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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 5 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Quirinale blocca lo strappo istituzionale tentato dall’esecutivo sulla riforma bocciata dalla Bicamerale
C’è un giudice a Roma Napolitano: il decreto è irricevibile. La legge, per fortuna, vince ancora Il capo dello Stato gela la maggioranza: «Prima che io possa valutarlo, il testo sul federalismo deve essere presentato alle Camere». Bossi gli telefona subito e assicura: «Lo faremo» IL FALLIMENTO DEL FAI DA TE
Ancora un milione in piazza nel giorno dell’ultimatum al raìs
L’autogol del governo-Ikea
Mubarak non lascia (e Berlusconi ovviamente è con lui)
di Giancristiano Desiderio anno fatto tutto in fretta e furia e così hanno dimenticato un particolare: Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato ha rispedito al mittente il decreto sul federalismo fiscale che l’esecutivo aveva approvato nonostante la bocciatura.
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a pagina 2
LETTERA APERTA A UN DON CHISCIOTTE
Caro Ferrara, rassegnati, non c’è niente da fare
Il presidente egiziano annuncia: «Resterò qui: temo per l’Egitto, non importa cosa il popolo dice di me». E il presidente del Consiglio italiano, da Bruxelles, lo applaude: «Saggio»
Il costituzionalista: Giorgio Rebuffa
«Non si fanno riforme in zona Cesarini» uello di giovedì sera è stato un errore grossolano, dovuto all’incapacità e alla fretta, più che al fastidio per il «dibattito». È questo il duro commento del costituzionalista Giorgio Rebuffa. Che spiega: ora il governo ha un mese per «informare» le Camere.
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Pierre Chiartano • pagina 26
Franco Insardà • pagina 3
di Enrico Cisnetto ra scritto. La “linea Ferrara”del premier è durata lo spazio di un mattino. La colpa non è certo del direttore del Foglio, ma di una situazione ormai troppo compromessa perché ci fossero, e ci siano, margini di recupero. E la botta della decisione del Quirinale di dichiarare inammissibile il decreto sul federalismo municipale – varato dal governo pochi minuti dopo che la commissione bicamerale aveva, con il pareggio, fatto cadere il provvedimento – ha inevitabilmente reso ancor più difficile per tutti battere la strada della ragionevolezza. segue a pagina 4
E
Il retroscenista: Francesco Verderami
«Silvio come Luigi XIV, non vuole Richelieu» ROMA. «È lui che decide». E non i falchi che gli volteggiano intorno. Francesco Verderami, inviato del Corriere della Sera e tra i narratori più attenti del berlusconismo, propone il suo ritratto della “corte” di Palazzo Grazioli. Oggi ricca di guerrafondai «la cui influenza, però, è relativa».
In nome della privacy, non esistono biografie del Faraone
Tutte le zone d’ombra di un dittatore “segreto”
Errico Novi • pagina 5
di Maurizio Stefanini
A cento anni dalla nascita
«Vi racconto Reagan, luce nel mio gulag» Il ricordo di Natan Sharansky: «Quando attaccò l’Urss fu un giorno meraviglioso»
on esistono biografie di Hosni Mubarak: né in arabo, né in altre lingue; né autorizzate, né non autorizzate. Questo perché il presidente egiziano ora in bilico detesta parlare della sua vita privata, e anche nelle interviste finisce sempre per scantonare sulle sue politiche e sulla sua immagine ufficiale. Dicono che anche per questo si era arrabbiato quando dall’Italia era saltato fuori lo scandalo della marocchina Ruby Rubacuori segnalata come sue nipote. La stampa egiziana si era allora scatenata, e aveva preannunciato addirittura querele personali per diffamazione da Presidente a Presidente del Consiglio, oltre a note di protesta ufficiali.
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a pagina 28
Tom Rose • pagina 24 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
25 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 5 febbraio 2011
il fatto Per aggirare il no della Bicamerale, la maggioranza ha stravolto la procedura. E Bossi china il capo: «Andremo in Aula»
Rispedito al mittente
La Camere devono essere informate, prima che possa essere varato un decreto d’urgenza: il Quirinale corregge gli errori dell’esecutivo la polemica di Riccardo Paradisi
enso e spero di no». Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva risposto ieri mattina a Bruxelles al Consiglio europeo, ai giornalisti che gli chiedevano se temeva problemi con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo il varo del provvedimento sul federalismo municipale, bocciato in precedenza dalla bicameralina e approvato in Consiglio dei ministri. Aveva appena finito di dichiarare che «L’Italia è una repubblica giudiziaria commissariata dalle Procure», che «l’opposizione è contraria agli interessi del Paese», aveva appena finito di ricordare che «il Pdl è oltre il 30%» che «il mio gradimento è al 51%: sono il leader europeo più apprezzato dai suoi concittadini».
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La doccia fredda arriva improvvisa per i tempi ma temuta. Il presidente Napolitano fa sapere che quel decreto sul federalismo non l’ha firmato, che lo considera addirittura ”irricevibile”. «Il Presidente – spiega con una nota il Quirinale - rileva che non sussistono le condizioni per procedere alla richiesta emanazione, non essendosi con tutta evidenza perfezionato il procedimento per l’esercizio della delega previsto dai commi 3 e 4 dall’art. 2 della legge n. 42 del 2009 che sanciscono l’obbligo di rendere comunicazioni alle Camere prima di una possibile approvazione definitiva del decreto in difformità dagli orientamenti parlamentari. Pertanto conclude il Colle - il Capo dello Stato ha comunicato al Presidente del Consiglio di non poter ricevere, a garanzia della legittimità di un provvedimento di così grande rilevanza, il decreto approvato ieri dal Governo». Insomma secondo il Quirinale non si può liquidare come una formalità il pareggio che si è registrato nella commissione bicamerale, che va dunque tradotto come un ”non parere”. La maggioranza in un primo tempo sembra incassare il colpo a fronte liscia. La Lega risponde facendo sapere di una telefonata tra Umberto Bossi e il Capo dello Stato. «I ministri competenti si recheranno nelle aule parlamentari a dare comunicazioni sul decreto sul federalismo fiscale municipale», dice il leader leghista a far intendere che l’iter
Il premier e il Senatùr volevano fare tutto da soli: il bricolage delle istituzioni
Più che un governo-idea, abbiamo un governo-Ikea di Giancristiano Desiderio anno fatto tutto in fretta e furia e così hanno dimenticato un particolare: Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato, infatti, ha rispedito al mittente il decreto sul federalismo fiscale che l’esecutivo aveva approvato nonostante la bocciatura da parte della commissione della Camera. «È irricevibile» ha scritto il presidente Napolitano nella sua lettera di comunicazioni al presidente del Consiglio. Il Parlamento non è stato informato preventivamente e quindi il decreto non può essere emanato perché è come se non fosse mai giunto al Quirinale e come se non fosse mai stato approvato dal Consiglio dei ministri. Detto in due parole semplici semplici: il governo ha fatto ciò che non poteva e non doveva fare e quindi il suo atto è praticamente nullo. Come diceva Bartali «l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Però, prima di vedere cosa faranno ora i nostri eroi, soffermiamoci ancora un po’su quanto hanno già fatto.
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«governo del fare» è diventato il «governo del fai da te». Più che un governo-idea, una sorta di governo-Ikea: la classica teoria di Montesquieu della divisione dei tre poteri è stata rivista e corretta nella teoria del governo che se la canta e se la suona come gli aggrada. Se le regole parlamentari sono un ostacolo, si tolga l’ostacolo. Se il Parlamento dà fastidio, si elimini il fastidio. In fondo, Berlusconi aveva già in passato teorizzato questa semplificazione istituzionale quando aveva proposto di far votare solo i capigruppo. Nel caso del passaggio dalla Bicamerale al governo si è superato: il Parlamento è stato saltato a pie’ pari. Un capolavoro.
Prima o poi doveva accadere. Prima o poi qualcuno gli doveva pur dire che le istituzioni non sono un optional. È toccato al presidente della Repubblica giudicare il lavoro scorretto e irrituale del governo. E la scorrettezza e la irritualità, in questo caso, non sono degli sterili formalismi perché coincidono con la sostanza ossia l’equilibrio e il rispetto dei poteri. Umberto Bossi ha già fatto sapere che la prossima settimana cercherà di porre rimedio: si recherà prima al Quirinale per un colloquio con Napolitano e poi andrà in Parlamento per comunicare cosa si intende fare. A questo punto, però, che cosa intenda fare il governo già lo sappiamo, mentre è più interessante sapere come il ministro per le Riforme spiegherà e giustificherà al Parlamento l’idea di non tener conto del voto contrario della Bicamerale. Può darsi che Bossi non si ponga neanche il problema. Tuttavia, anche se così fosse, il ministro lo dovrà dire: dovrà cioè ricordare che la commissione parlamentare ha detto no al federalismo e ciò nonostante il governo vuole approvare il decreto di una riforma che il ministro Tremonti ha definito «storica e la più grande di sempre». Se così dovesse essere, il federalismo sarebbe approvato non con il favore ma con lo sfavore delle istituzioni e la storica riforma nascerebbe già debole e invisa ai più. Una pessima idea del “governo fai da te”.
Lo diranno ai parlamentari, la prossima settimana, che il loro parere ormai è inutile?
Il presidente della Repubblica ha fatto presente che dopo la bocciatura da parte della commissione parlamentare, il governo aveva un solo dovere: parlare al Parlamento. Invece, il «governo del fare» si è riunito di gran carriera e, dichiarando il voto della Bicamerale solo “consultivo”, si è approvato con le proprie mani quanto la commissione aveva respinto. In pratica, il governo ha ritenuto irrilevante e inutile il ruolo della commissione. Non solo. Mettendo da parte ogni altro passaggio parlamentare, il governo ha deciso nientemeno di fare a meno del Parlamento: il
riprenderà, comunque. Il capogruppo Pdl Cicchitto è sulla stessa linea: «Per ciò che riguarda il federalismo è evidente che deve esserci un passaggio parlamentare nelle aule di Camera e di Senato». Ma poi con il passare delle ore le reazioni si fanno più sode. Non una parola contro Napolitano ma insomma l’atteggiamento è quello di chi promette di insistere con ostinazione.
Il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri parla della necessità di modificare la composizione della bicamerale «Bisogna prendere atto delle decisioni del Quirinale e dare seguito ad esse con un passaggio parlamentare che peraltro il governo aveva già annunciato. Sulle procedure, invece, si potrebbero fare analisi approfondite: la Commissione Bicamerale in base alla legge dovrebbe rispettare la composizione proporzionale del Parlamento dove il centrodestra è maggioranza, come evidenziato da numerose votazioni anche di fiducia. Questo aspetto, non secondario, dimostra che avremmo dovuto essere più fiscali. Mentre invece, proprio per favorire un confronto costruttivo, non abbiamo sollevato una questione che ora andrà approfondita». È chiaro il messaggio: la maggioranza rimetterà mano alla composizione della Bicameralina e del resto le critiche interne al Pdl contro il presidente Enrico La Loggia – di cui chiede le dimissioni anche l’Udc – vanno proprio in questo senso. Anche Calderoli attacca sulla Bicameralina dove sono «poco rispettosi rapporti di forza. In Aula sarà ripristinata la realtà politica vera». Poi in un’intervista del pomeriggio a Radio Padania dice che da Napolitano c’è stata un’interpretazione diversa dalla sua: «Ritrasmetteremo il testo del decreto alla Camera e al Senato, andremo a riferire le motivazioni perché abbiamo adottato un testo piuttosto che un altro e la vicenda finisce li. Quella di Napolitano è un interpretazione, la mia era che una volta adottato il decreto recependo il parere della commissione Bilancio del Senato noi potessimo approvarlo definitivamente». L’opposizione invece ringrazia Napolitano definito l’ultimo argine a difesa del Parlamento Dario Franceschini: «Napolitano ha bloccato un procedimento illegittimo, che ora non esiste più». Antonio Di Pietro: «abbiamo la
le prospettive L’opinione dei costituzionalisti Andrea Manzella e Giorgio Rebuffa
«Non si fanno riforme in zona Cesarini» Ora, trenta giorni di discussione. Solo dopo i ministri potranno scrivere un testo «ricevibile» di Franco Insardà
ROMA. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firma il decreto con il quale Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno provato a tenere in piedi un federalismo sempre più traballante. Il presidente della Corte costituzionale, Ugo de Siervo, ha sostenuto che il federalismo municipale è «una bestemmia». Certo la riforma per la quale la Lega spinge da un ventennio continua a far segnare colpi a vuoto e la decisione del Quirinale di ritenere il testo del decreto governativo irricevibile non migliora la situazione.
Napolitano ieri ha respinto il decreto frettoloso del firmato dal governo e fortemente voluto da Berlusconi e Bossi. A destra, un’immagine del costituzionalista Giorgio Rebuffa prova provata che il Paese si sta avviando verso un pericoloso regime. Si vada alle urne». Pier Ferdinando Casini: «un atto dovuto».
Per Fli interviene invece Fabio Granata, chiedendo alla Lega di «prendere atto che il berlusconismo è finito e di scrivere insieme alle opposizioni una nuova pagina costituente». In particolare l’Udc spiega di non essersi mai opposto «al principio benefico e necessario che anima il Federalismo municipale. Semplicemente riteniamo che su una riforma epocale come questa, la maggioranza debba dare prova di responsabilità attuando la maggiore concertazione possibile. Non si può procedere a colpi di decreto, perchè crediamo che la riforma possa essere migliorata e alcune storture possano essere raddrizzate». A nome del Terzo Polo, Linda Lanzillotta dell’Api sottolinea da parte sua che «il presidente Napolitano non poteva non rifiutare di apporre la sua firma sotto il decreto sul federalismo municipale palesemente illegittimo perché adottato nel disprezzo della legge e dei regola-
menti parlamentari e con un atto di insopportabile arroganza». Il segretario del Pd Bersani dall’assemblea nazionale del Pd ringrazia il presidente: «per il ruolo di garanzia che svolge e c’è da chiedersi cosa accadrebbe se non ci fosse al Quirinale un uomo come lui». Nella maggioranza intanto rischia d’aprirsi un confronto serrato. Malgrado le smentite il Carroccio sarebbe tentato dal voto, incalzato dalla base padana che vede ostacolato il federalismo. Per ora però la linea è resistere e insistere. «Il progetto delle opposizioni e di chi vuole bloccare il federalismo – dicono in un comunicato congiunto i vertici leghisti – è destinato a fallire e per di più i cittadini hanno chiaro chi è favore del cambiamento e chi invece non lo vuole. Dimostreremo con i fatti la nostra volontà di andare avanti: il percorso dei decreti attuativi del federalismo fiscale non si fermerà. Dopo il fisco municipale, il provvedimento sul fisco regionale inizierà il suo percorso parlamentare già la prossima settimana». Insomma questa storia non finisce qui.
«Questo episodio conferma una convinzione che ho maturato da tempo: il Pdl farebbe bene a cambiare i suoi avvocati». Va giù duro Giorgio Rebuffa, uno dei cinque professori “lanciati” nel 2001 da Silvio Berlusconi, costituzionalista di fama. E continua: «È vero che il parere della commissione Bicamerale non era vincolante, ma si tratta di un organo parlamentare costituito appositamente per fare questo lavoro e il presidente Napolitano ha fatto bene a rimandare al mittente il decreto, senza entrare nel merito, dal momento che c’è un evidente vizio procedurale. Direi che da parte del Colle c’è stato il rispetto delle procedure parlamentari, nel senso che sarebbe stato offensivo per il Parlamento produrre una norma facendo finta che il parere della commissione Bicamerale non fosse mai esistito. Bisognava, invece, ritornare, come si farà, in Aula per far esaminare il provvedimento. Il giudizio della commissione è stato negativo, nonostante il tentativo del presidente La Loggia di considerarlo inesistente, e Napolitano, per restituire al Parlamento la sua funzione ha giustamente ritenuto irricevibile il decreto». Sul testo che il Consiglio dei ministri straordinario di giovedì sera ha emanato Rebuffa precisa: «Tra l’altro quel decreto non poteva essere più quello discusso dalla commissione Bicamerale, ma l’originario. Si tratta di una situazione ridicola perché, ripeto, la commissione è un soggetto parlamentare che ha lavorato per più di un mese e non poteva essere ignorata». Il costituzionalista Andrea Manzella aggiunge: «Non mi sembra ci sia nulla di drammatico se non la sottolineatura che queste forzature che sono diventate ormai all’ordine del giorno. Il presidente Napolitano ha applicato la legge, era nella condizione di non potersi esimere dall’applicare queste norme. D’altro canto si tratta di una procedura che consente al governo di riproporre la
materia nell’arco di trenta giorni. Avrebbe potuto evitare questa situazione se, nonostante il parere negativo della commissione Bicamerale, ci fosse stata una riflessione del Parlamento».
La fretta del governo è, secondo Rebuffa, il motivo di base di queste decisioni: «Ogni giorno la maggioranza, che si dichiara solidissima, rischia e il tempo è sempre troppo poco. Questa volta sarebbe stato meglio evitare di emanare quel decreto, perché, come è accaduto, la realtà si vendica.Vorrei comunque far notare che la posizione di Napolitano è stata più politica che costituzionale, nel senso che considerando il decreto irricevibile lo ha ritenuto contario alle regole politiche e costituzionali». In pratica il presidente Napolitano ha sottolineato l’obbligo di rendere comunicazioni alle Camere, così come è disciplinato ai commi 3 e 4 dell’articolo 2 della legge 42 del 2009 che varò la riforma. E sono i due passaggi chiave per sbrogliare l’intrigo dopo il pareggio in Bicamerale. Il comma 3 stabilisce che il Consiglio dei ministri trasmetta alle Camere gli schemi di decreti legislativi, approvati in via preliminare, «perché su di essi sia espresso il parere della Commissione Bicamerale e delle Commissioni parlamentari competenti per le conseguenze di carattere finanziario, entro sessanta giorni dalla trasmissione». Il comma 4 stabilisce i passaggi successivi. Prima di tutto, si prevede che «decorso il termine per l’espressione dei pareri di cui al comma 3, i decreti possono essere comunque adottati». Poi si precisa che «il governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, ritrasmette i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni e rende comunicazioni davanti a ciascuna Camera». Esattamente quello che ha chiesto il presidente Napolitano. E infine, «decorsi trenta giorni dalla data della nuova trasmissione, i decreti possono comunque essere adottati in via definitiva dal governo».
«Sarebbe stato davvero offensivo per il Parlamento produrre una norma ignorando il parere della commissione preposta a emetterlo»
«Si tratta - secondo Manzella - di rimandare tutto di trenta giorni, un termine di riflessione che la legge impone, nel quale il governo deve ritrasmettere alle Camere anche con delle modifiche. A quel punto potrà ripresentarlo con la procedura che ha adottato l’altra sera. Il governo, cioè, dovrà adeguarsi alle norme e potrà utilizzare questo tempo anche per recuperare dei punti e trovare delle intese».
pagina 4 • 5 febbraio 2011
l’approfondimento
Il presidente della Repubblica, i giudici, persino le feste nazionali: il premier andrebbe guidato in ogni campo istituzionale
L’inutile intelligente
Alla ribalta con Giuliano Ferrara (e con Gianni Letta) una figura opposta a quella dell’«utile idiota»: consigli saggi e di buon senso ma che con il tipo umano Berlusconi sono destinati a restare inascoltati. E ora tutto è in mano alla Lega di Enrico Cisnetto segue dalla prima La logica della lettera - “apocrifa” - mandata al Corriere, in cui Berlusconi chiedeva la disponibilità delle opposizioni, e del Pd in particolare, ad un patto per il rilancio dell’economia, e il lodevole tentativo di indurre il Cavaliere a mettere da parte il “caso Ruby”e la relativa polemica con i magistrati, sono stati spazzati via in poche ore, nonostante che giovedì la maggioranza abbia serrato le fila portando a casa il voto contrario alla richiesta della Procura di Milano di perquisizione degli uffici privati di Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta bunga-bunga. Perché nel giro di un giorno si è passati dal sottoscrivere le parole di Napolitano sulla necessità di stemperare i toni alla scelta – per Berlusconi politicamente obbligata, visto il ruolo giocato dalla Lega, ma non per questo meno dirompente – di trasformare in decreto la proposta non approvata in bicamerale. Uno schiaffo “politico” al Parlamento, come ha subito fatto notare il presidente emerito della Corte Costituzionale Capotosti,
ma anche un errore giuridicoistituzionale, sia perché il Capo dello Stato si è trovato a dover firmare – e il dpr reca la sua firma, non la controfirma, che in qualche modo è quella del presidente del Consiglio – senza averne avuto adeguata informazione, sia perché non vi erano i presupposti necessari in mancanza di quel passaggio parlamentare di ora non a caso la maggioranza parla per metterci una pezza. Come se non bastasse, il premier si è nuovamente lasciato andare ad un (inutile) attacco alla magistratura, e per di più in una sede certo non idonea a simili sfoghi come quella del vertice europeo cui ha partecipato ieri. Ma il Cav, come lo stesso Ferrara ama chiamarlo, è fatto come è fatto, e il mio amico Giuliano lo sa bene.Ed era logico attendersi che le sue “aperture”, peraltro tardive, sarebbero svanite come neve al sole. Proprio come accadde nel 2009 quando dopo tanti dinieghi si decise a celebrare il 25 aprile (lo fece nell’Abruzzo del terremoto) con un discorso che indusse persino Eugenio Scalfari ad elogiarlo. Ebbene
quello che fu ribattezzato il “miracolo di Onna” durò neppure una settimana, poi, anche per colpa di una sinistra vittima dell’antiberlusconismo, il bipolarismo armato riprese il sopravvento e tutto tornò come prima. Ora, a maggior ragione dopo i veleni sulla vita privata del premier, era impensabile che il “miracolo Ferrara” potesse durare più di qualche ora. E, infatti, così è stato.
E adesso? Il passaggio sul federalismo ha confermato, ove mai ce ne fosse stato bisogno, che il pallino è in mano alla Le-
Era logico attendersi che le “aperture”, sarebbero svanite nel nulla
ga. O meglio, che tutta la scena politica è occupata dal rapporto Berlusconi-Bossi. È quella l’unica cosa che conta, lo snodo vero. Il resto è contorno (e di questo, tutti gli altri che fanno il “resto”, dovrebbero interrogarsi). E cosa dice il barometro che misura l’andamento di quel rapporto? Sostanzialmente due cose. La prima: il capo della Lega ha scelto la linea della“vicinanza”a Berlusconi. Non per convinzione, e tantomeno per tener fede al patto che da tempo li unisce, ma per convenienza elettorale. Bossi, infatti, pensa – ed è difficile dargli
torto – che la Lega possa fare il pieno di voti pescando nel bacino del Pdl tra i delusi dal Cavaliere, ma sa anche che ciò può avvenire solo a patto che si comporti lealmente (“non possiamo fare come Fini”, è il leit-motiv dei leghisti). Dunque, nella circostanza Bossi ha portato a casa la non a caso sbandieratissima approvazione del federalismo – lasciando il cerino acceso dei rapporti con il Colle in mano al premier, anzi facendo poi lui il pompiere non appena Napolitano ha pronunciato il suo niet – e nello stesso tempo ha evitato di cogliere l’occasione per far saltare tutto e andare alle elezioni. Che però sono il suo obiettivo primario e non troppo differibile. Anche perché sente arrivare dalla base del partito un mugugno sempre più forte, che segnala una stanchezza del suo elettorato tradizionale per quel Berlusconi che se la spassa con le ragazze e per la permanenza del Carroccio ormai da troppo tempo nel cuore della “Roma ladrona”. Umori su cui ha fatto affidamento il ministro Maroni nell’esporsi a favore del voto subito fi-
5 febbraio 2011 • pagina 5
Il carattere altalenante del premier secondo l’inviato del “Corriere della sera”
«Silvio è come Luigi XIV, e non ascolta i Richelieu»
«Non c’è contrapposizione tra falchi e colombe nel Pdl, c’è un leader che sa essere di piazza e di governo»: parla Francesco Verderami di Errico Novi
ROMA. «È lui che decide». E non i falchi che gli volteggiano intorno. Francesco Verderami, inviato del Corriere della Sera e tra i narratori più attenti del berlusconismo, propone il suo ritratto della “corte” di Palazzo Grazioli. Rispetto all’antica cerchia («quella in cui con Letta c’erano anche Confalonieri, Ferrara, Urbani») se n’è aggiunta una nuova animata da guerrafondai. Ma la cui influenza è relativa: «Non è in corso un conflitto all’ombra del Cavaliere tra moderati e intransigenti. È lui stesso a trasfigurare spesso il Berlusconi di governo nel Berlusconi di piazza. E lo fa dentro l’eterno conflitto con la magistratura. Un rapporto che sconta la caduta dell’argine costituzionale avvenuta nel ’92». Il premier diventa particolarmente furioso quando non ottiene vantaggi da un suo gesto distensivo, vedi la lettera al Corriere. Se gli altri respingono le profferte di pace lui si pente di essersi esposto. E si adira. Come se ce l’avesse con chi dei suoi lo invita al negoziato. Questo succede, è vero. Ma le sue reazioni vanno ricondotte a un problema più generale. A quello squilibrio provocato dalla caduta di un argine costituzionale. Dal ’92 la politica è schiacciata da un altro potere, quello giudiziario. Il tema era all’ordine del giorno fin dalla Bicamerale nel ’97. E ancora oggi lo è, come riconoscono molti, per esempio Casini con un profilo più istituzionale. Prima però la cerchia dei moderati era più ascoltata di oggi. O no? Non c’è dubbio che la sua vecchia rete di consiglieri si sia andata sfilacciando, anche se nei momenti di crisi tornano Letta, Confalonieri e, da battitore libero, Ferrara. Però non mi sembra questo il punto. Molti sostengono che questo cambio della guardia tra i suoi confidenti sia decisivo. Non direi. L’esempio più chiaro viene proprio dal giallo del comunicato sulla manifestazione. Prima esce questa nota che annuncia manifestazioni contro i pm, poi arriva la smentita. Segno che se c’è da imporre un profilo istituzionale, il Cavaliere riesce a farlo a dispetto delle voci più agitate. Il punto invece è che esiste un Berlusconi di piazza e un Berlusconi di governo. Con il primo chiamato troppe volte in causa da quello che, con un eufemismo, possiamo definire il confronto con la magistratura. In queste ore concitate si perdono di vista alcuni segnali. Per esempio? L’invito del Capo dello stato a promuovere un clima diverso tra le istituzioni. Parole
rivolte non solo a Berlusconi ma anche ai giudici.Va ricostruito l’equilibrio tra i poteri dello Stato. E lo sanno bene anche i dirigenti del Pd. Con una differenza: loro lo sussurrano, Berlusconi lo urla. A volte in questi anni il Cavaliere è stato addirittura il ventriloquo della sinistra, ha detto cose che la sinistra non poteva permettersi di dire. È questo conflitto dunque a impedire un atteggiamento più istituzionale da parte del premier? Perché i verbali d’inchiesta che lo coinvolgono, in un modo o nell’altro, diventano sempre pubblici? Non avviene lo stesso, ad esempio e giustamente, per gli interrogatori di Ciampi e Scalfaro sugli attentati del ’92. Ha diritto o no, l’imputato Berlusconi, a un processo non mediatico in cui le garanzie per la difesa siano preservate? Certo, lui non china il capo sul ceppo come fece la Dc, che si rassegnò a veder rotolare molte teste innocenti.
«Non c’è dubbio che la sua vecchia rete di consiglieri si sia andata sfilacciando nel tempo» Però Napolitano, nel suo lavoro di conciliatore, avrebbe forse bisogno di trovare in Berlusconi un alleato. Difficile stare in doppiopetto davanti al Parlamento la mattina e indossare la mimetica per affrontare, qualche ora dopo, i “tranelli” tesi da altri poteri. E a parlare di «poteri dello Stato intenti a tendersi tranelli» è stato il cardinale Bagnasco, presidente della Cei. Siamo alla paralisi. Berlusconi è l’alibi
per chi vuole restare nello status quo, per chi vuole che la politica sia tenuta sotto scacco dalla giustizia. L’alibi fa comodo anche ai falchi del Pdl? Mi riferisco ai poteri che hanno rotto gli argini. E all’opposizione che dice sì al federalismo solo se Berlusconi fa un passo indietro. Casini è forse l’unico che si muove con coerenza. Da quando si è presentato da solo nel 2008. Insomma, Berlusconi deve adattarsi a un sistema costituzionale alterato e i falchi non spostano nulla. Decide lui. In questo sistema sono gli altri ad allinearsi al leader: se lui dice si fa così, si fa così e basta. Non è in corso alcuno scontro tra falchi e colombe. Se Berlusconi si accorge che sta andando a sbattere si corregge da solo, come per il comunicato sulle manifestazioni. Poi c’è la corte, certo... La corte, appunto. Ma la corte di Silvio è come quella di Luigi XIV: fortune e miserie si confondono. C’è una coreografia, un canovaccio inevitabile con ruoli assegnati. Ma non si è mai visto che Luigi XIV lasciasse prendere le decisioni a qualcun altro. C’è però una precisazione da fare. Prego. Dalla corte vorrei che si ritenesse estraneo il signor Giuliano Ferrara. Lui non ne fa parte. Ferrara è quello che scrive a Berlusconi «Vogliamo i pantaloni, ci hai lasciato in mutande», è quello che definisce “criminale” il primo comunicato. È un libero pensatore, legittimamente schierato, che propone delle idee eventualmente fatte proprie da Berlusconi. Ma uno che si permette di definire “criminale” una nota azzardata non sta dentro il gioco della corte.
no al punto di entrare in rotta di collisione con il suo collega Calderoli. Dunque, Bossi ora porta a casa il federalismo municipale e conferma l’immagine di chi non tradisce, ma subito dopo dovrà trovare l’occasione giusta per rompere. Anche perché il leader della Lega sa che dopo la legge ci sarà il referendum costituzionale approvativo, e a quello deve arrivarci avendo conquistato un perimetro più largo del solo centro-destra per non si ripeta la fregatura del 2006. La seconda cosa che emerge dalle vicende delle ultime ore riguarda la posizione di Berlusconi. Che, da un lato, si è rafforzata con i 315 voti ottenuti sul “caso Ruby”(316 se ci fosse stato anche lui in aula), ma che dall’altro è tornata a farsi complicata per via dello scontro con il Quirinale.
A cui molti costituzionalisti e politologi – si veda Stefano Passigli ieri sulla Stampa – attribuiscono la facoltà di poter sciogliere le Camere anche in assenza delle dimissioni del governo. Non so se sia così, e comunque sconsiglierei a Napolitano di prendere una decisione del genere. Tuttavia, per il premier il combinato disposto di essere in tensione con il Quirinale, nel mirino dei magistrati, esposto al ridicolo sulla scena internazionale e perennemente sotto ricatto politico da parte della Lega, certo non lo lascia tranquillo. E aver abbandonato subito il “lodo Ferrara”non è stata una buona scelta, ancorché inevitabile. Ma, al di là di tutto questo, la vera partita si gioca ancora una volta sul terreno dell’economia. Dove Berlusconi è preso in una morsa. Da un lato, l’Europa ormai decisa a varare a marzo un “patto per la competitività” voluto dal duo Merkel-Sarkozy che non potrà che imporre all’Italia quelle riforme strutturali che non è mai stata capace di fare. E non si tratta precisamente di quelle liberiste evocate da chi ha nostalgia del Cavaliere del 1994 quando raccontava la favola della “rivoluzione liberale”, ma dure scelte di riduzione di spesa pubblica e debito non proprio a costo zero dal punto di vista elettorale. Scelte, cioè, che richiedono una convergenza politica stile “grande coalizione” – è stato così in Germania, dove sono già state fatte ed è il motivo della sua attuale crescita eccezionale, figuriamoci in Italia – di cui oggi non si vedono le premesse e che comunque non potrebbe prescindere dall’uscita di scena di Berlusconi. Dall’altro lato, il premier è stretto nella morsa di una congiuntura che rende non solo impossibile, ma ridicola, la sua annunciata intenzione di dare al Paese una strategia che in cinque anni (?) lo porti ad una crescita del 3-4%. Purtroppo, non siamo ancora all’ultima puntata di questa penosa fiction chiamata Seconda Repubblica. Speriamo solo che manchi poco. (www.enricocisnetto.it)
diario
pagina 6 • 5 febbraio 2011
Inflazione record: a gennaio è al 2,1%
False sim, indagata la Telecom
«No al ponte per il 17 marzo»
ROMA. Torna a crescere l’infla-
MILANO. La Guardia di Finanza
ROMA. «Confindustria rispetta e
zione: a gennaio 2011, secondo le stime preliminari, l’indice registra un aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente e del 2,1% rispetto al gennaio del 2010. Lo rileva l’Istat che sottolinea come l’incremento dei prezzi, a livello tendenziale, registri un record toccando il livello più alto dal dicembre 2008 (quando si era avuta una crescita del 2,2%). L’accelerazione, spiega l’Istituto, è dovuta in particolare agli energetici e agli alimentari non lavorati. L’inflazione di fondo, infatti, calcolata al netto dei beni energetici e degli alimentari freschi, è pari all’1,4% (lo stesso valore registrato a dicembre 2010). A dicembre 2010 la crescita su base annua era stata pari all’1,9%.
di Milano ha effettuato perquisizioni negli uffici milanesi di Telecom Italia nell’ambito di un’inchiesta della Procura su una truffa relativa a carte prepagate intestate a persone inesistenti tra il 2006 e il 2007. L’indagine riguarderebbe circa due milioni di schede sim ricaricate più volte a colpi di un centesimo di euro per ogni ricarica: questo lascerebbe supporre, secondo i magistrati di Milano, un meccanismo truffaldino per far lievitare il numero dei clienti con vantaggi sia per il gruppo telefonico, che così poteva vantare un numero di abbonati superiore al reale, sia per i rivenditori, che venivano pagati anche con provvigioni legate al numero delle schede vendute.
condivide la decisione del Governo di celebrare, il prossimo 17 marzo, la ricorrenza della proclamazione dell’Unità d’Italia. Si tratta di una data importante che va vissuta con autentica partecipazione. Chiediamo al tempo stesso – ha spiegato in una nota Emma Marcegaglia - che si tenga conto delle esigenze di un’economia che sta facendo e sempre più deve fare ogni possibile sforzo per recuperare competitività. Una nuova festività - per di più collocata in una giornata, il giovedì, che si presta ad essere utilizzata per un ”ponte lungo” sino al fine settimana - comporta perdite elevate in termini di minore produzione e maggiori costi per le imprese».
All’Assemblea nazionale del Pd il segretario è ancora fermo ai dieci milioni di firme per “mandare a casa” Silvio Berlusconi
Il rilancio dei democratici
Bersani si rivolge alla Lega: «Senza di noi, niente federalismo» di Francesco Iacobini ra il veltroniano “Fuori dal Novecento”e le faticose messe a punto bersaniane, calate sospirando su un partito diviso al centro e litigioso in periferia, i Democratici sono chiamati a un nuovo, ennesimo Esodo. C’è qualcosa di ironico e beffardo nel destino di una marcia che sembra non finire mai, che alterna immaginifiche proiezioni in avanti e la sindrome, quasi dantesca, dell’eterno ritorno dell’identico. L’Italia pattina da vent’anni nelle sabbie mobili di una transizione infinita, e le principali forze del Paese non riescono a venirne a capo, consumandosi nel gioco delle colpe o nella fiera delle diagnosi pietose e in fondo rassicuranti. Questo affollamento di medici svogliati e grotteschi attorno al capezzale del Malato ha generalmente il merito di distrarre l’uditorio dai rimedi utili e possibili, finendo per appassionarlo a tutto e – alla fine – ad arricchirlo di niente. Anche il Partito Democratico si trova dentro questo meccanismo, e la cosa è doppiamente rimarchevole, perché si tratta di una grande forza della democrazia italiana, protagonista a buon diritto di un dibattito che non è solo politico o parlamentare, ma esteso a molteplici luoghi sociali e culturali. Ieri però, nell’ambito dell’Assemblea nazionale del partito, si è parlato di molto senza arrivare a nulla: Bersani ha lanciato un amo alla Lega - «senza di noi, niente federalismo» - mentre la Bindi è tornata sulla questione femminile. Il PD è una creatura recente, ma a differenza di altre realtà politiche contemporanee, le storie politiche che ne sono all’origine sono importanti, con memorie anche inconsce assai robuste, tradizioni e scuole ancora vive, ben al di là di tutte le retoriche nuoviste.
Nell’anima fondante e fondativa del Partito democratico c’è qualcosa di ironico e beffardo. Una sorta di destino, una marcia che sembra non finire mai, che alterna immaginifiche proiezioni in avanti e la sindrome, quasi dantesca, dell’eterno ritorno all’identico
T
Si tratta, per di più, di identità a lungo contrapposte, dato che anche laddove ci si attraeva inconfessabilmente, l’interdetto geopolitico e le proibizioni del Secolo breve rendevano gli ammiccamenti leggeri e furtivi, quasi poetici,
ben diversi dalla dura prosa della convivenza quotidiana sotto lo stesso tetto. Nel tempo dei partiti personali e carismatici, il PD si caratterizza comunque come un luogo politico abbastanza aperto, i cui dibattiti e travagli interni si svolgono da sempre sotto gli occhi di tutti, segnando una diversità lampante con lo stile uniforme e unanimistico delle altre case politiche della Seconda Repubblica. Questa condizione viene vissuta dal popolo e dai dirigenti democratici ora con rammarico ora con orgoglio, alternando la fierezza per lo stile partecipativo e dialettico con il rammarico per la Babele di voci, per i vizi politicistici, per i rischi ricorrenti di trasformare la discussione interna in gioco di Palazzo. Oggi però il livello di guardia raggiunto dalla crisi politica italiana, e in esso il tipo di confronto che si svolge dentro il partito di Bersani, rendono più evidenti le contraddizioni fon-
damentali di un percorso, i nodi non sciolti, il saldo negativo di anni spesi essenzialmente in un lungo tirocinio sulle forme, le modalità e gli accorgimenti anche astuti per stare assieme, più che in un serrato lavoro di maturazione, fatto anche di scelte dolorose e scomode. E ancora oggi a farla da protagonista è la logica dell’emergenza, la vera chiave per capire i limiti della Seconda Repubblica, ben più che della Prima. Ciò che i Democratici propongono è in sostanza una specie di Comitato di Liberazione da Berlusconi, che – di nuovo – è la strada più sicura per rimandare i conti con i nodi politici veri, e per rinviare a un perenne domani la possibilità di costruire un assetto politico finalmente funzionale e normalizzato.
Uscire dal Novecento imporrebbe di rinunciare a questa tentazione, ed è proprio qui che, anche per il PD, avrebbe
inizio la sfida autentica, quella profonda, di lungo periodo, sui fondamentali, quella che si ha la tentazione di rimuovere per il rischio di risvegli amari, e di amputazioni dolorose. E c’è poco da fare, questa sfida riguarda – terribile a dirsi – l’identità. Terribile a dirsi perché parlando d’identità siamo fuori dalle mode correnti, dal conformismo secondorepubblicano, dalla mania modernista senza vera modernità, e perché negli anni scorsi ci è stato spiegato che l’identità è in fondo un ferro vecchio otto-novecentesco, e che nella nuova politica essa coinciderebbe col programma. Ma a parte il fatto che in un programma si può inserire di tutto (Ulivo docet), è ormai chiaro che anche le costruzioni politiche più ardite si inceppano nel momento in cui chi vi partecipa comincia a non riconoscere più sé stesso nella storia che si scrive tutti i giorni, in una temperie che non può essere solo di propo-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
A Vibo un quindicenne uccide il padre sospettato di mafia VIBO VALENTIA. Un ragazzo di 15 anni ha ucciso il padre a coltellate giovedì sera a Nicotera, nel Vibonese, davanti alla madre e all’altro fratello. Il minore è stato subito individuato ed arrestato insieme al complice, anch’egli minorenne, con cui ha commesso l’omicidio. La vittima è l’operaio Domenico Piccolo, 51 anni, fratello di Roberto Piccolo, arrestato nel settembre 2009 per detenzione di armi e ritenuto vicino alla potente cosca dei Mancuso di Limbadi. L’omicidio, secondo gli investigatori, sarebbe avvenuto in seguito a dissidi familiari sui quali proseguono gli accertamenti, ostacolati, secondo i carabinieri, dalla reticenza degli altri componenti della famiglia. Il ragazzino di 15 anni ha ammesso le proprie responsabilità nell’omicidio del padre. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il ragazzo e un coetaneo di origini polacche sono entrati nell’abitazione di Piccolo col volto coperto da passamontagna e, simu-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
lando una rapina, hanno colpito l’uomo con numerose coltellate alla schiena e al torace. L’aggressione è avvenuta alla presenza della moglie e di un altro figlio della vittima che ha soccorso il padre portandolo, in auto, nell’ospedale di Vibo Valentia, dove Piccolo, già noto alle forze dell’ordine, è morto subito dopo il ricovero. Appena rintracciato dai carabinieri della Compagnia di Tropea, il figlio della vittima ha ammesso le proprie responsabilità.
Walter Veltroni, Sergio Chiamparino e Ignazio Marino. Nella pagina a fianco, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
ste, ma anche di stili, di mondi, di compagnie, di solidarietà, di riflessi, di parole d’ordine e – perché no – di istinti e animal spirits. Se manca questa possibilità di rispecchiarsi, di ritrovarsi in un ideale, in una visione di società e di futuro, il discorso pubblico si riduce a un’elencazione di cose da fare, a banale programmismo, a esercizio asfittico, perchè in fin dei conti per asfaltare strade non serve una politica, e tantomeno occorrono democrazia e partecipazione. Uscire dal Novecento, invece, vuol dire anzitutto tornare a dichiarare chi si è e non solo cosa si fa, rendere percepibile il messaggio essenziale, il dato che contiene tutti gli altri, togliendo ogni dubbio sul proprio connotato di fondo, e non sulla propria capacità di dialogo e allenza. Nel PD questo accade a fatica, perché il patto fondativo mette insieme suggestioni importanti, ma trascura ragioni profonde.
Lo dimostra plasticamente il nodo irrisolto della collocazione nell’Europarlamento, dove l’espediente di aggiungere la parola “democratici”al gruppo dei socialisti costituisce una maldestra foglia di fico ad uso italico, stiracchiata lì per togliere le castagne dal fuoco qui a quanti faticano ad entrare, col pretesto del futuro, in una casa tutta novecentesca, persino nella denominazione. Lo prova, inoltre e ad esempio, la schizofrenia di toni tra la massima in-
Tra il Lingotto e l’Assemblea, il Partito è chiamato a uscire dal ’900 e a fare i conti con la questione antropologica transigenza in difesa della Costituzione e il trionfo del basso profilo su tutte le questioni bioetiche, con il ricorso alla libertà di coscienza (ovvero, alla non-politica) come clausola di salvaguardia permanente e rimedio per non deflagrare. È quindi la nitida visione di sé che fa difetto al PD, che finisce per risultare un partito confuso, incerto, lacerato tra richiami zapateristi e prudenze realistiche, contrappuntate da dolenti “vorrei ma non posso”. Ciò determina nel confronto tra i Democratici non tanto una dinamica di proposte, magari discutibili ma riconoscibili, quanto un’attitudine guardinga, fatta di reciproche interdizioni, in una logica di temi-chiave per forza stemperati e infine sempre un po’ stinti, compensata ora dalla mitologia del robusto professionismo politico da-
lemiano, ora dalle incursioni veltroniane nel kennedismo e nei variegati lidi delle Nuove Frontiere. Ecco, uscire dal Novecento richiederebbe di sciogliere questi nodi, senza silenziarli. Richiederebbe di stabilire e dichiarare che idea di società si ha, quale visione prevalente della vita, quale idea di fondo di modello di civiltà, di educazione, di trasmissione di significati e valori.Perché oggi il punto non è più dividersi tra clericali e anticlericali, tra bigotti e mangiapreti, tra tradizionalisti tetragoni e progressisti spinti.
Oggi la questione è tutta laica e culturale, riguarda l’immagine e il futuro dell’uomo e della convivenza umana, lo snodo dei loro nessi cruciali, la decisione di una società di essere qualcuno o essere tutto, e quindi, in sostanza, niente, e il ruolo della politica su questi complicati e imprescindibili fronti. Ecco perché un partito, può vedere dissensi al suo interno sul sistema elettorale, sulla patrimoniale, si può su Mirafiori o sul federalismo. Ma sull’essenziale no, sull’essenziale occorre ritrovarsi in gran numero e senza fatica, perchè il tempo post-novecentesco chiama appunto a una nuova discussione sull’essenziale, sulle priorità e sul senso dell’umano. La si può girare come si vuole, ma a ben vedere la questione è antropologica, amici Democratici. Se la rimuovete, starete sempre capo a dodici.
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economia
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Merkel e Sarkozy annunciano un “Patto per la concorrenza” per spingere i partner a tagliare i debiti, la spesa e i salari
L’Europa si spacca Non c’è accordo sul piano tedesco per evitare nuovi default «alla greca» di Francesco Pacifico
ROMA. Il conto presentato dall’asse franco-tedesco è molto salato. In cambio di un aumento del fondo anticrisi Nicolas Sarkozy e Angela Merkel vogliono imporre ai partner regole di bilancio ferree e un coordinamento più stringente sulle politiche economiche e finanziarie degli Stati.
Siccome l’Europa a due velocità o il club dei virtuosi (oltre a Francia Germania, Olanda, Austria, Finlandia e Lussemburgo) sembrano non fare passi avanti, va in scena il tentativo di germanizzare il Vecchio continente: deficit contenuti, spesa tagliata e ampi margini (magari inserendo in Costituzione il tetto tedesco all’indebitamento) per ridurre le tasse alle imprese e aumentare i sussidi alla ricerca. Tutti strumenti per permettere alle proprie aziende di competere con chi produce forte della garanzia di un basso costo del lavoro. L’Italia, e con essa mezz’Europa in attesa di ripresa, rischia di restare fuori da questo schema. Ma la cosa non preoccupa più di tanto Sarkozy e la Merkel. I quali hanno giustificato le loro mosse con la «volontà assoluta
ha ancora fissato una data. Infatti ieri si è preferito stringere un’intesa su un tema non meno complesso, quello della sicurezza energetica, per ridurre la dipendenza dal petrolio mediorientale e dal gas russo ai quali far seguire interventi per liberalizzare le reti e sbloccare gli investimenti privati destinati alla produzione di energie alternative e di nucleare. Eppoi c’era in agenda la crisi egiziana. Con non molte difficoltà è stata una quadra per mandare un monito (in verità blando) alle autorità de Il Cairo, le quali «devono rispondere alle aspirazioni del popolo con riforme politiche, non con la repressione». Van Rompuy, come ha chiarito attraverso un messaggio Twitter, non è andato oltre la concessione che «il rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche nell’area euro si aggiunga al pacchetto finanziario per avere una maggiore competitività». Nella logica dei piccoli passi gli europartner hanno incassato l’avallo di Berlino al rafforzare il Fondo anticrisi per la stabilizzazione finanziaria (Efsf), ma hanno vincolato ai singoli la
Herman Van Rompuy concede soltanto che «il rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche si aggiunga al pacchetto finanziario per avere una maggiore competitività» di difendere l’euro». Frase dietro la quale si cela anche la necessità di evitare nuove crisi come quelle che hanno coinvolto Grecia e Irlanda e in futuro molto prossimo potrebbero riguardare il Portogallo ma anche pesi massimi come la Spagna o la stessa Italia. Ieri, al vertice Ue di Bruxelles, i due leader hanno chiesto al presidente del Consiglo europeo, Herman Van Rompuy, di convocare per l’inizio di marzo un summit per discutere la loro proposta su un “Patto per la competitività”, quello che ha l’ambizione di esportare concetti come moderazione salariale, abolizione della scala mobile dove ancora esiste, innalzamento dell’età pensionabile. Al momento Van Rompuy non
definizione delle misure «per garantire la flessibilità necessaria e la capacità finanziaria» del meccanismo.
In una breve conferenza congiunta Sarkozy ha spiegato che «vogliamo rafforzare la competitività dell’Europa e della sua economia, vogliamo far convergere le diverse economie europee, per arrivare a un’integrazione più forte della politica economica al servizio di un obiettivo: rafforzare la competitività delle nostre economie». E siccome bisogna andare avanti «mano nella mano» per «passare dalle misure per affrontare l’emergenza a una fase in cui si dovrà rafforzare la cooperazione economica tra i Paesi della zona euro» In que-
Herman Van Rompuy, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel ieri al vertice di Bruxelles. Più a destra, una manifestazione di protesta, sempre ieri, fuori dai locali del summit. In basso, il presidente della Commissione europea Manuel Barroso
Parigi e Berlino puntavano a un nuovo club nell’«eurozona»
Ma così l’Italia rischia ancora la serie B
L’idea di un circolo di Paesi virtuosi e con le finanze solide, naturalmente, è destinata a vederci esclusi di Gianfranco Polillo ncora si sa poco del nuovo patto franco-tedesco per il governo dell’Europa, ma già sono arrivati i primi siluri. Decisamente contrari si sono dimostrati sia Jerzy Burek, presidente del Parlamento europeo che Yves Leterne, primo ministro belga. In parte analoghe le motivazioni. Non è dall’alto che si governa l’Europa, ma con un coinvolgimento generale dei singoli Stati. Scelta indispensabile se si voglio salvaguardare le diverse tradizioni storiche dei singoli popoli. La vecchia posizione francese, sempre restia a una devoluzione del potere verso l’alto, ma oggi abbandonata da Sarkozy, risuona così nelle prime dichiarazioni di altri esponenti europei. È presumibile che questo sia l’inizio di una cacofonia che diverrà più intensa, man mano che ci avvicineremo alle scadenze previste (marzo). L’idea è quella di convocare un vertice dei soli Paesi dell’eurozona – incontri destinati a divenire permanenti – per cercare di costruire un “nocciolo duro” per la nuova governance europea. Una sorta di passo indietro, rispetto alla retorica dell’allargamento per la quale si era tanto speso Romano Prodi, allora al vertice della Commissione europea.
A
Per quanto ci riguarda, lo consideriamo un atto di realismo politico. Essere una moltitudi-
ne è indubbiamente un fatto positivo. Ma le cose funzionano solo se si parla lo stesso linguaggio. Se, invece, ciascuna vuol dire la sua, senza farsi carico dei problemi più generali, il tutto si trasforma in una grande babele. Poteva, comunque, funzionare finché le cose andavano; ma di fronte ad una crisi ancora non risolta perseverare in quell’errore sarebbe solo diabolico. Deve aver ragionato così, Angela Merkel, quando cercava di convincere Nicolas Sarkozy – che ha convenuto – ad abbandonare definitivamente i vecchi sogni della grandeur, tanta cara alla tradizione francese. Il prezzo che dovrà pagare sarà quello di allargare il vecchio condominio franco-tedesco. Nella testa di punta, oltre a Francia e Germania, entreranno Paesi come l’Olanda, l’Austria, la Finlandia e il Lussemburgo. Realtà che non impensieriscono più di tanto. La somma dei loro redditi nazionali è appena pari ai due terzi di quello italiano. Hanno tuttavia una caratteristica comune: quella di essere gratificati dalla tripla A, per quanto riguarda il loro debito pubblico. Una nuova classificazione è destinata, pertanto, a dividere l’Europa. Se prima esistevano i Pigs – i porcelli – costituiti da Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, segnati a dito per la loro fragilità finanziaria. Oggi quel paradigma si rovescia, nel passaggio dai reprobi ai virtuosi. L’Italia,
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st’ottica la cancelliera ha annunciato che «2011 sarà l’anno della fiducia ritrovata. Vogliamo realizzare un Patto per la competitività tra i Paesi della zona euro a cui potranno partecipare anche gli altri Paesi europei che lo vogliono». Ma per smentire che sarà un club molto esclusivo, ecco la cancelliera Angela Merkel promettere che nascerà soltanto se «ci metteremo d’accordo prima del Consiglio europeo di marzo. In realtà non c’è la fila per aderirvi. Il polacco Jerzy Buzek,
che non faceva parte del primo gruppo, purtroppo non può vantare titolo per entrare nei posti di questa nuova Champion League. Nel tentativo tedesco di imporre questo nuovo ordine, la Germania usa il bastone e la carota. Il bastone è la filosofia del rigore. Una politica economica, coordinata a livello europeo, che non sarà solo Maastricht. Quei parametri finanziari andranno rivisti, fino a contemplare il pareggio di bilancio, come antidoto alla crescita del debito pubblico, Si arriccheranno, inoltre, di nuovi vincoli: aumento dell’età pensionabile, stop all’indicizzazione dei salari, tassazione armonizzata (per evitare la tentazione irlandese e la sua aliquota minima sui profitti d’impresa, pari solo al 12,5 per cento), indicatori di competitività su costo del lavoro e investimenti in R&S. E chi sforerà, incontrerà sanzioni meno blande di quelle che sono state finora irrorate.
le truppe ai confini per evitare ogni possibile sconfinamento.
Vedremo alla scadenza se tra il “dire” e il “fare” ci sarà ancora di mezzo il mare. Siamo, tuttavia, rimasti colpiti da due discorsi paralleli. Quello di Trichet, il presidente della Bce, che ha escluso, almeno nel breve periodo, ogni aumento dei tassi d’interessi, sebbene a gennaio i prezzi siano saliti del 2,4 per cento. Quindi sopra la fatidica soglia (2 per cento) che la stessa Bce pone come obiettivo del suo operare. Si teme, in particolare, per il rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari e delle materie prime. Il petrolio soprattutto, visto quanto sta accadendo nel Maghreb. Più rassicurante, ma anche più cinico, il discorso di Bernanke, presidente della Fed. La crescita, dal punto di vista americano, sta accelerando. L’immissione di nuova liquidità (circa 600 miliardi di dollari) non ha prodotto quelle conseguenze negative, che molti paventavano. Il dollaro, infatti, negli ultimi mesi si è apprezzato dell’1,6 per cento rispetto alle monete più importanti. E poi la disoccupazione non accenna a diminuire. Sono stati creati 145 mila posti di lavoro, ma per abbattere quel tasso di disoccupazione – inchiodato al 9,5 per cento – bisogna fare di più. Raggiungere l’obbiettivo di 200 mila posti di lavoro. E l’aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari, che l’eccesso di liquidità determina? verrebbe da dire. Anche per questo Bernanke ha la risposta pronta. Sono affari degli altri Paesi. Chissà se Hillary Clinton, così preoccupata per quanto sta avvenendo in Egitto, potrà condividerne lo spirito.
I parametri di Maastricht andranno rivisti, fino a contemplare il pareggio di bilancio come antidoto al debito
Il tutto per rimuovere dal tavolo della trattativa ogni riferimento al surplus della sua bilancia dei pagamenti: freno non secondario alla crescita dell’eurozona nel suo complesso. La carota è invece rappresentata dalla decisione di ampliare le capacità d’intervento dell’Efsf: il fondo salva Stati istituito per sostenere quei Paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo ed anche Spagna) se non proprio sull’orlo del default, almeno ad un passo dal loro suicidio finanziario. Finora i capitali teoricamente impegnati ammontano a 440 miliardi di euro. Quello effettivo è invece di poco più della metà. Ma, nel gioco della speculazione, l’effetto annuncio ha, a volte, un peso più importante della decisione effettiva. Esso mira a scoraggiare coloro che vorrebbero provarci, schierando
mier belga, Yves Leterme. Il quale «è assolutamente contrario, perché quello che serve in Europa è più cooperazione economica. Ma bisogna lasciare agli Stati membri lo spazio per gestire le proprie politiche». Al primo ministro non piace soprattutto l’aut aut sulla moderazione salariale: «Ogni Stato ha le sue tradizioni e noi non accetteremo che il nostro modello di concertazione sociale sia messo in discussione». Se Polonia e Belgio non hanno sufficiente autorevolezza per
Governi come la Polonia e il Belgio e ampi settori dell’Europarlamento bocciano la proposta. In allarme anche i sindacati del Vecchio Continente: «Un alibi per smantellare la contrattazione collettiva» presidente del Parlamento europeo, l’ha bocciato senza a mezzi termini. E nelle sue parole si intravede anche il fastidio delle maggioranza delle forze politiche che siedono a Strasburgo. «Il patto», ha spiegato, «è sul tavolo da pochi giorni, ne ho parlato con i tedeschi, ma non ancora in Parlamento . La competitività è importante, perché dà crescita e la crescita dà lavoro. La competitività e’ quindi la cosa più importante per gli Stati membri, ma io preferisco il metodo comunitario». Non piace quindi l’accelerazione data da Francia e Germania, che avrebbe il risultato di imporre agli altri partner una governance tagliata sulle loro esigenze. «È comunque sempre responsabilità dei capi di stato dare idee per una maggiore integrazione europea».
Dall’Europarlamento la presidente della Commissione per gli Affari economici e monetari Sharon Bowles, ha comunicato «non si avallerà la proposta franco-tedesca. Merkel e Sarkozy tengano a mente che in Commissione non lavoreremo sulla loro agenda o su proposte che non vengono dalla Commissione. Non metteremo il nostro sigillo su nulla che non sottolinei le cause della crisi, ovvero la debole disciplina di bilancio degli anni scorsi». Sulla stessa linea anche il pre-
mettersi di traverso ai desiderata visto che provengono – rispettivamente – da un Paese emergente e da uno fortemente indebitato, dal club delle Triple A si erge contro la proposta anche il guardiano dell’euro, il lussemburghese e presidente dell’Ecofin, Jean-Claude Junker. Secondo il quale è «troppo intergovernativo e non abbastanza comunitario».
Ma la piattaforma rischia di creare anche ripercussioni a livello sociale. La Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha parlato di «un alibi per smantellare il sistema delle contrattazioni salariali collettive», di «un gioco a somma zero per il quale a soffrirne sarà tutta l’Europa». Non è da escludere una mobilitazione generale, come quella che fu organizzata per respingere la direttiva Bolkstein sui servizi. Il segretario generale John Monks ha spiegato che «la riduzione dei salari minimi e l’abolizione del sistema di indicizzazione in qualche Paese potrebbe non essere altro che l’inizio di un processo che punta a minare il sistema di formazione dei salari e le posizioni di forza dei lavoratori e dei sindacati nei negoziati contrattuali in tutta Europa». E conclude che «il gioco della concorrenza sul mercato del lavoro è un gioco a somma zero».
economia
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Cisl e Uil firmano l’accordo sugli aumenti legati alla produttività e scoppiano le polemiche. In arrivo anche uno sciopero
Camusso, la signora in rosso Solo la Cgil dice no al contratto della pubblica amministrazione ROMA. «Questa è una presa in giro dei lavoratori. Non si riforma l’amministrazione con il taglio della contrattazione nazionale». Susanna Camusso non usa mezzi termini nell’annunciare l’ennesimo strappo tra Cgil, Cisl e Uil, con il sindacato rosso che non ha firmato l’accordo con il governo sul salario di produttività degli statali, insieme a Cobas e Cisal. L’accordo è stato firmato da sei sindacati su 13 presenti nel settore. Secondo quanto si legge sull’intesa oltre a Cisl, Uil e Ugl hanno firmato la Cida (dirigenti), la Confsal (presente soprattutto nella scuola) e l’Usae. Non hanno sottoscritto l’accordo anche la Cgu (presente nella scuola), la Cisal, la Confedir (dirigenti), la Cosmed (medici), il Cse (sempre dirigenti) e la Rdb-Usb (sindacati base).
La leader Cgil nella conferenza stampa che ha seguito l’incontro ha annunciato che la Cgil chiederà la verifica sul 51% necessario alla validità dell’accordo. Non solo, Susanna Camusso ha ribadito che «il testo non affronta i problemi urgenti che abbiamo. La Finanziaria taglia il 50% dei lavoratori precari della pubblica amministrazione. Non si fa la riforma dell’amministrazione con il taglio della contrattazione nazionale. Siamo di fronte a dei sindacati che corrono in soccorso di un governo un po’ claudicante». Un’accusa che viene subito rintuzzata da Raffaele Bonanni, che parla di «caduta di stile» della segretaria della Cgil: «Sono molto irritato e di-
Quello che accade in Italia accade solo in Germania con in naziskin». A tali dure parole Camusso ha ribattuto con altrettanta durezza: «Suggerirei a Bonanni di informarsi su cosa sono i naziskin e sul fatto che non fanno parte della storia della Cgil. Una cosa è il dissenso di merito, altro è non riuscire a leggere cosa sta succedendo».
La Camusso ha spiegato nel dettaglio il perché del no della Cgil: «Per noi la firma o non firma di un accordo è sempre nel merito delle questioni e la firma di oggi significa ridurre le risorse, non votare le rsu e mettere una pietra sopra ai precari. Tutte ragioni sindacali». Invece, insiste il segretario generale Cgil, l’accordo odierno voluto dal governo «è stato fatto per superare gli emendamenti al milleproroghe in discussione al Senato». In sostanza, secondo la Cgil, il livello delle retribuzioni, altrimenti tagliate dalla riforma Brunetta, verrebbe salvaguardato solo attraverso l’uso di ri-
Bonanni reagisce alle accuse della collega: «Mi dispiace di questa caduta di stile di Susanna: noi non prendiamo mai in giro nessuno» spiaciuto per le parole della collega Camusso. L’accordo non è una presa in giro dei lavoratori», ha contestato il segretario generale della Cisl. «Non mi sono mai permesso ha aggiunto - di dire cose di questo genere. Eppure ho molti dubbi sulla caratura essenzialmente sindacale dei comportamenti come quelli che ci tocca sopportare. Non lancio ingiurie ma continueremo a fare il nostro lavoro sindacale e lo faremo sempre di più. È bene che scopriamo le carte - ha aggiunto Bonanni -.
in conferenza stampa, aggiungendo: «Non comprendo le motivazioni per cui la Cgil non ha firmato un accordo che migliora le condizioni».
di Alessandro D’Amato
sorse recuperate con il sacrificio «del 50% dei precari oggi al lavoro nella pubblica amministrazione». Contesta il duro giudizio della leader della Cgil anche il segretario confederale della Uil Paolo Pirani, secondo il quale le accuse rivolte da Camusso agli altri sindacati «vanno respinte al mittente». «Non è manifestando solo il dissenso che si salvano le ragioni del sindacato, ma è risolvendo problemi concreti che il sindacato potrà continuare ad essere credibile in Italia», ha detto
L’Istat cambia i parametri per l’inflazione
L’Ipad nel paniere ROMA. Scatta l’adeguamento annuale del paniere dell’Istat per il calcolo dell’inflazione, in modo da rappresentare il più possibile da vicino la realtà delle spese degli italiani. Nel 2011 entrano il tablet pc (probabilmente l’iPad), il fast food etnico, il salmone affumicato, l’ingresso ai parchi nazionali, ai giardini zoologici e botanici, i biglietti che consentono l’utilizzo di più mezzi di trasporto extraurbani. Esce, invece, il noleggio dvd. Secondo quanto rende noto l’Istituto di statistica, l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic) viene diffuso con 319 segmenti di consumo, contro le precedenti 204 voci di prodotto. In generale, il paniere 2011 è composto da 1.377 prodotti, che si riaggregano in 591 posizioni rappresentative; su queste vengono calcolati mensilmente i relativi indici dei prezzi al consumo. Sempre secondo quanto rende noto l’Istat, nel
2011 sono 85 i capoluoghi di provincia che concorrono al calcolo degli indici (erano 83 nel 2010). L’Aquila riprende l’attività di rilevazione dopo due anni di interruzione a causa del terremoto del 2009. Entra Messina e riprende la partecipazione Salerno. La copertura in termini di popolazione provinciale è pari all’86,7%. Nei capoluoghi di provincia considerati sono circa 42 mila i punti vendita nei quali vengono rilevati i prezzi e 8.400 le abitazioni soggette a rilevazione dei canoni di affitto. Nel complesso, le quotazioni di prezzo rilevate ogni mese ammontano a 578 mila, di cui 510 mila raccolte sul territorio e inviate all’Istat dagli uffici comunali di statistica e 68 mila rilevate in modo centralizzato dall’Istat. Gli indici Nic e per le famiglie di operai e impiegati (Foi) sono diffusi da gennaio 2011 con base di riferimento 2010=100.
Nell’accordo siglato a palazzo Chigi le retribuzioni complessive comprensive della parte accessoria conseguite dai lavoratori pubblici nel 2010 «non devono diminuire» per effetto dell’applicazione della legge Brunetta sulle fasce di merito e l’erogazione del salario di secondo livello sulla base della produttività dei lavoratori. Le retribuzioni fino alla fine del 2013 non potranno aumentare per la componente nazionale (i contratti sono bloccati per effetto della manovra della scorsa estate) mentre è possibile che crescano per effetto dei risparmi di efficienza delle singole amministrazioni (questi risparmi saranno interamente riutilizzati nelle amministrazioni). Di fatto comunque il potere d’acquisto complessivo delle retribuzioni diminuirà a causa dell’inflazione che si produrrà in questi anni. Con l’accordo - si legge nel testo – «le parti, in attesa della stipulazione dei nuovi contratti collettivi nazionali di lavoro (gli aumenti salariali nazionali sono bloccati fino al 2013, ndr), convengono sulla necessità di realizzare un sistema di relazioni sindacali che persegua condizioni di produttività ed efficienza del pubblico impiego tali da consentire il rafforzamento del sistema produttivo, il miglioramento delle condizioni lavorative e della qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, nonché la crescita della competenza professionale». E a causa della firma dell’accordo, secondo quanto si dice tra i sindacati, si va verso una mobilitazione nazionale generale dei lavoratori del pubblico impiego della Cgil. Martedì prossimo ci sarà una riunione straordinaria dei segretari generali regionali della Funzione pubblica per decidere le forme di mobilitazione della categoria. Non è escluso che si metta in campo uno sciopero generale della categoria entro la fine di marzo contro il blocco dei contratti e l’accordo separato di oggi sul salario di produttività e per il rinnovo urgente delle Rsu del pubblico impiego.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Another Year” di Mike Leigh
INTIMISMO MADE IN ENGLAND di Anselma Dell’Olio
ike Leigh, il regista inglese di Another Year, ha conquistato un priviglese. È sempre chiarissimo da che parte stanno le sue simpatie, ma molto melegio raro: trova i finanziamenti per il suo sguardo d’autore né no del propagandistico Ken Loach (Piovono pietre, Terra e libertà, Il vento Da vedere calligrafico né compiaciuto, senza un copione. In cambio che accarezza l’erba) col suo occhio di lince su tutto e tutti. È più cudella sola premessa (i suoi film non sono sintetizzabili rioso dei moti interiori, degli spostamenti di simpatia, dei legami e rivedere in una trama classica) riceve un budget limitato, la garanzia che si saldano, si allentano o che non riescono a formarsi tra il nuovo film del regista di avere mano libera con il casting e qualche mese di le persone. Loach ha sette anni più di Leigh, e non podi “Segreti e bugie”. Un’altra, prove ed esplorazione degli attori per arrivare a trebbero essere più diversi, ma hanno in comune il una sceneggiatura finale. Il rischio con Leigh destino di essere più apprezzati all’estero che efficace radiografia dell’animo umano (in origine Lieberman, nome del nonno immiin patria. Leigh lo abbiamo notato la prima vole dell’evoluzione del sistema grato ebreo), che penetra la vita delle classi più umita con Belle speranze (High Hopes, 1988) che esamili e di quelli che ne sono usciti, è di parlare per settimane na la vita di due sorelle, una hippy non riformata e una di classe inglese. delle improvvisazioni con gli attori, trascurando visione e conyuppy, durante gli anni in cui Margaret Thatcher era al potere. Com’è suo tenuti. Il regista è deluso da questa «fissazione giornalistica»; eppuMa è con Segreti e bugie, Palma d’oro a Cannes nel 1996 e due cancostume… re è inseparabile dai risultati straordinari che ottiene: la radiografia deldidature all’Oscar (regia e sceneggiatura originale), che Leigh s’impone l’animo umano dei suoi personaggi e dell’evoluzione del sistema di classe ina un pubblico non solo d’essai.
M
Parola chiave Ateismo di Franco Ricordi L’esordio dirompente di Alessandro Mari di Maria Pia Ammirati
NELLA PAGINA DI POESIA
Wallace Stevens, oltre il senso ordinario delle cose di Filippo La Porta
Quel picciotto di Shakespeare di Nicola Fano Il Pasquino dei graffiti di Pier Mario Fasanotti
Un ponte tra Europa e Asia di Rossella Fabiani
intimismo made in
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Hortense (Marianne Jean-Baptiste) è un’oculista dalla pelle nerissima. Morta la mamma adottiva, rintraccia la madre naturale. Cynthia (Brenda Blethyn), una popolana con una vita disastrata e la pelle bianca, è stravolta dall’incontro. Non sospettava che il frutto di quella lontana «vergogna», sempre nascosta, fosse di razza diversa. Blethyn, con la sola espressione del viso, scandaglia la memoria in cerca di una spiegazione, trovandola all’improvviso; è una di quelle performance che fanno la reputazione d’un attore. Infatti ha avuto una candidatura all’Oscar come miglior attrice protagonista. Sottosopra (Topsy-Turvy, 1999), sulla storica coppia d’artisti Gilbert & Sullivan, e Vera Drake (1999), una massaia che praticava aborti illegali negli anni Cinquanta, sono anomalie nella filmografia del regista. Sono film biografici, notoriamente difficili in quanto a buona riuscita, che hanno raccolto diverse nomination all’Oscar e Vera Drake ha vinto il Leone d’Oro a Venezia. Anche Happy-go-lucky La felicità porta fortuna, il penultimo film di Leigh, ha incassato molti premi, oltre all’ormai rituale candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. I due film sono diversissimi, con un tema in comune: l’iniqua distribuzione della felicità.
Il titolo anodino di Another Year è la cenere che nasconde la brace. Tom e Gerri (Jim Broadbent, Topsy Turvy, e Ruth Sheen, Belle speranze) sono una coppia collaudata di mezza età in armonia con se stessa. Lui è un ingegnere geologico per le autostrade, lei una psicologa clinica del servizio sanitario. La storia si svolge tra i luoghi di lavoro, l’orto che coltivano in un appezzamento comunale e la comoda villetta con accogliente cucina e giardino, dove ricevono gli amici di sempre e il figlio Joe, un difensore pubblico trentenne. Il racconto è scandito dalle stagioni; si comincia con la primavera e un prologo. Janet (l’impareggiabile Imelda Staunton, alias Vera Drake), una donna ansiosa, chiusa e supremamente infelice che soffre d’insonnia, vede prima il medico Tanya (Michele Austin) che vista l’ovvia depressione della donna, la convince a vedere Gerri, la psicologa. Separatamente le due esperte cercano, con compassione professionale, di arrivare alla causa del malessere, perché più di una diecina di pillole non le possono dare. Ma Janet è così sfiduciata e culturalmente poco incline a sfogarsi con estranei, che respinge ogni tentativo di assistenza non farmacologica (a una domanda sul suo futuro, lei risponde secca: «Perché lei pensa che passerà». Non è una domanda). Gerri le chiede, su una scala da uno a dieci, che voto darebbe alla sua vita. «Uno», risponde. La psicologa incalza: «Qual è la singola cosa, oltre ai sonniferi, che potrebbe migliorare la sua vita?». anno IV - numero 5 - pagina II
La paziente taglia corto: «Una diversa». Con questo viatico, una sorta di parabola, simile alla funzione dell’allusiva favola yiddish all’inizio di A Serious Man, la storia vera e propria inizia. Gerri e Tom lavorano il terriccio fresco dell’orto e mettono a dimora le piante. Finita la fatica, Gerri serve il tè dal termos. Stanchi e soddisfatti, si riposano sul retro della famigliare con lo sportello aperto, nel pallido sole d’inizio stagione. Ogni tanto Gerri e la segretaria della clinica vanno insieme al pub per una chiacchierata tra vecchie amiche. La più giovanile Mary (Lesile Manville, superba, impavida artista), a differenza della psicologa, si tiene in forma, indossa abiti provocanti e giovanili e ostenta ottimismo. «Non mi posso lamentare. Ho il mio appartamento con giardino, un buon lavoro, nessuno che mi comanda!». Quando Gerri la saluta perché Tom l’aspetta per una cenetta che prepara lui, Mary dice di essere negata ai fornelli e sogna un marito che la coccoli così. Rimasta sola, fa occhi da sirena a un bel tipo aitante, calvo e non giovanissimo, solo al bar, sperando di rimorchiare. Dopo pochi secondi, entra in campo uno schianto di bionda ventenne. L’uomo l’aspettava: l’abbraccia felice, sbriciolando le velleità di Mary, fuori ambiente e fuori gioco. Gerri invita spesso a cena la vecchia ragazza sola, ex giramondo, un matrimonio e molte avventure fallite alle spalle. Arrivando trafelata a casa della coppia, si atteggia a strafica imperitura. «C’era un tipo strano in metropolitana che mi fissava tutto il tempo. Inquietante». Dopo cena e molti ettolitri di alcool, esce fuori al naturale. Gerri e Tom insistono perché dorma da loro: è troppo brilla per tornare a casa da sola. Salendo le scale Mary si sfoga. «Quello stronzo di mio marito mi ha liquidata con cinquemila sterline, capisci? È ingiusto! E poi, alla mia età, dovrei avere una casa di proprietà, diamine». Si lamenta di non avere qualcuno con cui andare in ferie. «Sapete qual è il problema? Gli uomini mi fanno la corte a frotte; ma quando scoprono che non ho l’età che dimostro, non ne vogliono sapere!». Manville è stata giustamente lodata per aver creato una persona vera, complessa, riconoscibile: la classica amica che non migliora con gli anni, anzi. È talmente autoillusa e disperata da convincersi che potrebbe filare con Joe (Oliver Maltman), il figlio scapolo dei suoi amici che conosce da quando aveva dieci anni. Gli sconsiglia di sposarsi troppo presto. «Guardami, io l’ho fatto e mi sono pentita. Poi ho incontrato l’uomo della mia vita, quello giusto. Certo, mi ha lasciato, era sposato. Non c’è mica un cartello al collo che ti mette sull’avviso. Come si fa a saperlo?». Tom, di rimando: «Dalla fede al dito, di solito». Un umorismo sornione, sottile, anglosassone non manca. In estate Tanya arriva per un picnic in giardino con il suo neonato, e
england dalla provincia scende per un weekend a Londra Ken, un vecchio amico d’infanzia di Tom. Si droga di birra, patatine (già sul treno) e sigarette, è obeso, scombiccherato, infelice al lavoro, ma con la paura di andare in pensione e sentirsi ancora più solo. Gli piace Mary, che lo schizza perché s’illude di meritarsi di meglio e preferisce fantasticare su Joe piuttosto che accettare la corte di un uomo più adatto a lei, ma non all’altezza delle sue fantasie. Le disavventure di Mary, distratta e sconnessa, con un’auto che sconsideratamente compra, sono la spia del suo disfacimento interiore, speculare a quello corporeo di Ken.Tutti bevono quantità omeriche d’alcol. (Hanno il fegato bionico gli inglesi?). Mary ha bisogno urgente degli Alcolisti Anonimi e Ken pure (Peter Wight, indimenticabile), ma solo dopo un ricovero immediato per disintossicarsi: è una botte piena col tappo sul punto di esplodere. La sua filosofia è scritta sulla maglietta sformata: More drinking, less thinking (Bere di più, pensare di meno). Mary è uguale, solo fisicamente più in salute e meno consapevole. L’autunno porta il raccolto dell’orto e Katie, una fidanzata per Joe; annunciano che presto si sposeranno, con scorno di Mary, che diventa acida, dispettosa e villana con la ragazza. Supera il segno ed è cacciata dal paradiso. I pomodori dell’orto che Gerri le ricorda di portar via sono il suo benservito.
ANOTHER YEAR GENERE DRAMMATICO DURATA 129 MINUTI PRODUZIONE GRAN BRETAGNA 2010 DISTRIBUZIONE BIM
REGIA MIKE LEIGH INTERPRETI JIM BROADBENT, LESLEY MANVILLE, RUTH SHEEN, OLIVER MALTMAN, PETER WIGHT
In inverno, un lutto. Tom, Gerri e Joe vanno da Ronnie (David Bradley), il fratello di Tom che vive nella cittadina d’origine e ha appena perso la moglie Linda. Segue l’arrivo angosciante di Carl (Martin Savage), figlio alienato dalla famiglia che non si fa vedere da due anni; un angry young man al calor bianco con il mondo per ragioni sconosciute e perché è in ritardo per il funerale: dovevano aspettarlo! Questi sono attori con il potere di far scordare che recitano. Sullo sfondo c’è il Welfare State, il livellamento sociale e l’ovattato, diffuso scontento che lo accompagna.Tom, Gerri, Mary, Tanya, Ken, Joe e Katie, fisioterapista, sono alle dipendenze dello Stato. Ronnie, «da sempre libero dalla tirannia di un lavoro regolare», vive con il sussidio di disoccupazione: si capisce da quale destino Tom s’è affrancato. Lui, Gerri e Joe formano una famiglia felice, e Katie (Karina Fernandez) sembra la sorellina di Sally Hawkins in La felicità porta fortuna. Contenti o meno, nessuno sogna in grande, una bizzarria meglio lasciata a quegli sconsiderati americani. Mentre la coppia pulisce l’orto, Mary si presenta senza preavviso a casa loro, dove trova il semicatatonico Ronnie. È tale il disperato bisogno della donna di rientrare nelle grazie di Gerri e famiglia, e con un dopo sbornia da paura, che offre inappropriate «coccole» al frastornato vedovo fresco mai visto prima. Da vedere e rivedere.
MobyDICK
parola chiave
er addentrarci in maniera adeguata verso il significato della parola ateismo seguiremo un binario in apparenza doppio, ma che in realtà è uno e uno solo, e che si qualifica sia in senso filosofico che drammaturgico; anzi, probabilmente si potrà concludere che proprio l’ateismo rappresenti il trait d’union del lungo, bimillenario, difficile ma anche intenso e decisivo rapporto tra dramma e filosofia, con tutte le implicazioni politiche e sociali che a tale relazione risultano connesse. L’ateismo è già presente in Grecia, sia in senso teorico che pratico, con Epicuro in particolare. Forme di ateismo si intravedono anche nel pensiero medioevale; ma certo soltanto in epoca moderna e contemporanea tale nozione assume una importanza più specifica, anche rispetto a un disincanto del mondo voluto dalla scienza e dall’antropologia darwiniana; e a seguito di ciò viene esaminato e preso di mira anche da importanti filosofi italiani come Giuseppe Rensi e Augusto Del Noce. Per quest’ultimo il problema dell’ateismo si pone come ricerca essenziale verso una comprensione non soltanto della filosofia, ma della stessa società moderna: la realizzazione dell’ateismo, per Del Noce, non si intravede tanto nel marxismo bensì in quella che egli definisce «società opulenta», secolarizzazione decisiva della spinta immanentistica.
P
Ma il discorso di Del Noce sull’ateismo nella modernità fa riferimento fondamentale al libertinismo, in maniera particolare a Sade; e proprio qui il tema dell’ateismo si incrocia ulteriormente con il teatro, con il mito e personaggio teatrale più celebrato e reinterpretato della modernità, appunto il «libertino» Don Giovanni. Da Tirso De Molina a Molière, da Grabbe a Byron, da Mozart e Da Ponte fino alle versioni contemporanee, Don Giovanni sedimenta sempre più un tema che va ben al di là dell’ossessione per la conquista femminile, e che già Kierkegaard interpretava come espressione del demoniaco nell’arte musicale. Insieme e ancor più del suo cugino nordico Dr. Faust, Don Giovanni è la massima espressione, il vero e proprio «la», di tutto il dramma contemporaneo, che avrà il suo culmine in un ateismo assai diversificato, che va dal materialismo marxista di Brecht a quello di Heiner Mueller, dal laicismo sociologico di Goldoni a quello dei più importanti autori borghesi, fino all’assurdo di Beckett (che certo con il suo Aspettando Godot ha dato l’impronta più importante al teatro ateista del Novecento, Godot è proprio il Dio, il God, che non arriverà mai), per finire a tutto il teatro della disperazione che forse culmina nella frustrazione sessuale ma anche religiosa della giovanissima autrice morta suicida Sarah Kane. Tuttavia nel rilievo che si può conferire a tanti filosofi-drammaturghi della modernità, come Schiller, Sartre ma anche il nostro Pirandello, che incrementano in maniera diversa e ulteriore il senso dell’ateismo, riteniamo
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ATEISMO È la situazione esistenziale e teatrale in cui ci troviamo: un deserto, come quello espresso da Leopardi, che rappresenta la vera dimensione dell’uomo nel XXI secolo. È la nostra verità
All’origine della morte di Dio di Franco Ricordi
C’è un trait d’union tra la Medea di Seneca e Macbeth, il quale anticipa la dimensione di Nietzsche. Il personaggio immaginato dal Bardo infatti non si pentirà mai della sua corsa verso il male e lo esperisce non tanto per il raggiungimento del potere ma per un regicidio che diviene un vero e proprio deicidio che l’episodio più importante per una nuova messa in discussione del problema rimanga Nietzsche; e che naturalmente si esprima non a caso in termini che sono insieme filosofici ma anche drammaturgico-teatrali, come avviene fin dalla sua prima folgorante opera La nascita della tragedia fino al capolavoro della maturità Così parlò Zarathustra. La sentenza nietzscheana della «Morte di Dio» rimane il punto di partenza per una nuova valutazione dell’ateismo, ma Nietzsche ci riconduce non soltanto a
Wagner ma anche all’origine politeistica della tragedia: il dramma antico, esso fondato sulla mitologia, ha come riferimenti e addirittura protagonisti «in persona» - vale a dire con le appropriate maschere - gli stessi dei: Apollo, Atena, Dioniso, poi anche Giove, Mercurio tutti i semidei che accettano di potersi esprimere attraverso la parola dell’uomo, se non a divenire personaggi esplicitamente comici come in Aristofane. E tuttavia il dramma antico culmina in un autore che, seppure grande filosofo morale, si
contraddice completamente nella sua straordinaria teatralità, sanzionando la fine ovvero il superamento degli dei già nell’età antica: questo autore è Seneca. Le tragedie di Seneca sono caratterizzate da un leitmotiv che si può senza dubbio definire ateo; così si intravede in Ercole sull’Eta, poi in Fedra, in Agamennone, ma soprattutto nel terribile Tieste e nella fase finale di Medea dove, differenza di ciò che avviene in Euripide, l’eroina diviene «la prova vivente che gli dei non esistono», come grida l’annichilito Giasone. L’ateismo di Seneca, pur nella sua cornice barocca, si trasferisce così attraverso Shakespeare nella seconda fase della drammaturgia occidentale, quella che rinasce in relazione ai monoteismi, in particolare a quello cristiano. Nel medioevo è difficile incontrare un sistema che si possa dire ateista, laddove il più grande sforzo filosofico è proprio quello di coniugare il «gran pagano», Aristotele, al cristianesimo. E tuttavia il tentativo ateista riesce a Macbeth, il personaggio shakespeariano che, fortemente suggestionato proprio dalla Medea di Seneca, si spinge per primo in una dimensione che potremmo definire nietzscheana, laddove il male assoluto viene esperito non solo e non tanto per il raggiungimento del potere, ma verso un regicidio che diviene un vero e proprio deicidio. Macbeth, a differenza di altri villains di Shakespeare come Riccardo III, non si pentirà mai della sua corsa verso il male, volendo addirittura distruggere lo stesso concetto della famiglia cristiana, che si incarna in maniera specifica nel suo rivale Macduff. Ma qui si avverte anche quel motivo del Superuomo che riporta il discorso verso Nietzsche, e verso quella consapevolezza di un Dio che, se è morto, evidentemente ha avuto anche un lungo periodo di esistenza e di storia.
Tutto il resto, si può dire, ci risulta conseguenza: deriva di una messa in crisi della divinità che, come abbiamo dimostrato, non può certo attribuirsi allo sviluppo della scienza e della tecnica, essendo già presente nell’antichità; né ad altre ideologie che, come quella marxista, abbiano incarnato nel Novecento il più grande tentativo di secolarizzazione nella società. L’ateismo è invece una presa di posizione diversa, forse anche filosofica, del problema di Dio. L’essere non è Dio, scrive Jaspers, la filosofia non è teologia.Tanto più vorremmo concludere con l’apologia dell’ateismo che ci propone il nostro Giuseppe Rensi: questi contempla «con stoica fermezza o con leopardiana disperazione, una realtà del tutto indifferente a noi, cieca e sorda». Rensi comprende come l’ateismo sia, alla fine, una religione: la sola religione che bandisca l’egoismo, dunque «la più alta e più pura di tutte le religioni». L’ateismo è pertanto la situazione esistenziale e teatrale in cui ci troviamo: un deserto, come quello espresso da Leopardi, che rappresenta la vera dimensione dell’uomo nel XXI secolo. L’Ateismo è la nostra verità.
MobyDICK
Pop
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musica
Per Jovanotti un colpaccio ALL’AMATRICIANA di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi e è successo innumerevoli volte di toccare il fondo. Ma ogni volta è ritornata a galla impedendo al cuore di sanguinare. Marianne Faithfull, venere della Swinging London che negli anni Sessanta interpretò con pudore As Tears Go By, canzone scritta per lei da Mick Jagger e Keith Richards, è abituata a nuotare controcorrente. Quando i due Rolling Stones, dopo averla (in tutti i sensi) usata la gettarono via come uno straccio e lei si infilò, sola e disperata, nel tunnel della droga, tutti la diedero per finita. Ma lei trovò la forza di raccogliere i cocci di corpo e anima per mettere a nudo con l’album Broken English tutto il suo dolore. Era il 1979. Da allora, la vita ha continuato a non farle sconti. Da allora, la talentosa Marianne si è aggrappata alla musica intonando canzoni scritte da lei e rivisitando pezzi altrui, per dribblare il destino cinico e baro. E ha vinto, puntualmente, con la sua voce che s’è fatta via via sempre più roca, scura e fumosa somatizzando una tristezza temperata dall’ottimismo e una disperazione esorcizzata da gocce di humour. Al cinico pop di Dangerous Acquaintances (’81), hanno fatto seguito fra le cose migliori la desolazione da chanteuse di Strange Weather (’87); la cupezza di A Secret Life (’95); il riscatto di 20th Century Blues (’96), nel solco del repertorio di Brecht & Weill; Vagabond Ways (’99), con una memorabile rilettura di Tower Of Song di Leonard Cohen; il decadentismo virato in noir di Before The Poison (2004) e tre anni fa Easy Come Easy Go, elegante rilettura di dieci canzoni griffate fra gli altri da Billie Holiday, Randy Newman, Bessie Smith e Dolly Parton. A 64 anni, domiciliata in una Parigi che la rende giorno dopo gior-
L
Jazz
zapping
genzia Jovanotti. I Giovanotti, i Lorenzi, i Cherubini. Quelli che fanno uscire libri dai titoli di soffice imparzialità esistenziale (come smentire una frase come «Viva tutto»? È una geniale superfetazione del famoso «ma anche» veltroniano, un’assoluzione dialettica a prova di dialettica). Quelli che fanno uscire dischi omnicomprensivi dal titolo Ora, con venticinque brani e un range di suoni che va dal funk al celentanato. Quelli che li intervistano e rispondono su tutto: nell’ordine: 1) sull’idea di abbassare la maggiore età per non avere problemi con le minorenni; 2) sul terremoto e sui soldi per l’Aquila; 3) sulla situazione in Iran; 4) sul ruolo dei social network; 5) sulla Libertà, da scrivere con la maiuscola come nella poesia di Paul Éluard. E le risposte sono come sempre spiazzanti: alla domanda 1 il Jovanotti è contrario, alla 2 è contrario e speranzoso che i fondi arrivino presto, alla 3 è preoccupato, alla 4 è favorevole, alla 5 è entusiasta. E insomma dopo tutto ciò scopri anche, diavolo di un Jovanotti, che presto ce lo ritroveremo in un disco dei Beastie Boys. Non è cosa da poco perché i ragazzi bestiolina fanno rap vero. E cosa farà Jovanotti nel disco dei BB? «Ho registrato per i Beastie Boys delle rime in italiano su una base che stavano componendo. Il pezzo parlava di cibo, io ho interpretato una specie di cuoco italiano che fa un rap elencando linguine al pesto, bucatini all’amatriciana e tanti altri piatti della cucina italiana per cui gli americani vanno pazzi». Visto il colpaccio, e il probabile I love capoochinou che contralterà tra le dichiarazioni alla stampa dei rappettari americani, tutto trova la giusta dimensione. Quella del cuoco italiano. Meno male, per la Libertà e per Paul Éluard.
A
Serenamente… Marianne Faithfull
no sempre più serena, Marianne Faithfull garantisce di essersi finalmente lasciata il peggio alle spalle, problemi di salute e separazione dal compagno e manager François Ravard inclusi. «Sono cambiata», dice, «e solo adesso comincio ad assaporare come si deve la vita. Anche se la felicità, lo sapete bene, non appartiene al mio modo di essere». Horses And High Heels, il suo ventitreesimo disco che ospita leggende come Lou Reed e l’ex MC5 Wayne Kramer (chitarre elettriche), nonché il pianista Dr. John, è andata a inciderlo nel quartiere francese di New Orleans. E si sente, ascoltando le cover di Gee Baby (Sylvia Robinson) e di Back In Baby’s Arms (Allen Toussaint) che lei infarcisce di atmosfere creole e fa vibrare in un corposo soul. Come d’abitudine, Marianne ha attinto dal repertorio degli altri
(nove volte) e firmato di suo pugno quattro canzoni: senza però incupirsi né commiserarsi, come tante volte è capitato. Se infatti i suoi pezzi alternano ariose ballate (Why Did We Have To Part; Horses And High Heels), un contagioso stile Sixties con tanto di fraseggi d’organo Hammond (Prussian Blue) e un folk dai sorprendenti esotismi (Eternity), i rifacimenti colgono un dark avvolgente ma tutt’altro che tossico (The Stations di Greg Dulli e Mark Lanegan), l’unghiata rock-blues di No Reason (Jackie Lomax), l’arpeggio di chitarra acustica e i riverberi pinkfloydiani di Love Song (Lesley Duncan), la meravigliosa melodia di Goin’ Back (gioiello firmato Carole King - Gerry Goffin) e il melodramma pop di Past, Present And Future, che le Shangri-Las portarono al successo negli anni Sessanta. E chissà che quel tenero, crudele romanzo che è la sua vita non sia proprio racchiuso in quelle tre parole. Marianne Faithfull, Horses And High Heels, Naïve, 18,90 euro
I Ghetto Swingers, una lacuna nel Giorno della memoria iovedi 27 gennaio nel corso della Giornata della Memoria ricordata a Roma con molte manifestazioni fra cui alcune alla Casa del Jazz è stato dimenticato l’evento che forse avrebbe dovuto essere ricordato proprio in quel luogo ma che invece nessuno dei relatori ha creduto o pensato di voler menzionare. Dimenticanza o non conoscenza del fatto? Tutti coloro che si interessano seriamente al jazz conoscono i nomi di due musicisti, il chitarrista tedesco Heinz Jakob «Coco» Schumann e la tromba cecoslovacca Eric Vogel. Ambedue ebrei, musicisti di jazz, vennero deportati come milioni di altri nei campi di sterminio, prima a Theresienstadt poi ad Auschwitz. La storia di questi due musicisti (gli unici sopravissuti di un nutrito gruppo di jazzisti) è stata raccontata da loro stessi. «Quando arrivammo a Theresienstadt, fummo fatti uscire per l’appello. Stemmo impalati senza cibo per ore sotto una
G
di Adriano Mazzoletti tormenta di neve. Quelli deboli moriva- formare un’orchestra che venne battezno o venivano portati via. Poi uno delle zata Ghetto Swingers. Oltre a Vogel e SS ordinò: “Musicisti un passo avanti”». Schummann ne facevano parte il clariI nazisti stavano trasformando There- nettista Fritz Weiss, senza dubbio uno sienstadt in un campo «modello» messo dei migliori musicisti jazz europei del in scena da Goebbels per dimostrare al- periodo pre-bellico. Martin Roman, che la Croce Rossa Internazionale che nelle era stato il pianista della celebre orcheprigioni naziste si viveva in condizioni stra di Marek Weber, venne incaricato di umane e per smentire le voci dell’esi- dirigere l’orchestra. «I Ghetto Swingers stenza di lavoro da schiavi e di camere a - racconta - erano proprio una buona orgas. «Infatti - continua chestra. Suonavamo con swing e feeling, principalVogel - stava per giungemente nello stile di re un comitato della CroBenny Goodman». ce Rossa».Tutte le superQuando la commissione fici furono ridipinte. della Croce Rossa giunArrivarono strumenti se, l’orchestra suonava in musicali e furono orgaun Caffè che era stato alnizzate orchestre. In quel lestito in fretta e in furia. campo c’erano alcuni dei Tutto venne documentato migliori musicisti euroin un film di propaganda pei. L’8 gennaio 1943 Vo“Coco” Schumann, e i Ghetto Swingers vi gel venne incaricato di un sopravvissuto dei Ghetto Swingers, oggi ottantaseienne
appaiono diverse volte. Appena la Croce Rossa e gli operatori cinematografici ebbero lasciato il campo, i musicisti presero la strada per Auschwitz e molti di essi, «fra cui il nostro amato e meravigliosamente dotato Fritz Weiss», mandati immediatamente alle camere a gas. Ma ad Auschwitz, Heinz «Coco» Shumann fu obbligato ancora a suonare. «Ero costretto a intonare la melodia di La Paloma mentre le SS accompagnavano le colonne di detenuti verso le camere a gas». Vogel e Schumann erano ancora miracolosamente vivi quando il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo. È una storia drammatica e terribile che, durante la Giornata della Memoria avrebbe dovuto essere raccontata alla Casa del Jazz, anche attraverso documenti salvati dalla furia di quelle orribili stragi e con la presenza di Coco Shumann che, malgrado i suoi ottantasei anni, vive e suona ancora la sua chitarra.
arti Archeologia
MobyDICK
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Un ponte
tra Europa e Asia di Rossella Fabiani l margine di una delle regioni oggi più inospitali della Cina, il deserto del Takla Makan, è stata scoperta, negli anni scorsi, una necropoli che, grazie alle particolari condizioni climatiche della zona, ha restituito molte mummie in un eccellente stato di conservazione. La più famosa, ribattezzata Beauty of Xiaohe (Bellezza di Xiaohe, «Piccolo fiume», una località del Lop Nur nella regione dello Xinjiang Uygur), è l’emblema della mostra che si apre oggi a Philadelphia, presso l’University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology, e che rievoca la storia delle comunità umane un tempo insediatesi in quelle terre, comprese nell’area del bacino del fiume Tarim nella provincia cinese dello Xinjiang, al confine tra la Mongolia, il Kazakhstan, il Kyrgyzstan, il Tajikistan e il Pakistan. Una storia che, come accade per molte province del moderno Stato cinese, s’intreccia con quella della Via della Seta. Il deserto del Takla Makan è il più grande deserto cinese e il
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secondo al mondo con un’estensione di quasi 34 chilometri quadrati. In lingua uigur il suo nome significa «Potete entrare, ma non potete uscire». E in questa area un tempo vivevano organizzate e ricche comunità di genti. Come raccontano i pezzi in mostra che provengono da varie necropoli venute alla luce da scavi decennali, tra cui quella di Niya, di Yingpan e di Zaghunluq. Oltre alla Bella di Xiaohe, scoperta nel 2003 e databile intorno al 1800 avanti Cristo, i reperti più spettacolari scelti per l’esposizione Usa sono gli abiti e gli accessori della mummia del cosiddetto Uomo di Yingpan (i resti veri e propri sono rimasti in Cina perché troppo delicati per poter affrontare il trasporto), un individuo di rango elevato vissuto nel III-IV secolo dopo Cristo, e la mummia di un bambino, morto, in età poco più che neonatale, nell’VIII secolo avanti Cristo. A corredo di questi reperti, sono esposti oggetti che documentano gli usi e i costumi delle popolazioni che si sono succedute nel tempo nella re-
Architettura
gione del Tarim, tra cui tessuti, utensili in legno e osso, monete, maschere funerarie in oro e pietre preziose, gioielli, accessori del vestiario e perfino resti di cibo, conservatisi anche questi grazie all’estrema aridità del contesto di provenienza. Molti oggetti denotano anche un’impronta chiaramente mediterranea, a testimonianza di quanto antichi e radicati fossero i traffici fra l’Asia e le regioni dell’Occidente europeo. Ma il dato che ha più sorpreso gli studiosi che hanno utilizzato le mummie, illustrato anche dalla mostra, è quello delle analogie con sepolture dello stesso tipo scoperte in Siberia, in Persia e nell’Europa occidentale. Una riprova del valore anche culturale degli scambi veicolati dalla Via della Seta, che, con ogni probabilità, favorì anche lo spostamento fisico delle persone. Anche le analisi del Dna delle mummie stanno infatti rivelando interessanti coincidenze fra ceppi etnici europei e asiatici, che potrebbero quindi essersi mescolati già in età molto remote e che giustificherebbero l’aspetto «europeo» della Bella dello Xiaohe e dei suoi compagni. L’antichissima strada carovaniera della Via della Seta iniziava da Shangai e attraversava tutta la Cina, arrivava nell’Asia centrale, al confine con le ex repubbliche sovietiche del Kazakhstan e del Kirgyzstan per spingersi poi fino alla Grande Siria. I percorsi via terra erano diversi. Gli studiosi ne hanno identificati almeno tre. Esiste anche un percorso via mare. Ancora poco noto. Ma che si annuncia anche questo ricco di sorprese.
Che ne sarà del viadotto sul Polcevera?
quotidiani ogni anno annunciano l’imminente demolizione del viadotto sul torrente Polcevera, a Genova, un’opera ingegneristica straordinaria, realizzata negli anni Sessanta dal geniale ingegnere romano Riccardo Morandi (1902-1989). A distanza di quasi cinquant’anni dalla costruzione, l’intenso traffico sul viadotto è di gran lunga superiore al valore limite di progetto, inoltre una forte aggressività ambientale e carenze costruttive hanno portato a un grave degrado della struttura. Dopo infiniti studi di fattibilità, riunioni e dibattiti che ne decretavano inevitabilmente la demolizione, contemporaneamente alla costruzione di un nuovo asse stradale a monte di Genova, a sorpresa sì è deciso infine di non demolire l’opera, uno dei capolavori dell’ingegneria italiana, solo perché il costo sarebbe eccessivo e l’intervento di grande difficoltà tecnica. Morandi è un ingegnere passato alla storia per le sue opere strabilianti, soprattutto aeree strutture di ponti, dai progetti sperimentali di piccola luce degli anni Cinquanta, fino al ponte ad arco sul Fiumarella a Catanzaro (1958-‘61), culminando nel magnifico e colossale ponte sulla laguna di Maracaibo (1957-‘62) in Venezuela (lunghezza 9 km), che consacra Morandi a una fama internazionale. Mentre è in completamento il ponte venezuelano, Morandi elabora il progetto di un ciclopico viadotto sulla
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di Marzia Marandola valle del Polcevera, nel tracciato dell’autostrada Genova-Savona, che del ponte di Maracaibo sarà per più aspetti debitore. Nel l960 l’Anas (Azienda nazionale autonoma delle strade statali) bandisce un appaltoconcorso nazionale a invito per il 24° lotto dell’auto-
strada Genova-Savona, lungo 2400 metri, comprendente, tra varie opere, il viadotto sul Polcevera. Il bando definisce il tracciato e la sagoma tipo delle sezioni stradali; determina la posizione delle pile d’appoggio del viadotto, obbligata dalla fitta urbanizzazione dell’area sottostante, e soprattutto dalla presenza di un nevralgico parco ferroviario, cui deve essere garantita continuità
di funzionamento. Pertanto risulta proibitivo l’inserimento di qualsiasi elemento, opere provvisionali comprese, che intralci o modifichi il sedime ferroviario. Su 45 imprese invitate, solo 7 aderiscono: nel 1961 la Società italiana per le condotte d’acqua di Roma si aggiudica l’appalto con un progetto di Riccardo Morandi. Il progetto garantisce la costruzione del viadotto senza alcuno intralcio al sottostante traffico ferroviario, che in effetti non subirà interruzioni durante l’intera durata dei lavori! Sotto il profilo ingegneristico l’opera è lanciata come una sfida titanica: creare un nastro fluttuante sulla città, un’acrobatica struttura spaziale che si dispiega su Genova. Il viadotto, alto 40 metri sul parco ferroviario, ha una lunghezza di circa 1100 metri, realizzato interamente in cemento armato e precompresso, con campate che raggiungono la luce massima di ben 207 metri, necessarie per sovrappassare i sottostanti parchi ferroviari e il greto del Polcevera. La grande capacità figurativa e l’eleganza formale dell’opera morandiana hanno origine dalla volontà di comporre in unità tettonica elementi semplici e lineari, senza nulla concedere a tentazioni decorative: aste e travate cementizie sono qui composte secondo un’elementare, e al tempo stesso sofisticata, giustapposizione che coniuga perfettamente potenza strutturale, dinamicità e leggerezza.
MobyDICK
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Andrea Camilleri (insieme con Giuseppe Dipasquale) immagina che sia Michelangelo Florio il vero autore di “Troppu trafficu ppi nenti”, versione originale di “Molto rumore per nulla” poi tradotto in inglese dal Bardo… In realtà questo gioco, godibile e scoperto, e ora suffragato dal testo presentato in lingua siciliana in libreria, non è che uno dei tanti voli pindarici sull’identità del grande drammaturgo. Con risvolti, però, di storica veridicità
il paginone
Quel piccio
di Nicola Fano urante la seconda guerra mondiale, in Italia, Shakespeare era l’unico autore teatrale originario di un «Paese nemico» a essere ammesso dalla censura teatrale. Non è questione di poesia né di larghezza di vedute intellettuali: semplicemente Shakespeare era considerato un autore italiano. Nel 1929 un medium veneziano, tal Luigi Bellotti, era entrato in contatto con Shakespeare il quale gli aveva spiegato per filo e per segno la sua storia. Altro che inglese, disse lo spirito di Shakespeare finalmente nella condizio-
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trante che abbia parlato così a lungo (e in modo così pertinente) dell’Italia, doveva o esser vissuto nel nostro Paese o - meglio ancora - esserci nato sotto mentite spoglie. E infatti nel canone shakespeariano propriamente detto, ossia l’insieme delle opere unanimemente attribuite a Shakespeare, composto da 37 testi, dieci sono ambientati in tutto o in parte in Italia, in epoche non sempre ben definite ma comunque quasi sempre prossime alla contemporaneità di Shakespeare. In essi, inoltre, personaggi dichiaratamente italiani vi hanno un ruo-
lo rilevante. Altri cinque testi, poi, sono ambientati in Italia ai tempi dell’Impero Romano. Per quanto riguarda gli altri copioni, dodici di essi sono ambientati in Inghilterra (vale a dire il corpus dei dieci drammi storici più le commedie Come vi piace e Le allegre comari di Windsor); quattro in Grecia, in varie epoche storiche; due in diverse regioni della Francia; uno in Scozia, uno in Danimarca, uno in Illiria, uno a Vienna. Insomma: l’Italia è il luogo più frequentemente utilizzato da Shakespeare come sfondo dei suoi intrecci. Sicché in molti si so-
Dieci delle sue 37 opere sono ambientate in Italia, ecco perché in molti si sono arrovellati a dimostrare i suoi natali italiani. Trascurando così il fatto che ai teatranti basta poco per fingersi esperti di tutto ne di smentire una secolare menzogna! Sono valtellinese del piccolo comune di Tresivio, disse lo spirito inquieto. E in effetti lì esiste un luogo il cui antico nome Càdotel era stato solo recentemente riconvertito in Ca’ d’Otello. Qui sarebbe cresciuto il contadino Michelangelo Florio, figlio di una famiglia protestante, prima di scappare in Svizzera per evitare repressioni religiose, e quindi in Inghilterra, patria degli antipapisti nel mondo, ove avrebbe preso il nome di Guglielmo Crollalanza in omaggio alla madre Giuditta Crollalanza. Crollalanza è un po’ come tradurre in italiano maccheronico Shakespeare, mentre Florio è solo il reale cognome - di probabile origine siciliana - di un sodale di Shakespeare. Quello vero, non quello valtellinese. Tant’è, il regime accolse con clamore la notizia che Shakespeare aveva rivelato urbi et orbi le proprie origini italiane e se ne fece quieto vanto. Le leggende sull’italianità di Shakespeare sono innumerevoli: una più stravagante dell’altra, una più incredibile dell’altra. Ciascuna si basa sulla considerazione terra terra che un teaanno IV - numero 5 - pagina VIII
no arrovellati a cercare di dimostrare che Shakespeare era italiano: gente poco avvezza al teatro, perché sennò avrebbero saputo che i teatranti sono orecchianti cui basta poco per fingersi esperti di tutto. «Orecchiante», naturalmente, è una definizione di Shakespeare, una delle tante che egli dà dei teatranti, appunto (per esempio, è il caso di Autolico, nel Racconto d’inverno).
Questo per dire che a ricamare intorno a queste storie ci si può divertire parecchio. Come è il caso di Andrea Camilleri e il suo storico sodale teatrale Giuseppe Dipasquale, i quali - dopo averlo messo in scena anni fa ora dànno alle stampe il loro copione Troppu trafficu ppi nenti (Mondadori, 220 pagine, 11,00 euro). Che sarebbe poi l’originale - da loro due rintracciato nelle segrete di un archivio sperduto - di una commedia del siciliano Michelangelo Florio (o Michele Agnolo, Crollalanza per parte di madre), più tardi resa nota in una traduzione inglese firmata da un certo William Shakespeare. Natu-
ralmente si tratta di un gioco nel quale Camilleri e Dipasquale però dispiegano una lingua teatrale di straordinaria potenza: lo si può verificare in diretta, accostando il siciliano teatrale all’italiano di Masolino D’Amico, la cui traduzione di Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla) l’editore pone qui in appendice al testo siciliano. La storia di Michelangelo Florio è un po’ più seria, comunque, di quella del Crollalanza valtellinese. Nel senso che un Michelangelo Florio esiste davvero nella storia; e in qualche modo si intreccia con Shakespeare. Non era messinese come scherza Camilleri, questo Florio, ma toscano, probabilmente senese: dopo la Riforma si schierò con Lutero e quando con la Controriforma la Chiesa cattolica romana fece
più stretto il suo controllo sui protestanti, Michelangelo Florio scappò in Svizzera presso la comunità calvinista. La Svizzera tollerava, ma al tempo stesso elegantemente spingeva gli ospiti scomodi a trovare soluzioni definitive: soluzione che questo Florio trovò a Londra, dove si trasferì prima della metà del Cinquecento. Qui si fece pastore anglicano sotto Edoardo VII ma venne scoperto ad aver violato la propria serva mettendola pure incinta. Per emendare il peccato, Mchelangelo sposò la donna, ma impose al nascituro un nome italiano: Giovanni Florio. E siamo a Shakespeare: Giovanni, diventato John Florio, bazzicò la corte di Southampton, il medesimo protettore di Shakespeare e lì i due si incontrarono. Non solo. John Florio si diede all’insegnamento
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otto di Shakespeare Esattamente come Shakespeare. Ed ecco perché ogni tanto salta su qualche simpatico pazzerello che sostiene di aver trovato documenti che attestano come in realtà Shakespeare fosse direttamente Florio.
Il gioco, godibile e scoperto, di Camilleri e Dipasquale ha un fondamento serio: Molto rumore per nulla è ambientata a Messina e mescola personaggi italiani ad aristocratici spagnoli. È un doppio gioco d’amore per metà riconducibile a fonti ariostesche (l’Orlando furioso venne tradotto in inglese pochi anni prima del 1598, quando la commedia venne composta da Shakespeare) ma per la metà più significativa (la disputa amorosa tra Benedetto e Beatrice) totalmente inventata dal nostro.Tanto più che qui fa la sua prima comparsa un personaggio tipico shakespeariano: l’ingannatore che fa della sua cattiveria una filosofia sociale. Qui si chiama Don Juan ed è d’origine spagnola ma è il progenitore di Iago e Postumio, i due classicissimi cattivi «italiani» di Shakespeare. Insomma, non solo il contesto è italiano, ma (nel canone shakespeariano) lo è anche la sostanza delle dinamiche psicologiche. E in fondo Camilleri e Dipasquale hanno avuto gioco facile a reinventare questa commedia da giardino (si svolge quasi completamente in esterni) nell’aspra terra di Sicilia. Purtuttavia un gioco che ricama con leggende solide e dure a morire. Per limitarsi alle leggende italiane, per esempio, ce n’è una particolarmente suggestiva. Detta così, per le spicce: nel personaggio di Amleto, Shakespeare avrebbe ritratto Torquato Tasso. L’ipotesi verte sul fatto che come Amleto anche Tasso coltivò la malinconia fino a rasentare la pazzia, e come Amleto anche Tasso uccise dell’italiano presso gli aristocratici inglesi (regina Elisabetta I compresa) e per aggiustarsi con il lavoro compilò due manuali di conversazione italiana (nonché il primo dizionario inglese-italiano della storia). E, insomma, alcune battute di personaggi italiani di Shakespeare sono prese pari pari dai dialoghi dei manuali di John Florio (è il caso, per esempio, della celebre esclamazione «Venetia, Venetia, chi non ti vede non ti prega» in Pene d’amor perduto o dell’altrettanto celebre definizione della Lombardia quale «giardino d’Italia» nella Bisbetica domata).
Ed ecco spiegato perché con un po’ di fantasia chi ha voluto cercare un’origine italiana di Shakespeare l’ha trovata in quel nome. Il guaio è che Florio, quel-
lo vero, è stato un intellettuale e un personaggio pubblico di primissimo livello nella Londra elisabettiana. Per dire: Lord Cecil, capo del governo di Elisabetta, fece in modo che Florio fosse impiegato come traduttore (inglese-francese) presso l’ambasciata di Francia. E dall’ambasciata di Francia, come è noto, transitavano le lettere spedite dai maggiorenti d’Oltremanica per Maria Stuarda, la rivale di Elisabetta Tudor rinchiusa a Londra: John Florio aveva l’incarico di tradurre quelle lettere… e tutti sanno che Maria Stuarda fu condannata a morte dopo che Elisabetta ebbe per le mani, «chissà come», alcune lettere nelle quali Maria e i suoi fedelissimi in Francia tramavano contro la regina Tudor. Insomma, il povero Florio faceva la spia. Ma era un fine intellet-
gli anni Ottanta del Cinquecento. E tra questi, alcuni sarebbero stati scritti da Thomas Kyd, cui pure alcuni studiosi attribuiscono un presunto Ur-Hamlet che sarebbe tra le fonti dirette della tragedia di Shakespeare. Per finire, tra le fonti secondarie dell’Amleto taluni vorrebbero vedere anche Re Torrismondo, tragedia appunto di Torquato Tasso che purtuttavia non ha avuto la stessa fortuna di quella alla quale avrebbe dato spunto. Può bastare? È già tanto che nessuno sia saltato su a dire che Shakespeare in realtà era Torquato Tasso mascherato.
Perché tutti questi folli ricami? Perché tutte queste leggende? La ragione è semplice e - come dire - molto peculiare di quella logica della storia e della poesia che nei suoi libri Andrea Camilleri ha spesso scandagliato: è come se lettori e studiosi spesso si fossero sentiti spaesati di fronte alla così immensa grandezza di Shakespeare. Come se fosse «incredibile» che un solo uomo sia stato in grado di scrivere tutte le meraviglie che ha scritto Shakespeare. Di più, che tutta quella roba sia stata scritta da un teatrante, un orecchiante privo di istruzione accademica e poco avvezzo alla bellezza sublime dei classici, un uomo pratico, uno che ha lasciato pochi segnali di sé (come se 37 copioni teatrali fra cui alcuni splendidi e tra i migliori mai composti dal genere umano fossero poca cosa…) e che ha passato la vita a scrivere battute, a dirigere attori, a recita-
John Florio, figlio di Michelangelo, fu un eminente personaggio pubblico nella Londra elisabettiana. Alle sue fonti si abbeverarono, oltre all’autore di “Amleto”, anche Ben Jonson e John Marston tuale: introdusse a Londra Giordano Bruno, tradusse Montaigne e collezionò opere deliziose sulla vita in Italia. Alla sua fonte non si abbeverò solo Shakespeare, ma anche Ben Jonson (che lo cita o lo ringrazia direttamente, nel Volpone) e John Marston (anche lui ambientò molti suoi drammi in Italia), benché quest’ultimo poté conoscere direttamente il nostro Paese dalla madre, una donna italiana. Beninteso: John Florio non vide mai l’Italia: ma la immaginò bene.
per eccesso di zelo un uomo nascosto dietro una tenda. Poi ci sono altre coincidenze: la regina Elisabetta sarebbe stata un’appassionata lettrice della Gerusalemme liberata e il librario-editore Giacopo Castelvetro (un altro italiano celebre a Londra negli anni di Shakespeare) si sarebbe fatto un vanto di stampare e diffondere le opere del Tasso. Anzi, pare che da alcune delle opere di Tasso - compresa la Gerusalemme liberata - siano stati tratti diversi copioni teatrali ne-
re e a collezionare denaro così da garantirsi una vecchiaia tranquilla nel suo piccolo paese di provincia. Insomma, la ricerca di sostituti, di leggende in grado di deturpare l’unicità di questo individuo nascono proprio dalla difficoltà di accettare che a creare tanta meraviglia sia stato sufficiente un uomo solo. E invece il trucco è proprio lì: Shakespeare era un teatrante poco attento alla poesia, al potere materiale e probabilmente - alla vanità del successo. Un uomo, ecco tutto.
Narrativa
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a prima cosa che potremmo dire di questo «romanzo-romanzo», nell’accezione della struttura architettonica più classica, e che pur essendo a base storica, non tenta ammiccamenti facili col presente, né prevede tesi costituite a fare da bilancio o parafrasi grottesca del tempo. Questo corposo (e vigoroso) romanzo-romanzo non ha preteso di partir dalla Storia per arrivare ad altro, ma sfida la Storia sul suo stesso terreno, la mimesi di fatti e personaggi calati in un dato tempo. Altro tratto del libro, per svelarlo lentamente, com’è giusto che sia per la mole, l’intrico espressivo e lo stile diremmo barocco, cioè attento tanto al dettaglio quanto all’intera opera, che porta alla bocca facilmente i nomi di Folengo e Gadda, per quel vorticoso gusto che dalla parola porta alla frase, in fantasmagoriche e derivate continue descrizioni digressive. A questo punto dell’introduzione, svelando l’opera, la sorpresa massima è scoprire che lo scrittore è giovane (nato nel 1980), e che si tratta di un’opera prima. Alessandro Mari con Troppo umana speranza ha scritto un romanzo straordinario sia per la dirompente forza narrativa, sia per l’eccentricità di un testo fuori dal panorama letterario consueto che conosce sì i nomi di Eco, Guarnieri, ma non tra le giovani leve. Andiamo al tempo della Storia che riguarda l’Italia pre-unitaria e le tante geografie che la compongono. Il romanzo si svolge attorno a quattro personaggi che si incrociano tra loro e che pesano tutti diversamente sulla storia e sul racconto. Personaggi d’invenzione assieme a quelli storici, un tale Colombino, detto il «menamerda», confuso con Anita e con Josè Garibaldi, che s’incrociano sullo scacchiere di un’Italia dilaniata dalle guerre e dalle rivolte: Milano e la campagna intorno, la Roma papalina, Genova. Ma anche Londra, meta di incroci politici internazionali, e l’America latina del capitano Garibaldi. Uno scacchiere complesso dietro il quale non si fatica a capire un rigoroso lavoro di fonti, assieme al piacevole innesto di romanzesco e di epico. L’epica dei garibaldini osservati
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Autostorie
libri
Alessandro Mari TROPPO UMANA SPERANZA Feltrinelli, 749 pagine, 18,00 euro
Mari, un flâneur a passeggio nella Storia
Personaggi d’invenzione e del Risorgimento nel dirompente romanzo d’esordio di un autore capace di stupire di Maria Pia Ammirati
negli asserragliamenti e nelle battaglie, è rotta dall’epica strampalata del vero e principale protagonista che è Colombino, l’orfano lombardo innamorato della bella Vittoriana, più vicina a una bimba che a una donna. Per chiederne la mano, il giovane contadino si imbarca in una vera e propria epopea donchisciottesca con il mulo Astolfo. Il viaggio di Colombino, e Astolfo, verso Roma, verso il Vaticano, verso il Papa a cui chiedere la mano di Vittorina, ha gli accenti comici e grotteschi dell’avventura di un folle. Colombino, che era stato allevato dal prete di Sacconago (frazione di Busto Arsizio), soffre di epilessia, parla col mulo, ha una forza e un corpo portentoso, è buono, troppo buono, fino allo sfinimento. La sua storia di contadino ottuso si incrocia con la grande storia risorgimentale, quando nel viaggio a ritroso incontrerà Garibaldi, l’uomo che cambierà la Storia di un Paese, ma non quella di un ragazzo qualunque. Verso Colombino va un sentimento di partecipazione e indulgenza, cosa che forse non avviene per gli altri due personaggi: Lisander, un pittore di belle speranze che per amore del denaro diventa fotoreporter, intuendo con largo anticipo la portata commerciale delle foto porno, le callopornie; Leda, una bella e travagliata fanciulla che diventa spia e si muove sui passi del «ribelle» Mazzini. La narrazione, piena di sentimenti e di amori, tra cui certo spicca per intensità quello di Garibaldi e Anita, si chiude dopo un decennio sull’anno ’48. Anno cruciale per quello che avverrà prima del 1861. Molta umana speranza passa in queste pagine, speranza in un mondo nuovo e moderno, in un Risorgimento che non è solo movimento popolare e politico ma è un atto di forza di volontà che spinge gli uomini di questa fitta storia attraverso le strade del mondo. E tanti sono i viaggi e il camminare, a piedi e a cavallo, col mulo o in carretto. E, come scrive l’autore nella nota di chiusura, «non si sa quali calzature scegliere, quando si passeggia sulla Storia».
Torino si conferma capitale mondiale dello stile opo l’avvio, oltre un secolo fa, di un percorso che ha visto nascere l’industria automobilistica italiana, in Piemonte e soprattutto nell’area torinese è cresciuto un particolare distretto produttivo. Tra i pochi al mondo in grado di offrire, grazie a una consolidata serie di conoscenze, le migliori opportunità per lo sviluppo dell’intero ciclo dell’automobile: dall’impostazione stilistica e progettuale alla realizzazione dei prototipi e sino alla costruzione in serie. Con attività localizzate in un contesto territoriale ben definito, i cui punti di forza vanno dal design all’innovazione di processo e dalla produzione di componenti alla qualità della forza lavoro; esprimendo la genialità, tutta italiana e torinese, di saper armonizzare bellezza e funzionalità dell’automobile. La fama che ha sempre confortato le varie aziende operanti nel distretto piemontese, ha così permesso ai talenti del car design di diventare punto di riferimento anche per numerosi committenti stranieri e ha mantenuto in stretta relazione tra loro un vasto sistema di imprese. Ecco perché, dopo
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di Paolo Malagodi la profonda crisi strutturale del 2009, le istituzioni locali e la Regione Piemonte sono intervenute «per il rilancio a Torino di quella capacità produttiva centrata in particolare sull’automotive sostenibile». Assunto posto alla base di una ricerca, che Giuseppe Calabrese - docente di Economia Manageriale presso il Politecnico di Torino - ha curato per l’Assessorato all’Industria della Regione Piemonte allo scopo, dopo le difficoltà incontrate da alcuni grandi carrozzieri, di raccogliere una serie di conoscenze sull’insieme delle imprese collegabili alla filiera dello stile dell’auto. Compito svolto in un lavoro dal complesso titolo (La filiera dello stile e le politiche industriali per l’automotive in Piemonte e in Europa, Franco Angeli editore, 220 pagine, 19,00 euro), ma di non difficile lettura, che porta a verificare come «i rapporti di fornitura nella filiera dell’auto si sono modificati nel tempo, fondandosi su una divisione del lavoro più complessa di quella basata sulla semplice separazione tra i co-
Una ricerca sulla filiera dell’automotive dimostra il ruolo decisivo dei designer torinesi
struttori, in qualità di specialisti del telaio e del motore, e il carrozziere nella veste di specialista dello stile. In questo contesto in continua trasformazione, l’avvento delle tecniche digitali ha comportato una maggiore parcellizzazione del processo produttivo e si è andata consolidando negli anni la presenza di una pluralità di imprese, con elevate specializzazioni lungo la catena del valore». Ma la particolare concentrazione di simili tipologie nell’area metropolitana torinese rappresenta un fatto unico non solo in Italia ma anche in Europa, dove queste sono scomparse per la crisi del comparto o sono state incorporate dai grandi gruppi automobilistici. Invece, la fama di cui continuano a godere i design torinesi rafforza una loro vocazione internazionale, partita ancora negli anni Trenta per i principali costruttori europei e statunitensi. Dalla fine degli anni Cinquanta, l’orizzonte si è allargato, prima al Giappone poi alla Corea, sino a comprendere oggi Cina e India: tanto da poter concludere che «quando un Paese si affaccia alla motorizzazione di massa e sviluppa un’industria autosufficiente, i designer torinesi sono sempre fondamentali».
Personaggi
MobyDICK
anksy probabilmente non si chiama Banksy. È curioso che nell’epoca in cui tutti sanno, o credono di sapere, tutto di tutti, non ci sia certezza sulla vera identità del più noto artista di strada. Curioso, ma anche comprensibile visto che quest’uomo lavora nell’ombra e ha il timore di essere sorpreso mentre dipinge le sue figure irriverenti sui muri di molte città. Si sa che è di Bristol, la cittadina inglese più colorata al mondo, si sa che lì ha iniziato le sue incursioni (la Guerrilla Art) per poi trasferire disegni, segni e murales fortemente ironici prima a Londra e infine in altri luoghi del mondo, pure davanti al muro alzato dagli israeliani nella Cisgiordania. Molto di ciò che ha fatto è stato cancellato: dal tempo, dalle condizioni climatiche e soprattutto dalla polizia. Bristol è sede della galleria Arnolfini che nel 1985 ospitò l’esibizione Graffiti Art in Britain, un’occasione grazie alla quale la gente prestò attenzione al mondo underground. Banksy doveva avere circa dieci anni. Sei anni dopo comincia a eseguire graffiti a tempo perso. Nel 1998 entra nello star system della Street Art, come ci racconta Sabina De Gregori nel libro a lui dedicato: Banksy, il terrorista dell’arte (vita segreta del writer più famoso di tutti i tempi), Castelvecchi editore (250 pagine, 25,00 euro). Compaiono le sue prime accuse sociali sui muri: il clown con due pistole, il cane che punta il bazooka verso un grammofono e i suoi famosi topi. Uno degli street artist di Bristol ricorda: «Era estremamente attento e motivato. Un mio amico lavorò con lui e mi disse che non amava uscire con gli altri graffitisti e che per lui disegnare era un puro business. Questo è inusuale per un artista di strada».
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ALTRE LETTURE
SERVIZI SEGRETI UNA STORIA ITALIANA di Riccardo Paradisi
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Alcune opere di Banksy hanno quotazioni notevoli. È un Arsenio Lupin al contrario: entra nelle gallerie e in vari spazi pubblici non per rubare ma per regalare quanto compone. Nel 2004 il fantomatico artista che all’anagrafe è registrato forse come Banks, entrò al Louvre. Le telecamere lo ripresero mentre attaccava un ritratto della Gioconda «con un volto da smile», ossia un sorridente volto disneyano. Fece incursione anche al British Museum travestito da pensionato e con il viso nascosto da un cappello. «Del tutto indisturbato - scrive Sabina De Gregori - ha affisso al muro i quadri che aveva portato con sé in una busta». Talvolta concede interviste, ma quasi sempre via mail. E afferma che gli è più facile misurarsi con l’arte per strada, in mezzo ai bidoni della spazzatura, che non nei corridoi dove sono appesi quadri di Rembrandt. A disegnare è molto bravo, non è certo paragonabile ai tanti sciatti e ripetitivi autori di tag che compaiono in molte periferie e che imbrattano i muri. «I suoi disegni - sostiene la De Gregori - sono ma-
Il Pasquino dei graffiti Aveva dieci anni quando a Bristol, sua città natale, si cominciò a prestare attenzione al mondo underground. Ora fa parte dello star system della Street Art con quotazioni di tutto rispetto. La storia (non priva di contraddizioni) di Banksy, misterioso “terrorista dell’arte” è ora raccontata in un libro di Pier Mario Fasanotti nifesti sociali che denunciano la guerra e le multinazionali, prendono le parti dei più deboli e i diritti degli animali, sfidano il crescente controllo high tech, sbeffeggiano le scelte politiche mettendo in ridicolo la pena di morte, la militarizzazione e i rappresentanti del potere». Ha ritratto la regina Elisabetta con le sembianze di uno scimpanzé, in Israele ha raffigurato un soldato perquisito da una bambina, a Bristol ha raffigurato un bambino intento a far scoppiare una busta di carta per spaventare un cecchino che prende la mira, sui muri di Londra sono comparse le guardie regali mentre fanno la pipì dando le spalle ai passanti, delle scimmie che ci avvertono che un giorno pagheremo per quello che stiamo facendo, delle colombe con il giubbotto anti-proiettile, delle statue della giustizia abbigliate da prostitute. Banksy, che appare e scompare di notte, fa venire in mente Pasquino, il poeta misterioso della Roma di Papa Leone XII. Nessuno seppe mai chi fosse. Probabilmente era un sarto o un commerciante o un calzolaio del rione Parione. Certe mattine comparivano, appesi al collo di statue, cartelli con versi satirici. Non fu mai preso, contro di lui si decretò la pena di morte. Anche quelle
di Banksy sono «pasquinate». Il writer inglese andò anche nella West Bank palestinese occupata dagli israeliani, dove c’è quel muro che viene chiamato «cintura di sicurezza». Essendo questo muro «illegale» in base alle leggi della Corte internazionale di Giustizia, Banksy non si è sentito affatto un «vandalo». In uno dei suoi disegni, intitolato Palestyne, compare un arcigno papero disneyano e sotto la scritta You are not in Disneyland anymore. Singolare il dialogo che ebbe con un anziano palestinese, il quale gli disse: «Tu dipingi il Muro, lo rendi bello». «Grazie», rispose l’inglese. E l’altro: «Noi non vogliamo che sia bello. Noi odiamo questo muro, vai a casa!».
Il guerrigliero che usa come tele le facciate di case usa lo stencil, una tecnica che si fa risalire a oltre 25 mila anni fa. Spiega Sabina De Gregori: «Un tempo le immagini in positivo erano ottenute premendo il palmo della mano, prima immerso in polvere d’ocra, sulla parete. Per quelle in negativo si soffiava polvere colorata intorno alla mano appoggiata al muro». A fine Ottocento, in epoca modernista francese, questa pratica ornamentale fu chiamata pochoir. Nel 1930 lo stencil veniva impiegato per produrre immagini in serie. Durante l’ultima guerra gli italiani lo usavano per diffondere la figura del Duce. Tecniche analoghe furono infine esplorate da artisti pop come Warhol e Rauschenberg. La tecnica ebbe molta fortuna in Francia, patria di Blek le Rat che
L’intelligence italiana moderna affonda le radici nelle corti del Rinascimento fiorentino e veneziano dove i massimi geni dell’arte e della cultura umanistica convivevano con agenti, spie e sicari. Lì dove la sovranità era perennemente limitata, inizia a strutturarsi quella che sarà la fitta rete dei servizi segreti, assorbita dallo Stato centocinquant’anni fa come Sim. Una rete formata da ufficiali del regio esercito, diplomatici, gentildonne, imprenditori di frontiera e di fortuna. In silenzio gioite e soffrite Andrea Vento (Il Saggiatore, 507 pagine, 19,50 euro) racconta la storia dei servizi segreti italiani dal Risorgimento alla guerra fredda. Una storia di segreti, inganni, squallori ed eroismi. Una storia unica nel suo genere.
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FIGLI ADOLESCENTI ISTRUZIONI PER L’USO Un figlio adolescente e non sapere come prenderlo. Una situazione comune a molti genitori ai quali è consigliato il pamphlet di Gustavo Pietropoli Charmet Adolesc(i)enza (Edizioni San Paolo, 378 pagine, 15,00 euro) che affronta in sessantacinque punti i temi scottanti legati all’adolescenza rispondendo ai dubbi di genitori molto preoccupati. Tra i punti salienti le risposte se non esaustive comunque orientanti alle domande: chi è l’adolescente? Come comportarsi con un figlio che racconta bugie? Si può leggere il suo diario segreto? E sarà tutto vero quello che c’è scritto? Dagli orari da imporre e far rispettare alla scoperta della sessualità, un libro che aiuta gli adulti in un compito non facile.
ricorse al pochoir e fece parte dell’Atelier Populaire di Parigi. Rat significa topo, ma è anche l’anagramma di art. Banksy sceglie spesso i topi per la sua protesta politico-sociale. Dice Sabina De Gregori: «I rat sono un simbolo dell’ambiente urbano e il loro potenziale d’invasione mette paura.Vanno paragonati agli individui costretti a vivere ai margini della società, ma sono anche gli unici animali che sopravviverebbero nei casi di gravi calamità». Banksy rispetta i musei, non è vandalo, ma non ha molta considerazione per il mondo dell’arte. In un’intervista ha detto: «L’arte viene eseguita da un gruppetto di persone, c’è poi chi la compra e la mostra. Ma i milioni di persone che vanno a vederla non hanno nulla da dire. Io non faccio vere e proprie mostre nelle gallerie, intuisco una comunicazione più diretta con il pubblico». Il graffitaro di Bristol, comunque, se vuole umiliare le istituzioni non cede alle lusinghe di coloro che includono i suoi pezzi nelle raccolte permanenti. «Banksy - secondo l’opinione della De Gregori - è una contraddizione: condanna ciò di cui vuole far parte».
Danza
MobyDICK
pagina 20 • 5 febbraio 2011
Al Moma dal vivo nel segno di Kandinsky di Diana Del Monte ell’arco di pochi mesi, tra il 1919 e il 1920, Kandinsky pubblica sei tra i suoi più importanti scritti. Tra questi On point e On Line, due brevissimi articoli correlati fra loro, mostrano l’interesse del pittore nei confronti degli elementi intrinseci dell’arte pittorica e, a distanza di novant’anni, hanno fornito al Museum of Modern Art di New York il titolo e il tema centrale dell’esposizione che si chiuderà lunedi: On Line: Drawing Through the Twentieth Century. «A un certo momento - scrive Kandinsky - il punto riceve un impulso più o meno intenso e di conseguenza attraversa un’area dello spazio più o meno ampia». L’idea della linea come un punto in movimento suggerita dal pittore russo nel suo secondo scritto ha, così, spalancato le porte dell’esposizione newyorkese a una lettura multidisciplinare dell’arte del segno, così come il Ventesimo secolo richiede.Tra gli invitati a On Line, dunque, figuravano, accanto agli oltre 300 pezzi appartenenti alla
N
Televisione
collezione del MoMA, i rappresentanti della danza post-moderna, come Trisha Brown e Yvonne Rainer, post-post moderna, come Anne Teresa de Keersmaeker, le linee forsytiane e i performers più giovani, come il duo Allora & Calzadilla che nel Marron Atrium al secondo piano ha messo in scena Stop, Repair, Prepare: Variations on «Ode to Joy» for a prepared piano (2008) - pezzo acquisito nel 2009 dallo stesso MoMA. E mentre Trio A si mostrava accanto a Boccioni, Kandisky e Pollock, inevitabilmente solo in video, il museo riservava il suo atrio alla serie di performance dal vivo catalogate come Performance 11-15: ON LINE. Con la Performance 11, la Trisha Brown Dance Company ha portato tra le mura del museo di midtown i suoi primi lavori - Sticks (1973), Scallops (1973) Locus Solo (1975) - e una prima: Roof Piece Re-Layed, basata sul Roof Piece del 1971. Uno spazio tridimensionale, dunque, per una scrittura anch’essa tridimensionale del segno performativo. Incastonando i corpi dei suoi performers
spettacoli
nell’archittettura di Yoshio Taniguchi nei luminosissimi spazi aperti così come nelle sue fessure - le performance della coreografa americana sembravano voler giocare, rinnovandolo, con il concetto architettonico alla base del progetto del ‘97. Alla lettura tridimensionale del suo lavoro, invece, si è rivolta Anne Teresa de Keersmaeker che ha esposto il solo Violin Phase, estratto di Fase: Four Movements to the Music of Steve Reich (1982), come Performance 13. Già felicemente traformato in un’opera video e danzato su un tappeto di finissima sabbia bianca, Violin Phase richiede una visione 3D per essere compreso appieno. In questo caso, dunque, l’artista ha affidato il compito precedentemente svolto dalla telecamera e dal montaggio all’architettura di Taniguchi, in grado di regalare ai visitatori molteplici punti di vista verso l’atrio. Meno dialoganti con lo spazio espositivo, invece, le performance 12, 14 e 15, rispettivamente della coppia Marie Cool e Fabio Balducci, Ralph Lemon e Xavier Leroy. Chiare negli intenti la prima e l’ultima, meno fruibile, invece, il lavoro di Lemon, improntato su un’interpretazione più metafisica, legata all’idea di un’ipotetica «linea sottile che collega due individualità». Sulle tante possibili interpretazioni delle opere, tuttavia, ha prevalso lo spettacolo fornito dalla vivace curiosità di un pubblico estremamente vario che, con l’espressione soddisfatta o smarrita, seduto in terra, in piedi o appoggiato alle balaustre del primo, secondo e terzo piano, si sforzava capire.
DVD
TRE DONNE CORAGGIO CONTRO IL PRECARIATO wa, Rita e Catherine.Tre storie, tre donne alle prese con gli snodi perigliosi che il mondo del lavoro pone sulla testa delle lavoratrici in un’epoca in cui sembrano essere tramontati i diritti fondamentali conquistati in battaglie secolari. Ecco in sintesi Manoorè, bel documentario che Daria Menogozzi dedica al sindacalismo rosa in Brasile, Senegal e Malesya. Sempre al lavoro in famiglia, nelle fabbriche, per conto di altri dipendenti, il terzetto si impegna contro la discriminazione e lo sfruttamento, particolarmente evidente nella sua crudezza negli angoli del Pianeta dove non giungono i riflettori della denuncia.
A
BAND
ROXETTE REDIVIVI, UNA LEZIONE DI CHARME a Listen to your heart a The look, passando per It must have been love che nell’immaginario di tutti fa pensare a Pretty woman. Spariti da dieci anni in seguito a Room service, i Roxette hanno scritto una piccola ma importante pagina degli anni Novanta. Ma a venticinque anni dal debutto, rieccoli tornare in sella con Charm school, dodici brani inediti trainati dal singolo She’s got nothing on. Una buona notizia per la musica, ma anche per lo stato di salute della bionda Marie Fredriksson, capace di rimettersi dopo una drammatica battaglia contro un male devastante. Bentornata.
D
di Francesco Lo Dico
L’Italia chewing-gum raccontata dagli Sgommati a parecchio tempo si sente dire che la satira è morta o quasi morta. Non è vero. Semmai bisognerebbe ragionare su «quale tipo» di satira può ancora essere degna del nome. Quella boccaccesca e sguaiata non attrae più. Anche perché le vicende politiche di questo periodo superano in volgarità qualsiasi chiosa umoristica. A Zelig, criticato perché ripropone gli stessi comici, la parolaccia e il doppio senso imperano, magari a rimorchio del finto alibi scenico secondo cui «ora bisogna parlare bene» e così si apre la diga della povertà lessicale, della ripetitività infantile, complice anche una Lella Costa che s’incaglia su un repertorio anni Settanta. Sembra riuscita la sfida (lanciata teoricamente a Striscia la notizia: Pollicino contro il Gigante) di Sky-uno con Gli sgommati, gag di otto minuti con pupazzi di plastica. Sono i
D
di Pier Mario Fasanotti nostri leader politici, fatti muovere (poco: la fissità è voluta) e parlare da un’equipe di autori tra i quali c’è anche Paolo Rossi. La produzione è della Palomar. Nulla di nuovo, se vogliamo. Gli anglosassoni l’hanno proposto anni e anni fa. Occorre però dire che Gli sgommati evitano l’aggressività. Anzi puntano tutto sulla mitezza. A significare quasi che il panorama politico, pur staccatosi dal decoro, è la fotografia di una rassegnazione. Si ride, o si
ridacchia, con amarezza. Pare che tutti perdano, che tutti siano stanchi morti. Manca (per ora) la faccia pupazzesca di Berlusconi, ma non la sua voce. Il premier telefona al conduttore Aldo (capelli rossi e volto di Biscardi), insulta, minaccia e poi stacca il collegamento. Fini è rappresentato al volante della sua auto nel centro di Roma, alla ricerca della sede del suo nuovo partito. Il «navigatore Benito 2000» (con una voce che somiglia a quella del ministro La Russa) lo invita a voltare a destra, ancora a destra, anzi «all’estrema destra». Il leader guidatore viene spesso interrotto dalla compagna Elisabetta alla quale lui annuncia: «È venuto il mio momento, il vecchio se ne va…». Ma lei, alla proposta di una gita sulle colline bolognesi o in altri luoghi ameni, insiste sempre su Montecarlo. Fini
risponde «fantastico, Betta, meraviglioso!», ma a telefono spento bofonchia che quella di Montecarlo è una «gran rottura di maroni». Poi c’è Bersani che come un mendicante tenta di raccogliere un milione di firme per cacciare il premier. Prima dietro un gazebo, poi sulla sella di una Vespa, infine in un corridoio della metropolitana. Pochissimi gli danno retta. Con varie motivazioni: «Eh no, io abito all’Olgettina»; «No, mio figlio deve fare un provino al Milan»; «Non posso, devo aspettare un condono edilizio». Vendola dalla pelle liscia s’intorcina su vaneggiamenti filosofici. Davanti al Papa, raggiunge la vetta della confusione ermetica: «Io penso che la fede sia una semiotica umana con una semantica parallela alle esigenze hegeliane delle masse…». Bossi va in giro a elemosinare il consenso sul federalismo. Va anche da Vendola, fingendo di apprezzare le orecchiette pugliesi. Gli sgommati è la metafora di un’Italia politica che si contorce come una gomma da masticare.
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poesia
5 febbraio 2011 • pagina 21
Stevens, oltre il senso ordinario delle cose
TREDICI MANIERE DI GUARDARE UN MERLO
I. Fra venti monti nivei L’unica cosa mobile Era l’occhio del merlo. II. Ero di tre voleri, Come un albero Su cui stanno tre merli. III. Girò il merlo sui venti dell’autunno. Fu breve parte della pantomima. IV. Un uomo ed una donna Sono uno. L’uomo e la donna e il merlo Sono uno. V. Non so se preferire, Bellezza di cadenze O d’allusioni, Il sibilo del merlo O quel che segue. VI. Riempivano i ghiaccioli il finestrone Di barbarico vetro, Dove l’ombra del merlo Trascorse e ritrascorse. Scovò lo stato d’animo Cagione indecifrabile Nell’ombra. (…)
di Filippo La Porta ual è il ruolo della poesia nella modernità? Nei versi sciolti di Della poesia moderna del 1940, Wallace Stevens ci dà alcune indicazioni. La poesia moderna deve «trovare/ ciò che sarà sufficiente». Sufficiente per cosa? Anzitutto per vivere (anche se non sempre ha dovuto sforzarsi per raggiungere tale obiettivo): il suo spazio totalmente gratuito ha dunque una utilità, sia pure indiretta. Inoltre oggi «deve essere viva, imparare la lingua del luogo./ Deve affrontare gli uomini del tempo e incontrare/ le donne del tempo. Deve pensare alla guerra/ …». Dunque: mescolarsi al proprio tempo, alla contemporaneità, pensare a ciò che nel presente incombe su di noi, alla Storia, incontrare le persone comuni. Qui l’afflato democratico whitmaniano si incontra con la filosofia del pragmatista atipico Santayana (cui Stevens dedicò una poesia).
Q
Confesso che molte poesie di Stevens mi lasciano perplesso. Ho l’impressione di non capirle, di precipitare nel loro quieto «abisso» (Nadia Fusini ha parlato d’«abisso dell’interpretazione e del reale…»), di fermarmi davanti l’opacità che si mostra oltre la loro traslucida superficie concettuale. Però sento che si tratta di uno spirito profondamente, inequivocabilmente americano, lontano da qualsiasi retorica decadente della Disperazione e imparentato con Scott Fitzgerald (la sua innocenza adolescente, la felicità sempre cercata e sempre sfuggente, il candido e giocoso dandysmo di chi ama la barca, il mare e i grandi alberghi), con Edward Hopper (la distrazione contemplativa di quei personaggi comuni, la luce fredda degli oggetti), con Marc Rothko (la liberazione quasi zen dall’io e dal pensiero, lo spazio astratto e vibrante). La semplicità di Stevens è inafferrabile, innaturale, come poi innaturale può apparirci a volte la natura stessa, specie se la guardiamo con un occhio rivolto al sacro, a una dimensione ulteriore che sempre implica. Nel Senso ordinario delle cose (da La roccia, che raccoglie poesie dopo il 1950) il ritorno al senso ordinario delle cose non semplifica affatto la realtà, non rende la visione più chiara ma equivale all’esaurimento dell’immaginazione: «È difficile perfino scegliere l’aggettivo/ per questo freddo vacuo, questa tristezza senza causa». Stevens, ex avvocato e dirigente di una società assicurativa, non ha mai voluto andare in Europa. Ora, anche questo è diventato un cliché della critica eppure tutta la sua poesia (e biografia) mi appare come un’antitesi al conterraneo Pound: la risposta autoctona a tutti quegli americani provinciali (e anche Stevens lo era) innamorati un po’provincialmente dell’Europa e della tradizio-
il club di calliope
ne classica, che riempiono i loro componimenti di citazioni e riferimenti colti, che si vergognano della volgarità americana e che disprezzano la ordinary people. Poeta mentale e sensuale (solo in ciò accostabile a Benn), metafisico e terrestre. A lui si richiama, tra l’altro, il classicismo rivissuto nelle viscere di Silvia Bre (vedi Marmo, 2007). Nella celebre Domenica mattina invece (tratta da Harmonium, del 1923, la sua prima raccolta, che vendette cento copie e che poi fu riedita varie volte con successivi ampliamenti) Stevens ci fa entrare nella testa e nel cuore di una donna americana benestante, che in una giornata domenicale di sole sostituisce la messa, il rito religioso con un’esperienza corporale («la divinità vivrà dentro di lei»), con il conforto di arance pungenti e ali verdi-luminose di un pappagallo, con l’abbandono alla bellezza della natura, «passioni di piogge, umori di nevicate,/ dolori in solitudini o esaltazioni incontrollate». Il poeta si mette esattamente sullo stesso piano della borghesissima signora… E così anche l’Angelo dell’Angelo necessario (che ispirò un titolo di Cacciari) diceva: «Io sono l’Angelo della realtà,/ intravisto un istante sulla soglia/ (…) Sono uno come voi, e ciò che sono e so/ per me come per voi, è la stessa cosa».
Osserva Massimo Bacigalupo che la tarda poesia Mentre lasci la stanza ricorda il racconto splendido di Henry James La tigre nella giungla (per me il più bello che sia mai stato scritto). In entrambi si insinua il sospetto di non aver mai vissuto: «Mi domando se non ho vissuto una vita da scheletro,/ come un miscredente della realtà». Mentre qualche verso dopo ci informa che la neve, ben concreta, tangibile, è «parte di una realtà piena». Tutto il canzoniere di Stevens si origina dalla contraddizione tra fisicità e cerebralismo, tra speculazione e visualità, tra reale e mentale. Quando deve definire la sua utopia scrive che «si sarebbe desiderato dell’altro, altro, altro:/ (…)/ un agio in cui vivere la vita di un momento,/ il momento di amore e fortuna di una vita,/ liberi da tutto il resto, liberi soprattutto dal pensiero». «Oggi l’aria è libera di tutto./ Non ha percezione se non del nulla/ e scorre su di noi senza significati». (Due lettere e Un giorno chiaro e nessuna memoria, entrambe in Opus postumum, raccolta appunto postuma del 1957). Nel poemetto che ho scelto (del 1917) , ispirato alla pittura giapponese e all’haiku, si racchiude una poetica: il linguaggio prismatico della poesia moltiplica i nostri punti di vista di fronte all’oggetto. Il merlo possiamo guardarlo in tredici modi (e anche se poi non rimanda che a se stesso - vedi Studio di due pere: «Le pere non sono violoncelli,/ nudi o bottiglie./ Non somigliano a
Wallace Stevens
nient’altro»). Ma soprattutto, come scriverà in Il corso di un particolare (in Opus postumus) «oggi le foglie gridano, appese a rami scossi dal vento,/ eppure il nulla dell’inverno si riduce un poco». Come ho detto in altre occasioni, forse tutta la poesia scritta finora dall’umanità non è che quel minuscolo «eppure» (yet), una congiunzione avversativa che si oppone al nulla, un surplus immaginativo, percettivo che forza il senso ordinario delle cose fino a scoprirvi sensi ulteriori e analogie invisibili.
REALISMO E VISIONE NELLA POETICA DI CENI in libreria
distendono le campane un suono a onde lunghe quieto sulle curve dei colli e sui pensieri senza presa all’orizzonte si fa lievito la memoria: dietro il respiro della sera tornano certi minuti i giorni gli anni fatti linea da uno sguardo che filtra cuce sutura senza sosta
Nadia Scappini
di Giovanni Piccioni
l trimestrale letterario Atelier (edizioni Atelier, abbonamento annuo 25,00 euro), nel suo ultimo numero dell’anno 2010, dedica un ampio spazio all’opera poetica di Alessandro Ceni, uno dei poeti cinquantenni della generazione postideologica più appartati, personali e dagli esiti più sicuri. Lo spazio si articola, fra l’altro, in una antologia della critica, in cui compaiono, per citare solo alcuni nomi, Milo De Angelis, Roberto Mussapi, Roberto Carifi, Paolo Fabrizio Jacuzzi, Piero Bigongiari, Daniele Piccini, quattro interventi critici inediti - di Piccini, Bartoli, Baldi e Ladolfi - un colloquio fra Ceni e Riccardo Ielmini e per concludere un’antologia di testi che comprende anche due inediti. Si è scritto spesso a proposito di questa poesia che appare «unica, coraggiosamente e persino maestosamente isolata rispetto alle esperienze poetiche coeve» (Roberto Galaverni) di espressionismo, di neoorfismo e di neoermetismo, e di una materia verbale dura,
I
tragica in cui la realtà animale e quella naturale costituiscono una presenza viva e costante, quasi sostitutiva di quella umana. Presenza che rinvia a una società primordiale ritualizzata e sacrale, in opposizione alla desacralizzazione del mondo umano. In Spineto il poeta scrive: «Ci sono luoghi in cui/ neanche i proprietari/ osano entrare». La poesia è quindi l’istituzione di un luogo concentrato sul sacro e sul suo manifestarsi, in cui il soggetto si apre a una contemplazione essenziale. È certo che la poesia di Ceni propone una percezione metamorfica della natura e mira a confondere se stessa e l’io con l’evento naturale, calandosi in uno stato vivo e attuale. Lo sforzo di superare il limite lirico egocentrico per aprirsi all’alterità, nella convinzione che la dimensione oggettiva dell’esistente sia essenziale alla comprensione poetica è testimoniata dal procedimento «realistico» che si associa alla disposizione visionaria.
Mistery
pagina 22 • 5 febbraio 2011
crittore di consumo, mai sfiorato da problematiche di carattere sociale. Temperamento anarcoide, individualista, diffidente. Tipico esempio di cinismo borghese, potenzialmente pericoloso ma recuperabile se rieducato». Questa sintetica, ma esauriente scheda, si trova presso l’Archivio antifascista antimperialista di Via dei Sabelli a Roma, aderente alla Quarta Internazionale, di cui è direttore, segretario e tesoriere e a suo tempo fondatore Alessandro Tappezzieri detto Sandrone (un nome che richiama pericolosamente alla mente un ex direttore «compagno» dei Gialli Mondadori che fece sfracelli). La scheda si riferisce a Giulio Leoni e la si può leggere a p. 109 di La sequenza mirabile, appena pubblicato da Mondadori, ultimo romanzo del prolifico Giulio Leoni. Con una buona dose di autoironia lo scrittore romano traccia di sé questo caustico ritrattino nel primo romanzo poliziesco d’epoca contemporanea da lui pubblicato dopo tanti a sfondo storico e ciò basta per capire quanto si differenzi dalla vasta fauna dei giallisti italiani che oggi inflazionano il mercato, sia sotto il profilo culturale sia, di conseguenza, per il tipo di narrativa che scrive. Leoni è letteralmente «esploso» nel 2000 vincendo il Premio Alberto Tedeschi con I delitti della Medusa al quale hanno fatto seguito almeno altri quindici romanzi tra polizieschi, storici, fantastici e horror e non si sa quanti racconti. Tipica della sua narrativa è la mescolanza di «generi» sostenuta da un’inventiva fervidissima (certe volte anche troppo esuberante) e da uno stile accattivante che, quando non è penalizzato dalla fretta, aggiunge notevoli capacità evocative che sono più evidenti nelle opere fantastiche, come il ciclo di Anharra scritto, a quanto pare su richiesta dell’editore, con lo pseudonimo di J.P.Rylan che però oggi non è più un mistero.
MobyDICK
ai confini della realtà caccia oltre ai Cimbro tramite il nostro Leoni, scrittore di romanzi ma anche di tesi di laurea per conto terzi e specialista nel rintracciare libri irrintracciabili. C’è ad esempio una società, La Vegliante, che porta avanti negli anni duemila il ricordo e gli ideali fiumani, mescolati a futurismo e a uno pseudo-esoterismo. E intorno alla società circolano i personaggi più strani: docenti universitari ambigui, loro assistenti sfruttati e frustrati e segretamente innamorati di Amaranta, rappresentanti ancora più sospetti di case da gioco, antiquari omosessuali, proprietari bizzarri di negozi di modernariato, rivoluzionari in pantofole, collezionisti di opere ludiche, reduci centenari e oltre di quella lontanissima Impresa eccetera eccetera.
«S
Leoni si è imposto con il ciclo di Padre Dante nelle vesti di indagatore: il Sommo Poeta è coinvolto in casi misteriosi anche al limite dell’esoterico e del fantastico, che risolve brillantemente nell’ambito della sua cultura e «visione del mondo», iniziando con il citato I delitti della Medusa al quale hanno fatto seguito I delitti del mosaico (2004), I delitti della luce (2005) e La crociata delle tenebre (2007). Ma il passato storico con protagonisti personaggi realmente esistiti ha sempre attratto lo scrittore che vi ha anche ambientato gli intriganti La regola delle ombre (2009) e La ladra di Cagliostro (2010), e in periodi più vicini a noi La donna sulla Luna (2002), dove protagonista è il regista Fritz Lang, e E trentuno con la morte (2003) ambientato durante l’impresa di Fiume di Gabriele d’Annunzio. La sequenza mirabile (peccato per l’insensata copertina) è il primo la cui trama Giulio Leoni fa svolgere ai nostri giorni, senza però dimenticare il passato che incombe sui protagonisti come una nemesi alla quale non si può sfuggire. Ancora una volta è all’impresa dannunziana che l’au-
Fiume
i sette nani e una sequenza mirabile di Gianfranco de Turris tore si rivolge mettendosi in campo non solo come io narrante ma proprio come figura, come coinvolto in prima persona in un intrigo che più complicato non si può, insieme a una folla di personaggi di oggi ma anche di quasi un secolo fa. Un rompicapo che sembra sfuggire alla comprensione sia dello scrittore-protagonista, sia ai lettori. Tutto sembrerebbe concluso al penultimo capitolo, ma i giochi si riaprono incredibilmente nell’ulti-
nio matematico ai più ignoto, Gerolamo Martini, che avrebbe messo a punto un sistema per vincere infallibilmente alla roulette. Glielo chiedono un singolare personaggio, Ermete Cimbro, e sua figlia Amaranta, figura eroticamente estenuata, quasi vampirica, dai capelli ovviamente rossi. Un moderno alchimista che tiene in vita la non più giovanissima donna con l’Oro Potabile, o semplicemente un pazzo? Comunque, parente di un altro
Giulio Leoni, prolifico autore di gialli storici, ambienta il nuovo romanzo ai nostri giorni senza rinunciare a un passato che incombe come una nemesi a cui non si può sfuggire. Così si scopre che anche D’Annunzio ha sperimentato un metodo infallibile per vincere alla roulette… mo sino all’imprevedibile (ma coerente) finale. Non è semplice spiegare quale trama Leoni abbia inventato perché si corre il rischio di dire toppo o troppo poco, ma si deve avvertire che sin da subito le cose non sono affatto come sembrano, che le apparenze ingannano e l’abito non fa il monaco. Si può dire che tutto ha inizio con l’incarico che il Leoni-protagonista ha di rintracciare un libretto che sembrerebbe introvabile: La sequenza mirabile scritto all’inizio del Novecento da un ge-
Cimbro morto negli anni Venti forse ricchissimo o forse no. Il quale è forse stato in precedenza l’assassino di famosi acrobati, i cosiddetti Sette Nani, che la formula avrebbero applicato vincendo a iosa. E prima ancora, avendo essi partecipato all’impresa fiumana, anche lo stesso D’Annunzio ne avrebbe trovato notevolissimo beneficio applicandolo al casinò di Zara. Questo per il passato, perché della complicatissima formula, forse funzionante e forse no, al presente in troppi vanno alla
In questo bailamme di figure il Leoni scrittore nonché protagonista si destreggia bellamente prima con scetticismo, poi con curiosità, infine con angoscia man mano che intorno a lui qualcuno comincia a defungere con una certa frequenza. Il caso, anzi il Fato o la Sincronicità, gli dà una mano e pian piano rintraccia, nei modi più curiosi e fortuiti, una serie di indizi: l’edizione originale della sequenza mirabile, un vecchio libro in parte artefatto, un manifesto, una spilla… Indizi che lo portano fisicamente a Venezia e a Gardone dove si avranno le rivelazioni quasi conclusive perché poi il finale sarà un altro, anche se coerente. Il dubbio è: la Sequenza di Martini per azzeccare i numeri in uscita della roulette funziona o no? È un miraggio sin dagli anni Venti o un puro imbroglio? E cosa c’è dietro l’indubbio arricchimento dei Sette Nani? E cosa c’entra in tutta questa storia l’abbordaggio degli uscocchi dannunziani alla motonave regia Trapani ideato da un misterioso legionario che si nasconde dietro una maschera di cuoio dal soprannome di Grillodoro? Dietro una scia di cadaveri nelle ultimissime pagine tutti i nodi si scioglieranno, lasciando anche un po’ di amaro in bocca. Leoni ha scritto un romanzo che definire giallo è una diminutio, anche semplicemente perché si distingue dagli ovvi, prevedibili e in fondo ormai banali polizieschi italiani che ci inondano con storie della profonda provincia italiana. La sequenza mirabile ha forse l’unico difetto di essere un po’troppo dispersivo e talvolta prolisso, ma si riscatta con una girandola di trovate, con personaggi ben tratteggiati nella loro assurdità e nella loro follia, con descrizioni coinvolgenti, rievocazioni culturali, invenzione di figure al limite dell’umano o del razionale. Si ha spesso la sensazione che Leoni (lo scrittore) abbia voluto trasfigurare e portare al limite più che situazioni e luoghi, personaggi da lui ben conosciuti. Se è così ci è riuscito benissimo. Lo aspettiamo al varco di un romanzo serio (non serioso!) che affronti in chiave giallistica e misteriosa certe problematiche della cultura della prima metà del Novecento che sembra conoscere bene, così come ambienti e personalità dell’epoca.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g Una riflessione dopo Todi
Rilanciamo la politica contro la crisi di Francesco Bosi Todi, sullo sfondo della sala che ha tenuto a battesimo il nuovo polo, troneggiava un grande striscione, su sfondo tricolore, con scritto «un nuovo polo per l’Italia». Mentre si svolgevano le relazioni e gli interventi, tutti di notevole interesse (finalmente si è ricominciato a parlare di politica), mi sono chiesto se non sia meglio chiamare, questa nascente coalizione, «una nuova politica per l’Italia».
A
Lo ammetto, la parola “polo” non mi piace, ma la vera questione è la rilegittimazione della politica presso il cuore e la mente degli italiani. Molti, i più giovani, non sanno nemmeno cosa sia, abituati a sopportarne una noiosa parodia divenuta, giustamente, insopportabile. Da troppo tempo si contrabbanda per politica una sceneggiata permanente fatta di delegittimazioni, insulti e scontri che niente hanno a che vedere con i problemi della gente e della nazione. Da qui il disprezzo per quella che, per molti, è, ormai, una parolaccia. Ricordo un discorso di Giorgio La Pira, allora Sindaco di Firenze, che esaltava la insostituibilità e il valore della politica come servizio alto alla collettività, che egli – laico consacrato – definì ancor più importante del sacerdozio. L’alternativa alla politica, così concluse, è solo la guerra. Don Milani, ai bambini della scuola di Barbiana, rispondendo ad uno di loro che gli chiedeva «cos’è la politica?» disse semplicemente: «Uscire insieme dai problemi». Che differenza con quanto sta accadendo oggi in Italia! Dunque il populismo e la demagogia. che si fondano sull’inganno di false contrapposizioni, sono un disvalore e l’esatto contrario della politica. Noi vogliamo ricucire l’Italia fra nord e sud, fra imprenditori e lavoratori, fra le aspettative dei giovani e la tutela degli anziani, fra i più fortunati e chi soffre. Insomma: uscire insieme dai problemi. Questa è la nostra ragion d’essere, per alimentare la speranza di una svolta ad un bipolarismo coatto e muscolare, ormai declinante, che allontana la partecipazione e crea sfiducia. Ecco perché dobbiamo essere una forza tranquilla, con i propri valori fondanti, che non coltivi odio e risentimenti ma operi con i fatti, la parola e l’esempio. Quel che ci interessa, traguardando senza riserve il bene comune, è servire le Comunità Locali e la nazione. A vincere sia la politica quella vera.
A chi giova la legge sulla dislessia? Certamente non ai bambini Ritengo di far parte di una generazione di persone fortunate, per aver vissuto in un periodo in cui avevi il diritto di sbagliare, l’opportunità di correggere gli errori, un’insegnante che mi segnava di rosso o di blu i miei elaborati, di avere avuto il tempo che mi serviva per correggermi, esercitarmi per apprendere ed imparare, e soprattutto la serenità e tranquillità con la quale ho vissuto il mio percorso scolastico. Anche se non fossi stata veloce nella lettura, se avessi fatto molti errori nello scrivere, se avessi sbagliato i calcoli, nessuno avrebbe messo in dubbio la mia sanità mentale e capacità di apprendere, nessuno avrebbe chiamato mia madre per portarmi a 7/8 anni dal neuropsichiatra infantile per una diagnosi di dislessia. Nessuno mi avrebbe inculcato l’idea di essere incapace con tutte le conseguenze emotive, psichiche e sociali che questo comporta. I bambini di oggi purtroppo non hanno questa possibilità, qualcuno ha lavorato duramente per assicurarsi che molti di loro non l’avessero. Questo riguarda tutti noi perché un giorno quel bambino potrà essere tuo figlio.
A.M.P. Insegnante
LA CRISI DEL CETO MEDIO (III PARTE) La divergenza economica produce sul piano politico uno schema ideologico classico, in virtù del quale le categorie deboli affidano alla sensibilità delle forze di sinistra le loro rivendicazioni sociali, mentre quelle che aspirano o si ritengono agiate trovano la loro opportuna rispondenza negli ambienti politici di destra (in questi tempi, in verità, le cose si sono invertite). Si deduce da questa impostazione, marcatamente basata sulla disponibilità o meno del dio denaro, che si trovano spiazzate le categorie sociali storicamente centrali a questi due estremi perché perdono il loro profilo identitario, si sentono confusi e vengono trascinati in una delle due parti per effetto delle situazioni economiche esistenti. La cruda realtà congiunturale che attraversiamo ha messo in grave crisi l’identità sociale del ceto medio in cui diverse categorie professionali si rispecchiano. Ci riferiamo, seguendo la nomenclatura tricotomica di Sylos Labini, al ceto intermedio, in cui gli artigiani autonomi, i commercianti, i piccoli e medi imprenditori, i liberi professionisti, i dipendenti pubblici si ritrovano; parliamo della loro posizione economica che è poco incisiva perché affetta da particolarismi che, persistendo, non operano per una visione comune del bene. Nel fatto concreto, visti i risultati, mancherebbero i presupposti per una coscienza di classe unitaria del ceto medio, in presenza di conflitti d’interessi
personali o per la prevalenza momentanea di una categoria sull’altra. L’aspetto che lascia indignati è il constatare che di questi gruppi fanno parte gente istruita ed esposta socialmente, in grado di discernere il bene dal male. Per onestà intellettuale, va sottolineato che chi ha concorso ad indebolire se stesso è stato lo stesso ceto medio che, spostandosi elettoralmente con frequenza su e giù, a destra e a sinistra, per rincorrere utopie contingenti o mantenere qualche rendita di posizione, non ha fatto altro che indebolire la propria forza e la sua affidabilità nel contesto sociale del Paese. Ne consegue che anche i suoi ricorrenti adattamenti politici e sociali non hanno pagato e hanno determinato sfiducia e valutazioni negative tra la gente. È giunto il tempo, crediamo, che si possa voltare pagina!
Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
CRIMINALI FURBI E MENO FURBI Il comunismo è una ideologia criminale che ha causato cento di milioni di vittime nel mondo, ammantandosi immeritatamente di un’aura di giustizia e di progresso. Ovunque gli “ideali”del comunismo abbiano avuto una applicazione concreta la regola è diventata la negazione della libertà di espressione, la repressione brutale di qualunque dissenso, l’internamento in campi di sterminio e i gulag. Mentre in Urss si internavano i dissidenti e nella Ci-
L’IMMAGINE
Arte per la pace Siamo a Kabul e quello dei graffiti per l’Afghanistan potrebbe sembrare un passatempo insolito, ma è anche grazie a questa forma d’arte che la città sta ritrovando parte della sua bellezza. L’iniziativa è partita da un collettivo di artisti chiamato Roshd (“crescita” in lingua locale) per non lasciare spazio sui muri alla propaganda politica. E rendere la vista delle macerie meno deprimente
LE VERITÀ NASCOSTE
Chi va piano... va poi forte LONDRA. Provate a pensare agli elefanti che danzano leggiadri sulle note musicali del cartone animato Disney Fantasia: l’agilità non è certo la prima caratteristica che associamo ai pachidermi. Eppure questi animali sanno correre, anche se al rallentatore… È quanto emerge da uno studio del Royal Veterinary College, che precisa inoltre che i pachidermi iniziano a correre con un’andatura lentissima, “alla moviola”. Quando passeggiano tranquillamente, gli elefanti mantengono un passo standard di 4 km all’ora. Ma se decidono di fare una corsa, iniziano a usare le zampe posteriori come trampoli a molla, sfruttando la spinta di queste per “lanciare” il corpo in avanti,“atterrando”poi sulle zampe anteriori. Questo modo di procedere a balzelli, secondo i ricercatori, è da considerare una vera e propria corsa. I ricercatori hanno scoperto che gli elefanti cambiano andatura quando raggiungono la velocità di 8 chilometri orari, un’andatura più bassa di una nostra corsetta. I pachidermi iniziano quindi a correre al rallentatore, probabilmente, per non affaticare troppo i muscoli, già gravati dalla loro mole.
na della rivoluzione culturale si “rieducava” chi la pensava diversamente, nei Paesi occidentali i partiti comunisti sfruttavano abilmente la libertà di parola e di pensiero, caratteristiche delle democrazie per propagandare false promesse di liberazione del proletariato con la lotta, spesso tragicamente armata, e per imporre un pensiero unico, ufficialmente progressista e intellettualmente attraente. Già, gli intellettuali progressisti, che ieri storcevano il naso davanti agli scritti di Sol\u017Eenicyn e ammiccavano alla Cambogia di Pol Pot, applaudivano i carri armati sovietici a Budapest nel 1956, si giravano dall’altra parte durante l’altro ’68, quello della Praga di Dubcek e di Jan Palach, oggi vorrebbero stendere un velo di oblio su questa storia che gronda sangue e riciclarsi come ambientalisti, pacifisti o come falsi difensori dei poveri e del muticulturalismo. Il 27 gennaio hanno commemorato la giornata della memoria in ricordo delle vittime del nazismo con grande sfoggio di mostre e dibattiti pubblici. L’intento non dichiarato era di mostrare agli italiani quanto i “neri” siano cattivi e i rossi buoni. Gianpaolo Pansa, l’unico ex compagno che con i suoi libri ha smascherato e sbugiardato le “conquiste” dei partigiani rossi, è stato messo alla gogna dall’intera classe dirigente progressista italiana. Mai si è sentito in Italia, un solo politico di sinistra “massimalista”o moderata (Pd) rinnegare le sue origini. Se il partito fascista è stato giustamente dichiarato fuorilegge, è normale che chi ha usato la falce il martello per eliminare gli avversari possa rappresentare la volontà degli italiani e soprattutto impartire lezioni di moralità? La differenza tra criminali neri e rossi è una sola. I neri erano degli ottimi fotografi che amavano documentare i loro misfatti, mentre i rossi scelsero di non lasciare alcuna traccia visiva compromissoria. La differenza, è tutta qui: tra criminali furbi e meno furbi.
Gianni Toffali - Verona
grandangolo
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Cent’anni dalla nascita dell’uomo che cambiò il mondo
Vi racconto Ronald Reagan, la mia luce nel gulag
Il ricordo di Natan Sharansky, il matematico a lungo rinchiuso nelle prigioni della Siberia. «Quando lui definì l’Urss “lmpero del Male” davanti al mondo intero fu un giorno meraviglioso. Finalmente era morta la orwelliana neolingua a cui eravamo abituati nel comunismo. Fu la fine della grande rivoluzione bolscevica e l’inizio di una rivoluzione» di Tom Rose atan Sharansky è nato in Ucraina nel 1948 e ha studiato matematica a Mosca. Ha lavorato come interprete di lingua inglese per il grande fisico sovietico e dissidente Andrei Sakharov ed egli stesso divenne uno dei simboli della lotta degli ebrei sovietici e promotore dei diritti umani. Incarcertao nel 1978 sulla base di accuse, inventate, di tradimento e di spionaggio al servizio degli Usa, Sharansky fu condannato a 13 anni di detenzione. Dopo anni trascorsi nel gulag siberiano, è stato liberato nel 1986 in seguito a uno scambio di prigionieri americani e sovietici e trasferito in Israele, dove oggi è presidente della Jewish Agency for Israel. Si ricorda della prima volta in cui ha sentito fare il nome di Ronald Reagan? Ero già in prigione da molto tempo quando Reagan fu eletto. Non sapevo molto di lui e per quanto mi ricordi, non penso di aver sentito parlare particolarmente di lui. Nessuno di noi, nel gulag, aveva molte informazioni, e io effettivamente sapevo meno della maggior parte dei detenuti perché avevo trascorso tanto tempo in cella di isolamento, dove, a volte, si restava totalmente isolati per mesi. Il nostro primo indizio che Reagan potesse essere la figura-chiave nella nostra lotta, la lotta di tutti i popoli che combattono la tirannide, venne dalle feroci accuse nei suoi confronti che apparivano sulla stampa ufficiale sovietica. Ebbene, tutti i sovietici erano
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esperti nell’arte di «leggere fra le righe» e naturalmente noi dissidenti eravamo professionisti in questa sublime forma d’arte. In effetti, eravamo così bravi nel leggere tra le righe, da poter quasi ricostruire gli eventi, per come essi si erano davvero svolti, sulla base di quello che le autorità non ci avevano detto. Quello che non ci era stato detto, era altrettanto importante di quanto essi ci avessero
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Aveva la limpidezza morale per capire la verità e il coraggio di comunicarla e sostenerla
”
detto, se non di più. Sulle prime, noi provammo sensazioni molto contraddittorie. Ricordo che avevamo accettato come dato certo che Jimmy Carter fosse il più grande difensore dei diritti umani. Solo più tardi, dopo aver visto che risultato possano dare le parole non accompagnate dai fatti, finimmo per maturare la convinzione che egli potesse offrirci una politica fatta solo di parole. L’unica cosa a suo vantaggio, però, era che
Jimmy Carter insisteva nel continuare a dibattere il problema sulla scena internazionale. Ricordo che prima di lui nessuno sembrava disposto neanche a parlarne. Tutto ciò che si sapeva di Reagan era che fosse un attore di secondo piano e, dopo aver vissuto per così tanto tempo in un mondo orwelliano dove la recita costante era tutto ciò a cui noi eravamo stati abituati dai nostri capi, proprio il fatto che Reagan fosse un attore, lo voglio dire, aveva destato in noi, all’inizio, molta più preoccupazione che incoraggiamento. Lei può ricordare particolari momenti dell’era Reagan che hanno dato forza e incoraggiamento a lei e ai suoi compagni? Questa domanda mi fa ridere. Le persone che considerano la libertà come qualcosa di scontato, che avere un Ronald Reagan sia ovvio, fanno sempre questo tipo di domanda. Certo! Quando noi venimmo a sapere che Reagan aveva proclamato l’Unione Sovietica «Impero del male» davanti al mondo intero, fu un momento meraviglioso. Una lunga schiera di capi occidentali si era ritrovata allineata nella condanna del malvagio Reagan che aveva osato definire la grande Urss «Impero del male»; e questo elenco veniva messo in prima pagina, proprio accanto alla storia di quest’uomo terribilmente pericoloso che voleva riportare il mondo ai giorni bui della guerra fredda. Il momento era arrivato. Fu la giornata più luminosa, la
più gloriosa: finalmente era stato detto pane al pane e vino al vino, e la orwelliana «neolingua» era definitivamente morta. Da quel momento in poi, il presidente Reagan aveva reso impossibile, a chiunque vivesse in Occidente, poter continuare a tenere gli occhi chiusi, a ignorare, la reale natura dell’Urss. È stata una delle più importanti dichiarazioni di difesa della libertà, e noi tutti lo capimmo all’istante. Per noi, quello fu il momento che segnò veramente la loro fine e il nostro l’inizio. Questa fu la fine della grande rivoluzione bolscevica d’Ottobre di Lenin, e l’inizio di una nuova rivoluzione, una rivoluzione per la libertà, la rivoluzione reganiana. Entravamo e uscivamo spesso dalle celle di isolamento - io più della maggior parte dei miei compagni - e avevamo sviluppato un nostro linguaggio a battute per comunicare l’un con l’altro oltre i muri. Un codice segreto. Ci eravamo dovuti inventare un nuovo metodo di comunicazione per trasmettere questa grande, incredibile notizia. Battevamo perfino sui muri dei gabinetti! Nel suo memoriale Fear No Evil (Non temete il male), lei scrive che il presidente Reagan rimase affascinato da questo episodio. La prima volta in cui ho incontrato il presidente Reagan, gli ho raccontato questa storia. Ho sentito il bisogno di confidargli ogni cosa. Gli ho narrato della giornata memorabile in cui abbiamo avuto notizia del suo discorso
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sull’«Impero del male», da un articolo sulla Pravda o sull’Izvestia, che ci era in qualche modo pervenuto, nonostante fossimo in prigione. Quando gli raccontai che tutto il nostro gruppo si era abbandonato a un’esplosione di giubilo e che era in atto un cambiamento nel mondo, ebbene in quel momento il presidente, questo uomo così grande e forte, si illuminò come uno scolaretto. La sua faccia si rischiarò e divenne raggiante. Saltò giù dalla sedia come uno schioppo e iniziò ad agitare le braccia in maniera selvaggia e a chiamare tutti affinché venissero ad ascoltare la storia «di quest’uomo». Solo allora iniziai a rendermi conto realmente che il presidente Reagan doveva aver sofferto terribili offese per il suo grandioso discorso, non solo in Unione Sovietica, ma che egli era stato ferito anche in patria.
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Che era l’uomo chiave della nostra lotta lo capii dalle feroci accuse della stampa sovietica
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Sembrava come se il nostro attimo di gioia fosse la sua rivincita: ne era valsa la pena, aver sopportato grandi offese per aver fatto quel discorso. Si può davvero affermare che Reagan sia stato veramente responsabile di un evento così grande come il crollo dell’Urss? Sì. L’uomo giusto al posto giusto? Sì. Certamente. Ma non era un uomo isolato. Se mi fosse concesso di estendere ulteriormente il merito dell’evento, io direi che il crollo dell’Urss è attribuibile a tre uomini: Andrei Sakharov, Scoop Jackson e Ronald Reagan. Queste persone hanno portato chiarezza morale nel conflitto e hanno avviato quella catena di eventi che portò alla fine del comunismo sovietico. Sakharov nel popolo russo, il senatore Jackson nel governo americano e Reagan, nell’interesse del
popolo americano, nel mondo e di riflesso in Unione Sovietica. Essi hanno inventato la politica delle connessioni: le relazioni internazionali e i diritti umani devono essere interconnessi; il modo in cui un governo tratta il suo popolo non può essere considerato separatamente dal modo in cui ci si aspetterebbe che il governo trattasse i Paesi stranieri. Il modo in cui i governi onorano gli impegni in patria mostrerà al mondo come essi onoreranno gli impegni presi all’estero. Il suo costante, sincero appello per la libertà, la sua incrollabile opposizione alla tirannide e l’audace ottimismo. Da dove pensa che gli venisse tutto ciò? Io non penso che gli venisse da Hollywood. Gli veniva da lui stesso, dalla sua anima. Egli aveva due cose di cui noi tutti abbiamo bisogno, ma che pochi di noi sembrano possedere. Reagan aveva sia la chiarezza interiore che il coraggio. Aveva la limpidezza morale per capire la verità e il coraggio sia di comunicarla che di fare tutto ciò che era necessario per sostenerla. In lui c’era più l’uomo che la retorica. Il suo maggior contributo personale, fu il divieto all’Unione Sovietica di usare gli Stati Uniti per consolidare se stessa a spese dell’America. L’Urss aveva imparato - le era stato insegnato, in realtà - che gli Stati Uniti e l’Europa esistevano per fornire al sistema sovietico proprio quelle risorse energetiche e quel sostegno di cui essa aveva bisogno per sopravvivere. Reagan, istintivamente, l’aveva capito quando nessun altro ne aveva la minima percezione. Questo è il più grande paradosso: la peggiore minaccia alla libertà è stata, per molti versi, il prodotto di questa libertà! La tirannide sovietica era in completa balìa dell’Ovest per la sua sopravvivenza totale. Reagan lo sapeva bene. L’Unione Sovietica, una nazione di duecento milioni di schiavi, non riusciva a tenere il passo, in nessun modo, con i progressi tecnologici, economici o scientifici che stavano avvenendo nell’Occidente. Il momento in cui Reagan tolse questo sostegno all’Urss, questa iniziò il suo decadimento. Come è possibile che le verità su libertà e totalitarismo, che appaiono oggi così evidenti e così ovvie, possano essere state completamente dimenticate per così tanto tempo e da così tante persone?
Nelle democrazie, l’arrendevolezza non è un’eccezione, ma ne è una regola fondamentale. La politica delle eccessive concessioni è un potente effetto collaterale della democrazia. Il cedimento dell’Ovest nei confronti dell’Urss, cominciato quasi nel momento in cui era finita un’analoga politica nei confronti della Germania nazista, è cessato solo con l’intervento di Reagan. I capi delle democrazie necessitano della pace per garantirsi la sopravvivenza politica. Dal momento che le democrazie devono rispecchiare la volontà dei loro popoli, i loro capi scelgono lo strumento delle concessioni perché qualsiasi cosa è preferibile alla guerra. I popoli liberi vanno in guerra solo quando non hanno altra scelta. Questa è la grande forza della democrazia come anche la sua grande debolezza. Le democrazie sono così libere, così stabili e così prospere perché le loro popolazioni non vogliono la guerra. I capi occidentali si stavano pertanto muovendo nel rispetto di questa tradizione, credendo che l’Unione Sovietica avesse bisogno di essere trasformata da mortale nemico in un partner di buona volontà. Anche il presidente Carter, che aveva capito l’importanza dei diritti umani meglio di qualsiasi altro suo predecessore, aveva sempre scelto la politica delle concessioni all’Urss piuttosto che obbligarla a competere con l’Ovest. Dal momento che non siamo in grado di riprodurre un clone di Reagan, quali sono i suoi insegnamenti pratici che possono essere applicati oggi per raggiungere un simile effetto? Connessione. Questa è la cosa più importante che Reagan abbia fatto. Egli ha creato un modello, invitando ad aderirvi, che è servito per abbattere il più grande impero totalitario della storia e può essere utilizzato, oggi, con nemici non meno pericolosi, ma di gran lunga meno potenti. Ma un’alleanza richiede sia coraggio che lucidità morale. La grande forza di Reagan è stata la sua ottimistica fede nella libertà, la sua consapevolezza che ogni essere umano la meriti e che la libertà è una forza che può riscattare, rinforzare, arricchire e nobilitare. È dificile da immaginare due persone con esperienze di vita più diverse di Natan Sharansky e Ronald Reagan. Ha avvertito queste differenze anche a livello umano? Abbiamo avuto entrambi una simile visione del mondo. È questo, ciò che importa… Non le esperienze in sé ma il messaggio che sai trarre da loro. Si divertiva molto a raccontarmi la vecchia barzelletta sull’allora presidente sovietico Leonida Brezhnev e sul suo primo ministro Alexei Kosygin. Essi discutevano su che cosa sarebbe successo all’Urss se avesse aderito veramente agli accordi di Helsinki e avesse adottato una politica di emigrazione aperta. «Tu e io rimarremmo gli unici due cittadini dell’Urss», disse Brezhnev. «Parla per te», rispose Kosygin. Reagan aveva capito l’efficacia di questa barzelletta. Egli si ergeva contro il male, aveva il coraggio di combattere il male e la saggezza per sconfiggerlo. (Traduzione di Marinella Piccione) © liberal-The Weekly Standard 2004
Più che aforismi, il suo testamento
Un presidente in poche parole (indimenticabili) Dall’appoggio a Goldwater al discorso sull’Impero del Male, dalle storiche frasi di fronte alla porta di Brandeburgo al commovente messaggio di addio: ecco alcune delle frasi più significative del presidente che ha cambiato le regole del linguaggio politico.
1964 Chi ci chiede di scambiare la libertà con la zuppa di pollo dello stato sociale è l’architetto di una politica di accomodamento. Dice che il mondo è troppo complesso per risposte semplici. Sbaglia. (Alla Convention del Partito Repubblicano in appoggio alla nomination di Goldwater).
1981 Lo Stato non è la soluzione: è il problema. Dicono che la società sia troppo complessa per governarsi in autonomia. Ma se nessuno è in grado di governare se stesso chi può governare qualcun’altro? (In occasione dell’insediamento alla Casa Bianca).
1982 Promuovere le infrastrutture della democrazia, la libera stampa, i partiti, i sindacati, le università non è imperialismo culturale: è fornire i mezzi per un’autentica autodeterminazione e protezione delle diversità. (Davanti al Parlamento britannico).
1983 La forza militare dell’America è importante, ma la lotta in atto nel mondo non sarà mai decisa dalle bombe o dai razzi. La vera crisi che affrontiamo oggi è spirituale; è una prova di volontà morale e di fede. (All’Associazione nazionale degli Evangelici. Il suo intervento più conosciuto).
1987 lei Signor Gorbaciov, se persegue la pace, se lei persegue la prosperità dell’Urss e di tutta l’Europa dell’Est venga a questa Porta, apra questa Porta! Gorbaciov, abbatta questo Muro! (A Berlino, davanti alla Porta di Brandeburgo).
1989 Mi hanno chiamato il grande comunicatore, ma non era il mio stile a fare la differenza: era il contenuto. Non ero io grande ma le cose che comunicavo. Esse non venivano dalla mia mente, ma dal cuore di una grande nazione. (Discorso di addio alla Casa Bianca).
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la crisi egiziana
Un milione di persone in piazza Tahrir, mentre l’esercito installa dei check-point per l’accesso alla capitale e al centro del Cairo
L’asse Silvio-Hosni
Da Bruxelles, il presidente del Consiglio difende il raìs egiziano: «È un uomo saggio, fa bene a rimanere». Nuove proteste in piazza di Pierre Chiartano igliaia di egiziani hanno pregato ieri in piazza Tahrir al Cairo. Hanno pregato perché il presidente Hosni Mubarak si dimettesse immediatamente, in quello che hanno definito «giorno della partenza». Partenza del vecchio Faraone naturalmente, che il vicepresidente Omar Suleiman definisce ormai«presidente solo formalmente». E che, invece, da Bruxelles, il premier italiano Berlusconi considera «un uomo saggio». «Vattene!», hanno gridato i contestatori dopo essersi riuniti in preghiera. Chi protesta spera nella spallata finale. La folla si è messa dalla mattinata in coda per accedere alla piazza, dall’unica aperta e controllata dai militari: tutti i cittadini che entrano sono prima perquisiti dai soldati. In piazza c’era anche il ministro della Difesa Mohamed Hussein Tantawi, accompagnato da alti ufficiali dell’esercito. Per la manifestazione gli organizzatori hanno stimato la presenza di oltre un milione di persone. Il presidente egiziano ha promesso di non ricandidarsi per un nuovo mandato a settembre. Anche ad Alessandria sono scese in piazza altre decine di migliaia di persone. Radunati davanti alla moschea di Qaed Ibrahim, nel centro città, i manifestanti, i gran parte sostenitori dei Fratelli musulmani, gridavano «abbasso Mubarak, abbasso il regime». L’Egitto è ormai uno Stato fragile e lo si capisce da tanti segnali. La gente si è armata per difendere le proprie abitazioni
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da saccheggiatori, con le carceri svuotate nel Paese circola la peggiore feccia possibile; molti Paesi mediorientali stanno infiltrando agitatori sperando – non si sa bene come – di influenzare la situazione a proprio vantaggio.
E Washington accelera per costringere Mubarak alle dimissioni. Da Teheran la guida suprema tenta il richiamo al «movimento di liberazione islamica» e le cancellerie occidentali sono sempre un passo indietro rispetto a una situazione che evolve in maniera troppo veloce. L’esercito non sa come affrontare la piazza e gestire l’ordine pubblico. Una parte della polizia è connivente con i filogovernativi. I numeri della gente che scende in piazza, durante gli scontri tra fazioni, eccetto per la folla oceanica e pacifica di qualche giorno fa e di ieri, vengono spesso sovrastimati. Si è creato un vuoto enorme nel controllo del territorio. E la maggior parte degli egiziani assiste attonita allo sfascio delle istituzioni e di un’economia già in crisi. Nell’intervista rilasciata dal Faraone Mubarak all’Abc, quando afferma: «se mi dimettessi ora» il Paese piomberebbe nel caos forse dice il vero. Ma poteva pensarci prima che la situazione degenerasse. Intanto proseguono le violenze e le intimidazioni nei confronti dei giornalisti che seguo-
no la rivolta. Nonostante le assicurazioni del governo egiziano. L’ufficio del Cairo della tv al-Jazeera ha reso noto su Twitter ieri mattina che alcuni uomini avevano fatto irruzione, devastando gli studi. Il primo ministro si è messo in contatto con le forze armate, chiedendo loro di facilitare il lavoro dei media stranieri e di fermare le interferenze che subiscono. «L’esercito li aiuterà», ha affermato un portavoce governativo. Il venerdì islamico è come la domenica per l’Occidente, la gente è libera di muover-
conseguenze per la povertà e lo sviluppo squilibrato, con limitazioni alle libertà fondamentali, ha innescato questa diffusione di rivendicazioni popolari». Dall’inizio dei disordini in Egitto, 12 giorni fa, sono rimaste ferite circa 5mila persone. Lo ha affermato il ministro della Sanità egiziano alla televisione AlArabiya. Il ministro ha anche parlato alla tv pubblica egiziana e ha annunciato di volersi recare anche lui in Piazza Tahrir. Ieri i Fratelli Musulmani hanno confermato la loro disponibilità a negoziare con il regime solo dopo le dimissioni di Hosni Mubarak. «Siamo per il dialogo con chiunque voglia condurre riforme nel Paese, dopo la partenza di questo ingiusto, corrotto tiranno», ha dichiarato la guida dell’organizzazione islamica Mohamed Badie, in riferimento al capo dello Stato. Ricordiamo che Badie a capo dei Fratelli dal luglio scorso, rappresenta gli hardliner del movimento islamico, diviso il molte fazioni tra cui oltre i radicali, ci sono i modernisti e i riformisti.
Musulmani e cristiani uniti nella protesta: un cardinale cattolico è stato visto tenersi per mano con una guida religiosa musulmana. Alla manifestazione anche il ministro della Difesa egiziano si. Quindi ieri erano veramente tanti gli egiziani che si sono radunati a piazza Tahrir. La polizia e l’esercito, presenti in massa, hanno compiuto rigidi controlli, ma hanno mantenuto un atteggiamento di basso profilo. Presente anche il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, che non ha escluso una sua candidatura per le prossime elezioni presidenziali di settembre. Unendosi a Ban Ki-moon nell`appello ai dirigenti egiziani, Il Direttore Generale dell`Ilo, l`Organizzazione Internazionale del Lavoro, Juan Somavia, ha dichiarato che «l’incapacità di affrontare questa situazione in modo efficace, con tutte le sue
«Avanziamo una sola rivendicazione. Se sarà soddisfatta, dopo ci impegneremo nel dialogo», ha aggiunto. E se Moussa si è detto disposto ad aspettare la fine del mandato di Mubarak, ad agosto, per un radicale cambio di governo, i cristiani copti hanno espresso il timore che le loro condizioni di vita possano
la crisi egiziana n un villaggio della valle della Beqaa libanese, dove il numero degli elettori non supera le 300 unità, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, già prima della guerra civile del 1975, infuriavano violenti battaglie, fino a quando arrivò a ricoprire la carica di “Mukhtar”, rappresentante del villaggio, un giovane uomo che non apparteneva alle due maggiori famiglie che all’epoca si spartivano il potere lPocale. Le due famiglie contendenti allora decisero di allearsi contro la piccola famiglia da cui proveniva il“Mukhtar”, il leader locale, e questa, a sua volta, fece ricorso ai partiti di sinistra per ottenere un sostegno esterno e garantirsi la posizione di leadership. Con l’inizio della guerra, e il consolidamento dell’influenza palestinese e dei partiti di sinistra, detti “nazionali”, il “Mukhtar” acquisì maggiore forza e salì sul carro armato delle forze arabo-siriane di dissuasione, per obbligare il ministero dell’Interno ad affrettarsi a fare del villaggio un comune, di cui divenne sindaco. Dopo la fine del cosiddetto periodo siriano, nel 2005, quel sindaco fece suo il motto “libertà, indipendenza e verità”, e mantenne la sua carica di sindaco, bramoso di arrivare al Parlamento. L’esempio riportato, uno dei tanti, è quello del deputato Walid Jumblatt, e sinceramente non è chiara la sua posizione “geopolitica” e la strada che ha intenzione di percorrere. Ma di esempi simili ve ne a centinaia, in tutti i luoghi e a tutti i livelli. Presidenti, ministri e parlamentari aspirano, dopo un certo arco di tempo, a lasciare il potere in eredità ai loro figli o, se impossibilitati, ai loro fratelli o ai loro generi. Come recita il detto: “Il genero è il sostegno della colonna vertebrale” (AlSohr Send al-Dhor). E ciò vale per i politici, i giudici, gli ufficiali, i responsabili dei partiti, delle associazioni e delle organizzazioni, arrivando fino alle cari-
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L’opinione dell’editorialista del quotidiano libanese “Al Nahar”
Perché dovremmo biasimare Mubarak? Vi spiego perché nei regimi arabi il potere è “cosa di famiglia” di Ghassan Hajjar che comunali, e ancora oltre! È il meccanismo del potere e del pretesto di servire il popolo e la cosa pubblica. Il “leader” si distacca dal popolo, ma dopo poche settimane si presenta come “servitore del popolo”.
Nei regimi arabi, non vi è mai stato un cambiamento al vertice degno di nota, ad eccezione del Libano. Il trasferimento del potere ha sempre avuto luogo dopo la morte, o dopo un colpo di stato militare che spesso ha portato all’uccisione di qualcuno. Il potere è sempre passato ai figli o ai fratelli, e i vari leader, vecchi e nuovi, non si sono mai opposti, tranne alcuni casi in cui dissidenti in esilio diffondevano dei comunicati. E a ogni passaggio di potere, le masse rendevano omaggio al “nuovo” presidente, adempiendo al loro dovere di sottomissione, e i vari leader arabi si affrettavano a presentare le loro congratulazioni al nuovo presidente, sostenendo il suo potere, in un gioco di specchi. Si possono forse contare i nomi dei presidenti e degli emiri che sono saliti al potere senza averlo ereditato? Oppure, si possono contare coloro che hanno perduto il potere con la morte, naturale o non? Il numero è infinito, e non sapremmo da dove iniziare. Alla luce di tutto ciò, il ca-
peggiorare senza Mubarak alla guida dell’Egitto. Dopo una giornata, giovedì, di violenze, arresti e intimidazioni contro giornalisti egiziani e stranieri, la maggior parte dei membri della stampa internazionale inviati in Egitto è di nuovo in libertà. Le redazioni di molti media hanno riferito della liberazione dei loro cronisti, anche se continuano fermi e maltrattamenti: ieri è successo anche a due giornalisti italiani, Michele Giorgio del Manifesto e Giovanni Porzio di Panorama, aggrediti da bande di adolescenti armati di bastoni e coltelli, poi fermati e interrogati prima di essere rilasciati. Sono stati liberati nel frattempo tre giornalisti di France24 e del collega del quotidiano belga Le Soir, Serge Dumont, di cui giovedì si erano perse le tracce per diverse ore. Anche i membri
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C’è bisogno di una road map geopolitica, con la speranza di intravedere la luce alla fine di questo lungo tunnel
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so del presidente Hosni Mubarak non fa eccezione, e non è necessario biasimarlo, in quanto i popoli arabi, fino ad oggi, non si sono mai ribellati ai regimi in Iraq, in Egitto, in Siria, in Palestina o in altri luoghi… Di fronte a questa realtà, come biasimare Hosni Mubarak?!
di un’equipe della televisione privata francese TF1, detenuti sempre l’altro ieri, sono stati rilasciati e «stanno bene fisicamente», secondo l’emittente: «Non sono stati maltrattati ma hanno vissuto 15 ore di interrogatori, con gli occhi bendati nella maggior del tempo», è stato il commento di Catherine Nayl, direttrice dei telegiornali di TF1. Momenti di terrore, sempre ieri, per due giornaliste spagnole, Laura Lopez Caro di Abc e Beatriz Mesa della radio Cope, costrette a scendere dalla loro macchina da una folla inferocita che le ha sbattute contro un muro: sono state liberate miracolosamente da un soldato che le ha sottratte agli aggressori, fra cui figuravano – secondo il racconto dei responsabili di Abc – probabili agenti in borghese e anche adolescenti armati di coltelli. Liberi
Il nuovo ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, ha rassicurato tutti dicendo: il successo della rivoluzione in Egitto contribuirà alla nascita di un Medio Oriente islamico. Salehi non ha detto nulla di nuovo, ma ha ribadito le parole che aveva ascoltato dalla Guida della Rivoluzione, Sayyed Ali Khamenei, il quale disse: «In conformità alla verità dell’Onnipotente, nascerà un Medioriente fondato sull’Islam». Ed ha aggiunto: «Il popolo egiziano musulmano ha alle sue spalle un glorioso passato islamico, che ha generato grandi glorie in termini di idee islamiche e Jihad sulla Via di Allah». Da parte sua, il predicatore del venerdì a Teheran, Ayatollah Ahmad Khatami, ha preannunciato che «la rivoluzione del popolo tunisino e le manifestazioni popolari in Egitto, Giordania e Yemen sono indizi del fatto che un nuovo Medio Oriente ha cominciato a prendere forma e modellarsi attorno all’Islam e alle richieste popolari e religiose, e questi movimenti sono un’estensione della rivoluzione islamica inaugurata dal popolo iraniano». E così ci siamo trovati di fronte a un “nuovo Medioriente” voluto dagli Stati Uniti, al servizio dei suoi interessi e di quelli di Israele. Il pre-
anche i sei giornalisti catalani della Tv pubblica TV3, dopo una detenzione di cinque ore, due inviati di Telecinco. Un caso di violenza contro i giornalisti si è concluso però in modo drammatico: il giornalista della Tv pubblica svedese Bert Sundstroem che ieri era stato ferito è ancora grave in ospedale.
I cristiani copti hanno protestato contro Mubarak diverse settimane prima che esplodesse la protesta al Cairo, ma oggi temono che le loro condizioni di vita possano peggiorare senza Mubarak alla guida dell’Egitto.Da Alessandria, molti copti confessano di ritrovarsi a pregare perché il governo di Mubarak duri il più possibile, temendo una possibile presa di potere da parte dei Fratelli musulmani e di altri gruppi islamici. «È
sidente George W. Bush ha concluso il suo mandato senza riuscire nella sua impresa, e non sappiamo se gli sviluppi sulla cartina geografica regionale, dallo Yemen, il Sudan e la Palestina, fino alle tensioni in Tunisia ed Egitto e l’instabilità in Kuwait, Bahrein, Libano, Giordania e Algeria, senza dimenticare l’Iraq, sono stati un’introduzione a questo progetto, o una sua fase avanzata.
Dall’altra parte, oggi ci troviamo di fronte al progetto iraniano del “Medio Oriente islamico”. Per metterlo in atto, l’Iran sostiene i gruppi sciiti in tutti i paesi dell’area, ma anche i gruppi fondamentalisti - seppur sunniti - che hanno bisogno di denaro e armi, estendendo in questo modo la rivoluzione islamica iraniana al fine di combattere l’«imperialismo americano», che aveva già percorso questa tortuosa strada in passato, fino a che la situazione non gli sfuggì di mano, diventando un ordigno esplosivo tra le sue mani e fu proprio la “Al-Qaeda” di Bin Laden, che l’America volle fosse una pietra d’inciampo per l’ex Unione Sovietica, a colpirla al cuore nel settembre 2001. Dunque, per il successo di questo o dell’altro progetto, vi devono essere guerre e rivoluzioni, vicissitudini economiche e sociali; c’è bisogno di una road map geopolitica, con la speranza di intravedere la luce alla fine del lungo e tenebroso tunnel in cui siamo entrati e di cui ignoriamo le dimensioni. E così ci conducono dove vogliono, nei luoghi in cui si scontrano, per ritrovarci sempre nel cuore del conflitto, come merce di scambio e benzina per il fuoco. E ci ritroviamo oggi confusi tra America e Iran, Israele e Siria, Arabia Saudita e Qatar,Turchia ed Europa ... in attesa di ciò che verrà! Traduzione a cura di Bernard Selwan Khoury
il meglio del peggio - dice al Los Angeles Times Sameh Joseph, della Chiesa ortodossa di Alessandria - chiunque arrivi dopo di lui potrebbe volere la nostra distruzione». Nessuna tensione, invece, ma solidarietà tra musulmani e cristiani. I leader religiosi hanno voluto dimostrare coesione: alla preghiera del venerdì, riporta il Guardian, il cardinale cattolico è stato visto tenersi la mano con una guida religiosa musulmana in piazza Tahrir. Al-Jazeera riporta che i cristiani di Alessandria d’Egitto, durante la preghiera in piazza, hanno costituito un cordone di sicurezza intorno ai manifestanti musulmani. ll Consiglio europeo ha approvato ieri a Bruxelles una dichiarazione sull’Egitto in cui i capi di Stato e di governo dei Ventisette chiedono l’inizio immediato della transizione.
la crisi egiziana
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Strano ma vero: non esistono biografie di Mubarak (ufficiali o ufficiose, in arabo o altre lingue). È un raìs che ama la privacy
Le ombre del dittatore Pilota di caccia, eroe del Kippur, fedele di Sadat, a 47 anni era già vicepresidente di Maurizio Stefanini on esistono biografie di Hosni Mubarak: né in arabo, né in altre lingue; né autorizzate, né non autorizzate. Questo perché il presidente egiziano ora in bilico detesta parlare della sua vita privata, e anche nelle interviste finisce sempre per scantonare sulle sue politiche e sulla sua immagine ufficiale. Dicono che anche per questo si era arrabbiato quando dall’Italia era saltato fuori lo scandalo della marocchina Ruby Rubacuori segnalata come sue nipote. La stampa egiziana si era allora scatenata, e aveva preannunciato addirittura querele personali per diffamazione da Presidente a Presidente del Consiglio, oltre a note di protesta ufficiali. Ma d’altra parte Mubarak è sempre stato un maestro nel distogliere l’attenzione popolare verso altri obiettivi distinti dal suo governo. Ad esempio, è stato l’uomo del mantenimento della pace con Israele, e lo Stato ebraico è preoccupatissimo per quel che potrebbe accadere in caso di sua caduta. Ma ha sempre consentito che alti esponenti del suo regime si distinguessero per antisemitismo. Un esempio è stato Farouk Hosni: il pittore astratto che è stato ministro della Cultura dal 1987 fino all’ultimo rimpasto, e la cui candidatura alla Segreteria dell’Unesco nel 2009 fu bloccata da una mobilitazione di intellettuali che denunciarono un suo inquietante curriculum che andava dal divieto di proiezioni in Egitto per Schindler’s List e per i film israeliani in genere, al veto per un museo di storia ebraica egiziana al Cairo, all’approvazione per la tradu-
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zione in arabo del Mein Kampf e dei Protocolli dei Savi di Sion, al tentativo di far espellere il Nobel per la Letteratura Naguib Mahfouz dall’Unione degli scrittori egiziani per aver pubblicato in Israele, al bando per i libri israeliani con relativa minaccia di bruciarli lui stesso, alla proclamazione che gli egiziani «succhiano l’odio per Israele assieme al latte materno».
Un altro è Zahi Hawass: l’appena nominato ministro delle Antichità, che sarebbe poi l’archeologo direttore del Museo Egizio del Cairo appena saccheggiato, e famosissimo per la sua onnipresenza in tv, spesso con cappello alla Indiana Jones, e comprese le trasmissioni meno scientifiche stile Voyager. In realtà si tratta di una specie di tangente: a chi non manda in onda anche lui, non dà il permesso di non fare nessun filma-
stesso motivo, i Fratelli Musulmani in tutti questi anni hanno continuato a mobilitarsi appunto contro Israele o le guerre in Iraq o per la Sharia, senza mai contestare direttamente il regime fino a questi ultimissimi giorni. Dunque, è possibile che anche la pretesa ira per Ruby fosse una ben studiata finta. Un dubbio di molti, d’altra parte, è che tutta questa riservatezza non sia dovuta a soverchio amore per la privacy, ma semplicemente al fatto che nella sua biografia non c’è assolutamente niente da segnalare. Nato il 4 maggio del 1928 Kafr-El-Meselha, in una regione un po’più al Nord del Cairo di cui era originario anche il suo predecessore Sadat, suo pa-
Uomo del mantenimento della pace con Israele, ha consentito ai suoi uomini di distinguersi per antisemitismo. Come Zawi Hawass, che dice: «Gli ebrei uccidono donne e bambini per diletto» to o trasmissione. E pure Hawass, ad esempio, nel 2009 ha detto che «gli ebrei hanno nel sangue l’uccidere donne, bambini e vecchi», nel 2010 ha aggiunto che «esiste una cospirazione ebraica mondiale», e ancora nel 2010 aveva posto il veto alla cerimonia di riapertura della Sinagoga Maimonide del Cairo, parlando di «offesa ai sentimenti di milioni di musulmani» (ufficialmente, perché si sarebbe bevuto vino). Per lo
dre era un alto funzionario, ispettore del ministero delle Finanze e in possesso anche di un appezzamento di terreno. Va detto che la gente di Kafr-ElMeselha ha fama di studiosa, e benché il villaggio sia piccolo ha dato all’Egitto ben quattro ministri. E a differenza che per l’irachena Tikrit ai tempi di Saddam, sembra che non dipenda da favoritismi di potere. Comunque fu una buona pagella a spalancare al giovane l’Accademia Mi-
litare Egiziana, dove il 2 febbraio del 1949 ottenne il suo diploma in Scienze Militari. A quel punto passò all’Accademia dell’Aeronautica, dove il 13 marzo 1950 ottenne il brevetto di ufficiale pilota, e il diploma in Scienze dell’Aviazione.
Un curriculum completato al tempo record di due anni, perché aveva preferito rimanere a studiare piuttosto che prendersi le vacanze. Istruttore e pilota da caccia di Spitfire, Mubarak è uno specialista che non perde tempo con la politica, e non fa dunque parte del movimento dei Liberi Ufficiali nasseriani che nel 1952 abbatte il regime di re Farouk. In compenso, proprio per la sua competenza dal febbraio del 1959 al giugno del 1961 è inviato a frequentare ulteriori corsi presso i nuovi alleati sovietici: prima a Mosca; poi a Kant, presso Bishkek, Kirghizistan. E lì oltre impara anche a guidare i bombardieri Ilyushin Il-28 e Tupolev Tu-16. Forse perché deve stare lontano dall’Egitto, è questa anche l’epoca in cui nel 1960 decide di sposare la allora 19enne Suzanne Mubarak, il cui no-
me occidentale si deve a una madre gallese: un’infermiera che aveva sposato un egiziano studente in pediatria all’Università di Cardiff. La First Lady ha anche un fratello generale che fece parte della nazionale olimpica egiziana di tiro a segno, e che è stato poi a lungo presidente del Comitato Olimpico Egiziano. Suzanne dopo il matrimonio ha frequentato l’Università Americana del Cairo, dove ha conseguito una laurea in Scienze Politiche e un Master in Sociologia dell’Educazione. Presidentessa onoraria del Rotary egiziano, è anche stata promotrice della versione egiziana della popolare trasmissione tv dei Muppetts. Questo, però, anni dopo, Nel frattempo, Hosni segue nel 1964 un terzo corso in Unione Sovietica, presso l’Accademia Militare Frunze. A queste frequentazioni sovietiche e parentele anglo-sassoni si deve se oltre che in arabo è perfettamente fluente anche in inglese e in russo. Di ritorno in Egitto, riprende la sua carriera. Con la sua nuova competenza in bombardieri, dirige le operazioni aeree con cui nello Yemen l’Egitto di Nasser
la crisi egiziana internazionali. E i documenti declassificati del Dipartimento di Stato rivelano che già nel giugno 1975 Mubarak era indicato dall’ambasciata Usa al Cairo come «uomo di fiducia di Sadat». Il 6 ottobre del 1981, quando Sadat è assassinato da militari ostili alla pace con Israele, la successione non è però automatica. Per otto giorni, anzi, capo dello Stato diventa i Presidente del Parlamento Sufi Abu Taleb.
ne Civile a Primo Ministro, è stato a sua volta comandante dell’aviazione militare, al vertice di una carriera in cui appunto nella guerra del 1973 agli ordini di Mubarak era stato a sua volta un eroe, come pilota da caccia che aveva abbattuto due aerei israeliani. Mentre Omar Suleiman, diventato vicepresidente dopo essere stato per otto anni capo dei servizi segreti, si è formato a sua volta all’Accademia Militare Frunze di Mosca. Ma c’è tutta una leva di comandati della Guerra del Kippur oggi attorno ai 70-80 anni, che secondo alcuni analisti continuano a stringersi attorno a Mubarak, contrappocerca di sostenere il regime repubblicano contro la rivota delle tribù di montagna sostenitrici della deposta dinastia sciita, anche al costo di usare i gas. Nell’ottobre del 1966 diventa poi comandante della Base Aerea di Cairo Ovest, e poco dopo passa a quella di Bany Swaif. Anche lui nel giugno del 1967 si vede distruggere gli aerei al suolo dal blitz preventivo israeliano all’inizio della Guerra dei Sei Giorni, ma la responsabilità è affibbiata ai suoi superiori, e la loro rimozione è anzi per lui un’occasione di scatto di carriera. Il 7 novembre del 1967, infatti, diventa comandante dell’Accademia Aeronautica; nel 1969 capo di Stato maggiore dell’Aeronautica; e nel 1972 Maresciallo dell’Aria e viceministro della Difesa. Insomma, è lui il comandante delle forze aeree egiziane quando tra 6 e 24 ottobre del 1973 si combatte la Guerra del Kippur. Tecnicamente fu una nuova vittoria israeliana: dopo l’iniziale successo egiziano nell’attraversare il Canale gli israeliani partirono in contropiede sbarcando a loro volta sull’altra sponda, accerchiando la Terza Armata nemica
e spingendosi fino a 101 Km dal Cairo, prima di essere fermati dalle pressioni di Washington. Nella prima fase del conflitto un successo egiziano c’era però stato, e tale da consentire a Sadat il recupero d’immagine che gli avrebbe consentito di lì a poco di arrivare alla spettacolare pace con lo Stato ebraico, col recupero del Sinai e la riapertura dell’importantissima fonte di valuta del Canale di Suez.
Nel complesso l’aereonautica si era comportata molto meglio che non in occasione della totale distruzione al suolo del 1967, e ciò proprio grazie ai complessi sistemi di difesa missilistica antiaerea di provenienza sovietica approntati da Mubarak. E se il bilancio finale fu comunque di 200 aerei israeliani distrutti contro 432 aerei arabi, il tutto va comunque raffrontato al 1967, quanto il rapporto negativo era stato il doppio: 197 contro 812. Mubarak fu dunque uno degli eroi del conflitto, o comunque fu utile al regime di Sadat farne un eroe. Da notare che Ahmed Shafiq, l’uomo che ora è stato promosso da ministro dell’Aviazio-
Ma poi gli alti gradi militari si accordano attorno alla successione del loro collega: secondo alcuni, perché il suo scarso carisma, al di là dell’immagine di eroe e competente, accontenta tutti, evitando pericolosi bracci di ferro tra altri pretendenti. Se così è davvero, come spesso accade proprio l’apparente debolezza si è poi trasformata nella forza che ha permesso a Mubarak di restare al potere per una durata record. Il 13 ottobre si tiene dunque un referendum, e il 14 ottobre si insedia. La legge egiziana sostituisce le presidenziali con un semplice referendum se i due terzi dei parlamentari votano per un candidato, e il Partito Nazionale Democratico al pote-
Per gran parte del suo lunghissimo regno, il pluralismo fasullo del Paese è stato comunque meno pesante dell’autoritarismo dichiarato del resto del mondo arabo. Lo contestavano solo gli islamisti nendosi a una leva di ufficiali più giovani più ben disposti verso la protesta. Comunque, grazie agli allori del Kippur nel 1973 Mubarak è nominato Maresciallo dell’Aria in Capo. E nell’aprile del 1975 diventa Vicepresidente della Repubblica. Alcuni ritengono che sia stata proprio la sua fama di tecnico scrupoloso e alieno dagli intrighi politici ad dargli dare un incarico che in mano a qualcun altro potrebbe far nascere ambizioni pericolose. Qualcun altro sospetta che l’essere conterraneo di Sadat possa aver dato una mano ulteriore. Comunque è lui che nel settembre del 1975 è mandato in missione a Riad e Damasco, per convincere i governi siriano e saudita a imbarcarsi anche loro nel processo di pace con Israele. Va detto, senza successo. Per le sue competenze linguistiche Mubarak inizia comunque a essere mandato in giro, in vari meeting
re con Mubarak non scende mai sotto i 318 seggi su 454: nel 2010, quando i deputati sono stati aumentati a 518, ne ha avuti 420. Con referendum Mubarak si fa quindi rieleggere nel 1987: 97,1% di voti favorevoli. E nel 1993: 96,3. E nel 1999: 93,8. Solo nel 2005, con le pressioni che arrivano dagli Stati Uniti impegnati nella campagna per l’esportazione della democrazia, Mubarak accetta per la prima volta di correre contro due avversari. Ayman Nour, del partito liberale nuovo al-Ghad, parrecipa al suffragio che sta già in carcere, e prende il 7,3%; Numan Gomaa, del partito liberale storico Wafd, ha il 2,8%; e Mubarak, l’88,6. Lo stato d’emergenza proclamato dopo l’omicidio di Sadat non è stato mai revocato, ben 20mila integralisti islamici sono stati arrestati a partire dal 1999, e d’altronde Mubarak scampa a ben sei tentativi di omicidio. In parti-
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colare, nel 1995 fu l’insistenza di Suleiman per far blindare una limousine a salvarlo da un attentato approntato al vertice dell’Organizzazione dell’nità Africana in Etiopia. E nel 1999 sarà ferito da una coltellata. Per gran parte del lunghissimo “regno” di Mubarak, però, il pluralismo fasullo dell’Egitto è comunque meno pesante dell’autoritarismo dichiarato del resto del mondo arabo, a contestare il regime sono soprattutto integralisti fanatici spesso responsabili di atti di terrorismo sanguinosi, e il presidente ottiene comunque buoni risultati sia in campo internazionale che economico. Per tutto questo periodo, gli oltre 2 miliardi di dollari di aiuto Usa che arrivano ogni anno sono una fonte di valuta inferiore solo a idrocarburi, rimesse degli emigranti e turismo ma pari al Canale di Suez, e gli Usa forniscono inoltre metà del fabbisogno di cereali egiziano. Nel 1989 Mubarak riesce a far riammettere l’Egitto alla Lega Araba, da dove era stato sospeso all’epoca della pace con Israele: anzi, la sede dell’organizzazione torna al Cairo.
Nel 1991 la partecipazione dell’esercito egiziano alla guerra per la liberazione del Kuwait è pagata con sussidi e condoni di debito che l’Economist calcola in mezzo milione di dollari a soldato. L’apertura economica, il boom del turismo, la scoperta di nuove riserve di petrolio e gas, il boom della New Economy con la Orascom di Sawiris propizia un boom economico con una crescita a ritmi del 5% all’anno, e tra 2007 e 2008 anche del 78%. Ma nel 2003 l’attacco all’Iraq lo vede esautorato: né decisivo nell’azione, né in grado di impedirla, né in condizioni di fronteggiare il contraccolpo del“contagio democratico”senza la figuraccia dell’arresto di Ayman Nour. D’altra parte, se le liberalizzazione hanno promosso una crescita del Pil e la formazione di un forte ceto medio, la distribuzione della ricchezza è pessima, e i giovani sempre più occidentalizzanti guardano sempre più come un rudere lui, la corruzione del suo entourage, la prospettiva di una successione dinastica col secondogenito Gamal che peraltro essendo un banchiere non è gradito neanche troppo dai militari.Tutti i nodi che ora sono venuti al pettine. Da sinistra Mubarak con: Sadat, Gheddafi, George Bush, Arafat e Rabin, e il presidente Barack Obama. Nel riquadro in alto a destra la moglie Suzanne. Nella pagina a fianco il figlio Gamal, che avrebbe dovuto succedergli al potere al Cairo
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il personaggio della settimana La A.S. Roma sta per passare di mano: esce di scena una dinastia molto controversa
La pace dei Sensi Ha ereditato dal padre una società piena di debiti, eppure Rosella è riuscita non solo a gestire la transizione ma anche a pilotare la vendita e tenere la squadra in equilibrio. Insomma, ha fatto quello che molti ormai considerano un vero miracolo di Francesco Lo Dico utto era già accaduto nel 2007, ma in quella giornata di marzo che le cronache raccontarono mondane soltanto come una cerimonia, i colori della metafora annegarono in un tripudio di petali giallorossi. Il giorno del suo matrimonio, Rosella arrivò prima degli invitati. E prima di lei il suo velo lunghissimo, ad annunciare un abito color avorio e uno sguardo un po’ smarrito. Al suo fianco c’è Franco, il vecchio patriarca. Ormai non cammina quasi più, e il fisioterapista personale ne accompagna le gambe con gli occhi. Non sono troppi passi, dal sagrato all’altare della piccola cappella di Santo Stefano degli Abissini. In fondo, tra le ali degli invitati, c’è lo Marco sposo, Staffoli. Ma Franco Sensi è fatto così: con la figlia, con la Roma, con la malattia. Fino all’ultimo non molla.
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Fu il giorno del matrimonio che si consumò la staffetta tra padre e figlia. Sapeva già tutto quello che sarebbe accaduto, il vecchio patron: Rosella al timone, il mare di debiti, le scialuppe impossibili. Sarebbe stato un viaggio lungo e pieno di manrovesci. Sapeva anche che Rosella avrebbe portato la barca in porto. E così, poco do-
po una festa memorabile, Franco Sensi morì.Veltroni, invitato anche lui, pensò bene di chiudere al traffico la Stazione Vaticana per facilitare le cose agli invitati. Lotito, unico laziale invitato, arrivò tardi e tenne un intervento fiume sulle sue abilità manageriali. Cosa che non fece rimpiangere a nessuno di non averne invitati di più. Un gruppo di buontemponi salutò l’evento familiare con uno speciale biglietto d’auguri: “Manchester-Roma 7-1”.
Più tardi, nella storica magione di famiglia Villa Pacelli, c’erano proprio tutti. La rosa della Roma al completo, Rosella che danza tra i funambolici passi di samba di Taddei e Mancini, Rosella che intona “Grazie Roma” davanti a preparatori e magazzinieri emozionati. C’è il pupone, naturalmente. È «il fratello che non ha mai avuto», e suo padre lo considera un figlio. Ma quella sera, Francesco Totti non è in vena di amarcord familiari. «Come ha visto la sposa?», gli chiedono i giornalisti. E lui, commosso: «Gialla e nera». C’è anche mister Spalletti ma anche lui non sembra troppo ispirato. «Gli sposi? Hanno evidenziato possibilità e prospettive importanti», commenta a caldo. Quello che si potrebbe dire di due panchinari che esordiscono in Coppa Italia. Ma passata l’ebbrezza, per Rosella arriva il momento di rimboccarsi le maniche. L’era di Franco è stata vincente, ostinata, e segnata da un amore debordante, di quelli che conducono all’autodistruzione. Sotto la sua presidenza, la Roma ha vinto lo scudetto del 2000-2001, due Supercoppe italiane (2001 e 2007), due Coppe Italia di fila (2007 e 2008), e poi ci sono anche cinque secondi posti. In verità sono anche trionfi di Rosella, che già dal 2004 è diventata il braccio destro del patron. Ha dovuto guidare la Roma nel complesso piano di risanamento, costato una buona fetta del patrimonio personale della famiglia. Ha cercato di fare l’acrobata, tra la necessità di vendere pezzi importanti della squadra come Samuel, Emerson e Zebina e insegue con tenacia l’im-
possibile traguardo dell’autofinanziamento. Dire che la Roma è una questione di famiglia, non è retorica in casa Sensi. Forse, partita l’operazione di risanamento, Franco e Rosella lo intuiscono già nel 2004. Salvezza della famiglia e salvezza della Roma non possono coincidere. E padre e figlia, anche questa volta, scelgono la Roma. Per evitare il fallimento devono essere venduti i gioielli di casa: i terreni edificabili di Torrevecchia, i depositi petroliferi di Civitavecchia e parte della stessa società sportiva. Il 49 per cento di Italpetroli, la holding dei Sensi, finisce nella mani di Capitalia, oggi Banca di Roma-Unicredit. Ogni tre mesi, le banche verificano lo stato delle finanze giallorosse. L’Italpetroli deve 343 milioni di euro a Unicredit, pronta a prendere il controllo della squadra in caso di insolvibilità.
Rosella ce l’ha messa tutta in questi sei anni. Prima come amministratore delegato, e poi come presidente. Pro tempore, aggiungevano gli scettici. Ma adesso che lascia sono evidenti due cose: miss Sensi ha dimezzato il debito, non ha venduto al primo che passava (e ne sono passati tanti, da Roma, di improbabili cammellieri), e ha tenuto la squadra nelle prime posizioni del campionato, nonostante tutto. Non le è bastato a tenersi la Roma, ma è abbastanza perché la Roma, in procinto di passare oggi nelle mani dell’italoamericano Thomas DiBenedetto sia rimasta ancora oggi più che appetibile sul mercato. È sempre stata riservata miss Rosella, spesso cocciuta, ma mai disposta a farsi mettere i piedi in testa. E su questo versante, Francesco Totti si è preso la sua rivincita con una frase lapidaria che descrive l’avventura della sorellastra con tacitiana compiutezza: «Sa che cosa vuole e sa essere dura. Il mondo del calcio è un ambiente pieno di marpioni che te se magnano». Signora tra i marpioni, Rosella si è distinta per una gestione fieramente in rosa: Cristina Mazzoleni responsabile economica, Elena Turra capo ufficio stampa, Filippa Costa psicologa,
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Angela Nanni Fioravanti - zia di Rosella - responsabile di Trigoria e Maria Nanni Sensi moglie e primo consigliere del presidente. Una città delle donne, nel cuore di Trigoria. Nell’imperante maschilismo del calcio, un’autentica Eldorado. Laureata alla Luiss, le competenze non le sono mai mancate. Come la passione, instillata dal padre Franco fin da quando era una ragazzina. Il suo primo ricordo è il famoso gol annullato a Turone nella partita Juventus-Roma del maggio 1981. La sua pri-
Franco Sensi festeggia la Coppa Italia in compagnia della squadra. Attorno a lui Panucci, Totti, e la figlia Rosella
compro la Roma, Rosella aveva ventidue anni. Ma lo ricorda come fosse accaduto ieri: «Papà tornò a casa e disse “ho comprato una cosa. Che ne dite?”». Seguì una votazione familiare. Fu sfavorevole ma lui se ne infischiò. «Da quel momento – osserva Rosella – la vita venne stravolta». Il vecchio petrolie-
La Sensi lascia dopo aver dimezzato il debito. Non le è bastato a tenersi la Roma, ma è abbastanza perché la squadra abbia un futuro ma volta allo stadio la Roma ne fece cinque al Perugia, e il suo primo simbolo fu un altro grande rimpianto come Agostino Di Bartolomei.
Ma è a tavola, che Rosella impara a masticare il pane con la Roma. «La domenica sera – racconta – a casa non si mangiava se la Roma aveva perso, e non si usciva. Fino al lunedì si stava in lutto e dal martedì mattina si pensava alla partita successiva. In caso di vittoria, invece, grande cene e festeggiamenti con lui, e il lunedì si poteva chiedere qualcosa». Quando Franco Sensi
re vedeva la Roma come un fatto meritocratico. «Lo schieramento in tribuna era: papà, mamma, zia Angela e zio e poi noi figlie, in base ai risultati scolastici», spiega. «Se prendevi un brutto voto, infatti, restavi a casa, allo stadio poteva andare solo chi se lo meritava, e noi volevamo andare sempre». Negli anni alla guida della squadra, la signora Staffoli ne ha viste parecchie. A partire da quel 2006, che vede Alessandro Moggi scalzare Zdenek Zeman dalla lista dei papabili per la panchina della squadra. Moggi riferisce a Fabio Capello, l’allenatore dello scudetto, di aver
convinto Rosella «a non tesserare l’allenatore Zeman», una vecchia passione di Sensi padre, e i due «si mostrano ovviamente soddisfatti essendo questo allenatore accanito nemico dell’organizzazione e quindi un grosso ostacolo ai loro fini».
La scelta cade quindi su Spalletti, che in pochi mesi mette su una squadra dal modulo insolito, senza attaccanti, ma capace di segnare gol a raffica. A svariare come falsa punta c’è Francesco Totti, che raggiunge forse l’apice della carriera. Ma a fare le fortune della squadra ci sono anche le incursioni di Perrotta, la precisione di Pizarro e le sempre più convincenti prestazioni di Philippe Mexes. In parallelo, cresce il prestigio di Rosella negli ambienti smaliziati del pallone. Dopo anni di isolamento, legati al vulcanico carattere di Franco Sensi esploso nella tempesta di Calciopoli, la Roma risale le posizioni e ricuce con i poteri forti detenuti da Galliani e Moratti. . «Quando ho cominciato ero per tutti ’la figlia di Franco’, in Lega mi guardavano male, poi però si sono abituati al mio essere donna, con il tempo». A tal punto che Rosella raggiunge la vicepresidenza della Lega. Non è tutto rose e fiori, naturalmente, ma il bel calcio espresso dalla Roma sul rettangolo di gioco allontana gli spettri del fallimento, e condensa le simpatie attorno alla squadra e alla sua reggente. Un primo serio manrovescio arriva però nella disgraziata notte del 9 aprile del 2007. I Red Devils di Ferguson travolgono i giallorossi con sette reti. Nel Teatro dei Sogni, il Manchester festeggia una prestazione incredibile. E per la Roma, è come vedere i fantasmi. Simpatici battutisti annunciano che la società ha trovato il suo film preferito: Seven, e che da quel giorno le partite dei giallorossi saranno trasmesse solo su La7. È dopo quella sciagurata partita, che si fanno sentire gli scricchiolii. Il giocattolo si è rotto, e bisogna cercare di riparararlo. I volenterosi non sembrano mancare. A maggio 2008 Rosella
Breve storia della società L’Associazione Sportiva Roma, abbreviata in A.S. Roma o più semplicemente Roma, è una società calcistica di Roma. Fu fondata il 22 luglio 1927. Tra le squadre italiane, è insieme ad altre due, una delle tre società italiane di calcio quotate in Borsa da diverso tempo. In 83 anni di storia ha sempre partecipato, tranne che in una sola occasione (nel 1951-52), ai campionati di Serie A, vincendo 3 scudetti, 9 Coppe Italia (primato di vittorie nella competizione, condiviso con la Juventus) e 2 Supercoppe italiane. Ha terminato il campionato per undici volte al secondo posto e cinque volte al terzo; in 78 campionati di Serie A disputati dei 79 totali, la Roma è arrivata sul podio nel 24,7% delle occasioni. Dopo l’Inter, che è stata presente in tutte le edizioni, è, insieme alla Juventus, la squadra che ha partecipato a più campionati di serie A: 78 volte su 79. In ambito europeo il migliore risultato ottenuto è stata la vittoria della Coppa delle Fiere nel 1961. Il simbolo della squadra è la Lupa capitolina, emblema della città di Roma; la divisa, che prende i colori dal gonfalone cittadino, è rosso scura tendente al porpora (rosso pompeiano) bordata di gialloarancio (giallo oro o ocra).
riceve il fantomatico Joe Tacopina, che vuole acquisire la società per conto di George Soros. «Joe è molto eccitato, per lui è un sogno che diventa realtà», scrive Il Post. Così eccitato che fa cilecca. In aprile, la società è costretta a fare i conti con la propria condizione di società quotata in borsa. La Consob ha inserito la Roma nella famigerata blacklist che include le società finanziariamente malconce e le costringe a una gestione particolarmente trasparente, oltrechè a uscire allo scoperto. Risultato: per il momento la Roma non si vende. Non al primo Tacopina che passa. Rosella difende la società: «La procura indaga sull’oscillazione del titolo in Borsa? Questo non dipende assolutamente dalla società. Una società seria, che potrebbe essere presa ad esempio».
Il lungo addio alla Roma, procede però inesorabile, quando l’allenatore simbolo del post Franco, lascia la squadra. Nel settembre del 2009, Luciano Spalletti lascia dopo aver portato a Roma due Coppe Italia, una Supercoppa italiana, tre secondi posti in campionato, due quarti di finale e un ottavo di finale in Champions League, e mesi e mesi di grande calcio. Ma il 2009 regala a Rosella anche un’enorme gioia. A marzo nasce Livia e lei dice che è come la Roma: «Anche lei non mi fa dormire la notte». Il resto è storia recente. L’era Ranieri, le voci, le radio all’assalto della dirigenza, le contestazioni. Dopo un’overdose di bombe-carta, di spranghe e trionfi, di successi e conferenze stampa, di Tevere deserta e Tevere stracolma, Rosella lascia. La Roma le mancherà come nient’altro. Ma temprata da mille battaglie, da mille sogni e mille capogiri, miss Rosella lo sa bene: «Domani è un altro giorno».
ULTIMAPAGINA Dodici puntate sulla “Die Zeit” per dipingere il Belpaese e i suoi costumi
Così Saviano racconta ai tedeschi un Paese chiamato di Ubaldo Villani-Lubelli
egli ultimi anni ci hanno provato in molti a spiegare l’Italia ai tedeschi. I casi più celebri sono stati quelli di Giuliano Ferrara che in piena bufera per il caso Noemi Letizia e dopo il successo elettorale del Popolo della Libertà alle elezioni europee, dalle pagine del Die Welt, giornale conservatore (ma sempre critico nei confronti del Presidente del Consiglio italiano) cercò di chiarire il successo di Silvio Berlusconi. Ferrara, con la solita abilità e lucidità di analisi, sosteneva che l’Italia è «politicamente e letterariamente dominata dall’imperatore dell’immaginazione e della politica». Berlusconi aveva, infatti, imparato molto bene e molto presto il mestiere della politica, tanto da essere stato, negli
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ultimi sedici anni, sia leader di governo che di opposizione. Ferrara concludeva citando Nietzsche: «Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti». L’altro tentativo, di tutt’altro tenore, fu fatto, qualche giorno dopo, da Gian Enrico Rusconi, raffinato intellettuale ed esperto di politica e cultura tedesca. Dalle pagine della Süddeutsche Zeitung (giornale progressista) interpretava il fenomeno Berlusconi come espressione dell’attuale società civile italiana o, forse, del disorientamento della stessa. Berlusconi come simbolo e risposta alla crisi del sistema politico italiano.
Un anno e mezzo dopo è il turno di Roberto Saviano, scrittore molto amato in Germania. In ben dodici puntate Saviano ha iniziato a descrivere l’Italia sulla Die Zeit, l’autorevole settimanale di ispirazione liberal-progressista. Roberto Saviano proverà a rendere comprensibili ai tedeschi una serie di dinamiche politiche, sociali e culturali di un paese, che, nono-
stante tutto, viene ancora stimato, ma che resta politicamente incomprensibile all’estero. Il direttore della Zeit è tra l’altro un italo-tedesco, popolarissimo in Germania e grande estimatore di Saviano, tanto da affermare in un talkshow televisivo che l’Italia dovrebbe vergognarsi che uno scrittore sia costretto ad andare in giro con una scorta.
Il primo articolo è uscito giovedì scorso e non è più solo Silvio Berlusconi l’oggetto dell’analisi, ma l’intero paese. Perché non è solo la questione dei numerosi scandali sessuali del Presidente del Consiglio, ma è soprattutto la forza seduzione che ha su gran parte degli italiani che si riconoscono nel suo stile di vita e nelle sue contraddizioni e nella sua immoralità. In qualsiasi altro paese dell’Occidente, anche solo una minima parte dei reati di cui è accusato, avrebbero portato alle immediate dimissioni in attesa di un giudizio. In Italia questo non è, mai, avvenuto. Come sottolinea del resto Roberto Saviano, Berlusconi non è, però, stato l’unico. Anche altri esponenti, tra l’altro anche del centro-sinistra, sono stati accusati di condurre uno stile di vita immorale. La differenza, però, sta però nel fatto che – aggiungiamo noi – si sono dimessi. La figura di Berlusconi sembra essere dunque al di sopra di qualsiasi possibilità di condanna morale e penale. Roberto Saviano spiega, poi, che il successo di Silvio Berlusconi è da imputare anche ad una sinistra italiana che negli ultimi quindici anni non è mai riuscita ad interpretare le esigenze dell’elettorato e che non ha mai parlato alla pancia degli italiani, come, al contrario, ha fatto il leader del centro-destra. Berlusconi, inoltre, incarna il prototipo dell’italiano di successo. Un imprenditore miliardario che, nonostante l’età ed i noti problemi di salute, riesce a “godersi”la vita. Berlusconi rappresenta il sogno dell’italiano medio, il sogno di ricchezza e di sesso. Tra l’altro, come ricorda lo scrittore campano, il problema di Berlusconi è che molte delle donne del suo “harem”sono diventate ministre, parlamentari e consiglieri regionali. Ma Roberto Saviano va anche oltre e descrive molto bene il degrado morale di gran parte della po-
polazione che resta convinta che l’onestà, in un paese come l’Italia, non paghi mai. La strada del successo è quella dell’egoismo, della disonestà e della fedeltà al padrone di turno. Il rispetto del diritto e della legge sono spesso percepiti come qualcosa di negativo. In alcune parti d’Italia, rispettare le leggi ed il diritto è un inutile sacrificio. L’Italia descritta da Saviano non è bella, tutt’altro. E forse ne esce un quadro un po’ troppo fosco, ma ciò che più inquieta è la citazione finale da La pelle di Curzio Malaparte: quando viaggio a Berlino, Parigi,
ITALIA
L’operazione non è una novità: già Ferrara e Rusconi sono intervenuti sulla stampa germanica per tentare di spiegare politica e società nazionale. Ma all’autore di Gomorra hanno dato 12 puntate Madrid o Londra, ritrovo sempre Napoli. Per Saviano, da una parte c’è la speranza in un paese migliore, dall’altra la tragedia italiana non è dramma solo italiano, non è una simpatica e ridicola eccezione.
L’Italia è un laboratorio di ciò che potrà avvenire anche altrove. Nonostante i recenti scandali del Cavaliere abbiano trovato un discreto spazio su gran parte dei giornali tedeschi, al momento non ci sono reazioni all’articolo dello scrittore italiano, ma è facile immaginare che arriveranno presto. L’appuntamento, intanto, è alla prossima settimana con il secondo articolo di Roberto Saviano.