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I vigliacchi muoiono molte volte
he di cronac
prima della loro morte. Il coraggioso sperimenta la morte una volta sola
9 771827 881004
William Shakespeare di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 4 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
In commissione era finita 15 a 15. Bersani: «Dimissioni». Fini: «Un voto nel merito, non una scelta politica»
Lo strappo istituzionale Il Parlamento boccia il federalismo ma il governo lo approva per decreto Il Senatùr era partito lancia in resta: «Se non passa si va alle elezioni». Invece, dopo il no della Bicamerale e un vertice a Palazzo Grazioli, il consiglio dei ministri decide il colpo di mano Con 315 voti, la Camera rimanda gli atti a Milano
PER LE RIFORME
Ma è interesse del Carroccio staccare la spina
La bugia di Berlusconi diventa “bugia di Stato” Scontro in Aula sul processo Ruby: il Pdl insiste sulla persecuzione. L’opposizione: «Si dimetta e si scusi con il Paese»
di Giancristiano Desiderio a parola che conta in ciò che resta della maggioranza di governo non può che essere la parola del presidente del Consiglio. Ma quanto vale oggi la parola di Silvio Berlusconi? La domanda, dopo il voto della Bicamerale sul federalismo, se la pone Umberto Bossi. E ha i suoi buoni motivi per farlo. Un po’ tutti ora gli chiedono il conto ricordandogli quanto aveva detto alla sua maniera un po’ sbruffona: o il sì o il voto. C’è stato un pari e patta che per legge equivale a un no. segue a pagina 2
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R. Paradisi • pagina 4
Tra paura e omertà
La doppia menzogna a maggioranza del Parlamento italiano ha commesso un atto grave e derisorio nei confronti dei cittadini che sarebbe chiamata a rappresentare. Ha deciso di farsi scudo di una palese bugia per approdare ad un’ulteriore bugia. a pagina 4
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L’opposizione egiziana: «Il mondo non sostenga un regime che uccide la sua gente». Si moltiplicano gli appelli internazionali
A un passo dalla guerra civile Al Cairo ormai è caos. Cecchini sparano sulla folla: nel mirino, occidentali e giornalisti. L’Onu decide di abbandonare il Paese TEMPI CERTI E CONDIVISI
di Pierre Chiartano
Transizione subito. O l’Egitto rischia (e con lui il mondo) a cartina geopolitica di vede oggi confrontarsi due blocchi, un blocco “del rifiuto e dello scontro”(Iran, Turchia, Siria, Gaza), e un blocco del dialogo o dello status quo (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e Cisgiordania). Le rivolte e le situazioni critiche si stanno soprattutto svolgendo in questa seconda area. a pagina 10
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Parla il generale Camporini partita la caccia allo straniero e c’è un tariffario per la violenza che sta dilagando in Egitto. Dai 40 ai 100 dollari verrebbero pagati i supporter pro-Mubarak armati di mazze e coltelli per impedire al popolo della protesta di entrare in piazza Tahrir. Arruolati da membri del Partito nazionale democratico (quello del presidente) al Cairo e nella provincia. Insomma, l’Egitto è nel caos, tanto che l’Onu ha deciso di abbandonare il Paese. a pagina 10
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
«Inutile invocare la democrazia dove non c’è»
NUMERO
«L’Occidente sbaglia. Principi per noi scontati, in tutto il Medioriente sono destabilizzanti» Luisa Arezzo • pagina 12 24 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
Ma è interesse della Lega andare oltre Berlusconi di Giancristiano Desiderio segue dalla prima ora Bossi, rimangiandosi quanto aveva detto, annuncia: «Non penso ci sarà una ritorno immediato alle urne, Berlusconi aspetta prima il voto dell’aula». E proprio qui è il punto. Chi è che dovrebbe garantire quel voto? Berlusconi. Ma se c’è una cosa che oggi Berlusconi non è più in grado di fare è proprio garantire qualcosa al suo alleato più importante. Bossi lo sa e, al di là di ogni esito numerico, è già oltre Berlusconi. Il pareggio della commissione - 15 a 15, co-
me nel tennis - è scomodo. Nella maggioranza, infatti, ci sono già due scuole di pensiero: una era già nota ed è quella leghista che annuncia il voto ma non sembra avere il coraggio ultimo e decisivo di staccare la spina a un governo che, come il noto eroe, crede di essere vivo perché non sa che è morto. La seconda è quella berlusconiana che ha già annunciato che tutto sommato del voto in Bicamerale se ne può fare a meno e quindi si andrà avanti anche se non si sa ancora bene come. Ma proprio qui nasce il problema politico di Bossi e della Lega. Se, infatti, la maggioranza di governo fosse solida e coesa, allora, si potrebbe anche pensare in grande e procedere nonostante tutto e portare il provvedimento prima in Consiglio dei ministri e poi davanti al Parlamento.
sono molto diversi. La maggioranza è politicamente esplosa da un pezzo ed è numericamente risicata. In questa situazione Berlusconi non è il garante della coesione della maggioranza, bensì il suo primo elemento di logoramento e fragilità. La cosa potrà apparire paradossale solo per coloro che, posti davanti alla crisi del centrodestra, si fermano al primo corno del dilemma - “senza Berlusconi c’è il diluvio” - e non considerano l’altra metà della luna: il centrodestra di Berlusconi è ormai giunto al termine della sua lunga e avventurosa corsa. In queste condizioni Berlusconi garantisce il passato ma non il futuro perché è prigioniero del presente. Ma fino a quando la Lega potrà accettare di essere prigioniera del presente che tramonta? Le strade tra il Pdl berlusconiano e la Lega si sono ormai separate. Se per Berlusconi il federalismo è un motivo per resistere, per la Lega il federalismo è un motivo per andare al voto. Ma, al di là dell’esito finale, la Lega sa già di doversi muovere in una direzione che la porta a guardare oltre Berlusconi.
Il premier non è più garante della coesione dello schieramento, bensì il primo elemento di logoramento
Sarebbe una strada ancora discutibile, ma anche politicamente responsabile nel senso che la maggioranza si assumerebbe nelle istituzioni e davanti al Paese il compito di approvare in via definitiva la riforma federalista. I fatti, però, come tutti sappiamo,
il fatto L’esecutivo battuto dal Parlamento sceglie la strada della forzatura istituzionale. Ed è subito scontro con le opposizioni
Federalismo autoritario La Bicamerale boccia la riforma ma la maggioranza fa finta di niente. Dopo un vertice dal Cavaliere, il governo approva il testo per decreto di Francesco Pacifico
ROMA. «Soltanto voi sapete quello che ho dovuto sopportare». Non sono passate nemmeno due ore dalla bocciatura in Bicamerale del federalismo municipale, dal no del tanto corteggiato Mario Baldassarri, che Roberto Calderoli si sfoga con i pd Pierpaolo Baretta e Sergio D’Antoni. E ricorda: «La commissione Bilancio del Senato che mi dice che non c’è copertura sulla cedolare secca e che devo riscriverla. Quella della Camera, quando l’ho legata alla legge di stabilità, che mi costringe a riproporre la prima versione...».
A metà giornata il ministro è sfatto. È reduce dalla seconda bocciatura sul federalismo municipale: dopo la bicamerale che respinge il parere favorevole sul decreto, ecco alla Camera la commissione Bilancio che non si esprime sul testo perché ormai non esiste più. Proprio davanti alla commissione presieduta dal fido Giorgetti Calderoli viene accolto da Baretta e D’Antoni. Una sigaretta, un sorriso e una chiacchiera per tirarlo, poi la ferale domanda: «E ora?» e l’ex dentista di Bergamo sbotta: «Di primo impatto la voglia è..., ma non lo so, decideremo insieme». Più baldanzoso, davanti ai cronisti, il titolare della Semplificazione scandisce:
«È stato respinto un parere, non il provvedimento». Intanto, a Palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi decidono di andare avanti, con il Senatùr che soltanto 48 prima ha minacciato le elezioni e adesso impone all’alleato una pezza per non far decadere il testo sul fisco dei Comuni. Il Cavaliere avrebbe tranquillizzato i suoi uomini e gli alleati con un «andremo avanti con il programma e alla fine
arriveremo all’approvazione del federalismo, perché la maggioranza ha i numeri». E per far comprendere che la linea tra Pdl e Lega è comune, il leader del Carroccio scandisce davanti ai cronisti: «Non credo che si andrà alle elezioni». Ma la soluzione ha il sapore dello strappo: ieri un Consiglio straordinario dei ministri ha approvato in via definita il decreto, senza però la vidimazione del
Parlamento. Una strada che non è piaciuta a Gianfranco Fini. Il presidente della Camera chiarisce il concetto prima in un parere destinato alla Bicamerale, quindi in un incontro riservato con Umberto Bossi: si deve tornare al decreto approvato dall’esecutivo lo scorso 4 agosto, quello che non prevede l’addizionale agganciata all’Iva e gli altri pezzi di fiscalità concordati con i sindaci. Il che vorrebbe dire altri sei mesi di lavoro, nonostante la delega scada la prossima estate. E per non lasciare nulla al caso, ecco Fini dichiarare alla stampa: «In commissione c’è stata un bocciatura nel merito e non un voto politico». Per il leader di Fli sarebbe un «caso senza precedenti» che la maggioranza provasse ad andare avanti come se nulla fosse. «Le Forze politiche di opposizione che hanno sostenuto una trasformazione in senso federale dello Stato si sono poi trovate nella condizione obbligata di esprimere un diniego». Un faccia a faccia molto duro. Il portavoce del presidente di Montecitorio smentisce che Fini avrebbe anche aggiunto al Senatùr che «con questo governo e con questa maggioranza il federalismo non si farà». Fato sta che da più parti si racconta che i due abbiano par-
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Come andrà a finire • parla Paolo Feltrin
«Il Carroccio uscirà dall’angolo in Aula» «La vera resa dei conti sarà alla Camera. A meno che Berlusconi davanti ai giudici...» di Franco Insardà
ROMA. «È l’ennesimo posizionamento tattico della Lega», il politologo Paolo Feltrin non ha dubbi e aggiunge: «Bisogna chiedersi a Bossi che cosa conviene di più: fare l’indispettito e dire si va subito a elezioni, oppure dimostrare per l’ennesima volta di essere conciliante con le ragioni del premier e della coalizione». Appunto che cosa conviene di più? Dalle scelte di tutti questi anni del Carroccio è chiarissimo che la posizione più conveniente è quella moderata. In che senso? In questo modo la Lega può aumentare l’appeal presso l’elettorato Pdl, perché non è stato il partito di Bossi che ha cercato la rottura, il casus belli, l’espediente pur di andare a elezioni e mettere in difficoltà Berlusconi. Anzi passeranno per quelli che hanno cercato in tutti i modi, neanche fossero dei santi, di tenere in piedi la baracca. E se, poi, si andasse a votare... La Lega potrà dire di averle tentate tutte, ma nello stesso tempo potrà sostenere la tesi che votandola si sosterrà un partito coerente che ha sempre avuto ben chiaro l’interesse dei suoi elettori. Dalle opposizioni, però, è arrivato un messaggio chiaro a Bossi: finché c’è Berlusconi il federalismo non passa.
È evidente il tentativo di forzare il gioco per quanto riguarda il Pd, dall’intervista di D’Alema in poi. E questo atteggiamento risponde a un cambio abbastanza rilevante dell’opinione pubblica moderata. Professore ce lo può spiegare meglio? Per la prima volta, guardando con attenzione gli ultimi sondaggi, emerge un antiberlusconismo moderato. Questo, fino a ieri, era un punto di difficoltà sempre maggio-
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L’idea di fondo del partito di Bossi è seguire tutto quello che gli farà prendere più voti
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re tanto di Fini quanto di Casini. Quello cioè di avere una posizione di rottura contro Berlusconi non tanto condivisa dal loro elettorato. Mentre tutta la vicenda delle ultime settimane in qualche misura ha modifica la situazione. Gli elettori del Terzo Polo, quindi, sarebbero sulle stesse posizioni di quelli di sinistra? Non dico questo, ma per la prima volta si registra una significativa maggioranza degli elettori di Fini e Casini che si professano antiberlusconiani.
lato del futuro del Paese e di come uscire dall’impasse creato da un Berlusconi sempre più ingombrante. Il Terzo polo è compatto su questa strada: il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha infatti notato che «il voto è sempre un evento democratico». Il vicecapogruppo alla Camera, Gian Luca Galletti, ha persino sostenuto che ieri si è respinto «un Porcellum federalista». Fermo nel no anche il Pd, che ha chiesto alla maggioranza «di fermarsi». Ma a Sant’Apostoli si rendono anche conto che difficilmente il premier riuscirà a evitare nuove frizioni con il Carroccio. E provano ad approfittarne. Non a caso Pier Luigi Bersani ha mandato alla Lega un messaggio inequivocabile: «Se Berlusconi fa un passo indietro si creano le condizioni politiche tali da permetterci di discutere sul federalismo. Altrimenti Lega e governo finiranno nel fosso». A ben guardare nel voto di ieri mattina non c’è soltanto uno stop che rallenta il provvedimento sul quale ormai si regge la maggioranza. Nel 15 a 15 in commissione Bicamerale c’è soprattutto la presa d’atto che è quasi impossibile governare con numeri così risicati. Non a caso la centrista Linda Lanzillotta mette il coltello nella piega, quando
Questo che cosa può significare? A mio avviso questa forzatura di un fronte che sostiene che si può fare tutto a condizione che Berlusconi si metta da parte riflette queste nuove tendenze popolari. Questo posizionamento tattico può funzionare? A una sola condizione: che duri poco. Le posizioni aventiniane hanno una loro ragione di essere se si ottengono in tempi brevi dei risultati, altrimenti sono destinate a fallire. Quale può essere il breve periodo? Ritengo che molto dipenderà da quello che succederà in questo fine settimana a Milano. Mi riferisco, ovviamente, alla decisione dei giudici sul caso Ruby. Che cosa dovrebbe succedere? O emerge qualcosa che ulteriormente aggrava la posizione di Silvio Berlusconi, rendendola instabile. Oppure questa posizione frontista è difficilmente sostenibile alla lunga. E la Lega? L’atteggiamento del Carroccio si inserisce perfettamente in questo ragionamento. È in surplasse in attesa di vedere le carte e in quale direzione si giocherà la partita. E le elezioni evocate, a giorni alterni, da Bossi, Berlusconi e da altri sono vicine? In questa situazione il voto è un salto nel buio per tutti, perché non c’è una strategia chiara di allean-
dice che «Umberto Bossi, invece di minacciare le elezioni, dovrebbe rendersi che per la seconda volta Silvio Berlusconi mantiene quello che non gli promette», dando per certo che dopo il no alla devolution anche il federalismo fiscale diventerà preso lettera morta. E pensare che il Pdl le ha provate tutte per far passare il testo. Ma come ha notato lo stesso Baldassarre «soltanto nel-
ze, soprattutto tra chi si oppone al Cavaliere. Tutti, per una ragione o per un’altra, hanno bisogno di tempo. Ho l’impressione che ognuno dica di voler andare al voto per testare l’elettorato con qualche sondaggio. La coalizione di centrodestra, almeno fino a oggi, ha chiara l’alleanza e il premier. La Lega quindi è sempre più di governo e sempre meno di lotta? Non è esattamente così, perché ritengo che si prepara con questi atteggiamenti governativi a fare il pieno dei voti del Pdl, per diventare un attimo dopo sempre più di lotta. Un atteggiamento utilitaristico quindi? L’idea di fondo della Lega è: in questo momento faccio quello che mi fa prendere più voti. E un attimo dopo può anche cavalcare la protesta, dall’alto di un risultato eccezionale. E se dovesse vincere il centrosinistra alle prossime elezioni che cosa farà? La Lega scatenerà tutte le sue batterie d’armi, pronte alla lotta.
stesso Baldassari, che per motivi diversi avevano mostrato aperture se il testo fosse stato cambiato. Lo stesso Bossi, dopo aver visto Fini per forzare i suoi paletti, si è presentato a Palazzo San Macuto dove si tengono i lavori della commissione. E con lui anche Giulio Tremonti, che però è intervenuto soltanto per stigmatizzare un passaggio di Baldassare, nel quale l’econo-
Forzatura del Pdl: approvazione in Consiglio dei ministri del decreto. Fini e Casini pronti alle barricate. Galletti (Terzo polo): «Fermato il Porcellum federale». Ma la base della Lega ribolle l’ultima giornata ha aperto sulla proposta di coprire l’Imu con un pezzo di Irpef, ha compreso che in commissione c’era la volontà e lo spirito per fare una grande riforma. Invece è andata avanti su un testo che non ha nulla di federalismo. Perché tra il combinato disposto da mancata è autonomia e assenza di sgravi alle famiglie, ne è nato un gran pasticcio, in grado soltanto di far aumentare le tasse». Sì, la maggioranza, si è mossa male e troppo tardi. Nelle ultime 48 ore sono stati tanti i tentativi di convincere gli esponenti del Pd del nord, i centristi o lo
mista ha rivendicato di aver coniato lo slogan «meno tasse per tutti». E alla precisione del ministro ecco l’ex allievo di Modigliani ribattere che invece nell’attuale governo si legge «una linea di continuità con Visco».
Pare che il Carroccio avesse anche ipotizzato di votare il decreto per blocchi separati, provando a portare a casa un parere positivo sull’agganciamento dell’addizionale all’Iva o sul fondo inquilini. Ma non se ne è fatto nulla, anche perché i relatori di opposizione (Giuliano Barbolini del Pd e Felice Bellissario
di Idv) hanno anche ritirato le loro mozioni per evitare alla maggioranza degli escamotage. Poi è stato 15 e 15 e tutte le mediazioni sono andate in cavalleria. Volente o nolente, il cerino passa in mano alla Lega. In Transatlantico erano in molti a raccontare che Bossi avrebbe offerto a Fini «un patto di legislatura», perché «il federalismo è cosa mia e non di Silvio». Fatto sta che il Carrocio si sente a dir poco tradito dall’atteggiamento del Cavaliere. Il Rubygate è visto soprattutto come un boomerang per il responsabile del Viminale Roberto Maroni. Il quale avrebbe lanciato un aut aut agli alleati – o federalismo o voto – perché teme che restare fedeli al Pdl possa portare non pochi contraccolpi al Carroccio. Senza contare che lui – da tempo forte di rapporti trasversali con l’opposizione – non gradirebbe la stima che nel Pd sta raccogliendo il collega Roberto Calderoli. In questo scenario diventa una scheggia impazzita anche Giulio Tremonti. I sindaci leghisti accusano i vertici di via Bellerio di essere troppo compiacenti con chi toglie i soldi al Nord e non impone di risparmiare al Sud. Non a caso è stato lui, ogni qualvolta Calderoli trovava un’intesa con il Pd, il Terzo Polo e gli enti locali a mettersi di traverso.
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pagina 4 • 4 febbraio 2011
il fatto Il relatore del Popolo della Libertà attacca di nuovo sul tema della persecuzione giudiziaria. L’Udc: «Il premier si faccia processare»
La menzogna di Stato
Con 315 voti favorevoli e 298 contrari, il Parlamento rimanda a Milano le carte sul processo a Berlusconi. Ora la decisione passa alla Cassazione la polemica di Riccardo Paradisi
aula della Camera ha votato per la restituzione alla procura di Milano della richiesta di perquisizione degli uffici del tesoriere di Silvio Berlusconi, nell’ambito dell’inchiesta Ruby. A favore della restituzione, come proposto dalla giunta per le Autorizzazioni a procedere, si sono espressi 315 deputati. I no sono stati 298. Un astenuto sui 614 presenti. L’aula della Camera aveva avviato nel primo pomeriggio la discussione. La tesi della maggioranza,
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ROCCO BUTTIGLIONE
al dottor Ostuni, capo di gabinetto del questore di Milano, per il rilascio dell’allora minorenne Karima. «Ostuni – racconta Leone era a letto nella sua casa di Sesto san Giovanni, lo dimostrano le celle telefoniche. La concussione si sarebbe quindi consumata in territorio incluso nella competenza del tribunale di Monza». Del resto, aggiunge il relatore di maggioranza: «se la Procura è intenzionata a chiedere il giudizio abbreviato per l’evidenza della prova, a cosa serve la perquisizione se il quadro delle prove è completo?». Insomma tutta la vicenda confermerebbe che «c’è un intento persecutorio alla luce dei precedenti rapporti tra Berlusconi e quella Procura che definire burrascosi è dir poco». Alla tesi della maggioranza le opposizioni rispondono compatte. Pronunciando un netto ”no”alla proposta di restituire gli atti alla Procura di Milano che secondo Pd. Idv e Udc è del tutto legittima. Il giro delle dichiarazioni di voto ruota intorno a queste tesi contrapposte. «Il giudizio internazionale è tremendo – dice la Giorgio Malfa del gruppo misto – e il capo del governo oltre a non sottrarsi al giudizio farebbe bene a fare un passo indietro». Ancora più duro Bruno Tabacci dell’Api: «Sbaglia Berlusconi a sottrarsi al giudizio e soprattutto a mettere in frizione i poteri dello Stato. Berlusconi passerà alla storia per aver interpretato una delle pagine meno nobili e più opache della storia politica italiana». Scatenato il capo dell’Idv Antonio Di Pietro che s’appella
«Si difenda nel processo e non dal processo. Oppure si dimetta e si scusi» espressa da Antonio Leone, relatore in aula per il Pdl, è che «gli atti dell’indagine vanno restituiti alla Procura di Milano, essendo competente il Tribunale dei ministri».
Quello contestato a Berlusconi, dice Leone, «è un reato funzionale (la concussione) e quindi non può essere un tribunale ordinario a giudicare». C’è un precedente – ricorda Leone – che riguarda il ministro Matteoli: «Gli atti furono rimessi al collegio degli reati ministeriali e la procura lì li inviò». Leone cita un altro precedente, del 19 marzo 2010, quando la Procura di Trani inviò al Tribunale dei ministri le carte delle presunte pressioni di Berlusconi su un componente Agcom. «Quella Procura espresse un dubbio sulla configurabilità del reato ministeriale, ma disse che la valutazione spettava esclusivamente al Tribunale dei ministri». Anche territorialmente secondo il Pdl il Tribunale di Milano è incompetente e la prova sarebbe nella telefonata che Berlusconi fece
DARIO FRANCESCHINI
«Lei è sceso in campo per fare il bene del suo Paese. Adesso sta facendo del male all’Italia»
La maggioranza tra paura e omertà
Così per la Camera Ruby è davvero la nipote di Mubarak a maggioranza del Parlamento italiano, ieri, ha commesso un atto grave e in un certo senso derisorio nei confronti dei cittadini che sarebbe chiamata a rappresentare. Questo perché ha deciso di farsi scudo di una visibile bugia «Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak» - per approdare ad un’ulteriore bugia - «Berlusconi agiva nelle sue qualità di presidente del Consiglio» - e di conseguenza trasformare la bugia del cittadino Berlusconi in una “menzogna di Stato”.
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Rimandando alla Procura di Milano le carte relative all’inchiesta – che, ricordiamo, configura due ipotesi di reato: concussione e prostituzione minorile – e chiamando in causa il Tribunale dei ministri, i parlamentari hanno preso in giro la maggioranza assoluta della popolazione italiana. Quella stessa popolazione che, accusata di crimini simili, viene condannata alla detenzione preventiva; e che, se mente davanti ai giudici, vede aggravarsi il proprio casellario giudiziario. Si è voluto sostenere in Aula che la notte dell’arresto di Karima El Mahroug, Silvio Berlusconi abbia telefonato alla questura di Milano per salvare l’Italia da una possibile crisi diplomatica. E si ignora il fatto che il premier abbia chiesto al questore di “affidare” la stessa Karima al consigliere regionale Nicole Minetti, rendendo di fatto ufficiale la propria consapevolezza della minore età della ragazza. Guardando al futuro, abbiamo un premier che si dice pronto a deporre sulla questione e spiegare i motivi reali alla base della telefonata in Questura. L’importante, sostiene il premier per bocca della propria maggioranza, è che questo avvenga nella sede istituzionalmente corretta. Ma il Tribunale dei Ministri viene formato estraendo a sorte tra i magistrati della Procura di Milano: siamo pronti a scommettere che, una volta passata questa fase, il presidente del Consiglio userà un’altra bugia per evitare la deposizione. Insomma, sostenendo che l’oramai tristemente famosa “Ruby Rubacuori” fosse la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak (prima menzogna), il premier ha agito nella sua funzione di premier (seconda menzogna). In questo modo il Popolo della Libertà e la Lega Nord hanno reso quella doppia menzogna un atto istituzionale teso a salvare il proprio leader da una situazione molto grave. E hanno dimostrato il proprio disprezzo per le leggi vigenti in Italia e per il buon senso di chi abita questo Paese.
Siamo pronti a scommettere che mentirà per non deporre al Tribunale dei ministri
addirittura alla piazza: «Berlusconi ha trasformato il parlamento in una succursale aziendale che sforna leggi ad personam. Siamo qui per capire come sistemare i suoi guai giudiziari, perché lei vuole garantirsi l’impunità e sottrarsi al suo giudice naturale. Questo Parlamento – attacca ancora Di Pietro – voterà una decisione incostituzionale per paura di andare a casa e non affrontare le elezioni». Infine l’appello alla piazza: «Faremo una grande manifestazione per proclamare l’inutilità di questo presidente del Consiglio, questo raiss nostrano» L’esponente di Fli Lo Presti si dice invece “imbarazzato”«perché Berlusconi è stato una speranza e ora è una delusione per milioni di italiani. Al netto di considerazioni morali il voto di Fli sarà contrario alla relazione di maggioranza non solo perché non crediamo ci siano persecuzioni della magistratura ma perché riteniamo che il presidente del Consiglio abbia il dovere di difendersi nel processo dove può dimostrare l’estraneità ai fatti contestati».
Rocco Buttiglione dell’Udc: «Siamo chiamati a decidere se è competente la procura di Milano o quella di Monza. Questo già è imbarazzante. Certo ci sono stati in passato atti di inimicizia tra Berlusconi e la procura di Milano. Ma i materiali che sono emersi rendono plausibile la tesi della magistratura. È dunque interesse del capo del governo e di tutta la nazione fare chiarezza su una vicenda che lede nel mondo credibilità e prestigio dell’Italia». La questione non è giuridica, dice Buttiglione, è politica. «Noi siamo garantisti, non amiamo l’uso disinvolto delle intercettazioni, documenti riservati che finiscono sui giornali. Ma qui siamo di fronte a uno scandalo pubblico. La politica non può essere separata dalla morale. Machiavelli, che a differenza di me non era un bigotto, ha scritto che il Principe deve almeno sembrare buono. Il cittadino si aspetta dalla politica anche un esempio morale. Quando questo viene meno si corrode il rapporto di fiducia tra rappresentanti e cittadini». Berlusconi non dia dunque l’impressione di prendere tempo: «Si difenda nel processo e non dal processo o, altrimenti, dia le dimissioni». A difesa del premier la barriera leghista. Lussana: «La
Come andrà a finire • parla Carlo Federico Grosso
«Un rito immediato, ma a ostacoli»
Il procuratore capo di Milano Bruti Liberati annuncia: «Nel fine settimana risolveremo il nodo giuridico» di Franco Insardà
ROMA. Il Rubygate si sposta a Milano. Quel-
Karima el Mahroug, nota come “Ruby Rubacuori”, al centro dell’inchiesta della Procura di Milano che vede il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi indagato per concussione magistratura per essere credibile deve dimostrare di saper rispettare gli altri poteri dello Stato soprattutto quando sono emanazione del voto popolare. Qui invece è evidente una persecuzione: dal gennaio 2010 sono state sottoposte a monitoraggio le persone che andavano ad Arcore, rese pubbliche 700 pagine di atti e intercettazioni, utili solo al gossip sui giornali e alla macchina del fango». Siccome poi il reato contestato è la concussione come si fa a pensare, si chiede l’esponente Lussana «che sia un reato possibile al di fuori dell’esercizio
MAURIZIO PANIZ
lamento e il governo mentre l’economia italiana è alla deriva e ci sono persone e imprese che attendono risposte che non arrivano. Per il bene dell’Italia lei si deve dimettere».
La difesa più accorata del premier è affidata al pidiellino Maurizio Paniz: «Esiste un diritto alla privacy tanto importante che il garante inascoltato è dovuto intervenire nei giorni scorsi a non divulgare informazioni riservate. Ma c’è qualcuno che abbia mai pagato, tra magistrati e inquirenti, per le fughe di notizie? Questo diritto alla privacy per Berlusconi è stato violato. Alla spasmodica ricerca di qualcosa di utile per danneggiarlo. È ora di finirla di inventarsi reati: la gente vuole che la giustizia persegua i ladri e i delinquenti non che si spenda un milione di euro per spiare le feste e le cene del presidente del Consiglio. Questi sono gli sperperi da denunciare altro che la mancanza di carta negli uffici giudiziari». Per Paniz il fumus persecutionis c’è eccome: «La casa di Berlusconi è stata monitorata mesi prima della famosa telefonata per Ruby. Centinaia di pagine di fango ha prodotto il potere inquirente per alimentare la spinta mediatica di denigrazione sistematica del premier. E poi che senso ha chiedere una perquisizione se c’è una prova evidente per il giudizio immediato? Tanto più che questa richiesta arriva da una procura incompetente ma storicamente persecutoria nei confronti di Berlusconi».
«Anche chi ha l’onore di ricoprire funzioni pubbliche ha diritto alla sua intimità» delle proprie funzioni istituzionali e dunque non sia competenza del tribunale dei ministri?».
Il Pd schiera Dario Franceschini: «Voglio parlare di politica non di indagini e non voglio fare nemmeno moralismo: gli italiani si sono già fatti un’idea sullo stile di vita del presidente del Consiglio. Lei si proclama innocente e perseguitato ma una persona innocente non ricorre a trucchi, apre le porte di casa alla perquisizioni. Lei vuole usare la sua maggioranza per sottrarsi al giudizio. Lei blocca il par-
lo che comincia oggi sarà un weekend di riflessione per i magistrati milanesi. I procuratori aggiunti, Ilda Boccasini e Pietro Forno, e il Pm Antonio Sangermano dovranno, infatti, decidere se chiedere il giudizio immediato nei confronti del premier per entrambe le ipotesi di accusa formulate oppure se percorrere un doppio binario: procedere con la richiesta di giudizio immediato per la sola concussione (relativa alla telefonata fatta da Berlusconi alla questura di Milano la sera del 27 maggio scorso per impedire che Ruby, allora minorenne, fosse affidata ad una comunità così come invece aveva stabilito il pm dei minori quella sera, Anna Maria Fiorillo) e con la citazione diretta a giudizio per la prostituzione minorile così da evitare possibili bocciature da parte del gip. Soltanto lunedì i magistrati prenderanno una decisione scioglieranno la loro riserva sulle scelte processuali che intendono seguire, dopo aver tra l’altro esaminato diverso materiale sequestrato nelle abitazioni di via appartamenti Olgettina, abitati dalle ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore, che comprende anche alcune fotografie. Ma dalla procura milanese ieri si è appreso che si tratterebbe di fotografie “del tutto irrilevanti”».
Sulla polemiche relative ai soldi spesi per le intercettazioni nella vicenda Ruby il procuratore capo di Milano, Edomondo Bruti Liberati, ha ribadito: «Siamo stati attenti ai soldi dei contribuenti. I bersagli sono stati una quarantina e per le intercettazioni sono stati spesi in tutto 26 mila euro». Sempre sulla vicenda Ruby il ministro degli Esteri Franco Frattini, rispondendo in Senato a un’interrogazione del vicepresidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, che queste collegate possano aver esposto a ricatti sul piano internazionale il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. ha dichiarato: «Non sono mai giunte, tramite la rete diplomatica o tramite servizi, ipotesi circa una presunta ricattabilità del premier Berlusconi, né notizie di tentativi di forme di pressione da parte di potenze straniere in tal senso o di organizzazioni criminali». Secondo l’ex vicepresidente del Csm. Carlo Federico Grosso «la magistratura dovrà valutare gli elementi tecnici che ha per giudicare e dovrà rispondere sulle questioni sollevate applicando la procedura». Seguendo questo ragionamento a liberal il professor Grosso disegna uno scenario procedurale che potrebbe prendere corpo da lunedì. «Ritengo che la procura di Mila-
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no sia intenzionata a chiedere il rito immediato per tutte e due le ipotesi di reato che vedono interessato il presidente Berlusconi. Questa mi sembra l’ipotesi più probabile. Un rito immediato che si basa sull’evidenza della prova». Se dovesse verificare questa ipotesi, spiega l’avvocato Grosso «il gip, entro cinque giorni, dovrà valutare se esistano o meno o presupposti, con l’evidenza probatoria e indiziaria, che sono a fondamento della richiesta della procura. In questo caso disporrà l’invio degli atti al Tribunale perché inizi il processo penale. In caso contrario rinvierà gli atti alla procura della repubblica per avviare la procedura ordinaria di giudizio».
Nel caso in cui il gip decida per il rito ordinario, aggiunge il penalista torinese «verrà fissata la prima udienza, durante la quale è presumibile pensare che i difensori dell’imputato solleveranno tutte le eccezioni possibili. A partire, sicuramente, dalla doppia questione di competenza del tribunale di Milano. Una incompetenza funzionale secondo la quale il titolare del processo dovrebbe essere il tribunale dei ministri, al quale i difensori chiederanno il rinvio. E una incompetenza territoriale con la richiesta che il processo venga spostato a Monza». A quel punto, ricorda il professor Grosso, una volta sollevate queste questioni «in via preliminare il tribunale dovrà decidere se accoglierle o meno. Se le accoglie manderà gli atti all’autorità giudiziaria che dovesse ritenere competente, se le respinge autoproclama la sua competenza e il processo va avanti». Ma sarà così? Per l’avvocato Grosso ci sono un’altra serie di questioni che potranno essere sollevate: «Nel caso in cui il Tribunale di Milano si dichiarasse competente ci potrebbe essere prima di tutto un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale tra poteri dello Stato. Ma il conflitto d’attribuzione, a differenza delle questioni di legittimità costituzionale, non sospende la durata del processo che continuerebbe in ogni caso». A questo bisogna, poi, aggiungere il famoso legittimo impedimento. «Infatti - conclude Grosso - a ogni udienza il premier potrà rinunciare alla presenza, adducendo un “legittimo impedimento” legato al suo ufficio. Il tribunale, di volta in volta, come ha stabilito la Consulta dovrà decidere sulla validità dell’impedimento». E secondo alcuni, in previsione di una decisione del gip milanese, il Consiglio dei ministri, previsto per oggi, sarebbe stato rinviato non a caso a martedì.
Oltre alla competenza e al conflitto di attribuzioni, i legali di Silvio Berlusconi potranno sollevare il legittimo impedimento del premier
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diario
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Vespa e Sgarbi «salveranno la Rai»
Trichet: l’inflazione torna a salire
ROMA. Via libera dal consiglio di
BRUXELLES. Per il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, le pressioni inflazionistiche a breve sono in rialzo ma non c’è allarme sulla stabilità dei prezzi sul medio-lungo periodo. L’istituto di Francoforte, ha detto Trichet, «continua a a riscontrare l’evidenza di pressioni al rialzo a breve termine sull’inflazione, soprattutto per quanto riguarda l’energia e le commodity. Questo però non ha influenzato la nostra valutazione che gli sviluppi sui prezzi restano in linea con la stabilità dei prezzi nel lungo periodo. Allo stesso tempo garantiamo un monitoraggio molto ravvicinato». «Le nostre analisi monetarie – ha concluso - indicano che le pressioni inflazionistiche dovrebbero essere contenute».
amministrazione della Rai ai palinsesti primaverili. Tra le novità, l’informazione anche nel prime time di Raiuno, con uno spazio affidato a Bruno Vespa dopo le puntate sui 150 anni dell’Unità d’Italia condotte con Pippo Baudo. In arrivo anche Vittorio Sgarbi con cinque prime serate il venerdì. Evidentemente entrambi hanno il compito di bilanciare una Rai – secondo la maggioranza – pendente verso sinistra. Il Cda, comunque, ha approvato il nuovo contratto triennale di servizio tra la Rai e il ministero. L’approvazione è avvenuta a maggioranza per l’assenza di Giovanna Bianchi Clerici e per l’astensione dei due dell’opposizione, Rodolfo De Laurentiis e Nino Rizzo Nervo.
Gli italiani scettici sugli immigrati ROMA. Gli italiani sono scettici nei confronti dell’immigrazione. Più della metà teme che la presenza degli stranieri contribuisca all’aumento della criminalità, e non fa distinzione in questo tra regolari e clandestini. Come negli Usa e in Spagna, anche se in misura minore, la maggioranza degli italiani ritiene che gli stranieri rappresentino una «zavorra fiscale», traendo più benefici in termini di servizi sanitari e sociali rispetto al loro contributo in tasse. Eppure, più la metà degli italiani è favorevole a concedere il diritto di voto ai regolari e il 65% guarda con ottimismo alle seconde generazioni e al loro livello di integrazione. È la fotografia scattata dal rapporto «Transatlantic Trends: Immigration 2010».
Torna in aula il killer di Via dei Georgofili. E intanto Provenzano chiede di essere scarcerato: «Sono vecchio e malato»
La mafia secondo Spatuzza
Il pentito al processo per la strage di Firenze: «Chiedo scusa a tutti» di Francesco Lo Dico
«Innanzitutto un buongiorno, e che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e sì, intendo rispondere alle vostre domande». Ha cominciato così la propria deposizione il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, testimone chiave per la procura di Firenze sulle stragi di mafia del 1993, in particolare la strage dei Georgofili.
FIRENZE. Per un mafioso che sembra affrontare il suo passato, un altro lo sfugge. O almeno ci prova. La giornata di ieri ha riflesso l’inversa parabola di Gaspare Spatuzza e Bernardo Provenzano in un diabolico gioco di specchi. L’uno, Gaspare Spatuzza, ha chiesto perdono per aver sfregiato Firenze nel corso della deposizione che l’ha visto chiamato in causa nell’aula bunker della città toscana nell’ambito del processo per le stragi del ’93. «Un perdono che può non essere accettato può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo», ha sottolineato il pentito davanti ai pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi. Ravveduto, Spatuzza, ma non pentito di tutto. Perché anche di fronte i giudici di Firenza, l’ex affiliato di Cosa Nostra ha ribadito i presunti rapporti maturati tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa Nostra nel quadro della sanguinosa estate del ’93. L’altro, il capo dei capi Bernardo Provenzano, ha presentato istanza di scarcerazione, per motivi di salute. Ma andiamo per ordine.
Scortato da sette agenti con il viso coperto per motivi di sicurezza, Spatuzza è arrivato in tribunale attorno alle 10.20, dove i magistrati l’avevano convocato per l’attesa testimonianza sulla strage di via dei Georgofili che vede imputato Francesco Tagliavia in collegamento dal carcere di Viterbo. Al riparo di un paravento, visibili solo i piedi, il pentito ha preso la parola dinanzi a numerose telecamere e a un pubblico nutrito, tra cui la scolaresca dell’Istituto tecnico per il turismo ’Marco Polo’di Firenze, accompagnata dagli
insegnanti. «Anzitutto buongiorno e che sia un buongiorno per tutti», ha esordito Spatuzza, che incentra la prima parte della sua deposizione su Francesco Tagliavia: «L’ho visto per la prima volta nell’86-87, periodo in cui eravamo partecipi per spingere il Partito socialista. C’è stato un incontro politico in Sant’Erasmo, in un ristorantino in via del Tiro a segno». Sollecitato dal pm Nicolosi, il mafioso di Brancaccio ha aggiunto che il suo ex capocosca «non era una persona comune, l’ho capito subito, quel giorno era tutto vestito di nero, non so se gli era morto il fratello. Descritto il primo approccio con il boss,
Spatuzza è poi entrato nel merito del processo, chiedendo perdono alla stessa Firenze che ne aveva subito le malefatte quasi vent’anni fa. «Nel maggio del 1993 – racconta – sono arrivato in questa città da terrorista, il nostro obiettivo era di colpirla al cuore e ci siamo riusciti. Oggi, diciotto anni dopo, vengo qui come collaboratore di giustizia, come uomo e come pentito e intendo chiedere perdono a questa città che ho sfregiato». Parole di riconciliazione tardiva, che l’associazione dei familiari delle vittime dei Georgofili romanda prontamente al mittente: «Bisogna che si rassegni, il nostro perdono non glie-
lo daremo mai – ha risposto la presidente Giovanna Maggiani Chelli – mi sono consultata anche con i parenti delle altre vittime, non ci riusciremo mai. Siamo con Spatuzza - ha aggiunto Maggiani Chelli - come collaboratore di giustizia, ma il perdono glielo darà Dio, quel Dio in cui lui crede. Ma non saremo noi quelli che lo aiuteranno ad andare in Paradiso». A proposito dell’attentato dinamitardo, Spatuzza aggiunge che era stato pianificato in una villetta alla presenza di Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Matteo Messina Denaro, Barranca e Giuliano. «Graviano – prosegue – mi comunica
che siamo lì per mettere a punto un attentato. Sul tavolo ci sono dei libri con figure artistiche, dei monumenti, delle fotografie. Per quello che ho capito loro avevano già fatto sopralluoghi a Firenze, parlavano di quei posti come se fossero già a conoscenza».
Il pentito ha poi continuato nella ricostruzione della stagione stragista di Cosa Nostra, riferendo anche di quelli di Roma presso le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, e di Milano, dove fu colpito il padiglione di arte contemporanea provocando cinque morti. «Tutti gli at-
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Rivoluzione digitale: non più carte e cartacce
Allarme Ue: in Italia il 20% dei giovani è semianalfabeta ROMA. In Italia un quindicenne su cinque è analfabeta. A lanciare l’allarme è la Commissione europea, che ha istituito un gruppo d’esperti indipendenti sull’alfabetizzazione presieduto dalla principessa Laurentien dei Paesi Bassi. A fare compagnia ai giovani «asini» sono anche numerosi adulti «privi delle capacità fondamentali di lettura e di scrittura, il che rende loro più ardua la ricerca di un lavoro e li pone a rischio di esclusione sociale», spiega una nota della commissione. Nell’area Ocse il Belpaese è in buona compagnia, anche se resta in coda per i bassi rendimenti nella lettura con oltre un punto percentuale in più sulla media europea (21,3%; dati Ocse-Pisa 2010). I ministri Ue si sono prefissi l’obiettivo di ridurre a meno del 15% entro il 2020 la percentuale di alunni che riscontra difficolta’ nella lettura, nella
tentati sono stati pianificati da Giuseppe Graviano», ha confermato Spatuzza, che aggiunge anche una grottesca nota di colore al tragico racconto: «Nel nostro gergo un attentato di chiamava ’bingo’». Poco dopo le tredici, il racconto del pentito giunge al punto più delicato dell’intero dibattimento: i presunti rapporti con la nascente Forza Italia. «A fine del ’93 Giuseppe Graviano mi dice: “Bisogna fare un attentato ai carabinieri“. Io obietto: “Non è che ci siamo portati dietro un po’ di morti che non ci appartengono?”. Giuseppe Graviano ha notato la mia debolezza e avere il cuore è una debolezza per Cosa Nostra. Allora ha detto: “È bene che ci portiamo dietro un po’ di morti. Capite qualcosa di politica? È in piedi una situazione che se va a buon fine sarà un bene per tutti soprattutto per i carcerati”. In seguito avvenne qualcosa di anomalo e Giuseppe Graviano disse di aumentare la potenza della bomba e perciò abbiamo utilizzato una tecnica che nemmeno i Talebani. Abbiamo aggiunto un bel po’ di chili di tondini di ferro». Una situazione politica che può andare a buon fine. Il processo entra nel vivo non appena Spatuzza chiarisce meglio il senso di un’affermazione di cui tutti intuiscono le probabili implicazioni. È il gennaio del 94, bar Doney, Roma. «Ho visto che Graviano era gioioso, felice. Mi disse: “Abbiamo chiuso tutto e ottenuto tutto quello che cercavamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti questa cosa, non come quei socialisti che ci avevano venduto”. Spatuzza precisa l’identità dei misteriosi vessilliferi in grisaglia di Cosa Nostra. Graviano, scandisce Spatuzza, «mi fece il nome di Berlusconi, la persona di Canale 5 e mi spiegò che dietro c’era un nostro paesano, Dell’Utri». Il pentito ribadisce poi la famigerata frase da lui stesso attribuita a Graviano in altra circostanza: «Ci siamo messi il Paese nelle mani». Ma il presidente del Consiglio non deve preoccuparsi soltanto delle dichiarazioni di Spatuzza. Secondo
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
matematica e nelle scienze. Meglio di noi (oltre Paesi doc come Danimarca, Olanda e Svezia, molto vicini all’obiettivo del 15%) si piazzano Francia (19,8%), Germania (18,5), Gran Bretagna (18,4), Spagna (19,6) e Portogallo (17,6). La commissione, che – appunto – sottolinea la difficoltà di questo 20% di ragazzi italiani a inserirsi nel mondo del lavoro, non spiega come costoro si fanno un’idea della realtà che li circonda: basterà la televisione?
«Graviano mi fece il nome di Berlusconi, e mi spiegò che dietro c’era un nostro paesano, Dell’Utri»
A sinistra, il processo di Firenze dove ieri ha deposto Spatuzza. Qui sopra, dall’alto, Alfano, Dell’Utri, Brusca e Provenzano
quanto rivelato da L’espresso, arrivano cattive notizie anche da Palermo, dove il pentito Giovanni Brusca, ha parlato di speciali guest star a villa San Martino. Oltre a minorenni, escort, lenoni e clienti attempati, avrebbero preso a parte al giubilo delle carni anche alcuni emissari di Cosa Nostra. Abbastanza, a quanto parte, perché i magistrati dispongano una nuova pesante indagine sul premier. «La procura di Milano indaga sulla presenza di minorenni nella residenza di Arcore del premier per le serate del bunga bunga, e i pm di Palermo lavorano per accertare se a villa San Martino sono stati ricevuti ambasciatori di Totò Riina dopo le stragi Falcone e Borsellino», scrive sul noto settimanale Lirio Abbate. Lo stesso Brusca racconta ai pm «di aver ricevuto da Riina l’incarico di andare ad Arcore per parlare con il Cavaliere dopo le bombe del 1992». La testimonianza sarebbe contenuta in un verbale d’interrogatorio secretato dai pubblici ministeri palermitani. Ma dall’orrido incubo del ’93, è riemerso ieri anche uno degli spettri più temuti.
Arrestato nell’aprile del 2006 dopo 43 anni di latitanza, Bernardo Provenzano vuole uscire di prigione. Il capo di Cosa nostra ha ottenuto l’esecuzione di una perizia medica per accertare la compatibilità delle sue condizioni di salute con la permanenza in carcere. Compiuti 78 anni, Provenzano è risultato affetto da ”sindrome parkinsoniana”, e nelle scorse settimane è stato colpito anche da un’ischemia. Visitato dai medici Francesco Avato dell’università di Ferrara, dal neurologo Giuseppe Micieli, e Francesco Montorsi del San Raffaele di Milano, i tre hanno sostenuto che è necessario un ulteriore approfondimento,che la Corte d’appello di Palermo ha affidato a Oscar Alabiso, primario di Oncologia dell’azienda ospedaliera Maggiore della Carità di Novara, dove ha sede il supercarcere nel quale è rinchiuso Provenzano.
A partire dal 1 gennaio di quest’anno le pubblicazioni effettuate su carta non hanno più valore legale. È infatti entrato in vigore l’articolo 32 della Legge n. 69/2009, che reca disposizioni finalizzate all’eliminazione degli sprechi. Grazie a questa rivoluzione digitale spariscono così fogli e foglietti affissi da decenni con le“puntine”su migliaia di Albi pretori. Le amministrazioni pubbliche sono infatti obbligate a pubblicare sul proprio sito Internet (o su quello di altre amministrazioni affini o associazioni) tutte le notizie e gli atti amministrativi che necessitano di pubblicità legale: bandi di concorso, permessi di costruzione, delibere del Consiglio e della Giunta comunale, elenco dei beneficiari di provvidenze economiche, ecc. Anche le pubblicazioni di matrimonio devono quindi comparire esclusivamente su Internet. In caso di inosservanza, ai sensi dell’articolo 99 del Codice civile la cerimonia non potrà essere celebrata. E qualora questa avvenga lo stesso, il matrimonio non sarà nullo né annullabile, ma a carico degli sposi e dell’ufficiale di stato civile potrà essere comminata una sanzione amministrativa che va da 41 a 206 euro. Per quanto riguarda i bandi di gara (“procedure a evidenza pubblica”) e i bilanci, lo switch-off completo al digitale è invece stabilito al 1 gennaio 2013. Da questa data gli obblighi di pubblicità legale saranno assolti esclusivamente mediante la pubblicazione online sul sito istituzionale, mentre la tradizionale pubblicità sui quotidiani sarà solo facoltativa e nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio. Personalmente mi pare un bel passo avanti: niente più carte e cartacce.
Stefania Lopresti
OBIETTIVITÀ E PROFESSIONALITÀ Egregio Paradisi, complimenti per l’articolo sull’intervento del ministro Frattini al Senato (liberal 28 gennaio). Come al solito, lei fa prova di equilibrio, obbiettività e professionalità, qualità, al giorno d’oggi, pressocché introvabili.
Carlo Signore
L’IMMAGINE
Messaggere solerti Le sinapsi (in blu nella foto) sono connessioni altamente specializzate che permettono di far viaggiare l’impulso nervoso da un neurone (qui in viola) all’altro, o da un neurone a una fibra muscolare
L’EUROPA DEVE AIUTARE L’EGITTO L’evoluzione delle rivolte di piazza in Egitto viene seguita con la massima preoccupazione, ed è difficile capire a quale sbocchi porterà la rabbia popolare, motivata anzitutto da un dato economico molto allarmante, come l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, il dilagare della disoccupazione e una manifesta voglia di cambiamento. L’Egitto è un Paese importante, un punto di riferimento essenziale per la pace tra israeliani e palestinesi. È per questo che l’Europa deve essere pronta ad aiutarlo.
Lettera firmata
VIAGGIARE NEI PAESI A RISCHIO. I DIRITTI DEL TURISTA I recenti problemi dell’Egitto e della Tunisia, Paesi a forte richiamo turistico, ripropone il tema degli annullamenti del viaggio in una località a rischio. Disdire un pacchetto turistico è oneroso perché comporta penali tanto maggiori quanto più ci si avvicina alla data di partenza: annullare una prenotazione 3 giorni prima della partenza significa perdere il 100% di quello che si è pagato, cioè tutto il costo della vacanza. Solo una comunicazione ufficiale del ministero degli Affari Esteri (come è avvenuto per l’Egitto e la Tunisia) e/o del ministero della Salute, che sconsiglia il viaggio per motivi di sicurezza o di sanità, può portare all’annullamento del viaggio senza penalità. In questo caso, in seguito ad un accordo tra i maggiori tour operator e il ministero degli Affari Esteri, il turista può: essere indirizzato su altra località, che potrebbe avere costi maggiori che devono essere pagati dal viaggiatore; essere rimborsato. Si può sottoscrivere un’assicurazione per l’annullamento del viaggio, in questo caso occorre però leggere attentamente le clausole contrattuali, per capire gli ambiti di copertura (malattia, infortunio, incidenti, calamità, attentati), le eventuali franchigie e gli oneri accessori (per esempio le iscrizioni) che comunque devono essere pagati oltre, evidentemente, all’assicurazione stessa.
Primo Mastrantoni
il paginone
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L’intervento del Papa a Londra è la bussola per chi voglia fare politica senza perdere la morale. Ecco perché va riletto con cura (soprattutto oggi e qui in Italia) di Lorenzo Ornaghi n via preliminare, è opportuno fornire subito una precisazione: l’impegnativa categoria di «lettura teologica» in cui anche questo mio breve intervento viene inquadrato richiede competenze eccedenti le mie, che sono quelle di un credente, di un docente, di un ricercatore. Vorrei piuttosto provare a sviluppare con voi alcune riflessioni – forse rapsodiche – che questo discorso ha suscitato in me, anche alla luce della situazione storica contemporanea, confidando di traguardare almeno in parte le principali prospettive culturali dell’oggi e dell’imminente domani. Una parola va certamente spesa a proposito del contesto in cui quel giorno Benedetto
I
Dobbiamo impegnarci con determinazione in ogni ambito della nostra vita: perché non solo la secolarità, ma neppure noi siamo neutrali XVI ha parlato alle autorità civili del Regno Unito [il 17 settembre 2010 alla Westminster Hall di Londra ndr]. È noto che il viaggio fosse annunciato come uno dei più difficili fra i molti affrontati da un Pontefice: il rapporto storicamente complesso con la Chiesa di Inghilterra si veniva a sommare al delicato tema dello scandalo degli abusi sui minori in cui dolorosamente parevano risultare coinvolte anche figure di religiosi ed ecclesiastici. Il Santo Padre ha però immediatamente saputo conquistare
il popolo britannico, con la sua straordinaria semplicità e la sua rara sensibilità pastorale: si è presentato con umiltà in veste di «pellegrino venuto da Roma» e ha portato un messaggio di speranza e di umanità a cui non solo la gente della Gran Bretagna, bensì il mondo intero anela talora incoscientemente, e però assai profondamente, in questi anni tormentati, per poi esserne improvvisamente quanto radicalmente affascinato se gli viene esposto con franchezza e chiarezza. In tal senso, è risultata provvidenziale la circostanza offerta dalla beatificazione di John Henry Newman, eccezionale esempio del dialogo possibile fra la Chiesa cattolica e quella anglicana e, soprattutto, fra la fede e la ragione. Nel discorso alla Westminster Hall Benedetto XVI ha toccato in particolare la decisiva questione del rapporto fra la dimensione religiosa e la dimensione politica. Al centro del testo sono stati collocati tre incalzanti interrogativi: «Quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali? […] Dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche?». È infatti in occasione delle scelte moralmente più impegnati-
Il testo pronunciato dal rettore della Cattolica alla Late
Il politico B ve e ardue che la legge dell’uomo nella sua declinazione “positiva” deve confrontarsi con quella da sempre inscritta nella natura e nel cuore, attraverso l’analisi razionale e lucida delle situazioni concrete, delle motivazioni che le spiegano e delle relative conseguenze, tanto immediate quanto più a lungo raggio. «Secolarità non è neutralità», ci suggerisce il titolo di questo incontro. Infatti il Papa, rispondendo ai quesiti sopra citati, spiega che «la religione […] per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico della nazione». In primo luogo, vorrei al riguardo tentare un pur rapido esame del concetto stesso di “secolarità”, e della correlata (presunta) “neutralità”, prima di esporre alcune idee circa la relazione fra religione e vita pubblica.
Di quale “secolarità”, esattamente, intendiamo (pre)occuparci? Potrei affermare che si tratta di una secolarità essenzialmente sfuggente, propria soprattutto delle fasi di transizione e muta-
mento, quale è sicuramente anche l’attuale. Ciò perché, per un verso, un’innegabile, acuta e istintiva proiezione ci spinge in direzione del futuro, incarnato dal secolo XXI che, pur fra molti tristi accadimenti, rappresenta il tempo del nostro progresso e della nostra evoluzione, da consegnare responsabilmente alle prossime generazioni della famiglia umana. Questo tempo si sta dipanando in una sfida per molti aspetti inedita: antropologica, educativa, politica e culturale. Tuttavia, il passato drammatico e travolgente, incarnato dal secolo XX da cui pensavamo di essere faticosamente usciti, sembra ancora accompagnarci con i suoi strascichi para-ideologici. La caduta, avvenuta a cavallo del millennio, di muri europei e di torri americane ha rappresentato simbolicamente il crollo di certezze talora comode, addensate in un coarcervo tragico di fattori politici ed economici, ma anche culturali e sociali, né pienamente compresi né tantomeno superati; tuttavia ormai tipici della società globale. La nostra secolarità, dunque, il nostro vivere immersi
il paginone di un “senso” atomizzato, individualistico». Dobbiamo ammettere che la ragione stessa può ridursi a una ideologia inavvertita, una sorta di ‘teoria della decadenza’; se oggi esiste un valore illuministico, esso significa non solo liberazione della ragione dalle sue illusioni, ma anche liberazione da quell’illusione che la ragione stessa talvolta rischia di essere. Per questo non può non esser sottolineato il ruolo a cui siamo chiamati tutti noi, nel saeculum a cui apparteniamo. È, quest’ultimo, un dato che riguarda ognuno di noi e che ritengo vada adeguatamente preso in considerazione, se davvero vogliamo assumere piena coscienza di quanto sia inevitabile la parte di protagonista che ciascuno recita nello scenario contemporaneo. Per questo dobbiamo tenere sempre in debito conto sia ciò che vediamo con gli occhi dell’esperienza e della ragione, sia ciò che scrutiamo con lo sguardo della speranza e della fede.
eranense nel ciclo “I grandi discorsi di Benedetto XVI”
Benedetto nel saeculum, non è - non può essere neutralità in sé, perché si rivela ambigua, volubile e quasi capricciosa, carica di risvolti evidentemente positivi o negativi: mai neutri.
Risulta allora fondamentale la comprensione del processo di “secolarizzazione” e delle derive del “secolarismo”, che la secolarità in qualche modo implica. Con “secolarizzazione” convenzionalmente intendiamo l’insieme di cambiamenti lato sensu sociali che hanno condotto, in particolare in Europa dal Cinquecento all’Ottocento, a una cultura cosiddetta “laica”o “moderna”, concepita a partire dalla realizzazione di una separazione tra la sfera politica e quella religiosa. Oggi, invece, assistiamo a un sempre più incalzante perseguimento non solo della separazione delle due sfere, bensì dell’annullamento dell’una a vantaggio (autentico o illusorio?, verrebbe da chiedersi) dell’altra. E così riscontriamo l’adulterazione propria del “secolarismo”. Se però abbiamo goduto di una differenza“rischiarante”(in senso
illuministico) fra religione e politica senza la quale le istanze della modernità, tra cui la separazione dei poteri, non sarebbero affatto pensabili - non c’è dubbio che la secolarizzazione abbia introdotto, anche rispetto alla religione, un criterio di valutazione universale e sovraculturale: la ragione. In questa prospettiva, come limpidamente mostra Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz [in un testo in uscita a marzo, sul numero 1/2011 della rivista «Vita e Pensiero»], occorre notare che «la secolarizzazione non è […] un concetto anticristiano», bensì «sorge essa stessa da un’istanza biblica». Ciò non ne cancella ovviamente taluni effetti nocivi: lo smarrimento della trascendenza in funzione di una ragione secolare avrebbe indirettamente prodotto perdite sul piano antropologico, anche come sue conseguenze tardive. Infatti, osserva ancora Gerl-Falkovitz, «i molteplici mondi vitali mancherebbero di una reciproca connessione, o perfino di una loro “traducibilità”, se venisse meno un riferimento trascendente: tale molteplicità condurrebbe all’“arbitrio”
Dobbiamo concordare con il Papa quando riscontra la crescente «marginalizzazione della religione» nel pianeta: è un fenomeno che rattrista e angoscia, specialmente per le violente ricadute che si stanno moltiplicando nei confronti di tanti cristiani nel mondo, la cui incolumità fisica appare seriamente minacciata insieme con il diritto di professare liberamente il proprio credo. È un fenomeno, tuttavia, fortemente presente anche in nazioni ricche di tradizione e storicamente aperte alla tolleranza. Quello che pare urgente è che venga appropriatamente inteso il senso autentico dei messaggi religiosi. Se il cattolicesimo propugna un nesso basilare fra le «norme obiettive che governano il retto agire» e la ragione, anche «prescindendo dal contenuto della rivelazione», ciò non sempre avviene in altre prospettive teologiche. Per rispondere compiutamente, nei fatti, agli interrogativi di Benedetto XVI richiamati all’inizio del mio intervento, entra in gioco la capacità stessa della religione di «aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi». Si tratta quindi di riconoscere il «ruolo “correttivo”della religione nei confronti della ragione», senza il quale si sprofonda in forme distorte di settarismo e fondamentalismo, in seguito alle quali proliferano conflitti e si alimenta la nociva convinzione dell’inevitabilità degli “scontri di civiltà”. Queste visioni erronee meritano di essere contrastate e condannate. Ciò, però, va fatto in parallelo all’esercizio di un’altrettanto dura opposizione «a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica», come il Santo Padre ha scritto nel Messaggio per la Giornata della Pace 2011 (n. 8), che in molti passaggi presenta uno sviluppo e una più ampia trattazione dei temi delineati nel discorso inglese. Sempre in quel Messaggio, infatti, leggiamo che «il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale» (n. 15). Così viene disegnato un percorso, anzi un «nuovo cammino per lo sviluppo integrale della persona umana», che com-
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porta molteplici ricadute concrete. Il futuro, infatti, verrà scandito dai grandi cambiamenti che stanno attraversando il mondo e l’Occidente in modo del tutto particolare. All’avanzare della tecnica e all’ampliarsi smisurato dei suoi campi di applicazione, quale sarà la propensione a un’innovazione tecnologica rispettosa della persona?
Dentro le nuove onde lunghe dell’evoluzione storica del capitalismo, quali rapporti legheranno i regimi politici (e il loro sistema internazionale) alle dinamiche e al potere di mercati sempre più globali? Di fronte a rappresentazioni sociali plasmate senza sosta dai mezzi (antichi e recentissimi) di comunicazione di massa, quali sono i valori culturali e le pratiche educative maggiormente in grado di orientare positivamente pensieri, convinzioni, azioni?Lavorare per rispondere a domande come queste, che traducono in pratica gli interrogativi di Benedetto XVI circa l’individuazione e l’uso di un «fondamento etico per le scelte politiche», ci chiama tutti – lo ribadisco – direttamente in causa.Infatti, come ho avuto occasione di argomentare in altre sedi [per es. nella relazione pronunciata al X Forum del Progetto culturale della Chiesa italiana], soprattutto nel nostro Paese dobbiamo tornare a essere con decisione ‘guelfi’, forti della consapevo-
Bisogna riconoscere il ruolo “correttivo” della religione nei confronti della ragione, senza il quale si sprofonda nel fondamentalismo lezza che la esemplarità dell’Italia cattolica nei confronti di altre nazioni, assai più che da una disposizione naturale, dipende dall’energia e dal successo dell’azione dei cattolici di oggi.
Noi cattolici disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati. Ma anche una tale posizione, che questi nostri tempi fanno sentire nella comparazione con altre identità migliore e più vantaggiosa, non può essere considerata per sua natura un bene perenne. Né potrebbe restare a lungo una risorsa inesauribile, quando la visione cattolica della realtà stemperasse i propri elementi costitutivi, mischiandoli e omologandoli a quelli delle concezioni ideologiche del Novecento o dei loro scampoli attuali. Grazie alla nostra religione, piuttosto, possiamo recuperare – come insegna il Beato Newman – la ricchezza di una retta coscienza; essa è sì «una severa consigliera», ma assai più affidabile del «diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk) che nel secolo XIX come oggi pare sovente rimpiazzarla. Essere guelfi implica la consapevolezza che la nostra posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno meritata e consolidata. E consolidandola, saremo pronti per ciascuna di quelle tante, nuove opere che il futuro prossimo già ci domanda. Perciò dobbiamo impegnarci con determinazione in ogni ambito della nostra vita: perché non solo la secolarità, ma neppure noi siamo neutrali, né con i nostri pensieri né con le nostre azioni.
la crisi egiziana
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Un manifestante anti-governativo, che si è ritrovato da circa una settimana nella centrale piazza Tahrir per chiedere al presidente Hosni Mubarak di cedere il potere. In questo periodo si sono moltiplicate voci ancora non confermate di centinaia di vittime durante gli scontri con i sostenitori del governo. Nella pagina a fianco, il fumo che esce dal tetto del Museo Egizio del Cairo
Continua il braccio di ferro tra il regime e gli oppositori: il Paese è fuori controllo e l’Onu decide di andarsene dall’Egitto
Sull’orlo del precipizio
Cecchini contro i giornalisti, guerriglia, caccia agli occidentali. La situazione precipita. E Suleiman propone: «Elezioni ad agosto» di Pierre Chiartano partita la caccia agli stranieri e c’è un tariffario per la violenza che sta dilagando in Egitto, con 13 morti, tra cui uno straniero, solo ieri. Dai 40 ai 100 dollari verrebbero pagati i supporter pro-Mubarak, armati di mazze e coltelli, per impedire al popolo della protesta di entrare in piazza Tahrir. Arruolati da membri del Partito nazionale democratico (quello del presidente) al Cairo e nella provincia. Formano posti di blocco, anche verso l’aeroporto, e cercano di intimidire manifestanti e forestieri. In meno di 24 ore gli stranieri da amici si sono trasformati in bersagli delle milizie filogovernative, ma non solo. Con il conto delle vittime che purtroppo si aggiorna di ora in ora. E siamo solo alla vigilia di un’altra manifestazione prevista per oggi. Mentre il premier Ahmed Shafiq apre al dialogo e chiede scusa per le violenze, continuate anche ieri, le opposizioni vogliono la testa del Faraone Mubarak. E il vicepresidente Omar Suleiman invita i Fratelli musulmani al tavolo delle trattative e accenna ad elezioni anticipate, forse già ad agosto. Oltre alle sparatorie tra manifestanti delle due fazioni filo e antigovernativa e la polizia nel luogo della grande manifestazione dell’altro giorno, è anche partita la caccia a stranieri e giornalisti: devastate le sedi di testate estere, assaliti reporter e troupe televisive, assal-
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Non bastano le telefonate tra Il Cairo e Frattini: l’Ue scenda in campo
Il tempo gioca a sfavore a cartina geopolitica di vede oggi confrontarsi due blocchi, un blocco “del rifiuto e dello scontro”(composto da Iran, Turchia, Siria, Gaza), ed un blocco del dialogo o dello status quo (composto da Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e Cisgiordania). Le rivolte e le situazioni critiche si stanno soprattutto svolgendo in questa seconda area, il che pone dei problemi molto seri per l’equilibrio internazionale e per gli esiti che possono scaturire dalla somma di queste crisi. Ma è evidente che il maggior rilievo geopolitico lo assume un Paese come l’Egitto, che, tra quelli di questa area, è sicuramente il Paese che più ha contribuito a mantenere gli equilibri della regione per lo meno non risoluti in direzione del fondamentalismo. Il caso dell’Egitto è molto importante e noi in Italia lo stiamo sottovalutando: non solo la politica, ma anche i media. Non dobbiamo sottovalutare questo fattore, e anzi dobbiamo chiederci cos’è che aiuta di più l’Egitto a rimanere ancorato a questo ruolo geopolitico che finora Mubarak - pure in un regno di tirannia, arbitrio, corruzione e povertà ha contribuito a mantenere? Più si fanno marcire le cose, meno noi riusciremo ad avere quella che chiamiamo, in gergo geopolitico, una transizione ordinata. Più si fanno crescere, senza dar loro risposte, movimenti come quello che si è creato in Egitto, più questi movimenti si radicalizzano. Figure come El Baradei, che oggi hanno un ruolo, scompariranno nel giro di qualche giorno, se il movimento si radicalizza. La nostra posizione e la posizione dell’Europa, pur non volendo interferire in alcun modo nelle scelte dell’Egitto, sia quella di fare una
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pressione molto forte perché si dia una risposta alle domande di questo movimento.
Certo, l’ideale sarebbe una transizione guidata (espressione che, se usata al Cairo, otterrebbe probabilmente qualche risata). Ma dobbiamo dire che la transizione guidata, se è questo che noi e l’Europa stiamo chiedendo all’Egitto, deve essere certa e condivisa. Non basta la road map di cui Suleiman ha parlato al telefono con Frattini, perché una road map di transizione certa e condivisa significa fornire le date. Non basta dire che Mubarak non si ricandida: questa non è una transizione certa e condivisa, ma è la dichiarazione di un leader in difficoltà. Occorre che vi siano le date, le scadenze, le riunioni, le scelte e le decisioni. Questo significa una transizione certa. Una transizione condivisa significa che deve esserci, visibile agli occhi degli europei, degli italiani nel nostro caso, un tavolo in cui si discuta questo con i leader dell’opposizione. In mancanza di questo, non siamo di fronte a una transizione certa e condivisa, ma siamo di fronte alla classica situazione che chi comanda è tentato di prendere, che è quella di tirare a campare e di dire tutto e il contrario di tutto pur di tirare a campare. Quante divisioni ha l’Europa? Che peso ha in questa crisi? Ho il timore che in questa crisi l’Europa sia «un’Europa d’Egitto», se mi consente la battuta, nel senso che non ha alcun peso e, a differenza degli Stati Uniti, non esercita alcun ruolo, cosa particolarmente fastidiosa per noi che stiamo davanti al Mediterraneo e ai Paesi che sono coinvolti da questa crisi. Ora conviene che l’Italia e l’Europa premano perché Mubarak lasci il potere.
tato un hotel di solito frequentato da reporter. Mentre la Farnesina ha comunicato che 4.500 degli oltre 14mila connazionali «contattati» che si trovano in Egitto sono già rientrati. È chiaro che la situazione possa ora sfuggire e di mano. Un segnale in tal senso è arrivato da Suleiman, già potente capo dell’intelligence del Cairo che aveva chiesto all’Italia e all’Europa di intervenire. E la riposta sembra essere arrivata ieri dal presidente francese Nicolas Sarkozy, dalla kanzlerin Angela Merkel, dal premiere britannico David Cameron, dallo spagnolo Zapatero e dal presidente del Consiglio Berlusconi: «Il processo di transizione deve iniziare subito» la sintesi del messaggio che ricalca il contenuto di quello di Barack Obama fatto il giorno precedente.
«Uffici delle tv devastati, attrezzature sequestrate a colleghi della Rai anche dalla stessa security degli alberghi, nostri giornalisti e tecnici insieme ad altri sotto assedio. Una situazione - afferma il sindacato dei giornalisti Rai - che sembra sfuggire ad ogni controllo». Il quotidiano belga Le Soir non ha notizie da mercoledì a mezzogiorno del suo inviato speciale al Cairo, Serge Dumont, che era stato aggredito e poi arrestato da un gruppo di sconosciuti. «L’incertezza sulle sorti di Serge Dumont è aggravata dalla notizia che altri gior-
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Il rischio è quello di vedere ripetere il dramma dei Buddha di Bamyan on facciamo fare alle Piramidi la fine dei Buddha di Bamyan, né al Museo del Cairo quella del Museo di Baghdad, non lasciamo i beni egiziani nelle mani di chi li disprezza e più ancora che trafficarli li vuole addirittura distruggere. Se dicessi che un sasso vale più di una vita non sarei credibile, non sarei in pace con la mia coscienza. Ma certo la tentazione di pensarlo c’è. L’Egitto è l’Egitto, e il suo fascino si trasmette da millenni. Ora il suo patrimonio culturale è più in pericolo che mai, e dobbiamo esserne consapevoli. Possiamo discutere se e come vada appoggiata l’una o l’altra fazione politica che si fronteggiano nelle piazze del Cairo in queste ore, ma su una cosa tutto il mondo dovrebbe essere d’accordo e agire rapidamente: mettere in sicurezza il patrimonio culturale egiziano. A costo di mandare caschi blu, verdi o forze speciali di qualsiasi tipo da affiancare alla polizia turistica e ai tanti egiziani che per fortuna capiscono l’importanza di salvaguardare i beni archeologici che hanno ricevuto dai padri per poterli trasmettere ai figli. So benissimo che l’invio di caschi blu appare tecnicamente impraticabile, ma resta il valore dell’appello: si muova l’Unesco, l’Europa, si muovano i Paesi arabi, o quelli africani. Si studi la possibilità di interventi d’urgenza, come quelli che certamente sono pronti ad esempio per mettere in sicurezza località strategiche o arsenali nucleari. Governi e regimi durano lustri, vanno e tornano, il patrimonio culturale è eterno e allo stesso tempo fragilissimo. Quello egiziano è un patrimonio dell’umanità intera, unico e straordinario, un patrimonio che rappresenta anche gran parte della ricchezza degli egiziani, legata al turismo culturale e anche bal-
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nalisti sono stati rilasciati dopo un breve fermo mercoledì», ha spiegato il direttore del giornale, Jurek Kuczkiewicz. Anche un fotografo che lavora per il quotidiano turco Today’s Zaman, Isa Simsek, è stato malmenato a piazza Tahrir da esponenti di entrambe le fazioni e un altro fermato. E tra le vittime degli arresti facili ci sarebbero anche due giornaliste del Washington Post. Intanto la conta dei morti continua. Sarebbero almeno una decina (ma c’è chi parla di un centinaio di vittime) e più di mille i feriti degli ultimi scontri avvenuti mercoledì in piazza Tahrir. Due persone sarebbero invece state uccise, ieri, colpite dai cecchini posizionati sul tetto
Salviamo almeno Museo e piramidi Vanno preservati subito i tesori inestimabili che rischiano per mano degli estremisti di Osvaldo Baldacci neare. Tutto questo se viene messo a rischio porterà alla fine dell’Egitto.
E il rischio è grave. Saccheggi e distruzioni come quelli che abbiamo intravisto, e che possono degenerare ulteriormente, devono far sanguinare il cuore di chiunque, e di un egiziano prima di tutto. È tafazziano che la rabbia di un istante o il profitto di qualcuno distruggano per sempre beni che hanno visto l’alba della storia, che hanno segnato in modo decisivo il cammino dell’umanità. Qui non è il caso di ripercorrere la storia meravigliosa della cultura egizia. È però invece forse il caso di porre all’attenzione i rischi seri che quel patrimonio corre. Quelli che si corrono durante le fasi convulse dell’anarchia: saccheggi, violenze indirette, furia distruttiva, furti mirati di sciacalli e di specialisti. Inoltre va considerato l’appeal che questi beni hanno anche per terroristi e rivoltosi, che possono utilizzarli per farsi pubblicità, esercitare una minaccia, intimidire, ricattare. Questo pericolo va prevenuto. Ma c’è anche qualcosa di più, qualcosa che esprime un rischio che non è limitato alla contingenza delle
Quello egiziano è un patrimonio storico dell’umanità intera, unico e straordinario per ampiezza e complessità. Che rappresenta anche gran parte della ricchezza degli abitanti fasi meno sotto controllo, un rischio che anzi proietta sul futuro la propria ombra. Ed è il rischio dell’estremismo fanatico e volontario. Alcune interpretazioni estremistiche dell’islam considerano tutto ciò che ha preceduto il profeta Maometto come impuro, blasfemo e pericoloso. E in quanto tale va distrutto. Non sono parole vacue, per quanto ovviamente minoritarie nel mare della cultura musulmana. Sono parole che nella storia hanno già prodotto i loro effetti. Basti pensare all’esem-
pio più eclatante ma anche recente, vale a dire il trattamento riservato dai talebani ai Buddha di Bamyan, antica e preziosa testimonianza del buddhismo nelle valli afghane e lungo la via della seta, circondati da grotte affrescate dai monaci. Il regime talebano, sordo ad ogni richiamo del mondo, li prese a cannonate. O ad altre tensioni nel subcontinente indiano. Ma anche in Kosovo. E sebbene oggi si stia diffondendo la ricerca archeologica in tutti i Paesi islamici, non si può negare le difficoltà
Mubarak rimarrà alla guida del Paese. «La nostra decisione è chiara: quando Mubarak lascerà, siamo pronti a dialogare
El Baradei respinge ogni dialogo fino alle dimissioni di Mubarak.Appello dell’Europa, mentre le sedi dei giornali esteri e i reporter stranieri diventano obiettivo di violenza.Altre vittime in piazza
me una legittimità che, a mio parere, ha perso». La tensione è rimasta alta per tutta la giornata nella zona di piazza Tahrir, cuore delle proteste antigovernative, dove i sostenitori del presidente tentavano di bloccare l’accesso ai manifestanti, anche se in un primo momento l’intervento dei militari li aveva bloccati.
feriti provocati dal tiro di sniper dal tetto dell’albergo Remsis su piazza Abdul Munim Riad, nel centro del Cairo. È ancora braccio di ferro tra opposizione e il Faraone. La Coalizione nazionale per il cambiamento di Mohamed ElBaradei non intende dialogare con il governo fino a quando Hosni
Il premier egiziano Shafiq parlando alla televisione al-Hayat ha chiesto scusa per gli scontri di mercoledì, prennunciando l’apertura di un’inchiesta: «si è trattato di un errore fatale... Quando le indagini riveleranno chi è dietro questo crimine e come è stato possibile che sia accaduto». I membri di una cellu-
dell’hotel Hilton. A riferirlo è un cittadino britannico al quotidiano Guardian. Al Jazeera parla invece di un morto e due
con (vicepresidente Omar) Suleiman», ha affermato Mohammed Aboul Ghar altro esponente dell’opposizione. Lo stesso ElBaradei aveva precisato, in un’intervista rilasciata mercoledì all’emittente Usa Cbs: «Non dialogherò mai fino a quando Mubarak rimarrà al potere. Perchè offrirei al regi-
che tale tipo di studi hanno avuto nei tempi passati. Persino nella laica Turchia nei tempi più recenti alcune sparute minoranze hanno attaccato quanto resta della tradizione bizantina rifiutando persino il ruolo museale di Santa Sofia. Il rischio quindi è che oltre ai problemi politici in Egitto ci troviamo di fronte prima ai drammi del saccheggio, e poi alla tragedia di un genocidio culturale irreparabile. Che peraltro danneggerebbe per primo l’Egitto e gli egiziani, e toccherebbe le loro tasche: cosa resterebbe senza le piramidi e chi andrebbe al mare a Sharm per fare il bagno col velo?
Ma proprio questa che potrebbe essere una tragedia senza precedenti, se affrontata in tempo può essere una delle chiavi per salvare l’Egitto dall’orlo del baratro: bisogna far capire agli egiziani il valore del loro patrimonio, e far leva anche sui loro interessi economici per prevenire che la rabbia getti la popolazione in braccio a una deriva islamista. E in questo bisogna anche coinvolgere i soggetti esistenti: i Fratelli Musulmani, ad esempio, sono una realtà forte, borghese, intellettuale, che da tempo ha marginalizzato le derive violente ed estremiste. Occorre parlare con loro. È il momento di prevenire e di incanalare, per non essere impreparati. Troppi pochi ricordano che non furono i bolscevichi a cacciare lo zar o Komehini a cacciare lo shah: ma quando non si vigila, e se non si agisce coi piedi di piombo, i governi ampli e liberal-democratici che sconfiggono le tirannie vengono poi spazzati via dai movimenti estremisti successivi. I borghesi scuotono gli alberi, i fondamentalisti raccolgono i frutti. L’Egitto va salvato, e con esso il suo inestimabile patrimonio culturale. la di Hezbollah condannati per aver istigato attacchi in Egitto figurano fra i prigionieri che sono evasi da molte carceri egiziane lo scorso fine settimana. Lo ha indicato una fonte dei servizi di sicurezza. Ci sarebbero anche 22 militanti palestinesi di Hamas, membri egiziani dei Fratelli musulmani e migliaia di altri condannati che hanno approfittato di un’evasione di massa nel corso delle manifestazioni. Un pericolo in più da aggiungere alla già difficile situazione. Mentre è cominciata l’evacuazione di quasi 600 dipendenti delle Nazioni Unite, si fanno i conti dei danni economici dei disordini: circa un miliardo di dollari solo nel comparto turistico.
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I moti d’Egitto decifrati dal generale Vincenzo Camporini, fino a due settimane fa Capo di Stato Maggiore della Difesa
«Democrazia? Impossibile» «L’Occidente sbaglia. Principi per noi scontati al Cairo sono destabilizzanti» di Luisa Arezzo ensione altissima in Egitto: il dialogo fra opposizione e governo non decolla e nelle strade dilaga la guerriglia. La comunità internazionale continua il suo pressing per la transizione, Obama prega per il popolo, ma nessuno sembra in grado di dire se il Paese si stia avviando verso la guerra civile oppure no. Noi lo abbiamo chiesto al generale Vincenzo Camporini, capo di Stato Maggiore della Difesa fino allo scor-
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e fare un esame di coscienza. Cosa intende per esame di coscienza? Piantiamola di usare le nostre categorie per realtà sociali e culturali che sono radicalmente diverse dalla nostra. Certi principi che per noi sono scontati per altri non lo sono affatto, anzi rischiano di essere elementi di destabilizzazione là dove stabilità c’è. Io credo che la stabilità sia un fattore positivo per i nostri interessi e un valore per le
Sono abbastanza stupito dalla reazione di alcuni governi occidentali così determinati a salire sul carro del vincitore dando per scontato che qualcuno stia vincendo. Ci vorrebbe più realismo so 17 gennaio, esperto a tutto tondo dello scacchiere internazionale e, evidentemente, dell’area mediterranea. Generale, l’Egitto rischia l’implosione? La situazione è in una fase evolutiva, nel senso che quello che è successo è stato certamente una sorpresa: per tutti noi occidentali, ma anche per il regime egiziano. Che ha quindi reagito con un certo ritardo. Detto questo, sono convinto che dopo gli scontri degli ultimi giorni la partita non sia ancora affatto decisa. Tutti quanti danno per scontato che Mubarak sia fuori gioco. Ma sull’uscita di scena di Mubarak io non sarei tanto sicuro, perché secondo me al momento siamo in una sorta “di uno a uno palla al centro”e si sta ricominciando a giocare. Sono abbastanza stupito dalla reazione di alcuni governi occidentali così determinati a volersi imbarcare sul carro del vincitore dando per scontato che qualcuno stia vincendo. Dovrebbero essere più realisti
A sinistra, Erdogan e in alto lo yemenita Saleh. A destra, Lady Ashton
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popolazioni. Non dimentichiamoci quello che è successo in Iraq, dove abbiamo - anzi hanno - cercato di applicare determinati criteri. Prima che l’Iraq torni ad essere una realtà stabile dove la gente vive serena senza il rischio di saltare per aria ogni volta che c’è una festa religiosa passerà ancora molto tempo. Dunque è sbagliato parlare di cambiamenti democratici in Egitto interpretando un modello occidentale... La volontà popolare che gestisce il potere è un valore assoluto. Ma i modi in cui questa democrazia si può attuare so-
no radicalmente diversi e non è affatto detto che la democrazia occidentale sia il modello migliore per tutto il mondo. Anzi: direi che abbiamo la prova evidente del contrario. I sistemi in cui il popolo - inteso come volontà collettiva - governa, sono diversi. Punto. Dunque è anche lei convinto che i militari non cederanno né il controllo né parti del controllo.. Qui si parla di equilibri di potere. È chiaro che coloro che hanno il mano il potere non lo lasceranno dissolvere in pochi minuti. Ci potrà essere un’evoluzione graduale, come è avvenuto in Turchia, dove il potere dei militari era assoluto fino a qualche anno fa e adesso, gradualmente, viene eroso, o meglio: si sposta il baricentro del potere, cambiano gli equilibri. Credo che oggi nella realtà egiziana il potere esercitato e posseduto dalle forze armate sia un dato di fatto imprescindibile. E che in futuro, se ci sarà un’evoluzione in tal senso, potrà
Il nuovo esecutivo «goda di ampio sostegno popolare»
L’Europa batte un colpo
Da Bruxelles, oggi, arriva l’appello per la formazione rapida di un governo di Enrico Singer Europa, finalmente, ha deciso di battere un colpo. Con i morti in piazza Tahrir, con i carri armati nelle strade, con Mubarak abbandonato anche da Washington, i Ventisette che si riuniscono oggi a Bruxelles per un vertice che doveva fare il punto su innovazione ed energia, lanciano il loro appello perché in Egitto la transizione verso un governo che «goda di ampio sostegno popolare sia rapida, ordinata e, soprattutto, cominci subito». Per i leader Ue questa è l’unica strada per «superare le grandi sfide che il Paese si trova ad affrontare». In altre parole, per evitare la catastrofe di una guerra civile. È una ricetta che, nella sostanza, era stata anticipata da un documento comune firmato da Sarkozy, Merkel, Cameron, Berlusconi e Zapatero e che, ora, diventa la posizione di tutta l’Ue che si dichiara «molto preoccupata per gli epi-
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sodi di violenza». L’Alto rappresentante per la politica estera europea, la britannica Ashton, finora molto prudente nell’emettere giudizi e, per questo, molto criticata dall’Europarlamento, ha fatto sapere di avere parlato con il nuovo vicepresidente egiziano, il generale Suleiman, e di avere chiesto formalmente che l’esercito protegga i manifestanti nella piazza centrale del Cairo che è, ormai, diventata un campo di battaglia.
Anche Frattini ha riferito di avere telefonato a Suleiman che «ha chiesto aiuto all’Italia» perché sostenga con gli altri partner europei il piano in tre punti che, almeno nelle intenzioni del governo, dovrebbe garantire la transizione: evitare il vuoto di potere, scongiurare scontri armati e ricercare l’accordo politico con tutti i partiti per assicurare le riforme necessarie. In sostanza, l’esecutivo nominato dallo stesso Mubarak nel tentativo di pilotare in qualche modo la crisi, pretende di essere sostenuto dall’Euro-
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magari essere limitato. Oggi ne sarei molto sorpreso. Alcuni parlano di una possibile scissione in seno ai militari: giovani colonnelli contro i generali della casta. Lei cosa dice? È certamente una possibilità e si è già verificata, in passato, proprio in Egitto. Non dimentichiamoci di Nasser, che fu un giovane colonnello che a un certo punto si ribellò al potere incartapecorito dei generali, in qualche modo incarnando la volontà del popolo e dunque, a suo modo, esercitando una sor-
pa. Ma proprio questo è il primo nodo che le dichiarazioni di principio non bastano a sciogliere perché il fronte delle opposizioni egiziane - a comiunciare da El Baradei e dai Fratelli musulmani - non è disposto a trattare fino a che Mubarak non se ne sarà andato e non sarà formato un governo di unità nazionale rappresentativo di tutte le forze politiche. A questo punto, il rischio concreto per l’Europa - e per l’Italia in particolare - è quello di perdere un’altra occasione. Di non riuscire ad aiutare davvero il più
erano più preoccupati di accumulare ricchezze personali di quanto non fossero sensibili ai problemi della popolazione. A Washington come a Roma o a Parigi e Berlino, tutti i governi sapevano che l’Egitto da cartolina delle piramidi e di Sharmel-Sheikh nascondeva una polveriera. La transizione verso la democrazia, insomma, andava avviata prima. Soprattutto se si voleva che fosse “ordinata”, bisognava avere il coraggio di spingere lo stesso Mubarak sulla strada delle riforme costituzionali per avvicinare l’Egitto ai nostri standard di libertà e di democrazia. Adesso potrebbe essere troppo tardi perché il processo, che si è messo in moto nel modo convulso che la drammatica cronaca delle ultime ore testimonia, si sviluppi al riparo dei contraccolpi più temuti: dall’ennesimo golpe militare fino al tentativo di imporre una Repubblica islamica che tra l’altro - controllerebbe il rubinetto dei traffici lungo il Canale di Suez. L’Italia più di qualsiasi altro Paese avrebbe dovuto giocare un ruolo decisivo per accompagnare, in tempo, un processo di questo genere. Creare un’area di sviluppo economico, ma anche di cooperazione politica, nel Mediterraneo - quello che una volta chiamavamo il “Mare Nostrum”- doveva essere la priorità per chi insegue l’obiettivo di intercettare i flussi commerciali fra Asia ed Europa. Ma quanto è accaduto in Tunisia e quanto sta succedendo in Egitto, dimostra che le
L’Italia più di qualsiasi altro Paese avrebbe dovuto giocare un ruolo chiaro e decisivo per accompagnare,in tempo, un processo di sviluppo della regione popoloso e strategico Paese del mondo arabo a uscire dal circolo vizioso fatto di povertà, regimi autoritari e deriva terroristica in cui si trova da decenni. La verità è che l’errore più grosso è stato già commesso. L’Europa, come l’America, si è accontentata di appoggiare Mubarak in nome della realpolitik che consigliava di chiudere gli occhi sulla natura del suo regime in cambio di una posizione moderata in politica internazionale e, all’interno, di argine nei confronti del pericolo dell’islamismo fondamentalista. Non c’era bisogno di Wikileaks e dei dispacci diplomatici americani che ha reso di pubblico dominio, per scoprire che le elezioni in Egitto sono state sempre truccate, che i clan di potere
tante strutture di volta in volta create per favorire il dialogo mediterraneo avevano i piedi d’argilla perché si fondavano sul riconoscimento di regimi che, nei loro Paesi, erano considerati dalla popolazione la principale causa del sottosviluppo e della repressione che sono, poi, l’ambiente ideale in cui si muovono i gruppi fondamentalisti e, addirittura, jihadisti. Senza contare che, mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, l’attualità italiana è ancora dominata dalle vicende della sua presunta “nipote”. Frattini, adesso, ha annunciato che l’Italia vuole recuperare e che intende convocare, in aprile, una riunione dei ministri degli Esteri del “Gruppo 5+5”, che riunisce cinque Paesi della riva Nord e altrettanti della riva Sud del Mediterraneo.
Ma su questa iniziativa non è scontato l’appoggio della Francia di Sarkozy, che l’anno scorso, in occasione della festa del 14 luglio, ha lanciato un suo disegno di“Unione per il Mediterraneo”che supera, di fatto, le dimensioni del “Gruppo 5+5”e, al tempo stesso, è la prova delle divisioni che ancora esistono nella Ue su questo terreno. È un’altra debolezza dell’Europa che, ufficialmente, dichiara di “parlare con una sola voce” da quando ha creato la poltronissima di presidente stabile del Consiglio - il belgaVan Rompuy - e ha affidato alla baronessa Ashton l’incarico di giudare la politica estera comune. Che, sarà un caso, si è mossa sempre un minuto dopo le dichiarazioni che arrivavano da Obama e la Clinton.
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calde, tutte mediterranee: la Tunisia, l’Algeria. E poi il Libano. È in atto un effetto domino? L’effetto domino è più un fatto emozionale che reale. Ci sono situazioni per cui a un certo punto si percepisce una possibilità di cambiamento, a prescidenre dalla propria realtà. L’Algeria potrebbe essere un caso con forti similarità, però gli algerini hanno imparato a fare i conti con l’estremismo islamico già da tempo e quindi hanno sviluppato dei buoni anticorpi. Non vedo rischi di esplosione del Mediterraneo. Se la crisi dovesse continuare o peggiorare, quali rischi corre l’Italia? Per un Paese mediterraneo come l’Italia è un problema serio. Anche perché essendo la nostra un’economia di trasformazione basata sulla libertà dei traffici, avere un’ipotesi di rischio su Suez diventa un forte
La crisi nell’area è un grave problema per Roma. Ma non politico, piuttosto economico. Il nostro sistema è basato sulla libertà dei traffici, se Suez fosse a rischio sarebbe un disastro ta di democrazia. Che poi ha avuto i suoi errori e le sue vicessitudini, ma che comunue ha consentito al Paese di crescere. Dunque una spaccatura è possibile? È uno scenario che sta sullo sfondo, ma c’è. Diciamo che al momento è impossibile identificare qualcuno capace di rappresentare queste giovani energie. La crisi in Egitto ha riacceso le paure di un contagio fondamentalista. Non tutti lo condividono e non tutti pensano che i Fratelli Musulmani, che proprio ieri hanno negato l’apertura di un dialogo con il premier, siano davvero dei pericolisi islamisti in grado di prendere il controllo del Paese. Secondo lei? Il rischio esiste, perché in una realtà molto frammentata come quella egiziana, i Fratelli Musulmani sono un nucleo solidamente organizzato e con un’ideologia ben precisa. Mentre gli altri attori oscillano. Non trova che i Fratelli Musulmani siano quelli che al momento si stanno muovendo meglio? Senza ombra di dubbio. Il gruppo agisce con grande abilità, mostrando l’uso del guanto e non la mano di ferro che ci può essere dentro. Manifestazioni e disordini si diffondono. Anche lo Yemen ieri era in piazza. Eppoi ci sono le altre zone
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problema economico, non solo un problema politico. Sta dicendo che l’unico vero rischio che corre l’Italia è di natura economica? Non crede che ci sia anche quello di una forte ondata migratoria, islamica, nonché una turbolenza politica potenzialmente esplosiva? No. E non credo che ci si possa confrontare con un fenomeno di immigrazione di massa come quello balcanico, dovuto all’instabilità interna. Il problema economico, l’incremento dei costi dei trasporti, è invece lo scenario più grave che potremmo trovarci ad affrontare. L’Italia dovrebbe avere una posizione più forte? No. L’Europa dovrebbe avere una posizione. Punto. È sconvolgente vedere che tutti i Paesi Ue si muovono in modo sostanzialmente autonomo, con convergenze occasionali, ma senza un disegno organico. C’è l’assenza totale di Bruxelles, ne prendiamo atto, che così facendo proietta sempre più l’Europa ai margini. Che cosa avrebbe dovuto dire? Il punto non è cosa dire, ma dire qualcosa. È scandaloso che non si sia riusciti a far sedere i ministri degli Esteri attorno a un tavolo per farli parlare con una voce sola. Il risultato è una politica estera frammentaria e inconcludente.
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Australia, disastro dopo il ciclone
Afghanistan: sotto attacco gli italiani
CANBERRA. Nessuna vittima ma una lunga scia di devastazione. Il passaggio del ciclone Yasi sul Queensland, in Australia, ha seminato il terrore tra la popolazione, abbattendo case, alberi e pali della luce. Le città costiere di Tully, Mission Beach e Cardwell sono le più colpite. Con raffiche di vento fino a 300 chilometri orari e un’intensità pari a quella di Katrina, la furia del ciclone si è abbattuta su una regione già duramente colpita dalle recenti alluvioni che hanno costretto migliaia di persone a lasciare le proprie abitazione. Circa 10mila persone che vivono lungo la costa hanno trovato rifugio in due centri di accoglienza predisposti dalla protezione civile. Impossibile, al momento, fare un bilancio dei danni.
BALA MURGHAB. Colpi d’arma da fuoco contro gli alpini italiani a Bala Murghab, in Afghanistan. Alle 15.30 del pomeriggio, infatti, la base avanzata “Croma” della Task Force North a Bala Murghab, è stata attaccata da un gruppo di insorti. I militari dell’8° reggimento alpini hanno risposto con armi individuali, di reparto e con mortai da 120 mm. Non risultano feriti o danni a cose. Sul luogo è intervenuto un velivolo statunitense che, dopo aver verificato la non presenza di civili nella zona, ha effettuato le procedure previste per il supporto alle truppe della coalizione.“Croma”è l’ultima postazione avanzata realizzata nell’estensione della bolla di sicurezza di Bala Murghab.
Stop alle sigarette a Central Park NEW YORK. Grande mela: sigarette addio. Il Consiglio Comunale di New York ha approvato a larga maggioranza un provvedimento in base al quale sarà vietato d’ora in poi fumare non solo al chiuso, ma anche nei parchi pubblici, o in luoghi all’aria aperta come - per esempio - Times Square, o la celebre spiaggia di Brighton, a Brooklyn. Ancora permesso fuori dagli edifici. Il provvedimento enterà in vigore 90 giorni dopo essere stato firmato dal sindaco, Michael Bloomberg. Ma la firma è scontata. «Quest’estate i newyorkesi che vanno al parco e sulle spiagge per un po’ d’aria fresca potranno respirare aria ancora più pulita, e godere di spiagge non sporcate da mozziconi di sigarette» ha dichiarato il sindaco.
Il Wwf presenta l’Energy Report: entro il 2050 il mondo potrebbe sfamarsi con le rinnovabili. Ma la Ue tentenna, su ogni fronte
Sole per tutti (non solo nucleare) Al via oggi a Bruxelles il Consiglio europeo dedicato all’energia di Antonio Picasso i riunisce oggi a Bruxelles il Consiglio europeo per l’Energia e l’Innovazione. Con questo appuntamento si vogliono stabilire «atti concreti in due settori fondamentali per la stabilità economica e il futuro dell’Europa». Sono le parole del presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ad anticipare la riunione odierna. «Energia e innovazione sono elementi centrali della strategia di Europa 2020, per ripristinare la crescita sostenibile e aumentare la competitività», ha aggiunto Barroso, riferendosi al documento pubblicato esattamente undici mesi fa dalla Commissione, intitolato “Strategia Europa 2020” appunto, e con il quale si prevede di rilanciare la locomotiva economica del Vecchio Continente sul mercato globale. Intanto, con solo un giorno di anticipo rispetto al summit di Bruxelles, il Wwf ha pubblicato il suo Energy report 2011, un’indagine sulla quale l’organizzazione ambientalista ha speso due anni di ricerche e studi. La tempistica, ovviamente, induce a pensare che il Wwf voglia inviare ai leader europei un messaggio che sia “sul pezzo”. Un’analisi dalla quale possano trarre una visione aggiornata delle risorse energetiche mondiali, della loro incidenza sul clima, ma anche uno spunto per formulare le strategie continentali dei prossimi anni.
L’energia solare contribuisce solo per lo 0,02% della nostra produzione totale di energia, ma questa quota sta crescendo rapidamente. Nello scenario Ecofys, entro il 2050 l’energia solare fornirà circa metà di tutta la nostra elettricità, metà del riscaldamento degli edifici e il 15 % del calore nel settore industriale
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L’Energy Report sostiene che, in quattro decenni, entro il 2050, «potremmo avere delle economie floride e una società interamente alimentata da energia pulita, a basso costo e rinnovabile, nonché una qualità della vita decisamente migliore». Non nascondendo le proprie ambizioni quindi, il Wwf ribadisce la fattibilità di una politica energetica impostata prevalentemente su risorse rinnovabili, «con un uso solo residuale e isolato di combustibile fossile e nucleare, riducendo così in modo drastico le preoccupazioni sulla sicurezza dell’energia, l’inquinamento e, non da ultimo, per i cambiamenti climatici catastrofi-
ci».Volendo fare un confronto tra la posizione delle istituzioni europee e quella del Wwf, si possono sottolineare subito i punti deboli di ciascuno. Bruxelles sta imboccando la strada dell’ennesimo incontro privo di sostanza. Le dichiarazioni di Barroso, in particolare, appaiono fumose.Va ricordato che il documento sull’Europa 2020 era stato redatto a marzo dello scorso anno, vale a dire in tempi relativamente sospetti per quanto riguardava il mercato energetico internazionale. In quel momento era sì in corso la crisi finanziaria, ma, per esempio, il disastro della Bluewater Horizon - la piattaforma della British Petroleum che ha massacrato l’ecosistema del Golfo del Messico - non era stato previ-
sto. Sicché, gli scossoni borsistici e politici ricollegabili all’evento non erano logicamente inseriti tra le potenziali crisi immediate del report comunitario. Stesso discorso per la rivoluzione in Medioriente che sta riportando il prezzo del petrolio ai livelli di tre anni fa. È logico che, al di là dello speranzoso ottimismo dimostrato dal presidente della Commissione, il Consiglio europeo dovrà fare i conti con i fatti odierni. E soprattutto sarà chiamato a rispondere sulle misure preventive oppure di intervento in quei casi di emergenza che l’Unione europea, nella sua integrità, dovrebbe adottare. Al contrario, la proposta che verrà presentata congiuntamente da Francia e Germania oggi, sulla neces-
sità di indire un nuovo summit, per una più forte integrazione del governo economico, conferma la debolezza delle istituzioni comunitarie. Bruxelles, di fronte al tandem Parigi-Berlino, non potrà che adeguarsi.
Il documento, firmato da Sarkozy e dalla Merkel insieme, metterà in ombra l’incontro di oggi e rimanderà tutto a un prossimo appuntamento. È invece la rigidità ideologica a indebolire gli scenari tracciati dall’Energy report del Wwf. Nel documento, infatti, si torna ad attaccare frontalmente l’energia nucleare quale risorsa alternativa ai combustibili fossili. Costi eccessivi, problema dello smaltimento delle scorie e ri-
4 febbraio 2011 • pagina 15
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Medvedev contro Putin: «La strage di Mosca non è un caso chiuso»
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
MOSCA. Dura (e insolita) presa di posizione del presidente russo Dmitri Medvedev a proposito dell’indagine sull’attentato all’aeroporto moscovita di Domodedovo. Le sue parole di ieri, infatti, sono risuonate come un attacco al premier Vladimir Putin, che mercoledì sera aveva comunicato la chiusura delle indagini sui responsabili del massacro. «Ritengo che sia assolutamente inaccettabile che qualcuno annunci la soluzione di un delitto, specialmente così grave, prima che siano state completate tutte le procedure investigative, che il capo d’imputazione sia stato formulato, trasmesso al tribunale e che la sentenza sia stata formulata» ha detto Medvedev ai capi dei servizi di sicurezza (Fsb) Alexander Bortnikov e della procura Alexander Bastrykin. In un dibattito Tv il premier Vladimir Putin aveva parlato del caso definendolo «praticamente chiuso». «Mi avete riferito che ci sono stati progressi nell’indagine, ha
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detto Medvedev. Questo va bene, ma nè la procura nè gli inquirenti o altri hanno il diritto di annunciare che il delitto è stato risolto» ha proseguito il presidente. «Il delitto non è stato risolto anche se ci sono stati progressi». L’attentato kamikaze di Domodedovo del 24 gennaio scorso ha fatto 36 vittime e ieri sono stati annunciati gli arresti di dieci persone coinvolte nell’attacco. Secondo l’Fsb il kamikaze era un ventenne proveniente dal Caucaso.
Da sinistra, un impianto eolico, Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio Europeo e una centrale nucleare
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schio di passare dal civile al militare. Questi sono gli ostacoli, a detta degli ambientalisti, che dovrebbero indurre la comunità internazionale a non investire la maggior parte delle proprie risorse nel comparto. Si tratta di un quadro decisamente pessimistico. Secondo il Wwf - che per la sua inchiesta ha fatto riferimento all’agenzia di consulenza Ecofys - nel 2050 «la richiesta totale di energia sarà minore del 15% rispetto a quella del 2005, malgrado l’aumento della popolazione, della produzione industriale, del trasporto e delle comunicazioni». Le risorse, di conseguenza saranno messe a disposizione anche di coloro che attualmente non ne hanno. «Il mondo non dipenderà più dal carbone o dai combustibili nucleari, mentre le regole internazionali e la cooperazione limiteranno i potenziali danni ambientali derivanti dalla produzione di biofuels (combustibili biologici, ndr.) e dallo sviluppo dell’idroelettrico». Nell’ottica monodirezionale dell’organizzazione, non è chiaro come le risorse rinnovabili potrebbero soddisfare al cento per cento la domanda energetica mondiale, tenendo conto della crescita demografica e - anche qui - degli imprevisti. I punti deboli del nucleare sono sotto gli occhi di tutti. Ciononostante, scartarlo a priori risulta una scelta intransigente. L’ipotesi che dalle centrali si passi alla produzione di strumenti bellici non prende in considerazione l’impegno portato avanti dalle superpotenze mondiali, Russia e Stati
Si sta imboccando la strada dell’ennesimo incontro privo di sostanza. Tutte le incertezze di Barroso Uniti soprattutto, per lo smantellamento progressivo dei loro arsenali. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), a sua volta, è quotidianamente in prima linea per contenere le ambizioni in questo settore da parte di altri Paese (Corea del Nord e Iran). Per quanto riguarda le scorie, l’impegno della ricerca ha portato risultati interessanti. La World Nuclear Association (Wna), il forum mondiale delle major del settore ha pubblicato recentemente un’analisi in cui si specifica che «le scorie inoltre potranno essere riprocessate in altre tipologie di reattori (nuclear transmuters), con auspicata produzione collaterale di energia elettrica. Nel caso esse vengano riprocessate con il solo obiettivo di diminuirne la radioattività, sarà necessario un tempo di almeno 40 anni per assistere a un calo della radioattività del 99,9%». Tuttavia,
il Wwf sostiene che lo smaltimento prevede un decorso ben più lungo.
A questo proposito, giusto ieri, a Roma è sorto l’ennesimo comitato contrario al nucleare.“Vota sì per fermare il nucleare”, è il nome della nuova organizzazione promossa da Acli, Fiom, Greenpeace, Legambiente e appunto Wwf. L’iniziativa lascia intendere che, al momento, non ci siano possibilità di compromesso sulla questione. Se non altro in ambito nazionale italiano. Tant’è che Greenpeace ha denunciato il governo Berlusconi in merito alle proprie politiche energetiche. Sul finire, una nota positiva va indirizzata al mercato delle emissioni di CO2. Operativo dal 2005, il mercato per lo scambio di emissioni è stato costituito per incoraggiare le imprese dei settori più inquinanti - energetico e siderurgico in particolare - a ridurre le proprie emissioni di gas serra. Come da accordi del Protocollo di Kyoto. Due settimane fa però, era stato chiuso dopo che un’inchiesta aveva messo in luce una truffa di circa 30 milioni di euro. Sempre ieri, la Commissione europea ha ufficializzato la riapertura degli scambi. L’iniziativa, del resto, sarà momentaneamente a scartamento ridotto. Solo Francia, Germania, Olanda, Slovacchia e Gran Bretagna, fornendo nuove garanzie di sicurezza, hanno ottenuto il nuovo nullaosta dalla Commissione. Gli altri Paesi dovranno attendere. Il mercato finora è stato di responsabilità nazionale. Entro il 2013 però, si prevede un passaggio nelle mani dell’Ue.
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ULTIMAPAGINA Miliardi di persone in piazza per il Capodanno di tutta l’Asia
Conigli (e gatti) festeggiano il Nuovo Anno di Vincenzo Faccioli Pintozzi
enessere e successo, calma in famiglia e nei mercati finanziari. È il regalo che il Coniglio (e il Gatto per i vietnamiti) porta al mondo in occasione del Nuovo Anno lunare che si è aperto ieri. La Festa di Primavera, detta anche “Tet” o appunto Capodanno cinese, è la festività più sentita dalle popolazioni dell’Oriente. In essa si concentrano tutte le speranze della vita: i fuochi d’artificio scacciano gli spiriti cattivi dall’anno che comincia; la danza porta fortuna al commercio e al lavoro; il banchetto in famiglia simbolizza l’armonia e la pace. L’Anno del Coniglio è visto come un periodo di benessere e di successo e, secondo gli astrologi di Hong Kong, è anche un anno buono per sposarsi, fare figli e aprire nuove relazioni sentimentali. In generale, le previsioni di auspicio parlano di quest’anno come un anno pacifico, meno violento dell’appena trascorso anno della Tigre, sebbene i bagliori di violenze in Medioriente non facciano ben sperare. Le strade straripano di gente pronta per quella che è considerata la più grande migrazione mondiale. Nel mese di festeggiamenti sono previsti gli spostamenti di milioni persone. In Cina, l’anno scorso, sono stati venduti circa due miliardi di biglietti.
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grosso pesce intero, augurio di abbondanza, e un menù tradizionale a base di pollo. Non tutto è però gioioso: a volte il Tet si trasforma in un’enorme tragedia sociale. In occasione delle feste per il Capodanno cinese, infatti, tutti i lavoratori migranti cercano di rientrare a casa dai luoghi di lavoro, portando a casa i ricavi di un anno: la tradizione dice infatti che, per avere buona fortuna, si devono pagare i debiti per ripartire da zero. Ma quasi il 75 per cento dei migranti non riceve alcuno stipendio e non ha quindi modo di partire. Le proteste dei lavoratori per i salari non pagati, che includono anche tentativi di suicidio, sono aumentate nel
dare a ogni anno la simbologia di un animale, scegliendo i primi 12 animali tra quelli che si erano recati a salutarlo in occasione della sua dipartita dalla terra. Nell’ordine di arrivo il Buddha assegnò un anno a ogni animale. Il coniglio è stato il quarto animale ad arrivare. In base a questo sistema, dopo 12 anni il ciclo si conclude per poi ricominciare. Secondo la credenza popolare, le caratteristiche dell’animale hanno un’influenza sul carattere delle persone nate nel corso dell’anno e sugli avvenimenti. Per un curioso problema di traduzione, il Gatto vietnamita è divenuto il Coniglio cinese: il nome del primo, infatti, si pronuncia in vietnamita “mao”; che in cinese vuol dire coniglio.
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Per iniziare bene, bisogna pagare i propri debiti e mettere in tavola del pollo e un pesce intero. La “Festa di Primavera” va passata con la famiglia e gli amici, per ritrovare l’unità
Milioni di persone che vivono per la maggior parte del tempo lontano dal paese natio, salgono in macchina, prenotano treni o aerei per ricongiungersi alla famiglia. La tradizione vuole infatti che la festa di Capodanno sia vissuta come un momento di unione, in cui si chiudono i conti con il passato auspicandosi una vita migliore. Immancabile sulla tavola, simbolo di unità e armonia familiare, un
corso dell’anno ed hanno provocato nel governo centrale la paura di sommosse. Il premier Wen Jiabao ha detto, dopo il capodanno scorso, che avrebbe risolto il problema, ed ha avviato una campagna che, secondo Pechino, ha ”sostanzialmente risolto” il problema. Wen sostiene di aver risolto il 90 % dei casi di salari non pagati. In ogni caso, è l’unico vero periodo di festa per l’Asia. Il calendario tradizionale cinese prevede uno schema in cui ogni anno è rappresentato da un animale, per un ciclo di 12 anni. Una leggenda narra che fu il Buddha a
Questo calendario risale secondo la leggenda alla dinastia Xia (XXI – XVI sec. a. C.) e nasce in un contesto rurale, con l’osservazione dei fenomeni naturali e stagionali da parte del contadino cinese che, in una società essenzialmente agricola, cercava di ottimizzare il proprio raccolto. L’imperatore Wu Di della dinastia Han (206 a.C. – 220 d. C) ha mutuato questo calendario tradizionale, nel quale il Capodanno cade il primo giorno della luna nuova durante la fase in cui il sole si trova nel segno dell’acquario secondo il calendario Gregoriano (21 gennaio – 20 febbraio). Anche se con la fondazione della Repubblica Cinese nel 1911 è stato ufficialmente adottato il calendario Gregoriano, il calendario tradizionale è ancora fortemente radicato. Quindi, buon anno.