he di cronac
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Se ti opponi alle sensazioni, non
avrai alcun metro di giudizio per distinguere quelle vere dalle false Epicuro
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 22 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
In Commissione europea, il governo italiano è l’unico a parlare contro una presa di posizione comune
La storia licenzia un altro raìs A Tripoli il Parlamento brucia e i jet sparano sui manifestanti Gheddafi sembra sparito nel nulla, mentre in famiglia si aprono le faide per la successione. Nel Paese il caos è totale e l’Onu chiede al Colonnello di fermarsi prima che sia troppo tardi SINTONIE STONATE
L’incognita Iran e lobby religiose
Berlusconi (e Frattini): il partito gheddafista italiano
Rivolte laiche? Sì, ma a forte rischio islamico
di Riccardo Paradisi
di Mario Arpino
onsiderando quanto sta avvenendo in Libia in queste ore è assai probabile che il quarantennale regime di Muahammar Gheddafi volga verso il tramonto. Sicchè potrebbe essere l’occasione – ora che le ragioni della realpolitik rischiano di perdere la loro pregnanza – per riavvolgere la pellicola del lungo, tormentato e sempre opaco rapporto che ha legato l’Italia, la Libia e quelle altre forze europee e internazionali che hanno concepito sempre il mediterraneo come il crocevia d’interessi geopolitici. Potrebbe essere il momento opportuno perché proseguire come se niente fosse, come se l’Africa del nord non fosse sotto la spinta a domino di rivolte a catena rischia di rovesciare di segno la stessa prospettiva realista con fui fino ad oggi ha agito l’Italia nei confronti di Tripoli. Perché non è più nemmeno realista tentare di puntellare quanto sta inevitabilmente crollando. a pagina 5
Si è detto che l’onda di piena che sta attraversando il nord Africa, sfociando poi in altri Paesi islamici, ha almeno una caratteristica in comune tra tutti: è la diversità. a pagina 3
C
Bruxelles usa solo frasi di circostanza
Tutte le ipotesi dopo il crollo del regime
Cinque scenari per il post Avanzano le teorie più disparate: dividere il Paese in emirati, dare il potere a Saif, scegliere i militari. Oppure puntare su un protettorato islamico. La democrazia langue... Osvaldo Baldacci • pagina 4
Ma l’Europa partorisce un altro topolino di Enrico Singer Se di fronte alla cacciata di Ben Ali da Tunisi è stata assente, se nei 18 giorni che hanno segnato la fine di Mubarak in Egitto ha balbettato, la Ue sulla Libia è spaccata. segue a pagina 2
La sconfitta della Merkel non si ripercuote sul Paese: parla Bolaffi
Amburgo non vale Berlino «La disfatta elettorale è solo un fenomeno locale» di Franco Insardà
In Germania i conti iniziano a non quadrare
La locomotiva tedesca rallenta
ome quasi tutti gli analisti Angelo Bolaffi, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino e profondo conoscitore del mondo tedesco, non si aspettava una sconfitta così ampia per la Cdu. Anche se sottolinea: «Certamente si prevedeva che l’Spd, dopo la crisi del governo Cdu-Verdi, sarebbe stato il primo partito. La sorpresa sta nell’aver ottenuto la maggioranza assoluta». a pagina 10
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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
di Francesco Pacifico
Niccolò Ghedini, premier ad interim
ROMA. La buona notizia è che quest’an-
ROMA. Troppo complicato. Ci rinunciano i parla-
no il deficit/Pil scenderà al 2 per cento. La cattiva è che la crescita non supererà il 2,3 nel 2011 e l’1,8 nel 2012. E in queste due percentuali c’è tutta la dicotomia di una Germania inflessibile custode del rigore e motore (diesel) dell’Europa.
mentari del Pdl esperti in materia, i componenti cioè di quella consulta Giustizia interna al partito comunque presieduta da Niccolò Ghedini. Ci rinuncia anche il guardasigilli Alfano. Le riforme in materia di processi, Csm, intercettazioni e annessi non passano per il Coniglio dei ministri.
a pagina 11 I QUADERNI)
L’incontro sulla giustizia lo guida l’avvocato
• ANNO XVI •
NUMERO
36 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Errico Novi • pagina 6 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 22 febbraio 2011
prima pagina
il fatto Mistero sulle scelte dell’esercito, che dice di capire la protesta ma poi spara sulla folla. Gli ulema: «Appoggiamo il popolo»
Il Colonnello dimezzato
Gheddafi e la sua famiglia sono spariti, mentre si cerca di ristabilire l’ordine nelle maggiori città del Paese. Ieri altre centinaia di morti la polemica di Pierre Chiartano
ROMA. Ancora lampi sul Nord Africa. Parlamento in fiamme e occidentali in fuga dalla Libia. Piazza affari va giù, mentre la tragica conta dei morti sale. Aerei dell’aeronautica militare hanno fatto fuoco sui civili e Bengasi potrebbe diventare un emirato. Nel settimo giorno di rivolta regna il caos e si parla di massacro. La protesta ha infiammato Tripoli aumentando la pressione su Muammar Gheddafi la cui sorte è un giallo. Il ministro della giustizia, Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, ha rassegnato le dimissioni. Mentre in Europa si temono ondate migratoria fuori controllo, l’Italia è in ansia per il principale partner economico del sud Mediterraneo. Ma dal governo di Roma stentano ad arrivate parole di condanna per la repressione, tanto che sono scesi in piazza gli oppositori libici in Italia. Anche se in serata è poi arrivata un’apertura del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Il colonnello era salito al potere oltre quarant’anni grazie a un colpo di Stato favorito dai servizi segreti italiani, con la benedizione di Washington, per limare le unghie a francesi, a inglesi e alle loro ambizioni postcoloniali. Ieri, sono corse voci su un eventuale colpo di Stato a opera dei militari, secondo il canale arabo al Jazeera. Mentre è sempre più difficile l’accesso a internet.
Il potere di Gheddafi per anni si era basato sulla rete d’interessi che legava i capi tribù al governo. Oggi sono proprio i leader dei clan del deserto a volere la testa di Muammar. Le notizie non mancano, ma spesso non sono attendibili. Infatti il regime ha sigillato il Paese e i giornalisti non possono più accedervi. Sono i medici degli ospedali, contattati telefonicamente, che danno i numeri della tragica contabilità delle vittime, oppure esponenti delle aziende occidentali. Ma è difficile verificare i dati. Sono comunque centinaia le vittime e non solo in Cirenaica, ma anche nella capitale Tripoli, dove ieri, sono state saccheggiate le sedi di tv e radio di Stato, Giamahiria 2 e Al-Shababia. Sono anche stati dati alle fiamme molti edifici governativi tra cui il Palazzo del Popolo, in cui si riunisce il Parlamento, il ministero dell’Interno e il quartier generale dei Comitati popolari, diretta emanazio-
La Ue usa frasi di circostanza, condanna la repressione e chiede la fine delle violenze
Bruxelles partorisce l’ennesimo (triste) topolino di Enrico Singer segue dalla prima Altro che voce unica per contare nel mondo. I ministri degli Esteri dei Ventisette, riuniti a Bruxelles, hanno offerto uno spettacolo imbarazzante. Si sono rifugiati in dichiarazioni di facciata buone per ogni crisi - con la condanna della violenza, l’invito alla moderazione e l’allarme per la sorte dei propri cittadini - che sono state riassunte in un breve comunicato ufficiale che non ha coperto, tuttavia, le voci dissonanti di chi, come i governi di Berlino e di Parigi, reclamano una scelta di campo netta e di chi, come il nostro governo, spera ancora che il regime di Tripoli - con il colonnello Gheddafi o, magari, con suo figlio Saif riesca in qualche modo a rimanere in sella «per evitare il guaio peggiore di una Libia divisa in due», come ha detto Franco Frattini che ha anche invitato la Ue a «non intervenire» e a «non interferire». Certo, le divergenze di linea tra gli europei si possono anche misurare in milioni di barili di petrolio e di metri cubi di gas importati, in volume di scambi commerciali e in paura di un nuovo, massiccio, esodo di immigrati via mare e non c’è dubbio che, ragionando in questi termini, l’Italia sia il Paese più sensibile al caos sull’altra sponda del Mediteranneo. Ma la storia delle crisi mediorientali ha dimostrato - o, almeno, avrebbe dovuto dimostrare - che soltanto una posizione comune e condivisa dell’Europa può avere un peso e che, al contrario, quando prevalgono gli interessi contrapposti, s’indebolisce la posizione di tutti. Purtroppo, ancora una volta, l’Unione europea si sta rivelando sostanzialmente incapace di avere una politica estera complessiva. In particolare verso Paesi con i quali ha creato ambiziosi progetti, come il «processo di Barcellona» e la più recente «Unione per il Mediterraneo», che hanno inghiottito soldi senza riuscire a promuovere quei processi di riforma politica ed economica che avrebbero potuto fa-
vorire la liberalizzazione dei regimi arabi se non la loro effettiva democratizzazione. Frattini, adesso, si dice molto preoccupato soprattutto per la possibilità che, nella regione di Bengasi, dove l’esercito si è unito ai dimostranti anti-Gheddafi, possa nascere un «emirato arabo islamico», come grida la gente in piazza. D’altronde, La possibilità che in Libia, e non solo, la caduta dei regimi che hanno governato per decenni favorisca l’integralismo islamista esiste.
Ma non è invocando il principio della non ingerenza che l’Italia e l’Europa possono fare qualcosa per impedirlo. È vero che l’occasione per aiutare la democratizzazione dei Paesi che, ora, stanno esplodendo è stata già persa quando ci si è accontentati di fare buoni affari chiudendo gli occhi sui nostri partner, ma sarebbe ancora più grave insistere nell’errore. Sarebbe imperdonabile per la Ue e specialmente per l’Italia che è il primo esportatore verso la Libia (il 17,8 per cento delle merci straniere che arrivano nel Paese sono italiane) che, a sua volta, è al quinto posto tra i fornitori dell’Italia con una quota del 4,5 per cento del totale delle nostre importazioni. Gli effetti sulle azioni dell’Eni come su quelle di Impregilo (che dovrebbe costruire l’autostrada costiera concordata da Gheddafi e Berlusconi) si sono sentiti, pesantemente, in Borsa. Ma il contraccolpo economico è ancora più vasto. Si è già innescato quel fenomeno che i tecnici chiamano «fly to quality», cioè lo spostamento del denaro sotto l’ombrello dei titoli di Stato più sicuri dell’Eurozona, i bund tedeschi, con la speculare sofferenza dei buoni del Tesoro dei Paesi geograficamente più vicini a Tripoli ed economicamente più deboli, come Italia e Spagna. Dovrebbe essere una ragione in più per trovare, insieme, un ruolo attivo nella crisi.
Quando, in nome degli affari, l’Europa ha chiuso gli occhi sui dittatori, ha perso credibilità
ne del regime. Quattro fregate della Marina sono alla fonda nel porto della capitale in attesa di ordini. Fonti mediche non confermate parlano di 61 morti a Tripoli nella sola giornata di ieri e il bilancio complessivo di Human Rights Watch è arrivato a 233 vittime in tutto il Paese. La debolezza del regime è trapelata dall’unica reazione ufficiale affidata al discorso notturno di 40 minuti di Saif-alIslam, il figlio secondo genito del leader libico. Saif non ha nascosto che il Paese sia sull’orlo della guerra civile. Gheddafi jr. ha parlato di un «complotto ordito da forze separatiste» e ha messo in guardia dal rischio che il Paese nordafricano perda il suo benessere, garantito dal petrolio e dall’unità fra le tribù, e precipiti in una guerra per bande che lo renderebbe di nuovo preda del colonialismo occidentale. Saif aveva assicurato che il padre è rimasto in Libia. In effetti, la notizia di una fuga in Venezuela data dall’ambasciatore libico a Pechino è stata smentita da Caracas e anche da fonti dell’opposizione. Intanto l’Ue sta valutando la possibilità di un’evacuazione generalizzata dei cittadini europei. Molte compagnie straniere, come l’italiana Finmeccanica, la Bp e la norvegese Statoil, hanno cominciato a ritirare i propri dipendenti. E ieri l’aeroporto di Tripoli era piombato nel caos più totale per l’evacuazione degli stranieri. Gli italiani che vivono «stabilmente» in Libia sono 1.500 e la Farnesina e l’ambasciata «stanno consigliando di partire» con voli commerciali. Lo riferiscono a Bruxelles fonti della Farnesina precisando che «al momento l’Italia non prevede un piano di evacuazione». Dei 1500 italiani che vivono stabilmente in Libia, 500 sono dipendenti di grandi imprese italiane.Pochissime unità vivono a Bengasi, la stragrande maggioranza è concentrata a Tripoli.
E le grandi imprese nazionali sono quelle che stanno subendo i peggiori contraccolpi in Borsa a causa del terremoto libico: Impregilo e Eni sono i peggiori del Ftse Mib con un ribasso rispettivamente del 5,7 per cento e del 4,52 percento. Vendite anche su Ansaldo Sts. Male Unicredit, nel cui azionariato sono presenti i libici, che cede il 3,03 per cento. Secondo Mf-Dowjones «il listino italiano perde in misura maggiore rispetto
l’analisi La potente setta estremista senussita non si è mai lasciata domare
Dietro la rivolta si profila lo spettro fondamentalista Non si può escludere la mano di al Qaeda e dell’Iran, interessati a instaurare regimi religiosi di Mario Arpino i è detto che l’onda di piena che sta attraversando il nord Africa, sfociando poi in altri Paesi islamici del Medio Oriente, ha almeno una caratteristica in comune tra tutti: è la diversità, caso per caso. Così, se in Algeria, Marocco e Tunisia la connotazione è principalmente quella di una protesta laica, già in Egitto, silenziosamente, i Fratelli Mussulmani si stanno organizzando. Idem in Giordania. In Libano si tratta sopra tutto di lotta di potere tra Hezbollah, cristiani e sunniti seguaci del figlio del defunto premier Hariri. Sono questi ultimi che stanno mobilitando le piazze, dopo il “ribaltone”di governo che, senza elezioni, ha portato il Partito di Dio a essere arbitro della situazione. In Iran l’origine delle sommosse è ancora diversa, e nasce da un’intolleranza popolare verso Ahmadinejad prima ancora che verso il regime teocratico degli Ayatollah. Tutti speravamo che non succedesse, ma alla fine l’onda ha coinvolto anche la Libia. Qui le condizioni sono diverse. Il territorio è desertico, la scarsa popolazione - si parla di meno di sette milioni - è concentrata in poche aree metropolitane e rurali, il reddito pro-capite è il più alto tra tutti i Paesi del nord Africa, il sistema sociale è dotato di tutti i mezzi offerti dalla modernità e, almeno per il normale cittadino, è tutt’altro che oppressivo. E allora? Allora, tenendo in mente che i moti sovversivi con gli incidenti più gravi sono iniziati a Bengasi e negli altri centri della Cirenaica, è bene soffermarsi un attimo a leggere cronaca e storia.
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alle altre Borse europee, perché abbiamo più società che hanno attività o legami con la Libia». Le rivolte in Libia e negli altri Paesi dell’Africa settentrionale impongono «una nuova riflessionesull’affidabilità delle forniture all’Unione europea e soprattutto all’Italia», ha subito dichiarato, ieri, il numero uno di Gazprom, Aleksey Miller. Un monito che sottintende il primato della Russia come fonte di approvvigionamenti energetici sicura per il Vecchio continente, che negli ultimi vent’anni ha perseguito la via della diversificazione rispetto al gas russo, aumentando le importazioni anche da Libia e Algeria. La stessa Gazprom ha firmato la settimana scorsa un accordo con Eni che assicura l’ingresso alla sua controllata petrolifera, la GazpromNeft, nel progetto di sfruttamento del giacimento libico Elephant. Ricordiamo che tra gennaio e novembre 2010 dal Paese nordafricano sono arrivati 16 milioni di tonnellate di petrolio su un import totale di 65 milioni. Un dato, quest’ultimo, che segna un incremento del 3,2 per cento rispetto all’anno precedente, e che porta al 23 per cento le forniture libiche di petrolio
per l’Italia. Il nostro Paese è al primo posto tra quelli esportatori e quinto tra gli importatori con un interscambio nel primo semestre 2010 attorno ai 7 miliardi di euro e con stime superiore ai 12 miliardi per l’intero anno. È intuibile quindi con quanta attenzione si dovrebbero muovere il governo di Roma. La polizia libica avrebbe lasciato la città di Ez Zauia, 60 chilometri a ovest di Tripoli, sprofondata ora nel caos. Lo riportano decine di tunisini tornati in patria, provenienti dalla città della Tripolitania. Per il segretario generale della Lega araba, Amr Moussa, «il vento del cambiamento soffia ormai nel Medio Oriente e in tutto il mondo arabo». E in serata è giunta la notizia che l’aviazione militare libica avrebbe bombardato un gruppo di manifestanti anti-governativi che si dirigevano verso una base dell’esercito: è quanto pubblica il quotidiano israeliano Ha’aretz, citando la rete satellitare araba Al Jazeera. Mentre calano le prime ombre della sera, Tripoli dall’apparenza tranquilla durante il giorno – come affermano molte testimonianze – lascia posto all’inquietudine della violenza.
l’attuale Tripoli, Sabratha e Leptis Magna). Nel 96 a.c. Roma entrò in possesso anche della Cirenaica, con la pentapoli costituita dalle città di Cirene, Arsinoe, Berenice (ora Bengasi), Apollonia e Barce (Tolemaide). L’area divenne provincia romana nel 74 a.c. e, dopo di allora, le due entità territoriali rimasero separate per più di venti secoli, anche sotto l’Impero Ottomano. Fu l’Italia a unificarle nella colonia Libia nel 1934, poco prima dell’arrivo del governatore Italo Balbo, assai più saggio e molto più accettato di Volpi di Misurata e Graziani.
Tra le due entità non ci fu mai buon sangue, né prima né dopo l’unificazione. La potente setta estremista senussita non si è mai lasciata domare, e ogni occasione è sempre stata colta per passare dal malcontento alla guerriglia. Durante la così detta riconquista italiana, furono le bande armate della Cirenaica, arroccate sulla Collina Verde, a dare per anni filo da torcere alle truppe italiane, per ripetere la stessa cosa con gli inglesi nel 1943, alleandosi questa volta con i Fratelli Mussulmani egiziani, che conducevano analoga lotta. Nemmeno Gheddafi è stato risparmiato dalla loro insofferenza all’unità, e percorrendo le cronache si scopre che le sedizioni, seguite da repressioni puntuali e violente, sono e sono state una sorta di fatto endemico. A Bengasi, lo si ricorderà, c’è stato persino un attentato alla vita del Colonnello, salvato solo dal sacrificio delle “amazzoni”, sue guardie del corpo. L’ultima sommossa religiosa, anche questa repressa nel sangue, è del 2006, quando incautamente il nostro ministro Calderoli mostrò la famosa maglietta con le vignette sul profeta Maometto. Per gli estremisti di Cirenaica, la rivolta delle piazze nordafricane è stata senza dubbio un’occasione da non perdere, e lo hanno dimostrato alla grande. Se siano stati supportati da “stranieri”o meno è tutto da scoprire, ma è comunque plausibile. Tra tutti, il ministro Frattini probabilmente ha colto la vera natura delle sommosse in Libia, quando si dice preoccupato «dell’affermarsi di ipotesi di emirati islamici a est, a pochi chilometri dall’Italia». È un sogno antico dei popoli della “collina verde”, e non è escluso che qualcuno abbia già pensato di soffiare sul fuoco.
Per gli estremisti della Cirenaica, la rivolta delle piazze nordafricane è stata senza dubbio un’occasione da non perdere, e lo hanno dimostrato davvero alla grande
Quando Saif al-Islam, il figlio delfino di Muhammar Gheddafi, in un messaggio lanciato nella notte al popolo accenna a forze “forze straniere” e “separatisti” che avrebbero messo in atto un “complotto”, va capito e bene interpretato, perché potrebbe essere non lontano dal vero. Eliminiamo subito l’intervento occulto di forze straniere - potremmo comunque pesare ad al-Qaeda o all’Iran - in quanto alibi usuale per ogni dittatore che si rispetti, e incentriamo invece l’attenzione sui separatisti e sul complotto. Qui va ricordato che Tripolitania e Cirenaica non si sono mai amate, sono Nazioni dissimili - il termine “nazione”è quello della geopolitica - avendo come diversità storia, cultura ed origine. In epoca romana, dopo la distruzione di Cartagine (146 a.c.) la Libia nord occidentale entrò a far parte del dominio di Roma e fu costituita come provincia col nome di Tripolitania (da tri-polis, ovvero le tre città di Oea -
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l’approfondimento
Fuggito o no, tutti sono concordi: l’era Gheddafi è finita. Fatto salvo che la crisi libica non imploda in una guerra civile, cosa può succedere?
Quattro scenari e un sogno Frammentazione del Paese in emirati, passaggio del potere a Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, instaurazione di un regime militare, nascita di un protettorato islamico e infine, la democrazia. Fra tutte le ipotesi, la più peregrina... di Osvaldo Baldacci
ome era prevedibile la situazione ormai è precipitata anche in Libia. E come era prevedibile lì la situazione è molto più complessa e soprattutto sanguinosa che in altri Paesi. Quello che non è prevedibile è come andrà a finire. È in fiamme l’altra sponda del Mediterraneo, e la cosa ci riguarda molto da vicino. Le conseguenze sul nostro Paese sono dirette, immediate e gravi. Lo erano già con la Tunisia e l’Egitto, lo sono con gli altri Paesi caldi della regione (fino ai poi non tanto lontani Yemen e Iran), ma con la Libia a noi italiani la gravità degli eventi sembra risultare più evidente. E d’altro canto è davvero una situazione per noi più critica. Gheddafi, come è noto, si era eretto ad arbitro del transito dei migranti clandestini, franando i flussi quando i nostri salamelecchi risultavano per lui sufficienti. Oggi non solo non è più in grado di controllare i flussi che attraversavano la Libia venendo dall’Africa, ma gli stessi libici, come i tunisini,
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gli egiziani e chissà chi altro, potranno essere tentati in massa di tuffarsi nel sogno euroitaliano a fronte dell’instabilità e della povertà dei loro paesi. Inoltre gli interessi economici delle aziende italiane in Libia sono davvero ingenti, e basta vedere come sta reagendo la Borsa per essere preoccupati. Dalla Libia infine arriva una parte consistente del nostro rifornimento energetico.
È quindi molto importante capire come evolverà la situazione e come possiamo fare per farla sviluppare in una direzione non contraria ai nostri interessi. L’Italia dovrebbe essere protagonista nel risvegliare le attenzioni dell’intera Europa verso il Mediterraneo. Quel bacino geografico è stato troppo trascurato e queste sono le conseguenze, con una minaccia seria e reale a tutta l’Europa. Sotto tutti i punti di vista, da quello della sicurezza a quello economico. Dobbiamo prendere atto che quanto è successo in Tunisia ed Egitto non ci è di
aiuto per capire quanto accadrà in Libia. Prima di tutto perché anche in quei Paesi non siamo ancora ad una conclusione, e diversi scenari sono aperti. Se ciascuno troverà la sua strada o si imporrà un modello comune è ancora tutto da verificare. E poi Egitto e Tunisia sono Paesi molto diversi dalla Libia, dove la natura stessa del regime doveva far prevedere, quello sì, un bagno di sangue rilevante. Le contrapposizioni interne e la durezza della leadership di Gheddafi potevano
Eventuali realtà “spezzettate” sarebbero facile preda di appetiti pericolosi
far pensare a un ricorso alla violenza che potrebbe ancora aumentare. E le divisioni interne alla Libia, dove il colonnello ha regnato con la politica del divide et impera, non permettono ancora di formarsi un quadro definito capace di superare le contrapposizioni. La Libia ha delle caratteristiche sue proprie, e tra queste la divisione molto forte tra regioni distinte (almeno la Tripolitania, la Cirenaica e il Deserto), tra clan etnici ma anche sociali rivali. La popolazione libica è poco nu-
merosa su un territorio molto vasto in gran parte deserto.
Uno degli scenari che si prospettano è proprio quello della divisione del Paese, con le diverse zone che vanno a costituire realtà autonome più aperte a differenti sfere di influenza. Non una grande idea, considerato che molte delle risorse libiche sono nel deserto e gran parte dello sviluppo economico è basato sulla collaborazione a questi progetti, anche se Gheddafi li realizzava solo pro domo sua. Inutile dire che poi queste eventuali realtà frammentate sarebbero più facile preda di appetiti pericolosi. Facile pensare subito agli estremisti islamici, presenti nel Paese, e che hanno punti di appoggio in Cirenaica ma sono anche già padroni del territorio del Sahel. Ma se Bengasi è l’epicentro delle istanze anti regime, è evidente che è anche terra di scontro tra fazioni tra loro diverse, dagli islamici appunto agli indipendentisti, dai monarchici ai liberali. Tutti insieme contro Ghed-
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Petrolio, gas e stele di Axum: i rapporti fra Roma e Tripoli sono molteplici e redditizi
Il partito gheddafista italiano. Frattini: «L’Ue non intervenga» Il Trattato di amicizia fra Italia e Libia è il coronamento di 40 anni di sostegno alterno del Belpaese al dittatore. Culminato con Berlusconi di Riccardo Paradisi onsiderando quanto sta avvenendo in Libia in queste ore è assai probabile che il quarantennale regime di Muahammar Gheddafi volga verso il tramonto. Sicchè potrebbe essere l’occasione – ora che le ragioni della realpolitik rischiano di perdere la loro pregnanza – per riavvolgere la pellicola del lungo, tormentato e sempre opaco rapporto che ha legato l’Italia, la Libia e quelle altre forze europee e internazionali che hanno concepito sempre il mediterraneo come il crocevia d’interessi geopolitici. Potrebbe essere il momento opportuno perché proseguire come se niente fosse, come se l’Africa del nord non fosse sotto la spinta a domino di rivolte a catena rischia di rovesciare di segno la stessa prospettiva realista con fui fino ad oggi ha agito l’Italia nei confronti di Tripoli.
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Perché non è più nemmeno realista tentare di puntellare quanto sta inevitabilmente crollando. Non è più nemmeno realista insomma dichiarare – come fa il nostro ministro degli esteri Franco Frattini da Bruxelles – che l’Unione Europea non deve interferire nei processi di transizione in corso nel mondo arabo, cercando di esportare il proprio modello di democrazia. Auspicando che in Libia si avvii una riconciliazione pacifica arrivando a una costituzione come sarebbe nelle intenzioni del figlio di Gheddafi. In Libia infatti secondo Frattini il processo di riconciliazione nazionale avrebbe delle possibilità di partire in modo pacifico. Un’analisi che di fronte al centinaio di morti che già hanno provocato le squadre della morte assoldate dal regime libico suonano come semplicemente surreali. Surreali e, appunto, poco accorte visto che a questo punto realismo dovrebbe dettare al governo italiano una condotta aperta riguardo i futuri assetti di potere in Libia volti a garantire l’interesse nazionale in riferimento all’approvigionamento energetico, al contenimento dei flussi migratori e alle partnership economico-politiche che fino a oggi sono stati bene o male garantiti dal regime libico. Garantiti, beninteso, a prezzo d’un rapporto basato sull’equivoco permanente, sul ricatto incrociato, la minaccia terroristica, il gioco di sponda, la provo-
cazione e il bluff, contrassegnata da episodi dolorosi e umilianti per l’Italia. Come la cacciata dei nostri connazionali, all’inizio degli anni Settanta dalla Libia. Un provvedimento odioso mascherato da ritorsione per i crimini italiani commessi durante la guerra coloniale. Crimini che peraltro non era certo il regime del colonnello a poter giudicare. Eppure su questa filosofia del debito morale s’è fondato, negli ultimi decenni, l’interessato rapporto italo-libico. Dietro il para-
Ora l’Italia potrebbe essere costretta a ripensare la sua politica mediterranea vento di questa tensione storica, in cambio di commesse e energetiche e politiche di contenimento migratorie, si sono concessi a Gheddafi finanziamenti, coperture, protezioni, complicità oltre le passerelle indecorose che il colonnello libico ha potuto fare in Italia negli ultimi tempi con il suo caravanserraglio di amzzoni, tende, cammelli et eterne rivendicazioni. Intendiamoci la doppia morale dei governi italiani verso la Libia non nasce oggi. I vantaggiosi accordi raggiunti tra Eni, Italia e Libia, non hanno l’unica paternità e il solo patrocinio di Berlusconi. Non si devono dimenticare i ripetuti viaggi
d’affari di Romano Prodi in Libia nel settembre 2006 per incontrare Gheddafi, e poi - per restare in tema - a Mosca nel novembre del 2007 per incontrare Putin, ricambiando una analoga visita di affari del presidente russo a Roma nel marzo dello stesso anno. Ma tutti i governi italiani che si sono avvicendati, senza soluzione di continuità, hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte agli eccessi e alle provocazioni di Gheddafi.
Senza soluzione di continuità anche durante le crisi LIbia Usa degli anni Ottanta. Non sono del tutto infondate del resto le voci che sostengono che quando nel 1986 Tripoli fu bombardata per ordine del presidente americano Reagan, Gheddafi era stato avvertito dal governo italiano dell’attacco. Il missile sparato da Gheddafi su Lampedusa, malgrado le reciproche propagande, non era infatti rivolto contro l’Italia ma contro gli americani di stanza nel nostro Paese. Ma basterebbe leggersi Intrigo Internazionale. Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire (Chiarelettere) il libro intervista di Giovanni Fasanella con il giudice Rosario Priore per avere ulteriori conferme di questo schema storico nei rapporti italo libici. «Il punto di partenza fondamentale è la considerazione che l’Italia, pur avendo perso la seconda guerra mondiale ed essendo sottoposta al controllo delle potenze vincitrici, grazie alla propria classe dirigente dell’immediato secondo dopoguerra riuscì a divenire una potenza economica, merito di una politica mediterranea e terzo-mondista che aveva in Enrico Mattei e Aldo Moro, i suoi principali esponenti. Loro capirono che per riacquistare prestigio nel Nord Africa e nel mondo orientale era necessario pagare molto di più ai produttori di petrolio rispetto a quanto facessero inglesi e francesi ma ciò, inevitabilmente, incrinò le relazioni diplomatiche con questi paesi. La chiave di volta fu proprio la salita al potere di Gheddafi che, come primo atto espulse le basi inglesi dalla Libia Successivamente l’Inghilterra perse l’Egitto, l’isola di Cipro e Malta». È sotto questa luce che si inquadrano anche molti segreti italiani dalla strage di Ustica a quella di Bologna secondo Priore in buona compagnia con altri analisti. Ed è i questa cornice che dalla metà degli anni ’70 l’Eni, e le altre aziende pubbliche italiane, hanno cominciato ad essere il principale interlocutore d’affari della Libia e che Gheddafi è diventato uno dei maggiori partner dell’economia italiana, a cominciare dalla partecipazione alla proprietà della Fiat. Non è possibile sapere come andrà a finire la rivolta libica e come si assesterà l’intera situazione nordafricana. Quello che è certo è che l’Italia potrebbe essere costretta a ripensare la sua politica mediterranea..
dafi, ma poi? E le diverse tribù del deserto? Un’altra ipotesi è quella che vede la possibilità per l’attuale regime di mantenere il potere. Magari cambiando cavallo, risolvendo le faide interne e puntando su un figlio di Gheddafi, verosimilmente Saif al-Islam. Era una transizione in corso da anni ma che ha subito diversi contrasti a causa degli scontri con la vecchia guardia rivoluzionaria.
Per sopravvivere saranno ora capaci di ricompattarsi? Nel qual caso solo il pugno di ferro potrà riportare la stabilità nel Paese, ma il pugno di ferrro non è una novità per la Libia. Il problema è anche capire cosa succederà dopo col prosieguo della dinastia. Potrà sopravvivere solo con la forza, o dovrà procedere comunque a riforme e democratizzazioni progressive e guidate, ma reali? Quest’ultima strada gli permetterebbe di tenere sotto controllo la popolazione, soprattutto se sarà accompagnata da una più equa distribuzione della ricchezza di un Paese ricco con una popolazione poco numerosa eppure molto povera. Ma è anche vero che ogni concessione porta all’indebolimento del regime stesso, e l’istinto di autoconservazione non favorisce questa via, come dimostrano i casi delle riforme interrotte dei vari Mubarak e Ben Ali. E la popolazione potrebbe non avere la pazienza di aspettare il tempo necessario. Simile è il terzo scenario, quello che alla prosecuzione della stirpe di Gheddafi vede sostituirsi un altro regime di leadership, di provenienza dalla casta militare. O un altro “presidente”oppure una giunta militare. Qualcosa che potrebbe affermarsi contro la popolazione ma anche col suo sostegno se saprà offrire garanzie. Anche qui con un bivio nel futuro: una involuzione tirannica verso l’autoconservazione oppure un percorso guidato e garantito verso le riforme? Quarta possibilità, la presa di potere degli estremisti islamici. Il timore più grande, una realtà concreta, e specialmente in Libia dove i gruppi militanti hanno dato già un grande contributo ad al-Qaeda e potrebbero contare sul supporto degli islamisti dei Paesi vicini come Egitto e Algeria dove forse l’affermazione politica diretta dei fondamentalisti è possibile ma meno probabile. Ultimo scenario la democrazia. È certamente il sogno più bello, ma per la democrazia occorrono delle precondizioni culturali, sociali, politiche ed economiche che hanno bisogno di tempo per svilupparsi, affermarsi, realizzarsi. Non è così palese che i Paesi del Nord Africa e la Libia siano del tutto pronti per uno Stato pienamente democratico, ma se li aiutiamo potremmo avere dei dirimpettai con cui capirci e collaborare per il reciproco interesse.
diario
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Immigrati, nuovi sbarchi a Lampedusa
Roma: via Ranieri, arriva Montella
Delitto Viareggio, arrestato un uomo
PALERMO. Dopo la tregua della
ROMA. Vincenzo Montella è il
LUCCA. Clamorosa svolta nelle
scorsa settimana, sembra non fermarsi la nuova ondata di sbarchi di immigrati nordafricani sulle coste dell’isola di Lampedusa. Gli ultimi due sbarchi sono avvenuti all’alba di ieri, intorno alle 5 con l’arrivo di complessivi 132 tunisini. I primi 89 sono stati avvistati a una decina di miglia di distanza dalla costa, gli altri 43 a cinque miglia. Su uno dei barconi arrivati c’era del fumo sprigionato dal motore del mezzo, forse a causa dell’eccessivo surriscaldamento. Due giorni fa ne erano arrivati altri 53 su due barconi. Aumentano così nuovamente gli immigrati tunisini ospiti del Centro d’accoglienza di contrada Imbriacola: superano nuovamente 1.300 presenze.
nuovo allenatore della Roma. L’ex attaccante giallorosso, che non ha il patentino di Prima categoria per allenare in Serie A, guiderà la squadra e sarà affiancato da Aurelio Andreazzoli, ex collaboratore di Luciano Spalletti alla Roma. Il club inoltre «rende noto di aver ricevuto le dimissioni del Sig. Claudio Ranieri, dalla carica di Allenatore della Prima Squadra» con la formula di «risoluzione consensuale anticipata del contratto». A seguito delle dimissioni presentate, il contratto economico con il Sig. Ranieri, la cui naturale scadenza era prevista al 30 giugno 2011, è stato risolto consensualmente in via anticipata, con effetti a decorrere dalla data odierna», spiega la società.
indagini sulla scomparsa di Velia Claudia Carmazzi, 59 anni, e della madre Maddalena Semeraro, 80, avvenuta nell’agosto scorso a Torre del Lago, frazione di Viareggio (Lucca). Ieri mattina i carabinieri hanno arrestato Massimo Remorini, 54 anni, l’amico di famiglia che seguiva gli interessi delle due, e la 51enne badante delle donne. Sono accusati di sequestro di persona, maltrattamenti in famiglia, soppressione e distruzione di cadavere in concorso. Remorini è accusato anche di circonvenzione di incapace e appropriazione indebita continuata. Con l’accusa di favoreggiamento per gli stessi reati è stato denunciato anche Francesco Tureddi, 57 anni, amico di Remorini.
Vertice tra legali negli uffici della Fininvest, Consiglio dei ministri in preallerta per “ratificare” le decisioni prese a Milano
Ghedini premier ad interim
Sono gli avvocati del premier a stabilire la strategia sulla giustizia di Errico Novi
Niccolò Ghedini non è favorevole al conflitto di attribuzioni da sollevare alla Camera: se ne discute tra Arcore e Milano. Intanto si intensifica il dibattito sull’immunità parlamentare, con una coda polemica all’interno del Pd: la senatrice Franca Chiaromonte dice di non essere disposta a ritirare il suo progetto di legge, nonostante l’ostilità di Bersani e Franceschini, ribadita ieri
ROMA. Troppo complicato. Ci rinunciano i parlamentari del Pdl esperti in materia, i componenti cioè di quella consulta Giustizia interna al partito comunque presieduta da Niccolò Ghedini. Ci rinuncia anche il guardasigilli Alfano. Le riforme in materia di processi, Csm, intercettazioni e annessi non passano per il Coniglio dei ministri. Non subito, quanto meno. Prima deve riunirsi un pre-consiglio, presieduto sempre da Ghedini e composto da avvocati di razza, altro che deputati. Dove? Non a Palazzo Chigi ma negli uffici della Fininvest. È lì che in mattinata si autoconvoca il pool di legali del presidente del Consiglio. Obiettivo, fissare una scaletta di priorità. Definire la strategia. Il resto, cioè la maggioranza, seguirà in ordine disciplinato.
Sul tavolo ci sono ovviamente le mosse da opporre alla Procura di Milano, agli aggiunti Boccassini e Forno e al pm Sangermano. in vista della prima udienza del processo sul caso Ruby, il 6 aprile, al momento non ci sono armi cariche. L’unica è nota ed è pronta da tempo: il legittimo impedimento. Le cartucce sono in numero limitato, ed è per questo che verranno utilizzate solo per i due filoni che più preoccupano gli avvocati del premier, ossia Mills e ovviamente quello sulle notti di Arcore. Gli altri due, Mediaset e Mediatrade, verranno lasciati correre, destinati come sono a una probabile prescrizione. In realtà anche quello in cui Berlusconi è accusato di aver corrotto l’avvocato inglese pare sul filo della decadenza dei termini, ma la sua
maggiore delicatezza lo ha fatto scattare in cima alla lista delle emergenze. Considerato dunque che gli impegni assolutamente inderogabili dell’agenda di Berlusconi sono in numero limitato, il legittimo impedimento potrebbe essere invocato intanto l’11 marzo (per il caso Mills), mentre sul processo per Ruby è in via di perfezionamento la strategia di resistenza parlamentare. Ma appunto, a definirne i dettagli in queste ore non provvedono i deputati pdl della commissione Giustizia o della giunta per le Autorizzazioni. È il vertice dei legali a studiare codici e regola-
menti parlamentari di un percorso che dovrebbe portare al conflitto di attribuzione. Ci ragionano nel quartier generale di Fininvest l’avvocato Giorgio Perroni, storico difensore di Cesare Previti e ora destinato, tra l’altro, a seguire la posizione di Lele Mora, Filippo Dinacci, che a sua volta segue anche la vicenda del consigliere Csm in quota Lega Matteo Brigandì, oltre ovviamente a Niccolò Ghedini e all’altro avvocatoparlamentare, Pietro Longo.
Ghedini riferisce in tempo reale al presidente del Consiglio, ad Arcore, sulle ipotesi
messe a punto. Non crede molto nella strada del conflitto di attribuzioni. Perché rischia di rallentare i tempi del processo Ruby, fino a provocarne il ricongiungimento con l’altro troncone, in cui sono implicati Mora, Fede e Nicole Minetti. Con la flotta di testimoni, soprattutto ragazze dell’Olgettina, in odore di citazione, il tutto rischia di trasformarsi in uno spettacolo poco decoroso. Ghedini preferirebbe favorire la partenza del dibattimento, a suo giudizio destinato a risolversi nel giro di pochi mesi e senza danni per il Cavaliere. Sulla mozione di improcedibi-
lità, d’altronde, grava anche il rischio di veder stoppato tutto da Gianfranco Fini, a cui spetta la decisione se rimettere la pratica all’Aula anche in presenza di un pronunciamento sfavorevole della giunta per le Autorizzazioni.
Nel partito vorrebbero invece lanciare la sfida al presidente della Camera. E più in generale, cresce nel Pdl lo schieramento dei fautori di un ritorno all’immunità parlamentare. Predisposta per intervenire sulle vicende giudiziarie del premier però, la ristrutturazione del vecchio articolo 68 si
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Festeggiamo l’Unità d’Italia adeguatamente
Auto contro il Terminal 1: sparatoria a Malpensa MILANO. Momenti di panico ieri mattina allo scalo lombardo di Malpensa dove gli agenti hanno aperto il fuoco dopo che un’auto aveva sfondato la vetrata del Terminal 1. Secondo le prime informazioni, l’auto avrebbe sfondato la vetrata e alcuni poliziotti avrebbero sparato dei colpi per fermarla ferendo l’uomo alla guida, probabilmente un tunisino. A bordo dell’automobile l’uomo era in compagnia della moglie. La stava accompagnando all’aeroporto e, a quanto si apprende, sarebbe scoppiato un furioso litigo che ha portato il tunisino a perdere il controllo. L’uomo avrebbe così avuto una reazione violenta tanto da andare a sbattere con la macchina contro la vetrata, provocando l’immediata risposta dei poliziotti presenti. Il tunisino, rimasto ferito lievemente a un piede, è stato immediatamente portato all’ospe-
dale di Gallarate dove, costantemente piantonato dalla Polizia, è stato sottoposto ad una prima medicazione. Gli artificieri hanno quindi lavorato per verificare quanto contenuto all’interno dell’auto che ha sfondato la vetrata. Dopo i primi disagi, i voli in arrivo, hanno subito assicurato dalla Sea, sono rimasti tutti regolari mentre sono stati bloccati i check-in, e quindi, ovviamente, hanno subito ritardi quelli in partenza.
trasforma in un fronte di lotta politica. Così il capogruppo pd a Montecitorio Dario Franceschini avverte che il suo partito «è schierato senza ambiguità contro il ritorno all’immunità parlamentare». Non esiste, aggiunge Franceschini, che «per bloccare i processi a Berlusconi si dia l’immunità a lui e ad altri 944 parlamentari». Chiusura netta che però deve fare i conti con la caparbietà di una senatrice democratica come Franca Chiaromonte, cofirmataria di una proposta di legge per il ripristino della guarentigia insieme con il collega del Pdl Luigi Compagna. «Non ho nessuna intenzione di ritirarlo, si tratta di un’iniziativa personale e trasversale. Poi se e quando dovesse andare in Aula, lo vedremo».
Non sono pochi, nel Pd, a ritenere utile il ritorno alla vecchia formulazione dell’articolo 68. Tra gli altri Silvio Sircana, che però si dice pronto ad adeguarsi alle indicazioni del partito. Regna una certa confusione, solo in apparenza gestita dalle dichiarazioni ufficiali. Fa fatica lo stesso Pier Luigi Bersani, che pronuncia il suo «no assoluto». Poi incalza: «In Italia chiunque fosse accusato di prostituzione minorile andrebbe a processo. Non possiamo accettare che ci siano leggi speciali per il presidente del Consiglio». Qualsiasi cosa si faccia adesso sui temi della giustizia sarebbe «ad personam», nota il segretario. È una posizione non lontana da
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
quella di Savino Pezzotta, che chiarisce di non avere alcuna intenzione di votare l’immunità. Il dibattito però è partito: così anche Luciano Violante mette in campo la sua proposta, un’immunità ristretta a una sola legislatura e da votare a maggioranza qualificata nella Camera di appartenenza del parlamentare imputato.
Cicchitto: «Immunità, la Lega dirà sì ricordando il nostro impegno sul federalismo»
In alto, Fabrizio Cicchitto e Roberto Calderoli. Qui sopra il segretario pd Pier Luigi Bersani e la senatrice Franca Chiaromonte
In ogni caso Berlusconi è riuscito a imporre in base alle proprie necessità i termini di un dibattito importante come quello sulle garanzie del legislativo nei confronti della magistratura. Già questo è un risultato. Che si registra anche all’interno della Lega: Radio Padania apre i microfoni agli interventi degli ascoltatori sullo stop imposto da Calderoli al collegamento con Lucia Annunziata. Molti si lamentano, qualcuno si chiede se «il direttore sia Salvini o Calderoli», altri contestano l’eccessiva presenza di «craxiani» dentro l’esecutivo: «Cicchitto oggi è il braccio destro del Cavaliere, lo è stato di Craxi. Poi ci sono Sacconi, Brunetta, Frattini, che qualche mese fa sono andati giù ad Hammamet. E noi eravamo quelli che attaccavano gli adesivi “comune deberlusconizzato”». Delle future mosse, compresa l’opportunità di ripristinare l’articolo 68, è nella riunione dei legali Fininvest che si discute, non a Palazzo Chigi. Dove in realtà potrebbe esserci un Consiglio dei ministri già domani, con il testo della riforma del Csm che in queste ore i tecnici di via Arenula mettono a punto. Tutto passa però sempre per il visto di Ghedini. Deve farsene una ragione anche il popolo del Carroccio. Cicchitto lo dice con la sua riconosciuta franchezza: «Credo che la Lega voterà l’immunità parlamentare, ricordando il nostro impegno nell’approvazione del federalismo fiscale». Parole che segnalano una certa tensione all’interno della maggioranza. Destinata peraltro a non esaurirsi in fretta, visti i molti dubbi che pesano ancora sulla strategia del premier, nonostante l’attivismo del gabinetto Ghedini.
L’unità del Paese è un valore irrinunciabile. La vera “follia”è quella di chi vuole dividere perché ha interesse a creare contrapposizioni per difendere interessi di campanile e di una piccola classe imprenditoriale. Oggi più che mai il nostro Paese ha bisogno di sentirsi unito e forte di fronte alla sfida del mondo globalizzato che annulla le identità e alle continue minacce economiche e politiche che vengono da oltre i confini, ma anche di fronte alla disgregazione della società moderna che ha perso di vista i valori fondamentali come quello della famiglia, della vita e del lavoro. Celebrare l’unità del nostro Paese vuol dire riaffermare i valori di una cultura che ha radici profonde, sedimentata nei secoli, che ha contribuito in maniera determinante alla costruzione della civiltà europea. Per un giorno si mettano da parte critiche, risse politiche e mediatiche e ci si stringa intorno al tricolore. Lo dobbiamo a chi ci ha preceduto e ha dato la vita per l’unità, ma anche ai nostri figli e alle generazioni future.
Salvatore Negro
MUSICA D’AUTORE A Sanremo ha vinto la musica d’autore di consolidata esperienza, interrompendo un periodo di estrema sponsorizzazione dei vincitori di altre competizioni televisive a puntate. Roberto Vecchioni è stato il supporter di una sommatoria di concause. La prima è l’aver rispolverato il testo che piace di più agli italiani, ovvero l’unione tra la lirica della gratitudine alla donna che si ama, con l’idealistica visione di un mondo esente da potenti oppressivi e interessi agonizzanti. La seconda è aver suggellato la sua performance con un gruppo di eccezione come la Premiata Forneria Marconi che, in età non sospetta, ha condensato i motivi di cui sopra nel talentuoso rock italiano.
Bruna Rosso
L’IMMAGINE
Cristalli preziosi Cattiva alimentazione, mancanza di moto e carenza di vitamina D (nella foto, alcuni cristalli visti attraverso una micrografia in luce polarizzata) sono all’origine dell’obesità infantile
EVVIVA IL 17 MARZO, EVVIVA IL 20 SETTEMBRE, EVVIVA LA TERZA ITALIA E finalmente è stata istituita la Festa dell’Unità d’Italia del 17 marzo! Ma ci voleva tanto, mi chiedo io? Sì, perché, senza l’Unità d’Italia nemmeno i vari Bossi, Calderoli & altri scalmanati della Lega Nord, avrebbero potuto dire le loro astrusità in piena libertà e sedere nel Parlamento nazionale, a dispetto del loro anti-patriottismo. L’Unità d’Italia è, come il 20 settembre, un avvenimento storico che ha visto uniti repubblicani e monarchici, i quali hanno combattuto strenuamente e con sprezzo del pericolo per un ideale di unità nazionale, contro l’oppressione austriaca, borbonica e papalina. Un ideale che oggi sembra non esserci più, tutti presi a parlare di un federalismo senza basi, che potrebbe comportare solamente un aumento indiscriminato delle imposte a livello locale. Eh sì, perché federalista era anche Carlo Cattaneo, insigne pensatore repubblicano mazziniano, lontano però dalle spartizioni di potere dei leghisti. Un conto, insomma, è demandare taluni poteri alle Regioni, abolendo prima gli enti inutili intermedi e burocratici come le Province, un altro è riempirsi la bocca di “devolution” con l’auspicio di costituire dei novelli“Staterelli accentratori”. Rimango basito quando sento dire - persino dal Sindaco di Pordenone Sergio Bolzonello, che è un liberale storico - che si è perplessi relativamente al fatto che il 17 marzo diventi giorno festivo, in quanto ciò potrebbe comportare un danno alla nostra economia. Sarebbe infatti sufficiente, per riequilibrare il tutto, abolire qualche festa religiosa, come il lunedì di pasquetta o ferragosto, assolutamente in contrasto con lo spirito laico e liberale della nostra Repubblica. E a quel punto si potrebbe re-introdurre, finalmente, anche la festa nazionale del 20 settembre - abolita dal fascismo - che mise fine al potere temporale dei Papi e proclamò Roma capitale d’Italia.Verrebbe da chiedersi, una volta per tutte, se si preferisce un’Italia divisa in piccoli Stati, taluni comandati dal Papa o dal leghista scalmanato di turno, oppure un’Italia laica, repubblicana, liberale.
Luca Bagatin
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il paginone
Il caso Ruby e il Vaticano: i media hanno discusso poco la ricerca dell’Swg che ha rovesciato molti luoghi comuni inalmente abbiamo una seria indagine di opinione – commissionata dai Cristiano Sociali e presentata alla stampa la scorsa settimana – che misura l’incidenza del caso Ruby sull’atteggiamento dei cattolici nei confronti del Premier. L’indagine ci dice che lungo gli ultimi tre mesi c’è stato un calo del sostegno cattolico a Berlusconi e che in questo calo hanno inciso anche i giudizi venuti dall’episcopato. Una maggioranza assoluta degli intervistati – il 51% – chiede alla Chiesa una “critica più diretta”: e su questo dirò – come mia opinione – che è meglio che una tale critica non vi sia, perché gli uomini di Chiesa hanno già detto abbastanza – anche se con parole a volte non chiare – e dire di più costituirebbe un atto di schieramento. Il principio a cui ispiro questa opinione è che non si addice alla Chiesa entrare nella lotta politica. La presentazione del Report Indagine SWG – le cui tabelle si possono consultare nel sito dei Cristiano Sociali: www.cristianosociali.it, sotto il titolo L’atteggiamento dei cattolici praticanti nei confronti del Governo e degli scandali legati al Presidente del Consiglio – è di mercoledì 16 febbraio. Come immagine riassuntiva del rapporto possiamo prendere la tabella 35 che ci dà la sintesi delle intenzioni di voto. Settimanalmente Berlusconi ci informa che l’elet-
F
torato gli conferma la fiducia nonostante gli “scandali” che egli dice manovrati dalla magistratura e dai media, ma tra i cattolici praticanti egli sta perdendo diversi punti rispetto alle politiche del 2008, quando era stato votato da oltre il 50% dei praticanti. Su cento elettori che dicono di andare a messa tutte le settimane e affermano di aver votato Berlusconi nel 2008, l’indagine segnala che il 42% lo rivoterebbe “sicuramente”, il 30% “probabilmente”, l’8% “probabilmente no”, il 14% “sicuramente no”. Unendo i probabili ai sicuri abbiamo un 22% di pentiti.
Un altro dato rilevante riguarda la variazione della fiducia in Berlusconi – concetto più ampio rispetto a quello del voto – che si è avuta tra novembre 2010 e gennaio 2011: cioè lungo lo sviluppo del caso Ruby. Il riferimento è alla pagina 14 del dossier. L’elettorato complessivamente resta stabile in questa sua fiducia e cioè si attesta ancora sul 33%: e questa è la forza di Berlusconi. Concorre a spiegarne il rifiuto – per ora – di fare un passo indietro. La fiducia dei cattolici praticanti invece in questo periodo, cioè a seguito del danno di immagine venutogli dalla divulgazione dei contenuti dell’inchiesta milanese, scende dal 42 al 32 per cento.Tra cento cattolici praticanti “non collocati” sono 31 quelli
Il messaggio del clero è stato ascoltato anche se questo non ha mai nominato direttamente Silvio Berlusconi o i suoi scandali. E i numeri mostrano che basta
I dati parlano chiaro: lo spostamento nelle pre
La Chiesa d di Luigi Accattoli che perdono fiducia nel premier, 12 tra i centristi, 2 nel centro destra, 1 nel centro sinistra. Dunque la “fiducia” – che puoi riscuotere anche in chi non ti vota – scende di dieci punti in percentuale. È molto, ma è anche poco. Perché la variazione sostanzialmente è limitata ai “centristi”e ai “non collocati”: cioè ai cattolici praticanti che non avevano votato per Berlusconi. I cattolici di Centrodestra – così come quelli di Centrosinistra – restano fermi nella loro fiducia o non fiducia.
Il presidente della Cei Bagnasco. In alto una sessione plenaria dei vescovi italiani. Nella pagina a fianco il card. Bertone e Berlusconi. Sopra, Ruby
È questa per me una riprova che la percezione dello scandalo è forte ma ambigua e ognuno la coglie dalla finestra del proprio schieramento. Non produce cambio di finestra in chi è schierato, mentre sposta chi non è schierato. L’ambiguità della percezione sta nel fatto che – al momento – paiono comporsi tra loro in un equilibrio instabile gli elementi della colpevolezza e quelli dell’accanimento giudiziario: da una parte un comportamento privato del Premier chiaramente a rischio prostituzione e minorenni, e comunque non ispirato a “disciplina e onore”, come vuole l’articolo 54 della Costituzione; dall’altra uno zelo degli inquirenti che mai si era visto nel nostro paese per la concussione e la protezione dei minori. Capita dunque che una qualche fiducia complessiva verso il Premier resti con-
fermata pur in presenza di un “peggioramento”della propria opinione nei suoi confronti. Per il 57% dei cattolici praticanti – infatti – gli scandali hanno prodotto un peggioramento delle opinioni relative al premier, anche se gran parte di questi, il 40%, partiva già da un parere critico; ma per il restante 17% gli scandali hanno prodotto un rovesciamento di immagine: prima essa era positiva e ora è negativa.
Il dibattito sull’opportunità di considerare il comportamento privato del Premier come parte integrante della sua condotta politica – perché “per la figura del premier non c’è distinzione tra pubblico e privato” – coinvolge fortemente l’opinione cattolica con risvolti di indubbio interesse. Una minoranza molto ristretta (14%) sostiene che occorrerebbe escludere del tutto la considerazione della sfera privata dalla valutazione della funzione pubblica, mentre gran parte delle posizioni (80%) riconoscono importante che il comportamento nella vita privata sia in linea con i principi affermati pubblicamente. Qui c’è una forte e rilevante coincidenza tra la percezione dei cattolici praticanti e le affermazioni che sono venute dall’episcopato. Cito per tutti il cardinale Tettamanzi nell’intervista al Corsera di domenica 13 febbraio, ma affermazioni simili le abbiamo udite in bocca al
il paginone
referenze fra i praticanti c’è stato, ed è stato imponente
del sondaggio
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cardinale Angelo Bagnasco e al vescovo Mariano Crociata in pronunciamenti fatti a nome dell’intero episcopato, anche con richiami all’articolo 54 della Costituzione: “Condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse”. Queste parole del cardinale costituivano anche – a mio parere – una sconfessione indiretta dei tanti cattolici di destra che nelle ultime settimane avevano insistentemente affermato che quanto attiene al comportamento privato di un politico non costituisce problema – o comunque problema primario – per i suoi sostenitori.
Che fine fanno – nell’opinione pubblica – i “richiami espressi dalle autorità ecclesiastiche”? Quasi tutti i cattolici praticanti ne hanno “sentito parlare”: il 78%. Ma ognuno li interpreta secondo la veduta di insieme fornita dalla finestra del proprio schieramento. Tant’è che il 62% dei cattolici praticanti li ritiene “un richiamo generico alla moralità in politica” e solo il 25% li considera “una critica al comportamento di Berlusconi”. Dovremmo dunque concludere che anche la percezione di quei “richiami” sia spesso “ambigua”, nel mutevole gioco degli elementi che la compongono, come sopra avevo detto della percezione della vicenda. Nonostante quell’ambigua percezione alle pagine 31 e 32 del rapporto abbiamo dei dati che ci segnalano una buona efficacia dei richiami ecclesiastici: su cento cattolici praticanti che hanno votato Berlusconi nel 2008 ve ne sono 8 che riconoscono a quei“richiami”di aver “contribuito a fargli cambiare idea sul Premier in senso negativo”. E ce ne sono 15 al centro e 3 a sinistra e 7 “non collocati”. Dunque un’efficacia c’è, benché essa sia avvertita come insufficiente. Infatti – come si diceva – un 51% dei cattolici praticanti raggiunti dagli intervistatori di questa indagine affermano che “la Chiesa dovrebbe esprimere una critica più diretta” nei confronti di Berlusconi. Il dato è alla pagina 30. Io invece dico – a conclusione di questa rassegna – che dovremmo accontentarci della critica che gli uomini di Chiesa hanno espresso in termini generali e direi di principio, senza neanche – per lo più – nominare il Premier, pur essendo chiaro a tutti di chi narrasse la favola. Personalmente non chiedo che i vescovi dicano di più. Uscire dalla valutazione complessa e bilanciata che è stata fornita ed esprimere un verdetto a tutto tondo, verrebbe a comportare un atto di schieramento, un prendere partito. Credo che questo gli uomini di Chiesa non lo debbano fare. Anche in questo caso sono tra coloro che ritengono che l’intervento della Chiesa in politica debba diminuire e non crescere, e che questo debba avvenire non solo in tempi ordinari ma anche in risposta all’una o all’altra situazione di emergenza. www.luigiaccattoli.it
mondo
pagina 10 • 22 febbraio 2011
Angelo Bolaffi, direttore dell’Istituto italiano di cultura in Germania, analizza il voto amministrativo nella città-stato anseatica
Un leader senza alternative «La sconfitta di Amburgo è un episodio locale che non ha ripercussioni nazionali» di Franco Insardà
ROMA. Un simile risultato per la Cdu della cancelliera Angela Merkel non se lo aspettava nessuno. Lei prima di tutti tanto da commentare: «È stata una dura sconfitta». Il suo partito ha perso il primo appuntamento elettorale del 2011, quello nella città-Land di Amburgo, in modo netto a favore della Spd che ha conquistato la maggioranza, passando dal 34,1 al 48,4, mentre i centristi sono scesi dal 42,6 al 21 per cento. I Verdi, fanno segnare una piccola crescita, restando sostanzialmente ferma al risultato di due anni fa. Amburgo torna così alla Spd che potrà governare con una maggioranza assoluta.
Come quasi tutti gli analisti Angelo Bolaffi, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino e profondo conoscitore del mondo tedesco, non si aspettava una sconfitta così ampia. Anche se sottolinea: «Certamente si prevedeva che l’Spd, dopo la crisi del governo Cdu-Verdi e con un candidato molto forte, sarebbe stato il primo partito. La sorpresa sta, invece, nell’aver ottenuto la maggioranza assoluta. Non va dimenticato che si tratta, comun-
que, di elezioni amministrative nelle quali influiscono molto le componenti locali e Amburgo ha avuto, tradizionalmente, dei grandi sindaci e personalità socialdemocratiche come Helmut Schmidt». La Spd torna così al potere ad Amburgo dopo 10 anni. Nel 2001, infatti, venne battuta dalla Cdu e dovette lasciare dopo avere governato la città anseatica per 44 anni di fila. Un voto, quello di Amburgo, determinato, secondo il direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino, «dal ceto medio urbano-col-
«Per la Merkel ha pesato molto l’alleanza con i liberali, da lei voluta fortemente, che non porta voti al governo e conferma quanto i tedeschi amassero di più la grosse Koalition» to e dalle donne che hanno pesato molto».
Una sconfitta che, secondo molti quotidiani tedeschi, renderà più difficile il cammino di Angela Merkel in questa legislatura, facendo tramontare anche il sogno di vedere l’alleanza Cdu-Verdi come un possibile modello da esportare a li-
vello nazionale. Il risultato di Amburgo, infatti, fa perdere alla Cdu altri tre seggi nella camera alta del Parlamento e, cosi la coalizione Cdu-Fdp (liberali) che governa la Germania, scende da 34 a 31 seggi. Nella camera alta i seggi sono in totale 69 e la maggioranza assoluta richiede 35 seggi. Nei fatti la coalizione governativa accen-
tua la sua posizione di minoranza, non avrà inoltre nessun forza per modificare leggi costituzionali dove occore la maggioranza qualificata, pari a 46 voti. Intanto nei prossimi mesi sono in programma altri importanti appuntamenti elettorali in tre regioni: la Sassonia-Anhalt il 20 marzo, il Baden-Wuerttemberg il 27 marzo
e il Meckleburgo Pomerania Occidentale il 4 settembre. Senza dimenticare la perdita del Nord Reno-Westfalia nel maggio 2010.
Non la pensa così Bolaffi: «In Germania non accade come in Italia: le elezioni amministrative hanno un’importanza locale. Sono regioni molto differenti
Nel biennio Berlino crescerà meno di quanto ha fatto nel 2010. E non basterà più il pareggio di bilancio per spingere l’export
Achtung, la Locomotiva sta per rallentare ROMA. La buona notizia è che quest’anno il deficit/Pil scenderà al 2 per cento. La cattiva è che la crescita non supererà il 2,3 nel 2011 e l’1,8 nel 2012. E in queste due percentuali c’è tutta la dicotomia di una Germania inflessibile custode del rigore e motore (diesel) di un’Europa sempre più indolente. Grandi commesse conquistate dai campioni nazionali, un welfare riformato da Schröder per eliminare le sacche di parassitismo, gli aiuti alle imprese per competere con chi fa dumping, questo meccanismo ben oleato non sembra bastare più. A dicembre gli ordinativi hanno segnato un calo del 3,4 per cento, la produzione industriale ha mostrato un calo dell’1,5. E di fronte a tutto questo, al timore che anche nella Locomotiva d’Europa il
di Francesco Pacifico rimbalzo sia finito, che cosa sarà mai vedere Angela Merkel lasciare alla Spd la città Stato di Amburgo e il tentativo di far governare Cdu e Grünen?Eccola ieri attaccare i Verdi, che sono «sono contrari a importanti progetti sul futuro. Le coalizioni con loro a livello federale sono folli. E non sono più facili a livello regionale».
Nel 2010 il prodotto interno della Germania è salito tra il 3,4 e il 3,6 per cento. Dodici mesi prima era crollato di cinque punti. Un balzo vorticoso soprattutto grazie alle riforme sociali di Schröder, con i famosi tagli ai finti sussidi del pacchetto Hart IV, che fecero emergere 5 milioni di disoccupati veri.
Il centrostudi della nostra Confindustria ha calcolato che quel processo ha fatto aumentare la produttività nel periodo 2003-2007 del 5,3 per cento all’anno, anche perché ha permesso un calo del costo del lavoro per unità di prodotto del 3,1. È per questo che le esportazioni tedesche sono salite del 18,5 per cento tra il 2009 e il 2010, portando a un’eccedenza della bilancia commerciale pari a 154,3 miliardi di euro. Di conseguenza è il futuro (per quanto prossimo) che preoccupa, non il presente. Ieri il centro studi di Monaco Ifo ha annunciato che l’indice che misura le aspettative sul breve termine delle imprese ha toccato il picco storico dalla riunificazione, raggiungendo quota
111,2 punti. Quasi un punto in più rispetto a gennaio. E questo ottimismo si respira nel settore manifatturiero ( da 27,7 a 29,4 punti) come nel commercio all’ingrosso (da 17,4 a 23,3) o nei servizi (da 28 a 33 punti). Più in generale, spiegano dalla Baviera, prevedono performance migliori tutti quelle realtà «che si attendono una forte domanda dall’estero». Però se si guardano le considerazioni sul futuro, allora le aziende tedesche si mostrano meno ottimistiche circa lo sviluppo dei loro business nei prossimi sei mesi, con l’indice generale che si allontana dal record di 111,2 punti. La domanda, allora, diventa se il sistema ha benzina sufficiente per mantenere questi livelli di ripresa. E la risposta che si dà il governo è negativa.
mondo voti al governo e conferma quanto i tedeschi amassero di più la grosse Koalition».
Un momento delicato per la Merkel e per il suo modo di fare politica? «È il suo modo di governare - continua Bolaffi molto determinato che le deriva dalla vecchia scuola democristiana e dal suo maestro Helmuth Khol che, non sembrava prendere delle decisioni, ma alla fine vinceva e imponeva le A fianco, Angela Merkel e Olaf Scholz, nuovo borgomastro di Amburgo. A sinistra, Angelo Bolaffi; sotto: la sede della Volkswagen
da Amburgo che è una città-stato, dove l’elemento urbano è determinante rispetto ai lander formati da una città importante e dalla campagna. Sicuramente le prossime elezioni saranno importanti, ma non modificheranno il voto delle politiche.
Per l’Spd si tratta di una boccata d’ossigeno e dimostra
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sue scelte. Un sistema differente dal decisionismo di Gerhard Schröder, ma la Merkel è molto amata in patria e rispettata in tutto il mondo. La cancelliera, da buon allieva di Kohl, vorrà rimanere al governo il più a lungo possibile per battere il suo maestro e, tra l’altro, non vedo chi possa essere il suo antagonista in grado di batterla».
Il risultato di Amburgo, secondo il professor Bolaffi potrebbe essere letto come «una sorta di risarcimento che l’Spd ha avuto dall’elettorato che, alle scorse politiche, lo aveva fortemente penalizzato per avere applicato le riforme economiche volute dal cancelliere Schröder. Quelle
come sia importante avere il candidato giusto, dal momento che la crisi dei socialdemocratici è legata soprattutto alla mancanza di leader. Questo risultato è un segnale che frena quello che sembrava un declino irreversibile dell’Spd. Per la Merkel ha pesato molto l’alleanza con i liberali, da lei voluta fortemente, che non porta
Stanno diminuendo gli ordinativi dalla Cina e il peso del debito toglie incentivi alle imprese per fare ricerca
Ieri il ministero delle Finanze guidato dal Wolfgang Schäuble ha annunciato che per il 2011 si stima una crescita del Pil del 2,3 per cento. Dodici mesi dopo non si andrebbe oltre il +1,8. Nel mensile bollettino si legge che «gli attuali dati congiunturali indicano un inizio favorevole dell’economia tedesca per quest’anno». Ma questo non basta a respingere i rischi che arrivano dall’esterno. «Un continuo sensibile aumento dei prezzi delle materie prime», si osserva, «frenerebbe ad esempio lo sviluppo dell’economia, mentre vi sono possibilità di sviluppo soprattutto a livello dell’economia interna». I rincari dei prezzi rischiano di rendere la produzione tedesca meno concorrenziale, nonostante l’alto livello tecnologico. A meno che non si alzi la quantità di incentivi alle imprese. Ed è un monte colossale di denaro pubblico che sarà anche riversato all’industria sotto forma di aiuti alla ricerca, ma che vale circa 40 miliardi di euro. Quasi dieci volte in più di quanto destina il governo italiano alle sue
aziende. Soltanto la banca federale Kfw (e omologa della nostra Cassa depositi e prestiti ) stanzia oltre 100 miliardi di euro per rafforzare i prestiti concedibili. Ma per tutto questo servono soldi. E non basta soltanto portare il deficit/Pil al 2 per cento come si dovrebbe fare a fine anno.
Alla Germania questa crisi è costata moltissimo. Quando Giulio Tremonti parla di economie dopate, si riferisce al fatto che governo come quelli di Berlino hanno messo in campo moneta sonante per tenere in piedi la domanda interna. E non ci sono soltanto i 6,5 miliardi di euro concesso dopo tante resistenze dalla Merkel al settore dell’auto. In questa lista ci sono deduzioni per le spese mediche fino a 1.200 euro, un bonus bebè di 100 euro a bambino, la riduzione dello 0,6 per cento del contributo per l’assicurazione sanitaria, “spiccioli” vari per costruire scuole e strade o investire sulla banda larga. Questi interventi, che finiscono in gran parte a pesare sul deficit, sono stati
riforme sono le stesse che hanno consentito oggi alla Germania la ripresa economica. L’Spd ha, quindi, pagato amaramente delle scelte giuste, ma impopolari e i tedeschi, forse, se ne stanno rendendo conto». La Merkel, infatti, ha impostato la sua politica economica sul rigore di bilancio, tagli allo stato sociale, liberalizzazioni moderazione salariale e surplus commerciale. Senza dimenticare l’aumento dell’età pensionabile e il divieto di indicizzare gli stipendi al costo della vita. Forse sul voto ha inciso, anche lo slittamento della diminuzione delle tasse,a fronte degli aiuti concessi alle banche, la perdita del potere d’acquisto interno e le aperture sugli aiuti ai paesi in crisi, come Grecia e Irlanda.
Dall’esito del voto di Amburgo emerge la figura di Olaf Scholz, che dopo una vittoria così schiacciante potrebbe vedere aumentare le probabilità di candidarsi contro la Merkel alle prossime elezioni federali del 2013. «Il vincitore delle elezioni ad Amburgo è l’ex ministro del Lavoro del governo centrale. Si tratta di un personaggio forte percepito dall’elettorato come un centrista, lontano dalle pulsioni operaiste e dal sindacato, espressione di un ceto moderato». Intanto nel panorama economico si prevede una crescita nel 2011 e nel 2011 più lenta rispetto a quella dell’anno scorso, ma per Angelo Bolaffi questo potrebbe avere delle ripercussioni «a livello europeo, ma non tedesco. Certamente se la Germania tira poco è un pessimo segnale per l’economia europea e soprattutto per quella italiana. Uno dei pochi settori nei quali il nostro sistema dà dei punti a quello tedesco è quello bancario che ha dimostrato una maggiore solidità rispetto a quello della Germania».
compensati dal surplus commerciale di 154,3 miliardi di euro. Quindi cosa succederà se nei prossimi mesi caleranno gli ordinativi? Ma c’è un’altra mina sul futuro delle politiche più espansive. Ieri il ministro delle Finanze ha annunciato che l’indebitamento pubblico tedesco è aumentato nel 2010 del 18 per cento. Stato federale, lander e comuni hanno registrato un passivo di quasi 2mila miliardi di euro. Un record dovuto soprattutto ai salvataggi delle banche. Nazionalizzare realtà decotte come la Hypo Real Estate e o WestLB è costato oltre 230 miliardi di euro. A minori commesse segue minore gettito. E con meno risorse pubbliche da spendere è più difficile aiutare la manifattura tedesca. Non caso la Bundesbank ha detto di di guardare per il prossimo biennio «più al risveglio dei consumi interni» che alla crescita delle esportazioni. Peccato che i tedeschi da almeno un decennio siano restii a spendere, dopo aver scoperto di essere indebitati quasi quanto gli americani.
quadrante
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Gas, Kiev chiede aiuto alla Ue
La Francia dice sì al Pentagono
KIEV. L’Ucraina insiste perché
PARIGI. Dopo l’Air Sarko One,
l’Ue prenda posizione sull’idea di un consorzio a tre, insieme con Mosca, sulla rimessa a nuovo dei gasdotti che dalla Russia portano in Europa. Dopo gli appelli del presidente Viktor Yanukovich e del premier Mykola Azarov, è stato il vice premier Sergei Tigipko a rinnovare l’invito all’Europa e ai vicini russi, dicendo che «la modernizzazione del sistema è la soluzione più facile ed economica e potrebbe soddisfare tutti». Mosca, però, preferisce l’idea di un consorzio tra Gazprom e l’ucraina Naftogaz che si occupi anche della modernizzazione delle rete. E ieri il numero uno del colosso russo, Alexey Miller, ha esortato Kiev a non perdere tempo. La Ue, invece, latita.
la Francia avrà presto anche il suo Pentagono. È infatti stato assegnato alla fine della settimana scorsa l’appalto per la costruzione del nuovo maxi-quartier generale della Difesa transalpina, progetto da oltre 600 milioni di euro. Le cifre parlano da sole: un cantiere da oltre 16,5 ettari alle porte di Parigi, non lontano dal Parco delle esposizioni e a pochi metri dalla Senna, in cui circa 2.500 persone costruiranno due edifici da 130 mila e 90 mila metri cubi che potranno ospitare oltre mille dipendenti del ministero. Intorno, un grande parco alberato e numerose strutture di servizio, come asili, spazi sportivi e una piscina da 25 metri che sarà aperta anche al pubblico.
Irlanda, la rivincita di Gerry Adams DUBLINO. La crisi economica si è dimostrata mortale in Irlanda per il partito di governo Fianna Fail, ma per gli indipendentisti dello Sinn Fein la rabbia potrebbe essere la chiave del successo. Dopo 80 anni passati quasi sempre al potere, il Fianna Fail si appresta alla sconfitta alle urne, dove i cittadini lo puniranno per la disastrosa situazione attuale. Invece, lo Sinn Fein di Gerry Adams si prepara a sfruttare a suo favore il malcontento degli irlandesi nei confronti del piano approntato dalla Ue e dall’Fmi, che li costringerà ad anni di austerity forzata. Le elezioni si terranno il 25 febbraio e Gerry Adams, che non è il favorito, sta però salendo vertiginosamente nei sondaggi. Adams era contrario al salvataggio del Fmi.
Oggi la città dell’Illinois vota il nuovo sindaco. Il candidato democratico è al 50% e ha dalla sua un testimonial d’eccezione
Chicago, la corsa di Rahmbo Rahm Emanuel, ex Chief of Staff di Obama, è il superfavorito di Maurizio Stefanini
stato un decisivo artefice dell’arrivo del primo nero alla Casa Bianca; adesso è riuscito a superare un cavilloso fuoco di sbarramento che gli avevano frapposto e potrà così correre per prendere l’eredità del più popolare sindaco degli Stati Uniti proprio nella città da cui Barack Obama si è proiettato sulla scena politica. In attesa di battere a sua volta un primato storico e diventare il primo presidente ebreo? Nato proprio a Chicago il 29 novembre 1959, vaga rassomiglianza con George Clooney, Rahm Israel Emanuel esprime in pieno fin nel suo nome la sua appartenenza religiosa e culturale, e suo padre Benjamin è nato addirittura a Gerusalemme. Uniti dall’ebraicità convinta, però, i suoi genitori presentavano un curioso contrasto di pedrigree politico. Il dottor Benjamin Emanuel, medico pediatra, al tempo della guerra d’indipendenza israeliana contro inglesi e arabi combattè nell’Irgun: il gruppo della destra nazionalista di Menahehem Begin. Mamma Marsha, Marsha Smulevitz per la precisione, era invece figlia di un sindacalista, e prima di diventare psichiatra era un’attivista per i diritti civili. Però per un po’ aveva anche gestito un club di rock and roll. Se dunque uno dei fratelli di Rahm ha seguito il versante medico della vocazione familiare diventando oncologo, un altro è invece andato per il versante spettacolare, e lavora a Hollywood. Quasi ovvio che Rahm, dopo aver peraltro preso un diploma in una scuola di danza ed aver anche ottenuto una laurea in Arti Liberali e un Master in Comunicazioone, si prendesse il terzo residuo filone, dandosi alla politica. A sinistra, come la mamma.
Per chi dubita dell’importanza della politica di Chicago a livello nazionale, basti ricordare che Obama era senatore dall’Illinois prima di essere eletto alla Casa Bianca. Se dovesse conquistare al primo turno la maggioranza dei voti, Emanuel verrebbe subito eletto sindaco, altrimenti il ballottaggio è previsto per il 5 aprile
È
Dopo aver lavorato nel 1984 nello staff del democratico Paul Simon per la sua elezione al Senato, essere stato nel 1988 direttore nazionale del comitato per la campagna democratica per il Congresso e essere stato nel 1989 consigliere e capo della raccolta fondi per Ri-
chard M. Daley nella vittoriosa campagna per il sindaco di Chicago, però, nel 1991 piantò tutto per andare come suo padre a combattere per la difesa di Israele, minacciato dai missili di Saddam. Anche se poi, in concreto, non indossò alcuna divisa, ma fu schierato tra il personale civile addetto alla manutenzione dei materiali. Il suo decollo iniziò al ritorno. In particolare, divenne capo del comitato finanziario per le primarie democratiche da parte di Bill Clinton: all’epoca, un governatore dell’Arkansas potente a livello locale, ma di non particolare notorietà in campo nazionale. Rahm insistette molto sul dedicare più tempo alla raccolta fondi che alla campagna eletto-
rale vera e propria, e l’ingresso di Clinton alla Casa Bianca dimostrò che aveva avuto ragione.
A 33 anni divenne dunque White House Chief of Staff: capo di gabinetto della Casa Bianca. Nominato direttamente dal Presidente, il White House Chief of Staff dirige l’intero staff al servizio dell’uomo più potente del mondo, di cui è uno dei più importanti consiglieri. Rahm ci rimase cinque anni, guadagnandosi per la sua aggressività il soprannome di “Rahmbo”. Famosa rimase una scena dopo la vittoriosa riconferma del 1996, quando si mise a vibrare coltellate sul tavolo precedendo ogni colpo dal nome di un “nemico”, e facendolo se-
guire dal grido “dead!”. “Morto!”. Ma probabilmente per non sentirsi dare a sua volta del cadavere politico l’anno dello scandalo Lewinsky preferì dare le dimissioni, mettendosi a lavorare per una Banca d’Affari. Il ritorno in politica è in effetti nel 2002, alla scadenza del mandato di Clinton. Approfitta infatti che Rod Blagojevich per diventare governatore ha deciso di lasciare il suo seggio di Rappresentante per il quinto distretto dell’Illinois, per candidarvisi e venire eletto. E per tutta l’epoca di George W. Bush resta dunque membro democratico della Camera: un democratico moderato, che vota a favore dell’intervento in Iraq, ma rimprovera il Presidente di non essere riuscito a spiegarlo.
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Attacco kamikaze in Afghanistan, decine di morti e feriti a Kunduz KUNDUZ. Un attentatore suicida si è infiltrato ieri nell’edificio del governo del distretto di Imam Sahib (provincia settentrionale afghana di Kunduz), facendosi esplodere davanti ad un ufficio dove erano in fila moltissime persone con un bilancio, secondo Tolo Tv, di almeno 32 morti e 40 feriti, fra cui molte donne e bambini. Il cruento attentato conferma che è in atto un’offensiva invernale di gruppi antigovernativi che negli ultimi dieci giorni hanno causato oltre 110 morti nelle province di Khost, Nangarhar, Kandahar, Kabul, ed ora Kunduz. Offensiva probabilmente dovuta al fatto che tutta l’attenzione internazionale è al momento rivolta al Medioriente. Il distretto di Imam Sahib colpito dal kamikaze è la terra natale di Gulbuddin Hekmatyar, capo di Hezb-e-Islami, uno dei tre movimenti armati che si oppongono al governo di Hamid Karzai e alle forze militari straniere che lo so-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
stengono. Hekmatyar gode di grande popolarità nella zona e anche l’attuale capo del distretto, Ayub Haqyar, è un membro di Hezb-e-Islami. La provincia di Kunduz, in passato considerata fra le più calme del paese, è stata investita recentemente dagli insorti che vi hanno moltiplicato gli attentati. Essa riveste una importanza strategica come punto di collegamento fra l’Afghanistan e le nazioni dell’Asia centrale, in particolare il Tagikistan.
Da sinsitra, William M. Daley, Barack Obama e Richard M. Daley. In apertura: Rahm Israel Emanuel
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
L’approccio centrista e la fama di abile organizzatore e raccoglitore di fondi gli propiziano nel 2005 l’elezione a presidente del Democratic Congressional Campaign Committee, che gestisce le campagne elettorali. La vittoria alle elezioni del 2006, oltre 30 rappresentanti in più, favorisce poi l’anno dopo la sua ascesa a capogruppo democratico alla Camera. E per i suoi trascorsi con Bill Clinton è subito favorevole alla candidatura di Hillary. Quando però a sfidare Hillary scende in campo Barack Obama, senatore del suo stesso Stato, si sfila, e proclama la sua neutralità in attesa dell’esito delle primarie. Nel 2008 di ricandida e viene rieletto, ma una volta alla Casa Bianca Obama gli dice che conterebbe sulla sua esperienza per farlo tornare capo di Gabinetto. E lui allora accetta, dando le dimissioni da Rappresentante.
In particolare, dai tempi di Clinton gli è rimasto sul gozzo di non essere riuscito a far approvare una riforma sanitaria, e così è lui uno dei protagonisti principali di una delle scelte più importanti di Obama. Ma quella battaglia non resta senza cicatrici. Contestato ormai da moltissima gente, Rahmbo coglie l’occasione della non ricandidatura di quel Richard M. Daley per il quale ha già lavorato, che è considerato uno dei migliori cinque sindaci degli Statio Uniti, e il cui fratello William prende d’altronde
Già uomo forte di Bill Clinton, potrebbe succedere a una delle più importanti dinastie politiche del paese, quella dei Daley
Lo stesso accanimento dei Rahmstoppers, come sono ribattezzati i personaggi del mondo dell’economia e della finanza vicini al partito repubblicano che hanno deciso di bloccare a tutti i costi la sua corsa, sembra una riprova in più che solo un cavillo potrà arrestare la sua marcia trionfale presso l’elettorato. Un cavillo, oltretutto, che se fosse stato utilizzato in passato, nemmeno Abraham Lincoln o Barack Obama avrebbero potuto concorrere a cariche pubbliche in Illinois, hanno scritto in una lettera aperta esponenti della società civile di Chicago.
il suo posto alla Casa Bianca. Ed è a quel punto che nasce il caso Emanuel. A sorpresa, infatti, la Corte d’Appello dell’Illinois decide di escluderlo dal voto del 22 febbraio. Emanuel, sostiene infatti la Corte, non ha vissuto a Chicago nell’anno precedente le elezioni, come da requisito previsto dalla legge. Essendo infatti rappresentante e consigliere di Obama, ha vissuto con tutta la famiglia per due anni a Washington e ha affittato il suo appartamento in città. Una decisione presa con due voti favorevoli e uno contrario, che ribalta l’ordinanza della Commissione elettorale di Chicago e una sentenza di primo grado entrambe favorevoli a Emanuel. Ma Rahmbo dà battaglia, con un ricorso che intanto permette provvisoriamente al suo nome di restare nelle liste.
Il ricorso è stato infine accettato dalla Corte Suprema dell’Illinois. Non ha vissuto a Chicago per un anno intero prima delle elezioni, hanno convenuto i giudici; ma ha sempre mantenuto una casa di proprietà e la residenza a Chicago, ed ha pure lì sempre votato e pagato le tasse in riva al Lago Michigan. 7 voti favorevoli, nessuno contrario, e anche un rimporovero agli altri giudici per il modo in cui avevano “stracciato” 150 anni di giurisprudenza sul diritto di un cittadino dell’Illinois di poter partecipare alla vita pubblica dello Stato pur avendolo lasciato temporaneamente per un periodo di tempo. La vittoria di Rahmbo appare dunque ormai sicura. E rappresenterebbe per al’Amministrazione Obama un importante segnale psicologico di ripresa dopo il disastro delle Primarie.
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cultura
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Fino al 6 marzo al Teatro dei Comici di Roma l’attrice racconta il toccante monologo dedicato alla mamma
«Ecco Ninetta, mia madre» «Aveva dimenticato nomi e volti. Non parlava più, ma cantava». Lina Sastri porta in scena la storia di Anna: «La donna più straordinaria che abbia mai conosciuto» di Francesco Lo Dico n flusso dell’anima, scritto di getto, senza correzioni, qualche tempo dopo la morte di mia madre. In parte di ispirazione autobiografica, come tutti gli scritti di chi scrittore non è di professione, un tributo alla donna più bella e straordinaria che io abbia mai conosciuto, Anna, detta Ninetta, che era mia madre». Non ci sono parole più intense sincere che quelle di Lina Sastri, per presentare La casa di Ninetta.
«U
Nato a partire da un piccolo libro edito da Marsilio, il racconto dell’attrice partenopea doveva restare nella dimensione privata. «Era uno
sfogo, era solo la voglia di stare vicina a mia madre, nella maniera totale e solitaria che solo lo scrivere sa dare a chi ha bisogno di ricordare», spiega la Sastri nel presentare quello che invece è diventato anche uno spettacolo teatrale di grande presa emotiva allestito già lo scorso anno al Piccolo Eliseo e un dvd edito da RaiTrade proprio in questi giorni. Un’esperienza che la critica dotta definirebbe catartica, quella che Lina si appresta a rivivere a Roma, dove la La casa di Ninetta riapre le porte dal 16 febbraio al 6 marzo nell’incantevole cornice del Teatro dei Comici di piazza Santa Chiara. «Avevo pudore e imbarazzo nel descriver-
mi pubblicamente e pensavo che la storia potesse avere una valenza più segreta e vera se letta in privato», confessa l’attrice. «È difficile per un’attrice stare sul palco e dire i fatti suoi senza recitare – dice una Sastri commossa – Rischi di cadere nella debolezza della recitazione quando c’è qualcuno giù in platea che ti guarda».
Ma l’esitazione ha infine capitolato di fronte all’«incredibile ostinazione» di Ninetta. «È una donna terribile, continua a essere presente nelle nostre vite anche dopo morta. Di solito portare in teatro un’opera richiede immani fatiche e continue mediazioni. Stavolta no, è come se mamma Ninetta avesse fatto tutto da sola, decisa come nessuno ad andare in scena». Divertita, l’attrice racconta che La casa di Ninetta è diventata anche un ristorante a Napoli. «Lo gestisce mio fratello – spiega Lina – ed è il posto dove io e lui possiamo incontrarci tutte le volte che torno a casa». Quella di Ninetta, Lina l’aveva
comprata nei quartieri spagno- anche quelle «rotte e smembrali quando mamma si era am- te» sono famiglie. Sanno momalata, «crocifissa da una ma- strare meglio di tutte la forza lattia che non perdona, che dei legami» umilia il corpo e la mente, come l’Alzheimer». Non parlava più E poi a incombere su tutto coNinetta, ormai da un pezzo. Ma me una spietata tagliola che mai aveva smesso di cantare, squarcia il cuore, e fa vera ogni nonostante il male, tant’è che la cosa, c’è la malattia, l’avanzare sua voce accompagna i diversi degli anni e la lunga marcia capitoli in cui suddiviso la ver- della solitudine, l’amore dato e sione della pièce in dvd. «La li- poi reso. La sua mancanza che lo ingrandisce: bertà di Ninetta è «perché sentirne quella della sua la mancanza vuol musica, una leggedire che ce l’hai rezza che io non dentro», sussurra ho» aggiunge l’attrice. Che prima Lina. Ad aiutarla a nel libro e poi nello riversarlo sul palspettacolo, non ci co, dalla vita alla porge solo l’anima scena che stavolta nuda di sua madre, è più vera del teama anche, in modo tro, è stata la regiassai intenso persta Emanuela ché del tutto invoGiordano. «Temelontario, un ritratto vo l’effetto Grande di donne partenoFratello», spiega pee sanguigne, di l’attrice, «provavo Nella foto grande, una Napoli incanpudore e imbarazuno scorcio tevole e terribile zo nel recitare di Napoli. A sinistra, insieme, di famiun’opera che non Lina Sastri. Sopra, glie forti, perché era nata con il “La casa di Ninetta”
cultura pensiero di essere mostrata. C’era l’enorme pericolo di cadere nella recitazione». Ma il corpo a corpo con il paradosso dell’attore, quello di mostrarsi nudi, spogli dei mille abiti rubati e fatti propri dagli armadi di altre vite, ha visto Lina imporsi e vincere.
Sul palco, l’attrice si espone, regala il suo dolore a piene mani facendone un sacrificio tragico che si presenta catartico sotto le sembianze di un nodo alla gola. Eppure traspare anche gioia, dalla figura di questa mamma Ninetta, donna capace di amare senza riserve, di sopravvivere in un dopoguerra che sembra il finimondo, di opporre al vento gelido dela miseria il canto quotidiano di una donna tenace. Una figura tenera e dolente, quella di Ninetta, che nell’amore per la melodia, nell’ostinata speranza che vibra nel canto, ci riporta alla mente la splendida mamma de La prima cosa bella. Il luogo prescelto dalla Sastri, dicevamo, è il Teatro dei Comici a Santa Chiara. «Il posto giusto per ricordare Ninetta, il luogo più adatto per questa piccola preghiera. Un modo per ritrovare la pace, per svelare il mistero di quella luce che aveva negli occhi che non l’ha mai abbandonata neanche quando la malattia l’ha fatta tornare bambina.
Dimenticava i volti, le vicende passate, i nomi. Aveva scordato tutto, ma le canzoni no». «La cosa più bella – spiega la Sastri – è che dopo aver letto il libro o dopo aver assistito allo spettacolo – molte persone si avvicinavano e mi parlavano di lei, pur senza averla conosciuta davvero. Mi dicevano: “Secondo me, Ninetta...”. È la conferma che lei vive ancora, non solo in me, ma attraverso me, negli altri». Un rapporto profondo, quello tra Lina e Ninetta, che porta indietro le lancette del tempo. «Sono fuggita di casa a diciassette anni – racconta a liberal la Sastri – senza studi,
al contrario, un’antica diffidenza che rifiuta la forma, anche quella dell’arte. È qualcosa che mi è rimasto dentro e che mi rende la vita più difficile e più intensa allo stesso tempo. Lo avevo fatto a scuola, il teatro, con le suore. E me ne restava un ricordo, soprattutto di odori: odore di legno e di polvere. E così, finita l’adolescenza senza averla vissuta, mi venne una violenta voglia di viverla in modo più adulto e infantile al tempo stesso. Un’adolescenza senza flirt nè compagnie nè spensieratezza. Ma più densa, più segreta. Il teatro era un sogno, non pensavo che avrei fatto
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na. «Ma di lui non posso o non voglio ricordare un aneddoto o una frase. Quando penso a De Filippo, la cosa più intensa che sento è il suo silenzio. Ricordo i suoi silenzi».
Non si possono mettere a verbale certe vite intense. Non si possono riassumere in capitoli, in schede autoconclusive e ordinate a uso e consumo di biografi. «Per me ricordare e raccontare non è un’operazione
«Quando andai via di casa – spiega Lina – mi disse che sarei stata condannata a essere una zingara. Diceva che chi viaggia non trova la felicità» senza una lira, ma con tanta voglia di fare teatro. Mamma non si opponeva al fatto che io avessi potuto fare l’attrice. Ciò che la preoccupava era il mio destino. “Sarai condannata a essere una zingara. Chi viaggia, chi si sposta sempre, non può trovare la felicità per la stada”, mi diceva. «Il teatro mi era sconosciuto. Lo consideravo una cosa da ricchi o da letterati. Perché è vero che esistono le classi, e il popolo al quale appartengo ha un suo snobismo
l’attrice, mai. Era solo una follia, una follia di libertà. Ma a giudicare dalla carriera di Lina, forse Ninetta si era sbagliata. «Nel bene e nel male il teatro mi ha dato tanto.Vivere una passione fino in fondo non significa raggiungere o non raggiungere la felicità. Significa vivere per quello che fai, e non poter fare a meno di farlo, al di là di ogni cosa». Difficile non pensare al grande Edoardo De Filippo, nel ripercorrere in un lampo la vicenda artistica di Li-
semplice – ci dice l’attrice – È qualcosa che è scritto nella mia vita. Da ragazzina, dicevano tutti che sembravo più grande, e interpretavo ruoli di donne che avevano molti più anni di quanto non ne avessi davvero. Ero oltre me stessa, in avanti e all’indietro. E se penso, mi rivedo alle volte bimba di cinque anni. Nel tempo, dentro di te, si
mischia tutto. Sei bimba, sei vecchia, sei adesso». Per la strada, per quella strada che Ninetta vedeva irta di insidie, di buche in cui era facile inciampare e farsi male, Lina ha trovato invece un lungo e importante cammino. E poi c’è la passione per il canto, per la canzone napoletana sperimentata da una Lina ancora giovanissima, nella Compagnia di Canto popolare di Roberto De Simone. E che negli anni è tornata costante in album e interpretazioni di rara intensità. Da Ninetta a Lina c’è dunque il legame invisibile del canto, come un’eco che ti entra nella pelle e risuona ogni volta con le stesse vibrazioni volatili del ricordo. Forse è proprio questa la ragione per cui La casa di Ninetta è un monologo intenso, folgorante. «L’ho scritto di getto, senza correzioni, un flusso di coscienza guidato soltanto dall’istinto. Oggi che ho vinto le titubanze nel farne prima un libro e poi uno spettacolo, mi rendo conto di che cosa sia davvero La casa di Ninetta, conclude Lina. «È un luogo magico che aspetta una preghiera».
ULTIMAPAGINA
Dopo quattro mesi di sostanziale silenzio, riappare la moglie di Liu Xiaobo: «Siamo ostaggi di Pechino»
Liu Xia, dalla Cina con di Vincenzo Faccioli Pintozzi ome recita un vecchio adagio “passata la festa, gabbato lo santo”. In questo caso, però, la festa aveva toni drammatici e il santo rischia di sparire per sempre in una galera del nord della Cina. Per lo meno, è quanto pensa la moglie del dissidente cinese Liu Xiaobo – premio Nobel per la pace 2010 – che è riuscita a tornare su internet e rompere un silenzio imposto lungo quattro mesi. Liu Xia e tutta la famiglia del Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo «si sentono miserevoli ostaggi, che nessuno può aiutare».
C
Lo ha scritto proprio lei nel corso di una conversazione online con un amico, di cui non si può garantire in maniera assoluta l’autenticità ma che secondo molti è originale. Da quattro mesi, senza alcuna giustificazione giuridica, le autorità cinesi non permettono a Liu Xia di uscire di casa; lei, i suoi genitori e i fratelli non hanno modo di comunicare fra di loro; nessuno è autorizzato a farle visita, e non ha accesso ai mezzi di comunicazione. La sua colpa è quella di aver sposato una persona che, senza alcuna forma di coercizione, è riuscita a distribuire ideali democratici in uno degli ultimi grandi regimi del pianeta. Liu Xiaobo, 55 anni, è famoso in tutto il mondo per aver redatto e distribuito Charta 08, un manifesto democratico che chiede riforme politiche e sociali al governo cinese. Dopo la pubblicazione del testo, è stato arrestato e condannato a 11 anni di reclusione per“sovversione anti-statale”. Alcuni mesi dopo, in ottobre, il Comitato per il Nobel di Oslo ha annunciato di averlo insi-
gnito del Premio per la pace: alla cerimonia di consegna la sua sedia è rimasta vuota. La famiglia del dissidente ha subito lo stesso trattamento. Liu Xia non esce di casa da quasi cinque mesi e le sue comunicazioni sono limitatissime. Dal 16 dicembre al marito è stato persino vietato qualsiasi incontro con i propri familiari, nonostante la legge cinese garantisca le visite mensili ai carcerati. La moglie è riuscita invece a contattare un amico su internet lo scorso giovedì, giorno della Lanterna (l’ultimo giorno del Capodanno lunare). Per un totale di cinque minuti di con-
nazioni non partecipassero alla cerimonia di Oslo: secondo Pechino, Liu Xiaobo è un criminale comune che incita il popolo alla sovversione tramite argomenti fasulli. Dopo aver ottenuto questo già enorme risultato, ma non essendo riuscito a impedire del tutto la premiazione, il governo cinese ha deciso di battere un’altra strada: far calare il silenzio sul dissidente, sulla sua famiglia e sulla sua opera. Ci sta riuscendo, e la conversazione online di Liu Xia lo dimostra. Ci si sarebbe aspettato altro, dal resto del mondo: pur non chiedendo appelli pubblici quotidiani,
DOLORE In una breve conversazione su internet, la donna dichiara di non avere più alcuna notizia del marito: «L’ho visto soltanto una volta»
o dimostrazioni continue simili a quelle che accompagnarono la lunga prigionia di Nelson Mandela, i politici e la società civile dell’ovest del mondo dovrebbero impegnarsi quanto meno per ottenere la liberazione di Liu Xia e della sua famiglia, colpevoli semplicemente di volere bene a una persona.
versazione, riportate dal Washington Post, Liu ha detto all’amico Hu Ping di sentirsi “miserevole” e “un ostaggio”. Ha concluso con amarezza: “Non vedo più lui [riferito al marito in galera] e credo che nessuno possa più aiutarci”. Gli amici iniziano ad avere delle serie preoccupazioni riguardo lo stato di salute mentale della donna. Ma soprattutto, voci della dissidenza cinese si dicono “indignate” per il trattamento subito dai Liu ad opera dell’Occidente: dopo un’ondata di entusiasmo mondiale, seguito all’attribuzione del Nobel, il silenzio voluto da Pechino è calato sulla loro situazione. Esercitando una potentissima moral suasion, il regime cinese è riuscito a fare in modo che diverse
E i numerosi incontri bilaterali con i dirigenti del dragone, che vengono in Europa o ne ospitano in casa i leader, potrebbero essere i palcoscenici ideali per ricordare a Pechino che non ci siamo dimenticati di come vengano valutati in patria i diritti umani. A meno che non si voglia fare loro l’ennesimo favore. Il grido di dolore lanciato da Liu Xia, chiusa in una casa pur non avendo commesso alcun crimine, deve scuotere le nostre coscienze prima che sia troppo tardi. Prima, ad esempio, che si venga a sapere che al dissidente sia stata raddoppiata la condanna per una presunta cattiva coscienza o che sua moglie entri nel turbine della pazzia. Semplicemente per aver chiesto una maggiore libertà.