il voto alla Camera: «Molti amici di Fli fuori dall’aula, mi hanno detto di essere stati disgustati dal discorso di Bocchino». Fonti interne al Fli confermano e pur dietro l’ovvio anonimato aggiungono: «Così si rischia che altri tra noi se ne vadano. Fini non può mettere in mano a Bocchino le redini del movimento». Nel Pdl c’è chi investe molto su questa strategia di svuotamento el campo finiano. Tra gli ex An rimasti nel Pdl c’è chi rivela a liberal altri particolari di quanto potrebbe accadere in Fli: «Molti di loro hanno onorato oggi un patto di fedeltà a Fini votando la sfiducia ma ora non se la sentono di procedere come dei guastatori. Per esempio Giancarlo Paglia ha votato la sfiducia, ma in cuor suo sperava che andasse come è andata. Lo ha dichiarato lui stesso. Ma sa quanti altri la pensavano come

abbandona alla curva dei deputati del Pdl. Giubilo per l’inatteso punto a favore.

In alto nell’emiciclo ci sono i finiani irriducibili. Granata, Raisi, Conte tra gli altri. Pare che a quest’ultimo scappi la parolaccia: «Questa è una p...». Reagiscono malissimo, chissà perché, i leghisti. Si avvicinano le due fazioni, il padano Fava (che poi è uno dei lumbàrd con forti ascendenze meridionali) si agita più di tutti. Qualche parlamentare scavalca sui banchi e sulle teste degli altri per arriva-

lui? Certo, a parlare con questi amici adesso non possiamo mandarci a parlare la Santanchè». Si deduce che l’operazione riavvicinamento è già cominciata e che se ne occuperanno pontieri di professione come Andrea Augello e lo stesso Silvano Moffa. Che da Fabio Granata viene gentilmente definito: «Un poveraccio, senza dignità politica. Dopo di lui non vogliamo più quinte colonne dentro Fli». Dichiarazioni di fuoco che prospettano una specie di resa dei conti tra falchi e colombe dentro Fli. Per capire quale sarà la navigazione del governo e la condotta dell’opposizione di Fli basta attendere le prossime scadenze parlamentari: il decreto legge sui rifiuti che oggi arriva alla Camera, la riforma Gelmini in Senato e la mozione di sfiducia contro il ministro Bondi e quella per il ritiro delle deleghe a Roberto Calderoli. Sulle prime due questioni Fli non dovrebbe mettersi d’ostacolo mentre i finiani potrebbero consumare la loro prima vendetta proprio sui casi Bondi e Calderoli. Infine «Il presidente Fini - fa sapere il suo portavoce -, non si dimetterà dalla presidenza della Camera, salvo non si dimostri la sua mancanza di imparzialità nella conduzione dei lavori parlamentari». Si è invece dimesso da membro del Copasir Carmelo Briguglio.

Sarà Casini a costringere il premier a tornare. Il leader dell’Udc, diversamente da Fini, non conta defezioni. Anzi a fine giornata invia un sms ai suoi per ringraziarli della tenuta: «Sono fiero e grato della vostra lealtà».

Tra i finiani le cose sono andate diversamente anche per la specifica difficoltà creata da Bocchino col suo discorso inferocito. Basta prendere Moffa. Quando, alla fine della seconda chiama, Fini domanda se vi sia ancora qualcuno che deve votare, pensa probabilmente al presidente della commissione Lavoro, che non si materializza. E che poco dopo dirà: «Colpa di Bocchino che con la sua dichiarazione di voto ha fatto saltare tutto». Al di là di pretesti e debolezze, va detto che persino Berlusconi, lasciato Napolitano e raggiunto Vespa al Tempio di adriano, dirà le stesse cose sul capogruppo di Fli. Aggiungendo: «Io per Fini rappresento un ostacolo al raggiungimento dei suoi obiettivi». Spiegherà che «non esiste una maggioranza alternativa» confermando che, casomai, intende allargare quella attuale. A chi? «All’Udc», di sicuro. Ma persino ai «democristiani di sinistra che sono nel Pd». In ogni caso è sicuro che «non si va a votare». Può darsi. Dovrà convincere la Lega però. Oltre a Maroni, c’è Calderoli che al governo concede il panettone ma non la colomba pasquale. E il capogruppo al Senato Federico Bricolo nel suo intervento aveva lanciato il messaggio con ancora maggiore chiarezza: «Il nostro obiettivo, caro Berlusconi, non è arrivare al 2013 e basta, ma arrivarci e fare le riforme». Ma può esserci vocazione riformatrice in un governo Berlusconi-Scilipoti?

Poco entusiasta il Carroccio: «Non ci interessa arrivare al 2013 e basta, vogliamo arrivarci facendo le riforme». Bossi dichiara: «Nessun veto su Casini». Che dice: ora governino

Tra le due peraltro va fatta una differenza. Maria Grazia Siliquini annuncia tutto dall’inizio. La sua dichiarazione di voto è esattamente l’ultima, prima che inizi la conta. «Cosa è cambiato rispetto al 29 settembre, quando abbiamo dato la fiducia al governo? Cosa?». La deputata è una delle sottoscrittrici del documento Moffa. Lo è anche la Polidori. Ma lei non fa dichiarazioni di voto in dissenso dal gruppo. Nessuno se lo aspetta. O forse no. Luca Barbareschi, al termine della seduta, dirà di aver sospettato qualcosa già in mattinata: «Mi ha detto di avere problemi col Cepu». La famiglia della deputata umbra in effetti è proprietaria dell’università per fuoricorso. Secondo gli altri finiani, dunque, «ha ricevuto pressioni». Fatto sta che al momento della chiama lei si avvia al banco della presidenza, pronuncia il suo «no» (alla sfiducia), quindi affretta il passo, fa un’impercettibile mossa che sembra significare «ben gli sta» e si

re prima all’epicentro della zuffa. Ci pensa soprattutto l’imponente Guido Crosetto: è lui a impedire il peggio. I commessi s’interpongono e presidiano per un po’ quella zona dell’aula. Sembra una rissa di quelle allo stadio, in cui dopo restano solo celerini e sedie divelte. Fini riprende la conta dopo qualche attimo di sospensione. A ogni voto inatteso, i deputati berlusconiani applaudono, urlano, abbracciano i transfughi. In qualche caso vi si stringono attorno per proteggerli. Sanno che fuori non tira una bella aria (proprio la Polidori poche ore dopo il no pronunciato in aula presenterà denuncia per minacce) e neppure dentro. Di Pietro nella sua dichiarazione di voto dà il peggio di sé: «Lei finirà come un Noriega qualsiasi», dice rivolto a Berlusconi. Il quale a quel punto si alza ed esce dall’aula, seguito da tutti i deputati del suo partito.


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l’approfondimento

Proprio ieri Via Nazionale ha pubblicato il suo bollettino sulla finanza pubblica: i numeri del Paese continuano ad andare male

La sfiducia del debito

Le entrate fiscali sono diminuite, i Bot costano molto e il deficit dello Stato ormai tocca 1.867 miliardi di euro: sono i nuovi dati della Banca d’Italia. Una maggioranza così abborracciata non può governare l’emergenza economica di Gianfranco Polillo inita la grande kermesse parlamentare, che lascia sul terreno ferite sanguinanti, si torna ai problemi. A riportare tutti – maggioranza e opposizione – con i piedi per terra è la Banca d’Italia: quell’istituzione benemerita che, nonostante tutto, continua a macinare numeri e statistiche nella speranza di richiamare tutti al senso di responsabilità. Se quegli sforzi riuscissero a far breccia nel chiuso mondo della politica, non ne guadagnerebbe solo l’Italia, ma la politica stessa. Ed ecco allora che mentre lo scontro politico diventa al color bianco e si susseguono e inseguono teorie, a volte, strampalate, c’è qualcuno che ci richiama alle reali condizioni del Paese, a una realtà difficile che deve essere gestita e governata. Il segnale desta un qualche allarme. Nuovo record del debito pubblico italiano a distanza di pochi giorni da una discussione, in sede europea, particolarmente impegnativa. Dove si dovrà decidere i tempi e le modalità per rientrare nei

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ranghi. Per riportare cioè tutti i paesi in una rotta di sostenibilità, dopo gli eccessi dei mesi precedenti e la necessità di evitare il peggio. Vale a dire contrastare l’impatto di una crisi finanziaria, tutt’altro che domata, e che rischiava di mettere in ginocchio le principali economie del Pianeta.

A ottobre il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra record di 1.867,398 miliardi. Il dato, preso nel suo valore assoluto, è poco significativo. Com’è noto non conta tanto il suo ammontare in euro, quanto il suo rapporto con il Pil. Solo a fine anno sapremo, pertanto, se le previsioni del Governo (118,5 per cento del Pil) saranno rispettate. O se invece non avrà avuto ragione la Commissione europea che stima un livello leggermente più alto (118,9 per cento). Comunque, questione di decimali. I dati finora resi noti non sono risolutivi. Nei primi dieci mesi dell’anno il debito è aumentato del 4,3 per cento, comunque meno dello scorso 2009, quando il

debito, sempre nei primi 10 mesi dell’anno, era aumentato del 6 per cento. Un confronto tranquillizzante. Un po’ diverso è il suo profilo temporale: a ottobre la sua dinamica ha subito un’accelerazione (più 1,3 per cento). In compenso nei mesi precedenti il suo andamento era stato più piatto, rispetto all’anno trascorso. Vedremo che succederà a chiusura dell’anno: in genere mesi relativamente tranquilli – salvo incidenti di percorso – in cui dovrebbe diminuire. Se l’andamento del debito sembra,

Sui mercati pesa l’incertezza che ancora grava sul futuro dell’esecutivo

quindi, seguire il tracciato previsto, sul fronte del fabbisogno le cose, per fortuna, vanno leggermente meglio. Il risparmio d’ottobre, rispetto al mese precedente è stato di circa 3,5 miliardi di euro. La stretta del governo, specie per quanto riguarda la “cassa” sta dando i suoi frutti, anche se determina effetti collaterali sull’economia reale a causa dei mancati pagamenti nei confronti di aziende ed imprese. A loro volta in difficoltà per il più prudente atteggiamento delle banche. Colpite dalle soffe-

renze, l’erogazione dei finanziamenti è divenuto più circospetto accentuando una situazione di precarietà per l’intero sistema economico.

Con questo complesso di problemi dovrà misurarsi il governo che ha appena ottenuto una risicata fiducia in Parlamento. Dovrà essere capace di mantenere una linea di rigore ma cercando, al tempo stesso, di esperire tutte le possibile vie per dare respiro all’economia. Non sarà facile. Gli spread (la differenza tra il tasso di interesse dei titoli italiani ed il bund tedesco sul mercato secondario) in queste ore non si sono mossi. Segno di una certa indifferenza con cui i mercati hanno seguito le vicende politiche italiane. Più che le fibrillazioni parlamentari hanno pesato le scelte compiute con la “legge di stabilità” che ha messo in sicurezza i conti pubblici.Vedremo quello che succederà domani: il giudizio subirà oscillazioni a secondo che si riesca ad aprire o meno una nuova fase politica o non resti che la


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L’analisi del finiano Mario Baldassarri sull’instabilità e la politica economica del governo

«La nostra strategia non cambia: tagli per aiutare le famiglie» «Riducendo gli sprechi della pubblica amministrazione e i finanziamenti a fondo perduto si possono recuperare risorse per il quoziente familiare» di Franco Insardà

ROMA. «Con questi numeri in Parlamento il governo non è in grado di governare». È questo il commento a caldo di Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze di Palazzo Madama e del Centro Studi Economia reale. I dati del bollettino della Banca d’Italia sulla finanza pubblica non fanno essere ottimisti, con il nuovo record del debito pubblico a 1.867 miliardi di euro. Il record, purtroppo, c’è ogni mese e da trentacinque anni. Da quando, cioè, esiste il debito pubblico. Il problema è capire qual è la percentuale sul Pil e se il debito cresce più del prodotto interno lordo Con un governo così precario l’economia potrà avere un respiro? Il problema è quello che io ho evidenziato già due mesi fa e che ripeto: è necessario dare una svolta politica con un nuovo governo e una maggioranza, magari allargata e più forte. E poi? Occorre una nuova agenda che faccia le riforme strutturali promesse agli elettori e votate da quelli del centrodestra. da questo è chiaro che ne debba conseguire una nuova compagine. Nel suo intervento in Aula lei ha parlato di un patto di legislatura. Per come sono andate le cose è ancora possibile? Partiamo da un dato di fatto: c’è un palese squilibrio del governo che è a trazione leghista, non certo per colpa di Bossi e i suoi che fanno il loro mestiere. Allora di chi sono le responsabilità? Il problema è del Pdl che non riesce a riequilibrare lo strapotere del Carroccio. Per come sono andate le cose è ancora possibile parlare di un patto di legislatura? Non è cambiato nulla, perché con l’aria che tira in termini economici in Europa e nel mondo pensare di andare a votare sarebbe da totali irresponsabili. Occorre, invece, un governo che nella seconda parte della legislatura faccia quello che ha soltanto promesso in campagna elettorale, ma non realizzato. Ci sono i margini per poter fare le cose promesse? In politica se c’è la

volontà i margini ci sono, altrimenti non se ne fa nulla. Come Fli adesso che cosa farete? Lo abbiamo scritto in un documento consegnato al presidente Berlusconi lunedì pomeriggio, nel quale si chiariva che, comunque fosse andata la conta, eravamo disponibili su quella linea strategica delineata. Ora ha avuto una fiducia che non gli consentirà di governare per due anni e mezzo con due voti di maggioranza e bisognerà, quindi, procedere sui contenuti di politica economico-sociale indicati, fermo restando che siamo aperti al confronto. Gianfranco Fini lo

«Abbiamo ribadito in un documento, consegnato al premier, la proposta per un patto di legislatura» ha scritto sul Sole 24Ore venti giorni fa. Ritiene che il Pdl sia disponibile? Molti colleghi del Pdl al Senato mi danno ragione, perchè si rendono conto che non si può rimanere fermi al solo controllo del deficit che è un atto dovuto, ma non è quella politica economica. È l’inizio poi bisogna tagliare le spese, ridurre le tasse e puntare sugli investimenti. Quello, cioè, che ha fatto la Germania. La locomotiva tedesca, appunto, grazie a un governo di coalizione e al contributo delle forze sociali è ripartita. Noi invece... Quella della Germania è un’altra storia, perché l’economia tedesca è ripartita soprattutto sulle esportazioni, meno sulla domanda interna. Ma ha costruito condizioni di partenza diverse.

Cioè? Negli ultimi sette anni ha investito in ricerca, innovazione, tecnologie che le permettono di avere un grado di produttività molto più alto del nostro. Noi invece... A forza di fare tagli lineari abbiamo ridotto gli investimenti pubblici, la ricerca e i fondi alla scuola e alla formazione. Abbiamo, però, salvaguardato il deficit. Va bene. Ma è importante capire come lo si salvaguarda. Se lo si fa come negli ultimi cinque-sei anni alzando la spesa corrente e le tasse non si va da nessuna parte. Una direzione diversa rispetto al programma elettorale del Pdl. La rivoluzione liberal-democratica, promessa nel ’94, ancora non si vede. Negli ultimi dieci anni il centrodestra ne ha governati otto e la pressione fiscale aumentata da Visco, tra il 2006 e il 2008, di tre punti è stata consolidata da questo governo. Come occorreva e occorre intervenire? Già l’anno scorso in Finanziaria ho fatto una proposta alternativa e aggiuntiva, accettata dal governo come ordine del giorno, ma che è rimasta lettera morta. La piazza di ieri a Roma come va interpretato? È un segnale di disagio all’origine, ma palesemente manovrato a fini di sommossa politica. Io critico la riforma Gelmini, perché la considero positiva, ma troppo poco incisiva. Bisognerebbe, per esempio, ridurre le sedi universitari e concentrare le risorse. Anche il disagio sociale vero non è affrontato. Questo governo non solo non lo affronta, ma rischia di aggravarlo con i tagli lineari in alcuni settori che hanno grosse difficoltà e incidono sul sociale, le famiglie e la sicurezza. Lo dico da anni che bisogna aggredire quelle due voci di spes che contengono i bubboni della spesa pubblica: i fondi perduti per 44 miliardi all’anno e gli acquisti delle pubbliche amministrazioni che sono 134 miliardi di euro all’anno. Risparmiando il dieci per cento di quelle ruberie si recuperano 18/20 miliardi di euro con i quali si potrebbe finanziare il coefficiente familiare a tutti gli italiani. L’incertezza della politica italiana pesa sui mercati finanziari? I mercati sono sensibili al deficit e al debito. Se queste due voci sono sotto controllo non ci sono problemi, ai mercati finanziari non interessa la situazione reale delle famiglie e delle piccole imprese.

strada di una nuova crisi al buio dalle incerte soluzioni. Un dato più di fondo non va, tuttavia, trascurato. Rispetto a gennaio i rendimenti dei Bot a dodici mesi sono notevolmente aumentati, passando dallo 0,795 per cento lordo, al 2,014, con una crescita di oltre il 150 per cento. Una buona notizia per i risparmiatori che avranno un rendimento netto dell’1,451 per cento (comunque inferiore all’inflazione), meno per lo Stato che dovrà comunque pagare qualcosa in più. E ancora meno tranquillizzante per il contribuente su cui ricadrà l’onere di questo incremento. Ma questo è il quadro della situazione finanziaria: l’eccesso di liquidità che caratterizza i mercati, ma non si traduce in una spinta verso gli investimenti a causa della crisi bancaria, rischia di penalizzare un po’ tutti. Soffrono i risparmiatori che non sono adeguatamente retribuiti. Anzi subiscono un costo pari alla differenza tra il tasso di inflazione ed il rendimento netto dei loro risparmi. Una piccola tosatura. Soffre comunque lo Stato. Paga poco, sempre in termini reali, sui titoli rinnovati; ma poi subisce i contraccolpi della mancata crescita: il volano più forte per abbattere il rapporto debito – Pil. Le stesse aziende – sia finanziarie che non – che hanno investito le loro riserve in titoli di Stato (si pensi ad esempio alle aziende assicurative) subiscono perdite in conto capitale (la differenza tra il valore dei titoli acquistati e quello di mercato) che dovrebbero contabilizzare a bilancio. Insomma: il conto del dare e dell’avere dimostra quanto pesi questa lunga stagnazione economica e la necessità di fare il possibile affinché si esca quanto prima da queste secche paludose.

Non sarà facile rimettere in moto una macchina che, da troppo tempo, perde colpi. Su questi temi dovrebbero esercitarsi le forze politiche, mettendo tuttavia fine alla semplice lamentazione, ma prospettando soluzioni concrete per aggredire problemi che, altrimenti, rischiano di incancrenirsi. Tutti gli Organismi internazionali, nelle loro previsioni, scontano che non siamo giunti alla fine del tunnel. Il distacco dall’Europa sembra destinato a continuare. Negli anni passati l’economia italiana era sodale con quella tedesca. A differenza degli altri paesi (Francia, Spagna e Inghilterra) che crescevano di più utilizzando il volano del maggior indebitamento delle famiglie, le differenze erano minime. Ma oggi Berlino, ultimato il processo di riconversione industriale, grazie alla maggiore disponibilità delle forze sociali ed al contributo responsabile delle organizzazioni sindacali, ha spiccato il volo. Dovremmo, da un lato, cercare di imitarli. Dall’altro pensare al Mezzogiorno ed al suo grande potenziale produttivo.


diario

pagina 6 • 15 dicembre 2010

Clandestino muore in Salento

Nave italiana attaccata dai pirati

OTRANTO. Uno sbarco di clandestini nel Salento è finito in tragedia: un uomo è morto sbattendo la testa sugli scogli e nove persone sono rimaste ferite. Ecco il bilancio dello sbarco di 29 immigrati avvenuto a Gagliano del Capo, nel basso Salento. Gli immigrati, che erano su un gommone, sono stati fatti scendere in acqua a forza dagli scafisti, in una zona a ridosso della costa, in una località che si chiama «Ciolo». Hanno dovuto quindi raggiungere la scogliera, nonostante le pessime condizioni del mare e la temperatura rigida. Mentre nuotava, un immigrato curdo di trent’anni è stato scagliato contro gli scogli dalle onde ed è morto sul colpo. I feriti sono stati condotti in ambulanza nell’ospedale di Tricase.

Siderno: arrestato l’ex-sindaco

OMAN. Tornano i pirati nel golfo di Oman e attaccano un mercantile italiano. La nave sotto attacco è la «Michele Bottiglieri», un mercantile lungo 225 metri, che trasporta granaglie. Ieri mattina il comandante della nave, un italiano, ha lanciato un allarme satellitare alla centrale operativa del comando generale della Guardia Costiera italiana, relativo a un possibile attacco da parte di pirati. Ricevuto il messaggio, la Guardia Costiera ha immediatamente avvisato le forze navali che si trovano nella zona, tra cui un’unità della Marina Militare italiana per un eventuale intervento. A bordo ci sono ventitre persone di equipaggio: tre italiani (compresi il capitano e il primo ufficiale) e venti filippini.

REGGIO CALABRIA. I carabinieri e la polizia di Reggio Calabria hanno inferto un duro colpo alla cosca Commisso di Siderno, fra le più ramificate della ’ndrangheta. In un’operazione congiunta, hanno arrestato 53 persone accusate di associazione mafiosa. La cosca, attiva nella Locride, aveva filiazioni anche in altre regioni e all’estero, in particolare in Canada. Tra i fermati c’è anche l’ex sindaco di Siderno, Alessandro Figliomeni, accusato di essere inserito a pieno titolo nella cosca. L’ex primo cittadino «contribuiva a dirigere e coordinare il sodalizio prendendo le decisioni più rilevanti, impartendo ruoli e disposizioni agli altri associati», hanno spiegato i carabinieri dopo l’operazione di ieri.

Universitari e liceali in piazza anche a Milano, Torino e Palermo. Solo dopo scoppia la violenza della Capitale: decine di feriti

Guerriglia dopo le proteste

Prima la polizia carica gli studenti. Poi i black-bloc infiammano Roma di Francesco Pacifico

ROMA. Un blindato della guardia di Finanza bruciato all’imbocco con via del Babbuino. Un camioncino della nettezza urbana in fiamme all’inizio di via del Corso. Sulla destra studenti e autonomi che lanciano pietre dal Pincio. Sulla sinistra un’altra auto in via Ferdinando di Savoia. E in mezzo piazza del Popolo avvolta da un intenso fumo nero con la polizia costretta a caricare i manifestanti sperando di disperderli. Non ha avuto tutti i torni Gianni Alemanno quando ha sottolineato che ieri Roma è stata stretta nella morsa della violenza «come non avveniva da molti anni a questa parte». Ma i cortei degli studenti, dei precari e centri sociali che si sono tenuti in tutt’Italia, un po’ ovunque si sono conclusi con scontri e devastazioni, quando si è saputo della fiducia strappata per pochi voti da Berlusconi. E guarda caso la manifestazione è risultata la più violenta dall’inizio della crisi anche perché in corteo sono scese le categorie più colpite dalla crisi: gli studenti che hanno visto la scuola subire tagli lineari per oltre un miliardo e mezzo nel triennio, i precari fuori dalle tutele del Welfare e che hanno visto i fondi europei destinati alla loro formazione trasferiti sulla cassa integrazione. A Torino gli studenti hanno occupato la sede locale del Miur per attaccare uno striscione dall’inequivocabile slogan “Se non cade il governo, scateniamo l’inferno”. A Milano invece è finito nel mirino Palazzo Mezzanotte, che ospita quello che è rimasto in Italia della Borsa. Imbrattate anche la fac-

di sedie e tavolini prelevati dai bar vicini. Poco più tardi in via Astaldi, dietro Palazzo Grazioli, un gruppo di manifestanti ha provato a rompere il cordone di sicurezza che vigilava sulla casa del premier. Ma questo non ha evitato un fitto lancio di sacchetti neri di spazzatura verso gli agenti, al grido di “Questa è la monnezza di Napoli”. Ferito un giovane dalla calca, mentre provava a scappare.

Glu studenti hanno manifestato sfliando dietro ai loro libri preferiti. Libri che poi hanno usato come scudi in occasione delle cariche della polizia ciata della Arner Bank e la stazione ferroviaria Garibaldi. A Napoli, invece, i ricercatori hanno preso possesso del rettorato della ”Federico II”. A Bari alcuni ragazzi hanno occupato i binari a un passaggio a livello a 300-400 metri dalla stazione ferroviaria. A Catania un automobilista di 51 è morto dopo essere stato colto da un infarto, mentre era incolonnato nel traffico causato dal corteo. In fondo poca cosa rispetto a quello che è successo a Roma, dove la parte di centro vicina ai

palazzi della politica e abituale meta dello shopping, è diventata ieri teatro di scontro tra manifestanti e forze dell’ordine. Nel capitale si sono dati appuntamento, ma con cortei diversi, gli studenti delle scuole superiore e dell’università, i precari portati in piazza dai metalmeccanici della Fiom e i centri sociali. Ben presto questi tre fronti hanno deciso di unirsi, facendo ben presto capire che la debolezza del presidio organizzato dalle forze dell’ordine. Le prime avvisaglie si sono

avute in mattinata, ben prima del voto di fiducia, quando un gruppo di black bloc si è staccato dal corteo per lanciarsi in direzione di Palazzo Madama. Una volta lì hanno scagliato petardi e palloncini pieni di vernice contro il Senato. Le forze dell’ordine che presiedevano la zona hanno immediatamente effettuato una carica di alleggerimento, lanciando anche lacrimogeni, quindi ne sono scaturiti scontri seguiti dal lancio di altri petardi e palloncini pieni di vernice oppure

Di lì a poco la situazione è degenerata ed ha avuto il suo apice quando i manifestanti hanno iniziato a sciamare in via del Corso, a pochi metri dalla Camera, e si è saputo che Berlusconi non era stato sfiduciato. Un primo gruppo di partecipanti ha provato a raggiungere la Camera, ma di fronte al muro degli agenti si è ”accontentata” di far scoppiare tre bombe carta. E un’altra parte del corteo finiva verso il Lungo Tevere, un’altra iniziava uno scontro molto duro con le forze dell’ordine all’insegna di agguati partiti dalle vie laterali e cariche. Nell’arco di un paio d’ora (e di un paio di chilometri) è successo di tutto. La parte più violenta del corteo che lanciava contro le forze dell’ordine tubi innocenti, bottiglie, sampietrini petardi e fumogeni, gli agenti che rispondevano con cariche e spari di lacrimogeni. Che quella di ieri fosse una giornata particolare a Roma, lo si è compreso quando un gruppetto di black bloc ha bruciato un blindato della guardia di Finanza alla fine di via del Babbuino per sbarrare la strada alle forze dell’ordine e gli elicotteri perlustravano la zona, dove non si contavano più gli incidenti. Ma è servito a poco, visto


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Nasce un ambientalismo moderato e laico

Rogo Thyssen: chiesti sedici anni di reclusione per l’ad TORINO. Al termine della sua requisitoria al processo per il rogo alla Thyssen il pm Raffaele Guariniello ha chiesto per l’amministratore delegato della mutinazionale, Harald Espenhahn la condanna a 16 anni e 6 mesi di reclusione. A lui l’accusa contesta il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. Per quattro dei cinque altri dirigenti della società imputati il pm ha poi chiesto 13 anni e 6 mesi mentre per il quinto dirigente, Daniele Moroni, Guariniello ha chiesto una pena di 9 anni. Per quanto riguarda la società, il pm ha chiesto una sanzione pecuniaria di 1,5 milioni di euro e l’esclusione per un anno da agevolazioni e sussidi e la revoca di quelli già concessi e la pubblicazione di un’eventuale sentenza di condanna sui maggiori giornali internazionali. Come si ricorderà, nella notte tra il 6 e il 7 dicembre del 2007

che gli scontri sono continuati nella vicina via Flaminia prima che si placassero gli animi. Il bilancio parla da solo: una quarantina tra manifestanti e agenti feriti medicati sul posto e un altra ventina portata in ospedale. Almeno una quarantina i fermati. Sei invece i mezzi incendiati sui quali sono dovuti intervenire i vigili del fuoco del comando provinciale di Roma: un blindato della guardia di finanza, un compattatore della nettezza urbana, quattro auto private, mentre oltre una quindicina i cassonetti dati alle fiamme. A soqquadro invece il centro di Roma. Ieri pomeriggio, a meno di un’ora dagli scontri, via del Corso era un lungo tappetto di vetri rotti e sampietrini, pezzi di tubi innocenti lasciati sulla pavimentazione, per non parlare dei cassonetti bruciati, delle fioriere e delle vetrine rotte. Imbufaliti gli esercenti della zona. Ne ha fatto le spese il sindaco Gianni Alemanno, quando è dovuto andato a fare un sopralIn queste pagine, alcune immagini degli scontri di ieri: qui accanto, cariche di polizia vicino al Senato, a Roma e, in alto, lanci di frutta contro i poliziotti in tenuta antisommossa a Torino

g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i

sette operai rimasero vittima di un terribile incendio dovuto - secondo l’accusa - al mancato rispetto di elementari norme di sicurezza. Il rogo causò la morte di Antonio Schiavone, 36 anni, Rosario Rodinò di 26 anni, Rocco Marzo di 54 anni, Roberto Scola di 32 anni, Angelo Laurino di 43 anni, Bruno Santino di 26 anni, Giuseppe De Masi di 26 anni e poteva essere evitato secondo l’accusa se i vertici dell’azienda avessero fatto il proprio dovere.

Nelle repliche alle dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo, il premier Berlusconi ha evidenziato la dipendenza energetica dell’Italia dagli altri Paesi, in particolare la Russia, e ha attaccato duramente la sinistra ecologista, additandola quale responsabile dell’abbandono del nucleare e dell’arretratezza del Paese e della difficoltà economica che le imprese sono costrette ad affrontare per l’eccessivo costo dell’elettricità. Il fugace, ma efficace passaggio del discorso sancisce la fine dell’ambientalismo ideologico della sinistra, quello dei “no!”a prescindere, quello che ha rinnegato Fermi, ha distrutto il Ponte sullo Stretto ancor prima di costruirlo, ha causato la più grande catastrofe ambientale che l’Italia abbia mai conosciuto impedendo la costruzione dei termovalorizzatori. Possiamo sancire la nascita del nuovo ambientalismo che fa appello ai moderati, l’ambientalismo che concilia lo sviluppo con la tutela, che valorizza i rifiuti attraverso gli impianti, che vuole le grandi infrastrutture, che abbatte i costi del 50% attraverso l’atomo.

Alfonso Fimiani

CONVERTITI AL FEDERALISMO Non di rado capita di vedere fra i neo-federalisti e i neo movimenti autonomistici politici che militavano in partiti - assertori e fautori del centralismo - che ritardarono di venti anni la costituzione delle regioni. Si sono convertiti al federalismo? Mi auguro che la loro convinzione sia sincera e non strumentale per seguire la moda del momento. A quei pochi che sognano irrealizzabili e dannose separazioni, viene da chiedere se hanno valutato a quanto si ridurrebbe il loro peso politico di fronte alle grandi potenze che dominano la scena mondiale, e a quanto quello economico in una società globalizzata. Lo sguardo al passato è necessario per trarne insegnamento ed evitare di ripetere gli stessi errori. Occorre guardare al domani, e per il futuro la strada migliore è quella tracciata da Mazzini il 15 aprile 1834 con la“Giovane Europa”, e cioè la creazione degli Stati Uniti d’Europa.

Luigi Celebre

L’IMMAGINE

Sessanta i feriti e una ventina i fermati. A soqquadro le vie dello shopping della capitale

luogo. In piazza del Popolo è stato contestato da un gruppo di giovani che gli hanno urlato ”fascista” e ”pagliaccio”. Camminando in via del Babuino due commercianti l’hanno rimproverato di non aver fatto abbastanza per prevenire quanto accaduto. Qualcuno gli ha persino gridato: «Pensi soltanto alla tua famiglia», in riferimento agli scandali legati alle assunzioni facili.

Il ministro nel mirino delle contestazioni, Maristella Gelmini, ha chiesto «ai leader dell’opposizione, dei sindacati, della società civile di prendere le distanze con chiarezza dai gruppi di violenti che hanno messo a ferro e fuoco Roma. Abbiamo la responsabilità di adoperarci tutti per ristabilire un clima di convivenza civile e di dialogo costruttivo Ognuno può esprimere il proprio legittimo dissenso in maniera pacifica e democratica. Il confronto può essere duro ma non deve mai degenerare in violenza e intimidazione personale». Gianfranco Fini ha parlato di «atti frutto di una logica criminale», il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha espresso «il ringraziamento e la solidarietà alle nostre forze dell’ordine», mentre il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha chiesto conto al responsabile del Viminale, Roberto Maroni, dle perché i black bloc hanno potuto scorazzare liberamente per Roma.

Geometrie nascoste Le lamelle di questo fungo (al microscopio) svolgono una funzione riproduttiva. Sono rivestite da spore che si staccano e cadono sul terreno. Sarà poi il vento a diffonderle, consentendo la nascita di nuovi funghi CHE IL NATALE NON DIVENTI UN CALVARIO Il periodo natalizio porta con sé la voglia di stupire i nostri cari con regali speciali, di abbellire le nostre case per renderle più accoglienti e di preparare pranzi e cene per passare ore liete con i nostri ospiti. Questa propensione alla spesa non deve, però, diventare causa di drammi successivi. Spendere secondo le proprie capacità significa non porre un’ipoteca sulla serenità poiché, una volta passate le feste, rimane l’amarezza dei conti da pagare. Le spese natalizie sono un momento di allerta: le proposte commerciali aumentano e, con esse, le offerte allettanti di prestiti e agevolazioni di pagamento. Ma, spesso, dietro a rate irrisorie e dietro a prestiti alla portata di tutti, si nasconde il germe della disperazione di intere famiglie. Per questo motivo invitiamo tutti i consumatori a riflettere prima d’impegnarsi in pagamenti a lungo termine. Uno shopping cosciente può aiutare ciascuno di noi e chi ci è vicino, lasciando sotto l’albero due regali preziosi per i nostri figli e i nostri cari: l’educazione al consumo e la serenità di un bilancio familiare in ordine. Non trasformare il Natale in un calvario è il regalo migliore che ci si possa fare.

Ambulatorio Antiusura Onlus

LA VITA È UN BENE SUPREMO, DA TUTELARE Cosa dire dell’eclatante caso del risveglio dal coma vegetativo di un paziente dell’ospedale San Camillo di Venezia? La notizia è apparsa su molte testate: un paziente, sottoposto a una nuova terapia, si risveglia dallo stato vegetativo di minima coscienza dopo cinque anni e per sei ore comprende e risponde agli ordini dei medici. Mai come in questo caso, il vecchio adagio “finché c’è vita, c’è speranza” si rivela azzeccato, e spero che questa vicenda sia un monito per i profeti dell’eutanasia di Stato. Mi è dispiaciuto molto che due persone che stimo come Fazio e Saviano poche settimane fa abbiano dato molto spazio ai sostenitori della “dolce morte”, rifiutandosi di fare altrettanto con coloro che vedono nella vita il bene supremo. Spero che questo straordinario risultato scientifico offra a tutti uno spunto di riflessione.

AdP


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Inviato speciale dell’amministrazione americana in Pakistan e Afghanistan, autore deg

Il cesellatore della pace di Maurizio Stefanini

Figlio di un medico e di una ceramista, erede di una famiglia del ghetto di Varsavia, ha vissuto “aggiustando i cocci” del mondo l padre era un medico, morto quando lui aveva 15 anni: nato a Varsavia da ebrei russi, e che si era dato il cognome di Holbrooke al momento di arrivare negli anni ’30 negli Stati Uniti. Non disse mai alla moglie e al figlio il suo cognome originale, che così si perse come i contatti con la famiglia di origine. La madre era invece una ceramista di famiglia ebrea tedesca: fuggita da Amburgo a Buenos Aires nel 1933 all’avvento al potere di Hitler, e poi passata a New York. Tutti e due i genitori erano però atei e a Richard, nato nel 1941, avevano dato come unico background religioso qualche visita alle riunioni dei quaccheri, che sembravano alla madre “più interessanti”. Più tardi, dopo due mogli e due figli, il terzo matrimonio con l’ex-giornalista Kati Marton lo aveva legato a una donna di origine ungherese che aveva riscoperto la sua ebraicità dopo essere cresciuta da cattolica. E quando allora anche il figlio avrebbe iniziato a visitare sinagoghe, la signora Trudy Kearl avrebbe pure mostrato un certo imbarazzo: «Non avrei immaginato tutto questo interesse per le sue radici», sarebbe stato il suo commento quando nel 1993 gli avrebbero dato un posto da ambasciatore in Germania anche per compensarlo di una mancata nomina a vice-Segretario di Stato, e “Dick” avrebbe appeso alla parete del suo ufficio una foto del nonno materno Samuel Moos.

I

In uniforme da ufficiale tedesco della Prima Guerra Mondiale, con tanto di elmetto a chiodo in testa e Croce di Ferro al collo. «Vero gigante della politica estera» secondo Barack Obama, «uno dei difensori più accaniti e dei servitori più devoti dell’America» nelle parole di Hillary Clinton, tacciato però da altri di avere solo infilato un accordo di pace traballante dietro l’altro, l’appena scomparso per un infarto Richard Hoolbrooke fu forse essere intuito nella sua essenza proprio da questo background biografico pur elemen-

tare. Progenie appunto di medico e ceramista: intrigante suggerimento di una vocazione ancestrale non solo a lavorare al capezzale di metaforici malati, ma anche a aggiustare cocci forse non sempre del tutto aggiustabili. Radici in parte oscure ma amate tra i drammi e i genocidi dell’Europa Orientale: regione nella quale avrebbe appunto cercato di lavorare per prevenire altri genocidi. La provenienza dal

Per Barack Obama «se ne va un vero gigante della politica estera», mentre la Clinton onora «uno dei più forti servitori degli interessi degli Stati Uniti d’America»

cosmopolitismo ebraico: e dunque la scelta della diplomazia. L’influenza del quaccherismo, religione pacifista per eccellenza.Ma anche l’orgoglio per il nonno eroe di guerra, sia pure da una parte sbagliata. E i suoi ultimi sforzi, forse tanto improbi da procurargli la fatale crisi cardiaca, erano stati appunto nel tentativo di dare un senso allo sforzo bellico Usa contro i Taleban tra

Pakistan e Afghanistan. «I progressi che abbiamo compiuto in Afghanistan e in Pakistan sono dovuti per una gran parte agli sforzi senza soste di Richard in favore dell’interesse nazionale dell’America, e della sua ricerca della pace e della sicurezza», ha pure detto Obama. Secondo il presidente pakistano Asif Ali Zardari «il Pakistan ha perduto un amico. Il miglior omaggio che gli si possa rendere è di reiterare il nostro impegno a sconfiggere l’estremismo e portare la pace». Secondo l’afghano Karzai, che pure con il defunto non aveva relazioni tra le migliori, si tratta comunque di «una perdita per il popolo americano». Tra gli elogi forse non solo di circostanza va citato quello del ministro degli Esteri britannico Willian Hague, con cui lui aveva lavorato appunto a lungo proprio sui dossier afghano e pakistano: «Uno dei diplomatici migliori e più brillanti della

sua generazione, l’illustrazione di ciò che la diplomazia americana può produrre di meglio».

E quello del “profondamente rattristato” segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen: «Sapeva che la storia è imprevedibile, che siamo talvolta costretti a difendere la nostra sicurezza conducendo conflitti lontani, e


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gli accordi di Dayton, mediatore in Vietnam. Ecco chi era Richard Holbrooke, “l’eroe della trattativa” nella drammatica fuga da Saigon dell’ambasciatore con la bandiera a stelle e strisce arrotolata sotto il braccio, è una drammatica prefigurazioni di altri incerti successi futuri. La Bosnia-Erzegovina, ad esempio, che è pacificata sotto forma di una smembrata Confederazione in cui ogni partner va per conto proprio, i risultati territoriali delle pulizie etniche sono diventati definitivi e nulla andrebbe avanti senza il massiccio aiuto e supervisione della comunità internazionale. Per non parlare della successiva guerra che ci sarebbe stata comunque in Kosovo.

Una delegazione afgana attende l’arrivo di Holbrooke, inviato speciale Usa nel Paese. A sinistra un suo ritratto recente. Nella pagina a fianco un’immagine dal conflitto del Vietnam

che l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico resta indispensabile». La curiosità per le sue radici e la venerazione per il nonno combattente possono forse essere collegati a un’altra immagine, che è quella di un poco convenzionale diplomatico in grado di arrabbiarsi, e voglioso di sfogarsi con la stampa, che sapeva affascinare. Con Karzai, appunto, aveva avuto nel 2009 uno scontro acceso, che nonostante diverse smentite era trapelato nei media con dovizia di particolari. Una fama da “Toro Scatenato” e “Bulldozer”, secondo due suoi famosi soprannomi, che sono poi il contrario dello stereotipo di ambasciatore ancora caricaturato nei documenti di Wikileaks: mellifluo di fronte, e sferzante alle spalle. Era stato Obama, non appena arrivato alla Casa Bianca, a volere per rappresentarlo in Afghanistan e Pakistan il diplomatico che come segretario di Stato aggiunto incaricato dell’Europa di Bill Clinton era stato artefice di quegli accordi di Dayton che avevano posto fine alla guerra di Bosnia-Erzegovina. «È stato lui a consentire la salvezza di decina di migliaia di vite», è stato il ricordo del presidente della Commissione Esteri del Senato, John Kerry. Ma appunto, per imporre quella pace il figlio della ceramista aveva viaggiato nella ex-Jugoslavia in continuazione, parlando a brutto muso con Slobodan Milosevic. «È stato il diplomatico per eccellenza, capace di affrontare i dittatori e di agire per gli interessi dell’America nelle

circostanze più difficili», è stato pure un commiato di Hillary Clinton. In seguito, dopo essere stato anche ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu tra Bill Clinton e Obama Holbrooke si era dedicato per un po’, con successo, a fare il manager bancario. D’altra parte, proprio al Palazzo di Vetro aveva ottenuto un importante successo economico, riuscendo ad alleviare l’ammontare della contribuzione statunitense alle Nazioni Unite. Ma la sua carriera, e anche ciò è significativo, era iniziata dal Vietnam, nel 1963. Laureatosi l’anno prima alla Brown University, era stato uno dei giovani che avevano risposto al famoso appello di John Fitzgerald Kennedy su «non pensate a cosa il vostro Paese può fare per voi ma a cosa voi potere fare per il vostro Paese», entrando nel Foreign Service e arrivando addirittura a imparare il vietnamita. E prima di diventare assistente degli ambasciatori Maxwell Taylor e Henry Cabot Lodge Jr. e membro della delegazione ai negoziati di Parigi ave-

Del Vietnam, dove era stato capo delegazione per gli accordi di pace, diceva: «È stata una pena, una lezione che ho portato con me, in qualunque cosa abbia fatto»

va passato diverso tempo sl campo nel Delta del Mekong, a fare il rappresentate civile in un programma di sviluppo agricolo dell’Agency for International Development. Dopo era stato per due anni in Marocco come Direttore del Corpo di Pace: esperienza che aveva segnato il suo primo approccio col mondo dell’Islam. E in seguito tra 1972 e 1976 si era per un po’ dedicato al giornalismo come direttore della rivista specializzata Foreign Policy. Ma poi era tornato a occuparsi di Vietnam, quando dopo aver collaborato con la campagna elettorale di Jimmy Carter si era preso a cuore la vicenda dei Boat People. E sempre quel complesso di ricordi vietnamiti erano stata tra l’altro da lui rievocati appena a settembre, nel parlare a una conferenza organizzata dall’Ufficio Storico del Dipartimento di Stato, sul tema “L’esperienza americana nel Sud Est Asiatico”. Tra gli altri invitati, da una parte Henry Kissinger: Nobel per la Pace proprio per aver siglato gli Accordi di Parigi. Ma dall’altra, per la prima volta, anche rappresentanti ufficiali del Vietnam. «Sono molto onorato di vedere che sono ormai di età abbastanza elevata da vedere che uno dei miei scritti è stato declassificato», aveva anche detto, con scherzo tipicamente da epoca preWikileaks. Nel 1966 aveva scritto un memorandum sulla contro-insurrezione che figura tra gli annali diplomatici del 1966. Nel 1967-68 aveva fatto parte di una task force segreta incaricata di redigere le “carte del Pentagono” sulle condizioni dell’entrata in guerra. Nel 1968-69 era stato nella delegazioni che a Parigi aveva iniziato i negoziati di pace con i nord-vietnamiti. Qualcuno potrebbe forse insinuare che quell’apparente successo, poi sfociato nel 1975

È vero che Holbrooke per lo meno il sostanziale fallimento del Vietnam lo ammetteva. «È una pena, e una lezione che ho sempre portato con me per il resto della mia vita in ogni altra cosa che ho fatto», aveva detto a settembre. È vero pure che quando gli avevano chiesto di fare un paragone con l’Afghanistan aveva rifiutato di rispondere: d’altronde, il suo incarico era stati per saltare quando il New Yorker aveva pubblicato un suo ritratto intitolandolo al “Vietnam d’Obama”. È vero altresì che a 35 anni di distanza il Vietnam unificato è si un Paese comunista e autoritario, come peraltro autoritario era il governo del Vietnam del Sud di Van Thieu. Ma ormai convertito al mercato, e in nome poi di una comune diffidenza verso Pechino arrivato a mandare personale a addestrarsi nelle accademie militari Usa, a fare manovre in comune, a siglare accordi di cooperazione, a accettare l’aiuto Usa per valorizzare le proprie risorse petrolifere, e appunto a mandare relatori a un convegno del genere. Confrontiamo questa evoluzione al modo in cui invece gli aiuti Usa alla rivolta anti-sovietica in Afghanistan ha poi contribuito alla genesi dei fenomeni Taleban e al Qaeda, anche se il legame non è poi così meccanico e automatico come spesso si ripete: dopo tutto, fu proprio l’eroe della guerriglia anti-sovietica Massoud che i Taleban-Qaedisti si premurarono di far saltare in aria, prima di fare l’operazione sulle Torri Gemelle. Ci renderemo conto che alla fine ci vuole proprio la prospettiva della Storia, per scoprire se una sconfitta o una vittoria siano veramente tali. Chissà: forse anche la foto del nonno decorato per aver servito un Paese che poi avrebbe obbligato la sua famiglia a fuggire in uno dei Paesi contro cui aveva combattuto e al servizio del quale il nipote avrebbe lavorato, serviva a ricordargli la problematicità dei dati storici. Sebbene una confidenza gli attribuisca l’idea che «su 10 possibili scenari che si prospettano in Afghanistan nove sono per noi negativi», un’altra lo accreditava invece a lavorare sull’ipotesi di lavorare per staccare i Tabeban da al Qaida. Che però per alcuni era realpolitik, ma per altri un’ulteriore illusione. Comunque certamente uno stress da stroncare un “uragano della diplomazia” come lui. Venerdì sera al posto di lavoro si era sentito male, e avevano dovuto ricoverarlo in ospedale d’urgenza. Sabato, diagnosticatagli l’occlusione di un’aorta, lo avevano sottoposto a un delicato intervento al cuore. Non ce l’ha fatta.


mondo

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Da uomo più ricco di Russia a vittima simbolo della deriva autoritaria di un Paese. La stessa che potrebbe definirlo colpevole

È l’ora di Khodorkovsky Oggi il verdetto per l’ex magnate che rischia 14 anni per aver sfidato lo Zar di Osvaldo Baldacci forse l’ultimo atto di una guerra di potere gigantesca, capace di influenzare i destini dell’Europa e del mondo, eppure passa nella scarsa attenzione generale. È attesa per oggi in Russia la sentenza del processo contro Mikhail Khodorkovsky, tappa epocale dello scontro tra gli oligarchi e i nuovi poteri di Mosca. Un test per capire in che direzione va la Russia, se verso l’autarchia putiniana basata sul monopolio degli idrocarburi e tramite questo dei vari gangli di potere dalla politica all’establishment militare, o se invece pur essendosi ricostituito a Mosca un forte potere

È

scorso giugno, il ministro dello Sviluppo economico German Gref ha ammesso che difficilmente potevano essere sottratte e rivendute le quantità di petrolio citate nell’atto d’accusa - circa un quinto della produzione annuale russa di greggio - senza che il governo ne fosse informato. Dietro c’è anche un’ulteriore prova di forza tra Putin e Medvedev. Il nuovo presidente russo infatti ha spesso promesso maggiore trasparenza e maggiore giustizia, mentre la posizione del premier ed ex presidente Putin è molto rigida: arriva a paragonare Khodorkovsky al finanziere americano in carcere Madoff

Per i difensori dei diritti umani e molti osservatori stranieri non c’è alcun dubbio sul fatto che l’ex oligarca sia la vittima predestinata di un regolamento di conti organizzato da Putin centrale c’è comunque ancora spazio per una evoluzione magari progressiva, ma chiaramente nella direzione dello sviluppo della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Per la verità non c’è molto da essere ottimisti, e sembra prevalere la compattezza di un potere dai lati oscuri che non ammette dissensi. Khodorkovsky è diventato un simbolo dell’opposizione e sta scontando otto anni di prigione in Siberia per le accuse relative al suo operato quando era presidente del colosso petrolifero Yukos, esponente simbolo di quella classe di oligarchi nata nell’era Eltsin e smantellata nell’era Putin, il quale ha assunto direttamente il controllo proprio della mega-aziende di idrocarburi sulle quali si basa la rinnovata potenza russa e la ricchezza di chi riesce a giovarsene. L’ex patron della società petrolifera russa ed ex uomo più ricco di tutta la Russia, dal 2003 è in prigione con l’accusa ufficiale e formale di frode ed evasione fiscale. La Procura chiede altri 14 anni di carcere duro per simili accuse: il nuovo processo vede Khodorkovsky e il socio Platon Lebedev incriminati per il furto di 218 milioni di tonnellate di petrolio, che sarebbero state sottratte alla stessa Yukos in modo tale che i due li avrebbero rivenduti privatamente e illegalmente. Convocato come testimone lo

(considerato il più grande e famoso truffatore dei nostri tempi) e lo accusa di aver fatto uccidere più di una persona. L’imputato a sua volta non fa che ripetere - lo ha detto anche al giudice - che il caso è “montato e inconsistente”.

E allo stesso tempo che“il verdetto, qualunque esso sarà, entrerà nella storia della Russia e la determinerà per le future generazioni”. «Non esagero - ha affermato l’ex oligarca a novembre nella sua dichiarazione finale al processo - quando dico che milioni di occhi in tutta la Russia e nel mondo intero osservano l’esito di questo processo. Osservano nella speranza che la Russia possa dopo tutto diventare un Paese di libertà e legalità, dove la legge è al di sopra del funzionario burocrate». E non ha tutti i torti. Una sentenza che sarà un termometro per i cambiamenti e la modernizzazione promessi dal Cremlino e allo stesso tempo un test per verificare chi conta davvero nella squadra al vertice. Come dicevamo, sia in Russia che presso le cancellerie della comunità internazionale l’attenzione sul caso è stata ormai incentrata sulla comprensione dell’equilibrio di poteri: l’impressione che tutti hanno è che la sentenza sarà comunque decisa non dal tribunale ma dai palazzi del potere. Sull’argomento Medvedev ha lanciato più

volte segnali rimasti poi senza seguito, mentre Putin insiste nel suo decennale anatema contro gli oligarchi disobbedienti. Il carcerato più celebre di Russia - anche perché gli altri come lui hanno ceduto, sono espatriati o sono morti - ha appena 47 anni. Ed è nemico giurato di Vladimir Putin, che lo ha paragonato a un incrocio tra il finanziere Madoff e il gangster Al Capone. La sua Yukos, il colosso petrolifero che ha dominato per qualche anno la scena mondiale, è stata ormai smembrata. Certo, non si può dire che la sua storia sia tutta trasparente ed esemplare, ma in Russia erano tempi strani, e molti nuovi oligarchi emersero dopo il crollo del comunismo nei tempi di Eltsin accaparrandosi interi settori economici attraverso privatizzazioni opache, grazie ai buoni rapporti con il potere. Poi il potere è cambiato, e in modo altrettanto opaco sono cambiati anche gli equilibri dei potentati economici, senza che per questo ci fosse nulla di meglio che un cambio di guida nei monopoli. Nato in una modesta famiglia di ingegneri moscoviti, Khodorkovsky studia chimica ed economia prima di lanciarsi negli affari. In epoca sovietica non disdegna relazioni all’interno del partito comunista, grazie alle quali, a soli 26 anni, prima ancora della caduta

Khodorkovsky, ex patron di Yukos. Oggi la Corte stabilirà se è innocente o colpevole. In quest’ultimo caso, per conoscere la pena effettiva, bisognerà aspettare almeno una settimana. A destra: Putin e Medvedev biare le carte in tavola, e a rinnovare in meglio la situazione russa dopo la fine della controversa era di transizione legata alla presidenza di Boris Eltsin.

All’inizio del nuovo millennio è proprio Khodorkovsky a essere il primo a optare per una gestione trasparente, all’occidentale. Assume consulenti stranie-

Un gruppo di politici occidentali ha firmato un appello al presidente Medvedev per «porre fine alla persecuzione» contro l’ex patron di Yukos. Fra questi: Kouchner, Miliband, Adornato, Rao e Fassino dell’Urss, fonda la banca Menatep, che gli consente di acquisire la maggioranza del gruppo petrolifero Yukos, di cui in seguito riesce ad acquisire il controllo in circostanze poco chiare. Fatto sta che riesce anche ad essere per breve tempo, nel 1993, ministro dell’Energia, appena trentenne. È uno degli uomini simbolo della nuova Russia, libera, capitalista, giovane, spregiudicata, tutta orientata alla ricchezza facile. Ma è proprio lui a cam-

ri e diventa il preferito degli investitori esteri, fino al punto da sfiorare la fusione tra la sua Yukos e la major americana ExxonMobil. Si dedica anche alla politica - e questo sembra essere il punto cruciale che gli costa la via crucis tuttora in corso e offre sostegno non solo ideale all’opposizione liberale con ingenti contributi finanziari che vanno di pari passo con donazioni di milioni di dollari a programmi per la società civile. Nel

frattempo, sposato e padre di quattro figli, diventa l’uomo più ricco della Russia - secondo Forbes ha 15 miliardi di dollari - e quindi tra i più ricchi del mondo, e la suaYukos controlla il settore del petrolio russo, in pieno boom. La crisi precipita nel 2003, quando il presidente Vladimir Putin pensa di aver consolidato abbastanza il suo potere per poter dichiarare guerra ai poteri rivali. Convoca al Cremlino una ventina di oligarchi, primo fra tutti Khodorkovsky, chiaramente il contraltare più pericoloso. Lo mostra fin dal look: racconta la leggenda che l’oligarca liberale si presentò - unico fra tutti - con un pullover a collo alto, cosa che irrita in modo particolare Putin. Il presidente voleva attaccare e sottomettere le ricchezze russe, e invece a prendere l’iniziativa è proprio Khodorkovsky che rovescia le carte in tavola: afferma che è arrivato il momento di agire contro la corruzione ai vertici dello Stato e cita nomi vicini al presidente. Che replica: «Signor Khodorkovsky, lei è sicuro di essere in regola con il fisco?». «Assolu-


mondo

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L’associazione Memorial pubblica l’ultimo appello dell’ex patron di Yukos

«Vostro onore, ascoltatemi» di Mikhail Khodorkovsky i ricordo l’ottobre del 2003. Il mio ultimo giorno da uomo libero.Alcune settimane dopo il mio arresto, mi hanno informato che il presidente Putin aveva deciso: avrei dovuto «mandare giù brodaglia» per 8 anni. Era difficile crederci allora. Sono già passati sette anni da quel giorno. Sette anni - un periodo abbastanza lungo, tanto più se lo passi in galera. Tutti noi abbiamo avuto tempo di riconsiderare e ripensare molte cose. A giudicare dalla presentazione dei procuratori : «dategli 14 anni» e «sputate sulle precedenti decisioni del tribunale», in questi anni hanno cominciato a temermi di più - e a rispettare la legge ancora di meno. Ciononostante, voglio parlarvi della speranza. La speranza - la cosa principale nella vita. Ricordo la fine degli anni ‘80. Avevo 25 anni. Il nostro Paese viveva nella speranza della libertà, la speranza di poter ottenere la felicità per noi e per i nostri figli. Vivevamo per questa speranza. In certi sensi si è materializzata - in altri, no. La responsabilità per cui questa speranza non si è realizzata del tutto, e non per tutti, probabilmente è di tutta la nostra generazione, incluso me. Ricordo anche la fine del decennio scorso e l’inizio di questo. A quel punto avevo 35 anni. Stavamo costruendo la migliore società petrolifera della Russia. Stavamo creando complessi sportivi e centri culturali, costruendo strade, rilevando e sviluppando dozzine di nuovi campi; avevamo cominciato a sviluppare le riserva della Siberia orientale e stavamo introducendo nuove tecnologie. In breve, stavamo facendo tutte quelle cose di cui Rosneft, che si è impadronita della Yukos, va così fiera oggi. Grazie ad un notevole aumento della produzione petrolifera, anche dovuto ai nostri successi, il Paese poté trarre beneficio dalla situazione petrolifera favorevole. Speravamo che il periodo di

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agitazioni e instabilità fosse finalmente alle nostre spalle e che saremmo riusciti, nelle condizioni di stabilità ottenute con grande sforzo e sacrificio, a costruire pacificamente una nuova vita, un grande Paese. Coloro che hanno iniziato questa causa vergognosa - Biryukov, Karimov e altri - ci definiscono con disprezzo “imprenditori” (kommersanty), ci considerano degli essere inferiori, capaci di qualsiasi cosa pur di proteggere la nostra prosperità e evitare la prigione.

Credo che tutti noi abbiamo capito perfettamente: il significato del nostro processo va ben oltre il destino mio e di Platon, e persino dei destini di tutti coloro che senza colpa hanno sofferto durante il travolgente massacro dellaYukos, coloro che non ho potuto proteggere ma di cui mi ri-

lizzazione qui in Russia? Chi modernizzerà l’economia? I procuratori? I poliziotti? I cekisti? Possiamo e dobbiamo cambiare le cose. Come può Mosca diventare il centro finanziario dell’Eurasia se i nostri procuratori, proprio come 20 e 50 anni fa, chiedono direttamente e in modo chiaro in un processo pubblico che l’aumento della produzione e la capitalizzazione di mercato di una società privata sia giudicato un obiettivo criminale e mercenario, che merita come pena 14 anni di galera? In una sentenza c’è una società che pagava più tasse di qualsiasi altra, eccetto Gazprom; nella seconda sentenza è evidente che non c’è nulla da tassare poiché l’articolo tassabile è stato rubato. Un Paese che tollera una situazione in cui la burocrazia siloviki, in nome dei suoi interessi, tiene in prigione, invece dei criminali e insieme a loro, decine e persino centinaia di migliaia di imprenditori di talento, manager e gente normale, è un Paese malato. Uno stato che distrugge le sue imprese migliori, pronte a diventare campioni globali, un Paese che disprezza i propri cittadini e si fida solo della burocrazia e dei servizi speciali, è uno stato malato. Vostro Onore! Nelle vostre mani non c’è solo il destino di due persone. Si decide qui, in questo momento, il destino di ogni cittadino del nostro Paese. Di coloro che, nelle strade di Mosca e Chita, Peter e Tomsk, e nelle altre città e insediamenti, non vogliono diventare vittime dell’illegalità della polizia, che hanno messo su un impresa, costruito una casa, raggiunto il successo e vogliono tramandarlo ai figli e non a dei predoni in divisa, e infine, di coloro che vogliono compiere onorevolmente il loro dovere in cambio di un salario equo, senza temere di essere licenziati in qualsiasi momento da capi corrotti con un pretesto qualsiasi.Vostro Onore, so benissimo che tutto ciò è molto difficile per voi – forse siete perfino spaventati – e Vi auguro di avere coraggio!

La burocrazia siloviki può fare qualsiasi cosa. Non c’è il diritto di possedere proprietà privata. La persona che si scontra con “il sistema” non ha alcuna tutela. E non è protetta dai tribunali

tamente!» risponde l’interessato. «Vedremo», commenta Putin in un silenzio glaciale. È l’inizio di una guerra senza esclusioni di colpi, con la palese intenzione di arrivare all’ultimo sangue, quello di Khodorkovsky. Il 25 ottobre dello stesso anno Khodorkovsky viene arrestato in Siberia nel suo aereo privato, accusato di frode su vasta a scala e - guarda caso - di evasione fiscale e incarcerato.

Nel 2005 l’ex oligarca viene condannato a otto anni in un campo di prigionia al confine con la Cina, a oltre 6.000 chilometri di Mosca. Ma non basta. Nel 2007, Khodorkovsky è oggetto delle nuove accuse di riciclaggio e furto di beni per le quali è in corso un secondo processo, in cui il pubblico ministero ha chiesto una pena di ulteriori 14 anni di campo di prigionia. Per i difensori dei diritti umani e molti osservatori stranieri non c’è alcun dubbio sul fatto che Khodorkovsky sia la vittima di un regolamento di conti organizzato da Putin, il simbolo della deriva autoritaria del Paese, colpevole di aver mostrato apertamente la propria indipendenza e le proprie ambizioni politiche. Ne sono ben consapevoli molti politici occidentali, che proprio ieri hanno pubblicato sul Financial Times e Le Monde un appello a Medvedev per «porre fine alla persecuzione» contro Khodorkovsky.Tra i firmatari, David Miliband, Bernard Kouchner, Piero Fassino, Roberto Rao e Ferdinando Adornato.

cordo ogni giorno. Chiediamoci: cosa passa per la testa dell’imprenditore, l’industriale di alto livello o semplicemente di una persona normale, colta e creativa, che guarda il nostro processo sapendo che il risultato è assolutamente scontato? La conclusione ovvia di una persona pensante è agghiacciante nella sua cruda semplicità: la burocrazia siloviki può fare qualsiasi cosa. Non c’è il diritto di possedere proprietà privata. La persona che si scontra con “il sistema” non ha alcun diritto. Pur essendo consacrati dalla legge, i diritti non sono protetti dai tribunali. Perché i tribunali o hanno paura o fanno parte anch’essi del “sistema”. E allora dobbiamo stupirci se le persone pensanti non aspirano all’autorea-


quadrante

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Wen Jiabao da oggi in India

Svezia, l’attentato mirava alla strage

DELHI. Inizia oggi il viaggio di 3 giorni del premier cinese Wen Jiabao in India. Oltre agli attesi importanti accordi commerciali, si discuterà soprattutto dei rapporti tra i 2 Paesi e di questioni internazionali come il Pakistan e il desiderio di Delhi di avere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nella sua prima visita in India da 5 anni, Wen guiderà una delegazione di oltre 400 persone, soprattutto funzionari di alto livello e imprenditori, per aumentare i rapporti economici tra i 2 giganti asiatici. È prevista la firma di 45 accordi per 20 miliardi di dollari, in settori come l’elettricità e la farmacologia. Per anni i rapporti commerciali tra i 2 Paesi sono stati modesti, a causa della tradizionale rivalità.

Ahmadinejad attacca Israele

STOCCOLMA. Taymour Abdelwahab, il terrorista di origine irachena che si è fatto esplodere a Stoccolma l’11 dicembre voleva causare una strage di grandi proporzioni, quale da tempo non si è vista in Europa, e aveva probabilmente dei complici. Queste sono le conclusioni a cui sono giunti gli inquirenti svedesi. Nel frattempo i servizi di sicurezza svedesi, britannici, statunitensi e indiani stanno cercando tracce e collegamenti nel passato dell’uomo per risalire a un eventuale rete di più ampie proporzioni. I servizi indiani si sono attivati perché l’uomo è esploso a poca distanza dall’ambasciata di Delhi. Abdelwahab aveva su di sé una cintura esplosiva, una bomba nello zaino e portava in mano un ordigno.

TEHERAN. L’esistenza di Israele è «un insulto alla dignità umana» e «il vero genocidio è quello compiuto dagli Israeliani a danno dei palestinesi». Lo ha detto ieri il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad: «Il metodo usato nella fondazione del regime sionista (Israele, ndr) e la continuazione della sua esistenza sono un grande insulto alla dignità umana», ha affermato il presidente iraniano. Ahmadinejad, che più volte in passato ha profetizzato l’imminente scomparsa di Israele e ha definito “una favola” l’Olocausto, ha fatto queste nuove affermazioni mentre incontrava ieri a Teheran i membri di un convoglio con membri di vari Paesi asiatici che intende raggiungere la Striscia di Gaza per portare aiuti ai palestinesi.

Il tribunale di Londra accoglie le richieste del fondatore di Wikileaks, mentre il governo inglese si prepara a alla cyber-vendetta

Assange libero su cauzione

Gli americani lo vorrebbero in galera, secondo “Time” è l’uomo dell’anno di Pierre Chiartano

Il fondatore del sito “spiffera-tutto” viene liberato, e il governo della Gran Bretagna si prepara a un attacco informatico generale che si prevede durissimo. Intanto Assange condanna Visa e MasterCard e si prepara a rientrare sulle scene. Mentre gli Usa vorrebbero mettergli le mani addosso

LONDRA. Julian Assange è a piede libero, mentre l’Inghilterra si prepara ad eventuali vendette informatiche. Il tribunale ha deciso per accogliere il ricorso dei legali dell’australiano patron di Wikileaks per la libertà su cauzione, rifiutata nella prima udienza. Bisognerà vedere se la giustizia inglese, alla fine, vorrà mollare l’osso agli svedesi. C’è stata una vera ressa di media di tutto il mondo davanti alla Corte di Westminster ieri alle 14.30 ora di Londra. Assange, arrestato a Londra il 7 dicembre scorso con l’accusa di “stupro”in Svezia, era tornato a chiedere la libertà su cauzione, dopo che gli era stata negata la scorsa settimana, al momento dell’arresto. E se in prima linea c’è la richiesta d’estradizione dei giudici di Stoccolma, la paura del tycoon australiano si materializza nelle successive e prevedibili richieste di Washington che lo vedrebbe volentieri legato al palo o immerso nel pentolone di acqua bollente.

Due statunitensi su tre, infatti, sono favorevoli a processare il prode Julian, diventato una specie di paladino delle libertà d’informazione con la diffusione di migliaia di documenti diplomatici riservati. Lo afferma un sondaggio Abc News/Washington Post. Mentre per la rivista Time è il «Personaggio dell’anno», con oltre 382mila preferenze e 150mila voti in più del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Un personaggio dunque che crea divisioni. Ricordiamo che in una recente intervista per il magazine tedesco Der Spiegel il fondatore del sito “spiffera tutto” si era difeso dalle accuse. «I file di Kabul non contengono informazioni relative a movimenti correnti di truppe. La fonte ha seguito un processo di minimizzazione dei danni e ci ha indicato come condurre i nostri usuali controlli per appurare che non ci fossero significative possibilità di danneggiare degli innocenti. Capiamo l’importanza di proteggere le fonti confidenziali e capiamo perché è importante proteggere alcune fonti Usa

e Isaf». Aveva anche profetizzato un cambiamento epocale nel rapporto tra potere e cittadini che gli avrebbe fatto conquistare il favore dell’opinione pubblica mondiale. «Questo materiale porta alla luce la brutalità quotidiana e lo squallore della guerra. L’archivio cambierà l’opinione pubblica e cambierà l’opinione delle persone che occupano posizioni di potere, politico e diplomatico». Al momento sembra che abbia guadagnato il favore di una parte del popolo di internet, di qualche regista «contro» e di alcune riviste tra cui Rolling Stones nella versione italiana che lo difinisce «un’icona come Che Guevara sulle magliette, come Mao per Andy Warhol»; la «vera stella rock degli anni Tremila». Michael Moore, invece, il regi-

sta che fa le pulci a Washington, più famoso in Europa che negli Usa, definisce Julian «un pionere della libertà d’espressione, del governo trasparente e della rivoluzione digitale nel giornalismo». Moore si dice anche pronto a versare la cauzione per Assange e offre 20mila dollari, come aveva già fatto l’altro regista, l’inglese Ken Loach. Intanto il rivoluzionario digitale potrebbe finire in guai seri e in buona compagnia con i direttori delle testate che hanno per prime pubblicato le sue “bombe” giornalistiche. Se mai passasse la linea più dura di quella ipotizzata dall’avvocato Jennifer K. Elsea, persino la condanna a morte potrebbe essere tra le pene applicabili – in astratto – a lui e anche ai direttori di New York Times, The Guardian e Der

Spiegel. Il capo d’accusa, infatti, potrebbe essere la violazione del divieto penale della pubblicazione di informazioni riservate pregiudizievoli per la difesa nazionale statunitense. È quel che si legge nel report del Congressional research service americano, redatto dal consulente legislativo J.K. Elsea, intitolato «Criminal prohibitions on the publication of classified defense information» e presentato lo scorso lunedì 6 dicembre. Il rapporto è stato innescato dalle dichiarazioni con cui l’Attorney general (il ministro della Giustizia Usa) ha rappresentato che i dipartimenti della giustizia e della difesa stanno investigando la situazione per determinare se possa essere intrapresa una qualunque azione giudiziaria per fronteggiare la diffusione di documenti segreti. L’approfondimento legale ha rilevato l’applicabilità di alcune norme penali, ma ha anche riconosciuto i limiti della legge che la maggior parte di queste leggi. Possono essere perseguite solo due categorie di persone: quelle che - avendo un legittimo accesso a informazioni classificate e un conseguente dovere di proteggerle - trasferiscano al nemico dati e notizie «confidenziali», e gli agenti segreti di altri Paesi.

L’Espionage Act si applica infatti alla raccolta e alla diffusione non autorizzata di informazioni inerenti la difesa nazionale. Il che significa tutto quel materiale governativo riconducibile alle operazioni, alle infrastrutture e al personale delle forze armate. Nonostante gli episodi in cui è avvenuto il ”passaggio” d’informazioni riservate alla stampa siano stati rari in passato, sembra chiaro che l’orientamento giurisprudenziale americano sia stato quello di colpire senza alcuna garanzia costituzionale gli impiegati pubblici. La Corte suprema Usa non ha infatti stabilito se l’ombrello del Primo emendamento della Costituzione – che stabilisce la libertà di parola e di stampa – possa essere utilizzato in questi casi. Mentre si discute di sanzioni che variano dai 10 anni di reclusione alla pena capitale e si ipotizza-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Iran, nasce l’Onda verde degli ambasciatori HELSINKI. «Ci sono numerosi diplomatici iraniani che lavorano nella Repubblica Islamica o all’estero che sono pronti a dimettersi perché in disaccordo con le politiche del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad». È quanto afferma Hossein Alizadeh, ex numero due dell’ambasciata di Teheran a Helsinki, che in un’intervista all’AdnKronos International rivela che in questo momento c’è “grande fermento” nel corpo diplomatico iraniano. Le dichiarazioni di Alizadeh arrivano all’indomani del ciclone che ha investito il ministero degli Esteri iraniano, con la revoca dell’incarico di capo della diplomazia a Manouchehr Mottaki. Al suo posto, su decisione di Ahmadinejad, è subentrato Ali Akbar Salehi, già direttore dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran. «Non sono in grado di dire quanti siano esattamente i diplomatici pronti a lasciare, ma so che sono in molti e che la maggior parte dei fun-

zionari in servizio al ministero degli Esteri sono contro Ahmadinejad», prosegue Alizadeh, che insieme all’ex console iraniano in Norvegia, Reza Heydari, e all’addetto stampa dell’ambasciata iraniana a Bruxelles, Farzad Farhanghian, ha scelto di rinunciare al suo incarico per contestare le misure repressive adottate dal governo di Teheran dopo le presidenziali del giugno 2009. Le dimissioni a catena hanno spinto molti esperti a parlare di un’Onda Verde diplomatica.

Da sinistra il regista Michael Moore; il direttore del NYTimes Rosenthal; l’ambasciatore Usa a Roma Thorne

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no richieste di estradizione, la polizia olandese ha arrestato uno degli hacker, sedicenne, responsabili del boicottaggio telematico che ha paralizzato Paypal e i circuiti creditizi. In un colloquio con la madre, Assange ha ribadito che non intende fermare la pubblicazione dei cablogrammi diplomatici e di altri documenti riservati. «Rimango fedele agli ideali che ho espresso. Le cose che mi stanno capitando non li metteranno in discussione. Questo processo ha accresciuto la mia determinazione nel ritenere questi ideali corretti e veri’», ha detto Assange alla madre Christine e riportato dalla televisione australiana Channel 7. Assange ribadisce la sua determinazione a proseguire con la pubblicazione di documenti sensibili. Dopo che Visa, Mastercard e PayPal hanno bloccato la possibilità di effettuare donazioni al sito Wikileaks, il fondatore dice che le sue convinzioni restano invariate: «rimango fedele alle idee già espresse», «il processo rinforza la sicurezza che siano vere e corrette». E se il premier Berlusconi incassa la fiducia alla Camera, riceve l’ennesimo siluro dai documenti di Cyphernet resi pubblici. «La legge sul web voluta dal governo italiano – la cosiddetta legge Romani – sembra essere scritta per dare all’esecutivo margine di manovra per bloccare o censurare i contenuti internet». È quanto si legge in un dispaccio siglato dall’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, il 3 febbraio 2010

Un nuovo attacco anche all’Italia: Berlusconi avrebbe usato il proprio potere politico per ostacolare Sky sul satellitare e pubblicato da uno dei media partner di Wikileaks, El Pais. «Questa legge rappresenterebbe un precedente per nazioni come la Cina che copierebbero o citerebbero questa ”giustificazione” per il giro di vite sulla libertà di parola».

Il governo britannico intanto si prepara a un cyberattacco di fronte a segnali che la protesta dei sostenitori del cyberrivoluzionario si sta trasformando in un movimento di massa che mira a devastazioni a vasto raggio della rete. Le misure di protezione dei servizi online del governo sono state rafforzate, scrive il quotidiano Independent, con un particolare attenzione ai siti che forniscono informazioni fiscali o permettono di riscuotere assegni di assistenza pubblica. Intanto il consigliere per la sicurezza

nazionale del governo Cameron Sir Peter Ricketts ha messo in guardia tutti i ministeri che potrebbero essere presi di mira dagli «hacktivisti», gli hacker attivisti della rete, che hanno bersagliato i siti di MasterCard,Visa e Paypal.

Downing Street ha confermato timori che gli hacker abbiano intenzione di trasformare la protesta per l’arresto di Assange in una scusa per attaccare infrastrutture chiave come il sito delle imposte dirette. Membri del collettivo Anonymous hanno preannunciato l’intenzione di attaccare siti governativi se il capo di Wikileaks sarà estradato in Svezia. «La priorità è di proteggere siti web dove confluiscono informazioni personali che appartengono a membri del pubblico», ha detto un portavoce del primo ministro David Cameron. L’allerta di ieri a Whitehall è l’ultimo segnale che il web, arrivato questo mese al compimento dei suoi primi 20 anni, può diventare una potente arma di dissenso oltre che una forte forma di libertà di espressione. Migliaia di utenti hanno scaricato il sistema Loic, o Low Orbit Ion Cannon offerto da «Operazione Payback» per contribuire agli attacchi ai colossi delle carte di credito e a Paypal Secondo gli esperti l’arrivo di Loic segna una preoccupante evoluzione degli attacchi di Denial of Service, finora terreno di cybercriminali, come strumento di protesta di massa.

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cultura

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Riletture. Con questa tragedia inizia l’ultima fase delle “romances” del Bardo: cioè quelle dei drammi “a lieto fine”, ovvero i “drammi del perdono”

L’Odissea di Shakespeare Viaggio nel “Pericle, Principe di Tiro” del drammaturgo inglese, che in quest’opera “riscrive” il grande poema omerico di Franco Ricordi e abbiamo ravvisato nel Troilo e Cressida una riscrittura che si può già considerare avanguardistica dell’Iliade, in maniera simile ci poniamo di fronte a Pericle, Principe di Tiro, considerandolo come una prima grande riscrittura dell’Odissea. In questa maniera i due grandi poemi omerici sono rivisti, attualizzati e drammatizzati da Shakespeare, seppure in modo completamente diverso e forse antitetico. Se infatti nel Troilo il Bardo crea un’opera inquietante per la modernità delle argomentazioni e anche per la forma in cui vengono espresse, con Pandaro che alla fine sembra un personaggio di Peter Handke che “insulta il pubblico”, nel Pericle inizia l’ultima fase della drammaturgia shakespeariana, quella delle romances; intese queste come tragedie “a lieto fine”, ovvero drammi del perdono; le altre romances saranno Il racconto d’inverno, Cimbelino e La tempesta.

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Le romances non sono comunque drammi cui corrisponde un forzato happy end e nemmeno, come qualcuno ha voluto sostenere, il segnale di una conversione o particolare tensione religiosa e cristiana dell’autore. E se assistiamo proprio in questa occasione per la prima volta al miracolo di una resurrezione, ciò non è dovuto ad una superficiale accettazione di una fede teologica da parte del Bardo, bensì ad un vo-

ler ribadire quella “meraviglia dell’essere”, quel miracolo dell’esistenza, di cui parla anche Otello quando abbraccia Desdemona dopo la tempesta che li ha comunque salvati nell’isola di Cipro. In ogni caso Shakespeare si rivela “poeta e drammaturgo dell’essere”, autore teatrale in cui la meraviglia dell’esistere, nel senso più tragico ma anche in quello più gioioso, si rivela nell’esistenza dell’uomo. Tanto più che in questo caso l’ispirazione proviene proprio da quell’atmosfera di continua e incessante meraviglia che pervade il corso dell’intera Odissea; e che anche in questo caso si tramuta in quell’elemento, il mare, che sembra avvolgere tutta la narrazione. Non a caso la figlia di Pericle si chiama Marina, e Thomas S. Eliot ne ricavò il nome di una sua poesia, precisando come nella lettura del Pericle «si ha dal principio alla fine il senso dell’odore pervasivo dell’alga marina». Si può dire in tal senso che Pericle sia veramente un nuovo Ulisse, anche nello smarrimento dell’identità che avvolge entrambi; anche Pericle, come Ulisse, è “uno e nessuno”, quasi ad anticipare non solo le poetiche di Joyce

ma anche quelle di Pirandello. Ma il mare rappresenta anche la quintessenza della verità, quel luogo che come la morte è un “non dove”, quella dimensione in cui l’esistenza naufraga. E proprio il naufragio viene a rappresentate in Shakespeare, come in Jaspers, il senso della “situazione limite”, anche in relazione alla meraviglia: e infatti, scrive Jaspers del naufragio, “come cifra la realtà è il meraviglioso”.

Ma il naufrago sopravvive alla sua crisi d’identità: in questo modo Pericle si presenta dopo essere scampato al suo primo disastro marino: «Quello che sono stato l’ho dimenticato/ Ma quello che sono il bisogno m’insegna a pensarlo/ Un uomo intirizzito dal freddo; le mie vene sono gelate/ E non hanno più vita dentro di quanta basti appena/ A scaldare la mia lingua per chiedervi aiuto./ Se me lo rifiutate, quando sarò morto/ Datemi sepoltura, perché sono un uomo». In quanto vivo, Pericle protesta il proprio essere, anche se non ricorda il suo “essere stato”. E il proprio essere merita almeno l’estremo riconoscimento, l’onore della sepoltura. Tuttavia proprio da lì

L’autore si rivela come poeta dell’essere, in cui la meraviglia dell’esistere, tragico ma anche gioioso, si rivela nell’esistenza dell’uomo

nascerà la fortuna di Pericle: i pescatori lo accompagneranno alla reggia di Simonide, Re di Pentapoli, definito da loro come “un buon governante”; lì Pericle incontrerà la figlia di costui, Thaisa, e vincerà proprio quel giorno il torneo per il quale sarà destinato a sposarla. Simonide consegna felice la figlia al “povero cavaliere”, come appare Pericle agli abitanti di Pentapoli, e il II atto si conclude nella loro felice “unione a letto”. Ma il III atto si apre con una nuova tempesta, laddove Thaisa è incinta di Pericle, e poco dopo partorisce sulla nave: ma alla nascita della figlia corrisponde la sua morte, quasi che si volesse sostituire ad essa come nelle parole della nutrice: «Prendete nelle braccia questa parte/ della vostra Regina morta». Pericle è sconvolto: il naufragio dell’esistenza è per lui una prova ulteriore, e la sua invocazione agli Dei non è lontana dall’accusa leopardiana dell’uomo nei confronti della Natura: «Oh voi Dei!/ Perché ci fate amare i vostri buoni doni/ E subito ce li strappate via? Noi quaggiù/ Non ci riprendiamo ciò che diamo, e in questo/ Vale di più il nostro onore». La Natura leopardiana si comporta come gli Dei di Shakespeare: è ingannevole, e si riprende sempre quello che concede. E la disperazione di Pericle per la moglie morta, che dovrà essere per l’usanza dei

marinai sepolta in mare - quindi nel più grande “non dove”, quello stesso “mare di guai” di cui parla Amleto - si traduce qui nel pensiero di un luogo dove «la sfiatante balena/ E l’acqua mormorante incomberanno sul tuo corpo/ Disteso con le semplici conchiglie». E anche in questo passaggio dall’essere al non-essere di Thaisa e dal non-essere all’essere della bimba Marina appena nata, si esperisce nuovamente il senso della condizione umana shakespeariana.

Ma il destino vuole che, di lì a poco, avverrà il primo esempio di ciò che più che mai caratterizza l’andamento delle romances, l’agnizione del miracolo dell’essere. Thaisa è il primo personaggio di Shakespeare che perviene a resurrezione. Il Signore di Efeso, Cerimone, dove la nave di Pericle è naufragata, è un uomo dedito alle arti mediche. E quando vede il cadavere di Thaisa nella


cultura

15 dicembre 2010 • pagina 15

sto grande miracolo». Ma qui subentra anche la forza del teatro, del suo linguaggio e della sua immaginazione che possono vincere il tempo e la realtà: non a caso il dramma viene intervallato costantemente dalla voce di un poeta, John Gower, nel quale evidentemente si identifica lo stesso Shakespeare. E nel IV atto questi fa presente come «il tempo noi consumiamo in fretta/ E lunghe leghe facciamo corte/ Dentro a conchiglie navighiamo i mari/ E per avere qualcosa ci basta il desiderio/ Muovendo dietro alla nostra immaginazione». Il teatro shakespeariano si può inoltrare in un viaggio fantastico che va dalle Indie ai Caraibi, per passando tutta l’Europa e il nord Africa,

bara che il mare ha restituito, comprende subito che si tratta di una persona che «può ancora tornare in vita». Insieme al fuoco e agli altri elementi Cerimone ordina che si suoni una musica, seppure «rozza e lamentosa come qui si può fare», ma sarà comunque una musica da prodigio, analoga alla musica delle “sfere” che ascolterà soltanto Pericle a ridosso dell’agnizione finale. In men che non si dica Thaisa si risveglia, nello stupore di tutti, e chiede «Dove sono?» invocando Diana. È un personaggio che ricorda fortemente l’Alcesti di Euripide, e l’intensa relazione di tutto il testo con la dea della caccia, Diana, che compare a Pericle in una visione del V atto anche come dea-ex-machina, ci riporta verso il culto della stes-

Sopra, William Shakespeare. In basso a sinistra, la casa natale del Bardo. A destra, Daniele Pecci interpreta il Pericle di Shakespeare, nel 2008 sa Dea da parte di Seneca, che fu senz’altro uno dei più grandi ispiratori di Shakespeare.

Di fatto Diana viene indicata soprattutto come dea della castità, e in tutto il dramma si percepirà un contrasto alquanto significativo fra le due donne, Thaisa e sua figlia Marina, e il bordello di prostitute da marinai in cui si imbatte la stessa Marina tradita da Cleone e Dionisa, spregevoli governanti in Tarso. In ogni maniera gli episodi musicali sono una prova evidente di come in Shakespeare quest’arte possa rappre-

sentare la vita stessa, la forza primigenia in grado di far funzionare il miracolo, il miracolo per eccellenza, quello del nostro essere. La meraviglia, il miracolo dell’essere, non è un atteggiamento o una confessione religiosa di Shakespeare. È invece il compimento di tutta la sua arte, che si tradurrà alla fine anche nella possibilità di attingere la magia, come sarà per Prospero, la consapevolezza miracolosa di “quello che è”verso la quale tendono tutte le ultime romances. Ed è infatti una vera sensazione miracolosa che promana da Pericle nel riconoscimento prima della figlia e poi della moglie creduta morta: «Ora desidero sapere come fosti trovata/ Come si poté rianimarti, e chi ringraziare/ Oltre gli Dei, per que-

senza poter mai attingere concretamente tali regioni: è evidente la differenza con il cinema della nostra epoca e con la televisione; in tali casi la terra viene “filmata” come tale. In Shakespeare funziona ancora il principio per il quale la fantasia è più poetica della realtà. E non si tratta di semplice immaginazione fantastica, bensì di una profonda e quanto mai peculiare interpretazione delle terre in oggetto.

E questo strumento, il linguaggio teatrale, viene a fondersi in tal caso con il contenuto più misterioso che incontriamo, il miracolo della vita e la rinascita della protagonista femminile. Ma a queste possibilità corrisponde più che mai il senso finale del ringraziamento, che avverrà in maniera analoga da parte di Pericle e del poeta John Gower. E anche questo non dev’essere interpretato verso una stregua provvidenziale, come in recenti letture. Il ringraziamento shakespeariano, la sua “special providence”come la chiama Amleto, è assolutamente teatrale, estetico, artistico. E prende spunto dagli stessi “ringraziamenti” che gli attori eseguono alla fine degli spettacoli. Non si tratta di “ringraziare Dio” per l’esistenza che possiamo attribuirgli; si tratta invece di un ringraziamento assolutamente laico, ancorché estetico: è il ringraziamento per il nostro poter essere dramatis personae, per aver avuto anche la possibilità di questo “teatro del mondo”, ovvero del fare artistico in generale. Un ringraziamento per la peculiarità di ritrarci, in tutto e per tutto, in quanto opere d’arte viventi. Un ringraziamento per la possibilità espressiva di questa grande e avventurosa Odissea shakespeariana.



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