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Se un po’ di sincerità

è pericolosa, molta sincerità è addirittura fatale Oscar Wilde

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 6 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nonostante promesse e rassicurazioni dell’esecutivo, non si arrestano gli sbarchi a Lampedusa

I raid aerei non bastano più Non si può fare la guerra a Gheddafi senza volerla vincere Per fermare quanto sta accadendo in Libia serve un nuovo piano. Si combatte per Brega, ma è chiaro che l’aiuto dall’aria non fermerà il Colonnello. Serve una svolta: ecco quale Ma i voti a favore sono solo 314

Il ministro e il secondo giorno da Essebsi

La Camera promuove Berlusconi. Il Colle boccia Alfano

Maroni ostaggio per dieci ore dell’esecutivo di Tunisi

Passa per la seconda volta la bugia di Stato su Ruby. Ma Napolitano gela il Guardasigilli: «Mai riforme contro la Carta» Riccardo Paradisi • pagina 10

«Ma entrare via terra è pericoloso (per ora)» L’intervento militare in Libia, dopo una prima settimana di grande efficacia, ha perso la spinta propulsiva. A 18 giorni dall’inizio dei bombardamenti, non si capisce bene come la coalizione riesca ad andare avanti. Ne parliamo con il generale Carlo Jean.

di John R. Bolton

Era davvero la nipote? Allora si deve dimettere

Franco Insardà • pagina 6

di Gabriella Mecucci

Obama deve decidere se scendere in campo Non si affida a un trans la parente di un capo di Stato

Trattativa fiume senza sbocchi. Ennesimo vertice al vetriolo fra Lega Nord e alleati del Pdl

L’uso della forza militare in Libia proclamato da Obama ha subito una fortissima ondata di critica in tutto la politica americana. È molto diffuso il disaccordo sugli obiettivi Usa di questa missione, e molti criticano il presidente per la sua iniziale esitazione ad agire.

Disordine di governo

I migranti e Parmalat

di Achille Serra

di F. D’Onofrio

La misura è colma. Il nostro Paese appare oggi più che mai paralizzato da una conflittualità permanente che la politica non smette di alimentare. In prima fila c’è un governo pronto alla lite su ogni tema per coprire così il totale vuoto politico del proprio operato.

Si vanno intensificando le vicende che riguardano di volta in volta aspetti specifici di questa o quella parte dell’attività di governo. Si è infatti visto in un passato anche recente quanto sia difficile adottare decisioni su aspetti specifici dell’attività economica.

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alle pagine 4 e 5

Parla la filosofa cattolica americana Mary Eberstadt

di Maurizio Stefanini na volta si diceva che la Patria si difende anche facendo la guardia a un bidone di benzina. Adesso, la maggioranza di governo vota in Parlamento, deputati mobilitati uno per uno via sms sul cellulare, per affermare che il presidente del Consiglio difese la Patria, con il telefonare in Questura per evitare l’arresto a quella che lui credeva essere sul serio la nipote di Mubarak. Il tutto, per far scattare un conflitto di attribuzione, che potrebbe portare alla sospensione del processo. Ma in realtà, no. Perché comunque la cosa finirà alla Corte Costituzionale, e i precedenti dell’organismo garantiscono che Berlusconi ci rimetterà le penne. Perché qui è uno dei termini del grande paradosso italiano. E se era in buona fede, ci ha messo tutti a rischio

«Dio al tempo di Facebook»

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a pagina 12 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00

La religione spiegata ai nuovi atei di Luisa Arezzo o scontro tra laici e cattolici in formato tascabile, con un eloquio leggero, volutamente destinato più alla generazione facebook che ai grandi cultori della materia? Sembra un’opera impossibile, ma Mary Eberstadt ci è riuscita. Nel suo ultimo libro Le lettere del perdente (il perdente sarebbe Dio...) la filosofa cattolica americana, research fellow

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

66 •

alla Hoover Institution della Stanford University e consulting editor di Policy Review (oltre che editorialista, fra gli altri, per Wsj, Los Angeles Times, e The Weekly Standard) riesce ad evidenziare con imbarazzante semplicità tutte le contraddizioni in cui il pensiero puramente ateo cade a contatto con il cristianesimo. a pagina 14

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30

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la crisi libica

l’editoriale Non è ancora il momento, ma bisogna pensarci

Ma inviare delle truppe non è un tabù di Osvaldo Baldacci a situazione in Libia potrebbe evolvere per via diplomatica avendo forse spinto Gheddafi a più miti consigli. Ma la situazione sul terreno sembra in una fase di stallo. Che facciamo se il quadro non evolve, e dobbiamo continuare ad assistere per un tempo indefinito ad avanzate e ritirate alterne, con città che passano di mano e i civili a farne le spese? L’obiettivo della missione non era quella di proteggere i civili? Ci sono molte riflessioni da fare, e quella alla base di tutte è: come si fa a sbloccare la situazione prima che sia troppo tardi? L’intervento di terra è un tabù? Dunque, da quello che vediamo si può temere che si vada profilando uno degli scenari peggiori, quello di una guerra civile permanente senza parti prevalenti. Questo anche perché l’intervento internazionale è stato tardivo e zoppo, permettendo a Gheddafi di prendere posizioni di vantaggio in ambito sia militare che politico. Cosa che probabilmente un intervento più limitato ma molto più tempestivo avrebbe evitato. Ieri è stato reso noto che le capacità offensive di Gheddafi sono state ridotte del 30%. Questo vuol dire che gli resta ancora un 70%. E quanto è rispetto agli insorti? È sufficiente per sgominarli nonostante gli interventi aerei e la posizione della comunità internazionale? O non è sufficiente e però basta a fermare i ribelli, creando appunto quello stallo e quel massacro prolungato che dobbiamo temere? Si capisce così che la situazione sul terreno è ancora ricca di troppe incertezze, dove le uniche cose sicure sono le stragi di civili accentuate dalla continua ripetizione di assalti alle città. In questo contesto la comunità internazionale e l’Italia con essa discutono di tutta una serie di limitazioni. Giusto limitarsi, ma forse non lo è castrarsi. La risoluzione dell’Onu vieta esplicitamente solo l’occupazione della Libia, ed è giusto così. Ma non impedisce del tutto l’eventualità di un intervento di terra, limitato nel tempo e semmai anche nella tipologia, ma non illegittimo.

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Ora non so se sia auspicabile ed opportuno un intervento di terra delle forze occidentali, ma certamente è sospetta la fretta con cui l’ipotesi viene liquidata. Questa esclusione aprioristica permette alle parti in causa, e specie agli aggressori, di farsi i propri conti e ottimizzare le proprie forze per ottenere i massimi vantaggi. Oppure spinge uno scenario in cui gli aerei si limitano a guardare dall’alto la carneficina che in terra diventa cronica. Oltre alle forze di interposizione che si schierano dopo il cessate il fuoco, l’Onu prevede anche azioni di peace-building e peace-enforcing, che sono più attive. Che sia questo ciò che adesso è necessario ed opportuno in Libia è tutto da stabilire, ma è suicida da parte della comunità internazionale privarsi a priori di una possibilità che da una parte potrebbe rivelarsi drammaticamente necessaria, e che dall’altra è un potenziale strumento di pressione sulle parti in causa. Ora, intervenire via terra sarebbe molto complesso e rischioso, ma proprio per questo chi di competenza deve cominciare a valutare le modalità e le disponibilità in caso di necessità, piuttosto che affannarsi solo a negare che si farà mai qualcosa. Il discrimine con cui decidere come agire dovrebbe essere solo l’interesse della popolazione.

il fatto Sempre più dura la battaglia per la conquista di Brega, e cresce il rischio della siccità

Un nuovo piano o vince Gheddafi

Non serve solo riconoscere il governo ribelle: le sorti del conflitto sono appese a un filo. L’Occidente ha il dovere, una volta entrato nello scontro, di fare di più per l’opposizione di Pierre Chiartano

ROMA. La guerra libica sta per diventare un vero pantano per le potenze occidentali. Gli Usa vogliono ritirare gli aerei impegnati nelle operazioni che non stanno dando i risultati voluti. La Germania storce il naso. La Turchia ha ceduto sulla Nato, ma non sopporta l’implicita leadership francese della coalizione. Ankara e Parigi hanno interessi che confliggono nella regione. Le truppe ribelli sono una brutta copia di ciò che dovrebbe essere un esercito in grado di defenestrare Gheddafi. E stando alle notizie che arrivano, anche le operazioni in mare e per aria non sono coerenti. Unità navali Nato avrebbero infatti fermato diverse imbarcazioni dei ribelli, cariche d’armi e aiuti umanitari, partite da Bengasi e dirette a Misurata. Lo ha constatato l’inviato dell’Ansa su una delle imbarcazioni, in contatto radio con le altre. Anche se l’Alleanza atlantica non avrebbe riscontrato «finora alcuna violazione dell’embargo sulle armi» alla Libia. Ha reso noto, sempre ieri, il generale Mark van Uhm, capo delle operazioni alleate, in un briefing con i giornalisti, precisando che da quando l’Alleanza ha assunto il comando dell’operazione Unified Protector, il 31 marzo scorso, 76 navi sono state controllate. Di queste, 28 solo lunedì. Al momento, alla missione partecipano 18 tra navi e sottomarini, con il sostegno di alcuni aerei da ri-

cognizione. E le azioni aeree, al momento, non sono ancora d’appoggio a quelle di terra, ma seguono un ruolino indipendente.Servirebbero degli ufficiali di collegamento sul campo per il coordinamento aria-terra. Anche se dal 19 marzo a ieri le incursioni aeree della Nato hanno distrutto il 30 per cento delle capacità militari delle forze armate di Tripoli, fanno sapere dal quartier generale dell’Alleanza. Mentre gli aerei della Nato sono tornati a colpire a Brega.

Dopo l’allarme lanciato da Medici senza frontiere è ancora grave la situazione umanitaria di Misurata città costiera che sta sostenendo da settimane l’assedio dei lealisti. Intanto il Pentagono ha confermato di avere ritirato gli aerei da combattimento dalle operazioni in Libia, dopo avere accettato di prorogare il proprio impegno in tal senso di 48 ore, su richiesta esplicita della Nato. A dimostrazione che il presidente Barack Obama ha non pochi problemi col Congresso. L’attenzione Usa nell’area è ora concentrata nel Golfo Persico. Anche se l’Fbi ha cominciato a interrogare libici reseidenti negli Usa, Washington ha revocato le sanzioni economiche contro l’ex ministro degli esteri libico Mussa Kussa, rifugiatosi nei giorni scorsi a Londra. La decisione è stata presa perché Kussa avrebbe fatto «una scelta giu-


la crisi libica

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l’analisi

I raid aerei? Fatti così non bastano Finora (e prima che gli Usa se ne andassero) è stato distrutto solo il 25% dell’arsenale del Raìs uesta volta li faranno davvero arrabbiare, i militari. I generali la Guerra di Libia non la volevano fare, non almeno nel modo in cui è stata scatenata, costringendoli a prendere rischi non trascurabili e a partire con ben poche forze disponibili e poi a condurre operazioni in modo incrementale, a mano a mano che aerei e navi diventavano disponibili. Ovvero il contrario di quello che si deve fare quando si dispone di una schiacciante superiorità tecnologica e numerica sull’avversario. Per di più ai militari è stata affidata una missione assolutamente circoscritta, con un mandato Onu a dir poco ridicolo (confrontatelo con i mandati relativi a Serbia, Afghanistan o Iraq). Non di meno, quello che è stato chiesto è stato realizzato. È stato chiesto di imporre una no fly zone? E la No-Fly zone c’è. È stato chiesto di proteggere la popolazione civile in alcune città chiave. Ed è stato fatto, nei limiti del possibile. Inoltre ancorché non esplicitamente richiesto, si è provveduto a scardinare il sistema di difesa aerea di Gheddafi, distruggendo la porzione “fissa” e accecando quella mobile, si è eliminata pressoché completamente l’aviazione del Raìs (cosa che non rientrava necessariamente nel concetto di No-Fly-Zone) e si è provveduto ad attaccare le forze pesanti terrestri lealiste, con particolare attenzione per artiglieria, carri armati e difese costiere, nonché le basi, i depositi di munizioni, i centri di comando di buona parte dei reparti di elite mobili. L’intelligence ritiene che circa il 25% del potenziali militare terrestre lealista sia stato eliminato. Il che è una magra consolazione per l’armata improvvisata degli insorti. Ma è un risultato straordinario considerando la pochezza numerica dei mezzi disponibili e le

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di Stranamore pastoie imposte a chi doveva pianificare e eseguire l’azione. È vero che i velivoli e le armi di oggi riescono ad essere molto più efficaci di quanto non fosse possibile nel 1991 (Prima Guerra del Golfo), nel 1999 (Guerra di Serbia), nel 2001 (attacco all’Afghanistan) e nel 2003 (Seconda Guerra del Golfo), ma non si può fare la guerra con quattro aerei e cinque navi dovendo operare in un teatro operativo enorme. Pensate a quanti aerei e navi la Nato schierò nel 1999 contro la Serbia e a quanti ne sono stati impegnati contro la Libia.

nudo il re) è poco significativo. A tutto questo si aggiunga l’obbligo di evitare assolutamente di fare vittime tra i civili e tra i “buoni”, ovvero gli insorti. E quindi… si può sparare solo a colpo sicuro o quasi. Contrariamente a quanto scritto da chi non conosce la guerra

Quelle che contano sono le missioni condotte dagli “shooters”, gli aerei che hanno sparato armamento aria-suolo: dati alla mano, i numeri sono veramente risibili

E se volete un metro ancora più preciso, basta guardare i dati relativi al numero di sortite giornaliere condotte dagli aerei della coalizione. E volendo andare al nocciolo, da questi numeri, già risibili, si deve andare a sottrarre le sortite effettuate dai velivoli di “supporto” e dai caccia impegnati a girare nei cieli libici senza poter tirare un colpo perché non c’è nessun aereo nemico in volo. Quelle che contano sono le missioni condotte dagli “shooters”, gli aerei che hanno sparato armamento aria-suolo, aggiungendo poi i missili navali da crociera. E il risultato (che è ancora coperto da segreto, probabilmente proprio per non rivelare quanto sia

sta», avendo «tagliato i legami che l’univano al regime di Gheddafi». E probabilmente essendo stato per anni il responsabile dei servizi segreti libici, avrà portato in dono un bel po’ di informazioni utili. Forse per questo gli Usa hanno deciso di revocare le sanzioni contro Kussa. Le sanzioni prevedono, tra l’altro, il congelamento dei beni del clan del rais e di alti responsabili del regime al potere in Libia, per un valore complessivo di oltre 32 miliardi di dollari. Sul fronte economico bengasino c’è qualche timido segnale. I ribelli libici contavano ieri di dare il via alla loro prima spedizione di petrolio, la prima in tre settimane. Dovrebbe aiutare a rimpinguare le loro dissanguate casse. La petroliera Equator, dovrebbe caricare il greggio nel porto orientale libico di Marsa el Hariga. Il Qatar, che ha riconosciuto il Consiglio rivoluzionario di Bengasi come governo legittimo della Libia, ha acconsentito a commercializzare il petrolio che arriva dai campi petroliferi orientali, non più sotto il controllo di Gheddafi.

moderna, si sarebbe potuto anche andare a condurre il “tank plinking”, l’eliminazione di ogni mezzo pesante di Gheddafi anche nei centri abitati impiegando cannoniere AC-130, velivoli senza pilota, aerei cacciacarro A-10. Però questi velivoli li hanno in numero sufficiente solo gli americani. E gli americani li hanno ritirati dal conflitto. Sì, gli Inglesi hanno i Tornado con i Brimstone, i Francesi i Mirage e i Rafale con gli Assm, in tanti (anche gli Italiani) hanno Jdam e Sdb e così via… però senza gli Usa i numeri sono insuf-

dati delle forze del rais. Il negoziato sulla Libia stenta a decollare, perché non c’è accordo sul futuro del Colonnello. Nella notte scorsa, il portavoce del regime di Tripoli aveva affermato che il governo era pronto a nuove elezioni e a riformare il sistema politico, ma che il colonnello doveva «restare». Il rais è brevemente riapparso in pubblico, dopo giorni di totale blackout, in imma-

ficienti. Ora però si critica l’Air/Naval Power perché non ha consentito di eliminare Gheddafi e i suoi fedeli e di sostituirlo con un nuovo governo.

Ma non si erano tutti agitati a dire che noi l’assassinio dei capi di stato non lo facciamo e che comunque non era previsto dal mandato Onu? Beh posto che non è vero, bastava dare il via libera e qualche bel tentativo di far fuori il Raìs colpendo dal cielo si sarebbe potuto effettuare. Con buone probabilità di riuscita. E, sia detto per inciso, si può anche provarci ora, tanto più visto che il regime sta perdendo pezzi e uomini e le gole profonde non mancano. Quanto al cambio di governo o al risultato “strategico”, se si picchia abbastanza duro, una campagna aerea strategica condotta contro un governo e un paese “tradizionale”, come per alcuni aspetti è la Libia di Gheddafi, può dare i risultati desiderati. Lo si è visto nel 1991 contro l’Iraq, nel 1999 contro la Serbia, nel 2001 in Afghanistan. Andiamoci a rileggere la “dottrina Weinberger”: prima di andare in guerra occorre valutare accuratamente la situazione ed avere il consenso politico e dell’opinione pubblica. L’obiettivo che si vuole raggiungere deve essere ben definito e militarmente conseguibile. Ai generali devono essere assegnate le risorse necessarie per raggiungere l’obiettivo. Ai militari deve essere dato il tempo e la libertà di azione per combattere la guerra. Vi pare che contro la Libia si sia proceduto in questo modo? Appunto. E poi non stupitevi di quel che (non) accade. Rovesciando un aforisma di Clemenceau… la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici.

poli «un cessate il fuoco immediato» e una «trasformazione politica». Al premier Recep Erdogan non resterà che barcamenarsi tra Tripoli e Bengasi, visto che il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico dovrebbe inviare dei propri rappresentanti in Turchia «nei prossimi giorni». Un altro segnale verso una soluzione che molti temono: la divisione in due della Libia. Ma è ancora presto per fasciarsi la testa. Sempre nel Paese anatolico è giunta ieri a Smirne una nave turca con a bordo 321 feriti libici prelevati a Bengasi e Misurata: lo ha reso noto l’agenzia di stampa Anadolou.

Le truppe del colonnello hanno cambiato tattica: i mezzi corazzati vengono posizionati in zone urbane e difesi da scudi umani, mentre i mezzi leggeri sono mandati in prima linea

Continuano intanto i combattimenti, mentre arrancano gli sforzi diplomatici per arrivare a un cessate il fuoco. Il fronte bellico è ancora fermo a Brega, dove da quasi una settimana il vantaggio di forza delle truppe lealiste viene sistematicamente annullato dagli attacchi aerei Nato. Ieri, sono stati distrutti dai caccia due blin-

gini trasmesse dalla la tv di Stato. Il regime di Tripoli ha anche criticato il governo italiano. Roma avrebbe fatto scelte «sbagliate», anche «per gli interessi della nazione». Ma ormai poco importa perché gli errori si collezionano: le armi si consegnano senza annunci, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri. Le rivolte non si alimentano prima del tempo, come probabilmente ha fatto la Francia. Il portavoce lealista Ibrahim Mussa ha espresso naturalmente «rammarico» per la decisione dell’Italia di riconoscere Bengasi come unico interlocutore libico. A dire il vero il governo di Tripoli si permette anche di mandare in giro per il Mediterraneo il viceministro degli Esteri. Abdelati Laabidi è infatti giunto ieri ad Ankara. La Turchia ha chiesto al governo di Tri-

E Misurata è la «priorità numero uno» della Nato: lo ha riferito il responsabile delle operazioni congiunte dell’Alleanza, generale van Uhm che ha anche denunciato l’utilizzo di «scudi umani» da parte delle truppe di Gheddafi. «Cercano di nascondere e di disseminare i loro mezzi blindati» nel tentativo di impedire alle forze Nato di colpirli. Le truppe governative avrebbero infatti «cambiato tattica» schierando in prima linea veicoli leggeri e relegando carri armati e armi pesanti «in zone urbane e spesso difesi da scudi umani». E anche il petrolio ha ripreso a salire, anche se con dinamiche “misteriose”: il brent ha sfondato a Londra i 122 dollari al barile, mentre il West Texas è calato di 40 centesimi a 108 dollari.


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la crisi libica

La “responsabilità di proteggere” i civili è un vecchio trucco morale. L’opinione dell’ex ambasciatore statunitense all’Onu

L’ipocrisia umanitaria

L’intervento americano in Libia è arrivato tardi e con motivi che poco hanno a che fare con gli interessi della nazione. Ma, a questo punto, Obama deve decidere se siamo o meno in guerra: parlare di altro è soltanto un inganno al popolo di John R. Bolton uso della forza militare in Libia proclamato dal presidente Obama ha subito una fortissima ondata di critica in tutto lo spettro politico americano. È molto diffuso il disaccordo sugli obiettivi statunitensi di questa missione, e molti criticano il presidente per la sua iniziale esitazione ad agire; la sua incoerenza nel definire l’intervento e la sua inettitudine nell’ottenere il sostegno politico interno necessario. La ragione migliore per l’uso della forza è la rimozione di Muammar Gheddafi. Anche questo obiettivo ha le sue complicazioni, non ultima la domanda su quale regime succederà al Colonnello. Me le dichiarazioni del dittatore e la sua capacità conclamata di tornare al terrorismo internazionale giustificano in pieno la sua rimozione dalla scena. Ma non è questo che il nostro presidente ha ordinato alle sue truppe. Il suo impegno articolato e razionale, espresso nella Risoluzione

L’

1973 del Consiglio di Sicurezza Onu, parla in realtà di “proteggere i civili libici”. Mentre questa sembra più che altra una pia intenzione, molti si chiedono come si possa realizzare questo scopo senza la rimozione di Gheddafi. Quelli di Obama sono, nei fatti, obiettivi ideologici e non geopolitica. Come ha detto lui stesso in Cile lo scorso 21 marzo, «il principio alla base di tutto è che quando la comunità internazionale dice quasi all’unanimità che si rischia una crisi umanitaria e che un leader ha perso la propria legittimità, non possiamo semplicemente rimanere a guardare con la bocca piena di parole vuote».

Questo concetto può al massimo legittimare la “responsabilità di proteggere”, una dottrina che non ha alcun contatto con gli interessi nazionali americani. Questa “responsabilità”, inoltre, si auto-limita. Perché non usiamo la forza per proteggere i nordcoreani, che da de-

cenni subiscono una dittatura terribile? Perché non usiamo la forza per proteggere lo Zimbabwe da Robert Mugabe? E che dire di siriani, iraniani, tibetani…? Quello relativo alla responsabilità di proteggere non è un problema concettuale, dottrinale: è un problema relativo alla sua stessa essenza. Non può essere “corretta”, perché è il suo messaggio centrale. E l’errore non è soltanto nelle sue catene, ma nel suo piccolo e sporco segreto: usiamo le

L’impegno Usa in Somalia fu simile a quello di Tripoli: rischia di finire così

truppe di qualcuno (solitamente le nostre) per raggiungere soddisfazione morale. Chi difende questa dottrina sostiene che la forza militare è soltanto un aspetto di una teoria più ampia: ma la forza è centrale per definizione in ogni dibattito che riguardi l’intervento umanitario. Dare cibo a chi soffre per una guerra – in un ambiente che lo permette – è qualcosa che un americano fa per istinto; mandare i propri figli in conflitti che non colpisco-

no gli interessi nazionali è altra cosa. Inoltre, la “responsabilità di proteggere” non è soltanto un altro eufemismo per il peacekeeping“Onu-style”.

Le operazioni di peacekeeping che funzionano sono quelle che hanno il sostegno di entrambe le parti coinvolte nel conflitto: questo evita che chi proteggere debba usare la forza e riduce in maniera drastica ogni rischio, anche nel fornire assistenza umanitaria. Quella responsabilità sembra presentarsi con una specchiata moralità, ma invece ignora molti aspetti morali. Il compito morale più importante per un presidente americano è quello di proteggere la vita dei cittadini americani: arrivare a sacrificarle per gli interessi di qualcun altro è molto difficile da giustificare. Esperienze molto dolorose dimostrano che ciò che all’inizio sembra facile può divenire mortalmente difficile. È dunque quasi inevitabile che un intervento militare alteri il


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Lo sbocco più probabile è che, con la mediazione della Turchia, la Libia venga divisa in Tripolitania e Cirenaica

«Ma non si può entrare via terra: possiamo soltanto armarli» «I ribelli potrebbero non farcela lo stesso perché sono scarsamente preparati e molto divisi al loro interno». Parla il generale Carlo Jean di Gabriella Mecucci

ROMA. L’intervento militare in Libia, dopo una prima settimana di grande efficacia, ha perso la spinta propulsiva. A 18 giorni dall’inizio dei bombardamenti, non si capisce bene come la coalizione riesca ad andare avanti e se i ribelli possano farcela. La sensazione è che una vittoria sul campo si allontani. E ormai da più parti si fanno ipotesi di una durata del conflitto di mesi e mesi. Ne parliamo con il generale Carlo Jean, grande esperto di strategia militare e di geopolitica. Nella vicenda libica siamo a un stallo? Sì, siamo in una situazione bloccata. Quali sono le alternative per rimuovere questo blocco? L’intervento di terra a fianco dei ribelli lo escludo categoricamente. La cosa più probabile è quello di armarli. Ma lo schieramento contro Gheddafi potrebbe non farcela lo stesso perché i ribelli sono scarsamente preparati dal punto di vista militare e anche parecchio divisi. Anche la coalizione che ha deciso l’intervento non se la passa bene... Esatto. Unione Africana e Lega Araba hanno fatto marcia indietro. Gli americani si sono dichiarati fuori. E gli europei non vanno troppo d’accordo fra di loro. Quindi si rischia di armare i ribelli senza per questo riuscire a rimuovere lo stallo? Senza che ci sia una vittoria sul campo. E dunque che si fa? Si lasciano le cose come sono? Lo sbocco che mi sembra più probabile è che alla fine, con la mediazione della Turchia, si arrivi alla divisione della Libia in due grandi regioni: la Tripolitania e la Cirenaica che finirebbe nelle mani dei ribelli. Da quando gli americani si sono chiamati fuori si ha l’impressione che intensità e efficacia dei bombardamenti aerei siano notevolmente diminuite... Esatto. Gli Usa infatti dispongono di aerei - fra questi gli A10 che riescono ad agire anche nell’ambito delle città, mentre l’aviazione inglese e francese non può svolgere questo genere di operazioni senza creare gravi danni collaterali. Gheddafi quindi si è trincerato dentro gli abitati sicuro che gli europei non possono far nulla, o quasi, per aiutare i ribelli. Del resto, i ribelli da soli non ce la fanno: il cane così si morde la coda. E tutto resta bloccato. Lei quindi vede come ipotesi più probabile quella di armare i ribelli, ma come?

Le armi si possono far passare dall’Egitto. Il problema è che i ribelli ci sono almeno di tre tipi. Ci sono coloro che hanno abbandonato Gheddafi e si sono schierati contro il rais come l’ex ministro della Giustizia e l’ex ministro degli Interni, ci sono quelli che erano esuli e che sono rientrati e poi c’è una componente islamista radicale, gente proveniente dall’Iraq o dall’Iran, meglio addestrata a maneggiar le armi di tutti gli altri. Il risultato - come ho già detto - è una notevole confusione sia sotto il profilo politico che strategico militare. Più che l’impreparazione, mi sembra questo il vero problema dei ribelli.

«La durata del conflitto? Gli inglesi parlano di sei mesi, la Nato di tre. I tempi comunque non saranno brevi»

La descrizione fa venire i brividi… Guardi, non è per nulla scontato che la terza componente - quella islamista - riesca a prendere la guida dei ribelli. Non bisogna però nascondere che un rischio c’è. Occorre tenerlo ben in conto se ci si vuol comportare in modo accorto, responsabile e lungimirante. Occorre aver chiaro che la durata del conflitto non sarà breve e bisogna trovare la via d’uscita. Più la crisi si avvita su se stessa, più può diventare pericolosa. Quanto sarà la durata del conflitto? Gli inglesi parlano di sei mesi, mentre la Nato di tre. Non so chi abbia ragione, ma i tempi non saranno brevi. Quindi, al di là di quanto ha affermato la Nato, l’unica strada possibile è che i ribelli vengano armati? Penso proprio di sì. Mi sembra l’unica soluzione ragionevole, poi seguita dalla divisione in due regioni. Nel caso si vada in questa direzione, chi governerebbe la Tripolitania? Resterebbe in mano a Gheddafi? A lui personalmente non credo, non mi sembra che la sua permanenza al potere possa essere accettata. Ma il nuovo rais della Tripolitania dovrà essere un uomo a lui fedele: solo così infatti si riuscirà a tenere insieme le tribù tripolitane. Altrimenti si rischierà un conflitto tribale con tutto ciò che di drammatico questo potrebbe comportare. È possibile ipotizzare che in Tripolitania se non direttamente a Gheddafi, il potere resti nelle mani di uno dei suoi figli? È possibile. Ma non mi sembra questa l’ipotesi più probabile. Una simile scelta non sarebbe accettata dai ribelli. Per arrivare a una mediazione, meglio un personaggio che non abbia legami famigliari col vecchio rais. Lei ha indicato come possibile mediatore dello scontro libico Erdogan e la sua Turchia? L’Italia non ha dunque alcun ruolo da giocare: né come promotrice dell’intervento né come forza di collegamento grazie alla quale si possa aprire un dialogo fra le parti? L’Italia avrebbe potuto avere un ruolo ma se lo è precluso con le proprie mani quando ha chiuso la propria ambasciata a Tripoli e si è allineata alla Francia. Così facendo si è chiamata fuori e non vedo come ora possa rientrare. Il ruolo di potenza mediatrice ormai è in mano alla Turchia ed Erdogan, che sta gestendo l’intera vicenda con abilità. Le altre due potenze che potrebbero avere voce in capitolo nel favorire un’intesa fra le parti sono la Russia e la Germania. Noi saremo poco più che spettatori.

bilanciamento delle forze impegnate in un conflitto, avvantaggiandone una rispetto all’altra. Proteggere qualcuno significa in pratica morte per qualcun altro. In Libia ci piace pensare di essere semplicemente “contro” Gheddafi, e non “a fianco” dell’opposizione: ma è questo che stiamo facendo. E poi tutti i sostenitori del raìs (ne ha molti) colpevoli come lui? Meritano lo stesso trattamento? L’amministrazione Clinton ha avuto esattamente gli stessi problemi in Somalia: ha ereditato dal governo Bush uno sforzo per aprire corridoi umanitari, lo ha trasformato in un esercizio di costruzione di nazioni e lo ha chiuso con un fallimento che è costato la vita a diciotto soldati in servizio a Mogadiscio. E proprio la politica di Clinton rispetto alla Somalia è il miglior parallelo che si possa fare con l’attuale situazione libica: sembrava facile, si è trasformata in un’umiliante sconfitta per l’America e il suo presidente. Bisogna essere rudi e fare la domanda giusta: quante vite americane merita questo intervento? La vaghezza politica di questa dottrina la limita.

Ad esempio, quali nazioni costituiscono la “comunità internazionale” che, a sua volta, determina l’esistenza di una responsabilità di proteggere. Obama dice che la comunità era “quasi unanime”, ma 5 dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza si sono astenuti sulla 1973. Fra i 5 vi sono Russia e Cina, e questo non soprende, ma anche India, Brasile e Germania. Inoltre, parlando di una “potenziale” crisi umanitaria, il presidente ha voluto giustificare l’uso preventivo della forza: eppure aveva criticato il suo predecessore per essersi comportato proprio in questo modo. La Libia sarà un interessante campo di prova per tutto questo: nella felice ipotesi in cui il Colonnello fugga o venga ucciso, i sostenitori di questa dottrina grideranno vittoria, prefigurando altre missioni. Saranno in torto ma fortunati e questo potrebbe, sfortunatamente, essere più importante del resto per quanto riguarda il loro impatto sulla futura politica estera statunitense. Ma la vera questione, ora, è capire se la popolazione americana è d’accordo. Il Congresso dovrebbe discutere se sia giusto o meno impegnare i nostri giovani per ragioni puramente umanitarie. Dobbiamo decidere se questo è o meno una politica legittima. Possiamo ammirare le intenzioni di chi sposa questa dottrina, ma dovremmo chiedere con rispetto se capiscono veramente quali sono le conseguenze della moralità. E dovremmo poter dire, senza ambiguità: se volete combattere per motivi umanitari fatelo con i vostri figli. Non con i nostri.


la crisi libica

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Dopo le polemiche dei giorni scorsi il governo cerca una nuova mediazione con le Regioni sulle tendopoli

Roberto l’Africano

Trattativa fiume del ministro dell’Interno a Tunisi per sbloccare l’impasse clandestini, mentre a Lampedusa continuano gli sbarchi di Franco Insardà

ROMA. Come al solito all’ottimismo della volontà non corrisponde la realtà dei fatti. Silvio Berlusconi ai capigruppo della maggioranza riuniti ieri pomeriggio a palazzo Grazioli ha ostentato la solita fiducia sostenendo che il ministro Roberto Maroni sarebbe riuscito a definire l’intesa con la Tunisia: «È andata bene, il governo tunisino ha manifestato una disponibilità a chiudere, l’accordo si farà». Lo stesso Maroni appena giunto a Tunisi aveva dichiarato: «Siamo qui per concludere l’accordo, l’obiettivo è questo: speriamo di fare una buona cosa». Ma c’è voluto più del dovuto per trovare una prima intesa, utile forse soltanto a tamponare l’emergenza. Come ha annunciato il premier tunisino, Beji Caid Essebsi, dopo un lungo bracico di ferro «la politica estera del governo provvisorio tunisino e’ riuscita con gli sfozi degli ultimi giorni ad individuare una soluzione per lo status dei 22 mila migranti tunisini in Italia». E quasi per prevenire le critiche, ha ribadito che «la nostra politica estera è governata da regole basate sul diritto internazionale. Nonostante il lavoro degli sherpa, l’accordo non è stato concluso in poco tempo, come prevedeva il nostro governo. Difficile comprendere appieno i contenuti della possibile intesa, ma secondo fonti diplomatiche un primo passo dell’accordo dovrebbe riguardare il rimpatrio almeno dei circa 1.400 migranti ancora a Lampedusa, e con modalità «non mediatiche nè spettacolari», come più volte chiesto dal governo tunisino. Del resto già domenica sera da palazzo Chigi si faceva notare che l’Italia non chiede un rimpatrio di massa e immediato di tutti i quasi 20mila tunisini arrivati nelle ultime settimane.

Il via libera di Umberto Bossi ai permessi temporanei: «Sì, sono d’accordo, così se ne vanno in Francia, in Germania...» toglie il governo e la maggioranza da un grave imbarazzo. Il Senatùr, riferendosi alla vicenda Lampedusa ha aggiunto: «Dobbiamo chiedere il rubinetto e svuotare la vasca». Intanto

L’esecutivo attacca e litiga su tutti i fronti soltanto per coprire un vuoto enorme di gestione

Berlusconi&Maroni, il governo del disordine di Achille Serra

L

zione è stata così sottomessa a un monito: le regioni del Nord, bacino elettorale del Carroccio, non siano coinvolte. Si sono così perse settimane durante le quali è esplosa la rabbia degli immigrati, con danni gravissimi per Lampedusa.

Pensiamo alla questione migratoria: la dipendenza dell’esecutivo dalla Lega, cui il premier concede tutto in cambio di indecenti salvacondotti giudiziari, ha fatto sì che non si spalmassero fin da subito gli immigrati sul territorio nazionale con permessi temporanei. L’ipotesi è giunta solo ora, concessa probabilmente per chiedere in cambio l’ennesima follia leghista chiamata ”esercito regionale”. La gestione dell’immigra-

Il tutto per poi trasferirli, sì, ma per spostarli a Trapani, Caltanissetta, Manduria, o in Campania, dove i voti leghisti non vengono toccati. E che dire dell’inganno di quelle regioni che hanno fatto proprio lo slogan “accogliamo i profughi”, senza rivelare che questi sono una sparuta minoranza. Questi atteggiamenti rischiano di creare seri problemi nei prossimi mesi, quando saranno ben altri i numeri degli arrivi dal Nord Africa e dal Medioriente. Disordini davvero ingestibili se il Paese dovrà anche fare i conti con la continua caccia alle streghe ingaggiata contro la magistratura e se metterà in campo riforme utili soltanto a salvaguardare il premier. Che amarezza assistere a scene come quelle degli ultimi giorni: vedere un ministro scendere in piazza tra i manifestanti soltanto per sostenere che la colpa è dei soliti comunisti o vederlo rivolgersi in Aula in modo a dir poco dequalificante verso la terza carica dello Stato. Che amarezza constatare quanta poca considerazione viene riservata al nostro Paese dalla Tunisia, dove si infrange e smentisce qualsiasi accordo; o dalla Francia, che ci esclude persino da comitati ristretti di cui dovremmo essere protagonisti. Di tutto questo, la gente è consapevole. Gli italiani capiscono ciò che sta accadendo e scendono in piazza per gridare il malessere di chi vuol dire basta. Chiedo allora al governo di ascoltare questo disagio e di riacquistare la dignità perduta. L’esecutivo prenda coscienza dei suoi errori e si fermi. Lasci che si vada a votare e chiami il Paese a esprimere la propria volontà. La misura è colma.

a misura è colma. Il nostro Paese appare oggi più che mai paralizzato da una conflittualità permanente che la politica non smette di alimentare. In prima fila c’è un governo pronto alla lite in ogni momento e su ogni tema con l’obiettivo - ormai chiaro - di coprire così il totale vuoto politico del proprio operato. Ecco allora che si incrementa il conflitto con la magistratura, bersaglio di continue accuse da parte di chi da quelle toghe dovrebbe essere giudicato, ma soprattutto si procede all’annientamento del Parlamento, la cui maggioranza viene rattoppata qua e là con tutti i mezzi, per essere sempre prona al volere di “lui”, attaccando infine quei pochi media che non si prestano al killeraggio giornalistico al servizio di qualcuno. Protagoniste dell’operato di questo esecutivo sono le dichiarazioni di intenti, immediatamente ritrattate ma utili a coprire ciò che non va, frutto di errori e di politiche assenti. Mi riferisco a false riforme, a una disoccupazione giovanile ai minimi storici, all’esasperazione dei precari cui nessuno ha dato ascolto e che rischia di trasformarsi in rivolta. Eppure, se su questi temi il governo è assente, la situazione è ancor più grave quando l’esecutivo decide di “scendere in campo”.

I proclami roboanti di Pdl e Lega Nord si infrangono contro la tristezza delle scene che siamo costretti a vedere

nel pomeriggio di oggi, alle 18, si riunirà a palazzo Chigi la “cabina di regia” sull’emergenza umanitaria immigrazione. Mentre il ministro Maroni era a Tunisi la guardiacoste tunisina ha tratto in salvo 42 migranti diretti in Italia a largo del porto di Gabes, nel sud del Paese, dopo che l’imbarcazione con gli immigrati è andata in panne. E nelle stesse ore a Lampedusa è ripresa l’ondata di sbarchi, dopo i trasferimenti di massa che avevano svuotato l’isola. La Guardia costiera calcola che 843 nordafricani siano giunti sull’isola in circa dodici ore, 627 dei quali approdati tra la notte e la mattina di ieri che hanno fatto salire le presenze nel Centro di accoglienza a 1.388 persone. Sul fronte delle tendopoli, polemiche a Trapani dove cittadini e amministratori locali hanno lanciato l’allarme sicurezza: mentre 700 migranti sono stati sistemati a contrada Kinisia, il sindaco Girolamo Fazio ha paventato il rischio di una nuova Manduria. A Livorno sono arrivati il primo gruppo di immigrati (circa 300) che sarà accolto in Toscana, distribuiti tra sette province, mentre almeno 500 tunisini sono attesi per oggi a Cagliari e altri 300 saranno ospitati in Molise. E sempre per questa mattina è previsto l’arrivo a Napoli di una nave con a bordo circa 500 migranti provenienti da Lampedusa che saranno trasferiti nella tendopoli della caserma “Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere.

Ma le polemiche non si placano sulle iniziative adottate dal governo per i respingimenti, sulle mancate comunicazioni del ministro Maroni in Aula (lo farà soltanto domani al Senato) e sui motivi per cui ai parlamentari che si sono recati in Meridione per visitare i campi sia stato impedito l’ingresso. Questa dura presa di posizione è stata espressa in conferenza dei capigruppo a Palazzo Madama dal Pd e dall’Idv. I gruppi di opposizione hanno chiesto e ottenuto dal presidente della Camera Gianfranco Fini a fare pressioni sul governo affinchè sia comunicata al più presto una «data certa e definitiva! dell’informativa del governo. Intanto,


Fra economia e produttività, solo il senso dello Stato può aiutarci davvero

Nessuno ha capito il legame tra Parmalat e i migranti Le due questioni sembrano agli antipodi, invece sono speculari nel nuovo mondo globale di Francesco D’Onofrio i vanno intensificando le vicende che riguardano di volta in volta aspetti specifici di questa o quella parte dell’attività di governo. Si è infatti visto in un passato anche recente quanto sia stato e sia difficile adottare decisioni concernenti aspetti specifici dell’attività economica (quale ad esempio è stato ed è la vicenda Unicredit); aspetti concernenti il mondo automobilistico (basti pensare alla tormentatissima vicenda Fiat non ancora conclusa); aspetti concernenti questioni relative a settori vari della produzione agricola (si pensi alla vicenda delle “quote latte”); vicende più generali concernenti la stessa impostazione di bilancio (si pensi al complicatissimo rapporto tra debito pubblico e debito privato). Come si è già avuto modo di rilevare sono tutti e tre quelli che i costituzionalisti hanno considerato gli elementi essenziali di uno Stato (popolo, territorio, sovranità) ad essere investiti – anche se in tempi e modi diversi – proprio dalla crisi dello Stato nazionale in quanto tale. La fuoriuscita dallo Stato nazionale, in senso europeistico in un primo momento e oggi nel contesto della cosiddetta globalizzazione, ha pertanto caratterizzato di volta in volta l’uno, l’altro, o l’altro ancora degli elementi costitutivi dello Stato nazionale medesimo, che è stata l’istituzione europea continentale più significativa degli ultimi secoli. Occorre di conseguenza saper superare culturalmente innanzitutto la dimensione nazionale tipica dell’Ottocento e della prima parte del Novecento, per potersi orientare nel senso della ricerca di un nuovo equilibrio tra locale e globale. Per locale, infatti, è da intendersi tutto ciò che mette in discussione la consistenza stessa del popolo che costituisce il sostrato sociale dello Stato medesimo.

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Marcia indietro di Umberto Bossi sui permessi temporanei: «Ma solo perché dobbiamo chiudere il rubinetto e svuotare la vasca». Opposizioni e volontariato insorgono sui ritardi nell’accoglienza secondo quanto ha riferito il presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri, già domani il ministro potrà intervenire a Palazzo Madama. Sulle iniziative diplomatiche di queste ore per arginare l’arrivo di immigrati sulle coste italiane il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero ha criticato il governo: «Invece di promettere soldi perché non ci mandino più immigrati o di fare accordi scellerati come quelli passati con la Libia, è tempo di mettere mano ad un piano straordinario di cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo sociale dei Paesi del Mediterraneo. Le ong italiane sono pronte, ma negli ultimi tre anni gli aiuti ai Paesi poveri sono stati quasi azzerati». Con un documento approvato dal Consiglio nazionale delle Acli chiedono il ripristino dei fondi per la cooperazione allo sviluppo «in misura quanto meno pari agli impegni assunti dal Paese negli appuntamenti internazionali». «L’ultima Finanziaria - ha spiegato Olivero - ha ridotto questi fondi del 45%, raggiungendo il record negativo di 179 milioni di euro per il 2011. La cifra più bassa degli ultimi 20 anni».

Per quanto riguarda gli immigrati arrivati in Italia via mare, le Acli ribadiscono la proposta - che ha trovato il sostegno dell’Unione europea - di un provvedimento straordinario di protezione temporanea e assicurano il proprio impegno «per favorire il crearsi di occasioni di dialogo, iniziative di relazione umana, di accoglienza solidale e dignitosa sia attraverso i propri circoli, servizi e le altre strutture territoriali, sia nei luoghi di accoglienza istituzionale, sia in quelli messi a disposizione dalle Diocesi». Sulla vicenda interviene anche il settimanale Famiglia cristiana che nell’editoriale scrive: «Lega di lotta e di governo. Roma e Padania. Ha funzionato per anni, con eccellenti rendite elettorali. Ora, con l’emergenza profughi, i nodi vengono al pettine. Con evidenti contraddizioni, dovendo far buon viso a cattiva sorte». E continua: «Così nell’anno delle celebrazioni dell’Unità d’Italia il Paese è frammentato. Ognuno va per conto suo, secondo egoismi e interessi locali. Abbiamo perso la memoria: un tempo eravamo un popolo di emigranti, conosciuti nel mondo per spirito di solidarietà».

In modo del tutto analogo sono da considerare anche i fatti che recentemente sono assurti all’attenzione della più larga opinione pubblica, in riferimento alla possibilità che la Parmalat finisca col diventare oggetto di un interesse forse non soltanto economico della francese Lactalis. In questo caso non appare in discussione un tema definibile di immigrazione né in senso stretto né in senso largo, perché si tratta di capitali molto più che di persone, sì che entra in gioco molto più l’aspetto della sovranità economica nazionale che non l’aspetto della identità culturale del popolo. Entrambi i fenomeni concernono dunque la ricerca certamente faticosa ma non impossibile di un equilibrio nuovo tra locale e globale, laddove per locale si intende sostanzialmente ciò che attiene al territorio dell’intero Stato o parte di esso, e per globale tutto ciò che attiene alla fuoriuscita dallo Stato nazionale, soprattutto in termini di sovranità. Può sembrare pertanto del tutto naturale tener

Si deve distinguere invece fra multiculturalità e multietnicità, se si vuole preservare l’identità culturale senza strappi

È pertanto in questa logica che vanno affrontati i problemi sia della immigrazione peraltro sino ad ora considerata quasi esclusivamente in termini economici, sia delle risposte da dare ai fenomeni che vengono considerati emergenze dell’immigrazione ma che ormai fanno anche parte delle trasmigrazioni di parti significative di popoli interi che trasmigrano da una parte all’altra del pianeta, come è avvenuto anche in passato, anche se talvolta sembriamo immemori del passato medesimo. Occorre pertanto cominciare a distinguere tra immigrazioni in senso stretto e migrazioni in senso largo: le prime attengono prevalentemente alla struttura produttiva di ciascun popolo, o parte di esso, le seconde attengono al fenomeno nuovo delle trasmigrazioni in riferimento alle quali occorre capire se si vuole operare nel senso della eguaglianza tra le diverse parti del pianeta.

distinti i casi recenti della sorte di Parmalat da un lato, e della ubicazione territoriale dei profughi dall’altro. Al contrario, si tratta di vicende sostanzialmente omogenee perché attengono entrambe all’idea di Italia che si pone a fondamento dell’azione economica da un lato, e della ubicazione dei profughi dall’altro. In entrambi questi due casi infatti occorre render chiaro cosa si intende per interesse nazionale italiano nel mondo contemporaneo: non appare dubbio infatti che un interesse italiano alla produzione di beni economici sussiste certamente anche in un mondo nel quale la libertà di investimenti economici non appare più determinata dalla logica antica dello Stato nazionale, produttore diretto o indiretto di autovetture e di panettoni; allo stesso tempo occorre saper distinguere tra a naturale “multietnicità” alla quale giunge necessariamente una politica dell’immigrazione fondata sull’istituto delle quote, e “multiculturalità” che tende ad affermare l’esistenza complessiva di una identità culturale anche se plurietnica dell’Italia medesima.


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il paginone

È davvero legato all’essenza del politico l’uso del cinismo? Un saggio ripercorre, dall’antichità ad oggi, un concetto ancora controverso ostenere che la politica è cinica è scoprire l’acqua calda. Sostenere che il cinismo politico è «una benedizione e non una minaccia» significa vedere come si riscalda l’acqua ossia capovolgere pregiudizi e luoghi comuni (che potrebbero anche essere più cinici del cinismo). Antonio Funiciello ha scritto e pubblicato un libro - Il politico come cinico. L’arte del governo tra menzogna e spudoratezza, edito da Donzelli - che per metà, e per sua stessa ammissione, è la scoperta dell’acqua calda: «Questo è un libro sulla scoperta dell’acqua calda: che il politico sia cinico e che sia cinica la politica è un’ovvietà e, come tutte le ovvietà, non dovrebbe aver bisogno di libri per essere compresa». Per l’altra metà è la messa a tema dell’ovvio che mostra come il cinismo politico se non ci fosse andrebbe inventato. Perché? Semplice: perché è un esercizio di libertà che mira alla conservazione della libertà come mezzo e come fine.

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Le due metà del libro - l’acqua calda e l’invenzione del cinismo come libertà ci mostrano da subito l’essenza della politica che è arte e scelta: le due metà, infatti, sono come il paradosso o dilemma del bicchiere mezzo pieno e mezzo

Il destino di Socrate è centrale per capire la nascita del cinismo in rapporto all’arte politica. Socrate è fondamentale per capire l’intero Occidente vuoto. Il bicchiere può essere “valutato” mezzo pieno perché offre opportunità oppure mezzo vuoto perché esprime una mancanza. Sarà il cinismo politico a valutarne di volta in volta secondo circostanze, mezzi e fini la “pienezza”. Il politico valutando e indicando si assume inevitabilmente una responsabilità perché dà senso al bicchiere visto di volta in volta come mezzo pieno o mezzo vuoto, ma mai come sia pieno sia vuoto. Infatti, come ben scrive Antonio Funiciello, «l’enunciato che recita “Questo bicchiere è mezzo-pieno-e-mezzo-vuoto” è, per definizione, impolitico. La mera constatazione di una verità di fatto, qualunque essa sia, è solo una premessa della pratica dell’arte politica propriamente detta. Il possesso della verità, la sua conoscenza, fa parte della politica, anche durante l’azione che essa invera, ma l’atto del dire la verità non ne fa necessariamente parte. Nessun uomo politico che andasse in giro a far comizi proclamando che, in merito ad un problema, il bicchiere è mezzo-pieno-emezzo-vuoto, avrebbe fortuna. E non ne avrebbe il dirigente di partito che si comportasse similmente in una riunio-

ne di organismo direttivo o l’eletto alle prese di un confronto tra pari nella sua assemblea elettiva». Il problema che il politico ha davanti non è come stanno le cose perché questa è solo la premessa del problema, che invece è cosa fare se le cose stanno così? La conoscenza della realtà o dei fatti - e anche la deliberata idea di non far conoscere come sta la realtà o i fatti e magari mentire - è l’antefatto della politica. L’arte della politica (politike techne) è altra. Quale?

La politica «elabora un progetto e s’industria a creare consenso intorno a esso». Detto con parole greche la politica è dike (giustizia) e aidos (pudore). Detto con parole moderne la politica è Stato e nazione. Detto con parole ordinarie la politica è istituzioni e società. L’arte politica consisterà nel mettere in rapporto, e senza farli coincidere totalmente ma solo corrispondere, giustizia e pudore, Stato e nazione, istituzioni e società, ordine e comunità. La politica, dunque, per sua natura si dovrà misurare e dovrà coltivare il senso del limite. A chi gli chiedeva fino a che punto ci si dovesse impegnare nelle faccende della polis, Antistene rispose: «Come ci si avvicina al fuoco; troppo lontani avreste freddo, troppo vicini vi brucereste». La misura, la distanza, il limite è una virtù politica. Cinica. Il cinismo «è il vero filo rosso che percorre la storia dell’Occidente, da Atene a Washington». Antonio Funiciello ha fatto questo viaggio nel tempo delle idee politiche, ma noi qui discuteremo soprattutto il “primo tempo” che in qualche modo detta le regole del gioco con cui ancora giochiamo. Il tempo di Socrate e della democrazia ateniese. Socrate entra in scena quando Atene si apprestava a passare dalla cultura della oralità a quella della scrittura e dalla formazione della “oralità mimetica”a quella della “oralità dialettica”. Nel tempo del mito e della tradizione i giovani erano educati a combattere e a difendere la città e tutto ciò che imparavano coincideva con la loro vita nella comunità. Nel passaggio dall’autodidattica ai precettori privati e dai sofisti a Socrate nasce anche il rapporto tra potere e verità o potere e critica. Il cinismo si ricava dal rapporto tra potere e critica. Antistene, all’inizio del IV secolo, dà vita alla scuola cinica e porta la filosofia “fuori le mura della città”. A quel cane del filosofo cinico per vivere bene basta «un mantello, un bastone e una bisaccia». La particolarità della vita cinica consiste nel ritrarsi dalla polis «mettendo in discussione uno dei fondamenti

Nel suo nuovo libro, Antonio Funiciello sostiene che

Il governo de di Giancristiano Desiderio stessi dell’arte politica». Se la giustizia (dike) dà un ordine costituito alla città, il pudore crea consenso e vincoli di amicizia a sostegno dell’ordine della giustizia nel quale ci si riconosce. Progetto e consenso. Platone nel Protagora attraverso il mito di Prometeo mostra come tutti gli uomini siano provvisti di arte politica o giudizio politico perché è questa diffusione universale che consente la nascita della società civile. Quando i cinici escono dalla polis non mettono in discussione dike, che non muove il loro interesse, ma aidos: dunque, il pudore, l’amicizia, il consenso. «Negando il pudore - scrive Funiciello - e, con esso, ogni possibilità di ordinaria relazione sociale, essi decidono di intrattenere col consorzio civico solo relazioni di pura e fisica spudoratezza». I cinici sono spudorati e contestano «le fondamenta del comune senso del pudore». Gli aneddoti, ricavati dalla lettura di Diogene Laerzio, si sprecano e

il più famoso dei cinici è quel Diogene di Sinope che è «un cane anche quando soddisfa i bisogni sessuali con la stessa semplicità con la quale appaga i desideri alimentari». Il cinico è autarchico, basta a se stesso e non confida negli altri. Diogene chiedeva l’elemosina a una statua e quando gli chiesero perché rispose: «Mi alleno a chiedere invano». Ma perché i cinici giunsero a tanto? Perché rifiutano totalmente aidos? Perché sono senza pudore? «Quale fatto di cronaca è la miccia di tale sfacciataggine e, insieme, della critica più risoluta rivolta alla politica ellenica e all’originaria idea democratica di giustizia?». Il processo e la morte di Socrate.

Il destino di Socrate è centrale per capire la nascita del cinismo in rapporto all’arte politica. Socrate è fondamentale per capire l’Occidente. Socrate è il punto di riferimento della migliore intelli-


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A sinistra, “La morte di Socrate” di Jacques-Louis David. Sopra, la Casa Bianca. Nella pagina a fianco, lo scrittore Antonio Funiciello e, in basso, la copertina del suo saggio “Il politico come cinico” (Dozelli)

il cinismo sia «una benedizione e non una minaccia»

egli spudorati genza del tempo. È influente. Fa opinione. Atene è divisa in due partiti: conservatori e democratici. Socrate ha avuto simpatie democratiche, «ma non diventa un intellettuale engagé». Riserva per sé «un’irrinunciabile libertà di giudizio». Socrate è il maestro di Crizia e di Carmide, due tra i più noti Trenta tiranni, ma non è a sua volta un tiranno né politico né morale; è amico, consigliere, forse amante di Alcibiade, amico di Senofonte. Maestro di Platone, ma anche di Aristippo di Cirene e del già citato Antistene. Insomma, Socrate è ascoltato e una generazione di ateniesi è allevata dal grande filosofo. Ma il potere, democratico, considera Socrate un cattivo maestro. Crizia è morto, Carmide è morto, Alcibiade è morto ma Socrate è ancora in circolazione e dà fastidio.

È un tafano, secondo la sua stessa definizione nell’Apologia. Come fare per toglierlo di mezzo (cioè toglierlo dal bel mezzo in cui si è messo tra il potere e il

consenso)? «Già allora, il modo migliore per neutralizzare un avversario che si fa fatica a battere culturalmente e politicamente è quello di armare la magistratura». Così parte l’accusa di Meleto, Anito e Licone: è accusato di non credere agli dèi della città e di introdurre nuove divinità. In pratica, di essere empio.

Ma la vera accusa è un’altra: corrompe i giovani con i suoi discorsi dialettici o critici in cui si smaschera il potere umano (qualunque potere, non solo quello politico). I suoi nemici non ne vogliono fare un martire. Vogliono “solo” neutralizzarlo e umiliarlo. Al massimo lo vogliono esiliare, di certo lo vogliono sottomettere. Socrate rovina loro la festa perché si difende da solo e non con Lisia; confuta i presupposti teorici delle accuse, esagera dicendo di dover essere

premiato e quando lo condannano a morte - 281 voti favorevoli, 220 i contrari - accetta di morire e rifiuta di scappare dal carcere. Dopo la morte di Socrate c’è la diaspora dei suoi allievi, discepoli, amici. Prendono strade diverse: sia materialmente, sia filosoficamente. Così nascono diverse scuole: la più nota è l’Accademia, poi quella cirenaica, quindi la megarica, naturalmente la cinica. I diversi amici prendono strade diverse perché Socrate prima di morire non risponde alla domanda fondamentale «Che cos’è il Bene?». O se si vuole risponde dicendo che è logos o conoscenza, ma la conoscenza di Socrate è più vicina alla doxa che all’episteme: è sapienza umana quindi intrisa di ignoranza. In due parole: è critica che limita il potere. Nessun potere umano può tutto perché nessun potere umano sa tutto. Lasciando aperta la domanda centrale o rispondendo solo di volta in volta - che cos’è il bene? - Socrate non chiude in un pugno di maglio dike e aidos, giustizia e amicizia, potere e verità. Socrate non riduce la giustizia a una struttura perfettamente razionale che l’uomo può controllare totalmente.

La domanda, dunque, che l’Occidente da sempre si pone - perché Socrate scelse di morire e non salvò la pelle? - vuole la risposta che il filosofo morì per salvare la libertà di pensiero e azione che il regime democratico negava umiliandolo. Il nostro autore, Antonio Funiciello, sostiene che Socrate morì scegliendo di sottomettersi all’istituita gerarchia tra giustizia e pudore. Insomma, fu più democratico dei democratici e ubbidì alle Leggi della città. È una lettura giusta, ma che forse abbiamo il dovere di ampliare filosoficamente dicendo che Socrate morì per salvare la sua anima libera o semplicemente la libertà. Se fosse scappato o peggio si fosse piegato a Trasibulo e ai suoi compagni avrebbe tradito non solo se stesso ma il suo diritto di sbagliare, di

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ricercare il bene e la felicità secondo filosofia e libertà. È in questa libertà che i suoi discepoli si inseriranno facendo scelte diverse: platoniche, cirenaiche, megariche, eleatiche, ciniche. La risposta cinica, in particolare, ritiene che se il pudore e l’amicizia non hanno salvato Socrate allora lui, Antistene, non salverà il pudore e il suo senso comune. Per vivere bene non c’è bisogno del pudore ma della spudoratezza. Sovvertendo il senso di aidos i cinici ripensano il senso della politica. Sono sfrontati, svergognati, spietati, bastano a se stessi e ostentano la loro estraneità alla civiltà politica. La tengono a distanza perché hanno imparato a tenere a distanza il potere (il cinismo moderno o il politico

Il filosofo morì perché si sottomise alla gerarchia tra giustizia e pudore. Fu più democratico dei democratici e ubbidì alle Leggi della città come cinico avrà cara questa “distanza” perché in questo spazio critico vive la libertà degli individui e delle comunità). I cinici sono vestiti con un mantello, sono praticamente nudi ma indicano che il “re è nudo”: il potere, secondo la tradizione dialettica socratica, è smascherato con un’altra maschera. «La loro spudoratezza - scrive Antonio Funiciello ha lo scopo di mostrare ai politici, in un immaginario specchio magico del pensiero, quanto i veri spudorati siano loro: quanto cinica sia la loro attitudine di fare del senso comune del pudore quello che occorre ai loro obiettivi. È la lezione più importante che la filosofia politica dà alla politica e, non a caso, la impartisce alle origini del lungo cammino della democrazia».

Come i cinici non dimenticarono Socrate, così la politica non potrà dimenticare la lezione del cinismo e dovrà imparare ad essere sapientemente cinica per non cadere in una volontà di potenza totalitaria. Cosa, peraltro, che accadrà quando la scissione tra dike e aidos sarà sanata fino alla calcolata eliminazione di massa dei dissenzienti.


il caso ruby

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“Sì” della Camera dei Deputati alla richiesta di sollevare il conflitto di attribuzione: i voti a favore sono stati 314, 302 quelli contrari

Bugia di Stato, atto II Passa ancora la storia della nipote di Mubarak Mentre il premier parla di ”brigatismo giudiziario” Accanto il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Sotto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A lato la Camera dei deputati

di Riccardo Paradisi all’autunno caldo alla primavera torrida. La politica italiana continua ad arroventarsi come un ferro sulla linea del conflitto politico-giudiziario che divide le istituzioni e spacca in due il Paese, agitandolo per soprammercato anche con le manifestazioni di piazza.

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Al parlamento italiano si vota la proposta di sollevare il conflitto di attribuzione presso la Consulta sul caso Ruby Rubacuori. La maggioranza propone che il processo con-

glio ritenendo l’allora minorenne marocchina nipote di Mubarak. Per le opposizioni, invece, il reato imputato dal Tribunale di Milano a Berlusconi non può considerarsi di natura ministeriale. Dopo un dibattito tesissimo vince il “si” conflitto di attribuzione per provare a togliere il processo ai giudici di Milano con 314 voti a favore e 302 voti contrari. Determinanti i voti dei liberaldemocratici. Se il clima in aula

I Libdem Melchiorre e Tanoni, hanno votato con la maggioranza. Per l’opposizione hanno gettato la maschera. Per il Pdl costituiscono un apporto positivo tro Berlusconi per concussione e prostituzione minorile si tenga al tribunale dei ministri e non al palazzo di giustizia di Milano. Secondo Pdl, Lega e Responsabili, la telefonata fatta dal premier alla Questura di Milano, lo scorso fine maggio, rientrava infatti tra le sue funzioni di presidente del Consi-

chiedono con veemenza al presidente del Consiglio di affrontare i processi. Si vedono bandiere di partito, Idv, Rifondazione, il Partito comunista dei lavoratori. A prendere parola sono a turno esagitati che s’annunciano con il solo loro nome di battesimo. Intanto Di Pietro fa il suo lavoro in aula: «Berlusconi è entrato in politica solo per salvarsi dai suoi processi: ha scelto Montecitorio per non

è elettrico fuori, in piazza Montecitorio, è ancora peggio. E infatti all’esterno del Parlamento, dalla tarda mattinata, s’assiepano contestatori in ordine sparso a imprecare e fischiare. Stazionano in piazza Montecitorio dalle 14, sono circa 300, con cori incessanti gridano “vergogna” e

andare a San Vittore». Di Pietro accusa la maggioranza di essere «asservita ad un padrone» e di essersi ridotta a votare sostenendo che «Ruby rubacuori sia stata creduta veramente la nipote di Mubarak». Poi il capo dell’Idv esce e va a parlamentare con i contestatori. A chi grida addirittura «morte al tiranno» riferendosi a Berlusconi, Di Pietro risponde: «Berlusconi si sconfigge andando a votare». Il

Napolitano rassicura i vertici dell’Anm nell’incontro al Quirinale: «L’autonomia e l’indipendenza delle toghe sono inderogabili»

Il Colle stoppa Alfano: «No a riforme contro la Carta» ROMA. Dopo aver ricevuto i vertici dell’Anm al Quirinale, la sensazione è che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sarà tutt’altro che acquiescente di fronte al golpe politico della riforma Alfano. «L’autonomia e l’indipendenza della magistratura costituiscono principi inderogabili in rapporto a quella divisione tra i poteri che è parte essenziale dello Stato di diritto», ha assicurato il presidente della Repubblica di fronte ai dirigenti del sindacato dei giudici.

Ma il dovere di cronaca impone di dire che quando il Colle riceve i rappresentanti delle toghe nelle sue stanze, nessuno si è ancora premurato di inoltrargli il disegno di legge approvato in Consiglio dei ministri lo scorso undici marzo. Una trascurabile dimenticanza

di Francesco Lo Dico che non è imputabile al dicastero di via Arenula. Il ministero ha comunicato di avere girato nottetempo il ddl a Palazzo Chigi. Ma confidando invano nella stretta vicinanza geografica, e semmai nella prodigiosa sveltezza che garantisce alla macchina dello Stato il doppio clic del mouse, il provvedimento è rimasto adagiato negli uffici del premier, dove da tempo si registra il tutto esaurito per via dei curiosi casi dell’illustre condomino. Come che sia, giusto in tempo per la conclusione del meeting al Quirinale, il testo infine approda sulla scrivania di Napolitano. Ma tanta suspense non ha sortito gli effetti sperati, che nella nota diffusa dal Quirinale sono improntati a una forma morbida, ma dal contenuto

deciso. «ll capo dello Stato – si legge nel documento a margine dell’incontro con l’Anm – ha riaffermato la legittimità di interventi di revisione di norme della Seconda Parte della Costituzione che possano condurre a una rimodulazione degli equilibri tra le istituzioni quali furono disegnati nella Carta del 1948». Ma il facile appiglio della “rimodulazione”, viene sottratto al fuoco di fila pidiellino prim’ancora che divampi in qualche esternazione di Cicchitto, o chi per lui.

Napolitano sottolinea infatti che la revisione della Carta «può risultare convincente in quanto comunque rispettosa della distinzione tra i poteri e delle funzioni di garanzia». Parole che lasciano

soddisfatti i vertici dell’Associazione nazionale magistrati, che il 16 marzo scorso, appena varata la riforma Alfano, avevano richiesto un incontro con il presidente della Repubblica, tramite una lettera firmata dal presidente Luca Palamara. I dirigenti del’Anm hanno rappresentato al Quirinale tutto il loro disagio per una riforma che mira alla scientifica disgregazione del potere giudiziario, che «rischia di minare in radice l’indipendenza e l’autonomia» dei magistrati. Un progetto di eversione, che ha mostrato il suo autentico volto in seguito all’improvvisa comparsa dell’emendamento sul processo breve, che tanto ha nociuto alla credibilità del delfino Alfano, e per niente alla cavillosa fantasia degli avvocati del premier. Ma all’ordine del giorno, c’era anche la pericolosa at-


il caso ruby

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tonio Leone: «Il voto favorevole serve e servirà a difendere le prerogative della Camera».

Sottolinea il concetto Marco Reguzzoni, capogruppo del Carroccio alla Camera: «Dodici voti sono dodici voti e la maggioranza è la maggioranza. L’opposizione predica bene e razzola male. Era così anche nei precedenti governi». E poi, in ultimo è intervenuto il leader del Carroccio, Umberto Bossi: ”Dodici voti di scarto bastano”. Molto polemico il capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino: «Il fatto che il Parlamento faccia causa alla magistratura fa oggettivamente ridere, è una forzatura operata dalla maggioranza e che è andata male anche dal punto di vista dei numeri perché hanno avuto solo pochi voti di scarto». Insomma secondo Fli «Non ci sono le condizioni per il prosieguo della legislatura, sono molto meglio le elezioni anticipate Berlusconi ha deciso di sostituire una componente politica raccattando deputati qua e là: ne può recuperare anche altri 30 ma il problema resta». L’a-

Pdl ha commentato: «Consideriamo quest’apporto positivo ed è il segno che c’e’ uno smottamento continuo da parte dell’area di opposizione». ”Brigantismo giudiziario” è la replica di Berlusconi alle critiche dell’opposizione e all’ennesima fuga di intercettazioni. Pronuncia questa formula a Palazzo Grazioli con i capigruppo della maggioranza commentando quanto comparso oggi sul Corriere della Sera, che ha riportato tre telefonate del premier, registrate nell’ambito delle indagini sul caso Ruby. Contenuto delle telefonate che la legge prevede non venga utilizzato se il protagonista delle conversazioni è un parlamentare, a meno che non ci sia l’autorizzazione del Parlamento.

Se la Consulta dovesse dichiarare ammissibile il conflitto tra poteri dello Stato, il processo Ruby potrebbe essere comunque sospeso per motivi di opportunità, anche se la Procura si opporrà allo stop. I legali di Silvio Berlusconi chiederanno probabilmente di bloccare il processo in base alla legge del

La sovranità della Camera non è assoluta sostiene Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, che mette in dubbio la facoltà dell’aula di poter decidere sul conflitto di attribuzione del processo leader Idv spiega poi alla piazza improvvisandosi stavolta moderatore: «Non si deve passare dalle manifestazioni di piazza alle rivolte. Noi che siamo in Parlamento dobbiamo scongiurare questa possibilità». Per giorni Di Pietro aveva evocato la piazza e da anni definisce Berlusconi un tiranno e un Videla. Incendiario che si traveste da pompiere? Per Dario Franceschini, capogruppo del Pd, «Questa è

un’altra pagina davvero vergognosa. È straordinario vedere i banchi del governo così pieni e un ministro degli Esteri che, in piena crisi internazionale, passa le sue giornate a votare in Aula processi verbali e oggi il conflitto di attribuzione». L’aula è sovrana ma la sua sovranità non è assoluta sostiene Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc che mette in dubbio con queste parole la facoltà dell’aula di poter deci-

dere sul conflitto di attribuzione. «Non ho trovato nessuna norma che attribuisca alla Camera il diritto di decidere sulla giurisdizione». Insomma la Camera può essere chiamata a pronunciarsi sul fumus persecutionis ma non si può attribuire il diritto di decidere in tema giurisdizionale che è terreno fuori dalle sue competenze. A schierarsi per il sì al conflitto d’attribuzione è il vicepresidente della Camera, An-

nalisi del capogruppo alla Camera del Pdl Cicchitto è improntata all’ottimismo: «La maggioranza tiene e si allarga e comunque si è ribadito il fatto che il tribunale dei ministri è competente a giudicare su questo processo nei confronti di Berlusconi e non chi in questo momento sta portando avanti il processo». A proposito dei Libdem, Daniela Melchiorre e Italo Tanoni, che hanno votato con la maggioranza, il capogruppo

mosfera sediziosa, lanciata spada in resta dal Guardasigilli nei giorni scorsi: riforma a furor di popolo. «Abbiamo espresso al presidente – racconta Palamara all’uscita dal Quirinale – la nostra forte preoccupazione anche per il clima di manifestazioni di piazza in prossimità dei tribunali e anche nelle aule di giustizia, che rischiano di minare la serenità e l’equilibrio dei giudici chiamati a decidere importanti controversie».

«La posizione dell’Anm – ha aggiunto – non è di chiusura corporativa ma di volontà di mantener fermi quei principi che riteniamo capisaldi dello Stato di diritto e che sono a garanzia e tutela dei cittadini come l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che riteniamo fortemente alterata nell’eventuale approvazione del disegno di legge sulla riforma costituzionale della giustizia». Ma i vertici del sindacato dei giudici non si sono limitati a esprimere sconcerto. E anzi, ammirati dai nobili propositi costituenti del ministro della Giustizia, hanno voluto illustrare al capo del-

1953 che regola il funzionamento della Corte Costituzionale e stabilisce che «l’esecuzione degli atti che hanno dato luogo al conflitto di attribuzione fra Stato e Regione ovvero fra Regioni può essere in pendenza del giudizio sospesa per gravi ragioni, con ordinanza motivata, dalla Corte». L’ultima parola spetterà ai giudici della quarta sezione penale davanti ai quali comincerà oggi il processo a carico del premier.

legge ordinaria che per la disorganicità rischia ulteriormente di danneggiare il processo, in particolare quello penale». Ma il presidente dell’Anm ha riservato parte dei colloqui con il presidente della Repubblica, al simpatico effetto Forum divampato tra gli scranni parlamentari: gli interventi di alcune comparse che avevano mandato a memoria il copione dei giudici che non pagano mai i loro errori, a differenza dei cittadini. «Ci siamo soffermati sul tema della responsabilità civile dei giudici che riteniamo sia stato malposto ai cittadini in quanto non è vero che il magistrato se sbaglia non paga», conclude Palamara.

Palamara ha riferito al capo dello Stato la «forte preoccupazione per il clima di manifestazioni di piazza in tribunali e aule di giustizia», minacciato nei giorni scorsi dal Guardasigilli lo Stato il proprio modesto contributo. Per sveltire i processi, hanno fatto sapere, gioverebbero alquanto la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’infor-

matizzazione della giustizia, e maggiori risorse. «Abbiamo espresso a Napolitano – ha ribadito il presidente dell’Anm – i nostri timori anche per la riforma per

E seppure la nota del Quirinale preannuncia vita dura per il ddl Alfano, va detto che il tutto accade mentre nel resto dei Paesi del mondo, infuria la bolgia assordante di guerre, catastrofi naturali e rivoluzioni. Nè stupirebbe che di fronte alla sconfitta più cocente, il premier mostrasse cuore da statista: «Il mio regno, il mio regno per un cavillo!» «Il mio regno


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Credeva davvero fosse nipote di Mubarak? Allora il premier si dimetta, perché affidandola a un trans ci ha messo a rischio na volta si diceva che la Patria si difende anche facendo la guardia a un bidone di benzina. Adesso, la maggioranza di governo vota in Parlamento, deputati mobilitati uno per uno via sms sul cellulare, per affermare che il presidente del Consiglio difese la Patria, con il telefonare in Questura per evitare l’arresto a quella che lui credeva essere sul serio la nipote di Mubarak. Il tutto, per far scattare un conflitto di attribuzione, che potrebbe portare alla sospensione del processo.

U

Ma in realtà, no. Perché comunque la cosa finirà alla Corte Costituzionale, e i precedenti dell’organismo garantiscono che Berlusconi ci rimetterà le penne. Perché qui è uno dei termini del grande

A titolo difensivo, il Cavaliere ha citato commensali e interpreti a testimoni del fatto che lui avrebbe parlato di lei proprio con lo stesso Mubarak paradosso italiano. Da una parte, sono ormai 17 anni che Berlusconi le inventa di tutti i colori all’apparente scopo di finire in tribunale, dove i suoi antipatizzanti garantiscono che finirà inchiodato. Dall’altra, dal Decreto Biondi in poi, leggi e riforme ad personam sono finiti tutti cassati o svuotati, e Berlusconi in giudizio è finito regolarmente. Salvo che ancora non l’hanno incastrato. Scusate per l’abuso che stiamo facendo di

detti e proverbi, ma ci vuole proprio la saggezza atavica dei popoli per decifrare certi arcani. Uno dei versanti dell’offensiva berlusconiana è consistito proprio nel tentativo di mettere in mora il grande uso e abuso di intercettazioni telefoniche italiano: condito col malcostume delle filtrazioni alla stampa, e che in effetti ha scarsi riscontri all’estero; ma che corrisponde peraltro alla necessità di compensare alcuni limiti di indagine che gli inquirenti italiani scontano rispetto ai colleghi stranieri, soprattutto in presenza di alcune storiche sigle della criminalità organizzata talmente radicate, che la stessa parola siciliana “mafia” è diventata in tutto il mondo il sinonimo per questo tipo di realtà. Anche queste manovre sono fallite: ma già lo status parlamentare di Berlusconi bastava a proteggerlo dalle intercettazioni senza autorizzazione del Parlamento. A patto, però, di stare attento a coloro a cui si telefona: misura altrettanto elementare che non controllare coloro che si invitano a casa. Per non aver fatto la seconda cosa il Cavaliere si è ritrovata di mezzo Karima el Mahroug, alias Ruby Rubacuori: che, a voler difendere Berlusconi, dovrebbe essere comunque qualificata come una bugiarda matricolata e una ricattatrice, del tipo di quelle che qualsiasi cittadino normale con una reputazione da perdere dovrebbe tenere a debita distanza. Figuriamoci un personaggio istituzionale, la cui immagine è strettamente collegata a quella internazionale del Paese.

Per non aver fatto la prima cosa il Cav si è messo a parlare con persone che invece il telefono loro lo avevano sotto controllo, e le cui conversazioni non erano dunque coperte dagli omissis. O, per lo meno, così sostiene il Corriere

Prendendo sul serio la giustificazione del Parlamento e di Berlusconi

Il doppio paradosso di Ruby l’egiziana di Maurizio Stefanini

della Sera, che li ha pubblicati. Perché dal Popolo della libertà si tuona invece alla «gravissima violazione della legge», e comunque anche l’utilizzabilità in tribunale non risolverebbe il problema annoso della filtrazione alla stampa.

Come che sia, proprio da questi dialoghi emerge la sorpresa del presidente del Consiglio, quando Nicole Minetti gli racconta che Ruby ha denunciato per induzione alla prostituzione Michelle Conceipcão: la brasiliana che lo aveva avvertito via cellulare dell’arresto della marocchina. «Una si dà la patente di puttana?». «Te lo giuro». «Ma roba da matti». Una «patente da puttana» ancora più certificata, nel momento in cui la

stessa Ruby fa sapere di volersi costituire parte civile nel processo al presidente del Consiglio per concussione e prostituzione minorile. Ripetiamo: lui ordina ai suoi parlamentari di votare per far dire dal massimo organismo Legislativo del Paese che lui è un fesso; lei intima ai giudici di mettere su carta bollata che lei è una prostituta.

In mezzo c’è Rosy Bindi che non trova di meglio che evocare l’Aventino: di cui tutti possono ricordare come nacque per obbligare alle dimissioni il Mussolini semi-dittatore in crisi dopo il delitto Matteotti, ed ebbe invece l’effetto di farlo restare al potere per altri 19 anni, 21 compresa la Repubblica di Salò, e come


il caso Ruby

e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

dittatore completo. Situazione grave ma non seria, come avrebbe detto Ennio Flaiano. Peraltro, in un primo momento Berlusconi aveva smentito la storia. «Non ho mai minacciato nessuno, né fatto pressioni sul funzionario di polizia per far rilasciare Ruby». Per poi puntualizzare: «Sono una persona di cuore e mi muovo sempre per aiutare chi ha bisogno di aiuto».

«C’è solo stata una telefonata per trovare qualcuno che potesse rendersi disponibile all’affidamento per una persona che ci aveva fatto a tutti molta pena perché aveva raccontato a tutti una storia drammatica a cui noi avevamo dato credito. Tutto qui!». C’è stata anche la celebre battuta di Ghedini, sul «fruitore finale». E l’altra “arma segreta”: «Non ho fatto nulla di quanto mi viene imputato, ma qualsiasi cosa inventeranno io sarò comunque assolto, perché siamo in grado di dimostrare che la ragazza è stata registrata all’anagrafe marocchina due anni dopo, dunque era maggiorenne». La stessa Ruby disse in verità che era stato lui a dargli l’imbeccata. «Durante la terza serata a casa di Berlusconi lo stesso mi preavvertì, ricevendomi, che con i suoi ospiti avrei dovuto dire di essere la nipote del presidente egiziano, poiché io gli avevo falsamente detto di essere egiziana. Berlusconi mi propose di farmi passare per nipote del presidente Mubarak per fornirmi i documenti comprovanti la mia nuova identità». Ma la procace ragazzotta marocchina è riuscita a tal punto a dire tutto e il contrario di tutto, che ormai risulta difficile crederle. E poi, veramente, Ruby che racconta al Cavaliere che lei è la nipote del raìs e lui che la beve assomiglia effettivamente di più al profilo dei personaggi, che non lui a suggerirle una cosa del genere. A questo punto, comunque, far votare la “ragion di Stato”sull’intero caso Ruby significherebbe far sanare dal Parlamento tutto, sotto la fattispecie degli arcana imperii: che peraltro in epoca di Wikileaks sono rimasti molto

poco arcani, e anche molto poco imperiali. Ma tant’è. Una sanatoria, certo, solo momentanea, salvo il successivo responso della Corte Costituzionale. Ma sembra che l’importante sia sempre guadagnare tempo. Non solo l’intervento, ma la negazione di averlo fatto sarebbero rientrati nella necessità di evitare guai d’Egitto. A titolo difensivo, Berlusconi ha citato commensali e interpreti a testimoni del fatto che lui avrebbe parlato di Ruby proprio con lo stesso Mubarak. «In quei giorni mi stavo occupando della crisi tra la Libia e la Svizzera». Come si ricorderà, nel luglio del 2008 il figlio di Gheddafi, Hannibal, e la di lui moglie erano stati arrestati in Svizzera sotto l’accusa di maltrattamento di domestici. Per rappresaglia, oltre a tagliare le forniture di greggio, la Libia aveva fermato due cittadini svizzeri presenti nel suo territorio. Hannibal Gheddafi era stato liberato in capo a poche ore, ma i due erano rimasti detenuti a lungo, neanche l’umiliazione del presidente svizzero Merz che aveva chiesto scusa era servito, per la cauzione di 500.000 franchi pagati da Hannibal Gheddafi aveva chiesto che anche i due svizzeri paghino altrettanto, e da ultimo era andato a dire all’Onu che «la Svizzera non è uno Stato ma una mafia. Bisogna spartirla tra Germania, Francia e Italia». Per sua stessa ammissione, la preoccupazione del Cavaliere era stata: «E se anche da noi una parente di un premier straniero va in prigione? Che succede?».

Di nuovo, bisognerebbe capire se questa è una giustificazione, o un’autoaccusa. Innanzitutto un conto è il figlio da tutti conosciuto di un capo di Stato che in una suite di lusso si mette a strapazzare due domestici: ipotesi perfettamente compatibile al profilo di un figlio di papà tiranno ultra-viziato. Un altro, che un capo di Stato abbia una nipote che nessuno conosce, e che questa finisca in Questura per aver rubato 3.000 euro a una compagna di stanza. Come dimostrato dal tesoro che avevano accumulato, non è che i Mubarak fossero alieni dal mettere le mani sui soldi altrui. Ma su scala grandissima, e non così piccola. Come Silvio Berlusconi disse di essersi offeso quando Gelli gli mandò una tessera d’iscrizione alla P2 In alto da sinistra: il Parlamento vota il conflitto di attribuzione; il premier Berlusconi; Hosni Mubarak; Ruby; Emilio Fede; Nicole Minetti; manifestazioni contro il Cavaliere; scontri ad Arcore; l’agente Lele Mora

come semplice “muratore” a lui che era il primo costruttore d’Italia, possiamo immaginare altrettanto risentito il presidente egiziano a vedersi accostare a una scalzacani del genere. Poi, immaginiamo che una funzione dei Servizi sia anche quella di risparmiare a un presidente del Consiglio l’imbarazzo di dover accertare le parentele di una ragazzina impertinente col fare domande imbarazzanti a un altro statista.

Altrimenti, si capisce perfettamente il perché le rivolte arabe siano avvenute senza che nessuno si sia accorto della baraonda che stava per scatenarsi; con noi così esposti verso tutti i regimi che poi hanno iniziato a ballare; con l’Eni che faceva accordi con i russi sul petrolio libico una settimana prima che la guerra civile si scatenasse; e oltretutto con un’orda di clandestini che si è abbattuta sull’isola di Lampedusa, senza

«Durante la terza serata a casa del premier - disse lei mi preavvertì che con i suoi ospiti avrei dovuto dire di essere parente del presidente egiziano» che le autorità riuscissero nemmeno a iniziare le necessarie procedure di identificazione per capire se trattarli da intrusi o da profughi. E meno male che a nessuno di loro è venuto in mente di proclamarsi parente di Ben Ali o di chi altro. Ve l’immaginate la scena stile Spartacus di Stanley Kubrik? «Sono io il nipote di Gheddafi!», «Sono io il nipote di Gheddafi!», «Sono io il nipote di Gheddafi!»... E non c’è dubbio che molti di loro potrebbero raccontare sul loro passato delle storie ben più drammatiche che quelle di Ruby Rubacuori. Meno male che nel frattempo Mubarak è caduto, rimosso da una insurrezione popolare. Può aver scombussolato gli equilibri mondiali, ma per lo meno ha risparmiato che fosse pure lo Stato egiziano a fare causa, come era stato a suo tempo preannunciato. E che magari il Cavaliere dovesse dimettersi per evitare il protrarsi di un incidente internazionale: anche se il problema, come dire, resta in piedi.

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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grandangolo Lettera aperta a tutti i retori del nuovo ateismo

Laici e cattolici, lo scontro ai tempi di Facebook Dalla libertà sessuale ai valori, dalla famiglia all’eredità estetica religiosa, dall’antropologia secolare all’aborto e all’eutanasia.Viaggio a tutto tondo nei pregiudizi di cui spesso sono vittime i credenti. Intervista con la filosofa cattolica Mary Eberstadt, che ha appena pubblicato un nuovo libro:“Le lettere del perdente” di Luisa Arezzo o scontro tra laici e cattolici in formato tascabile, con un eloquio leggero, volutamente destinato più alla generazione facebook che ai grandi cultori della materia? Sembra un’opera impossibile, ma Mary Eberstadt ci è riuscita. Nel suo ultimo libro Le lettere del perdente (il perdente sarebbe Dio...) la filosofa cattolica americana, research fellow alla Hoover Institution della Stanford University e consulting editor di Policy Review (oltre che editorialista, fra gli altri, per il Wall Street Journal, Los Angeles Times, e The Weekly Standard) riesce ad evidenziare con imbarazzante semplicità tutte le contraddizioni in cui il pensiero puramente ateo cade a contatto con il cristianesimo. Mary Eberstadt, nel suo libro la protagonista, una giovane ragazza americana apparentemente convertita all’ateismo, attraverso dieci lettere rivolte ai nuovi atei, come Christopher Hitchens, affronta alcuni dei temi cardine del pensiero sia cattolico che ateo. Cominciamo con il primo: il sesso. «I credenti - faccio dire alla protagonista - con tutte le loro regole rimbabite, sul sesso non ne azzeccanno una», fermi come sono a concetti out quali: monogamia, autodisciplina, restare assieme per i figli. Pensieri che spesso la cultura laicista si rifiuta anche solo di prendere in considerazione. Il loro posto, invece, è stato preso da termini ed espessioni come privacy, adulti consenzienti,

L

a porte chiuse (nel senso che quello che si fa dentro casa propria non deve riguardare nessuno). Il punto è che è passato il messaggio che la separazione fra sesso e valori religiosi renda più felici. Ma dopo cinquant’anni di pillola, anticoncezionali e liberazione sessuale, tutti sono in grado di comprendere che non è così: siamo circondati da padri e madri single, spesso alle prese con gravi problemi economici e certamente in

I credenti sul sesso hanno idee “out”, come monogamia e autodisciplina. Gli atei invece “in”: hanno coniato la privacy evidente affanno ad occuparsi della loro prole. Ma per i bambini che crescono senza una vera famiglia, questo non è un bene. Così come non lo è per tutte quelle donne che sono state abbandonate dai mariti e che con l’andare degli anni soffriranno ancora di più. Insomma, le vittime della liberazione sessuale sono moltissime e quando i nuovi atei descrivono la loro libertà come una con-

quista, non considerano proprio le migliaia di persone che la soffrono e che spesso sono le più vulnerabili. Parlano per una sola parte e sembrano invece parlare a nome di tutti. Parlano da uno scranno di potenza e si dimenticano di quella parte di società che invece i cristiani mettono al centro della propria vita: i deboli. Gli atei, secondo la protagonista del libro, hanno dalla loro parte la Ragione... Tutti gli atei parlano ovunque e sempre di come la Ragione e la Logica sarebbero totalmente dalla loro parte. Ma questa sicurezza si sgretola davanti a più contraddizioni. La più importante: perché mai, con l’eccezione di alcuni Greci, di Spinoza e una manciata di altri impavidi, praticamente l’intera storia umana è inestricabilmente connessa con la credenza in una qualche divinità? Perché gli uomini si sono sempre allungati verso Dio? Per carità, da Bertrand Russel a Voltaire in molti si sono spesi per dare una risposta. Ma il punto è che la spiegazione non è mai sufficientemente valida a spiegare perché il 99 per cento dell’umanità si sia sbagliata su questa rilevante questione. La storia dell’uomo cristiano moderno e dell’u-

manità viene semplicemente bollata come stupida, arcaica, non illuminata. Il che comporta il rischio, me lo passerà, di apparire appena appena un pochino arrogante. Nessun credente si è mai sognato di esserlo nella stessa misura. Tanto da indurmi a pensare che Dinesh D’Souza abbia ragione quando dice: «il motivo per il quale molti atei sono portati a negare Dio, e specialmente il Dio cristiano, è che vogliono sfuggire al dovere di rispondere nella prossima vita della loro incapacità di contegno morale in quella attuale». Molte pagine del suo libro sono dedicate alla carità, al fare del bene... Fare del bene. Su questo punto gli atei sono in grave difficoltà. Perché sono costretti a riconoscere l’incessante lavorio dei credenti a favore dei più deboli, sia singolarmente che a livello istituzionale: ospedali, mense, assistenza sociale, reti caritatevoli, missioni, cappellani carcerari, orfanotrofi, cliniche... non si contano le opere messe in piedi dai credenti e dai cristiani. Non si può dire il contrario e questo non perché non si voglia dire, ma perché qualsiasi statistica conferma che sono le opere a carattere religioso a lavorare al fianco dei deboli. È più facile che una


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Si è aperta ieri nella capitale francese la conferenza interreligiosa promossa dall’Ump

Dopo la legge sul burqa Nicolas Sarkozy sfida ancora l’Islam e punta tutto sulla laicità di Antonio Picasso i è aperta ieri a Parigi la conferenza interreligiosa per la revisione della legge sulla laicità. Si tratta di un’idea promossa dall’Union pour un mouvement populaire (Ump), il partito di maggioranza all’Assemblea nazionale e soprattutto del presidente Sarkozy. Sia l’inquilino dell’Eliseo sia il segreterio nazionale del raggruppamento, Jean-François Copé, ritengono che si tratti di un passo di una tappa fondamentale nel dibattito religioso che si sta sviluppando nel Paese ormai da anni.Tuttavia, molti degli invitati hanno respinto polemicamente l’invito. È il caso del Consiglio francese per il culto musulmano (Cfcm) e dell’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia (Uoif). Le due rappresentanze credono che l’iniziativa rischi di danneggiare la tradizionale libertà di culto radicata nel sistema sociale transalpino. La legge francese sulla laicità è infatti in vigore dal 1905 e riconosce una lunga serie di concessioni e in modo egualitario a tutti le confessioni. Diversa è invece la posizione assunta dalle altre congregazioni. La Conferenza episcopale francese ha accettato l’invito ed è stata rappresentata da padre Matthieu Rougé, direttore del Sevizio episcopale per gli studi politici. Presenti anche i portavoce delle chiese protestanti. La comunità ebraica ha deciso di intervenire con il rabbino capo, Gilles Bernheim, in prima persona. Il gesto sottolinea quanto nelle sinagoghe d’oltralpe sia sentita la questione. In controtendenza con il resto del mondo islamico si è posto infine l’imam di Drancy, Hassan Chalgoumi, convinto che sedere al tavolo del confronto, seppure da un lato, sia meglio che restare fuori dalla porta. Da notare, tuttavia, che lo stesso premier François Fillon ha deciso di non prendere la parola. La questione è assai delicata. Sia in termini di cronaca sia nelle evoluzioni culturali di lungo periodo. La Francia è soggetta al lungo flusso migratorio da tutto il mondo islamico. Ma non solo. Parigi è una tradizionale meta di rifugio per tutti coloro che scappano da regimi di oppressione, per ragioni politiche e di appartenenza religiosa. Nel caso della Mezzaluna, si calcola che la comunità residente sul territorio francese sia costituita da una variabile di 5-10 milioni di unità. L’ampiezza del delta è do-

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donna povera che frequenta la chiesa faccia la carità almeno una volta l’anno che una ricca. In America questa distanza è del 21%. Non poco. Ma c’è dell’altro. Gli atei sembrano propendere per una logica darwiniana, dove vige la legge del più forte. Basti pensare al lavoro, agli studi, allo sport. Il mondo è di chi se lo guadagna, gli altri sono destinati a soccombere. Non ho mai sentito un ateo prendere posizioni nette contro l’aborto. Tantomeno contro l’eutanasia. Come se mancasse la capacità di essere protettivi. Non conosco storie di famiglie atee che hanno adottato molti bambini e magari anche qualche handicappato. Perché? Qual è il posto che gli atei assegano ai malati, ai vecchi e ai fragili? Lei parla dell’eredità estetica della religione... Mi sono sempre chiesta perché i nuovi atei non diano credito alle opere d’arte e all’estetica dei credenti. O che, come

Qual è il posto che gli atei assegnano ai malati, ai vecchi e ai fragili? Su questi temi non sono mai chiari. Non sono protettivi fa Christopher Hitchens nel campo letterario, cerchino di ridicolizzarla alla stregua di favole morali. Personalmente ritengo che l’eredità estetica della religione sia veramente difficile da negare. Qualche esempio a caso: la basilica di San Marco a Venezia, Notre Dame a Parigi, S. Pietro a Roma, la cattedrale di San Paolo a Londra e ancora: La Divina Commedia, La Città di Dio, L’elogio della Follia e potrei citare intere biblioteche. Per non parlare della musica. Oggi un artista vale per quanto viene pagato, ma non è sempre stato così. Non puoi spiegare Bernini soltanto dicendo che per i suoi lavori è stato coperto di denari dal Papa. No, è chiaro che c’è un aspetto che trascende, e questo aspetto è la fede. Per esempio, George Weigel nel suo libro sull’Europa post-cristiana Il Cubo e la Cattedrale - riduce la questione dell’arte religiosa contro l’arte

laicista a due simboli: la cattedrale di Notre Dame e la Grande Arche de la Dèfense. Weigel contrappone queste due icone architettoniche chiedendosi quale delle due forme di cultura assicurerà più fermamente le fondamenta morali della democrazia. La cultura che ha eretto un cubo assordante, razionale, angoloso, geometricamente preciso ma essenzialmente privo di sembiante o la cultura che ha prodotto le volteggiature e le bugne, le garguglie e la sacra assenza di monotonia di Notre Dame? Non è una domanda da poco, perché collega pericolosamente il giudizio sulla bellezza alla questione di quali idee esattamente vengano incarnate da opere come La Grande Arche. Donne, bambini e famiglia: lei sostiene che gli atei ne sappiano poco, è così? Christopher Hitchens ha scritto tempo fa che quando lui guarda sua figlia non vede qualcosa di creato davanti a sè, ma uno straordinario insieme di molecole. Lui è solo uno dei tanti darwinisti che considera l’uomo un puro frutto della ragione scientifica. Io sono certa che Hitchens amerà profondamente sua figlia, ma sono anche sicura che non c’è madre che guardando il proprio figlio pensi soltanto: wow, che bell’insieme di molecole che ho partorito. La nascita di un bambino stabilisce un legame non solo con il neonato ma anche con l’universo. Ciò di cui mi sono resa conto è che la maggior parte degli scritti atei (vedi Rousseau, per esempio) dimostrano una scarsa conoscenza, e ancor minor interesse, riguardo a certi “sottoinsiemi”della specie umana. Sto parlando nello specifico dei bambini, delle donne e delle famiglie. Non avete fatto caso di quanto poco gli atei abbiano da dire sulla vita familiare o sul matrimonio o su qualsiasi altra istituzone legata storicamente alla riproduzione della nostra specie? Una mancanza madornale se si considera che la maggior parte della gente vive in famiglia, e che la maggioranza fa esperienza religiosa attraverso e a motivo dei loro familiari. L’antropologia atea non affronta le grandi questioni, non capisce che molte persone cominciano a credere in Dio perché, ad esempio, amano troppo i loro mariti o le loro mogli per credere che la morte veramente li separerà per sempre e che il loro amore per i figli trascenda questa ipotetica catena finita di cellule e sarà superiore alla vita terrena.

vuta alla scarsa frequentazione delle moschee da parte di molti fedeli e, quindi, all’impossibilità per gli uomini di culto di effettuare un censimento completo. Proibizione di indossare un velo che nasconda completamente il volto per le donne, divieto di preghiera nelle strade e un programma scolastico paritario, senza che vengano messe in discussione i valori della Quinta repubblica. Sono questi i punti sui quali l’Ump vorrebbe trovare un compromesso con le rappresentanze convocate.

Copé e Sarkozy ritengono che sia giunto il momento di rivedere la norma vecchia di oltre un secolo. Il mondo islamico accusa l’Eliseo di imporre un regime di uguaglianza che, tuttavia, limiterebbe la libertà di culto e soprattutto il diritto di professarlo. Effettivamente, nel testo in vigore si ha una interpretazione estensiva della libertà di culto, che prevede il pieno riconoscimento di indossare un indumento sul capo delle donne, piuttosto che pregare nelle strade quando i luoghi di culto - non solo le moschee - sono troppo affollati. Libertà, queste, concesse all’inizio del Novecento, quando la comunità islamica in Francia era davvero ridotta. Il governo attuale, al contrario, vorrebbe introdurre una chiave di lettura restrittiva del concetto di laicità. A causa della crescita esponenziale della comunità musulmana - «un problema!» Come ha detto improvvidamente ieri la ministro dell’interno, Claude Guéant - Parigi vuole introdurre il sistema del “nessuno può esternare il proprio credo”. In effetti, già da lunedì prossimo sarà in vigore la legge che vieta di indossare il burqa in tutti i luoghi pubblici. In termini politici, l’operazione dell’Ump trova una spiegazione se si osserva che la Francia è appena uscita dalla crisi dei Rom, con l’espulsioni forzate dell’estate scorsa, e si avvia alle elezioni presidenziali del 2012. Il partito di Sarkozy, dopo aver mostrato i muscoli, vuole passare per quello disponibile al dialogo. Soprattutto in questo momento di alta tensione per le migrazioni dal nord Africa (causa esterna) e l’ascesa di Marine Le Pen, la quale potrebbe puntare all’Eliseo (causa interna).


ULTIMAPAGINA Le novità della nuova Giornata di Assisi indetta da Ratzinger

Le religioni assieme. Nel segno di meriggio, tutti i presenti in Assisi parteciperanno a un “pellegrinaggio” che salirà da Santa Maria degli Angeli verso la Basilica di San Francesco: «Con esso si intende simboleggiare il cammino di ogni essere umano nella ricerca assidua della verità e nella costruzione fattiva della giustizia e della pace. Si svolgerà in silenzio, lasciando spazio alla preghiera e alla meditazione personale». Preghiera silenziosa vuol dire che non vi saranno preghiere proclamate, né di tutte le religioni nello stesso luogo, né di ognuna in un proprio luogo, come era

di Luigi Accattoli ra lo stupore di molti il 1° gennaio scorso il Papa aveva annunciato una nuova Giornata delle religioni ad Assisi nel 25° della prima (27 ottobre 1986): oggi conosciamo il dettaglio dei motivi e delle modalità di svolgimento della nuova giornata e lo stupore forse resta ma ridotto di una buona metà.Vi sono infatti varie novità – tre o quattro – rispetto al 1986 e tutte nella direzione di un maggiore controllo dottrinale in modo da evitare contaminazioni e sincretismi.

T

Una nota vaticana pubblicata sabato definisce l’iniziativa, le dà un tema e indica i momenti principali dello svolgimento. Le novità sono sia nelle parole usate, sia nella trama dell’evento. Ci saranno il pellegrinaggio e l’affermazione del «comune impegno per la pace» come nel 1986; e come nel 2002 le delegazioni – Papa compreso – arriveranno la mattina in treno da Roma. Sanno nuovi: l’estensione dell’invito a “personalità” del mondo della cultura e della scienza; la mancanza di momenti pubblici – sia isolati, sia collettivi – di preghiera delle diverse religioni: la preghiera troverà posto in un“tempo di silenzio”. L’incontro di preghiera riservato ai cristiani si farà a Roma alla vigilia. Più che una giornata di preghiera sarà una giornata di riflessione in vista dell’impegno di tutti per la pace. L’evento del 1986 aveva come titolo Giornata mondiale di preghiera per la pace e non aveva un “tema”. Stavolta il titolo è Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo – vi è chiara l’intenzione che la preghiera sia un momento e non il tutto della giornata – e

WOJTYLA logo con l’altro, non esclude nessuno e impegna tutti ad essere costruttori di fraternità e di pace». L’invito a intellettuali e scienziati, anche non credenti, è ricondotto al fatto che il dialogo per la pace «non esclude nessuno»: «Per questo motivo, saranno invitate a condividere il cammino dei rappresentanti delle comunità cristiane e delle principali tradizioni religiose anche alcune personalità del mondo della cultura e della scienza che, pur non professandosi religiose, si sentono sulla strada della ricerca della verità e avvertono la comune responsabilità per la causa della

Oltre al pellegrinaggio, ci saranno il silenzio, il digiuno e il dialogo con gli uomini di cultura, ma non ci saranno in pubblico le preghiere delle diverse religioni. La veglia di preghiera dei cristiani si farà a Roma alla vigilia il tema è Pellegrini della verità, pellegrini della pace. Il tema fa perno sulla parola “verità” che è centrale in Papa Benedetto (Caritas in Veritate è il titolo dell’ultima enciclica) e mette la ricerca della verità a presupposto della ricerca della pace. Così questo punto della “verità”e della pace è svolto nella nota: «Ogni essere umano è, in fondo, un pellegrino in ricerca della verità e del bene. Anche l’uomo religioso rimane sempre in cammino verso Dio: da qui nasce la possibilità, anzi la necessità di parlare e dialogare con tutti, credenti o non credenti, senza rinunciare alla propria identità o indulgere a forme di sincretismo; nella misura in cui il pellegrinaggio della verità è vissuto autenticamente, esso apre al diaIn alto, un’immagine di Benedetto XVI. Sopra, uno scatto dell’incontro tra papa Giovanni Paolo II e il Dalai Lama

giustizia e della pace in questo nostro mondo». Ecco dunque chiarite due novità: non è solo giornata di preghiera, non vi sono chiamati solo i“religiosi”. Essendoci anche non credenti, non viene proposto il digiuno, come le altre volte, ma un «pranzo frugale condiviso dai delegati», che si farà a Santa Maria degli Angeli, dopo il primo appuntamento «di commemorazione dei precedenti incontri e di approfondimento del tema della giornata»: «Un pasto all’insegna della sobrietà, che intende esprimere il ritrovarsi insieme in fraternità e, al tempo stesso, la partecipazione alle sofferenze di tanti uomini e donne che non conoscono la pace». La novità più grande è quella della preghiera silenziosa, che è nominata due volte nella nota. «Sarà poi – dopo il pranzo, ndr – lasciato un tempo di silenzio, per la riflessione di ciascuno e per la preghiera». Nel po-

avvenuto nel 1986. Il pregare in silenzio – deve aver argomentato il Papa teologo – toglierà ogni idea di una preghiera comune e dunque eliminerà una delle obiezioni capitali che erano state mosse all’appuntamento del 1986.

La conclusione della Giornata avverrà «all’ombra della Basilica di San Francesco, là dove si sono conclusi anche i precedenti raduni»: cioè nel piazzale della Basilica inferiore. Lì «si terrà il momento finale, con la rinnovazione solenne del comune impegno per la pace». Ed era stato appunto lì che nel 1986 le delegazioni avevano proposto ognuna la propria preghiera, l’una dopo l’altra. Si prosegue dunque sulla strada indicata da Papa Wojtyla del coinvolgimento delle religioni mondiali nella ricerca della pace: è questo è importante che avvenga, proprio nell’anno in cui Benedetto proclama beato Giovanni Paolo. Ma le cautele contro il sincretismo, già adottate nell’edizione del 2002, stavolta saranno più ampie e sistematiche. Io vedo nel ritorno ad Assisi un segnale importante che il Papa teologo vuol mandare al mondo quanto alla fragilità della pace sulla terra, oggi più che mai insidiata proprio da fuochi a matrice religiosa. Nonché un secondo segnale riguardante la “continuità” con i precedenti Pontificati. Come ama riprendere la “croce papale”, che fu propria dei Papi di prima del Concilio, così Benedetto intende restare fedele ai grandi lasciti dei Papi conciliari: Assisi – come già le visite alle sinagoghe e alle moschee – è tra essi. Fedele ai predecessori che invitarono a guardare più ampiamente, ma secondo la propria misura di ogni atto che non trascura mai la ricerca della verità. www.luigiaccattoli.it


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