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he di cronac
Tutti siamo d’una stoffa
nella quale la prima piega non scompare mai più
9 771827 881004
Massimo D’Azeglio di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 13 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il premier attacca la magistratura aspettando la decisione sul legittimo impedimento
Il giorno della Consulta Berlusconi: «Quale che sia la sentenza, il governo non rischia» ROMA. Il premier sembra sereno: nismo giudiziario che, come ho detdi Errico Novi quale che sia la sentenza dei giudito anche alla cancelliera Merkel, si ci della Corte Costituzionale sulla legittimità del legittimo è trasformato in potere giudiziario esorbitando dal suo alveo impedimento «il governo non rischia». Anzi, Silvio Berlu- costituzionale». Per concludere: «Sono totalmente indiffesconi - in Germania per un vertice con il Cancelliere Angela rente al fatto che ci possa essere un fermo o meno dei proMerkel, va persino oltre: «I magistrati fanno parte dell’ano- cessi, che considero ridicoli, su fatti per i quali ho avuto momalia italiana. L’ho detto alla Merkel e sono intenzionato a do di garantire che sono inesistenti, giurando sui miei figli e dirlo anche alla televisione». Berlusconi ha poi ricordato, ri- sui miei nipoti». Gli zibellini sono chiamati a pronunciarsi ferendosi alla norma all’esame della Corte, che «io non l’ho sullo scudo che, al momento attuale, fermerebbe i procedimai richiesta; è un’iniziativa portata avanti dai gruppi parla- menti per i casi Mondadori, Mills e Mediaset. Ovvero per falmentari». «Spiegherò agli italiani - ha aggiunto il presiden- so in bilancio, corruzione e truffa. a pagina 6 te del Consiglio - di cosa si tratta, della patologia di un orga-
Sempre più duro il confronto sul futuro dell’azienda di Torino. E il Cavaliere: «Se vince il no, la Fiat fa bene ad andarsene»
Mirafiori, ultima chiamata
Oggi e domani i lavoratori della più famosa fabbrica italiana decideranno il loro destino. Abbiamo girato a cinque “esperti”il quesito del referendum. Ecco come voterebbero... 1 Gianfranco Polillo 2 Savino Pezzotta Dichiarato il coprifuoco nella capitale Questa è solo Basta proclami: Tunisi in fiamme. la dura legge Marchionne rispetti E l’Europa chiede dei nuovi mercati di più chi lavora «più rispetto per i dimostranti» di Gianfranco Polillo
di Savino Pezzotta
Com’è il mondo visto da Saigon o da Vientiane, per non parlare di Pechino o Shangai? Sicuramente diverso dalle affabulazioni di quella parte della sinistra italiana che ha trovato nella Fiom il suo profeta.
I sì vinceranno, perché i lavoratori sono persone «ragionevoli». Ma Marchionne dovrà riflettere sulle percentuali e smetterela con i proclami di questi giorni a proposito dell’addio all’Italia.
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Giorgio La Malfa
La rivoluzione post-industriale è già cominciata
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Gianni De Michelis
Luigi Paganetto
«Una picconata «La vera sfida? alla concertazione, È sull’innovazione, finalmente!» non sui diritti»
di Gabriella Mecucci
di Riccardo Paradisi
di Franco Insardà
«I paesi del Terzo mondo, quelli che una volta ci vendevano le materie prime con le quali davamo vita alla nostra industia, oggi producono in proprio, ecco la rivoluzione», dice Giorgio La Malfa.
«Marchionne ha il merito di dare il primo colpo di piccone alla demolizione della concertazione: quel plumbeo sistema di regole introdotto nel ’93 da Ciampi», dice l’ex ministro Gianni De Michelis.
«L’eventuale vittoria dei sì al referendum sarebbe solo il primo passo di un nuovo progetto industriale: la vera sfida è sull’innovazione», dice l’economista Luigi Paganetto.
Secondo i testimoni, la polizia spara ancora sui manifestanti e ci sarebbero nuove vittime. Aggredita anche la troupe del Tg3. Fallisce il sogno del Maghreb moderato
Servizi da pagina 2 a pagina 5
Enrico Singer • pagina 10
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
8•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 13 gennaio 2011
il fatto
Anche Berlusconi tira la volata a Sergio Oggi e domani il voto a Mirafiori: «Se vince il no, la Fiat fa bene ad andarsene» dice il premier ROMA A Mirafiori si avvicina il referendum e la tensione sale ora dopo ora. Silvio Berlusconi da Berlino, non ha fatto mancare il suo contributo dichiarando che nel caso in cui il referendum bocciasse l’intesa raggiunta «le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri paesi». Augurandosi, comunque, che «la vicenda possa avere esito positivo». Non si sono fatte attendere le repliche del segretario della Cgil, Susanna Camusso, e di quello del Pd Pier Luigi Bersani che ha giudicato «vergognose» le parole del premier. Per la Camusso «il presidente del Consiglio sta facendo una gara con l’amministratore delegato della Fiat tra chi fa più danno al nostro Paese». Momenti di tensione si sono registrati sempre ieri davanti ai cancelli della fabbrica all’arrivo di Nichi Vendola. Il leader di Sel è stato contestato da un gruppo di sindacalisti della Fismic ai quali hanno replicato i sostenitori di Vendola. E sono volati insulti, minacce e qualche sputo. Anche l’ultima mossa della Fiat, alla vigilia del referendum, non ha certamente rasserenato gli animi a Mirafiori. I quadri dell’azienda, infatti, han-
no illustrato ieri mattina ai dipendenti i contenuti dell’intesa siglata il 23 dicembre con Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione quadri. La Fiat ha sostenuto che l’attività rientra nelle proprie prerogative, ma l’iniziativa è stata duramente contestata dalla Fiom, secondo la quale «nel silenzio dei sindacati firmatari, l’azienda ha assunto non solo la guida diretta del fronte del sì, ma addirittura l’iniziativa di sostituirsi ai sindacati stessi». Intanto è arrivata la conferma che il referendum sul piano di rilancio della Fiat di Mirafiori si svolgerà oggi e domani, come era stato stabilito dalle sigle firmatarie dell’intesa. Le operazioni di voto inizieranno alle 22 di questa sera per tre ore e interesseranno i lavoratori del terzo turno. Gli addetti del primo e secondo voteranno, invece, rispettivamente a partire dalle 8 e 45 e dalle 15 e 45 di domani. Mentre Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno convocato per oggi assemblee informative fuori orario per spiegare agli iscritti i termini dell’intesa. La decisione di convocare i propri iscritti fuori orario di lavoro è stata presa, hanno spiegato in una nota, «stante il clima di non possibile svolgimento democratico delle assemblee retribuite».
il dibattito Dietro la consultazione di Torino c’è il futuro del rapporto tra industria, lavoro e rappresentanza nel nostro Paese
Nei panni degli operai
Marchionne è un manager lungimirante o il “funzionario” di un nuovo autoritarismo? Cinque risposte alla domanda chiave dell’Italia di oggi GIANFRANCO POLILLO
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È la dura legge dei nuovi mercati Tutelare i diritti dei lavoratori non ferma la globalizzazione di Gianfranco Polillo
om’è il mondo visto da Saigon o da Vientiane, per non parlare di Pechino o di Shangai? Sicuramente diverso dalle affabulazioni di quella vasta parte della sinistra italiana che ha trovato nella Fiom un nuovo, disarmato profeta. Eravamo lì in questi primi giorni del nuovo decennio, per capire cosa bolliva in pentola, rispetto a una crisi che ha la proporzione che tutti conosciamo. Un decennio – lo anticipiamo subito – che, secondo le previsioni più accreditate, sarà quello del grande riscatto e della competizione, spalla a spalla, con l’Occidente. Dieci anni – da oggi al 2020 –
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che rischiano di ridisegnare la mappa della distribuzione del potere. E non certo a vantaggio delle vecchie metropoli del benessere.
Nei grandi boulevard di Bangkok, sorti quasi d’incanto sulle ceneri della vecchia città, in un susseguirsi di costruzioni che svettano nel cielo e residui delle vecchie casupole dell’era coloniale, l’atmosfera che si respira è quella di una grande certezza. Non saranno i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) a dominare la scena. I continenti più vicini, e non solo da un punto di vista geografico all’Europa, saranno al più dei compri-
mari. Lo scettro rimarrà saldo nelle mani delle nuove economie asiatiche con alla testa la grande potenza cinese.
Che già nel 2020 avrà superato, per reddito e ricchezza prodotta, gli stessi Stati Uniti d’America. Una prospettiva, al tempo stesso, esaltante e inquietante. Soprattutto per chi è costretto a vivere a ridosso di quello scomodo compagno. E subire, già da ora, la presenza di quelle mille chinatown, che l’Europa solo da poco sta conoscendo. Città nelle città: comunità che non si integrano. Che mantengono le loro tradizioni e la loro cultura. «Voi occidentali non capite la forza di quest’enorme cambiamento»: ci dice un gruppo di intellettuali, con i quali ci siamo intrattenuti. Siamo al Mandarin Oriental Hotel, una delle grandi attrazioni di Bangkok. Assistiamo a Che tempo che fa che Rai International, nel suo assurdo palinsesto, sta mandando in onda. Parla Nichi Vendola e noi cerchiamo, con qualche difficoltà, di
tradurre il suo linguaggio immaginifico. Gli altri ci osservano in silenzio. Poi il più anziano si alza, congiunge le mani nel tradizionale gesto di saluto, quasi a scusarsi, e scuote la testa. Gli chiediamo il perché. Ma è imbarazzato: non vorrebbe contraddirci. Poi, con dolcezza, ci illustra il suo punto di vista: «Avete dimenticato troppo presto il passato», sussurra.
«Il vostro benessere per anni ed anni ha avuto come contropartita la povertà quasi assoluta del resto del Mondo. Avete rimosso parole come “imperialismo”, “scambio ineguale”, forme di vero e proprio saccheggio. Certo i politici di si-
nistra che oggi protestano non erano i principali artefici di quelle ingiustizie. L’Occidente, nel suo complesso, tuttavia ne era partecipe. I salari dei vostri operai potevano crescere anche perché noi eravamo costretti a comprare quei beni ai prezzi che imponevate. In cambio vi davamo prodotti agricoli e materie prime a un costo sempre più basso. Poi, grazie anche ai trasferimenti di capitale, abbiamo cominciato a produrre gli stessi beni. E per noi è stato l’inizio di una nuova era. Abbiamo capito che potevamo modificare le nostre condizioni di vita. Superare la barriera dell’inedia e della fame. Aspirare a una vita migliore. Non certo la vo-
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SAVINO PEZZOTTA
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Forse gli operai di Mirafiore sono diversi da questa gente? Quando si parla di diritti, qual è il confine che li circoscrive? La linea è, forse, il Mediterraneo? I diritti degli altri non hanno forse lo stesso peso? E quale deve essere, allora, l’elemento comune che ci fa tutti cittadini dello stesso mondo? È la domanda che vorremmo rivolgere a chi considera Sergio Marchionne una sorta di alieno, venuto a turbare l’armonia del bel tempo che fu. A chi lo accusa di porre in essere un odioso ricatto: o si lavora a prezzi competitivi o non se ne fa nulla. Come se le scelte del consumatore non dovessero tener conto del rapporto qualità-prezzo. E l’Occidente avesse ancora la
capacità di costringere gli altri ad acquistare i propri prodotti ai prezzi imposti dalla propria forza monopolista.
Marchionne, almeno in teoria, potrebbe anche cedere. Ma con quali risultati? Dove finirebbero le auto prodotte? E le perdite conseguenti chi le ripianerebbe? Nuovamente lo Stato, come avveniva in passato quando l’Alfa Romeo aveva un costo di produzione di gran
Nel giro di dieci anni la mappa del potere economico e politico cambierà in maniera radicale. Verso l’Oriente lunga superiore al suo prezzo di vendita, perché il resto ce lo rimetteva il Tesoro? Sono domande senza risposta. Ma che spiegano anche la natura effettiva dello scontro in atto. Non siamo di fronte a chi vorrebbe difendere dei diritti rispetto ad altri che vorrebbero azzerarli. Siamo invece di fronte a chi accetta il principio di realtà e al altri che vivono nel castello delle grandi illusioni. Utopia contro realismo. Ma un realismo, che nasce dalla lucida percezione dell’evoluzione storica del nostro tempo. Un confronto che non riguarda solo la sinistra italiana. Quando si parla, ad esempio, di nuove barriere tariffarie per bloccare la produzione straniera, si commette lo stesso errore. Ne-
gli Stati Uniti si sta discutendo ferocemente sulla necessità di bloccare le importazioni di fotovoltaico dalla Cina: il maggior produttore mondiale. Ma queste misure di ritorsione diventano praticabili solo nel momento in cui è possibile dimostrare una sottostante violazione di regole internazionali. Altrimenti tutto si trasforma in una bolla di sapone: utile nei talk show televisivi; ma che poi lascia il tempo che trova. Immaginiamo solo per un istante che prevalesse questa semplice volontà di potenza. Quali sarebbero le conseguenze? La Cina è il principale finanziatore del Tesoro americano.Sarebbe pertanto in grado di mettere in atto contromisure in grado di indurre a più miti consigli.
Cosa c’entra questo con la vicenda di Mirafiori? Se gli stessi Stati Uniti sono costretti ad accettare le regole imposte dalla globalizzazione, perché l’Italia dovrebbe esserne esentata? Purtroppo – la cosa può piacere o meno – il condizionamento internazionale è divenuto più stringente. Occorre pertanto imparare a nuotare in questo nuovo mare, cercando di non farsi travolgere dalle onde – la difesa delle tutele possibili – senza avere, tuttavia, la pretesa di decidere il corso delle correnti. Che non dipendono dalla volontà di una singola organizzazione sindacale, per quanto forte essa sia, ma da quella modernità in cui siamo comunque costretti a vivere.
Marchionne vincerà, ma analizzi il voto e smetta di fare proclami di Savino Pezzotta
osse per me, eviterei di trasformare questa consultazione tra i lavoratori in una sorta di “neo-bipolarismo” fra sindacati e Marchionne. Il problema è che per affrontare una questione che riguarda il futuro di un’azienda bisogna condividere e confrontarsi, non escludere. I lavoratori hanno una propria saggezza, che hanno dimostrato di saper mettere in pratica: io mi appello a loro. Il problema vero è quello di capire meglio il tipo di investimenti che si intende fare: il quando, il come e il perché. Bisogna capire se il bilancio della nuova società li prevede, o meno. Questo è il problema dirimente, altrimenti ci si ferma a dire: «O fate come dico io, oppure me ne vado». È questo il pensiero che agita le persone di quell’azienda. Certo, uno che come me ha esperienza sindacale rimane molto turbato nel vedere un operaio che piange davanti ai cancelli della fabbrica, perché in questo Paese si fa presto a dire chi deve fare i sacrifici. Si è meno diretti nel pensare che chi viene chiamato in causa per questi sacrifici ha dietro di sé una storia personale: si fa presto a inserire tutti i lavoratori nella categoria di coloro che ne hanno approfittato. Ma attenzione: se è vero che la Fiat è una grande azienda che ha fatto molto per il Paese, il merito è certamente della famiglia Agnelli; ma anche dei lavoratori che in quelle fabbriche hanno lavorato per decenni. Ecco perché bisogna tenere conto delle sofferenze delle persone: non tutto può essere sempre ridotto soltanto a una questione economica, ma anzi bisogna parlare di questione umana. Non è un caso che, negli ultimi tempi, anche gli economisti abbiano iniziato a parlare di “sviluppo umano” e sottolineano come questo tema non possa essere estraneo a un momento di riorganizzazione aziendale. Quindi penso che meno proclami da parte del dottor Marchionne sarebbero estremamente utili, nel senso che c’è sempre – quando si deve cambiare – la necessità di tenere conto dei lavoratori che intendono continuare a lavorare. Credo che, invece, questa sia stata la parte meno tenuta in considera-
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stra vita, ma comunque rompere il girone infernale in cui erano stati condannati i nostri padri. E non ci siamo più fermati. Né ci fermeremo per tornare indietro. Quando negli anni passati si parlava delle campagne che avrebbero assediato le grandi città, si pensava alla lotta rivoluzionaria, nell’illusione di un mondo migliore che avrebbe consentito a tutti di vivere in una società ormai “liberata”. Abbiamo capito, forse troppo tardi, che non era quella la via del riscatto. Ma che solo il duro lavoro quotidiano poteva darci quello che il socialismo ci prometteva, ma non era stato in grado di realizzare». Lo abbiamo visto andar via dopo un ultimo inchino. A noi è rimasto addosso un senso di malessere.
Ora più rispetto per chi lavora zione di tutta la faccenda. Quando ero sindacalista anche io ho fatto accordi non plebiscitari: ricordo i “turnetti” del tessile, operai chiamati a lavorare di domenica, e i rimbrotti di qualche ecclesiastico. Ma non abbiamo risolto la crisi del settore soltanto intervenendo sui turni orari: il problema vero, secondo me, è relativo alla qualità degli investimenti e al progetto industriale. Marchionne non può dire: «Non lo rivelo a nessuno».
È libero di dire quello che vuole, ma se intende avere una capacità produttiva, se vuole essere competitivo, deve creare le condizioni per cui i lavoratori si trovino coinvolti nel progetto dell’azienda. Questo elemento è centrale, ed è per questo che non mi appassiona l’idea di schierarmi da una parte o dall’altra; i sindacati fanno il loro mestiere, chi in un modo e chi in un altro (e la Fiom dovrebbe cambiare il proprio, dato che è sempre meglio stare seduti a un tavolo piuttosto che esserne esclusi) nell’interesse dei lavoratori. Sempre guardando la fotografia di quell’operaio, viene da chiedersi se possiamo continuare a chiedere dei sacrifici sempre ai ceti sociali meno abbienti quando leggo sui giornali di evasioni fiscali enormi. Forse pensare a qualche sacrificio anche per queste persone aiuterebbe a riequilibrare la situazione. Ma di questo non c’è traccia: Marchionne continua a prendere i suoi soldi, come tutti gli altri. Compresi i politici. L’ultima questione che si pone è quella delle relazioni sindacali. Da come è impostata la questione Mirafiori, è chiaro che il nuovo contratto diventa di primo livello e non di secondo. Se l’accordo Fiat e le incursioni di Marchionne mutano il sistema dei contratti nazionali, Confindustria dovrebbe intervenire per chiarire meglio qual è il tipo di contratto verso cui tende. I contratti nazionali sono collegati al sistema-Paese: hanno sicuramente tanti difetti, vanno sicuramente migliorati, ma è un elemento di equilibrio. Risponde all’esigenza di fornire un parametro di riferimento salariale, così come chiesto dalla nostra Costituzione. Non può essere messo da parte con leggerezza.
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GIORGIO LA MALFA
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«È iniziata l’era postindustriale» «Chi ci vendeva materie prime ora produce: ecco la rivoluzione» di Gabriella Mecucci
ROMA. Globalizzazione. Basta la parola per dare ragione a Marchionne. A chi obietta, si risponde che deve accettare la situazione, altrimenti la Fiat non avrà altra strada che andarsene. Onorevole La Malfa, i lavoratori non devono però pagare un prezzo troppo caro? «Sì, è vero. Tutto questo viene fatto per far calare il costo del lavoro e aumentare la produttività, cioè lo sfruttamento del lavoro. Quanto ai diritti, occorrerebbe un’analisi più seria che non si può esaurire in poche battute. Quello che chiede Marchionne però risponde a una mutazione profonda e dalla quale non si tornerà indietro». Vogliamo riempire la parola globalizzazione di contenuti? MI spiega perché i lavoratori europei sono condannati a lavorare di più e ad avere meno stato sociale? Questa situazione non è stata creata tanto dall’abbattimento delle barriere doganali quanto dall’emergere di realtà industriali in paesi che un tempo ne erano del tutto privi, e che si limitavano a vendere materie prime a bassi costi. Detto in una battuta: è finita l’era coloniale. L’Europa deve rendersi conto che ha costruito la propria fortuna e il proprio benessere sul fatto che c’era la possibilità di importare materie prime a prezzi convenientissimi dai paesi poveri perché non erano in grado di trasformarle. Oggi anche loro sino sono industrializzati. In Occidente si creeranno molti problemi di natura sociale... Certamente sì. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal fatto che potremo acquistare dai paesi neoindustriali prodotti a prezzi molto bassi. Con lo stesso livello di reddito si potrà consumare di più. E che cosa deve fare l’Occidente per affrontare le difficoltà che gli stanno di fronte? Esattamente quello che in Italia non si sta facendo. Uscire dal settore auto, o quantomeno da quello di massa. Produrre vetture più sofisticate, con incorporata alta tecnologia, come accade in Germania. D’altro canto, sino
a venti anni fa l’Italia era una delle più grandi produttrici di acciaio e adesso la siderurgia quasi non c’è più. Idem con l’industria cotoniera. C’è stata un’imponente riconversione e non è accaduto nulla di drammatico. Purtroppo oggi manca proprio questa capacità. Manca completamente la politica: ci vorrebbe un paese capace di individuare traguardi, di cercare nuovi sbocchi produttivi, di mettere in campo nuove tecnologie. Non basta fare una leggina sugli incentivi. La Fiom dice cose per le quali si può provare umana simpatia, ma che allo stato attuale, peggiorerebbero la situazione. Un no a Marchionne equivarrebbe ad un no alla presenza delle Fiat in Italia. E la Fiat se andrebbe, quindi... Sarebbe peggio. Questo governo non ha affrontato per tempo la situazione. In passato l’esecutivo di centrodestra si dichiarava addirittura contro la globalizzazione. Non voglio citare, per carità di patria, le dichiarazione di ministri che volevano fermare la globalizzazione. Solo di recente qualcuno si è reso conto che quello era un processo inarrestabile.Troppo tardi. Mi fa un esempio concreto di cosa occorrerebbe fare? Guardiamo a come l’America sta operando nella silicon valley. Gli States si salvano incorporando nei loro prodotti più tecnologia e più ricerca scientifica. Stanno cercando di spostare le frontiere della conoscenza. Lo Stato investe in questa direzione. E poi guardiamo in che condizione è la nostra università... Occorrerebbe muoversi, organizzare istituti, centri di ricerca. E invece niente. Il paese deve rendersi conto che è finita l’età dello sfruttamento coloniale. Se non ci capisce cosa è accaduto e si pensa di poter comandare alla Fiat di restare, si vive l’illusione della Fiom. Se non si fa nulla per mutare lo stato delle cose, allora si vive l’illusione di Berlusconi. Quella sulla base della quale tutto va bene madama la marchesa. Ammetterà però che questa è una crisi particolare. Certo, è la crisi dell’industrializzazione dell’Occidente. Dove sta
più ormai l’industria in Europa? Già, dove sta? Ce n’è un po’ in Italia, un po’ in Germania, ma lì ha incorporato una forte componente tecnologica, riuscendo così a difendere la manifattura. La Francia conserva un po’ d’industria che lo stato sorregge. In Inghilterra è praticamente finita. C’è solo finanza e servizi. Negli States il settore servizi tocca il 70 per cento Se lo ricorda quando gli addetti all’agricoltura dal 50 per cento sono passati al 3-4 per cento? Ecco, l’industria sta vivendo un fenomeno analogo. Qual è la percentuale in Europa di addetti all’industria? Non ho dati precisi sottomano, ma l’ordine può essere del 10 per cento. Un ultima domanda. La sinistra estremista è già scomparsa dal Parlamento, la Fiom probabilmente scomparirà dalle fabbriche. Non è pericoloso che il radicalismo sociale resti senza rappresentanza? Capisco la sua preoccupazione, le stelle a cinque punte impressionano anche me. La battaglia della Fiom è però profondamente sbagliata. Presentare la Cisl e la Uil come dei sindacati gialli, arresisi al supersfruttamento di Marchionne, è un’immagine grottesca. Speriamo che prevalga la linea più ragionevole della Cgil.
GIANNI DE MICHELIS
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«Ora, addio concertazione» «Finalmente Marchionne rompe un ventennio di veti incrociati» di Riccardo Paradisi
ROMA. Ministro del Lavoro dal 1983 al 1987, esponente di punta del Psi di Bettino Craxi oggi Gianni De Michelis è consulente del governo Berlusconi e attento osservatore della politica nazionale e internazionale. Con lui liberal ragiona della dura vertenza di Mirafiori e della dottrina Marchionne. Onorevole De Michelis che idea ha del Marchionne style? Marchionne ha soprattutto un merito in tutta questa vicenda: quello di dare il primo colpo di piccone alla demolizione di quel plumbeo sistema di regole che fu introdotto nel ’93 con l’accordo tra le parti sociali stipulato durante il governo Ciampi. Sistema che ha governato le relazioni
sindacali e sociali nel corso della Seconda repubblica. Da molto prima che comparisse Marchionne sulla scena avevo definito quella logica neosovietica. Perché prevedeva una politica dei redditi permanente e segnava il netto prevalere del contratto nazionale sulla negoziazione sociale. Neosovietico perché di fatto quel patto garantiva la certezza dell’evoluzione salariale al comparto della grande impresa garantendo la pace sociale con il mantenimento di una quota di profitti alle imprese senza incentivarle alle innovazioni e così rallentando nel corso di questi quindici anni l’evoluzione dei salari, rimasta sotto la media europea. Dovendo lavorare sul settore dell’auto Mar-
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LUIGI PAGANETTO
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«Ma la vera sfida è l’innovazione» Il «sì» sarebbe solo il primo passo di una strategia industriale di Franco Insardà
ROMA. «I francesi di Renault hanno pronta l’auto elettrica e i principali produttori sono pronti a commercializzare modelli innovativi. Per non parlare degli investimenti in ricerca e sviluppo fatti in questi anni dalla Volkswagen. La globalizzazione impone un confronto con i competitori regolato dal mercato che deve necessariamente puntare sull’innovazione, sulla qualità e sulla durata dei modelli».
chionne è stato costretto a spostare l’asse dell’attenzione nei confronti dei mercati delle economie emergenti Eppure le condizioni poste nel contratto per Mirafiori hanno punti di durezza oggettivi. Vede se ci fosse stato un atteggiamento delle organizzazioni sindacali diverso, che avesse anticipato un’evoluzione che avrebbe dovuto essere intrapresa da decenni oggi avremmo meno incrostazioni e Marchionne l’avrebbe messa giù meno dura di come ha fatto. Non saremmo insomma arrivati al muro contro muro. E d’altra parte per capire che nella logica di Marchionne c’è una ratio basta non chiudere gli occhi di fronte ai numeri della produzione dell’auto nel mondo. In Brasile vengono prodotte più del doppio delle automobili che vengono prodotte in Italia con solo 23 mila dipendenti. In Polonia e Serbia le proporzioni sono simili. È evidente che un’organizzazione del lavoro come la nostra con sei centri produttivi rispetto all’uno in Brasile, l’uno in Polonia e in
Serbia sia destinata all’affanno e poi al fallimento. E quando un’azienda non regge la competizione chiude. Ed è la minaccia che ha fatto Marchionne o si cambia passo o, in Italia, si chiude. Io non la definirei una minaccia Ah no? La definirei una constatazione. Del resto la proposta Marchionne di mantenere cinque dei sei centri produttivi italiani in cambio di regole che avvicinano le condizioni produttive agli standard globali è la condizione minima per rimanere. E se il sindacato, come dicevo, avesse anticipato un’evoluzione inevitabile nella cultura dell’organizzazione del lavoro probabilmente oggi sarebbe stato in grado di negoziare condizioni normative più favorevoli. E poi scusi ma se di fronte alle proporzioni che ricordavo Marchionne riuscisse a realizzare gli investimenti del progetto Fabbrica-Italia e raggiungesse i livelli di produzione che s’è prefissato non sarebbe un risultato straordinario? Noi non ci ren-
diamo conto del ritardo che abbiamo accumulato. Sono passati tre anni dalle prime vertenze e tutto è rimasto immobile. Sicché se la Fiat avesse deciso di andarsene già da tempo dall’Italia sarebbe stata una scelta giustificata. Giustificata fino ad un certo punto considerato che con lo Stato italiano la Fiat ha anche contratto alcuni debiti di riconoscenza in questi decenni. Anzi colpisce un po’ che il governo dica che Marchionne farebbe bene ad andare altrove. Mi permetta di dire che quesono ste considerazioni astratte. Purtroppo se non c’è fatturato e mercato un’impresa chiude. Sull’automobile peraltro non ci voleva molto a capire che il passaggio alla logica dell’euro coincideva col fatto che la Fiat avrebbe visto la fine d’un periodo ultradecennale di protezione rispetto alla concorrenza globale. Dopo Maastricht, negli anni Duemila, si è lavorato di rattoppi di misure di brevissimo respiro. Poi è venuta la crisi globale. E le conseguenze sono queste. Marchionne come epitome fatale. Di una fase che si chiude. Ma può essere l’inizio d’una nuova fase.
L’accordo proposto dalla Fiat per lo stabilimento di Mirafiori, secondo l’economista Luigi Paganetto, «è soltanto l’aspetto di un percorso molto più complesso che andrebbe visto nel suo assieme. Se il referendum ottiene la maggioranza dei sì Sergio Marchionne ha di fatto raggiunto i suoi obiettivi in termini di produttività del lavoro. Ma questo non basta, perché bisognerà essere capaci di mettere in piedi un’iniziativa per produrre delle automobili che abbiano un mercato più ampio di quello attuale. In pratica si dovrà organizzare una produzione che, rispetto a oggi, abbia le caratteristiche necessarie a competere sul mercato globale e consenta quindi di ottenere dei profitti sul settore auto. A tutt’oggi i conti del gruppo torinese evidenziano guadagni per i veicoli industriali, mentre il settore auto è in perdita. Se non si investe su nuovi modelli, innovazione e qualità l’iniziativa rimane a metà. Gli stessi lavoratori della Fiat avrebbero forse accolto meglio la proposta, se contestualmente si fossero prospettate, oltre all’ammontare degli investimenti, anche le scelte che secondo l’azienda consentiranno di utilizzare gli impianti in maniera tale da approfittare degli aumenti di produttività del lavoro». Costo del lavoro e produttività sono,solo una parte del problema dell’azienda perché, continua Paganetto «da una parte c’è l’esigenza espressa dal management di aumentare la produttività del lavoro, con meno pause e più straordinari obbligatori, dall’altra c’è il bisogno avere successo sul mer-
cato. Il problema è certamente di competenza del management della Fiat, ma è anche vero che l’atteggiamento del governo in questa vicenda è stato un po’ timido. Perché se è vero che correttamente le relazioni industriali vanno gestite in modo dialettico tra azienda e sindacati, ma in un momento come questo nel quale si adottano delle decisioni strategiche il governo avrebbe potuto, e forse dovuto, avere un atteggiamento più incisivo ed esercitare un’opzione di politica industriale. Come ha fatto il governo francese, incentivando la produzione dell’auto elettrica, nel contesto di politiche europee che sono favorevoli, all’interno del programma di Lisbona, all’innovazione. La Fiat può legittimamente rivendicare a se stessa questa strategia industriale, ma al momento non se ne ha conoscenza specifica e oggi il settore automobilistico italiano è già in ritardo. Sarebbe stato molto più convincente che, se a fronte di una così impegnativa dialettica tra sindacato e impresa su scelte strategiche decisive per l’aiuto in Italia fosse emerso un ruolo del governo che, rispettando le regole del mercato e quelle dell’Europaavesse colto l’occasione per quella politica di innovazione che sta dando oggi i suoi frutti in Germania e di cui il nostro Paese ha così bisogno».
Per vincere la sfida della globalizzazione, insomma, bisognerà, secondo Paganetto «misurarsi non solo sulla produttività del lavoro che è una componente, ma sulla produzione di vetture che abbiano una capacità di competere nel mondo globalizzato dell’auto, usando le importanti competenze presenti in Fiat e sviluppandole per dare vita a nuovi modelli, capaci di avere successo sul mercato globalizzato. Bisogna seguire l’esempio della Germania dove il costo del lavoro è più alto, e ciò nonostante si conquistano quote di mercato più ampie su modelli e qualità delle autovetture».
diario
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Lettera minatoria per Mastella
Torna a salire la produzione
NAPOLI. Una lettera minatoria in stretto dialetto napoletano con un proiettile all’interno è stata recapitata a Clemente Mastella nella sua villa di Ceppaloni, in provincia di Benevento. «Currimm’, è Pasqua cù capretto»: così comincia la lettera. «Pochi giorni fa - si legge nel testo della lettera scritta in dialetto napoletano - a Napoli ti è andata bene. Ma la prossima volta non sbaglieremo. Anche perché non useremo le mani. Vedi questo “pisellino” (il riferimento è al proiettile, ndr). Lo usavano le Br e non sbagliavano mai». E ancora, sempre rivolgendosi a Mastella: «No a sindaco di Napoli. Resta nella tua terra». Circa i mandanti della missiva e i motivi «io non mi minaccio certo da solo», ha detto ironico Mastella.
«Più privacy per i tifosi di calcio
ROMA. La produzione industriale a novembre del 2010 è tornata a salire, con un aumento dell’1,1% rispetto ad ottobre e del 4,1% rispetto a novembre del 2009. Lo rileva l’Istat, sottolineando che su base mensile il segno è di nuovo positivo dopo due cali consecutivi, mentre su base annua si registra un’accelerazione (dal +2,9% di ottobre al +4,1% di novembre). L’indice grezzo della produzione industriale ha registrato un aumento del 4,1%, come il dato corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 21). Ma, nonostante la ripresa segnata a novembre, la variazione della media degli ultimi tre mesi rispetto a quella dei tre mesi immediatamente precedenti è risultata negativa, pari a -0,7%.
ROMA. Più informazioni sull’uso dei dati personali forniti al momento della sottoscrizione. È questo l’obbligo che il Garante della privacy fissa alle società calcistiche in merito alla tessera del tifoso. Un provvedimento che tiene conto di alcune segnalazioni pervenute all’Autorità e che è stato inviato al Ministero dell’interno, al Coni, alla Figc e alle società sportive che aderiscono al programma. In pratica ai club di calcio viene chiesto di migliorare l’informativa da dare ai tifosi, mettendo ben in evidenza i trattamenti di dati che non richiedono il consenso, perché connessi al rilascio della tessera, e quelli che possono essere effettuati solo su base volontaria e con un consenso ad hoc.
Dalla Germania, il premier critica la magistratura. Intanto la Consulta dice sì ai referendum su «scudo», acqua e nucleare
Ultimo attacco ai giudici
Nuovo affondo di Berlusconi. Oggi la Corte sul legittimo impedimento di Errico Novi
Nell’attesa di decidere oggi sulla costituzionalità della legge sul legittimo impedimento, la Consulta ha dichiarato ammissibile il referendum per abolire la medesima legge. Lo svolgimento della consultazione dipenderà dal verdetto di oggi. Ammessi anche i quesiti contro la privatizzazione delle acque e sul nucleare
ROMA. Oggi si capirà meglio. Con la sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento sapremo se Berlusconi bluffa sulle conseguenze di una probabile bocciatura o se davvero vuole svincolare il destino della legislatura da quello dei suoi processi. A Berlino dove incontra Angela Merkel con una folta delegazione di ministri e imprenditori (da Marcegaglia a Tremonti) il Cavaliere assicura di essere «totalmente indifferente» al pronunciamento della Consulta. Assicura che «non c’è nessun pericolo per la stabilità del governo, qualunque sia l’esito» della camera di consiglio di oggi. E parla di «processi ridicoli», di «patologia della nostra democrazia in cui il’ordine giudiziario si è trasformato in potere». Al massimo «spiegherò agli italiani di cosa si tratta», in tv, dice Berlusconi, «come ho già avuto modo di fare». In ogni caso nessun pericolo per la tenuta dell’esecutivo. Parola di primo ministro, data al cospetto di uno dei principali partner dell’Italia, il cancelliere tedesco. È proprio così?
Intanto l’Alta Corte anticipa i tempi dell’altra sentenza, quella relativa al referendum dell’Idv proposto per abrogare proprio il legittimo impedimento: è ammissibile. Potrebbe cambiare il quadro, però, se la legge-scudo oggi fosse dichiarata costituzionalmente illegittima: in quel caso la consultazione non avrebbe più motivo di celebrarsi. Più complicato il quadro nel caso di bocciatura parziale: sulla praticabilità del referendum dovrebbe pronunciarsi l’ufficio centrale di Cassazione. Intanto comunque l’av-
vocato dipietrista Alessandro Pace incassa un sì che non pare irrilevante rispetto al futuro del governo. Perché seppure il legittimo impedimento sopravvivesse alle forche caudine della sentenza, Berlusconi si troverebbe di qui a qualche mese a sostenere una pesante campagna elettorale sui suoi processi. Non una prospettiva piacevole.
E in più i quindici giudici costituzionali, guidati dal presidente Ugo De Siervo, danno il via libera nel pomeriggio ad altri tre quesiti: due di quelli che riguardano la privatizzazione dell’acqua (respingendone altri due) e uno sul nucleare. Anche questa non è una notizia rassicurante per l’esecutivo, costret-
to nella migliore delle ipotesi a impegnarsi in una campagna sulla riapertura delle centrali finora condotta con passo felpatissimo. Berlusconi mostra il suo profilo più spavaldo, anche sull’inutilità di un’ulteriore manovra. Forse si pone anche il problema di non suscitare allarmi in una conferenza stampa dall’impatto pur sempre internazionale, con la Merkel seduta al suo fianco e i burattinai della speculazione pronti a sparare. Eppure solo poche ore prima, martedì sera, ai suoi aveva descritto un quadro assai diverso. Aveva trascorso ore a discutere sia con Niccolò Ghedini (uno dei due legali che lo difendono a Palazzo della Consulta, l’altro è Pietro Longo) che con il guar-
dasigilli Angelino Alfano. Si ragiona di possibili bocciature e nuovi eventuali rimedi. Ma soprattutto si ragiona di nuove elezioni. Cosa che il premier ha fatto sempre martedì sera e sempre a Palazzo Grazioli, quando vi sono arrivati triumviri e colonnelli del Pdl.
A loro Berlusconi ha già spiegato di confidare persino alle preoccupazioni di Napolitano, rispetto alla sentenza sul legittimo impedimento. Il presidente della Repubblica, è il ragionamento, sa a quali rischi il Paese andrebbe incontro nel caso in cui la legislatura entrasse in una fase travagliata. Il Capo dello Stato sarebbe insomma contrario a una sentenza «pe-
sante», cioè di bocciatura totale o – anche se parziale – comunque negativa riguardo all’insindacabilità dell’impedimento. Tanto più, ha continuato Berlusconi, che alcuni dei deputati in odore di trasloco nella maggioranza si sarebbero riservati la scelta definitiva proprio in vista del pronunciamento sullo scudo. Potrebbero ripensarci nel caso in cui oggi la Corte costituzionale dichiarasse illegittimo il provvedimento. E a quel punto il piano del Cavaliere per stabilizzare la legislatura andrebbe a carte quarantotto.
Così anche il deciso no pronunciato ieri da Berlusconi sull’offerta di un patto di salvezza nazionale avanzata da Fini suo-
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Italia-Slovenia: più sicurezza per i cittadini
«La Ue non chiederà un’altra manovra all’Italia», dice Rehn BRUXELLES. «Per il 2011 all’Italia non chiediamo nulla di più»: lo ha detto il portavoce del commissario Ue agli affari economici e monetari Olli Rehn ribadendo come il nostro Paese abbia «già intrapreso un percorso di solido consolidamento dei conti pubblici». La Commissione intanto ha varato il decalogo con le linee guida per le Finanziarie 2011 a cui tutti i Paesi Ue dovranno ispirarsi. Si tratta di 10 azioni urgenti, indispensabili secondo la Ue, per risanare i bilanci, rafforzando la stabilità macroeconomica, realizzare le riforme strutturali necessarie per incentivare l’occupazione, varare misure per la crescita. In ogni caso, la Commissione europea ha indicato che limitarsi a un taglio strutturale del deficit pil annuale dello 0,5% non sara’ sufficiente a portare il debito pubblico nei paesi europei verso la so-
na a sua volta come un bluff. Come fa il presidente del Consiglio ad essere così risoluto nel rigettare la mano tesa dell’opposizione se poi ha una maggioranza instabile? Certo anche su questo il tono sembrerebbe non lasciare spazio ad equivoci: «Non credo ci siano spazi per una grande coalizione in Italia», obietta sotto lo sguardo attento della Merkel, e neppure ne vede «per un confronto con l’opposizione che è divisa, senza leader, senza progetti, senza idee». Nessuno degli interlocutori, sostiene il Cavaliere «può essere preso sul serio». Pier Ferdinando Casini fa spallucce, sottoscrive la previsione di Fini su un nuovo polo coeso e autonomo dagli altri due in caso di elezioni e risponde: «Se Berlusconi pensa che si possano risolvere i problemi del Paese con due o tre parlamentari in più è un suo problema, tanti auguri». Colpisce casomai che qualche critica a Fini per la sua proposta arrivi da Antonio Di Pietro, ancora una volta lestissimo nel preservare il tignoso solipsismo di Berlusconi, e dallo stesso capo segreteria di Bersani Maurizio Migliavacca. Di coalizioni larghe in effetti non sembra esserci voglia neanche nel Pd.
A dispetto della sicumera berlinese il premier è alle prese con le grandi manovre sul nuovo simbolo, e il nuovo nome, del partito. Sembrano salire sul serio le quotazioni di «Italia», riduzione estrema dell’antico marchio berlusconiano. Difficile immaginare che la prospettiva di uno scioglimento anticipato non c’entri nulla con questo attivismo. E stasera a Palazzo Graziioli si parlerà proprio del restyling, con lo stato maggiore del pensionando Pdl al gran completo. Si potrebbe obiettare che almeno due dei tre processi milanesi del Cavaliere paiono comunque destinati alla prescrizione: quello sulla presunta frode fiscale in Mediaset e il processo Mills. In entrambi i casi a compromettere la sopravvivenza fino al terzo grado è l’inevitabile rallentamento provocato dal cambio del presidente del collegio giudicante. Sia Edoar-
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
glia del 60% del pil. Ciò è tanto più vero anche per i paesi con alto livello di debito pubblico. Sempre ieri, al termine del vertice italo-tedesco (dopo il quale il premier ha parlato solo dei suoi problemi italiani come riportato qui sotto), la cancelliera Merkel ha spiegato che per la stabilizzazione della zona Euro occorre rafforzare e portare avanti un grande coordinamento politico. In Portogallo, intanto, sono scesi i rendimenti sui titoli di stato.
do D’Avossa che Francesca Vitale hanno infatti incassato nel frattanto delle promozioni (il primo è andato al Tribunale di La Spezia, la seconda è diventata giudice d’Appello) che richiedono l’insediamento di due nuovi presidenti di Corte. E quindi molti degli atti dei due dibattimenti, rogatorie comprese, vanno rifatti daccapo. Situazione appena meno intricata per Mediatrade. Ma anche lì il terzo grado prima della scadenza dei termini è un miraggio.
«La stabilità del governo non è in pericolo», assicura il Cavaliere. Che però cambia nome al Pdl
Dall’alto: David Mills, Niccolò Ghedini, il presidente della Consulta Ugo De Siervo e il Guardasigilli Angelino Alfano
Ciononostante l’apprensione per la camera di consiglio di oggi è molto alta. Già in caso di sentenza interpretativa di rigetto l’efficacia dello scudo sarebbe compromessa. E questo sembrava l’esito più probabile fino a una settimana fa, laddove negli ultimi giorni le previsionib più negative hanno preso a circolare anche dalle parti di Palazzo Grazioli. Sono i dubbi del giudice relatore, Sabino Cassese, sull’indeterminatezza e l’automatiosmo dell’impedimento presidenziale a suscitare ansia. Tanto che dopo l’udienza dell’altro ieri comincia a sembrare probabile una bocciatura parziale. Sarebbero non più di 6, più probabilmente 5, i membri dell’Alta Corte disposti a lasciare integra la legge. Una maggioranza di 8-9 invece sarebbe pronta a pronunciarsi contro due commi dell’articolo 1. Il quarto, in particolare, che l’autocertificazione prevede della presidenza del Consiglio e l’obbligo per il Tribunale di rinviare l’udienza fino a sei mesi. Ma riaschia anche il primo, quello in cui vengono considerate cause di impedimento anche le «attività coessenziali alla funzione di governo». L’aggettivo «coessenziali» anzi è la parte del provvedimento destinata quasi certamente a cadere. Ma in realtà la stroncatura potrebbe essere più ampia. E di fatto gli «impedimenti» del capo del governo ritornerebbero nella cornice già esistente prima che fosse approvata la legge. Prospettiva che comunque inquieta Berlusconi. E che non pare destinata a scivolare in modo indolore sulla legislatura.
Con la ratifica dell’accordo tra Italia e Slovenia sulla cooperazione transfrontaliera di polizia è stato raggiunto un traguardo fondamentale non solo in termini di sicurezza per i cittadini, ma anche di prevenzione. Si tratta di un ulteriore passo in avanti nel percorso di riavvicinamento tra le due popolazioni, un risultato insperato fino a non molti anni fa, quando c’era la“cortina di ferro”e i rapporti tra i due Stati non erano certo dei più idilliaci. Soprattutto, è un accordo che consentirà di intensificare il contrasto alla criminalità organizzata internazionale e all’immigrazione clandestina, dando così maggiore sicurezza non solo ai cittadini dei due Paesi, ma anche alle attività economiche e produttive transfrontaliere.
Angelo C.
NO ALLA FATTURA TELEMATICA. SÌ ALL’ANAGRAFE TRIBUTARIA La piaga dell’evasione fiscale è, purtroppo, un male d’italica memoria. Ritengo che per combattere l’evasione sia necessario potenziare ed evolvere l’utilizzo delle banche-dati che risiedono nell’anagrafe tributaria e, allo stesso tempo, aggiornare e/o modificare lo strumento degli studi di settore. Certamente l’evasione delle tasse non si combatte con l’emissione della fattura telematica (pensate, solo per un attimo, quante azioni truffaldine si possono compiere!) occorrono regole più eque, e occorre ribaltare un altro primato negativo detenuto dall’Italia: è il Paese europeo con la più alta frode fiscale, con il 48,5 per cento del reddito imponibile che non viene dichiarato.
Domenico
L’IMMAGINE
Se l’istinto non mi inganna Per indovinare la taglia del suo amico felino gli è bastato qualche istante muso contro muso. Ma, ancora meglio, per intuire le dimensioni dei suoi simili gli basta semplicemente ascoltarne il ringhio PADOVA, ARIA TOSSICA IN CITTÀ La città di Padova da 10 anni è fuorilegge riguardo ad un potente cancerogeno, il benzoapirene, che principalmente viene emesso in atmosfera da grandi complessi industriali e dagli autoveicoli. Il benzoapirene viene assorbito dalle polveri fini, che arrivano direttamente nelle basse vie respiratorie, da qui vengono trasferite, tramite la circolazione del sangue negli organi vitali. Dal 2000 al 2010, in città, la media annua di un nanogrammo per metro cubo di aria prevista dalla legge per il benzoapirene viene costantemente superata. È evidente che occorre rientrare urgentemente nei parametri della legge e che i provvedimenti finora adottati non sono sufficienti. Tanto più che il 2010 è l’anno in cui in città è entrato in funzione il Metrotram. La nostra città, che investe energie e capitali ed è centro di eccellenza per la ricerca dei tumori infantili, viene inserita dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, per i dati sull’inquinamento da benzopirene, come una delle aree più a rischio, accanto a città industriali come Taranto e Venezia o metropoli come Milano e Torino. Ma oltre al traffico veicolare in città operano da molti anni due impianti a forte impatto ambientale: l’inceneritore di San Lazzaro, dal 1962, e l’acciaieria di Riviera Francia e Maroncelli, dal 1974, ma mi risulta che nessun organo istituzionale abbia prodotto un’indagine sanitaria per analizzare i danni alla salute dei padovani causati da queste aziende. L’aria tossica della nostra città colpisce maggiormente i bambini, la fascia della popolazione che paga prima di altri gli effetti dell’inquinamento. I dati sull’aumento dei casi di leucemie infantili lo confermano. Vorrei chiedere pertanto al sindaco, autorità sanitaria locale, e all’assessore all’ambiente quali provvedimenti intendono adottare per tornare nella legalità.
Maria Grazia Lucchiari
SANITÀ: 400 MILIONI IN MENO, TREMONTI SI RIPRENDE I SOLDI DELL’ALLUVIONE Tremonti si riprende a scapito della sanità, più di quanto abbia dato per l’alluvione del Veneto: ben 400 milioni. A pagarne le conseguenze sono i ceti più deboli, con i tagli ai servizi per disabili, anziani e persone non autosufficienti , per non parlare delle nuove tasse introdotte dalle Lega. Peggio di così non si può.
Paolo Visentin
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l primo gennaio di questo anno 250 parlamentari, appartenenti a partiti e schieramenti diversi, davanti al riacutizzarsi delle persecuzioni subite dai cristiani nel vicino Oriente, hanno raccolto l’invito di Benedetto XVI e hanno sottoscritto un appello per difendere la libertà religiosa come prerequisito indispensabile per la Pace nel mondo. Pochi giorni dopo, il 6 gennaio, molti di loro si sono ritrovati in piazza san Pietro a pregare con il Santo Padre al momento dell’Angelus per i cristiani che soffrono a motivo della loro fede. Nel frattempo l’appello originario si era trasformato prima in tre, poi in cinque mozioni, sottoscritte dai diversi esponenti dei vari partiti presenti in Parlamento: Pdl, Pd, Idv; Lega e il nuovo coordinamento di Centro (UdC, API, FLI). Come se nel passaggio da un momento a più alta densità identitaria, in cui i parlamentari mettevano in primo piano la loro fede e le loro convinzioni religiose, superando quindi le logiche di schieramento, al momento di carattere evidentemente più politico, la logica di appartenenza segnasse inevitabilmente le scelte da fare e gli atteggiamenti da assumere. Eppure questa volta davanti ad un tema così rilevante come la libertà religiosa, storicamente il primo tra i diritti umani come ha ricordato Benedetto XVI parlando al corpo diplomatico, il Parlamento ha cercato di fare il massimo sforzo possibile di dialogo e di mediazione per giungere ad una mozione unica, in cui tutti potessero riconoscersi e tutti si assumessero in ugual misura la loro responsabilità di tutela e garanzia dei diritti umani. E il nuovo anno parlamentare ha segnato un buon punto di partenza sia per il livello degli obiettivi a forte valenza etica che per la qualità del dibattito che ha caratterizzato il clima e l’atmosfera dell’aula, con un effetto profondamente diverso rispetto a quanto era accaduto in altre occasioni, proprio alla fine dell’anno scorso. Davanti alla aggressione alla libertà religiosa ogni uomo sente che è in pericolo il primato della sua coscienza, il suo diritto a formulare giudizi e a prendere decisioni, il suo diritto a proteggere quel santuario naturale in cui si sviluppa il suo rapporto personale con Dio.
I
La libertà religiosa è la madre di tutte le libertà, fa parte dei diritti fondamentali ed alienabili dell’uomo, espressi nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” dall’Asadottata semblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Questo diritto include la libertà di cambiare religione e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, in pubblico e in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. La consapevolezza che il livello di intolleranza religiosa si stia alzando pericolosamente ha indotto tutti a riflettere sulle nuove forme che il terrorismo sta assumendo, nel momento stesso in cui sceglie tra i suoi bersagli preferiti una comunità di fedeli raccolta in preghiera, del tutto inerme ed indifesa. Una comunità di fedeli quasi sempre cristiani, come segnale di una nuova forma di per-
il paginone
L’Occidente cristiano assiste muto e distratto, tra l’indifferente e il rassegnato. a
La madre di tu
L’autonomia religiosa è il fondamento delle altre, e l di professare il proprio credo deve essere garantita Il mondo si “indigna” ma non fa nulla. Il Parlamento ita di Paola Binetti
secuzione che è stata definita come una vera e propria cristianofobia. Il termine “cristianofobia”descrive bene questo fenomeno e per questo è stato adottato dall’Onu sin dal 2003 e dal Parlamento europeo nel 2007. Con questa espressione si vuole descrivere il tipo di persecuzione che manifesta odio cruento verso i cristiani in quei Paesi in cui il cristianesimo è minoranza, ma trova un terreno fertile anche in Occidente da parte di chi vuole negare la pertinenza pubblica della fede cristiana. Basta ricordare alcuni dei fatti più recenti in cui si è cercato di umiliare la Chiesa in tanti modi diversi. Ma non c’è dubbio che dietro ogni aggressione ri-
volta ai cristiani in qualche modo è l’uomo intero che soffre, perché i suoi diritti vengono calpestati. La Cina, ad esempio nonostante il suo PIL in crescita vertiginosa, non offre nessuna tutela dei diritti umani, abusa del suo potere politico, ferisce il sentimento religioso dei cristiani e ne condiziona la libertà di espressione, intervenendo pesantemente nella vita e nella organizzazione della Chiesa. A Baghdad poche settimane fa l’attentato nella cattedrale ha avuto come scenario il luogo e il momento più sacro che si possa immaginare per una comunità religiosa: era il momento della Santa Messa quando è esplosa la bomba, ferendo e uccidendo tante persone semplicemente raccolte in orazione. Nell’antichità monasteri e luoghi di culto erano sacri per tutti e ci si poteva rifugiare con la certezza di essere e di sentirsi protetti. Ora sono bersagli fin
troppo facili da colpire senza timore di sbagliare. In Pakistan donne e bambine sono oggetto di violenze e di stupri solo perché cristiane. Asia Bibi, una contadina cristiana, è stata condannata a morte applicando la legge sulla blasfemia. In Nigeria sembra esplosa una guerra di religione che sta facendo numerose vittime soprattutto tra i cristiani, che sono tra i più poveri nel Paese.
Di giorno in giorno si moltiplicano attacchi che non lasciano tregua. Tra i profughi eritrei che cercano una via di fuga e di salvezza i cristiani sembrano quelli più a rischio… e senza nessun rispetto per la loro vita quanti avevano tentato la fuga sono stati riconsegnati ai loro aguzzini, nei confronti dei quali non è stata presa nessuna misura punitiva. Alessandria d’Egitto è stata per ben due volte in pochi giorni teatro di
il paginone
al massacro dei cristiani in Oriente. Come se non fossero propri fratelli nella fede
utte le libertà
la possibilità a ciascuno. aliano invece...
propri fratelli nella fede o come se non fossimo davanti ad una pesante aggressione ai diritti umani. La cultura dei diritti umani, nata dalle radici cristiane dell’Europa, stenta a trovare una voce forte ed autorevole con cui schierarsi dalla parte della libertà religiosa, con energia e determinazione. E la violenza di alcuni trova la sua complicità nell’indifferenza di una cultura marchiata da un crescente relativismo. Relativismo culturale e violenza materiale sono due diverse modalità con cui oggi si colpisce la libertà religiosa, senza tener conto che mortificarla, calpestarla, offende tutti i diritti umani e ferisce l’uomo nella sua concretezza e nella sua universalità. La libertà religiosa sembra diventata un optional di cui molti Stati farebbero volentieri a meno, ma la laicità dello Stato si esprime anche e soprattutto nella tutela di questo valore essenziale nella vita di tutti i cittadini, perché uno Stato che tace davanti alla violazione di un diritto inviolabile se ne rende immediatamente complice e perde di credibilità e di autorevolezza. una violenza anti-cristiana che sgomenta e lascia senza fiato. Troppe volte in queste ultime settimane sono esplose manifestazioni di violenza contro i cristiani del vicino Oriente, e non hanno trovato nelle Istituzionali nazionali ed internazionali quella risposta ferma ed energica che avrebbe meritato la difesa di un valore universale e perciò stesso inviolabile, come la libertà religiosa. In questo clima ciò che più colpisce è il silenzio delle istituzioni, la voce sommessa di chi prova a protestare è facilmente messa a tacere. Si nota in modo stridente la mancanza di una iniziativa forte e decisa a carico della diplomazia internazionale. L’Onu si dice costernato, ma non risulta che abbia preso iniziative di qualsiasi tipo. L’Occidente cristiano assiste muto, distratto, tra l’indifferente e il rassegnato al massacro dei cristiani in Oriente, come se non fossero
Una consapevolezza maggiore sulle origini culturali delle nostre idee e istituzioni democratiche non può che rafforzarne la tenuta dal momento che la stessa idea di laicità dello Stato ha storicamente tratto linfa vitale dalla cultura cristiana e dall’innegabile ruolo storico che ha rivestito nella storia delle democrazie occidentali. Quando il diritto di libertà religiosa è messo in discussione, si genera una intolleranza spesso alimentata e strumentalizzata per motivi politici ed economici, che sempre più di frequente producono aberranti atti di violenza collettiva a danno delle minoranze. Eppure la libertà religiosa in senso proprio riguarda il rapporto tra l’uomo e Dio, e mostra al di là di ogni ragionevole dubbio come l’uomo abbia bisogno di restare fedele alla sua natura, che lo vuole aperto alla trascendenza, e mo-
stra la totale insufficienza di un modello culturale materialista che fa delle categorie economiche l’unica logica possibile per emettere giudizi e prendere decisioni. In un secolo che sembra ammalato di consumismo, in un tempo in cui le categorie economiche hanno creato degli standard di efficienza e di produttività, in base ai quali l’unico criterio per valutare se una vita meriti o non meriti di essere vissuta è quello puramente pragmatico e funzionale, riscoprire la dimensione trascendente della vita umana, può aiutarci ad affrontare in modo diverso mille questioni diverse. La libertà religiosa, così vilmente calpestata e mortificata in questi giorni, ricorda a tutti noi il bisogno dell’uomo di porsi in contatto con Dio, la speranza di potergli parlare, sapendo e credendo di essere ascoltato. È come se dicesse: Signore mio e Dio mio, credo fermamente che Tu sei qui, che mi ascolti… e poi desse voce ai suoi desideri, alle sue paure, per chiedere aiuto nel modo più umano, con una pre-
I deputati italiani hanno messo da parte le logiche di schieramento e hanno risposto all’appello del Papa a intervenire contro le violenze ghiera di petizione a cui più tardi seguirà una preghiera di ringraziamento, oppure un semplice dialogo di affetti. Questo è il diritto dell’uomo che noi vogliamo tutelare con la nostra mozione: il diritto a stare a Tu per Tu con Dio, con Colui che lui chiama Dio, con colui che ama come Dio, perché è in Lui che trova risposta agli aneliti più profondi del suo cuore. Negare questo diritto all’uomo significa calpestarne la dignità, significa sradicarlo dalle dimensioni più profonde del suo essere per farlo sentire inevitabilmente più solo e forse in alcune circostanze della sua vita anche disperato. Difendendo il diritto dell’uomo alla sua libertà religiosa, noi stiamo difendendo l’uomo in se stesso, in quanto ha di più alto nella sua stessa natura. Una natura che è comune a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutte le latitudini, di tutte le etnie e di tutte le fedi. Per questo appare tanto più incredibile questa violenza religiosa che si sta scatenando contro i cristiani, che per altro sono sempre impegnati in prima persona nella costruzione del bene comune nei diversi paesi
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in cui vivono. Costruttori di una civiltà dell’amore, del dialogo e della fraternità, ma anche appassionati ricercatori della verità: attraverso lo studio e la ricerca, attraverso i saperi scientifici e i saperi umanistici. Ovunque la civiltà cristiana si è fatta cammino per la scoperta di ciò che giusto e di ciò che non lo è, fino a porre le basi più avanzate del diritto universale, ma nello stesso tempo fino creare le condizioni per uno sviluppo tecnologico ad alta valenza umana ed umanistica. Cacciare i cristiani dalle terre in cui sono insediati da millenni significa impoverire radicalmente tutto il tessuto sociale di quei Paesi, rinunciando ad un contributo che fa della nostra cultura un costante punto di riferimento per ogni altra. Basta pensare alla condizione della donna nei paesi occidentali a più schietta e diretta ispirazione cristiana e la condizione della donna nel vicino oriente, nei Paesi di religione mussulmana o nei paesi in cui c’è una prevalente cultura animistica.
Senza libertà religiosa la via della pace si fa particolarmente difficile, proprio in un’epoca di globalizzazione come la nostra; in un tempo in cui i flussi migratori portano gruppi numerosi a spostarsi da un continente all’altro, in cerca di migliori opportunità per vivere, sia che fuggano dalla povertà estrema, che da una serie di aggressioni alle loro libertà. L’uomo si sposta con la sua famiglia nella speranza di assicurare una migliore condizione di vita ai suoi e la libertà religiosa è parte integrante di questa ricerca affannosa di un bene migliore. Una libertà che cerca chi arriva e che va rispettata, ma una libertà che anche lui deve contribuire a realizzare, rispettando la libertà degli altri, tanto più quando si tratta del Paese che lo accoglie e in cui lui si è spostato alla ricerca di quei valori, che poi non può contestare o rifiutare. Religione e pace hanno un legame inscindibile tra di loro, perché Dio non può desiderare altro che la felicità degli uomini e questa felicità passa per una esperienza costantemente rinnovata di libertà. E se per secoli gli uomini hanno combattuto per la loro libertà religiosa, forse oggi è arrivato il momento di coinvolgere tutte le grandi istituzioni, a livello nazionale ed internazionale, per cercare nella pace la via della libertà. Per questo abbiamo chiesto l’istituzione di un Osservatorio permanente per monitorare l’andamento nel tempo e nello spazio delle nuove forme di cristianofobia , per reagire tempestivamente, per progettare le iniziative più efficaci per contrastarla, in tutti i modi possibili. A far valere con ogni forma di legittima pressione diplomatica ed economica il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi sia direttamente dalle autorità di governo sia attraverso un tacito assenso e l’impunità dei violenti.
mondo
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Si fa sempre più grave la situazione in Tunisia: il regime di Ben Alì non riesce più a gestire le proteste
Brucia un’altra Africa La «guerra del pane» affonda il sogno (o l’illusione?) del Maghreb moderato di Enrico Singer due settimane dall’inizio della rivolta esplosa nelle province dell’interno, ignorate dall’onda del turismo e degli investimenti stranieri, ieri all’alba i carri armati, i camion carichi di soldati e le autoblindo sono apparsi anche nel centro di Tunisi e ci sono stati i primi spari, gli scontri con altro sangue. È un salto indietro nel tempo. Un balzo di più di vent’anni che riporta all’ottobre del 1988 quando la «guerra del cous cous» infiammò la capitale. Allora, per l’aumento del prezzo della semola – che è l’ingrediente fondamentale del piatto più popolare del Paese – i giovani invasero le piazze, assaltarono i negozi e finirono sotto il fuoco della repressione. Dalla moschea di Bab el Bar, la Porta del Mare, i primi imam fondamentalisti, intrisi delle idee dei Fratelli Musulmani, incitavano a rovesciare il regime di Zine ElAbidine Ben Alì, il generale, già capo dei servizi segreti, che meno di un anno prima, il 7 novembre del 1987, aveva rovesciato con un «golpe costituzionale» Habib Bourghiba, padrepadrone della Tunisia indipendente, facendolo dichiarare incapace di governare. Oggi Ben Alì, a 74 anni, è ancora al potere, ma contro di lui non è più la voce ritmata del muezzin a chiamare a raccolta chi protesta. La colonna sonora di questa nuova rivolta è il canto di El Général il rapper che grida: «Presidente il tuo popolo muore di fame, vuole lavorare, vuole vivere». Certo, il rischio che il fondamentalismo s’insinui anche nelle università e negli uffici per strumentalizzare i giovani, proprio come in Egitto, in Giordania o in Arabia Saudita, esiste.
A
Ma la “guerra del pane”, come è stata definita questa nuova, disperata ribellione, è soprattutto un colpo al cuore del miracolo tunisno. Di un boom che ha trasformato, sì, il Paese moltiplicando le ville, gli approdi per le barche che arrivano dall’Europa (Italia in testa), i campi da golf e anche gli stabilimenti dell’industria manufatturiera, ma che ha arricchito le oligarchie legate al potere e ha
lasciato fuori la grande maggioranza della poplazione. In particolare le nuove generazioni: il 72 per cento dei disoccupati ha meno di trent’anni e, al 60 per cento, ha anche una laurea in tasca che non gli garantisce, però, il lavoro. Anzi, aumenta la rabbia.
Ben Alì ha capito che, questa volta, la protesta dei giovani disperati è più pericolosa delle trame dei fondamentalisti. E sta cercando di correre ai ripari. Ieri ha destituito il ministro dell’Interno, Rafik Haj Kacem, nella speranza di rovesciare su di lui tutta la responsabilità del massacro degli ultimi giorni – oltre cinquanta morti – e ha anche ordinato la scarcerazione di alcuni manifestanti arrestati. Hamada Ben Amor, questo è il vero nome del rapper El Général, è già tornato libero. Ma, forse, è troppo tardi. Per il momento, la rivolta non si placa. Al contrario, diventa più dura. Non sono bastate nemmeno le promesse di convincere una società tedesca a costruire una fabbrica di componenti per auto, con mille nuovi posti di lavoro, proprio a Sidi Bouzid, la cittadina a 260 chilometri da Tunisi dove tutto è cominciato, il 31 dicembre, con il suicidio di un giovane – anche lui laureato – che, per sopravvivere, si era improvvisato venditore ambulante e al quale la polizia aveva sequestrato il carrettino carico di frutta e verdura. Una storia tanto tragica quanto rivelatrice della faccia nascosta del miracolo tunisino. Non c’è posto per gli irregolari nel Paese che Ben Alì ha tentato di trasformare in una specie di paradiso terrestre per i pensionati italiani che vogliono far fruttare dieci volte di più i loro euro e per gli investitori che possono utilizzare mano d’opera che lavora sodo a 250 dinari (130 euro) al mese e sgravi fiscali eccezionali (per dieci anni nessuna tassa sugli utili). Tutto deve essere – almeno all’apparenza – tirato a lucido ed efficiente, come nel nuovo, ricco quartiere-satellite della capitale sulle rive della laguna tra Tunisi e il mare, costruito a partire dalla fine degli Anni Ottanta con capitali suditi, pieno di ristortranti e di bar alla
Immagini delle rivolte in Tunisia, nella capitale come nelle città della provincia sud-occidentale del Paese
Coprifuoco nella Capitale: aggredita anche una troupe del Tg3
La rivolta è arrivata a Tunisi TUNISI. Sempre più sull’orlo del precipizio la Tunisia dove, dopo settimane di violenti scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, le proteste di piazza si sono estese dalla notte scorsa alla stessa capitale dove il regime di Ben Alì ha proclamato il coprifuoco. Nuovi morti sono inoltre stati denunciati nei disordini in cui sono degenerate alcune manifestazioni: a Douz, 550 chilometri a sud di Tunisi, i colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia hanno provocato la morte di almeno cinque persone e il ferimento di altrettante, alcune delle quali verserebbero in gravi condizioni. E secondo la tv al-Arabiya sarebbero 10 le vittime complessive registrate in tre città in un computo complessivo che porterebbe sopra quota 50 i morti dall’inizio delle proteste. A Tunisi il dispiegamento delle truppe governative non ha impedito ai contestatori del presidente Zine al-Abidine Ben Ali di riversarsi in massa non più alla periferia soltanto, ma nello stesso cuore della Medina, il centro storico cittadino. Una troupe del Tg3 Rai è stata aggredita mentre stava seguendo lo sviluppo degli eventi: l’operatore Claudio
Rubino è stato anche malmenato dagli assalitori. Di fronte al precipitare della situazione, Ben Ali è corso a estremi rimedi: ha destituito il ministro dell’Interno e responsabile dell’ordine pubblico, Rafik Belhaj Kacem, sostituito da Ahmed Friaa, finora sottosegretario. Ha disposto la scarcerazione dei dimostranti arrestati nei giorni scorsi che, a detta del premier Mohamed Gannouchi, sarebbero già stati rimessi tutti in libertà. Infine il presidente tunisino ha disposto la creazione di una speciale commissione d’inchiesta che indaghi sull’operato di diversi pubblici funzionari.Tutto ciò non è però bastato a placare la piazza, e nemmeno a evitare un crescente isolamento internazionale. Indagini «trasparenti, credibili e indipendenti» sono state sollecitate tra gli altri da Navi Pillay, alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. In termini analoghi si erano già espressi tanto l’Unione Europea quanto il Dipartimento di Stato americano, che hanno entrambi condannato l’uso «sproporzionato» della forza ed espresso «profonda preoccupazione» per fatti bollati dall’Ue come «inaccettabili».
mondo
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(col 22,6 per cento del totale) dopo i francesi (con il 23,9) – la Tunisia, non va dimenticato, è un’ex colonia francese – e prima degli spagnoli (8,5 per cento), dei tedeschi (8,3) e degli stessi americani (4,3).
In principio furono i tessili. Capofila i Benetton (oggi è sbarcato anche Dainese che fa le tute per Valentino Rossi) che all’inizio degli Anni Novanta scesero in Tunisia a cucire i modelli progettati a Ponzano Veneto. Poi è stata la volta dei costruttori e degli energetici: da Todini a Colacem, dalle Fonderie Gervasoni, all’Eni, alla Snam, a Terna, all’Ansaldo). Infine le piccole e medie industrie del segmento meccanico-elettronico attratte dalle facilitazioni e dalla possibilità di raggiungere, dalla Tunsia, gli altri Paesi dell’”accordo di Agadir” (Egitto, Marocco e Giordania). Oggi sono 700 le imprese italiane presenti in Tunisia che danno lavoro a 55mila persone e investono oltre 200 milioni l’anno. Ma questo paradiso che qualcuno chiama la “piccola Cina d’Italia”rischia adesso seri contraccolpi. Dove c’è lavoro, la situazione è ancora tranquilla. Dove manca, come nel SudOvest verso il confine con l’Algeria, il cortocircuito è già scattato. Anche a Tunisi si diffondono i timori nella numerosa colonia italiana. Ancora nessuna fuga, ma la tensione cresce. La presenza italiana in Tunisia non è cominciata soltanto con la calamita del boom. C’è un’intera moda e di belle case dove vivono diplomatici e imprenditori. O come a Sidi Bou Said, venti chilometri più a Ovest, sul mare, oltre le rovine di Cartagine, che è il vero simbolo del tanto reclamizzato boom.
Sidi Bou Said è una cittadina tutta bianca e blù che domina il golfo di Tunisi. È stata fondata nei primi anni del 1200 da un sufi – un saggio musulmano – che si chiamava Abou Said ibn Khalef che qui è sepolto e dal quale ha preso il nome con l’aggiunta, come tante altre località, di “Sidi” che, in arabo, vuol dire signore. Adesso, ai piedi della medina fatta di stradine tortuose e di case con le facciate ricoperte di bougainvillées e le finestre dipinte di blù, c’è un moderno marina pieno di imbarcazioni che molti italiani, francesi e tedeschi hanno portato qui per risparmiare sugli ormeggi (un quarto di quanto costano da noi) e sul gasolio. Come a Hammamet, a Sfax o all’isola di Djerba. È il volto opulento del miracolo tunisno, quello rilanciato dalle autorità e propagandato anche dalla stampa locale che – fino alle agitazioni di questi giorni – è stata una delle più imbavagliate del mondo. Ora anche l’ex presidente del sindacato dei giornalisti, Naji Baghouli, ha avuto il coraggio di dire che, per vent’anni, gli organi d’informazione tunisina sono
stati costretti a raccontare bugie e che adesso vogliono riprendersi la loro libertà. Così, oltre alle notizie sugli scontri e sui morti – il regime ne ammette soltanto 21 – vengono fuori anche i dati reali sulla situazione sociale ed economica del Paese. È vero che ci sono risultati strabilianti: l’87 per cento della popolazione alfabetizzata, un diritto di famiglia egualitario, una buona copertura sanitaria e un reditto pro-capite di seimila euro l’anno che, per gli standard dei Paesi arabi, è molto alto. Ma la statistiche, si sa, possono ingannare. I seimila euro sono una media portata in alto dai pochi che guadagnano tanto, da chi muove i fili del boom. Il resto degli oltre dieci milioni di tunisini è al livello del salario minimo che non raggiunge i 1500 euro l’anno o è disoccupato. La scintilla della rivolta è proprio l’alto tasso di disoccupazione reso ancora più pesante dalla conspevolezza di essere esclusi da quel miracolo economico che, comunque, ha attirato nel Paese anche nel 2010 quasi un miliardo di euro. Tra gli invegli stitori, italiani sono al secondo posto
Entra in crisi anche il mito di una sorta di «supermarket del benessere»: quel fenomeno rivolto agli occidentali (soprattutto italiani) che vanno in cerca di turismo a buon mercato cittadina a pochi chilometri dalla capitale che è stata letteralmente costruita dai primi italiani arrivati qui a partire dalla metà dell’800. E’ la Goletta – che adesso è nota col nome francesizzato di La Goulette – nata come quartiere abusivo di Tunisi in seguito dell’arrivo, dapprima modesto, di immigrati siciliani (in particolare dalle province di Palermo, Trapani e Agrigento) attirati dalle prospettive di lavoro legate alle attività marinare. Fu chiamata così perché si trova in una piccola gola di fiume. A partire dal 1868, anno in cui il Trattato della Goletta incoraggiò l’immigrazione in Tunisia, l’arrivo degli italiani si fece sempre più massiccio fino ad assumere la portata di una vera ondata migratoria che ha preceduto il più grande esodo verso l’America. Nel giro di pochi decenni gli
italiani divennero una realtà significativa in tutta la Tunisia: nel 1870 erano già circa 25.000mila e, nel censimento del 1926, ne vennero contati ben 89.216, di cui migliaia residenti proprio alla Goletta dove erano circa la metà della popolazione. Quando il presidente Habib Bourghiba, nel 1964, odinò il sequestro dei beni degli stranieri, quasi tutti presero la via dell’esilio e, non avendo che documenti francesi, non ebbero altra scelta che cercare una nuova vita in Francia dove andarono ad aggiungersi ai pieds-noirs provenienti dall’Algeria. Tra gli italiani nati in Tunisia ci sono anche molti personaggi famosi. A cominciare da Claudia Cardinale, nata proprio alla Goletta, che comincò la sua carriera di attrice dopo essere stata eletta nel 1957, a diciannove anni, la più bella italiana di Tunisi. Ma l’elenco è lungo: da Sandra Milo, il cui vero nome è Salvatrice Elena Greco, al tennista Nicola Pietrangeli (figlio di un italiano e di una russa) fino a Maurizio Valenzi che è stato il primo sindaco comunista di Napoli. A Tunisi e a Biserta ci sono ancora oggi “quartieri siciliani”. E tutti sanno che a Hammamet ha passato gli ultimi anni della sua vita Bettino Craxi che è sepolto nel cimitero cristiano della città dove aveva una villa non lontana da quella del regista teatrale Peppino Patroni Griffi.
A Craxi, del resto, è legata anche l’ascesa al potere di Zine El-Abidine Ben Alì che, nel suo golpe contro Habib Bourghiba, fu aiutato anche dai servizi segreti italiani per ordine dell’allora presidente del Consiglio. Lo ha raccontato nel 1991 l’ammiraglio Martini che, all’epoca della vicenda, era capo del Sismi, la nostra intelligence militare. Nell’ultimo periodo del potere di Bourghiba, più o meno a partire dal 1985, l’Italia era preoccupata per la politica di Tunisi nei confronti dell’Algeria dalla quale il nostro Paese acquistava allora tutto il suo gas d’importazione che passava – e passa tuttora – da un gasdotto che attraversa un lembo di territorio tunisino. In pratica, a quanto ha raccontato l’ammiraglio Martini, il governo di Algeri minacciò un intervento militare contro Bourghiba che avrebbe interessato proprio l’aera del gasdotto e questo convinse Craxi a “facilitare” il cambio della guardia a Tunisi. Il generale Ben Alì fu considerato l’uomo giusto e ne fu favorita la scalata politica: prima capo del governo con Habib Bourghiba ancora presidente e poi, dopo sole cinque settimane, nuovo leader assoluto. Grazie a quello che fu definito un “colpo di Sato costituzionale” perché Ben Alì fece giudicare da una commissione di medici l’anziano presidente “non più idoneo per senilità a reggere la cosa pubblica”e lo costrinse a lasciare la scena il 7 novembre del 1987.
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Pakistan, attacco provoca 20 vittime
Sudan, i cristiani temono al Bashir
ISLAMABAD. Un’autobomba ha colpito ieri una caserma della polizia in Pakistan, nel distretto tribale nord occidentale di Bannu, provocando numerosi morti. Almeno 20 le vittime della potente esplosione. «Cinque membri dei servizi di sicurezza sono stati uccisi e cinque feriti - ha dichiarato il capo della polizia del distretto, Mohammad Iftikhar -. Il bilancio potrebbe aggravarsi perché delle persone stavano pregando nella moschea che si trova a fianco e che è stata molto danneggiata dall’attacco». Fonti sanitarie hanno poi fornito un bilancio di almeno 18 morti. L’attacco non è stato rivendicato. Tuttavia, il nordovest del Pakistan è una roccaforte dei ribelli talebani legati ai talebani afghani.
KHARTOUM. Mentre in Sud Sudan è stata superata la soglia del 60% di partecipazione e dunque il referendum ha i numeri per essere valido, i cristiani, sempre più sotto pressione in molti paesi musulmani, temono persecuzioni nel Nord del Sudan, soprattutto se il Sud del grande paese africano otterrà l’indipendenza: la paura è che in caso di secessione il presidente sudanese Omar al-Bashir rafforzi la legge islamica nel Nord del paese, come ha già promesso. Secondo l’ultimo censimento, 520mila sudanesi del Sud, in grande maggioranza cristiani, vivono nel Nord del paese, a maggioranza araba e musulmana: ma stime ufficiose parlano di un milione mezzo di persone.
Polonia e Russia: crisi su Smolensk MOSCA. Il presidente polacco Lech Kaczynski e i suoi collaboratori esercitarono “pressioni psicologiche” perché i piloti ignorassero le raccomandazioni della torre di controllo russa e tentassero l’atterraggio a Smolensk nonostante la nebbia. È questa la conclusione dell’inchiesta di Mosca sull’incidente aereo del 10 aprile scorso, che indica negli errori di un equipaggio inesperto la causa dello schianto del Tupolev154 in cui morirono 96 persone. Il rapporto è stato consegnato ieri al governo polacco - cogliendolo di sorpresa, tanto che il premier Tusk ha sospeso le sue vacanza sulle Dolomiti - e certo susciterà tensioni diplomatiche. Anticipazioni in tal senso erano già uscite e state condannate dalla Polonia.
Le rivelazioni del sito internet vanno prese con le pinze. Ma una morte sospetta e un altro paio di indizi fanno pensare
L’Iran puntò i missili contro di noi Secondo Wikileaks nel mirino c’era il contingente italiano a Farah di Antonio Picasso dispacci di Wikileaks devono e dovranno in futuro essere presi con il dovuto scetticismo. Questo è certo. Tuttavia, se diamo credito ai rumors messi in circolazione della diplomazia Usa sui governi stranieri, altrettanto si dovrebbe fare nel caso di altri contesti. Era il primo pomeriggio di ieri quando nelle redazioni è giunta la notizia per cui, stando a un dispaccio del Pentagono datato 2007 e caduto preda del sito di Julian Assange, l’Iran sarebbe stato pronto ad attaccare il Prt italiano di Herat in Afghanistan. Teheran avrebbe appoggiato e finanziato i talebani locali affinché bruciassero le scuole costruite nel distretto di Shindand, opera della Cooperazione italiana e del Cimic-Nato. Quattro anni fa infatti, proprio in quella regione, i nostri militari inaugurarono un istituto scolastico. «È anche significativo – si legge nel documento – che ci siano stati rapporti sul fatto che l’Iran abbia puntato i missili contro il campo di atterraggio italiano e altre località del comando ovest dell’Afghanistan. I missili sono sei, tra i bersagli c’è anche il Prt di Farah». «Gli iraniani hanno detto di aver puntato i missili contro questi bersagli perche si aspettano un attacco statunitense contro la Repubblica islamica». Il sostegno dell’Iran ai talebani, economico e per quanto riguarda il rifornimento di armi, sarebbe andato oltre. Nel giugno dello stesso anno, Teheran avrebbe dispiegato le sue truppe lungo il confine con il distretto di Ghoryan, sempre nella provincia di Herat, e avrebbe pianificato un supporto militare a tutti gli effetti in favore degli insorti. È giusto ripeterlo: la notizia deve essere presa con le pinze.
Mentre si moltiplicano gli attacchi alle infrastrutture italiane in Afghanistan, in special modo quelle presenti a Herat e nel Gulistan, la notizia di un paventato attacco contro i nostri soldati da parte dell’Iran cozza con la politica nazionale, sostenuta dal ministro Frattini, di invitare Teheran al tavolo della pace
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Sappiamo che nessuno potrà confermarne la veridicità. Di conseguenza, bisogna restare aderenti al dubbio, per poter formulare delle riflessioni realistiche. Finora Teheran è stato classificato come un potenziale partner da invitare a un futuro tavolo della pace per l’Afghanistan. Molti governi si sono dichia-
rati contrari in merito. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno ricordato che con l’Iran c’è un contenzioso internazionale aperto. Per Washington, la crisi nucleare e la guerra in Afghanistan non sono scissi a compartimenti stagni. Israele, a sua volta, benché non direttamente impegnata nelle vicende dell’Af-pak war, ha paventato il pericolo che, riaprendo le porte all’Iran, questo sfrutti l’occasione per concludere i suoi sforzi nucleari. Altri Paesi hanno lucidamente ammesso la necessità della compartecipazione di Teheran. Fermo restando che il regime degli ayatollah sia lungi da poter essere considerato un interlocutore affidabile. È vero, la sua voce, nelle questioni della Asia centro-meridionale, resta
imprescindibile. Ma è altrettanto evidente che sull’Iran non si possa scommettere cecamente. Altri ancora, invece, si sono esposti eccessivamente nel tendere la mano nei confronti di Teheran. È il caso del governo italiano. Il nostro Ministro degli esteri, Franco Frattini, ha ammesso più volte l’esistenza di un canale di dialogo Roma-Teheran. «Di noi, Israele e Stati Uniti si fidano», ha dichiarato il responsabile della Farnesina. Quasi a giustificare l’iniziativa autonoma italiana nella questione. Anzi, sottolineando proprio questa indipendenza e quindi mettendone in risalto le potenzialità di successo. Effettivamente l’Italia ha sempre vantato un rapporto privilegiato con l’Iran. Al contrario della
maggioranza dei suoi partner occidentali. In questo modo, si è sentita in diritto di poter percorrere una propria strada, alla ricerca di una soluzione. Un compromesso per reintegrare l’Iran nella diplomazia internazionale, bloccandone comunque ogni velleità atomica. La tattica di Roma, se scevra di una qualsiasi contestualizzazione, ha una logica valida. L’Iran partecipa alla pace in Afghanistan. Ritorna a fare politica internazionale in modo proattivo. In cambio rinuncia all’arsenale nucleare. Di conseguenza, le vengono abrogate le sanzioni. Tutto questo avrebbe senso, se non vi fossero due ostacoli fondamentali. In primis l’Italia non fa parte del cosiddetto 5+1, il gruppo composto dai
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Libano, i ministri di Hezbollah affondano il governo Hariri BEIRUT. Il governo di unità nazionale libanese è crollato ieri, dopo che il “Partito di Dio”(Hezbollah) ha ritirato i propri undici ministri dall’esecutivo guidato da Saad Hariri. Il ministro dell’Energia Gibran Bassil ha sostenuto che la decisione del gruppo, guidato dal carismatico leader Nasrallah, è nata a causa dell’inchiesta del Tribunale internazionale dell’Onu sull’omicidio dell’ex premier Rafic Hariri. Le indagini fino a ora hanno indicato negli uomini di Hezbollah gli esecutori dell’attentato: da parte sua, il gruppo nega ogni coinvolgimento. Ora il Paese teme un’eruzione di violenza, che a Beirut si è fermata soltanto nel 2008. Secondo un accordo firmato nel novembre 2009, infatti, si sono interrotti i cinque mesi di stallo provocati da un’elezione generale molto travagliata. L’accordo prevedeva una complicata formazione governativa: 2 posti a Hezbollah, 8 agli alleati del Fronte cristiano e del movimento sciita
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Amal, 5 nominati dal presidente Suleiman e i rimanenti 15 al gruppo del primo ministro, Movimento per il futuro. Ai dieci del blocco di Hezbollah si è aggiunto ieri il ministro Adnan Sayyed Hussein, nominato dal presidente: come prevede la legge, con più di un terzo di ministri contrari, il governo è crollato. Diverse le motivazioni del ritiro di Hezbollah, ma la più accreditata vede un tentativo di rilancio del movimento, in ombra negli ultimi mesi.
Da sinistra: l’homepage di Wikileaks, un soldato italiano in Afghanistan e il presidente iraniano Ahmadinejad. Quest’ultimo ha sempre sostenuto di avere nell’Italia “un alleato”
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con l’aggiunta della Germania, atto a risolvere la questione nucleare di Teheran. Gli ayatollah quindi, nell’approcciarsi con il nostro governo, si sentono liberissimi di tener conto di qualsiasi proposta che giunga da quest’ultimo. Senza però accettarne alcuna.
Il secondo ostacolo è implicito all’inaffidabilità stessa di Teheran. In questo caso, merita tornare al contesto afghano e al dispaccio di Wikileaks. Va detto che, nel 2007, qualche falco dell’Amministrazione Bush potrebbe aver scritto un report tanto preoccupante solo perché ispirato da un’interpretazione rigidamente ideologica. Oggi a Washington si ha una visione più elastica dello scenario islamico. A questo punto, i missili puntati sul nostro Prt potrebbero essere stati il frutto di un’esagerazione della realtà da parte degli osservatori di allora. Le cronache di quel periodo, tuttavia, inducono verso un’altra direzione. Nella notte fra il 22 e il 23 settembre 2007, due agenti del Sismi e il loro interprete vennero sequestrati dai talebani. Il blitz per la loro liberazione, condotto in maniera congiunta dai nostri uomini e da un commando britannico, si concluse con il ferimento mortale di uno dei rapiti. Coincidenza vuole che il tragico episodio sia accaduto nel distretto di Shindand. Vale a dire in quella zona dove i
Teheran avrebbe appoggiato e finanziato i talebani affinché bruciassero le scuole costruite a Shindand talebani sarebbero stati armati dall’Iran per distruggere le nostre infrastrutture. E altrettanto non è un caso il fatto che, proprio in quei giorni, dal comando Isaf di Karl Eikenberry giungesse l’allerta per l’avvistamento di alcuni convogli di armi, provenienti dai pasdaran iraniani e diretti ai talebani. Sulle prime la denuncia era apparsa inverosimile. Meglio fare appello alla tattica “il nemico del mio nemico è mio amico”, valida sia per i talebani sia per l’Iran, di fronte all’Occidente. Nella fattispecie rappresentato dal Prt italiano.
Tutto ciò è realistico. Non è detto che sia reale. D’altro canto, se ci ricordiamo che ad Herat e dintorni ci sono anche gruppi di mujaheddin sciiti in armi – difficilmente classificabili se nostri alleati
o meno – l’aggressività iraniana appare ancora più plausibile. Del resto a Teheran un Afghanistan instabile, dove la Nato vi resta impantanata, è solo un vantaggio. Perché significa avere un nemico fiaccato dalla guerra, sicché distratto. Un’opportunità quindi per armarsi. Il dispaccio di Wikileaks non dice nulla di tutto ciò. Gli osservatori però conoscono l’Iran. Certo, è giusto coinvolgerlo nei negoziati di pace per l’Afghanistan. Però se questa fosse un’occasione per Teheran non tanto per riprendere i contatti con il mondo diplomatico esterno, bensì per ritornare alla carica sul dossier nucleare?
Sempre ieri, il Ministro degli esteri iraniano, Ali Akbar Salehi – che è anche responsabile dell’Agenzia atomica nazionale – ha ribadito l’intenzione del suo governo di sedersi al tavolo dei negoziati con il 5+1 a Istanbul per la conferenza in agenda tra una settimana. «Tuttavia, non abbiamo intenzione di trattare sul nucleare», ha chiosato Salehi. Resta da chiedersi, di conseguenza, su cosa si dovrebbe negoziare a un vertice sul nucleare, fra l’Iran e l’Occidente, se del nucleare non si vuole parlare. Già da questo si percepisce che, forse il dispaccio del Pentagono non era così infondato. Peraltro a Istanbul – vertice fallito prima ancora dell’inizio – l’Italia, che ha pressato per il coinvolgimento iraniano, non è stata invitata.
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Il Vaticano s’interroga sulle politiche d’accoglienza e integrazione degli stranieri, ma parla della qualità dell’Italia
Ma è un Paese per migranti? di Pierre Chiartano
all’accoglienza all’integrazione, sembra uno slogan, ma è il passaggio per far funzionare le società moderne in epoca di globalizzazione. Questo in sintesi è stato anche il tema, lunedì, della conferenza stampa di presentazione della Giornata mondiale dell’immigrazione 2011, che si celebrerà domenica 16 gennaio. L’incontro si è svolto nella sala stampa di Radio Vaticana. Presenti monsignor Bruno Schettino, arcivescovo di Capua e presidente della Commissione episcopale per le migrazioni (Cemi), monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes e mons. Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali della Cei. I punti emersi, anche grazie a una corposa documentazione statistica, sono diversi. Dal «crollo delle richieste d’asilo» sottolineato da mons. Perego, causata non solo dalla crisi economica, ma anche dalla politica dei respingimenti adottata dal Governo italiano, alle nuove dinamiche della mobilità mondiale che incidono fortemente sui flussi migratori. I dati del dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes parlano di 30mila richieste, nel 2008, contro le 17mila del 2009. La fondazione Migrantes ha oggi sportelli presso i principali aeroporti. «Bisogna fare attenzione – continua Perego – che anche gli aeroporti non diventino luoghi di respingimento».
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Oggi infatti sono le aerostazioni i cancelli d’entrata più frequentati da chi richiede asilo. «Ogni anno in Italia transitano 130 milioni di passeggeri dai nostri aeroporti. Serve rafforzare le strutture d’accoglienza per chi chiede asilo, oggi finanziate con l’uno per mille e farle diventare leggi dello Stato» spiega Perego. Ma non si tratta solo di una richiesta legata al concetto di caritas, perché i flussi migratori, nella varie accezioni, sono una ricchezza per il Paese che li sappia governare. «Pensiamo alla popolazione universitaria straniera che un giorno diventerà classe dirigente nei Paesi d’origine. I le-
gami creati con l’Italia potrebbero avere ricadute positive» sottolinea il vescovo di Capua. Insomma, c’è una Chiesa che oltre a curare lo spirito del proprio gregge sembra perfettamente calata nella realtà di una globalizzazione che, volenti o nolenti, determina molte scelte della nostra vita. Pragmatismo, attenzione per i deboli, sensibilità “politica” – anche se questo termine è improprio parlando di Chiesa – nel dialogo con chi governa e con i legislatori. Questa è la carta d’identità della
del lavoro e nella società. «L’avvenire delle nostre società poggia sull’incontro tra i popoli, sul dialogo tra culture nel rispetto dell’identità e delle legittime differenze» aveva affermato più volte il Santo Padre. Un aspetto che apre la strada a diversi ordini di problemi. Quanto il legislatore che opera in questo settore debba tenere conto del punto di equilibrio tra identità culturale, fede religiosa e pratica di cittadinanza. Quanto questi tre elementi interagiscano tra loro, determi-
Italia o per i loro figli come ribadito da mons. Perego. Il tema è stato al centro della Settimana Sociale dei cattolici, che si è svolta a ottobre a Reggio Calabria, e da quell’incontro sono emerse alcuni dei punti fermi della necessaria riforma, evidenziati dal presule: riduzione «da dieci a cinque anni» del tempo di attesa necessario per fare la richiesta, «estensione dello ius soli » per i figli degli immigrati (oggi 600mila in tutto il Paese con 70mila nuove nascite all’anno), accesso al vo-
Chiesa cattolica che emerge attraverso il suo approccio all’accoglienza. L’attenzione naturalmente viene posta a persone e famiglie che provenienti da culture e religioni diverse con opportunità, come abbiamo già detto, e problemi d’integrazione, nella scuola, nel mondo
nando il benessere o il malessere delle persone, delle comunità e delle loro aggregazioni a vari livelli. L’intolleranza e il conflitto sono spesso il prodotto di una cattiva messa a punto di questi tre fattori. Essenziali per determinare l’identità della persona, per sublimare l’elemento spirituale che è in noi e per sviluppare i meccanismi di una sana convivenza.
La Chiesa cattolica è «concorde» sulla necessità di «riformare» la legge sulla cittadinanza per gli stranieri che vivono in Italia o per i loro figli
«L’accoglienza deve dunque seguire la capacità di gestire compresenza di culture, credenze e religioni diverse (…) l’opera educativa deve aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze» si legge nel documento sugli orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano. Dalla conferenza è anche emerso che serve una legge sulla cittadinanza più semplice e rapida. La Chiesa cattolica italiana è «concorde» nel sostenere la necessità di «riformare» la legge sulla cittadinanza per gli stranieri che vivono in
to amministrativo e alla possibilità di svolgere attività qualificanti per la cittadinanza come il servizio civile. L’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri deve essere un «processo attivo» e non un «diritto di carta» e la riforma della legge attuale è «un momento di modernizzazione del Paese, affinché gli stranieri si sentano cittadini e non ospiti in Italia». Altro punto dolente riguarda il decreto flussi che sarebbe «inadeguato» pur introducendo delle «novità positive», come «l’attenzione ai mi-
granti di origine italiana, la distribuzione delle quote alla luce delle domande», il decreto flussi di quest’anno «fatica ancora a rispondere alla necessità di un incontro tra domanda e offerta di lavoro, risultando alla fine di fatto una regolarizzazione soprattutto delle persone stranieri presenti nel nostro territorio», sempre secondo il direttore generale della Fondazione Migrantes.
L’Italia farebbe ancora fatica ad investire, sia sul piano nazionale che locale, in «un progetto-pacchetto integrazione (…) abbandonando al volontariato percorsi e progetti sul territorio». Perego ha anche sottolineato la necessità di una «attenzione sociale al mondo degli immigrati precari che hanno perso il lavoro, attraverso una sorta di ripensamento della cassa integrazione connessa anche a un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, per evitare un passaggio al lavoro nero e alla irregolarità di persone e famiglie», e di una «riforma della scuola con al centro l’interculturalità». Ma il cahier de doléance sull’immigrazione non finisce e tocca un tema assai delicato. Lo scarso appeal delle nostre università. L’Italia è il «fanalino di coda» per quanto riguarda la capacità di attrazione di studenti universitari stranieri. Interrogato dai giornalisti sui motivi della «mobilità minore» degli studenti stranieri in Italia – dove gli studenti universitari stranieri sono 54.507, pari al 3.1 per cento del totale, contro la media europea del 10 per cento – Perego ha elencato tra le cause «le poche residenze universitarie presenti, di cui possono usufruire solo il 2 per cento degli studenti stranieri, contro il 10 della Germania e il 7 della Francia, le pochissime borse di studio erogate, quasi esclusivamente da enti privati, e la mancanza di corsi in lingua, attivati solo da pochi anni». Di qui la necessità di attrezzarsi meglio per «andare incontro ai volti di un’immigrazione giovane, istruita. Grazie al progetto Marco Polo, ad esempio, i cinesi sono diventati il secondo Paese per numero di stranieri presenti in Italia, dopo gli albanesi.
società Qui accanto, la cover-art di “Storie d’Italia”, opera a fumetti in edicola in questi giorni con “Il Giornalino” e “Famiglia Cristiana”. Qui sotto, i due volumi composti da sei storie di gente comune, immerse nelle vicende che hanno fatto la storia del Paese
a miseria umana e la crassa ignoranza sversata sull’Italia dall’operetta secessionista, possiedono l’inopinabile merito di aver trasfigurato la retorica unitaria in un atto di resistenza democratica oltrechè di rispetto per se stessi. Riscoprire la storia comune e i valori che l’hanno sedimentata in una cultura fragile perché opima, significa oggi distanziarsi dal fitto lombrosario padano in cui si agitano pose fescennine, figuri persino indegni dell’atellana, e miti fondanti che Zalone ha degnamente salutato con una salutare minzione. A rischiare più di tutti sono i giovani, per forza di cose meno destri a schivare i liquami contemporanei, e poco attratti dalla lezione patriottica lasciataci in eredità dagli eroi risorgimentali, quanto dalla gente comune che li ha sostenuti. Benefica risulta perciò l’iniziativa editoriale che Il Giornalino e Famiglia Cristiana affidano alle edicole in occasione del centocinquantesimo nazionale, Storie d’Italia, due volumi a fumetti distribuiti il 27 gennaio e il 3 febbraio.
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«Quando chi sta in alto parla di pace, la gente comune sa che ci sarà la guerra», sentenziava Bertolt Brecht. Un concetto che sintetizzava al meglio una visione poetica e sociale che poneva al centro di ogni cosa, come scintilla della storia, la gente comune. E che aveva individuato nella conoscenza, nella trasmissione della coscienza sociale di padre in figlio, la fiaccola che tiene vivo il fuoco della civiltà. In tempi di one man show e crapule immemori, una lezione provocatoria che pure il progetto della San Paolo assume a cardine dell’opera. Raccolte in sei episodi – tre per volume – le storie che compongono la materia letteraria di150° Storie d’Italia contemplano autori e disegnatori di prim’ordine nel panorama del fumetto italiano. Nella squadra Sergio Toppi, Carlo Ambrosini, Ivo Milazzo, Pasquale Frisenda, Marco Nizzoli, Giorgio Cavazzano e Corrado Mastantuono, nonché Francesco Artibani, autore dei testi e ideatore del progetto coordinato da Ivo Milazzo. Grandi solisti al servizio di un progetto collettivo che dà voce e nuvolette a «uomini donne e giovani, pronti a testimoniare e difendere il valore di quell’unità su cui si fonda un paese moderno», come spiega Artibani. «L’intenzione – precisa nell’introduzione – è quella di raccontare l’unità italiana partendo
13 gennaio 2011 • pagina 15
“Il Giornalino” e “Famiglia Cristiana” promuovono “150° Storie d’Italia”
L’Italia a fumetti contro la deriva di Francesco Lo Dico dalle divisioni, dai momenti di separazione che l’Italia ha affrontato e superato, rivelando in questo la formazione di un carattere nazionale che va difeso quotidianamente, che
non va mai dato per scontato, che va conquistato giorno per giorno con il lavoro, l’impegno e il sacrificio di ciascuno di noi. In ogni storia ci sarà quindi un percorso, un viaggio av-
venturoso, una decisione difficile e il superamento di una contrapposizione che potrà essere geografica, militare, sociale o generazionale». Statisti, deuteragonisti, condottieri
In tempi di “one man show” e crapule immemori, San Paolo produce un’opera storica provocatoria che pone al centro la gente comune duri e puri, non mancano di certo nel plot messo a punto dallo staff creativo. Di essi però non percepiamo che un’eco, una scaturigine che invece si addensa nello spirito di popolo nella sua forma astratta e primordiale.
Soldati, sacerdoti, medici, operai, madri e carabinieri, sono in queste striscie portatori sani di uno zeitgeist libertario e rivoluzionario, che presiede dal basso a tirare le corde del-
la storia ufficiale. Si parte da lontano, con i processi che dalla Roma antica sfociano nella prima guerra mondiale. Dalle guerre puniche del secondo secolo avanti Cristo (Gli Invasori), si balza alle invasioni barbariche che cambiano per sempre la storia dell’Impero (Memoria perduta). E poi c’è il quieto soqquadro del Medioevo (Italiani?) e la disfida sulla sponda di un rivo entrato nei manuali di storia (Quel fiume chiamato Volturno), come l’emissario riottoso e dirompente dell’unità nazionale. Bozzetto deamicisiano e alti simbolismo convivono anche nella storia del nersagliere Alessandro Barbero, folgorato sulla via di Porta Pia, e del medico Giovanni Cosatti, stretto nella morsa di una decisione difficile sullo sfondo della battaglia di Vittorio Veneto. Il secondo volume di Storie d’Italia volita invece dalla seconda guerra mondiale per poi lambire la frastagliata scogliera dell’Italia contemporanea. Ruvida, scolpita nella roccia, eppure dimentica di se stessa e abbandonata ai marosi dell’incuria.
Si va da un uomo accompagnato da due partigiani che deve consegnare una lettera misteriosa (Il postino), al viaggio per mare di Salvatore Pagano, un funzionario di polizia che viaggia nel passato. E ci sono infine gli studenti in visita a Roma (Una gita scolastica) che assistono al penoso e quanto mai attuale spettacolo di alcuni teppisti che inveiscono contro l’Unità d’Italia (un pietoso bianco e nero, ci impedisce di individuare il colore della loro camicia). A corredo dell’iniziativa, anche il Concorso scolastico nazionale intitolato Un’Immagine, una Storia - Disegna i 150 anni dell’Unità d’Italia, sostenuto per altro anche dal ministero della Pubblica istruzione nell’ambito della celebrazione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. L’invito a realizzare un disegno ispirato ai principali accadimenti storici del Risorgimento, è esteso a studenti e classi dagli 8 anni (terzo anno di scuola primaria incluso) ai 17 anni (terzo anno di scuola secondaria inclusa). È buona creanza suggerire ai giovani creativi il metodo migliore per approcciare il cimento: procurarsi fogli A4 e pennarelli nella cartoleria più vicina, non prima di aver controllato che la propria classe disponga ancora di un banco.
ULTIMAPAGINA
Si fa sempre più grave la situazione in Australia: per questa mattina all’alba la piena era attesa a Brisbane
Se l’alluvione porta in città i di Martha Nunziata on ha un nome, come i cicloni atlantici o gli uragani del Pacifico, ma l’alluvione che sta devastando il centro dell’Australia è il peggior disastro naturale nella storia del nuovo mondo da un secolo e mezzo a questa parte. Settimane di pioggia ininterrotta, che hanno allagato l’intero Queensland, un’area grande quanto Francia e Germania messe assieme, gonfiando le acque del fiume Brisbane ben oltre il livello di guardia (il picco della piena è previsto per l’alba di oggi), provocando già dodici morti accertati e oltre quaranta dispersi. La diga Wivenhoe, costruita a 80 chilometri dal centro, proprio per proteggere la città dopo le alluvioni del 1974, è già al limite di contenimento.
N
Brisbane, la terza città più grande dello stato-continente, è in ginocchio: la polizia ha chiuso le strade dei veicoli privati e di quelli non autorizzati, ha razionalizzato la fornitura dell’energia elettrica e sospeso tutti i servizi non essenziali. L’aeroporto è ancora in funzione, mentre la circolazione dei treni ha subito enormi ridimensionamenti, e anche il trasporto su acqua, con i battelli che collegano i quartieri a nord con quelli a sud della capitale, è interrotto. Nella notte arriverà da Sidney un distaccamento della Marina australiana, specia-
go gli argini del fiume, ma l’emergenza riguarda anche le città più piccole. Ipswich, la terza città della regione, è da ieri una città-fantasma: 1000 case sono state inondate, e altre 750mila proprietà, per la maggior parte in aperta campagna, sono adesso due metri sotto il livello del mare, con danni economici incalcolabili per una comunità che vive di agricoltura e di allevamento (il Queensland è il maggior produttore di lana del mondo). Le autorità hanno attrezzato cinque nuovi rifugi, aumentando la capacità dei ricoveri di fortuna
COCCODRILLI da 6500 a 16000. «Stiamo affrontando una delle prove peggiori della nostra storia - ha detto alla BBC Anna Bligh, il premier della regione - ma la supereremo solo se resteremo calmi. Questo non è il momento di cedere al panico, ma di restare uniti».
Alla furia degli elementi, poi, si aggiungono, in queste ore drammatiche, altri pericoli, come il rischio di contaminazione delle acque potabili, dopo che alcuni batteri di escherichia coli sono stati rinvenuti nell’acquedotto di Chinchilla: immediato l’allarme delle autorità, che ha suggerito alla popolazione di bere soltanto acqua in bottiglia. Le scorte, però, sono al minimo, dopo l’assalto ai supermercati degli ultimi giorni. Da sempre simbolo di natura e animali in libertà, il Queensland, adesso, deve fronteggiare anche l’emergenza legata agli animali. La città colpita di più è Rockhampton presso la foce del fiume Fitzroy, da ieri sera completamente isolata via terra ed in buona parte sommersa dalle acque. Qui gli abitanti sono terrorizzati da coccodrilli e serpenti che, in fuga dall’acqua, si nascondono nelle case alla ricerca di un rifugio asciutto. Ai residenti, che si spostano in barca, viene raccomandato di non entrare in acqua, per
Le autorità hanno attrezzato cinque nuovi rifugi, aumentando la capacità dei ricoveri. Ma raccomandano a tutti di evitare di entrare in acqua: c’è il pericolo che sia infestata di rettili lizzato nelle situazioni di emergenza, che dovrà mettere in sicurezza uno dei pontili di ferro, da peso di 1,5 tonnellate, che si è disancorato e rischia di finire in balia delle onde del fiume. È un drammatico conto alla rovescia verso le prime ore dell’alba, quando il livello del Brisbane raggiungerà i 5,2 metri, costringendo i due milioni di abitanti della capitale del Queensland a prepararsi ad un’evacuazione di proporzioni bibliche. Sono già 400, finora, i cittadini che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni, quelle che sorgono lun-
nessun motivo, proprio per i pericoli rappresentati dalla presenza dei rettili in fuga. Tra i serpenti ce ne sono alcuni altamente velenosi, altri marroni e neri dal ventre rosso che si arrampicano sugli alberi e si nascondono nelle abitazioni. Adesso l’allarme riguarda anche la Grande barriera corallina, minacciata dai pesticidi che il flusso dell’acqua ha tirato via dai terreni delle fattorie e che stanno per riversarsi in mare. «L’impatto sarà disastroso sulle tartarughe e sul resto della fauna marina», avverte Nick Heath, portavoce del Wwf locale. Le
acque delle alluvioni si trovano adesso a circa 40 chilometri dalle isole Keppel, nella parte meridionale della barriera.
La Farnesina è rimasta in costante contatto con l’Ambasciata d’Italia a Canberra e con il Consolato a Brisbane per verificare l’eventuale coinvolgimento di connazionali. Al momento, né le autorità australiane, che da giorni stanno attuando un programma di soccorso e assistenza a largo raggio, né le Rappresentanze diplomatiche italiane, hanno registrato vittime o feriti italiani. Il primo pensiero è salvare i propri cari, i propri animali domestici, gli oggetti personali e di valore ed affettivi, eppure può anche capitare di volere rischiare la propria vita per salvare un cucciolo di canguro. È quello che è successo ad un giovane uomo non identificato, fotografato in abiti sportivi appena fuori del centro di Ipswich, mentre trae in salvo il cangurino da una zona allagata. Storie di straordinario eroismo, come quella del piccolo James, appena 13 anni, che, nonostante non sapesse nuotare, ha chiesto ai soccorritori di prendersi cura del fratellino più piccolo prima di pensare a lui, in bilico sul tetto della loro casa allagata nella campagna di Brisbane. Quando sono tornati a prenderlo, però, James era già stato inghiottito dalla furia delle acque: è diventato un eroe, un eroe bambino che ha cercato di resistere agli eventi della natura.