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Confusione è una parola che abbiamo inventato per un ordine che non comprendiamo Henry Miller

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 15 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Alfano contestato a Berlino, rinuncia a parlare. L’Avvenire contro il governo

L’avviso di Napolitano «Valuterò la prescrizione breve prima del voto al Senato» di Errico Novi

ROMA. La crisi italiana irrompe sul viaggio di Stato del finitiva in Parlamento». Come dire: non aspetterò il mo-

Cartelli contro Alfano all’Ateneo di Berlino

presidente Napolitano a Praga. Sollecitato dai cronisti a proposito della legge sulla prescizione breve, il presidente ha spiegato: «Valuterò i termini di questa questione quando saremo vicini al momento dell’approvazione de-

mento della firma ma mi mmuoverò prima. Cresce, intanto, la polemica. Per l’Avvenire si tratta di una legge che risolve i problemi del premier, non quelli della giustizia. a pagina 6

Nulla di fatto al vertice dell’Alleanza malgrado il drammatico appello degli insorti libici: «Se non intervenite, ci massacrano»

Il mondo litiga,l’Iran si muove La Nato boccia le richieste anglo-francesi: gli attacchi non cambiano. Cina e Russia protestano contro l’intervento: così Ahmadinejad punta a trasformare Bahrein e Yemen in suoi protettorati di Pierre Chiartano

Un attualissimo discorso del premier inglese

battimenti, gli aiuti umanitari non possono partire. Ma fino quando la soluzione politica non è definita, i combattimenti serviranno per determinare i futuri confini di un Libia divisa. Ma divisa sembra anche l’Europa, dove prevalgono ancora gli interessi nazionali su quelli comuni. Questa in estrema sintesi è la situazione. Mentre a Misurata le forze ribelli, che resistono all’assedio, contano i missili che martellano la città. a pagina 2

Basta immigrazione di massa. Ora ci serve la qualità di David Cameron n anno fa, in piena campagna elettorale, un messaggio circolava forte e chiaro: le cose devono andare diversamente. Le persone chiedevano un governo che non fosse solo capace di finire sui giornali e curare gli interessi del proprio partito, ma fosse in grado di lavorare efficacemente in una prospettiva di lungo periodo e nell’interesse dell’intero Paese. Esattamente quello che stiamo facendo. Ovviamente tagliare la spesa pubblica non è mai popolare, ma è giusto dare un indirizzo chiaro alle nostre finanze pubbliche. La gente chiedeva un governo in grado di fidarsi delle loro richieste. E il mio governo lo sta facendo, consegnandogli una serie di nuovi poteri in grado di farli uscire dai lacci e lacciuoli della burocrazia. a pagina 10

U

Esce «Habemus Papam», film su un uomo in crisi

ROMA. Se non cessano i com-

Dissacrante Moretti ma non è più di sinistra

Mentre si allenta la tensione con la Francia sui permessi

Allarme dei servizi: in arrivo quindicimila profughi Ma il ministro Maroni ora getta acqua sul fuoco: «La fase più acuta delle crisi è passata»

di Anselma Dell’Olio

Riccardo Paradisi • pagina 5

Parla il politologo libanese Saad Kiwan

«La Siria sta precipitando. E finirà come a Tripoli» «Il paese si consuma tra i dissidi nel regime e il conflitto religioso con la popolazione»

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al suo debutto con Io sono un autarchico del 1976, l’autore principe del cinema italiano ha fatto undici lungometraggi. L’ultimo, Il caimano, la dolente e comica agiografia di Berlusconi, risale al 2006. Per due anni ha fatto il direttore del Festival di Torino, poi l’attore in Caos calmo. Astuto gestore della propria immagine e del proprio lavoro, il modo in cui ha giocato a nascondino con Habemus Papam, la sua nuova opera, rasenta il perfezionismo. Allora, dopo averlo visto il nuovo nel silenzio per una canonica ora e tre quarti, si può dire innanzitutto che funziona.

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a pagina 8

Martha Nunziata • pagina 4 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

73 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la crisi libica

pagina 2 • 15 aprile 2011

il fatto Dal vertice di Berlino emergono le divisioni europee e la necessità di usare strumenti più sofisticati per colpire Gheddafi

Insorti & Insabbiati

I ribelli chiedevano più raid ma la Nato litiga e non dà altri aerei. Mentre i paesi del Brics, guidati dalla Cina, protestano: «Basta armi» la polemica di Pierre Chiartano

ROMA. Se non cessano i combattimenti, gli aiuti umanitari non possono partire. Ma fino quando la soluzione politica non è definita, i combattimenti serviranno per determinare i futuri confini di un Libia divisa. E divisa sembra anche l’Europa, dove prevalgono ancora gli interessi nazionali su quelli comuni. Questa in estrema sintesi è la situazione sul campo e nel backstage. Con gli attori europei che giocano sporco per «la roba» libica e gli Usa sempre più in ansia per il grande cambiamento all’orizzonte del Medioriente. La Nato chiede che il regime di Muammar Gheddafi ritiri nelle caserme tutte le forze armate, compresi i cecchini. Mentre a Misurata le forze ribelli, che resistono all’assedio, contano i missili Grad che martellano il centro cittadino: un’ottantina solo ieri. E chiedono a gran voce più raid aerei. La richiesta al rais invece arriva dal vertice dei ministri degli Esteri Nato a Berlino che, ha spiegato il segretario generale Anders Fogh Rasmussen, chiedono al regime «di permettere immediato e pieno accesso all’operazione umanitaria» per la popolazione libica. Mentre l’Europa che, una volta tanto, è pronta con la missione umanitaria di Eufor Libya per affrontare l’emergenza a Misurata, aspetta a richiesta da parte dell’ufficio dell’Onu preposto al coordinamento degli Affari umanitari, l’Ocha. Il segretario generale della Nato insiste sulla necessità di una soluzione politica per risolvere il conflitto in Libia. «La forza militare non può dare una soluzione alla crisi», ha affermato Rasmussen aprendo ieri la riunione dell’Alleanza. Una formula che da giorni ripete come un mantra. Il segretario generale ha inoltre affermato che la Nato proseguirà la sua offensiva in Libia – chi si fida del colonnello? – «fino a quando il regime libico continuerà ad attaccare la popolazione». Ma intanto è d’accordo sul fatto che i mezzi corazzati del rais dovrebbero essere colpiti anche nei centri

Onu, Nato, Brics, Lega Araba, Unione Europea, Usa: tutti parlano, nessuno decide

L’ombra di Ahmadinejad raffredda la primavera araba di Osvaldo Baldacci una strana vicenda quella dell’operazione internazionale in Libia. Una tragedia umanitaria e una mina politica nel cuore del Mediterraneo, in un Paese chiave per molti assetti, dal petrolio alle vie di migrazione. Con una relativa rapidità e toni di voce sostanzialmente unanimi e allo stesso tempo con azioni militari pronte in un battibaleno la comunità internazionale, tutta intera, ha dato il via all’operazione per fermare Gheddafi. La comunità internazionale tutta intera, ribadisco, con tanto di risoluzione dell’Onu, pressione dell’Unione europea, impegno della Nato, applausi della Lega Araba, consenso dell’Unione africana e via così. Coro unanime che si è dissolto un secondo dopo l’approvazione della risoluzione e i primi bombardamenti. A quel punto la Lega Araba ha iniziato ad accompagnare ogni passo avanti con due indietro, l’Unione africana ha preso tutte le distanze ricordando la sua consolidata amicizia con lo stimato leader libico. Persino gli Stati Uniti hanno fatto una bella retromarcia sugli aspetti operativi, e ora il Brics, vale a dire le cinque potenze alternative: Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica, non certo prive di ruolo all’Onu, fanno sentire la loro voce a freno delle azioni internazionali in Libia.

È

nica apre le porte proprio a quei timori all’inizio evocati a vanvera. Una profezia che si auto avvera. Più la comunità internazionale è distratta. Più si inseriscono altri soggetti. I fondamentalisti islamici, facile a dirsi. Ma senza dimenticare l’Iran. Il regime di Ahmadinejad si è fatto molto presente fin dagli albori della Primavera araba.

L’Iran forte delle sue risorse e della gestione centralizzata è già da anni molto presente in Africa sia in attività economiche sia nel proselitismo religioso, ideologico e politico. Questa sua rete di rapporti la ha ovviamente anche nel mondo arabo, ma in qualche modo è più debole tra gli arabi sunniti (gli iraniani sono persiani e sciiti) che altrove. Legatissimo alla Siria, ad Hamas e ad Hezbollah, l’Iran è sempre stato avversato dai regimi in qualche modo vicini all’occidente. La primavera araba non ha nulla di iraniano, non ha nulla in comune con un regime oppressivo, con un rivale strategico, con un dissenziente religioso. Se vogliamo la primavera araba è l’antitesi del progetto di Ahmadinejad. Semmai ha vicinanza di valori e di aspirazioni con l’Onda Verde. Ma Teheran si sta muovendo con astuzia, cercando di inserirsi con aiuti e incoraggiamenti lì dove serve, e sussurra l’aforisma del “nemico del mio nemico che è mio amico”. I regimi arabi sono nemici sia di Teheran che dei giovani democratici. I giovani democratici, vedi la situazione libica, fanno fatica a rovesciare da soli i tiranni. O li aiuta la comunità internazionale, o mentre questa questiona e discute, lo faranno altri. Iran e Bin Laden compresi. E siamo sicuri che per l’Italia, per l’Europa, per gli Stati Uniti, sia meglio sostituire uno come Gheddafi invece che con una democrazia che aspira e si ispira all’Occidente, sostituirlo invece con delle marionette foraggiate ad esempio dal regime iraniano?

Più la comunità internazionale è debole e distratta, più si danno da fare altri soggetti: i fondamentalisti islamici

Come se ce ne fosse bisogno: con una guerra civile alle porte di casa, l’opinione pubblica e il mondo politico europei, e italiani, hanno subito messo la sordina agli eventi dell’altra sponda, quasi facendo finta di niente. Le diplomazie internazionali discutono, dibattono, poi discutono e dibattono, i Paesi cambiano continuamente posizione senza che ci siano grandi effetti, e la crisi langue, e forse si incancrenisce. Peggio di così è difficile fare. Una crisi cro-

urbani. «Per evitare vittime civili abbiamo bisogno di attrezzature molto sofisticate, quindi abbiamo bisogno di più aerei di precisione per le missioni aria-terra», ha spiegato il segretario. E i tecnici sono convinti che i mezzi di «precisione» esistano. Sono aerei senza piloti, tipo Predator, con missili agm. E anche la nostra aeronautica è dotata di vettori aria-terra molto precisi e adatti a colpire mezzi corazzati in ambienti urbani. Sono i missili agm a testata cava che, in pratica, fondono le corazzature, con un foro di pochi centimetri, e portano la temperatura interna dei mezzi colpiti a molte migliaia di gradi. Si elimina mezzo ed equipaggio, senza danni collaterali. Almeno così si legge sui manuali. Lo scenario peggiore è quello di «uno stallo militare o di una divisione de facto della società libica, in cui la Libia diventerebbe uno stato fallito e terreno fertile per i gruppi terroristici, peraltro molto vicino ai confini dell’Europa». ha poi aggiunto Rasmussen. L’ipotesi da sempre più temuta da tutti.

Usa e Germania spingono sull’uscita di scena di Gheddafi, ma chissà se il rais li ascolta. È quanto hanno ribadito ieri Angela Merkel e Hillary Clinton, nell’incontro a Berlino. «Questo è l’obiettivo che ci unisce», ha detto il cancelliere tedesco dopo il colloquio con il segretario di Stato Usa. E ciò che unisce Washington e Berlino è anche il distacco con cui guiardano al gran pasticcio libico made in France. Ma è ciò che unisce anche il resto degli attori internazionali, in primis la Turchia? Ankara sta giocando un ruolo di stabilizzazione in tutto il Medioriente, anche se qualcuno lo intende come un po’velleitario. Ma è rancorosa verso Parigi. E poi i giochi dell’Eliseo e di Londra convinceranno sempre di meno, anche i pochi partner di Unified Protector, quando saranno ancora più evidenti. Mentre a oriente l’onda sciita preoccupa non poco Washington e alimenta in Patria le ragioni di quelli che vorrebbero dialogare con Teheran, vedendo nel regime dei mullah, nel


l’analisi Lo spregiudicato attivismo e opportunismo degli Ayatollah

E intanto l’Iran mette le mani sulle rivolte

Aiuta Damasco a reprimere le proteste ma poi, sottobanco, sostiene gli sciiti in Bahrein e Yemen di Antonio Picasso fuori di dubbio che le rivolte del mondo arabo-islamico abbiano preso alla sprovvista sia l’Occidente sia i poteri forti locali. Il fatto che l’Arabia Saudita non abbia ancora formulato una linea di comportamento da imporre in seno alla Lega araba e al Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) lascia intendere che per Riyadh si sia trattato di un contropiede a tutti gli effetti. Lo stesso dicasi per l’Iran. Tuttavia, in merito a Teheran, bisogna rimarcare che da un lato gli Ayatollah se lo sarebbero dovuti aspettare, dall’altro la loro reazione risulta animata da uno spregiudicato opportunismo. Il regime si sarebbe dovuto ricordare dell’estate del 2009, quando l’Onda aveva precorso i tempi di due anni. Una rivoluzione fallita, ma un segno premonitore che il Medioriente del Terzo millennio è pronto per tentare la sua strada di democrazia. L’Iran, con la sua società giovane e mediamente più colta rispetto ai Paesi vicini, è sempre stato all’avanguardia. Non è un caso che l’Onda avesse scelto di fare proselitismo su YouTube e che adesso il mondo arabo si stia sciogliendo dalle sue anacronistiche dittature via web. D’altra parte, l’Iran, per quanto appaia vittima dello stesso immobilismo in cui sono arenati gli emiri d’oltregolfo, è più che interessato a sfruttare gli spazi di instabilità che si stanno creando. I casi di Bahrein e Yemen sono esemplari. L’appoggio fornito alle due comunità sciite locali non è cosa di questi ultimi mesi. Oggi è solo molto più evidente. Le manifestazioni di Doha sono state schiettamente promosse dagli Ayatollah. Gli zaidithi delle sperdute montagne dello Yemen hanno ricevuto nuovi rifornimenti di armi. A questo punto, si teme che l’obiettivo ultimo dell’Iran sia l’Arabia. Se gli sciiti sudditi della monarchia saudita dovessero seguire l’esempio di Bahrein e Yemen, l’Iran sarebbe capace di proclamarsi davvero alla guida di una rivoluzione regionale, spolverando il vetusto messaggio di Khomeini e della rivalsa anti-sunnita.

È

lungo periodo, un interlocutore più affidabile dei barcollanti Stati sunniti. E sono ormai tante le differenze e i caveat che distinguono l’Europa unita” quando si muove. Né la Merkel né la Clinton hanno commentato però un possibile ampliamento delle operazioni militari dell’alleanza in Libia. E tanto per dire qualcosa di europeo, anche la baronessa Ashton si è espressa: «le uniche soluzioni per arrivare a una fine della crisi libica sono politiche». L’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune Catherine Ashton lo ha affermato al termine della conferenza sulla Libia tenutasi al Cairo, che ha visto presenti il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon e la Lega Araba. Per il ministro degli esteri di Bruxelles «il regime ha perso tutta la sua legittimità» e che «deve abbandonare il potere immediatamente». Gheddafi avrà preso nota. E che non dovrà essere toccata «l’integrità territoriale» del Paese. Parigi e Londra avranno preso appunti anche loro. E la diplomazia ”orale”ieri ha proprio dispiegato le ali. Perché dal Cairo il cessate il fuoco immediato è stato

chiesto anche dal leader della Lega Araba Amr Moussa. Durante la riunione nella capitale egiziana, gruppi di sostenitori e di oppositori di Gheddafi hanno manifestato di fronte alla sede della Lega Araba. Tanto per rendere chiaro ai media internazionali quanto ognuno abbia una propria “narrazione” della realtà.

In Libia intanto continua la battaglia. Sono almeno 23 le vittime del lancio di missili Grad a Misurata da parte delle forze fedeli al colonnello. Lo riferisce l’emittente satellitare al-Jazeera – quindi è una notizia da prendere con le cautele del caso – spiegando che tra i morti, tre dei quali sono di nazionalità egiziana, si contano anche donne e bambini. Ieri mattina, un portavoce degli insorti aveva riferito di almeno 80 missili Grad sparati dalle forze di Gheddafi sulla zona vicina al porto di Misurata. Bombe degli alleati invece a Tripoli. Una forte esplosione è stata udita nei pressi della residenza-bunker del colonnello Muammar Gheddafi a Bab alAziziya. Tanto per rendere più chiaro il messaggio che arriva da Berlino e dal Cairo

co della polizia siriana nelle operazioni di soppressione delle rivolte a Dara’a e Latakia. Per dovere di cronaca, va ricordato che, ieri, anche Aleppo è stata coinvolta in nuove manifestazioni. Anche in questo caso, così come efficiente si è dimostrato il tam tam on line dell’opposizione, altrettanto puntuali sono giunte le forze di sicurezza. La violenza in Siria nasce dalla concertazione tra intelligence di Damasco, operatività delle forze speciali iraniane e celerità di Hezbollah.

Contestuale è il ritorno delle operazioni di pulizia etnica avviate dal governo iracheno dello sciita Nouri al-Maliki ad Ashraf, città abitata dalla minoranza iraniana e testa di ponte dell’opposizione in esilio agli Ayatollah. Il tutto senza che i curdi facciano nulla, onde evitare di mettere in difficoltà i loro fratelli d’oltreconfine. Regna il silenzio, invece, a Gaza. Evidentemente Teheran preferisce non andare a incrinare una situazione che, cristallizzata com’è in questo momento, risulta favorevole per tutti. È vero, non c’è uniformità d’azione, in tutto questo. L’Iran ricorda un funambolo, che avanza su precarie contraddizioni e sfrutta la confusione del momento. Il backstage, invece, rivela una trama tessuta finemente. Lo dimostrano le manovre di questi ultimi giorni intorno alla figura del presidente Ahmadinejad. È solo di domenica scorsa la rimozione del suo capo di gabinetto, Esfandiar Rahim-Mashai. Fonti ben informate sostengono che, a dispetto delle apparenze, le dimissioni nascano da un accordo sotto banco tra il presidente e il suo stesso ex collaboratore. Per il fatto che Ahmadinejad non potrà candidarsi alle elezioni del 2013, è plausibile che si stia organizzando in modo da passare il potere a un uomo (laico) e di sua fiducia. I due sono quasi coetanei: 55 anni il Capo dello Stato, 50 Rahim-Mashai. E hanno frequentato la stessa università di Teheran. Un aneddoto che complica lo scenario: il 20 luglio 2009, in piena repressione anti-Onda, Rahim-Mashai afferma che «l’Iran è amico di tutti i Paesi del mondo. Israele e Stati Uniti compresi». Due giorni dopo, la Guida suprema Ali Khamenei lo licenzia dalla vice presidenza, carica per la quale è stato scelto nel secondo mandato di Ahmadinejad. Quest’ultimo lo ricicla come suo capo di gabinetto. A due anni da quella dichiarazione di apertura, Rahim-Mashai abbandona definitivamente l’agone politico. Perché? Troppo progressista anche per Ahmadinejad, che si sarebbe accorto solo ora di avere un nemico in casa? Oppure, com’è desiderio dello stesso presidente, il tutto risponde a una prospettiva di arginare l’influenza degli Ayatollah?

Se i sudditi della monarchia saudita scendessero in piazza per davvero, Teheran sarebbe pronta a guidare una rivoluzione regionale

Eclatante poi è stato l’episodio della nave da guerra iraniana che ha attraversato il canale di Suez pochi giorni dopo il crollo del regime di Mubarak al Cairo. Nella fattispecie, Teheran si è mossa con una tempestività che ha lasciato basiti tutti i Paesi del Mediterraneo. Questo non vuol dire che il Paese abbia deciso di sposare tutte e le poliedriche anime della dissidenza. Anzi. In questo caso memore sì dei fatti due anni fa, Teheran ha ammonito quei regimi amici e che giudica in pericolo. Ecco il perché della presenza di unità iraniane – probabilmente pasdaran e basiji – a fian-


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la crisi libica

Il vento partito dalla Tunisia può cambiare il profilo politico di tutto il Medioriente: parla il politologo libanese Saad Kiwan

Damasco? Come Tripoli «La Siria è a un passo dalla guerra civile per i contrasti interni al regime e per i conflitti religiosi tra popolo e potere. La gente non crede più alle promesse di Assad. Proprio come è già successo a Gheddafi, Mubarak e Ben Ali». di Martha Nunziata

ROMA. Se fosse una partita di scacchi, saremmo nella più classica delle situazioni di stallo: nessuna possibilità di scacco matto per i bianchi, nessuna possibilità di contrattacco per i neri. La Siria si è infilata, suo malgrado, in un vicolo cieco. Le riforme promesse, da anni, da Bashar Al Assad, al potere dal 2000, si rivelano, quotidianamente, un escamotage per prendere tempo; e le manifestazioni di protesta nei confronti del regime, al contrario, aumentano, ma vengono sistematicamente represse con la forza, nel sangue. Il popolo siriano non si accontenta più delle parole del presidente: «Anche il primo discorso pubblico di Assad dall’inizio delle proteste, il 30 marzo scorso, è stato generico, non ha dato alcuna scadenza per l’approvazione di eventuali riforme - dice a liberal Saad Kiwan, politologo libanese - Le promesse del presidente, di cancellare l’articolo 8 della carta costituzionale, che prevede il Baath come partito unico, di abrogare le leggi d’e-

mergenza (in vigore in Siria dal 1963, anno della presa di potere di Hafez Al Assad, il padre di Bashar, ndr), sostituendole con la nuova legislazione antiterrorismo e con il varo di una legge per la libertà di stampa sono rimaste lettera morta. Assad non si è impegnato in nulla, le sue uniche iniziative sono state la nomine di alcune commissioni per lo studio di queste riforme. In pratica da due settimane il regime parla solo della teoria del complotto internazionale sostenendo ancora che quella in atto in Siria non è una rivolta popolare, ma che, per usare le parole di Assad, il paese si trova nel mirino del suo più grande nemico, Israele».

Eppure le proteste di piazza continuano, così come le repressioni del regime: a Baniyas, città del Nord, sede della più importante raffineria di petrolio del paese, ma anche a Daraa, a Homs, fino alla capitale Damasco: «Ormai quasi ogni giorno la gente scende in piazza - continua Kiwan - E ogni

volta che ci sono proteste il regime risponde sempre con ferocia, con bande armate che sparano sulla folla, provocando decine di morti. Il popolo siriano è stanco delle promesse, ha capito che la tattica del regime è quella di prendere tempo, è un doppio gioco, un inganno. Ma ormai la gente si è stancata di parole vuote, vuole i fatti, vuole che gli Assad si facciano da parte, vuole la caduta di un regime che dura da quasi mezzo secolo. Il popolo non tornerà più indietro, e il destino della

La situazione di stallo è figlia della doppiezza della famiglia Assad

Siria sarà identico a quello degli altri paesi arabi che si sono ribellati contro i dittatori». Secondo Kiwan, dunque, anche l’implosione del regime siriano sarà inevitabile: ma la situazione di stallo nel quale ristagna il paese è figlia anche delle contraddizioni nelle quali sopravvive la famiglia Assad, tra le promesse non mantenute di Bashar (“È una tattica vecchia sostiene Kiwan - usata anche da Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia, anche se a nessuno dei due è servita») e la continua

lotta inter-familiare e l’istinto sanguinario del fratello minore Maher, comandante della Guardia repubblicana e vera anima nera del regime. È da lui, infatti, e da nessun altro, che ricevono ordini gli oltre 100mila miliziani che compongono le forze di sicurezza fedeli agli Assad, un esercito eterogeneo, composto in larga parte da militanti del partito Baath, ai quali si aggiungono gli agenti in borghese del Ministero dell’Interno e i sanguinari mercenari shabiha, un’organizzazione paramilitare fedele alla famiglia reale.

Il governo siriano e la famiglia Assad, infatti, sono la stessa cosa, da quasi mezzo secolo, da quando, cioè, il capostipite Hafez, ex generale dell’aviazione, si impossessò del potere, che dal 2000, anno della sua morte, è passato al terzogenito Bashar (il fratello maggiore, Bashir, destinato alla successione del padre, morì nel 1994 in un incidente automobilistico dai contorni ancora misteriosi), preferito al più piccolo Maher


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Sarebbero in arrivo dalla LIbia 15 mila persone, tra loro anche molti presunti «terroristi»

I servizi lanciano l’allarme: così Gheddafi «usa» i profughi

Però Maroni getta acqua sul fuoco: «Il picco della crisi è passato». Intanto il Consiglio d’Europa invita tutti a condividere l’emergenza di Riccardo Paradisi heddafi ce l’aveva giurata: il primo atto di rappresaglia contro il nostro l’intervento in Libia e l’appoggio logistico fornito per le operazioni Nato a favore dei ribelli sarebbe stato il via libera all’esodo di nuovi migranti verso l’Italia e l’Europa. Secondo un’informativa data al Copasir da Giorgio Piccirillo, direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna, questa minaccia si starebbe traducendo in realtà.

sorse limitate. Oltre 23.000 persone, per lo più immigrati irregolari in fuga per motivi economici, sono arrivati finora dalla Tunisia sull’isola di Lampedusa, che ha una popolazione di 5.000 abitanti, mentre in 1.000 hanno raggiunto Malta dalla Libia e la maggior parte necessità di protezione internazionale. Inoltre, i paesi vicini alla Libia hanno rice-

Sarebbe infatti imminente un’ondata di immigrati in arrivo nel nostro Paese dalla Libia e la spinta per la loro partenza sarebbe strumentale a creare problemi all’Italia e all’Europa, flussi umani che – secondo i Servizi – potrebbero diventare l’arma segreta usata da Muammar Gheddafi per condizionare l’Occidente. L’ordine di liberazione di oltre 15 mila persone provenienti dal Corno d’Africa, dal Ciad e dall’Africa subsahariana, ora detenute nei cosiddetti centri di raccolta, sarebbe arrivato proprio dal rais di Tripoli. Il porto della loro partenza potrebbe essere Zuwarah, a circa 120 chilometri da Tripoli, tuttora controllato dal regime. Insomma, nel momento in cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni dice che la fase emergenziale degli arrivi dalla Tunisia è cessata grazie agli accordi bilaterali con Tunisi – «Non verranno aperti altri centri o tendopoli» – ecco che ora s’apre il fronte con la Libia. Nella sua audizione al Copasir Piccirillo avrebbe escluso per ora l’infiltrazione di terroristi fra gli immigrati giunti in Italia anche se Gheddafi potrebbe tentare di infiltrare potenziali terroristi, soprattutto dal Sudan, fra i barconi provenienti dalla Libia. Dall’Europa nel frattempo arrivano segnali contraddittori. L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in una risoluzione basata sulla relazione di Tineke Strik (Paesi Bassi) adottata dopo un dibattito d’urgenza nell’emiciclo di Strasburgo sostiene che tutti gli stati europei dovrebbero condividere collettivamente la responsabilità di affrontare l’arrivo degli immigrati irregolari, rifugiati e richiedenti asilo sulle coste meridionali dell’Europa dopo la crisi del Nord Africa. Insomma l’assemblea ha accolto con favore gli sforzi compiuti finora dagli stati europei “in prima linea” per fornire assistenza umanitaria e ha esortato gli altri paesi europei a “mostrare solidarietà anche accettando il reinsediamento dei rifugiati e di altre persone che necessitino di protezione internazionale. Su Malta viene fatta un’analisi diversa: «L’isola si è trovata in una situazione particolarmente difficile viste le sue dimensioni ridotte e le sue ri-

Malgrado i tentativi di ricomposizione diplomatica, con la Francia continuano ancora le scintille

G

vuto quasi 500.000 persone in fuga dal conflitto in questo paese. Se l’ondata di arrivi in Europa aumenta a causa dei libici in fuga dal regime del Colonnello Gheddafi, ha sottolineato ancora l’Assemblea, la Ue dovrebbe considerare di applicare la

sua direttiva di protezione temporanea». Infine un orientamento di massima: l’Europa deve affrontare le cause profonde dei flussi migratori investendo nei paesi del Nord Africa e sostenendo le riforme democratiche. Sulla stessa linea il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso: l’emergenza immigrazione non è un problema di Italia o Malta e neanche della Francia o degli altri paesi è «una sfida europea che ha bisogno di una risposta europea, ogni altra soluzione sarebbe una ritirata». Del flusso di migranti che raggiunge le sponde europee di Italia e Malta il presidente Barroso ha oggi discusso in un incontro con il premier francese Francois Fillon: «Siamo d’accordo che il problema deve essere affrontato alla fonte e questo è il senso delle discussioni che ho avuto nella mia recente visita in Tunisia». Non è nell’interesse di nessuno, «né dell’Europa, né della Tunisia e neanche di tutti quei giovani che rischiano la vita sfruttati dalla criminalità permettere che continui un flusso incontrollato». Ma da parte francese non si registra grande apertura. La Francia è ”consapevole dei problemi dell’Italia” replica il primo ministro francese François Fillon ma le ”regole devono essere rispettate”.

Anche Il primo ministro britannico sposa una linea dura sull’immigrazione. Il regno Unito ha detto David Cameron apre le sue porte solo alla buona immigrazione ma le chiude all’immigrazione di massa. Il ministro per le attività produttive Vice Cable ha però definito poco sagge le parole del premier perché rischiano di «infiammare gli estremisti». Cable è un Lib Dem come il viceprimo ministro Nick Clegg che, per parte sua, ha preso le distanze affermando di «aver visionato ma non approvato» il testo di Cameron. Il discorso di oggi del resto è stato il più duro in materia di immigrazione da parte di Cameron da quando in maggio si è insediato a Downing Street. Il primo ministro ha messo in guardia il paese che immigranti incapaci di parlare inglese hanno creato disagio e disgregazione nella società britannica. Cameron si è anche prefisso di tagliare i numeri dell’immigrazione in Gran Bretagna «a decine di migliaia» e ha attaccato i governi laburisti che lo hanno preceduto per aver adottato un approccio che ha permesso a gruppi estremisti di destra come il British National Party di far proseliti. Tra 1997 e 2009 il numero degli immigrati in Gran Bretagna è stato di 2,2 milioni di persone maggiore di quanti hanno lasciato il paese: «Per troppo tempo l’immigrazione è salita».

proprio per il carattere estremamente violento di quest’ultimo, protagonista anche del tentato omicidio del cognato Assef Shawkat, il marito di Bushra, la primogenita della famiglia, che si ritrovò una pallottola nello stomaco dopo una lite furibonda durante una cena.

I due si sono rappacificati proprio per gestire il potere in questo momento di tensione (Assef, ex responsabile dei Servizi Segreti militari, è stato recentemente nominato vice comandante delle Forze Armate), e la loro riunione ha avuto ricadute, oltre che nell’ambito politico, anche in quello religioso. La famiglia Assad, infatti, professa il culto alawita, frangia minoritaria della religione sciita, infatti, l’integralismo di Maher e di Assef si è spinto fino alla discriminazione religiosa in ambito militare: le unità scelte per contrastare le manifestazioni di piazza sono composte esclusivamente da alawiti, così come la maggioranza degli ufficiali dell’esercito regolare siriano, nel quale, ormai, agli ufficiali sciiti viene di fatto impedito il comando. «Si tratta - conferma Kiwan - di una vera e propria guerra di religione, anche se gli alawiti rappresentano appena il 10-12% dell’intera popolazione siriana, la quale è sunnita. Il rischio è quello di uno scontro interconfessionale, che andrebbe ad innestarsi sul già precario equilibrio interno». E che rappresenterebbe un’altra miccia dall’alto potere detonante: «Bashar - sostiene ancora Kiwan - ha giocato altre carte, ha cercato di dividere i siriani: da una parte gli arabi, dall’altra i curdi, ai quali ha promesso la cittadinanza. Si tratta di un tentativo disperato e tardivo, però, perché la parte curda del paese, ormai, si è già aggregato alla rivolta di piazza. Ai curdi occorre la libertà, occorre il riconoscimento dei propri diritti; anche loro, adesso, non vogliono più le promesse ma le riforme. Adesso vogliono la caduta del regime». Il nuovo slogan degli ultimi giorni nelle piazze siriane è “non si torna indietro”, con il rischio, però, che la situazione precipiti velocemente verso la guerra civile. «È vero - conferma Kiwan - Temo che non ci siano sbocchi per la Siria. La rivolta andrà avanti, e l’unico modo che Assad avrebbe per evitare un folle spargimento di sangue è quello di rinunciare al potere. Il vero problema è che, nonostante la piazza, nonostante l’esempio di Tunisia, Marocco e Libia, nonostante le pressioni europee e, soprattutto, americane (la Siria è uno degli Stati canaglia, secondo la classificazione degli States, ndr), Bashar, spinto dall’intero clan degli Assad, preferirà rischiare la guerra civile o una situazione simile a quella libica piuttosto che rinunciare al potere».


politica

pagina 6 • 15 aprile 2011

Sulla legge gravano due incognite: l’eccessivo danno alle parti lese e la discriminazione per i condannati in primo grado. Ne parlano due presidenti emeriti della Consulta

Il Colle di bottiglia La prescrizione breve sub-giudicio del Quirinale ma Berlusconi: «No problem. Ora avanti con le intercettazioni» di Errico Novi

ROMA. Che dice Napolitano? «Verificherò». Certo. Prima che il ddl sul processo breve passi anche al Senato, un attimo prima, il presidente della Repubblica assicura che approfondirà i contenuti del testo. Ma per capire bene in quale direzione già si orientano i suoi dubbi, va riportata anche la domanda. Napolitano risponde ai cronisti che gli riportano le preoccupazioni del Csm sull’eccidio di procedimenti provocato dalla legge. Ansie, aggiunge chi fa la domanda, condivise anche da alcune associazioni di familiari delle vittime. Quelle di Viareggio, della Casa dello studente dell’Aquila. Oltre ai truffati di Parmalat. Ecco: è di fronte a questa “contraddizione”, che Napolitano risponde «verificherò prima che il provvedimento arrivi all’approvazione definitiva». E qui entra in gioco Alfano. Perché il ministro della Giustizia assicura da mesi come la prescrizione breve sia destinata a incidere su non più dello 0,2 per cento dei processi penali. A questo

potosti, «anche a proposito della ex Cirielli. In quel caso tra l’altro si osserva come sia assolutamente plausibile che il beneficio della legge riguardi anche i processi in corso; ma appunto a condizione di preservare il bilanciamento tra gli interessi dell’imputato e altri interessi possibili». Ed ecco perché, spiega ancora il presidente emerito della Consulta, una valutazione sulla congruità costituzionale della “pdl Paniz” può essere fatta solo sulla base di dati precisi. «Se dal punto di vista numerico l’incidenza è molto bassa, è un conto. E qui andrebbe chiarito se il ministro della Giustizia ha fatto bene i suoi calcoli».

Perché se invece avesse ragione il Csm a parlare di «amnistia mascherata», cambierebbe tutto. E a quel punto, oltre alla quantità dei procedimenti “incrociati” dalla norma licenziata l’altro ieri a Montecitorio, bisognerebbe valutare anche «la qualità», dice Capotosti. «È evidente che serve un approfondimento da parte del PIERO ALBERTO CAPOTOSTI guardasigilli. Non è ancora chiaro quanti e quali giudizi sono interessati. Alfano parla dello 0,2. Ma a parte il fatto che se fosse così verrebbe da chiedersi perché si è intrapresa una battaglia parlamentare così dura». E a parte il fatto, si potrebbe aggiungere, che allora sarebbe esplicita la destinazione unipersonale del provvedimento.«A parte tutto quepunto è lecito chiedersi: è davvero così? sto», prosegue Capotosti, «forse le cose O non c’è invece il rischio che il taglio non stanno come sostien Alfano. E allodei termini penalizzi troppe parti lese? ra è giusto quello che dice il presidente In altre parole: non è che per rottamare della Repubblica: “Valuterò i termini il processo Mills si compromettono in della questione prima del sì definitivo in realtà molte altre vicende giudiziarie di Parlamento”. È giusto perché se invece largo interesse? E che quindi un nume- rischiano davvero di finirci di mezzo il ro elevato di parti controinteressate caso Parmalat o la strage di Viareggio, verrà penalizzato? allora il quadro sarebbe diverso».

Ha ragione il Colle a voler approfondire: se si mortificano i truffati di Parmalat, per esempio, c’è il rischio di incostituzionalità

Perché se un profilo di incostituzionalità può esserci, spiega Piero Alberto Capotosti, è da questo particolare versante che va ricercato. Il presidente emerito della Consulta lo spiega con molta chiarezza a liberal. Con la stessa chiarezza con cui invece respinge l’ipotesi di una bocciatura (del Cole o dell’Alta corte) determinata dal privilegio previsto per gli incensurati. «Il punto è proprio il bilanciamento d’interessi tra un imputato che non ha precedenti e altri soggetti in gioco, quali possono essere appunto le parti lese. Lo spiega bene, la Corte costituzionale», fa notare Ca-

Capotosti aggiunge che «forse si può considerare non decisiva, la norma, per imputazioni come l’omicidio colposo relativo al terremoto, perché quel processo è iniziato da meno tempo». Ma se invece per premiare qualche imputato prossimo alla prescrizione si rischia di lasciare senza giustizia i familiari delle vittime di Viareggio, si entra in quel profilo critico già illuminato dalla Consulta sulla ex Cirielli: non si può intervenire sulla prescrizione in modo da compromettere in misura insopportabile interessi opposti a quelli del reo. «Anche perché se muore il procedimento pena-

le le parti civili non possono accedere a un risarcimento derivante dal delitto in quanto tale». I familiari delle vittime di Viareggio, ricorda Capotosti, «dovrebbero trasferire l’azione dalla costituzione di parte civile in un processo penale a una semplice causa civile. E lì le speranze di ottenere giustizia vanno a perdersi nella notte dei tempi».

Ora, sarà un caso, ma quando nella rituale riunione con i vertici del Pdl Berlusconi commenta le frasi di Napolitano dice due cose: primo, che «sono tutte falsità, non c’è nessun contrasto con il Colle, possiamo passare alle intercettazioni»; secondo, che un po’ contraddice il primo, «manderò Alfano a convincere il presidente della Repubblica sulla bontà del provvedimento». Alfano è decisivo. È lui che dovrebbe garantire la “ecocompatibilità” del ddl. «Solo che il Csm parla di amnistia e se lo fa avrà pure dei dati», è la perplessità di Capotosti, «di sicuro il presidente della Repubblica terrà conto della quantità di procedimenti coinvolti. E quando dice di voler valutare il caso alla vigilia dell’approvazione definitiva, lascia intendere di voler forse inviare un messaggio, formale o non formale che sia, per chiedere una modifica. Magari sull’applicabilità ai procedimenti in corso. In modo da evitare una contromisura più traumatica quale sarebbe il rinvio motivato alle Camere». Sarà quello delle parti lese, in ogni caso, il vero snodo, secondo il presidente emerito. Piuttosto che il favor riconosciuto dalla legge agli incensurati, «che rientra in una logica già ampiamente seguita dall’ordinamento». Cesare Mirabelli, che a sua volta ha presieduto la Corte costituzionale nel 2000, intravede d’altronde un possibile conflitto della “pdl Paniz”con l’articolo 3 della Carta, ma sotto un altro punto di vista. «Partiamo dal presupposto che in linea di principio la prescrizione si ancora alla grado di gravità del reato, più che alla personalità dell’imputato: lo Stato rinuncia alla potestà punitiva in ragione del tempo, ma in relazione alla gravità. Ciò detto, nella norma approvata mercoledì alla Camera si fa una distinzione tra chi è imputato in primo grado e chi ha già avuto una condanna di primo grado. E se da una parte la previsione può riferirsi a un elemento di ragionevolezza, perché è plausibile che un procedimento non lontano dalla prescrizione che non è ancora giunto al primo giudizio vada comunque in prescrizione, se si sposta la prospettiva il discorso cambia: perché la norma distingue due potenziali soggetti imputati dello stesso reato, entrambi incensurati,

Le critiche del quotidiano della Cei

La bocciatura di Avvenire ROMA. “Ma non chiamatelo processo breve” ha titolato ieri l’Avvenire, un editoriale dedicato al provvedimento approvato dalla Camera. La voce del quotidiano della Cei si è così aggiunta al coro di critiche che, partite da Montecitorio, sono arrivate da tutto il Paese con la magistratura in testa. Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, infatti, solleva dubbi, sulla norma che non scioglierà i «nodi della questione giudiziaria italiana”. Secondo Danilo Paolini con la definizione di processo breve «non vanno intese, però, l’urgenza dell’attuale presidente del Consiglio di risolvere i suoi guai con taluni magistrati di Milano e la costanza (non priva di forzature procedurali, né, talvolta, perfino di venature d’astio) con la quale questi ultimi lo incalzano ormai da quasi vent’anni, bensì proprio la lentezza dei processi civili e penali». La lentezza della giustizia italiana è, per l’Avvenire, il problema e questa legge non servirà ad abbreviare i tempi dei processi, ma «potrà soltanto prendere atto, di volta in volta, di un fallimento: quello di uno Stato che non riesce a garantire una sentenza definitiva in tempi ragionevoli. Ma questa e’ la radiografia del male, non la cura».


politica Due immagini delle proteste e dei cartelli esposti ieri dagli studenti dell’Università di Berlino che hanno spaventato il Guardasigilli Alfano

15 aprile 2011 • pagina 7

Il Guardasigilli non si presenta all’università tedesca

Il delfino Angelino fischiato a Berlino

Niente ”lectio” per il ministro avvertito delle contestazioni: «Avevo un impegno» di Andrea D’Addio

BERLINO. «Il ministro Angelino Alfano è purtroppo impegnato in un’importante telefonata all’ambasciata e non potrà presenziare all’evento“». È questa la giustificazione, molto simile a quella addotta da Berlusconi il giorno del ritardo alla fotografia di gruppo al vertice Nato di due anni fa, con cui una dipendente dell’Università ha spiegato al pubblico e ai giornalisti l’improvvisa cancellazione della partecipazione di Angelino Alfano alla conferenza: “La lotta contro il crimine organizzato transnazionale e il terrorismo: una prospettiva italiana”, prevista ieri presso la sala del senato della Humboldt, la prima università di Berlino.

cioè privi di condanne definitive, che si trovano semplicemente in due diverse fasi del giudizio». E questo non ha senso, spiega Mirabelli con una riflessione illuminante ma che evidentemente la maggioranza ha sottovalutao. «La prescrizione si ancora appunto alla gravità e, senz’altro, a fattori quali l’eventuale recidiva. E la gravità dell’imputazione è data dal fatto compiuto, o di cui si è comunque accusati, e della corrispondente pena.Tanto è vero che proprio alla pena è commisurato, nel diritto penale, il sopraggiungere della prescrizione».

Il fatto di essere stati o no già condannati in primo grado, a parità delle altre condizioni, fa notare Mirabelli, «non determina differenze sul piano della meriCESARE MIRABELLI

li di violare il principio di uguaglianza, cioè l’articolo 3 della Carta. Bel capolavoro. «Senza dire che se una sentenza arriva così a ridosso della prescrizione “naturale”, non c’è in fondo bisogno di accorciare la prescrizione stessa perché appunto appello e cassazione non sarebbero intervenuti in tempo». Ma questo, conviene Mirabelli, è affare relativo al «buonsenso». Come al buonsenso è orientato il quesito del presidente emerito: «Ma non sarebbe stato meglio destinare le stesse energie adoperate da magioranza e opposizione rispetto a questa proposta di legge, per provvedimenti che assicurassero la ragionevole durata dei processi?». Domanda legittima, e retorica ovunque tranne che in Italia. «Con la prescrizione non si agisce sui tempi della giustizia dal punto di vista sistemico. Perché si tratta semplicemente del riconoscimento di un’impossibilità, per l’ordinamento, di raggiungere il giudizio definitivo». Resta sullo sfondo il nodo delle parti lese. Che Mirabelli non trascura, anche perché se è vero, dice, che «le parti civili possono comunque perseguire l’azione civile, per il risarcimento dei danni», è anche vero che «queste non hanno interesse solo all’aspetto patrimoniale, ma anche a una condanna penale». Solo che per capirlo servirebbe un po’di applicazione anche sull’attesa di giustizia che davvero le persone coltivano.

Ma non sarebbe stato meglio destinare tante energie a un provvedimento che sveltisse i tempi del giudizio? tevolezza». Ecco, a furia di delimitare il caso di applicazione delle leggi, la maggioranza finisce puntualmente per creare disparità. E quindi per partorire norme che tanto sono frutto di ostinata minuzia chirurgica quanto sono suscettibi-

un’urgente pratica contro due scafisti), qualcuno nel pubblico ha cominciato a gridare: «Questa è vigliaccheria», il professor Heger, si è lasciato sfuggire un: «Beh, sì», piuttosto emblematico: «Prima ci ha detto che sarebbe arrivato fra cinque minuti, poi che stava arrivando e infine che non sarebbe più venuto». La conferenza a quel punto si è trasformata in un serrato botta e risposta tra il pubblico presente in sala e il professore Heger, i primi contro l’invito della Humboldt ad Alfano, il secondo (inizialmente aiutato dal rettore dell’università Jan-Hendrick Olbertz) a rispondere come l’università sia: «il luogo ideale per il dibattito, anche il più controverso, con personalità della scienza e della politica». «Per quanto non condividessi la scelta della Humboldt, speravo quantomeno di potere sfruttare l’occasione per porre delle domande che in Italia nessuno ci darebbe la possibilità di fare», afferma Roberto, ricercatore di archeologia a Berlino da due anni. Per Giulia Merlo, 22 anni, da Trento, studentessa Erasmus di giurisprudenza: «I tedeschi non si rendono conto che gli italiani che vivono all’estero, soprattutto qui in Germania, non sopportano più i loro rappresentanti e più passa il tempo più si incattiviscono. Non si aspettavano un’accoglienza del genere sennò non lo avrebbero invitato».

«Non vogliamo un governante che ha dedicato tutta la legislatura alle leggi ad personam e non ha mai preso posizione contro la mafia»

Una spiegazione a cui pochi dei presenti hanno creduto. Poco prima infatti, mentre il moderatore dell’incontro, il professore Heger, aveva già preso posto sul palco, la sala era gremita di studenti e giornalisti (comprese le telecamere della Rai) e si attendeva solo l’arrivo del ministro, tra il pubblico era stato letto ad alta voce un forte annuncio contro la presenza di Alfano: «Riteniamo questa messa in scena una provocazione. Si tratta di un ministro che non solo ha dedicato tutta la sua legislatura all’emanazione di leggi che hanno potuto salvare Berlusconi dai suoi processi, ma è stato anche fotografato assieme a un boss mafioso e spesso ha avuto parole di ammirazione per persone giudicate colpevoli di avere intrattenuto rapporti con la mafia». L’applauso successivo alla lettura di questo annuncio, è durato circa due minuti ed ha coinvolto quasi la totalità delle circa centocinquanta persone del pubblico». A seguire: applausi, grida, distribuzione di volantini sul “ chi è Alfano” e cartelloni dagli emblematici titoli: “L’Aquila Breve”, “Achtung Mafiosi!”, “Vergogna” e “Mafia?Nein Danke”. L’accoglienza non si presentava quindi delle migliori per il Guardasigilli, atteso al varco dalle circa centoventi persone presenti all’evento. Quando, dopo la comunicazione dell’assenza di Alfano (che nel pomeriggio ha precisato di aver saltato l’incontro a causa di

Le polemiche in realtà erano cominciate già due giorni fa quando due articoli, uno sul Tagespiegel e uno sul Postdamer Neuste Nachricther, si chiedevano come mai un ateneo prestigioso come la Humboldt avesse voluto invitare l’uomo del “Lodo Alfano”, e su perché il comunicato ufficiale dell’incontro fosse stato reso noto al pubblico solo tre giorni prima attraverso uno scarno annuncio su internet. Certo è che la totale assenza di docenti tedeschi tra il pubblico, a cui erano state riservate le prime quattro file della sala, tutte rimaste miseramente vuote, è stata un’immagine piuttosto chiara sul reale convincimento del corpo insegnante sull’opportunità dell’invito posto al ministro.


il paginone

pagina 8 • 15 aprile 2011

iaccia o no, Nanni Moretti è uno dei pochi registi di caratura internazionale rimasti nella cartucciera italiana. E il personaggio oscilla tra gli antipodi dell’amore incondizionato e una riverente antipatia. Prova ne sia la leggendaria blindatura del set di Habemus Papam, che secondo la vulgata mister Apicella avrebbe recintato con militaresca perizia. Si è detto e ridetto che l’operazione era stata allestita per attizzare la curiosità, si è accolto lo stillicidio di indiscrezioni con piccoli strepiti, ma la verità è che del film si conosceva quasi ogni dettaglio per lo meno dal 14 febbraio.

P

Tre fitte paginette dell’Espresso, a firma di Malcom Pagani, svelavano già all’incauto lettore tutti i particolari in cronaca: battute chiave, svolte della al suo debutto con Io sono un autarchico del 1976, l’autore principe del cinema italiano ha fatto undici lungometraggi. L’ultimo, Il caimano, la dolente e comica agiografia di Berlusconi, risale al 2006. Per due anni ha fatto il direttore del Festival di Torino, poi l’attore in Caos calmo, con il memorabile amplesso ginnico con Isabella Ferrari. Astuto gestore della propria immagine e del proprio lavoro, il modo in cui ha giocato a nascondino con l’ultima opera rasenta il perfezionamento della tecnica della scarsità di notizie. Nanni Moretti è già passato per le tre fasi di una reputazione culturale, definite da Alberto Arbasino: Giovane Promessa, Solito Stronzo,Venerato Maestro. Dalle due sale affollatissime e dall’esercito di fotografi e cameramen all’anteprima stampa ieri a Roma, si capisce che al V.M. è riuscita l’Operazione Garbo per il nuovo film Habemus Papam, attesissimo da una stampa, non solo di settore, in febbrile eccitazione. Nelle ultime settimane uscivano a gocce immagini, notizie, teaser e trailer, centellinati come i favori di una allumeuse. Allora, dopo averlo visto nel silenzio - è il caso di dirlo - religioso per una canonica ora e tre quarti, si può dire innanzitutto che il film funziona. Dal punto di vista formale è indubbiamente la sua opera più gratificante per l’occhio. È noto che lo stile visivo di Moretti è, nel migliore dei casi,“essenziale”, e nel peggiore “da geometra” (copyright Mariarosa Mancuso). Il direttore della fotografia aveva a disposizione gli splendori del Vaticano e di San Pietro - addobbi, paramenti e sontuosi abiti ecclesiali e le gustose Guardie Svizzere - e di una finta ma non indegna Cappella Sistina.

L’“Espresso” aveva svelato la trama a febbraio

I l se t d i N a n n i s t avo lt a h a c ed ut o, d i q u es t a st o r i a si sa peva già tutto di Francesco Lo Dico

D

È la storia di un neo-eletto papa francese in crisi (Michel Piccoli) di nome Melville; forse un doppio omaggio al regista francese nato Jean-Pierre Grumbach, e al suo nome d’arte, in onore del sommo scrittore americano, Herman Melville; o forse è solo un inchino alle profondità metafisiche dell’autore di Moby Dick. Perché Moretti, noto per la mescolan-

La messa non è ricominciata di Anselma Dell’Olio

Anche il nuovo film di Moretti, “Habemus papam”, ha due chiavi politiche: la rinuncia a “invocare” qualcosa di sinistra e l’auspicio che Berlusconi si dimetta


il paginone sceneggiatura, le immancabili metafore sportive, l’amaro epilogo. Il firewall di Moretti era stato hackerato in tutta comodità dal giornalista, che a quanto pare ha potuto assistere alla pellicola grazie a un assistente al montaggio, dunque. Non fosse che, la natura virale del gossip non ha stranamente attecchito sui numerosi quotidiani nazionali. È stato il timore di irritare Nanni, a fare pietosi gli altrove implacabili segugi dello spoiler. Ed è accaduto pertanto che si è gentilmente conservato a Moretti, l’aura di fitto mistero. Faremmo torto al cinema, qui e in ogni altro caso, a spifferarvi tutta la trama. Ci limiteremo perciò a raccontarvi che il film ha già avuto un altro precoce spettatore. Monsignor Ravasi ha già visto Habemus Papam e ne ha ricavato un’impressione favorevole. Nel mondo ecclesiasti-

za di temi politici e intimisti, che qualche volta sfiorano l’eterno, ha indossato l’abito talare in La messa è finita, per fare la predica, tra l’altro, alle coppie che si sfasciano. (Poi s’è sfasciata la sua.)

Qui si rimette nei panni di uno psicoanalista, stavolta non per elaborare il lutto di un figlio tragicamente morto, ma per avere il pretesto di dire e fare le cose che rendono il suo cinema gustoso: battute come «Non conosci la Sacher torte? Continuiamo così, a farci del male» (Bianca,1984) e situazioni paradossali e buñueliane, come far giocare ai cardinali un torneo di palla a volo, per ingannare il tempo mentre il neopapa vaga per la città in cerca di se stesso. Il racconto si apre

15 aprile 2011 • pagina 9

co, c’era stata però una certa circospezione, tant’è che Nanni ha dovuto ambientare alcune scene del copione in una Cappella Sistina ricostruita a Cinecittà in scala identica all’originale. Voci infondate avevano visto nel cardinale Melville, pontefice depresso soccorso dallo psicoanalista Moretti, addirittura Benedetto XVI. Altri avevano esteso i paralleli addirittura a Celestino V, colui che fece “il gran rifiuto”. Anche in questo caso, un buco nell’acqua. L’impressione che si ricava a partire dai trailer rilasciati nei giorni scorsi, è però che questi non rendano bene lo spirito dolente del film, a vantaggio dell’istrionismo morettiano.

Certo, ci sono i vescovi che giocano a pallavolo, i cardinali che sudano sulla cyclette e giocano a sco-

con i funerali di un papa, con una scenografica tempesta di vento, come quella alle esequie di Giovanni Paolo II. I cardinali in processione recitano le stupende litanie che suonano ancora nelle orecchie, mentre arrivano le prime zampate comiche. Un cronista del Tg2 tenta di carpire un’intervista o un commento dai prelati che sfilano, finche non è allontanato dal Portavoce (Jerzy Stuhr, regista e attore polacco). Sequestrati i cellulari, i porporati vengono chiusi nella Cappella Sistina per il conclave. La seconda scena da sghignazzo è quella in cui i cardinali allungano il collo per sbirciare i nomi sule schede dei vicini di banco, come discoli copioni, insicuri della risposta giusta. È un classico felliniano; del resto tutti quegli abiti svolazzanti di religiosi in giro per Roma riportano inevitabilmente a indimenticabili stilemi col marchio dell’inarrivabile riminese. Le citazioni sono tante, non solo Luis Buñuel, ma anche Marco Ferreri, conclamate dalla presenza di Piccoli, attore molto amato dai due cineasti del surreale e dell’assurdo. È ironica pure la scena in cui i più papabili pregano il Signore di allontanare da loro questo calice amaro, con la chiara intesa che non desiderano altro, in realtà. Non solo è perdente il favorito Gregori (Renato Scarpa, perfetto) ma sale al Soglio Pontificio Melville, che nessuno aveva preso in considerazione, come evidenzia lo psicoanalista Moretti quando annuncia le quotazioni di ognuno presso gli allibratori inglesi (ma lui preferisce bookmaker, alla faccia del Mo-

retti d’antan che detestava gli anglismi). Melville è stordito, come di consueto avviene, dall’elezione ma alla domanda se accetta risponde di sì. Chissà perché un ben informato come Nanni non ha usufruito della Stanza del pianto dove il neoeletto è portato per la vestizione, e dove (o e leggenda?) si dice che il fresco pontefice scoppia sempre in lacrime copiose per l’immane responsabilità che sarà sua fino alla fine dei suoi giorni. Ma il nuovo successore di Pietro nemmeno riesce a farsi vedere dalla folla in gioiosa attesa, perché lancia un urlo belluino e parte la sua odissea di disperazione.

Prima è chiamato il più stimato psicoanalista su piazza, cosa che dà a Moretti agio di ripetere, un po’giocando e un po’ beandosi, quello che si dice di

pone, un papa poco attratto dal vicariato di Cristo e molto dal teatro di Cechov, in questo Habemus Papam. Ma chi si aspetta uno sgangherato Papocchio, o un manuale di anticlericalismo in comode gag, dovrà rivolgersi altrove. «È un film ambientato oggi», ha detto il regista ai giornalisti, «ma non abbiamo inseguito l’attualità. Contiene un nucleo doloroso, ma circondato da un tono lieve». Una frase che potrebbe essere copiata e incollata pressochè su ogni locandina della filmografia morettiana. Immancabile anche in questo caso, il cotè psicoanalitico. Ma stavolta, il paziente è ancora più illustre dell’indimenticata Mamma di Freud. Ci sarebbe piaciuto saperne molto meno, di questa pellicola. Ma se anche il papa è fallibile, potremo perdonare a Nanni la mancata suspense.

lui autore sin dall’inizio: «Sono il migliore, lo so, lo dicono sempre». E dà a questa nomea onerosa la colpa del fallimento del suo matrimonio. E qui l’autore divorziato allude forse alla sua vita privata, quando dice che la moglie (che gli manca) non ha retto al peso dei continui riferi-

Tra compiacimento e gioco, l’autore non perde occasione per ribadire la sua “superiorità” su tutti i cineasti italiani menti alla sua superiorità, e via di questo passo, affinché anche i più duri di comprendonio s’accorgano della sua rinomata superiorità su tutti i cineasti italiani. Spaziamo via un equivoco: Papa Melville non si strugge perché ha perso la fede, ma perché il compito checché ne dica, secondo lui, lo

Spirito Santo - lo sente e lo ritiene troppo al di là della sua portata. Non c’è grazia sufficiente, secondo il suo rifiuto finale, che sia in grado di mettere ordine in questo nostro mondo malato, conflittuale, incasinato. Naturalmente questo potrebbe offrirsi come una crisi di fede bella e buona, ma non sembrerebbe così.

Ci sono almeno due possibili letture di questa “drammedia” (sorry, Nanni), divertente e a modo suo dolorosamente cifrata, e questo è un segno di qualità; solo i film migliori offrono interpretazioni plurime. Sono tutte e due politiche. Moretti, conservatore di sinistra, giudica talmente disperanti le condizioni generali del nostro Paese, inclusa la latitanza di programmi e di leadership dell’opposizione, che è la sua casa, che getta la spugna. Non gli resta che rinunciare a invocare «qualcosa di sinistra» a vita, e spogliarsi figurativamente della divisa da combattente, ritirandosi a vita privata. Sarebbe più sottile del colpo di Stato proposto bellamente da Alberto Asor Rosa sul Manifesto due giorni fa. Oppure è un invito più raffinato ma fondamentalmente uguale a quello urlato in piazza da tanta sinistra all’ingombrante presidente del Consiglio, di levarsi dalle palle; sarà pure stato eletto dal voto legittimo del popolo, ma lo sforzo di governare il paese è un peso troppo grande, e farebbe bene a imitare Melville, teatrante frustrato, tornandosene al suo primo amore, lo spettacolo. Ma il Caimano segue la regola aurea: the show must go on.


scenari globali

David Cameron Una nuova era dell’immigrazione

Il premier inglese riapre il dibattito sul multiculturalismo. «Sì agli arrivi di qualità, stop agli ingressi di massa» n anno fa, in piena campagna elettorale, un messaggio circolava forte e chiaro: le cose devono andare diversamente. Le persone chiedevano un governo che non fosse solo capace di finire sui giornali e curare gli interessi del proprio partito, ma fosse in grado di lavorare efficacemente in una prospettiva di lungo periodo e nell’interesse dell’intero Paese. Esattamente quello che stiamo facendo. Ovviamente tagliare la spesa pubblica non è mai popolare, ma è giusto dare un indirizzo chiaro alle nostre finanze pubbliche. La gente chiedeva un governo in grado di fidarsi delle loro richieste. E il mio governo lo sta facendo, consegnandogli una serie di nuovi poteri in grado di farli uscire dai lacci e lacciuoli della burocrazia. Le persone erano stanche di vedere che chi faceva la cosa giusta veniva punito e chi sbagliava veniva premiato. E anche su questo siamo intervenuti. Nel welfare, per esempio, abbiamo messo fine a un sistema che prelevava le tasse a chi lavorava duramente per dare sostegno a chi si rifiutava di farlo.

U

Un argomento, però, ha tenuto banco più di ogni altro e questo era: «Siamo preoccupati dal livello di immigrazione nel nostro Paese, e siamo stanchi di sentire i politici parlare del nulla». Anche qui, siamo determinati a far la differenza. L’immigrazione è un tema fortemente emotivo e forse per questo il dibattito ha virato troppo spesso su sterili affermazioni retoriche piuttosto che sui contenuti. Tendendo più ad estremizzarsi fra favorevoli e contrari che a trovare vere soluzioni. Il governo Brown ha contribuito a infiammare il dibattito. Fra mini-

stri laburisti pronti a tacciare chiunque sollevasse la questione come un razzista e altri favorevoli ad aprire un dibattito che comunque rischiava di fargli perdere potere. Il risultato è stato uno stallo politico a fronte del quale i numeri degli ingressi ha continuato a crescere. Questo approccio ha provocato delle dannose conseguenze sul controllo dei flussi così come sul dibattito pubblico. Creando uno spazio favorevole alla nascita di partiti estremisti capaci di crescere sull’onda dell’immobilismo statale. Ricordo perfettamente quando l’immigrazione non era un tema centrale della nostra politica. Ma adesso

loro opinioni al riguardo. Quindi comincerò con il dirvi cosa penso. Il nostro Paese ha beneficiato moltissimo dall’immigrazione. Basta andare in un qualsiasi ospedale per vedere come persone provenienti dall’Uganda, India e Pakistan si prendano cura dei nostri cari e delle persone più vulnerabili. Basta andare nelle scuole e nelle università per trovare insegnanti di ogni Paese ispirare i più giovani. Basta andare in ogni via del paese per trovare imprenditori di ogni razza perfettamente integrati nel tessuto sociale. Dalle finanze alla moda, dal cibo alla musica: questi settori non sarebbero quello che oggi sono se non avessero goduto dei benefici dell’immigrazione. Non posso che riconoscerlo: gli immigrati hanno contribuito enormemente alla crescita sociale della Gran Bretagna.

Nel mirino di Downing Street i finti matrimoni, i falsi studenti e chi non sa parlare affatto la lingua inglese

non è più così. E io voglio levare l’ossigeno a quei partiti estremisti che si servono della paura e dell’ansia della gente per proliferare. Li voglio far sparire una volta per tutte. Soprattutto, voglio rimettere la politica nella giusta direzione: una buona immigrazione, non un’immigrazione di massa. Questo è ciò in cui credo, questo ci permetterà di aprire un vero dibattito, questo ci permetterà di agire e non solo di parlare. Cominciamo con l’essere chiari. Gli inglesi sono un popolo giusto e io voglio che si sentano liberi di esprimere le

Detto questo, un altro punto mi è chiaro: abbiamo accettato flussi migratori troppo alti e per troppo tempo. Fra il 1997 e il 2009, 2 milioni e 200mila persone si sono trasferite in Gran Bretagna. Il più alto tasso di migranti che il Paese abbia mai visto, capace di mettere sotto pressione intere comunità da nord a sud. Una pressione che ha colpito scuole, ospedali, mercato immobiliare e che si è trasformata in una pressione sociale. Perché le comunità non sono solo un insieme di servizi pubblici. Le comunità condividono esperienze comuni, si alimentano di conversazioni e amicizie, si tengono insieme grazie a dei rituali quotidiani:


scenari globali dalla corsa per prendere lo scuolabus alla chiacchierata al pub. Questi legami richiedono tempo. E ci fanno capire che una vera integrazione ne richiede altrettanto. Ecco perché, quando le comunità crescono a dismisura accogliendo persone che non sanno parlare la loro lingua si crea una frattura e un senso di smarrimento e sconforto. Uno stato dell’animo che colpisce buona parte del nostro paese e al quale io devo dare delle risposte.

Il primo ministro britannico sposa la linea dura sull’immigrazione e si dice pronto a chiudere migliaia di ingressi nel Paese. Nelle immagini, vita di immigrati a Londra. Dallo spaccio dei cinesi alle top model venute dall’est

Traducendo tutto questo in concetti pratici, io credo che controllare i flussi migratori e abbassare il tasso di immigrati sia di vitale importanza per il futuro del nostro Paese. Ed è proprio pensando a questo che durante la campagna elettorale dello scorso anno ho preso un impegno con i miei elettori: riportare il tasso di immigrazione al livello degli anni Ottanta. Un impegno che ora che siamo al governo ho intenzione di mantenere. Stiamo controllando l’immigrazione legale grazie all’imposizione di un tetto agli ingressi extra Ue. Stiamo bloccando gli ingressi clandestini e siamo pronti a intervenire anche sulla richiesta d’asilo. La Uk Border Agency sta finendo di rispedire al mittente circa mezzo milione di richieste d’asilo. La nostra azione è sotto gli occhi di tutti. Però alcuni “miti” stanno prendendo piede su quello che stiamo facendo e sull’impatto che le nostre politiche avranno in futuro. Alcuni sostengono, infatti, che le misure che abbiamo preso non permetteranno di controllare l’immigrazione in modo significativo. Altri, al contrario, dicono che avranno successo ma che danneggeranno la nostra economia e le nostre università. Questi miti vanno sfatati. Oggi. Comincio con il rispondere a chi dice che le nostre misure non sortiranno effetto alcuno. Questi scettici hanno tre assi nella manica. Primo: dicono che l’immigrazione illegale è impossibile da fermare perché facciamo parte della Ue. Secondo: che è incontrollabile perché la polizia non ha abbastanza forze per contrastarla e terzo che resterà comunque alta perché i lavoratori immigrati fanno dei lavori che gli inglesi non sono più disposti a fare. Ognuna di queste ragioni è errata. Partiamo dall’Europa. È vero, i nostri confini sono aperti per chi arriva dai paesi membri. Ma al momento la percentuale di ingressi per questa via è molto esigua se paragonata all’intero flusso migratorio. Per capirci, dallo scorso giugno via Europa sono entrati solo 27mila immigrati. Questo non significa che sia irrilevante. Dal 2004, data di ingresso nella Ue di alcuni paesi dell’est europeo,

più di un milione di migranti hanno varcato il nostro confine per stabilirsi qui, Un numero immenso. Che ci ha imposto di di richiedere l’imposizione di un tetto per i Paesi che si apprestano ad entrare in Europa. Ciò detto, però, un dato è incontrovertibile: il grosso dell’immigrazione arriva da paesi extra Ue. Dallo scorso giugno nel Regno Unito sono entrati 198mila immigrati extra Ue. Questo è il dato sensibile sul quale dobbiamo intervenire. La scorsa settimana, il nostro nuovo limite per l’immigrazione imposto a chi cercava di venire qua a lavorare da fuori i confini europei, è stato messo a dura prova. Questo significa che per i prossimi 12 mesi non permetteremo ai datori di lavoro di assumere più di 20.700 operai specializzati extra-europei. E abbiamo già dimostrato che un limite può funzionare. Lo scorso luglio, abbiamo imposto limiti ad interim sui visti che avremmo fornito per gli operai specializzati, e questo ha permesso di tenere il numero totale sotto le 20mila unità. Ovviamente, il lavoro è soltan-

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restato per aver ordinato più di 300 matrimoni fasulli. Ma, oltre agli abusi del sistema, ci sono anche altri problemi di carattere familiare. Sappiamo, ad esempio, che alcuni matrimoni avvengono quando la sposa è molto giovane e non conosce la lingua inglese. Ancora una volta non possiamo permettere alla sensibilità culturale di fermare la nostra azione. Ecco perché, lo scorso novembre, abbiamo introdotto un requisito linguistico per chi chiede un visto matrimoniale: devono sapere almeno un po’ di inglese. E qui da noi difenderemo il limite di 21 anni per le donne che vogliano sposarsi.

Dunque, per quanto l’argomento possa essere sensibile o difficile, stiamo restringendo il canale “familiare” all’ingresso nel Paese. Ma, fino ad ora, il più grosso viatico all’ immigrazione nel Paese rimane quello studentesco. L’immigrazione di studenti non europei in Gran Bretagna è quasi triplicata nell’ultimo decennio. Lo scorso anno, sono stati rilasciati per motivi di studio qualcosa come 303.300 visti. Ma questa non è la fine della storia. Perché molti studenti portano con loro, nel viaggio, altre persone: mariti, mogli, bambini. Altri 32mila visti, sempre lo scorso anno, sono stati concessi a persone collegate agli studenti. E, di nuovo: molte di queste richieste di visto sono per studenti veri, che hanno intenzione di seguire corsi veri e che portano con loro parenti veri. Ma sappiamo anche che qualcuno fra questi studenti è fasullo, così come i loro parenti. Considerate questo: su un pacchetto sperimentale di 231 richieste di visto per parenti di studenti, solo il 25 per cento era genuino. Il resto? Alcuni cercano di fregare il sistema, non avendo veri rapporti affettivi con gli studenti. Degli altri, semplicemente, non sappiamo nulla. L’intero sistema era fuori controllo, e ora stiamo cercando di rimetterlo a posto. Abbiamo messo nel mirino quei finti college che offrono corsi fasulli. Ci stiamo assicurando che tutti coloro che frequentano corsi reali abbiano una vera conoscenza della lingua inglese. Abbiamo deciso che soltanto dopo la laurea, gli studenti che aspirano al dottorato possano chiamare i parenti. E ci stiamo assicurando che se la gente viene qui per studiare, studi; non lavori. E quando finiscono i corsi, devono tornare a casa a meno che non venga offerto loro un lavoro dignitoso con un salario garantito.

Finanze, moda, cibo, musica: questi settori non sarebbero diventati quello che sono senza il contributo dei migranti

to una delle strade per entrare e stabilirsi in questa nazione. Ogni anno, decine di migliaia di persone si sposano in Gran Bretagna o raggiungono qui la propria famiglia. Ora, molte di queste relazioni sono genuine e nascono dall’amore. Ma noi sappiamo anche che esistono abusi al sistema. Tanto per iniziare sappiamo che esistono i matrimoni forzati, sia nel nostro Paese che nei Paesi d’origine di queste persone, che vengono usati per entrare da noi. Si tratta di una pratica orribile, in cui alcune ragazze britanniche vengono molestate e minacciate per costringerle a sposare una persona che non vorrebbero. Non ho tempo per rispondere a chi dice che questo è un argomento relativamente culturale: è sbagliato, punto e basta, e dobbiamo eliminarlo. Esistono poi i semplici matrimoni fasulli. La scorsa estate abbiamo ordinato alla Uk Border Agency di fare il possibile per fermarli, e loro hanno riportato un buon successo: 155 persone sono state arrestate. Ricordiamo il caso sconvolgente di quel vicario che è stato ar-


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Nel loro insieme, stimiamo che queste nuove regole potranno tagliare i visti studenteschi di circa 80mila unità l’anno. Dunque stiamo agendo simultaneamente in tutte e tre le corsie principali di accesso al Paese: lavoro, famiglia, educazione. E la parola chiave è“simultaneamente”. Come ha detto il ministro degli Interni, controllare il flusso di immigrazione tramite una sola rotta «è come strizzare un pallone. Abbatti i visti studenteschi e aumentano quelli per il lavoro; tocchi quelli sul lavoro e schizzano quelli familiari». Per anni molta gente ha giocato con questo sistema, esplorando il modo più facile per entrare in Gran Bretagna. Oggi, grazie al nostro operato, questa nazione ha finalmente dei controlli rigorosi alle proprie frontiere.

Come ho detto in un discorso quando ero all’opposizione, ciò che importa di più non è chi entra nel Paese, ma chi ci resta. Ovviamente ci sono ragioni legittime in grado di giustificare che chi arriva qui in maniera temporanea si fermi poi in maniera permanente. Ma i dati suggeriscono chiaramente che molti entrano in Gran Bretagna con un visto temporaneo e la chiara intenzione di rimanerci per sempre. Più di un quinto degli studenti venuti da noi nel 2004 erano ancora qui cinque anni dopo: la maggior parte di loro era entrata per seguire “brevi corsi di studio”. Ma il flusso più significativo di immigrati decisi a restare passa attraverso il settore economico. Lo scorso anno, 84mila persone che sono arrivate con un visto di lavoro hanno sviluppato il diritto a rimanere. Io voglio che la Gran Bretagna continui ad attrarre i lavoratori migliori. Ma non è giusto che chi entra per stare poco tempo rimanga a lungo. Come ha sostenuto il Gruppo bipartisan per l’immigrazione bilanciata, è essenziale rompere quel collegamento fra i visti temporanei e la permanenza perenne. Hanno ragione, e questo è quello che il governo vuole fare. Ci consulte-

remo con loro per decidere il modo migliore di procedere nei prossimi mesi. Questi sono i progressi che stiamo facendo per tagliare l’immigrazione illegale e limitare gli abusi ai corretti canali di ingresso. Stiamo cercando di colpire duro l’immigrazione illegale e chi la gestisce. Questa è una questione di correttezza nei confronti del popolo britannico, ma anche nei confronti di chi è stato portato qui contro la sua volontà, tenuto come uno schiavo e costretto a compiere lavori orrendi.

Quindi, nell’ambito della nostra Agenzia nazionale anti-crimine, stiamo creando un apposito comando di polizia di confine con il compito di colpire i trafficanti di schiavi. E grazie a un ottima tecnologia e a una stretta collaborazione con la Francia, abbiamo tagliato di due terzi il numero di coloro che cercano di passare in maniera illegale il Canale. Mentre cerchiamo di fermare i clandestini, vogliamo fare qualcosa anche per coloro che sono già qui. Due campagne a livello nazionale contro l’immigrazione illegale hanno prodotto 1400 arresti, 330 cause e

Occupazione, famiglia, educazione: è seguendo queste corsie che i visti si sono moltiplicati. È intervenendo su questi tre punti che stiamo tagliando i flussi e dando una chance al Paese riservati ai disoccupati. Le stime dicono che circa 155mila lavoratori clandestini potrebbero, oggi, ottenere questi benefit: alcuni di loro potrebbero ottenere 5mila sterline l’anno come sussidio di disoccupazione. Ogni anno. È sbagliato, e noi lo stiamo fermando. Ci stiamo assicurando che quei soldi vadano soltanto a coloro che hanno il diritto di lavorare in questo Paese. E abbiamo annunciato da poco che chiunque abbia dei debiti con il Servizio sanitario nazionale sarà tenuto fuori dal Paese fino a che non avrà saldato il conto. Quindi parliamo di controllo ai confini; di politica sanitaria; di politica dei sussidi. Stiamo prendendo quelle misure necessarie per fermare quel flusso che per troppo tempo ha permesso alle persone di entrare qui in maniera illegale e di rimanere, sempre in maniera illegale.

Dei 2,5 milioni di posti di lavoro creati dal 1997, circa tre quarti sono stati occupati da persone non nate in Gran Bretagna

260 espulsioni. E in sei mesi, fino alla fine di febbraio, abbiamo messo da parte 3,6 milioni di sterline: le multe a coloro che speculano in questo campo. Cosa ancora più importante, stiamo chiudendo quei buchi neri che hanno permesso a quelle persone entrate in maniera illegale di ottenere persino i benefit

In questo modo possiamo controllare l’immigrazione, legale e illegale. È necessaria

però la volontà politica e la voglia di tenere questi temi in agenda per tutto il mandato del governo. Ma il terzo argomento di chi dice che non possiamo controllare l’immigrazione è che l’immigrazione non è soltanto un problema di offerta, ma anche di domanda. Messa in maniera semplice, l’immigrazione sarà sempre alta perché i britannici non vogliono fare i lavori che fanno gli immigrati. Posso vedere perché si propone questa questione. Dal 1997, il numero delle persone che lavorano nella nostra economia è aumentato di 2,5 milioni di unità. E di questo aumento, circa il 75 per cento è rappresentato da lavoratori non nati in Gran Bretagna: molti di loro lavorano per pulire uffici, servire nei ristoranti o costruire cantieri. Allo stesso tempo noi abbiamo messo a libro paga del welfare in maniera persistente dei cittadini britannici.

Voglio essere estremamente chiaro sulle conclusione che dobbiamo trarre da questi dati. Non parliamo di «immigrati che arrivano qui a portarci via il lavoro». La realtà è che non c’è – se non forse sul breve periodo – un numero determinato di posti

di lavoro. Se un centinaio di lavoratori immigrati entrano nel Paese, questi non andranno automaticamente a togliere il posto ad altrettanti lavoratori britannici. Naturalmente andranno ad occupare gli impieghi disponibili, ma porteranno anche benessere (con i loro contributi previdenziali) e aiuteranno la creazione di nuovo lavoro. Il vero problema è questo: gli immigrati vanno a tappare i buchi creati da un sistema previdenziale che per anni ha pagato i cittadini britannici per non lavorare. È lì che nasce il problema: all’interno del nostro disastrato welfare e dal fatto che il governo precedente non sia riuscito pienamente a riformarlo. Quindi immigrazione e riforma previdenziale sono due facce della stessa medaglia. In parole povere, non saremo mai in grado di controllare correttamente i flussi migratori se prima non risolviamo il problema della dipendenza del nostro welfare dalla loro forza lavoro. Questo è un altro dei motivi per cui questo governo sta realizzando la più grande riorganizzazione del sistema sociale che varrà per molte generazioni… rendendo possibile un sistema dove sia meglio essere occupato piuttosto


scenari globali

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Dalla pagina accanto in senso orario: bancarelle e negozietti; polizia in prima linea nel contrasto dei migranti illegali; uno chef cinese; una famigliola davanti a Westminster e donne che fanno la spesa

che vivere una vita col sussidio di disoccupazione, quando è invece possibile vivere lavorando.

Prendete tutte queste iniziative nel loro insieme e vedrete che è possibile un controllo dell’immigrazione. Ma c’è un altra categoria di persone che vorrei coinvolgere. Quelli consapevoli del fatto che noi si riesca a controllare i flussi migratori, ma che hanno dei dubbi sulle nostre riforme. La loro prima affermazione è: queste politiche negano al sistema economico britannico quei talenti di cui ha bisogno per avere successo. È semplicemente sbagliato. Niente e ripeto nulla è più importante per questo governo della crescita della nostra economia e della creazione di occupazione e prosperità in tutto il Paese. Ecco il motivo per cui siamo venuti qui, al di là della semplice sciorinatura di numeri, pensando seriamente alle conseguenze che la nostra politica avrebbe avuto sulle imprese e pensando con estrema attenzione al modo con cui attirare le capacità e le menti più brillanti sulle nostre coste. Questo è un obiettivo che la precedente amministrazione non è proprio riuscita a raggiungere. È vero, ha introdotto il sistema del punteggio per gli immigrati, dove la gente viene accolta in base alle proprie capacità professionali… ma lo ha fatto a seguito delle continue pressioni esercitate dal partito Conservatore. E una volta varata la nuova normativa, non sono riusciti a farla funzionare e a gestirla nel maniera migliore.

Punto primo: i visti avrebbero dovuto essere riservati agli immigrati con le migliori qualifiche professionali. Ma i fatti dimostrano che oltre un terzo di questi nuovi entrati non sono stati impiegati in lavori altamente qualificati. Alcuni hanno trovato posto a sistemare scaffali nei supermercati, altri alla guida dei taxi, altri ancora un lavoro non l’hanno proprio trovato. Punto secondo: i visti d’ingresso si supponeva fossero riservati a qualifiche professionali come gli ingegneri. Ma ancora una volta si è fatto un pessimo uso della legge. In un caso la qualifica di «cuoco d’eccellenza» ha fatto guadagnare un posto in un fast food. E il criterio principale di qualifica è dato dal livello di retribuzione. Così la

Un sistema malato ha garantito il proliferare di enormi truffe ai danni dello Stato. Finti college, false unioni, parenti fasulli e imprese inesistenti. Questo non accadrà mai più sorella dell’aspirante cuoco che gestiva un fast food, dove si vendeva pollo fritto, gli ha garantito lo stipendio adeguato. E le autorità non hanno potuto far niente e gli hanno dovuto concedere il visto. Così è toccato all’attuale governo risolvere il problema. Stiamo cambiando totalmente i meccanismi di funzionamento, in modo che sia veramente adeguato alle esigenze della nostra economia. Stiamo lavorando alla riforma del «primo Punto» in modo che il sistema faciliti l’ingresso solo dei migliori. Nel pacchetto della riforma stiamo introducendo percorsi nuovi che facilitino l’entrata di talenti particolarmente dotati, come nel caso di scienziati, accademici e artisti. Stiamo introducendo un nuovo visa per imprenditori che stenda un tappeto rosso per

da badanti o cuochi. Di più, abbiamo esteso l’esenzione a quelli che vengono definiti i trasferimenti all’interno di una stessa azienda. Così una società con sedi all’estero potrà trasferire del personale da un Paese all’altro senza problemi, fermo restando che non potranno essere assunti a tempo indeterminato, categoria di lavoro riservata ai soli cittadini britannici. Ecco perché respingo totalmente l’idea che le nostre riforme possano danneggiare in qualche modo la nostra economia.

Alcuni affermano che le normative sui visti per studio danneggino le nostre università. Vorrei essere chiaro ancora una volta: questo governo non farà nulla che possa danneggiare lo status della Gran Bretagna quale calamita dei migliori studenti del mondo. Ecco perché con noi, se sei bravo nella tua materia, sai l’inglese e ti hanno offerto un corso in una istituzione riconosciuta, potrai ottenere un visto per studiare nel nostro Paese. In altre parole, le università inglesi sono libere di mettersi sul mercato globale affermando: «Potete venire qui a studiare in una delle più prestigiose istituzioni mondiali e potete restare anche dopo, trovando un lavoro adatto alla vostra laurea». Ciò rende il nostro Paese una meta veramente ambita per chiunque abbai veramente voglia di studiare all’estero. Quello che non vogliamo e che questo diventi solo un mezzo per entrare nel nostro Paese. Quindi stiamo dando un giro di vite sugli abusi del sistema. Negli ultimi anni è cresciuta anche una fiorente industria di collegi universitari fasulli, che fornisce falsi certificati per visti d’ingresso fasulli.

Il Regno Unito sarà sempre aperto alle menti migliori e più brillanti e pronto ad accogliere i perseguitati

chiunque abbia un buona idea di business e voglia fare un investimento serio. Stiamo anche lavorando sui visti di secondo livello. Dal mondo delle imprese è arrivata una richiesta specifica di favorire gli ingressi di gente con qualifiche intermedie, ma già con un offerta di lavoro, piuttosto che di quelle migliori, ma senza mercato. È ciò che stiamo realizzando ora. Per l’anno che viene abbiamo ridotto di settemila unità gli ingressi per motivi economici e aumentato quelli di secondo livello, inserendo una clausola post lauream ed escludendo impieghi

Dei 744 college privati a pubblico registro solo 131 avevano ottenuto lo status di sponsor per studenti altamente qualificati. A metà del messe di gennaio i restanti 613 college privati senza lo status di «molto attendibili» erano riusciti a sponsorizzare l’ingresso di 280mila studenti.

Con un potenziale chiaramente enorme per gli abusi. In effetti abbiamo voluto dare uno sguardo all’interno delle pratiche di questi cosiddetti college. In alcuni casi gli studenti venivano mandati a tirocinio a oltre 400 chilometri dal college dove avrebbero dovuto studiare. In altri casi gli studenti erano costretti a lavorare in 20 posti diversi, non avendo assolutamente tempo per studiare. In altri ancora abbiamo trovato due soli posti di «lettore» per 940 studenti.Volete sapere a che livello di ridicolo era arrivata la situazione? In India c’era un’organizzazione che aiutava i giovani a ottenere il visto per studio. Aveva delle pubblicità su enormi cartelloni dove potevi leggere, sullo sfondo di una foto di un bus londinese, «fatti un giro gratis nel Regno Unito». Chiaramente non possiamo permettere che l’immagine del Paese venga associata a nulla di tutto questo. Per questo motivo stiamo combattendo ogni abuso e per lo stesso motivo non credo che la nostra politica stia danneggiando il sistema universitario. È molto semplice: se sei un vero istituto universitario non hai nulla da temere. Se non è

così, non è certo un problema del governo.

Ciò che abbiamo stabilito oggi è un piano sobrio, completo ed efficace per regolare l’immigrazione e ridurla sostanzialmente. Sobrio perché siamo giunti a questo dibattito avendo chiaro in testa non solo i benefici dell’immigrazione… ma anche del suo impatto sulla società, sui servizi pubblici e sulle comunità. Completa, perché non abbiamo lasciato nulla di intentato, intervenendo su tutti i canali d’ingresso nel nostro Paese. Efficace, perché lo stiamo realizzando in una maniera che rafforza la nostra economia e migliora la

considerazione delle nostre università. Circa un anno fa avevo affermato che avremmo ascoltato le preoccupazioni della gente e messo sotto controllo l’immigrazione. Oggi posso tranquillamente affermare che ci stiamo riuscendo. Se prendiamo in esame le misure presentate dal governo che prevedono l’intervento su tutti i canali d’immigrazione, sia legali che illegali, possiamo dire che i livelli di ingressi potrebbero tornare a quelli degli anni Ottanta e Novanta, quando l’immigrazione non era un problema politico. Voglio dire che l’immigrazione netta sarà di qualche decina di migliaia di individui l’anno, non di centinaia di migliaia, come è accaduto nell’ultimo decennio.

Sì, la Gran Bretagna sarà sempre aperta alle menti migliori e più brillanti provenienti da tutto il mondo, come per tutti coloro che fuggono dalle persecuzioni. Ma con noi, i nostri confini saranno sotto controllo, e l’immigrazione verrà portata a un livello in grado di essere gestito. Senza se e senza ma. È una promessa che abbiamo fatto al popolo britannico. È una promessa che stiamo mantenendo.


cultura

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Dalla battaglia per Roma capitale all’anticlericalismo, dal richiamo all’Impero fino a un’anticipazione di Benito Mussolini: il vate aveva capito tutto del Paese

Il Carducci tradito Dalla retorica per il 150° anniversario dell’Unità è scomparso il poeta che ha messo in versi l’Italia di Matteo Marchesini on è senza significato che le fin troppe parole “di ogni ordine e grado” spese in queste settimane sull’Unità della nazione non abbiano quasi sfiorato la figura del vate della Terza Italia. Da almeno sessant’anni, lo sappiamo, il mito di Giosue Carducci (1835-1907) s’è cancellato esteticamente e anche culturalmente, almeno nei suoi lineamenti più visibili. Eppure, oggi viene il sospetto che a partire dal secondo dopoguerra abbiamo voluto crederlo più remoto di quel che invece non fosse o non sia: e questa credenza ci dice forse qualcosa di cruciale su ciò che siamo stati o che siamo e su ciò che avremmo voluto e vorremmo essere, sul nostro rapporto col Risorgimento e sulle nostre rimozioni tanto politiche quanto letterarie. In ogni caso, un fatto

N

narchia sabauda. Ma questo vate in versione ridotta non fu soltanto l’esecutore testamentario di una tradizione: divenne anche, all’atto stesso di trasferirla nel mutato ordine sociale, il più o meno volontario precursore dei miti della grande proletaria, dei nazionalismi e dei protofascismi, della romanità da manifesto ’900 e da Impero delle aquile.

Nelle sue pagine, per l’ultima volta, viene nominata con piena consapevolezza filologica l’Italia «inclita vedova dolorosa»; e accanto a lei s’affollano il «latin sangue gentile», il «padre Tebro antico», i «Sacerdoti e guerrieri, ed inspirati/Sofi ed artisti, e contemplanti vati». Per l’ultima volta, in un compendio d’intarsi citazionistici impeccabili ma già bolsamente professorali, questo poligrafo sospeso tra arringhe civili e malinconie private (come poi Pasolini, che ne rifiuterà l’eredità un po’ troppo in fretta) «guarda a gli avelli» degli “antenati” con autentica commozione, e li contrappone sinceramente al presente: solo che adesso si tratta di un presente più infido, perché ha sporcato l’utopia fingendo d’incarnarla. Ecco allora che gl’illustri sepolcri fiorentini e romani vengono contrapposti non più a una penisola occupata dagli stranieri, ma a un’Italia unificata in modi assolutamente incompatibili con gli auspici dei suoi intellettuali. Questa Italia non è più corsa da barbari o mercenari. Peggio, molto peggio: ora, davanti a Porta Pia, si rivela una patria vile di «Piccioletti ladruncoli bastardi» e di Bonturi, di «picciole cose» e «uomini novelli» che il poeta implora d’allontanare al più presto dal religioso orrore di rovine e delubri dove la dea Roma dorme i suoi sacri sonni (si veda Dinanzi alle terme di Caracalla).

Da almeno 60 anni, lo sappiamo, il mito è stato cancellato esteticamente. Abbiamo voluto crederlo più remoto di quel che invece è stato e ancora è è certo. Il giovane «amico pedante», l’erudito granducale che giunse a Bologna a ridosso dell’annessione, lasciandosi alle spalle studi severi e tragedie familiari, giocò poi un ruolo decisivo nella elaborazione dell’immagine che la neonata Italia volle offrir di sé. Carducci fu uno straordinario catalizzatore e “trasformatore populista” delle vetuste formule con cui la poesia italiana usava resuscitare retoricamente un popolo di morti spiriti magni, latini o rinascimentali, per spronare i contemporanei - considerati secondo canonica finzione loro eredi di sangue - a uscire dal torpore e ad emularne finalmente le gesta.

Fu Giosue a tradurre i topoi del rimpianto civile e i lamenti sempre versati sulle italiche spoglie in costume culturale tagliato su misura per la nuova piccola borghesia. Filtrò tutto al setaccio della sua vocazione cattedratica, mescolò i padri letterari premoderni alle ballate di Berchet, e con buona lena mise in piedi un suo repertorio eclettico di tonanti invettive e versetti tronchi, di fitte apocopi e di oggetti industriali nominati con perifrasi auliche oramai stucchevoli. Così rappresentò la parte dell’ultimo, depotenziato stregone dei riti classicisti: cioè di quella marmorea Poesia che fino al 1860-’61 aveva costituito l’unico vero collante “nazionale”. Carducci si trovò insomma a celebrare i più venerandi riti letterari quando il chimerico sogno evocato per mezzo millennio s’era d’improvviso realizzato; e s’era realizzato, come sempre capita, in forme inattese o delusive: materializzandosi nella mo-

La conquista dell’Urbe - qui sta il punto - non è avvenuta attraverso le generose imprese di Aspromonte e Mentana, sabotate dalla realpolitik piemontese: sono stati i burocrati a entrarci infine alla chetichella, quasi strisciando per non disturbar francesi e papalini. Quindi, dopo i burocrati, ecco giunger davanti al Campidoglio i cavalieri d’industria che arraffano con la filosofia dell’aprés nous le déluge; ecco gli speculatori del-

l’edilizia, che d’inclito hanno solo la viltà. Col loro arrivo, fugge da Roma anche l’ultimo residuo di quella leggendaria aura nobiliare preservata perfino sotto i pontefici. In una tipica immaginazione satirica carducciana, Io triumphe!, gli eroi latini si congedano dalla città per lasciare sarcasticamente il posto alla mediocrissima classe dirigente politico-militare del Regno: e a dir Viva l’Italia, nel trionfo della «Suburra», resta solo Pasquino.

Se in quei versi si mettono impietosamente a confronto i pochi valorosi legni di Duilio con le flotte condotte a Lissa dall’ammiraglio Persano, altrove sono le nipoti di Camilla, ossia le patrizie che rovesciavano il pollice nei circhi, a trasformarsi in un rapido giro di strofe nelle adultere tardottocentesche. E ancora, l’umorale maremmano suggella l’estrema disillusione subita dopo la presa del caput mundi in questo distico memorabile: «Impronta Italia domandava Roma,/Bisanzio essi le han dato». Distico rappresentativo non soltanto del suo stile, ma più in generale della fangosa icona capitolina circolante in tanta letteratura dell’epoca. Dunque, per riassumere, Carducci esaurisce la vena del nazionalismo archeologico-utopico di cui parlò Contini: ma lo fa quando l’Italia non è più una mera espressione geografica, una serie di decaduti disiecta membra connessi per pura fede letteraria alle glorie dell’SPQR, bensì una concreta seppur fragile realtà politica. In questa differenza di contesto, oltre che nel carattere e nelle vicende dell’autore, si deve cercare la radice d’una fondamentale metamorfosi del significato di questa vena. Ciò che fino al Risorgimento era stato mito “progressivo”, carburante ideale delle lotte per l’indipendenza, davanti alle nuove istituzioni comincia a prendere accenti reazionari. L’elmo di Scipio, in pochi decenni, mostra il suo rovescio. Così il giovane Carducci giacobino, seguendo la massoneria vincente, diventa il vecchio Carducci crispino: e in questo senso è davvero un rappresentante esemplare della labilità ideologica del ceto dirigente neoitaliano. Scomparsa ogni possibilità di rivendicare attendibilmente le speranze irrealizzate di Mazzini e compagni, il malcontento di questo ceto si trasforma presto in insofferenza da-

vanti alla palude dello Stato liberale: e di qui ai rigurgiti imperialisti non c’è che un passo. Per tornare al nostro vate, basti ricordare che nel ’68 (anche lui ha fatto il suo!) fu sospeso dall’insegnamento per sovversivismo, e che nel ’90 divenne senatore. In mezzo, nel ’78, c’è la svolta annunciata simbolicamente dall’ode alla regina. Ma in verità fino ai pieni anni ’70 le vecchie sirene di rivolta continuano a risuonargli in testa. Ormai è il protagonista assoluto dell’Università petroniana, e il suo magistero permea giovani socialisteggianti come Pascoli e Costa. Guerrini, intanto, gli rifà popolarescamente il verso con piglio barricadero. E non si dimentichi che nel ’77, sempre allo Studio di Bologna, si laurea il futuro gruppo dirigente del partito socialista: Bissolati, Turati, Ferri (un ’77 ben più pregnante, in questo senso, di quello stracitato del secolo XX...). L’ombra del conservatorismo scende quindi su Carducci piuttosto lentamente, e si direbbe quasi per fatalità antropologica.

Comunque, tra le diverse fasi della sua attività, il precario collante poetico, etico e caratteriale è offerto soprattutto da un anticlericalismo strettamente intrecciato alla polemica contro le fumisterie romantiche. Insistendo su questi temi, sviluppati su diversi tavoli di lavoro, il poeta sperimenta forme e accenti contraddittori senza mai bruciarsi i ponti alle spalle, senza scegliere definitivamente una strada. Come ha spiegato Luigi Baldacci, il romanticismo penetra nei suoi versi malgré lui; ma ciò a cui la sua mente resta impermeabile è la dialettica storicista dell’arte moderna: dialettica che, se scontata fino in fondo, non permette più di “tornare indietro”alle esperienze precedenti. Carducci invece continua a compiere esercizi classicisticamente rapsodici, a calare una mate-


cultura

e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

tale, riposta accanto al volto sbiancato dal «tedio» della realtà privata e quotidiana. Qui incontriamo il Carducci delle malinconie immedicabili: un poeta che pur nei suoi modi riluttanti si confronta con le suggestioni parnassiane e già decadenti, lasciandole stridere coi mai rinnegati echi preottocenteschi. Questa lirica tematizza spesso lo iato tra le desiderate e irremeabili favole antiche o infantili (cercate a Bologna o a Ferrara, in Lombardia o in Carnia, in Versilia o in Maremma) e un presente cupo dove l’ora precipita angosciosa. Ecco allora che il treno di Satana diventa quello di Alla stazione (o, in tono minore, la vaporiera di San Guido): veicolo del mordi e fuggi d’una straziata e appena trattenuta Sehnsucht, finestra aperta e subito richiusa su mondi e amori fuggitivi a cui non si torna se non nel disfacimento (lungo i paesaggi attraversati dai binari s’agitano lemuri sinistri che qua e là fanno già pensare a un animista-razionalista del ’900,Vittorio Sereni).

ria estrinseca in estrinseci e differenti stampi. Restano fissi, come si diceva, i suoi prediletti bersagli “grossi”, e trattati alla grossa: Chiesa e sentimentalismo letterario in primo luogo. Se nel ’63 canterella l’inno A Satana, più tardi riprende Hugo per ritrarre il «vecchio prete infame», il «Chierico sanguinoso e imbelle re». Se a vent’anni oppone alla soave sanità del canterino Metastasio il «secoletto vil che cristianeggia», nella matura Alle fonti del Clitumno gli indigeti italici numi vengono evocati contro una Roma che non trionfa più da quando «... un galileo/di rosse chiome il Campidoglio

da,/L’inamidata cotta,/Monacella lasciva ed infeconda,/Celeste päolotta». Il suo maggior nemico è insomma identificabile nella caricatura di quella Weltanschauung rappresentata da Hegel come estetica cristiano-romantica.

I suoi strali sono diretti quasi sempre contro il cuore, «vil muscolo nocivo» offerto dai letterati ottocenteschi in un inesauribile «cibreo» di versi e prose «Co ’l solito guazzetto/Di quella sua secrezion mucosa/che si chiama l’affetto» (Intermezzo). E questi letterati, va da sé, son poi gente «finita/Dal pathos ideale», che riduce «a clinica la vita/E il mondo a un ospitale». Il nazionalismo anticlericale tiene Carducci al riparo dalle visioni totalizzanti dell’Arte, e da altre simili mistificazioni; così come la sua critica di gran prosatore, offrendo acuminati giudizi sulla concreta materia dei testi, s’impone come un dignitoso antidoto alle astrazioni dei Sistemi. Tuttavia, il rovescio di questa inclinazione è senza dubbio una certa angustia intellettuale. E per quel che riguarda poi l’«arte serena», che il vate vorrebbe opporre alle prove tardoromantiche, occorre ripetere che nei rari casi in cui è davvero arte non è serena affatto, ma semmai mette in scena la nostalgia d’una serenità perduta. Le sue vette non stanno nei giovanili e pur ragguardevoli Giampi ed epodi, dove le «Grazie petroliere» schiaffeggiano satiricamente e magari teppisticamente gli avversari, né ovviamente nelle celesti riconciliazioni dei numi del Pantheon risorgimentale abbozzate a fine carriera in poesie come il Piemonte. No: è tra i due periodi estremi, tra gli anni ’70 e ’80 - con qualche guizzo in vecchiaia - che nascono i pezzi migliori: e guardacaso sono pezzi in cui la maschera pubblica o cade o viene trattata come

L’erudito granducale che giunse a Bologna a ridosso dell’annessione, giocò un ruolo decisivo nella elaborazione della veste che la neonata volle dare di sé ascese,/gittolle in braccio una sua croce, e disse/- Portala, e servi. -». Ma qui sulla polemica prevale già la nostalgia per un mondo mitizzato e irrecuperabile.

Comunque questo cattolicesimo fa spesso tutt’uno coi «romantici gufi»: giacché per il vate entrambe le visioni del mondo sono immerse con patologica voluttà nella tenebra “medievale”; ed entrambe chiedono puerilmente alla vita quell’Infinito che la vita, finita e limitata, non può dare affatto. Fin dagli Juvenilia, Giosue ammoniva i poeti suoi contemporanei a tenersi lontani da brume e misticismi a buon mercato. Nella lirica Classicismo e romanticismo (del 1869, inserita tra le Rime nuove) il sole è contrapposto a una luna che sorveglia tibie e teschi gotici, come nella barbara del Clitumno la luce diurna è maledetta da litanianti letteralmente “oscurantisti”. Ecco come il poeta trasforma il satellite notturno in una ripugnante beghina: «Odio la faccia tua stupida e ton-

Ci sono, è vero, alcuni punti di resistenza anche nella produzione meno incongruamente canzonettistica o meno grevemente cronachistica di quella poesia «della storia» che Croce - provando invano a far quadrare il cerchio della sua estetica - difese dai primi anticarducciani radicali: si pensi ad esempio alla Canzone di Legnano, o al Comune rustico (che però sta a metà tra il quadretto mitico-storico e la suddetta “poesia della fuga”). Ma i brani migliori si trovano là dove l’autore mette in scena il mito fondativo della propria maschera pedante-antiromantica, incrinandone così la tetragona e piatta rigidezza: là dove insomma mostra di sapere fin troppo bene che i suoi richiami omerici indicano appena «un desiderio vano de la bellezza antica». Questa sua consapevolezza classicistica del limite, la stessa che gli fa dire che il suo più bel canto è sempre «quel che non feci mai» (e che farà dire al classicista Noventa di cercare “più in là” della poesia stessa, di non divinizzare né lei né l’amore) resta ancor oggi un pungolo per le coscienze letterarie più avvertite. E forse appunto da questa consapevolezza amara deriva la sintomatica ricorrenza, nella poesia carducciana, del verbo “ridere”: verbo che indica non solo lo scherno umano, ma anche l’enigma lieve algido fuggente di un’armonia pagana, o di un sole magari mestamente baluginante tra le nubi, ma capace comunque di allievare per un po’ la bruma invincibile del moderno tedio. Tuttavia, inutile nasconderlo, questa consapevolezza è troppo spesso compromessa dalla fascinazione per contingenze assai meno demoniche e meramente retoriche: accanto ai motivi dei «brindisi» erotici e delle visioni-rifugio troneggia pur sempre il leitmotiv del presunto legame “italico”tra agricoltura e guerra, tra miti bovi e «aspri polledri», tra plaustri e partigiane. Un legame, quest’ultimo, che col suo mito rurale-bellico-latino era appunto già bell’e pronto per i saccheggi del nazionalismo novecentesco. Ricordate, nel Congedo delle Rime nuove, quel ritratto famoso della figura del poeta «grande artiere,/Che al mestiere/Fece i muscoli d’acciaio», e che «Capo ha fier, collo robusto,/Nudo il busto,/Duro il braccio, e l’occhio gaio»? Col senno del poi, possiamo forse negare che questa figura somigli sinistramente a un duce-fabbro impegnato nella battaglia del grano?

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