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he di cronac
Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire
Paulo Coelho
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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 27 APRILE 2011
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dal vertice, sì a una sospensione temporanea del trattato. L’Europa è d’accordo, «ma non si torna indietro»
Scoop: Silvio dice la verità Sul nucleare: «Il no è solo un bluff per raggirare il referendum» Accordo Italia-Francia sulla revisione di Schengen. Il premier: «Loro ne accolgono più di noi». Poi, sull’atomo: «È il futuro: la consultazione l’avrebbe bloccato». Alla faccia della sovranità popolare LA PRESIDENZA DELLA BCE
Berlusconi: «Niente vittime, dobbiamo tutelare la nostra immagine»
L’unico vero successo è il sì a Draghi
Bossi come Bertinotti: «Non voteremo i raid». Interviene Napolitano La Lega contro il governo sulle operazioni Nato, come ai bei tempi di Prodi e Rifondazione. E il Quirinale li bacchetta: «Non possiamo restare indifferenti di fronte alla strategia sanguinaria di Gheddafi»
di Francesco Pacifico
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Un’opa per l’acquisto dell 100% dell’azienda
Lactalis vuole Parmalat. E mette in forse la pax commerciale «Non è un gesto ostile», si affretta a dire il Cavaliere. E i mercati premiano l’operazione-rilancio: il titolo vola subito in Borsa pagina 3
Errico Novi • pagina 4
Il presidente della Fed oggi spiega la sua «exit strategy»
Oggi la legge alla Camera
Senza vita (e senza il suo valore) non c’è libertà
Processo a Bernanke Usa, cervelli a confronto sull’uscita dalla crisi di Antonio Picasso uella di oggi, a dispetto di quanto pronosticato sulla stampa europea, per il governatore della Federal reserve Usa, Ben Bernanke, sarà tutt’altro che una giornata di prova. È atteso in mattinata (nel pomeriggio per il fuso italiano) il primo grande intervento pubblico, che la storia ricordi, da parte del numero uno della finanza Usa. Tuttavia, l’eccezionalità dell’evento dev’essere vista come l’esternazione di chi occupa uno scranno tanto alto che non potrà essere messa in discussione. A poche ore dal suo discorso, si parla già di una rivoluzione
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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
di Paola Binetti
che Bernanke starebbe apportando all’austera linea di comunicazione che ha sempre distinto la Fed da tutti gli altri istituti di credito nazionali. Questo al di là degli argomenti che verranno trattati. L’obiettivo del governatore è rendere più trasparente e divulgativa la politica monetaria della banca centrale, rispondendo alle domande dei giornalisti e dando all’istituto un’unica voce, in vista delle scelte che dovranno essere prese al fine di indirizzare l’economia Usa sulla strada della ripresa. a pagina 10 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
icolas Sarkozy si congratula con Mario Draghi come se già fosse stato eletto alla presidenza della Bce. E sottolinea che «è un uomo di qualità ed è anche italiano. E sarà un ottimo segnale anche per chi mette in dubbio il ruolo dell’Italia in Europa». Emmanuel Besnier promette di avere «un ambizioso progetto di crescita per Parmalat: farne il gruppo italiano di riferimento nel latte confezionato a livello mondiale». Bruno Lescoeur, manager imposto da Henri Proglio a Foro Bonaparte, invece ha garantito che «Edison sarà capace di fronteggiare le sfide e raccogliere le migliori opportunità per restare uno dei principali player europei». a pagina 2
NUMERO
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ggi, il Parlamento affronta il nodo cruciale della bioetica attraverso la discussione sulla legge che dà «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento». Nella legge si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza.
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a pagina 14
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Dall’incontro italo-francese esce un’intesa per richiudere le frontiere in caso di crisi. Poi Berlusconi spiega lo stop alle centrali
Un inganno atomico
Raggiunto l’accordo per la sospensione di Schengen, ma la vera notizia del vertice è il bluff ammesso dal premier sul nucleare il retroscena
di Pierre Chiartano
ROMA. La vecchia diplomazia è tornata. Quella delle strette di mano e dei sorrisi, nei foyer e delle pugnalate e dei tradimenti, dietro le quinte. Al centro del vertice Italia-Francia, svoltosi ieri a Roma, sembrava esserci l’immigrazione e poi sullo sfondo il conflitto libico. In mezzo il latte, Eurotower e qualche battuta sul nucleare. Mentre in realtà l’agenda vera sarebbe stata un’altra: la Libia e il suo futuro. Ma forse questo il governo non lo sapeva. È stato comunque un confronto diretto tra il premier Silvio Berlusconi ed il presidente Nicolas Sarkozy. «Un vertice positivo, molto positivo, da cui è emersa una forte convergenza – ha affermato infatti il premier italiano al termine dell’incontro a Villa Madama con il presidente francese – È emersa la forte convergenza su tutti gli argomenti affrontati: la situazione in Libia, del Mediterraneo, l’immigrazione, la cooperazione economica e industriale tra i nostri due Paesi». Del resto il vertice era stato, in tutta fretta, promesso dall’Eliseo, quando l’Italia accortasi del pasticcio che stava combinando Parigi nel deserto libico – con tanti uomini delle sue forze speciali liberi di scorazzare in Cirenaica e Tripolitania – aveva minacciato di togliere le basi per Odissey Dawn prima e Unified Protector dopo. La versione america-
Nei giorni scorsi ambienti vicini all’Eliseo ne avevano lodato le qualità
Unico successo: il sì a Draghi Dalla Francia via libera al Governatore alla Bce di Francesco Pacifico icolas Sarkozy si congratula con Mario Draghi come se già fosse stato eletto alla presidenza della Bce. E sottolinea che «è un uomo di qualità ed è anche italiano. E sarà un ottimo segnale anche per chi mette in dubbio il ruolo dell’Italia in Europa». Emmanuel Besnier promette di avere «un ambizioso progetto di crescita per Parmalat: farne il gruppo italiano di riferimento nel latte confezionato a livello mondiale». Bruno Lescoeur, manager imposto da Henri Proglio a Foro Bonaparte, invece ha garantito che «Edison sarà capace di fronteggiare le sfide e raccogliere le migliori opportunità per restare uno dei principali player europei».
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I manichei e i moralisti guarderanno soltanto al prezzo, sicuramente più alto dei 2,60 euro offerti da Lactis per ogni azione di Collecchio: lasciarsi scappare (o farsi scippare) i migliori pezzi della nostra industria. Eppure la giornata di ieri ha sancito che soltanto Parigi sa difendere e valorizzare quel po’ di Made in Italy ancora competitivo. Era dai tempi degli ambigui legami tra Mediobanca e Lazard, quelli che hanno portato al congelamento delle Generali, che l’Italia non appariva a livello finanziario un Paese tanto a sovranità limitata rispetto alla Francia. Chiariamo, il problema non è il cambio di na-
zionalità della Parmalat, dopo che transalpini sono diventati Buitoni, Galbani e Gs. Il problema sta nell’atteggiamento di un governo che, in nome della mancata reciprocità francese, fa prima un decreto per blindare gli asset strategici, quindi rivendica per bocca del suo premier «che l’economia debba essere sempre e assolutamente libera». Salvo poi concordare a livello di cancellerie uno spezzatino che penalizza soprattutto i piccoli azionisti.
Stesso acume nella vicenda di Edison: poteva diventare la Rwe italiana, ma i veti degli enti locali l’hanno impedito. Si dirà che quelli del governo sono peccati veniali rispetto a quelli di banchieri che prima hanno impedito a Enrico Bondi di investire il tesoretto da 2 miliardi accaparrato anche grazie ai risarcimenti e poi hanno rallentato il salvataggio di Collecchio pur di buttare in questo calderone i debiti della Granarolo. Purtroppo l’unica lezione che ieri ha imparato questo Paese è che seguendo la strada di una diplomazia d’accatto si può a che conquistare la presidenza della Bce. (f.p.)
na e quella Nato dell’intervento militare in Nordafrica. All’incontro di Villa Madama, oltre ai due presidenti, hanno partecipato, per la parte italiana, i ministri degli Esteri, Franco Frattini, dell’Interno, Roberto Maroni, e dell’Economia, Giulio Tremonti. Per la parte francese il primo ministro François Fillon, e i ministri degli Esteri, Alain Juppè, quello dell’Interno Claude Gueant, e quello del Tesoro, Christine Lagarde. Insomma c’erano proprio tutti.
Per il governo di Roma doveva essere una specie di prova del fuoco della gestione delle relazioni con Parigi. Per la prima volta doveva essere abbandonata la politica delle “pacche” sulle spalle, per affrontare la più dura delle lotte in difesa dell’interesse nazionale. Anche se, a sentire le dichiarazioni ufficiali, Berlusconi è sembrato uguale a se stesso. Marte doveva entrare in campo, facendo attenzione a muoversi nel salotto europeo. Quindi i colpi avrebbero dovuto fendere l’aria, senza far troppo rumore e senza fare danni all’arredamento dell’Unione. Del resto era stata proprio la Francia a volere un’Europa debole, per poter affermare con forza una propria politica da negoziare direttamente con Berlino e con chi, di volta in volta, si trovava a pascolare nello stesso prato. Ma si è visto poco o niente. E dire che il fuori gioco era dei france-
la crisi libica
27 aprile 2011 • pagina 3
l’opa
E Lactalis imbarazza Silvio e Nicolas I Besnier offrono 3,3 miliardi per comprare Parmalat. Ma il mercato scommette sul rilancio ROMA. Due euro e sessanta centesimi (per azione) bastano e avanzano per spiazzare Palazzo Chigi e l’Eliseo. Per svelare le divergenze tra le banche che si sono elette a difensori dell’italianità del nostro alimentare. Ma rischiano di non essere sufficienti per conquistare Parmalat. La famiglia Besnier, con una nota firmata dal capoazienda Emmanuel, ha annunciato il lancio di un’Opa sul colosso lattario italiano del quale detiene già il 29,9 per cento. Ma sono in pochi a pensare che la partita sia chiusa. Innanzitutto i governi di Francia e Italia. Perché ieri, mentre le nostre banche litigavano ancora sull’entità del “salvataggio”, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy concordavano al vertice bilaterale di Villa Madama un armistizio che potrebbe scaturire in un’alleanza tra i due gruppi. Nella conferenza finale il Cavaliere ha definito «non ostile l’Opa di Lactalis. Vista la mia esperienza considero l’economia sempre e comunque libera. Ma vorrei che le nostre aziende partecipassero all’operazione». Di rimando il presidente francese ha ribadito che «la nostra proposta è quella di unirsi per creare grandi gruppi franco-italiani. Sulla vicenda i ministri Lagarde e Tremonti devono trovare una soluzione».
Affari dopo la nota dei francesi, il titolo ha subito segnato un balzo del 12 per cento, per raggiungere ben presto il prezzo dell’Opa. E ha continuato a correre per tutta la giornata chiudendo a 2,56 euro (+10,73 per cento), con 135,9 milioni di pezzi scambiati. Ragionando in punta di diritto i francesi, che finora avevano sempre guardato a un take over con estrema preoccupazione, hanno rispettato la normativa vigente sull’Opa. E la scelta di un prezzo così basso va legata anche all’assenza nella nostra legislatura di un prezzo minimo in fase di offerta volontaria per gli azionisti di rilevanti.
miliardi di titoli azioni vedono riconosciuti un «premio del 21,3 per cento circa rispetto al prezzo di Borsa della azioni Parmalat degli ultimi 12 mesi».Con i francesi restii a a investire più di 3,375 miliardi di euro per il restante 71,031 per cento di Parmalat. Ma siccome questa partita non si gioca soltanto nelle trading room, Emmanuel Besnier ha provato a mandare in-
Le cancellerie lavorano a un armistizio per arrivare alla creazione di un unico gruppo. La palla passa ai ministri Lagarde e Tremonti
Sull’Opa è scettico anche il mercato. Perché il prezzo di riferimento (2,60 euro per l’appunto) è inferiore anche ai 2,80 che i francesi hanno speso per i titoli rastrellato nei mesi scorsi, compreso il 15 per cento comprati fuori mercato dai fondi speculativi di investimento Skagen, MacKenzie e Zenit, gli stessi che hanno scatenato la guerra per il controllo di Collecchio Il mercato, infatti, scommette in un rilancio. Appena riammesso a Piazza
si, che in Libia hanno rispolverato i vecchi attrezzi della politica di potenza, pensando di sfilare la sedia a Roma, da decenni accomodata davanti ai rubinetti delle fonti energetiche di Tripoli. La tensione tra i due Paesi, nella gestione dell’emergenza immigrazione, sembrava provenire tutta dalla decisione dell’Italia di fornire visti temporanei e dall’altra da quella del governo parigino di schierarsi contro. Ma era solo ciò che si era messo in scena. E sembra già storia, dopo ieri. In realtà dietro i sorrisi e sotto il tavolo del vertice qualche calcio deve essere stato sferrato. Almeno lo speriamo. Perchè, a parole, è arrivata la comprensione del governo italiano. «La Francia ogni anno accoglie 50mila migranti – ha ammesso Berlusconi – l’Italia una media di 10mila. Lo sforzo della Francia è quindi 5 volte superiore. Di questo siamo consapevoli». Berlusconi ha
Eppure sono molti gli operatori a ricordare che la Parmalat riportata in Borsa da Enrico Bondi esordì con quotazione pari 3,02 euro. Oppure che in pancia al colosso fondato da Tanzi ci sono due miliardi di liquidità, che a ben guardare sono il vero motivo del contendere e che aiuterebbero anche un’operazione fatta quasi interamente a leverage. Fatto sta che i possessori dei circa 1,73
mostrato convergenze anche su Shengen: «nessuno di noi vuole negare e abolire l’accordo di Schengen – ha detto il premier – ma in circostanze eccezionali crediamo debbano esserci variazioni a cui abbiamo deciso di lavorare insieme». E il riferimento era all’intervento dell’Eliseo quando aveva ipotizzato una revisione del Trattato.
«Da parte nostra – ha affermato il premier – non c’è stata alcuna volontà di voler accusare la Francia di comportamenti che, di fatto, non ci sono mai stati». Insomma, una colata di melassa. Poi sono arrivate le prime stoccate, leggere però. «Auspico la creazione di grandi gruppi franco-italiani e italo-francesi che possano stare insieme nella competizione globale – ha affermato Berlusconi – (...) Non considero l’opa di Lactalis su Parmalat come ostile. È singolare che sia stata lanciata proprio
oggi, in concomitanza con il vertice Italia-Francia: ma proprio per questo escludo nella maniera più assoluta la consapevolezza da parte del governo francese. Ci auguriamo che le imprese italiane possano arrivare a una proposta per stabilire un accordo con una partecipazione italiana insieme a Lacta-
numerevoli messaggi di rassicurazione al sistema Italia. Eccolo, nella nota che annuncia l’Opa totalitaria, ribadire «l’obiettivo di realizzare un rilevante progetto industriale per creare il primo gruppo mondiale nei prodotti lattierocaseari». Soprattutto c’è la volontà di fare di Parmalat «il gruppo italiano di riferimento nel latte confezionato a livello mondiale con sede, organizzazione e testa in Italia». Il senso del proclama è semplice: se il governo italiano non si metterà di traverso, Parmalat continuerà a svilupparsi, quindi pagherà le tasse in Italia e contribuirà a far salire il Pil del Nostro Paese. Anche perché i francesi sono gli unici in grado di portare a compimento un programma di crescita, frenato in questi anni dalla prudenza di Bondi e dalle mire degli azionisti (le banche) sulla liquidità dell’azienda. Besnier non nasconde l’ambizione di creare un gruppo con un giro d’affari pari a 14 miliardi di euro, per diventare in pochi anni il primo gruppo mondiale nei prodotti lattiero-caseari. E per farlo, si dice pronto a far confluire in Parmalat le attività di Lactalis-Europa nel settore del latte confezionato. Quindi rafforzarsi in Brasile, India o Cina.
Ma non c’è soltanto il progetto industriale da valutare. Se il colosso francese ha annunciato la sua Opa volontaria nel giorno in cui Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy si erano dati appuntamento a Roma per fare la pace è per mandare un doppio messaggio ai due governi: Lactalis guarda all’operazione sotto un’ottica prettamente finanziaria, non intende perdere un euro per venire incontro alle esigen(f.p.) ze della politica. francesi nel mercato post rivoluzione. Ipotesi che metterebbe in difficoltà l’Italia, visti gli accordi siglati tra Berlusconi e Gheddafi come risarcimento delle passate operazioni coloniali. E visto anche il fallimento della politica libica dell’Eliseo che, nel 2007, aveva promesso alle aziende d’Oltralpe commes-
Al summit di ieri, anche la firma di numerosi documenti. Tra questi quelli sul rafforzamento degli aiuti ai Paesi terzi, l’aumento della solidarietà finanziaria e maggiori poteri economici a Frontex lis». Quindi l’ipotetico scambio con la nomina italiana a Eurotower. L’Eliseo ha annunciato che appoggerà la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea. Sul fronte Libia, molti vedono la ”fulminea”decisione di Parigi di appoggiare i ribelli come un tentativo d’ingresso di aziende
se per dieci miliardi di euro, ottenendo solo un pugno di mosche. Poi la brutta figura tunisina gridava vendetta e per un Sarkozy in picchiata nei sondaggi ha significato un nuovo avventurismo. A scapito degli interessi italiani. Il premier ha anche svelato la mossa sul referendum nucleare. Ha ammesso
che la cancellazione temporanea dall’agenda del governo della voce «centrali nucleari» era funzionale a salvaguardare un settore che «resta il futuro» in campo energetico. «Se fossimo andati a quel referendum, il nucleare non sarebbe stato possibile per molti anni a seguire». Con buona pace per ciò che pensano i cittadini italiani. E pensare che I francesi in Libia volevano costruire proprio delle centrali atomiche.
Poi c’è stata la firma di numerosi documenti.Tra questi quelli sul rafforzamento degli aiuti ai Paesi terzi, l’aumento della solidarietà finanziaria e maggiori poteri economici a Frontex. Sostegno monetario anche per gli insorti libici; molti depositi della nazione africana presenti nelle nostre banche potrebbero essere «scongelati», ma non è escluso nemmeno l’utilizzo dei proventi del petrolio.
pagina 4 • 27 aprile 2011
la crisi libica
Quanto pesa la corsa per Palazzo Marino
Il pacifismo elettorale del Carroccio di Giancristiano Desiderio a Lega dice no. La Lega non è d’accordo con il suo governo. La Lega sembra la Rifondazione comunista del governo Prodi e Bossi sembra Bertinotti. L’unica differenza è in Parlamento: affinché i Tornado italiani sorvolino le spiagge libiche e bombardino obiettivi militari non serve alcun voto parlamentare perché tutto è già previsto dalla risoluzione dell’Onu già adottata. Ma la ininfluenza del Parlamento non attutisce il dissenso e le polemiche della Lega che, anzi, sono destinate ad aumentare per il medesimo motivo. Sennonché la posizione della Lega poco ha a che fare con la politica estera. I leghisti sono più attenti alla Padania che all’Italia e la loro “politica estera” coincide con la campagna elettorale delle amministrative. Non è un segreto per nessuno: Bossi non è presente ai comizi con Letizia Moratti e tutto lascia pensare che non sarà presente neanche quando a Milano parlerà direttamente Berlusconi. Così la politica estera è piegata a ragioni di politica interna o, ancor meglio, a ragioni di politica elettorale. Su questa “linea libica” i leghisti sono uniti. Tutti.
L
Sulla Libia la Lega rappresenta la più netta opposizione al governo (e a Napolitano). Un ministro come Calderoli non nasconde la contrarietà “personale” (ma molto vicina alla linea leghista) non solo ai bombardamenti aerei, ma anche alla semplice disponibilità delle basi aeree, all’appoggio logistico e il pattugliamento antiradar. Insomma, in politica estera - e in una politica estera che ha in agenda temi e conflitti sempre più vicini a casa nostra - il governo Berlusconi non solo non ha di fatto la sua necessaria maggioranza, ma ha perso anche la fedeltà del suo maggiore e più importante alleato. È una tipica stranezza italiana che ciclicamente si ripete: quando entra in scena la guerra e il nostro Paese deve assumere importanti decisioni, il governo perde la maggioranza e una parte consistente e qualificante della sua politica diventa opposizione. Mentre, al contrario, pur considerando differenze e distanze, una parte dell’opposizione diventa maggioranza. Ne viene l’anomalia italiana: il governo in politica estera non somma i voti dell’opposizione ma sottrae i suoi e li sostituisce con l’opposizione. Il fallimento del governo bipartisan, che dovrebbe essere la norma e il valore principale alla base del bipolarismo, non potrebbe essere più evidente. La decisione del governo di bombardare in Libia fa sì che l’Italia “non sia più nel mezzo” (come ha scritto efficacemente Franco Venturini ieri sul Corriere).Tuttavia, la posizione curiosamente anti-berlusconiana della Lega crea al governo un imbarazzo che è qualcosa di più per le ragioni esposte - di un imbarazzo. Il governo corregge un’anomalia ma ne crea subito un’altra. Anzi, non è in grado di assicurare una posizione internazionale all’Italia più certa e definita senza essere esso stesso - il governo un’anomalia: non si può passare sottosilenzio, infatti, che il governo Berlusconi non è autosufficiente nella politica estera mediterranea.
Ancora una volta il Colle deve intervenire per sanare la frattura nell’esecutivo
Napolitano salva la missione «Non potevamo restare indifferenti davanti alla sanguinaria reazione di Gheddafi», dice il Quirinale. Ma la Lega insiste: «Così aumenteranno i clandestini in Italia» di Errico Novi
ROMA. Peggio dell’Unione di Prodi? Sì, per certi aspetti. Almeno nell’infausta stagione 2006-2008 il governo si divideva, inciampava nei micro-distinguo parlamentari, ma in capo a dolorosi e sofferti dibattiti. Stavolta l’esecutivo Berlusconi riesce ad autosgambettarsi proprio per assenza di comunicazione. Si potrebbe anzi dire per assenza di politica. Il premier incontra Sarkozy in un bilaterale a cui partecipano anche i ministri dell’Interno, della Difesa e del Tesoro, e rinsalda con il capo dell’Eliseo l’intesa sui bombardamenti già raggiunta con Obama. Ma la svolta arriva appunto senza un vero confronto nella maggioranza, e i risultati si vedono. Intanto ne risente proprio la comunicazione: l’eccessiva fretta costringe per esempio La Russa a un insensato paragone calcistico: «Sapete, l’Italia in questa crisi libica non fa altro che passare dal ruolo di mezzala a quello di mediano».Va bene semplificare, ma pur sempre di una guerra si tratta. Come al solito più appropriate al ruolo istituzionale appaiono le parole del presidente della Repubblica: all’incontro con le associazioni combattentistiche e partigiane Giorgio Napolitano parla di «naturale evoluzione» della posizione italiana. Berlusconi semina sconcerto quando illustra la svolta al termine del bilaterale con Sarkozy: «Non volevo che l’Italia fosse considerata partecipante a pieno titolo», an-
che perché «l’opposizione avrebbe sfruttato, come ha sfruttato, contro di noi questo fatto». Non pare una solida ragione politica. Peggiora il quadro, il Cavaliere, quando rafforza il concetto e dà l’impressione di fare dei missili «ad altissima precisione» quasi un fatto di vanità personale: «Siamo stati esclusi dalla triangolazione telefonica delle scorse settimane tra gli alleati e anche questo ci ha indotto a decidere nella direzione adottata, perché non si possa dire che l’Italia non conta niente». Mai sentita una spiegazione simile per un intervento militare.Alla fine assicura: «È escluso che faremo vittime civili». Berlusconi innova, nel senso che cancella la politica dal novero degli strumenti di governo. La dissociazione apertissima del Carroccio è ancora più grave proprio per questo. Pare la ovvia conseguenza di uno stile di governo basto sull’improvvisazione. D’altronde lo stesso partito di Bossi non pare del tutto credibile quando non chiarisce se il dissenso potrà diventare voto nell’aula della Camera. In un comunicato formalmente duro Roberto Calderoli rafforza il no espresso già il giorno prima: «La Lega non condivide la nuova evoluzione della nostra partecipazione alla missione libica, questa è la posizione che porteremo con Umberto Bossi al prossimo Consiglio dei ministri».
Non inganni la mancata citazione dell’altro ministro padano, Roberto Maroni: stavolta lui e il responsabile
la crisi libica
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il retoscena
Cosa chiederà il governo alla Nato Bersagli strategici fissi per evitare eventuali rischi con i civili e «danni collaterali» di Stranamore i sono voluti quasi due mesi, ma finalmente il governo si è reso conto di non poter più continuare ad esimersi dall’impegnare i propri aerei da combattimento in azioni aria-suolo in Libia. Avremmo ottenuto molto di più in termini strategici e di “faccia”se questa decisione fosse stata presa tempestivamente. Però visto che è l’agenda di politica interna a dettare le scelte di politica estera e di difesa, meglio tardi che mai. Ad essere particolarmente lieti di poter fare la propria parte sono ovviamente i militari, perché è inutile nascondersi dietro un dito, gli sfottò e le considerazioni sui “soliti Italiani” si sono sprecate in queste settimane, a Bruxelles, a Mons come a Washington. Al punto da rischiare di compromettere l’immagine seria e positiva che i nostri soldati hanno conquistato combattendo e versando il proprio sangue in Afghanistan. Tra l’altro non è che si corrano meno rischi a compiere missioni di “ricognizione”, difesa aerea e sorveglianza piuttosto che impiegando munizionamento di precisione con tattiche di sgancio “stand-off” (da distanza/quota di sicurezza).
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Quello che sta tardivamente avvenendo è quello che avevamo auspicato qualche settimana fa: si sta cominciando ad utilizzare il Potere Aereo in modo sensato, anche se in realtà si continua a combattere con una mano legata. Però ora si sta conducendo una mini-campagna aerea di attacco strategico (lo confermano gli attacchi su bersagli militare chiave anche a Tripoli e dintorni) mentre continuano le operazioni di supporto tattico aereo (Cas) a favore dei ribelli, così come missioni di interdizione e il famoso “tank plinking”anche nei centri abitati. Sia pure quest’ultimo avvenga con enormi limitazioni. Anche se i ribelli chiedono tutti i giorni attacchi anche nei centri abitati, pur nella consapevolezza che i lealisti di Gheddafi usano tattiche opportune per farsi scudo o nascondersi in prossimità di obiettivi civili. I ribelli sono pronti ad accettare gli inevitabili errori e i rischi di quel po’di fog of war che tutt’ora permane, soprattutto perché non ci sono (più o meno) team a terra a guidare gli
Aeronautica e Marina hanno mezzi aerei, tra Tornado, Amx ed Av-8b perfettamente in grado di svolgere la stessa tipologia di missioni svolte da settimane dai colleghi Usa ed Europei
Aeronautica e Marina hanno mezzi aerei, tra Tornado, Amx ed Av-8b perfettamente in grado di svolgere la stessa tipologia di missioni svolte da settimane dai colleghi Usa ed Europei. Dunque i nostri aerei e piloti entreranno in azione. Intendiamoci, non è che una dozzina di velivoli potrà cambiare il “passo” del conflitto, ma tutto contribuisce alla sforzo addizionale che la Nato sta compiendo. E persino gli Usa hanno capito che si rischiava di precipitare nel ridicolo se non fossero rientrati nelle operazioni impiegando un buon numero di “shooters”, cominciando dai velivoli senza pilota armati (una nota di colore: anche l’Italia ha Uav identici a quelli americani, ma i nostri non sono armati… per scelta politica). della Semplificazione sono sulla stessa linea, assicurano fonti di via Bellerio. E non potrebbe essere diversamente visto l’imprimatur concesso da Bossi alla nota di Calderoli. Resta una voce dal sen fuggita quella dell’europarlamentare Speroni, che s’aggiunge al non-sense comunicativo con un «la guerra o si fa o non si fa». Ma appunto, se pare compatta nell’opporsi ai raid missilistici della nostra aviazione, la Lega Nord non è altrettanto lineare nei suoi comportamenti parlamentari. Sembra esclusa una mozione in aula contro i bombardamenti, che certificherebbe la fine dell’esecutivo. Allo stesso tempo pare difficile immaginare un governo che fa decollare i propri bombardieri verso gli obiettivi sensibili di Gheddafi senza avere alle spalle una maggioranza convinta. Cosicché le parole di Napolitano, secondo il quale «non potevamo stare a guardare davanti alla sanguinaria reazione di Gheddafi», paiono perdersi nel labirinto delle incognite governative.
aerei sul bersaglio. Quello che serve è un buon numero di Tacp (tactical air control party) che aiutino da terra i piloti nel loro difficile lavoro. In particolare servono i Jtac (Joint Terminal Attack Controller), il cui motto è molto appropriatamente “death on call” e i colleghi Romad (Recon, Observe, Mark and Destroy) i quali con i nuovi apparati radio Rover riescono a trasmettere e a ricevere immagini e informazio-
gno» se l’Italia resterà nell’alveo della risoluzione Onu. Di Pietro e i suoi invece attaccano non solo l’esecutivo ma lo stesso Napolitano: «La decisione di bombardare non è un’evoluzione naturale né costituzionalmente corretta», dice il leader dell’Idv con chiaro riferimento alla posizione del Colle. Su questo però la stessa Finocchiaro rintuzza l’alleato: «Parole inaccettabili». E in effetti a parte l’ex pm, e al di là dell’attendismo, un minimo comune denominatore nell’opposizione emerge: c’è un voto sull’adesione all’Onu, resteremo coerenti con quel pronunciamento. Lo dicono tra gli altri Franceschini, lo
Nuovo stop di Calderoli: «Io e Bossi ci opporremo in Consiglio dei ministri». Il premier chiama in causa problemi d’immagine: «Non voglio si dica che l’Italia non conta niente»
La stessa opposizione pare attendere che tale groviglio di veti e dilettantismi si sciolga in qualcosa di più chiaro. La capogruppo pd al Senato Anna Finocchiaro arriva a dire che «non faremo mancare il nostro soste-
stesso Bersani, il segretario dell’udc Cesa, Roberto Menia di Fli. Dissensi certo ne emergono, ma sono individuali: Pezzotta e Carra nel partito di Pier Ferdinando Casini, Gero Grassi tra i democratici. Sono molto pesanti d’altra parte soprattutto i dissensi interni alla maggioranza: oltre alla Lega c’è Alfredo Mantovano che dice di preferire «l’Italia pronta a inviare aiuti umanitari» a quella che bombarda; Souad Sbai ribadisce il suo no; si contraddice con una contorsione notevole il sottosegre-
ni sulla posizione del bersaglio, senza neanche bisogno di parlare. Per ora la Nato e gli Usa non sono ancora pronti a compiere un passo ufficiale del genere. E intanto la guerra va avanti. Cosa potranno dunque fare i nostri velivoli? Visto che, al solito, il governo vuole imporre caveat e limitazioni, si cercherà di farci assegnare proprio i bersagli strategici fissi, quelli che possono essere pianificati con cura e pongono meno problemi di danni collaterali. Da qualche parte si è letto che verranno impiegati i missili da crociera Storm Shadow lanciati dai Tornado Ids. Sì, si può fare, anche per “testare” in combattimento il sistema.
Ma è il caso di dire che usare un missile da crociera “stealth”con una gittata ufficiale di 400 km (arriva in realtà a 600 km) e che costa ben oltre 500 mila euro al colpo è sensato solo se si deve centrare un obiettivo davvero pagante. In caso contrario vanno benissimo le bombe a guida satellitare/laser Paveway e Lizard e quelle a guida satellitare Jdam, impiegabili da tutti e tre i cacciabombardieri nazionali. Abbiamo anche gli ottimi pod israeliani Litening per “illuminare”i bersagli anche da media quota con un fascio laser e ottenere la massima precisione.E se qualche batteria antiaerea nemica cercherà di contrastare i nostri aerei potranno intervenire i Tornado Ecr armati con missili antiradar Harm. Quindi l’armamento di caduta intelligente lo abbiamo, così come velivoli in grado di impiegarlo e i piloti addestrati: pensiamo in particolare a quei piloti di Amx che si sono qualificati nei migliori centri di addestramento statunitensi (a Nellis, Nevada) e non hanno mai potuto mettere in pratica quanto appreso. C’è tutto il necessario ed i ribelli libici e gli alleati ci chiedono di fare la nostra parte. Cerchiamo di passare dunque dalle parole ai fatti, come accadde nel 1999 nei cieli della Serbia (D’Alema continua a parlare di Kosovo, ma bombe e missili furono lanciati più che altro sulla Serbia). Magari così la guerra durerà un po’ meno e moriranno meno civili. tario Giovanardi, secondo il quale la coalizione resta ambigua negli obiettivi e sarà Berlusconi a tenerla a bada,
Oggi alle 14 La Russa e Frattini conferiranno sulla svolta libica davanti alle commissioni Difesa ed Esteri di Camera e Senato. Solo un’informativa: non sarà questo il luogo dove potrà emergere in modo plateale la sconfessione leghista, ma evoluzioni sono possibili. Le auspica a suo favore il Cavaliere, che si impegna in una moral suasion intensa con Bossi, e promette di riparlare anche con Maroni e Calderoli. A suscitare però la chiusura dei lumbàrd sembra essere anche l’esito del bilaterale su Sarkozy: troppo sbilanciato a favore della linea francese (come si ricorda in altro servizio del giornale, ndr), anche su Schengen e gli immigrati. Proprio la resa di fronte alle rigidità parigine rischia di complicare il negoziato tra Silvio e Umberto. Bondi si inoltra già nella guerriglia tra alleati quando liquida come «deludente propaganda» le critiche sui bombardamenti. Che si possa arrivare a uno scontro di numeri in Aula pare comunque difficile: lunedì Calderoli lo ha escluso, così fanno anche altre fonti del suo partito, seppure in via riservata. Ma il problema politico esiste e non è detto che non sia oggetto di un dibattito parlamentare. Con troppa fretta Bersani lo esclude («il voto c’è già stato») ma è presto per dire come si chiuderà la partita.
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la crisi libica
Più che l’effettiva intenzione di mettere in crisi l’esecutivo si tratterebbe di tattica per recuperare consensi alle Amministrative
Quel copione di Umberto Distinguersi per contare di più: la strategia di Rifondazione ai tempi di Prodi è diventata la stessa della Lega. Solo un’operazione di immagine, la cui prima vittima è la governabilità. Parlano Paolo Feltrin e Paolo Pombeni di Franco Insardà
ROMA. Lo spettro è quello del 1998. Con Umberto Bossi in versione pacifista che potrebbe ricalcare i passi di Fausto Bertinotti e mettere in crisi il governo. Allora era il Kosovo, oggi è la Libia, perché il Carroccio non vuole che l’Italia partecipi ai bombardamenti voluti da Sarkozy per chiudere i conti con il rais.
Il parallelo tra Lega e Rifondazione comunista secondo Paolo Pombeni, professore di Storia dei sistemi politici all’università di Bologna, «almeno parzialmente può reggere. Si tratta, infatti, in tutti e due i casi di componenti fortemente identitarie che devono rispondere a un elettorato che chiede alcuni provvedimenti “bandiera”. Così come il popolo di Rifondazione chiedeva la lotta contro tutte le guerre, allo stesso modo la base leghista vuole che il Carroccio sia un argine forte contro l’immigrazione. La Lega
non è certamente un movimento pacifista, ma teme che la guerra in Libia possa scatenare una difficile governabilità sul fronte degli sbarchi dal Nord Africa».
Per Paolo Feltrin , professore di Scienza dell’Amministrazione dell’università di Trieste e profondo conoscitore del Carroccio, il parallelo «non regge perché Rifondazione commise allora un errore, ammesso poi dallo stesso Bertinotti e dai suoi, che ha significato il suicidio politico del partito. Per questo motivo la Lega non ripeterà lo stesso errore». Per spiegare questo atteggiamento leghista, secondo Feltrin, esistono tre questioni diverse sul tavolo «la prima è che la Lega comincia a entrare in affanno, come rilevano anche i sondaggi, e accusa delle difficoltà a tenere la posizione di partito di lotta e di governo. Aumentano i mal di
pancia sia negli strati più larghi, per l’inconcludenza dell’azione governativa legata alla crisi, sia nei settori più militanti a causa di una qualche incomprensibilità legata al federalismo, questione che si complica giorno dopo giorno. A questi fattori va aggiunta la faccenda immigrati, bandiera identitaria della Lega, conseguenza anche della guerra in Libia. Ne deriva che il Carroccio è obbligato ad avere certe
«Prima del voto la crisi sarebbe un suicidio politico. Bossi non è stupido»
posizioni, magari poi farà dei passi indietro, ma quantomeno la scena deve farla per alzare il prezzo con gli alleati. Non è chiarissima, comunque, la forzatura fatta dalla coalizione sull’Italia e un terreno come quello dei conflitti internazionali chiama le opposizioni, prima degli altri, a essere responsabili e a sostenere l’azione del governo. A partire dallo stesso Capo dello Stato». Alla base di tutta la faccenda c’è, secondo Feltrin «la scadenza elettorale delle Amministrative che rende inevitabilmente più sensibile tutta la vicenda, perché un eventuale calo della Lega segnerebbe il primo episodio di diminuzione di consensi dal 2005 a oggi. In questi giorni è chiaro il tentativo da parte di Bossi di distinguersi dal Pdl, così come fece a Venezia lo scorso anno. Atteggiamento che caratterizzerà sempre di più la Lega in queste settimane L’obiettivo è quello di separare le
sorti dei voti di partito da quelli di coalizione, abbandonando in qualche modo i candidati ritenuti deboli e concentrandosi sul risultato della lista. Quando Bossi assume una posizione critica sulla Libia non parla soltanto ai suoi sostenitori, ma a larghe fasce di opinione pubblica dei vari schieramenti politici».
La vicenda elettorale anche per Paolo Pombeni potrebbe essere la spiegazione della posizione leghista perché «è ancora poco chiaro se, come fu nel caso di Rifondazione, esiste l’intenzione di fare lo sgambetto finale al governo esistente, oppure si tratta soltanto di una furberia elettorale. A poche settimane dal voto la Lega ha un grande bisogno di affermazione, perché sente tutta la debolezza del Pdl e sa bene che l’attuale posizione sulla Libia non porterà voti al partito di Berlusconi. Sa bene che gli italiani
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Lega e Rifondazione hanno segnato l’ultimo litigioso ventennio della Seconda Repubblica
Storie gemelle di due leader che “rompono” i governi
Con motivazioni diverse svolgono lo stesso ruolo: rendere chiaro che non può reggere un esecutivo diviso sulla politica internazionale di Francesco Lo Dico
ROMA. Aveva peccato di eccessivo ottimismo, Umberto Bossi, in quel lontano marzo del 1994: «Berlusconi è un grosso imprenditore che ha mille interessi e se fosse presidente del Consiglio si troverebbe a discutere dei suoi interessi una legge sì ed una no». Un vaticinio sin troppo roseo, a giudicare dagli ultimi diciotto anni. Che però non impedì al Senatùr di allearsi con il Biscione nonostante l’acclarata fama di cui fu instancabile narratore: «Povero pirla», «messo lì dalla mafia», «delinquente», «capocomico del teatrino della politica», «Peròn della mutua», «palermitano che parla meneghino». A staccare la spina di quel primo governo post Tangentopoli, fu proprio il leader del Carroccio. Sognava un’Italia divisa in nove regioni, ma a differenza di oggi mancò di pazienza. E fece saltare il tavolo dopo pochi mesi. Le dimissioni, oggi inaudite, le diede proprio il Cavaliere. Ma a far cadere il governo furono le ansie prerisorgimentali dell’Umberto. Ampiamente tradite, scatenarono i mastini della Padania contro gli oscuri trascorsi del «mafioso di Arcore». Roba da far apparire le domande di D’Avanzo come teneri pigolii di un avvocaticchio imberbe. La campagna contro il Cavaliere sortì esiti disastrosi per il futuro partito dell’Amore. La Lega si presentò da sola alle elezioni, Berlusconi fu sconfitto, e un altro matrimonio controverso portò Romano Prodi a Palazzo Chigi, con il contributo di un’altra moglie riottosa. Fausto Bertinotti boccia il programma di governo del Professore, sigla comunque con l’Ulivo un patto di desistenza elettorale, dà l’appoggio esterno al vincente centrosinistra, e poi
decide di affossarlo. Nel gennaio del 1997 Bertinotti indirizza aspre critiche all’Ulivo sulla questione dei metalmeccanici. A ottobre Diliberto, Bertinotti e Cossutta bocciano la finanziaria presentata dal governo e Prodi rassegna le dimissioni. La crisi di governo si ricompone, il Prc ottiene dal governo le 35 ore lavorative settimanali e pensioni congrue alle attività usuranti, ma Fausto non è pago. Rifondazione disapprova a maggioranza la finanziaria, e infine, il 9 ottobre, il go-
C’è un filo comune a unire dissidenti leghisti e rifondaroli: un no alla guerra, uguale e contrario verno Prodi cade per un solo voto: 314 a 313. Non del tutto infelice, è invece il secondo matrimonio tra Bossi e Berlusconi, di nuovo al Governo (il più longevo della storia repubblicana)nel 2001. del L’ictus 2004 sottrae il Senatùr all’arengo parlamentare per molti mesi, ma la sua inconfondibile regia si avverte eccome. Berlusconi preme per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ma la Lega Nord che da tempo ha esteso l’odio per i terroni ai loro prossimi parenti islamici si mette di traverso. Proprio in quegli anni, nasce uno dei leitmotiv del Senatùr. Pochi, invariabili, ed estesi pressochè a qualunque tema di politica estera: «Il modo migliore è aiutare la gente a casa loro». Che siano turchi, o tunisini poco importa. Ma naturalmente, gli stranieri che più stanno a cuore al Carroccio sono soprattutto i meridionali. Nessuno più di loro merita di starsene a casa propria. E così la secessione impossibile del ’94, ricompare sotto forma di un più accettabile federalismo. Il patto del 2001 è chiaro, e del tutto somigliante a quello odierno: la Lega salva il premier dai processi, i berluscones danno al
Carroccio il federalismo. Nel novembre 2005 arriva il sì del Parlamento alla devolution, ma a guastare tutto arriva il referendum che la boccia. Bossi si dice «deluso da questa Italia un po’ triste» ma si solleva subito l’umore con un accordo che non crea altrettanto entusiasmo nel Cavaliere. In vista delle elezioni del 2006, la Lega Nord firma un accordo con l’Mpa di Lombardo nell’intento di indebolire al Sud il Cavaliere. Perse le regionali del 2005, il terzo governo Berlusconi subisce un grosso scrollone dalle dimissioni del delfino di Bossi, Calderoli, e della sua simpatica maglietta antimusulmana che in un crescendo di provocazioni culminò nell’attentato di Bengasi.
La seconda notte di nozze di Prodi e Bertinotti, parte invece sotto i migliori auspici nel maggio del 2006. Rifondazione fa parte dell’esecutivo a pieno titolo, ma è così abituata a fare opposizione che non rinuncia neppure a farla a se stessa. Nonostante il programma comune, nascono i senatori dissidenti, Cacciari si dimette, e Bertinotti, presidente della Camera, porta a compimento l’opera di demolizione. Fausto bolla Prodi come «il più grande poeta morente», paragona il suo governo ad un «brodino caldo», e annuncia che «questo governo ha fallito». Oggetto del contendere è soprattutto il rifinanziamento delle missioni all’estero. Ma anche la finanziaria non è molto gradita, e molti rifondaroli scendono in piazza contro la loro stessa maggioranza. L’espulsione di Turigliatto dal partito radicalizza lo scontro, nasce la Cosa Rossa è il risultato è che la nuova Sinistra Arcobaleno, viene bocciata dagli elettori di sinistra. È proprio a causa di questi disastri, che il Paese torna fermamente sotto l’egida di Bossi e Berlusconi nel 2008, che giunti alla terza avventura coniugale, non sembrano però uniti da un amore maturo. Nell’inverno della loro avventura politica, il Senatùr e il Cavaliere, bisticciano ancora: «Si è sposato con la Lega e ora deve eseguire gli ordini», aveva detto l’Umberto nel 2008. Che più volte ha precisato di essersi sfrantumato i cosiddetti, per dirla elegante, perché il federalismo non è ancora arrivato. Più che un matrimonio, un film di Bunuel.
sono tradizionalmente poco sensibili ai problemi di politica estera, specula e, con il Cavaliere in difficoltà, sta lavorando per tenersi aperte tutte le vie possibili. La differenza tra Lega e Rifondazione è anche dovuta al fatto che il partito di Bertinotti era così piccolo da non poter esistere al di fuori della coalizione, Bossi ritiene di essere in grado di avere un ruolo chiave sia dentro che fuori dalla coalizione di centrodestra».
Berlusconi, comunque, si mostra abbastanza tranquillo alle prese oltre che con l’atteggiamento leghista anche con i Responsabili e le varie anime del Pdl che scalpitano. Per il professor Pombeni questa atteggiamento fa parte del «personaggio Berlusconi e passate le elezioni la Lega non avrà più motivi particolari di dividersi, sempre che il centrodestra ottenga un successo elettorale notevole. Se, invece, la coalizione dovesse scricchiolare l’avere delle alternative per Bossi e i suoi potrebbe assumere un significato diverso. In questo momento non alcun interesse particolare a supportare la Moratti, a lui interessa il successo elettorale del suo partito. Lo stesso discorso del ministro leghista Roberto Maroni, dopo quello del presidente della Repubblica Napolitano, era molto equilibrato da forza di governo, nulla a che vedere rispetto ai proclami che sono propri della Lega. mentre la posizione differente di Calderoli va letta sia come un gioco delle parti all’interno del Carroccio, sia come una lotta, abbastanza ristretta. tra i maggiori esponenti del partito di Bossi per la leadership». E sul momento che il Cavaliere sta attraversando Pombeni dice: «Si tratta di una fase di appannamento notevolissimo della sua personalità e anche della sua capacità politica. La vicenda dei Responsabili è la classica vittoria di Pirro che ha dimostrato che chi ricatta guadagna: un messaggio che ha creato grossa confusione all’interno del Pdl, un partito con tante anime». Sull’eventualità della crisi del che le opposizioni evidenziano i due politologi la pensano praticamente allo stesso modo. Per Pombeni «se la Lega facesse fallire questo governo si suiciderebbe politicamente e tutto si può pensare di Bossi tranne che è uno stupido. Il problema vero è che l’opposizione non ha niente da offrire al Carroccio, dal momento che avendo scelto un antiberlusconismo estremo ha in qualche modo saldato la Lega al Pdl». E Paolo Feltrin ribadisce: «Siamo a tre settimane dal voto, sarebbe un suicidio politico e Bossi è una persona molto lucida...».
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nvece di Chernobyl, Google ha deciso di celebrare nel suo logo il 226esimo anniversario della nascita di John James Audubon: ornitologo franco-haitianostatunitense autore di una serie di 430 celebri illustrazioni di uccelli americani. Un vezzo che la scelta di quella ricorrenza particolarmente non tonda ci fa capire non derivante solo da una ragione ideologica di ricordare solo eventi piacevoli e non catastrofici, ma da un voluto snobismo. Ma il quarto di secolo da Chernobyl è stato invece un anniversario che l’altra tragedia di Fukushima ha comunque finito per far risaltare molto più di quanto non sarebbe stato altrimenti. Anche se, in realtà, i due casi sono estremamente diversi. A Chernobyl, infatti, non ci fu una catastrofe naturale, e neanche un incidente accidentale. Ci fu invece un test definito di sicurezza, e già eseguito senza problemi di sorta sul reattore 3, per verificare se la turbina accoppiata all’alternatore potesse continuare a produrre energia elettrica sfruttando l’inerzia del gruppo turbo-alternatore anche quando il circuito di raffreddamento non producesse più vapore. Ma per consentire l’esperimento vennero disabilitati alcuni circuiti di emergenza. Un brusco e incontrollato aumento della potenza del nocciolo del reattore 4 provocò dunque la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno a così elevate pressioni da provocare la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore; e poi, per il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l’aria, la fortissima esplosione che portò allo scoperchiamento del reattore, con la nube di materiali radioattivi che si disperse in cielo, spargendosi su tutta l’Europa fino addirittura alla costa orientale del Nord America. Dunque, fu un gravissimo errore umano: anche se il rapporto di epoca sovietica che nell’agosto 1986 scaricò tutta la colpa sul personale sarebbe stato poi emendato dal secondo rapporto stilato invece nel 1991 in epoca post-sovietica, e secondo il quale esistevano comunque dei difetti strutturali di progettazione. Che per di più, essendo considerati segreti militari, erano stati nascosti dai progettisti perfino ai tecnici incaricati di far funzionare quegli impianti. A Fukushima, invece, non ci sono stati errori umani, e anche un’emergenza terremoto era stata prevista in modo che si è rivelato impeccabile. Non solo. Si era studiato l’impianto in modo che potesse reggere a ondate di tsunami, fino ai 6,5 metri di altezza: che era il massimo che l’esperienza storica potesse suggerire. Invece è avvenuto un qualcosa che la memoria storica della presenza umana in Giappone non aveva mai registrato, uno tsunami con onde di 14 metri, e l’acqua dell’onda anomala ha messo fuori uso i sistemi elettrici che governano i sistemi di raffreddamento dei reattori della centrale, innescando così la crisi. In comune, tra Fukushima e Chernobyl, c’è stato il ritardo con il quale i responsabili hanno spiegato quello che stava succedendo. In comune c’è stato che entrambi gli incidenti nucleari sono stati registrati al livello di pericolo-
I
il paginone
Venticinque anni fa il disastro nucleare in Ucraina che coinvolse tutta l’
Chernobyl, tempo Il “sarcofago” per bloccare l’emissione delle radiazioni era stato concepito per una durata massima di 30 anni. Non è stato ancora sostituito di Maurizio Stefanini sità 7: gli unici due a quella che è la scala massima finora effettivamente verificatasi. E in comune c’è stato che le tragedie nucleari ovunque avvengano, nella ex Unione Sovietica o in Giappone, producono moratorie sulle produzione di energia nucleare non nei Paesi dove i disastri avvengono, ma sempre e solo da noi in Italia. E solo sulla produzione: il consumo di energia prodotta dalle centrali nucleari francesi e da noi importata a prezzo non propriamente d’occasione, va invece sempre avanti a gonfie vele. E si capisce poi che Sarkozy manifesti «comprensione» per la scelta italiana!
to culminante della commemorazioni iniziate alle 1,23 di notte quando il patriarca ortodosso Kirill ha fatto risuonare una campana. «La principale lezione è dire la verità alla gente», ha dichiarato lo stesso Medvedev, annunciando che proporrà ai Paesi del G8 iniziative concrete per «aumentare la sicurezza delle centrali elettriche nucleari». Ma il presidente bielorusso Alexander Lukashenko si è tenuto invece lontano dall’incontro, limitandosi a visitare esclusivamente i terreni toccati dal disastro nel suo Paese. E qui è chiara la volontà di segnalare un disagio, anche se non è del
Altra particolarità: un evento che dovrebbe essere occasione di concordia nella comunità internazionale per affrontare l’emergenza delle radiazioni, continua a essere invece occasione di litigio perfino nell’antico nucleo slavo della ex Unione Sovietica. Il presidente russo Dmitry Medvedev e il suo omologo ucraino ViktorYanukovich si sono infatti riuniti ieri a Chernobyl, per il pun-
Esistevano dei difetti di progettazione considerati “segreti militari” e quindi taciuti dalle autorità sovietiche perfino ai tecnici incaricati di far funzionare quegli impianti
tutto agevole decifrarne il senso preciso. Chernobyl rappresentò infatti il punto di non ritorno della crisi del sistema sovietico. La perestrojka di Gorbaciov, sforzo di “ristrutturazione”per rendere il comunismo più efficiente, dal grave ritardo nel dire ai cittadini sovietici e al mondo quello che era successo fu screditata a un punto tale che l’ultimo leader dell’Urss decise allora di lanciare un secondo slogan: la glasnost,“trasparenza”. Per alcuni, era ormai troppo tardi. Ma altri ritengono invece che sia stato quello il corpo estraneo che diede all’Urss il colpo di grazia finale: tanto la natura intrinseca del sistema comunista era estranea all’idea di limpidezza della politica. Quando però la Bielorussia precipitò nella crisi durante il guado della transizione, Lukashenko andò al potere proprio esaltando le nostalgie per il periodo sovietico: fino al punto di restaurare i simboli dell’epoca comunista e l’uso ufficiale del russo. Quindi, può essere che l’uomo forte bielorusso abbia voluto manifestare il proprio disagio per l’evento che contribuì alla fine
il paginone
’Europa: non fu una catastrofe naturale e neppure un incidente casuale
o (quasi) scaduto dell’Urss. Però Lukashenko in seguito ha giocato in modo spregiudicato su varie leve per restare al potere, arrivando a fare di questa nostalgia sovietica un ulteriore elemento di una diversità bielorussa verso il corso post-sovietico di Russia e Ucraina. E anche Chernobyl, centrale nucleare di una federazione a guida russa in territorio ucraino ma che inquinò la Bielorussia in modo proporzionalmente più pesante, può essere letta come un’icona di questo disagio. Almeno il 20% del territorio agricolo e il 23% delle foreste della Bielorussia sono state infatti contaminate a causa della ricaduta al suolo dei radiosotopi radioattivi.
In questa occasione è stato anche ricordato come il “sarcofago” allora costruito in fretta e furia in 206 giorni per bloccare l’emissione di radiazioni, in gran parte con l’impiego dei robot industriali che la tecnologia sovietica dell’epoca poteva mettere a disposizione, era stato concepito come misura provvisoria, in attesa di provvedere a un coperchio definitivo. Ma ciò non è mai avvenuto, la durata massima di 30 anni di questa struttura provvisoria si sta avvicinando in modo sempre più pericoloso, e l’edificio senza fondamenta già sprofonda nel terreno deformandosi, mentre oltre 100 metri quadrati di crepe permettono le infiltrazioni di acqua e le fuoriuscite di polveri radioattive. Là sotto sta ancora il 95% del materiale radioattivo presente al momento dell’incidente. In realtà, sono iniziati da tempo i
lavori per la realizzazione di un nuovo sarcofago denominato L’arco, e per il quale saranno necessarie 29 mila tonnellate di strutture metalliche. È tre volte il peso della torre Eiffel: con un’altezza di 105 metri, come un palazzo di 30
Tragedia ecologica per eccellenza, ha avuto poche ricadute ambientaliste, tanto che ancora oggi i dintorni della centrale sono meta di tour turistici. Costo: dai 200 ai 400 $
piani o come l’altezza della Statua della liberta; e una lunghezza di 150 metri, quasi come 2 campi di calcio. Per realizzarlo, i costi complessivi previsti sono di 1,6 miliardi di euro. Ma Greenpeace Russia denuncia gravi ritardi dovuti presumibilmente a corruzione, mentre l’Ucraina ha fatto presente alla comunità internazionale di essere a corto di fondi. Anche perché nella stessa Ucraina e anche in Bielorissia almeno il
5-7% della spesa pubblica già se ne va per varie forme di risarcimento legate a Chernobyl. Insomma, ha chiesto al mondo di allentare un po’ i cordoni delle borse. Cosa che resta però problematica perché, a parte altre emergenze come appunto quella di Fukushima, e a parte i richiami retorici che in realtà non costano niente, in effetti a un quarto di secolo di distanza non si sa neanche quale sia stato il bilancio in vittime di Chernobyl. A un estremo, varie associazioni antinucleariste internazionali parlano infatti su scala mondiale di almeno 6 milioni di de-
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cessi in 70 anni. Sull’altro, la commissione scientifica dell’Onu per gli effetti delle radiazioni nucleari (Unscear) riconosce in effetti solo 31 vittime dirette dell’incidente e 65 vittime totali tra i tecnici, pur se ammette la possibilità di almeno altri 4000 decessi per tumori e leucemie spalmati su un arco di 80 anni. In mezzo, il gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo accetta le 65 vittime sicure, ma ritiene che quelle presunte potrebbero arrivare a 30-60 mila.
Inoltre, bisogna aggiungere i 336 mila evacuati dalle zone di massima esposizione: anche se per lo meno 7 milioni di persone vivono in aree contaminate. Curiosamente, una tragedia antiecologica per eccellenza come Chernobyl ha avuto una poco nota ricaduta ambientalista, nel senso che la scomparsa dell’uomo ha permesso agli animali selvatici di rimpadronirsi del territorio. Cervi, cinghiali, volpi… Perfino i bisonti europei, sull’orlo dell’estinzione, sono ricomparsi nella riserva di Babchin, a 15 chilometri a nord-est dalla centrale. È vero che nei primi anni molti capi erano vittime di gravi mutazioni genetiche. Ma il rapido avvicendarsi delle generazioni ha consentito la selezione naturale della specie, e oggi ci sono tra i 50 e i 70 cervi e alcune decine di bisonti perfettamente sani. Però c’è un nucleo di abitanti che è voluto restare a 30 km dalla centrale: in quel villaggio di Tulgovich che nel 1986 aveva un migliaio di residenti. E il luogo, anzi, è divenuto meta di uno sconcertante turismo. Già nel 2006 alcune zone dell’area evacuata furono aperte alle visite guidate, con biglietti di 200-400 dollari a persona per una giornata «nell’occhio del ciclone». E il business per questo 25esimo anniversario è stato rinnovato, su iniziativa del governo di Minsk. Gli esperti ammettono in effetti che le radiazioni, oggi nella zona varianti dai 15 alle parecchie centinaia di microröntgen, sono comunque inferiori alla quota letale: tra i 300 e i 500 röntgen l’ora. Dunque, un residente ci può restare secco, per l’esposizione prolungata. Ma per un turista il rischio è minimo, e comunque la visita si fa ben protetti, con tanto di maschera antigas. E d’altra parte, proprio in un editoriale per questo anniversario la rivista Lancet Oncology ha ricordato come «un aspetto spesso trascurato del disastro nucleare è il peso psicologico sui soggetti coinvolti. Nel 1991, uno studio dell’International Atomic Energy Agency ha concluso che gli effetti psicologici del disastro di Chernobyl sono stati sproporzionati rispetto al rischio biologico. Secondo il rapporto del Chernobyl Forum dell’Onu, il più grave danno sanitario del disastro è stato sulla salute mentale, un effetto reso ancora più grave dalla scarsa informazione sui rischi associati all’esposizione alle radiazioni. Le conseguenze a lungo termine di Fukushima rimangono da verificare, ma via via che il Giappone procede [alla messa in sicurezza], una chiara e accessibile divulgazione di informazioni è essenziale per assicurare un’adeguata salvaguardia e monitoraggio della salute pubblica».
mondo
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Occhi puntati sulla Fed e sulla prima conferenza stampa del suo presidente. Sul futuro della politica monetaria americana
Processo a Bernanke Basta credito alla banche. Ecco la ricetta di “Ben” per salvare l’economia Usa di Antonio Picasso uella di oggi, a dispetto di quanto pronosticato sulla stampa europea, per il governatore della Federal reserve Usa, Ben Bernanke, sarà tutt’altro che una giornata di prova. È atteso in mattinata (nel pomeriggio per il fuso italiano) il primo grande intervento pubblico, che la storia ricordi, da parte del numero uno della finanza Usa. Tuttavia, l’eccezionalità dell’evento dev’essere vista come l’esternazione di chi occupa uno scranno tanto alto che non potrà essere messa in discussione. A poche ore dal suo discorso, si parla già di una rivoluzione che Bernanke
Q
starebbe apportando all’austera linea di comunicazione che ha sempre distinto la Fed da tutti gli altri istituti di credito nazionali. Questo al di là degli argomenti che verranno trattati. L’obiettivo del governatore è rendere più trasparente e divulgativa la politica monetaria della banca centrale, rispondendo alle domande dei giornalisti e dando all’istituto un’unica voce, in vista delle scelte che dovranno essere prese al fine di indirizzare l’economia Usa sulla strada
della ripresa. Molti opinionisti si dichiarano preoccupati per l’inesperienza di Bernanke nel confrontarsi con i media. Jean Claude Trichet, alla Banca centrale europea, è certamente più un uomo della ribalta di quanto sia il suo omologo statunitense. Ciononostante, sarebbe errato ipotizzare un insuccesso, da parte del Comitato di politica monetaria della Fed (Fomc), di cui Bernanke è a capo. Se il cervello della banca centrale Usa decide di aprir bocca, lo fa perché c’è una giusta causa. Sia dato per scontato che abbia le idee ben chiare. Per inciso, va aggiunto che non si tratta né di una conferenza stampa, né di una sorta di Considerazioni generali, alla maniera dei governatori della Banca d’Italia.
L’intervento del Fomc costituisce un’extrema ratio a cui la Fed è dovuta ricorrere per convincere le banche che il suo supporto alla finanza del Paese è ormai terminato. La crisi non è passata. Al contrario, i dati dell’economia reale, con il 9,7% su base nazionale, dimostrano quanto siano ancora lunghi i tempi di una ripresa. Tuttavia, Washington è convinta di aver svolto a pieno la sua parte di pronto intervento. Quei 600 miliardi di dollari spesi dalla banca centrale nell’acquistare buoni del Tesoro (T bond), agli occhi di Bernanke, sono abbastanza. Negli ultimi sei mesi, da quando cioè è iniziato il quantitative easing 2 (qe2), il programma di risanamento finanziario, la Fed si è accollata l’85% del debito venduto dal Tesoro. È necessario che inizi una fase di convalescenza e quindi virtuosa per il mondo finanziario. Da qui la scelta dell’istituto di fissare per giugno prossimo la data termine per l’acquisizione di altri bond pubblici. La reazione delle banche, finora, è stata di sorpresa. Innanzitutto perché manca quell’ottimismo, sui mercati internazionali, che permette agli istituti di credito di sentirsi liberi di veleggiare in autonomia. È di ieri la notizia che proprio i T bond, quintessenza dei beni rifugio nei momenti di difficoltà, siano arriva-
ti ai minimi storici del loro rendimento, sia i semestrali sia i decennali. Gli investitori stanno tesaurizzando. Da qui anche i prezzi alle stelle di oro e argento, rispettivamente 1.518 dollari l’oncia per il primo, e 49,82 il secondo. In quest’ultimo caso si tratta di un record degli ultimi trent’anni.T bond e metalli preziosi sono altamente gettonati perché la gente ha paura. Secondo gli analisti, si tratta addirittura di un segnale di panico.
Bank of America ha recentemente riportato il dato di una domanda crescente di questi beni. Un fenomeno all’apparenza in antitesi con il trend della tesaurizzazione e della recessione. Com’è possibile che gli investitori puntino, nello stesso momento, su titoli a prova di bomba e su altri dal guadagno incerto? Nel frattempo, proprio questo disordine ha portato a un incremento del 6%, da gennaio a oggi, dei tito-
La reazione finora è stata di sorpresa. Innanzitutto perché manca quell’ottimismo, sui mercati internazionali, che permette agli istituti di credito di sentirsi liberi di veleggiare da soli Del resto, e questo è il nodo che il governatore dovrà sciogliere, la Fed non ha ancora reso pubblica un’exit strategy dalla rotta finora adottata. «D’accordo non voler farci più da balia, ma qual è l’alternativa?» Si chiedono a Wall Street.
Nel backstage di questo dibattito, si nascondono però i due veri problemi degli Stati Uniti: caos finanziario associato a inerzia produttiva. Da una parte, le banche sono tornate a speculare sui cosiddetti titoli spazzatura. Nome dettato dal loro rischio elevatissimo. La
li scambiati a Wall Street (indice Standard & Poor’s) e al 5% medio per i listini europei. Insomma, la finanza è attiva pur essendo in piena crisi. Gli osservatori cercano di spiegare il fenomeno sostenendo che si tratterebbe di un treno di speculazioni mosso dalla grande liquidità a disposizione. I tassi di interesse tenuti al minimo in Usa e il dollaro basso permetterebbero agli investitori di acquistare con ingordigia sul mercato statunitense e, al tempo stesso, impegnarsi in realtà più solide. Di fronte a questa rapsodia borsistica, Bernanke
mondo
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conto di avere fin troppi dollari. La soluzione sarebbe un cambio in euro, oppure inventare una speculazione nella quale destinare gli 889 miliardi di dollari di cui sono creditori in favore di Washington. Parentesi: si parla sempre della Cina come del peggiore incubo per gli Usa in termini di debito estero. Attualmente il Giappone è titolare di un patrimonio in bond statunitensi del valore di 765,4 miliardi di dollari. Cosa accadrebbe se, invece che Pechino, fosse Tokyo a tentare il colpo con i soldi degli americani? D’altra parte, il contenimento dei tassi voluto da Bernanke ha anche evitato di incidere sui mutui e quindi sul mercato immobiliare. Ai T bond e alla politica monetaria ultraaccomodante non c’erano alternative. Non è la Fed a essere stata di manica larga, bensì Wall Street ad averne approfittato. A questo punto, lo stop al periodo delle vacche grasse – così come potrebbe essere proclamato da Bernanke oggi – sarà giustificato, sul piano fi-
nanziario, dal fatto che, con un’economia reale arenata, di vacche grasse non ce ne sono molte. Ed è giusto quindi che la finanza si assuma la sua quota di responsabilità e canalizzi i propri investimenti in settori che necessitano davvero un supporto monetario. Il tutto però continua a mostrare un enorme defaillance. E cioè che gli Stati Uniti non hanno una politica economica. Non è colpa delle banche se il debito pubblico federale è ormai a 21mila miliardi di dollari, incluse le voci dei singoli Stati, contee e municipalità. Siamo al 130% sul pil. L’Amministrazione Bush ha certamente fatto di tutto per devastare le ricchezze accumulate dalla new economy clintoniana. Tuttavia, non è stato sufficiente l’ottimismo grintoso di Obama per recuperare.
Il presidente Usa aveva parlato di misure contenitive. È plausibile che alla Fed la pensino nello stesso modo. Entrambi però sembrano privi di ispirazione su come affrontare il futuro. Intan-
I T bond, quintessenza dei beni rifugio nei momenti di difficoltà, sono arrivati ai minimi storici del loro rendimento. Gli investitori tesaurizzano. Da qui anche i prezzi alle stelle di oro e argento
non avrebbe alcun problema a lanciare la sfida agli investitori e alle banche. «La Fed vi ha aiutato dopo la crisi – potrebbe dire – adesso che lo tsunami è passato e che stiamo vivendo la conseguente onda lunga, voi state cadendo negli stessi errori di tre anni fa. Se non peggio. Perché mai dovrei aiutarvi ancora?» In questo modo, il governatore della banca centrale eliderebbe a monte una qualexit siasi possibilità di strategy. I T bond scadrebbero a giugno e gli istituti di credito sarebbero costretti a rimboccarsi le maniche nel gestire i titoli spazzatura. Il tutto con una Fed che, dall’oggi al domani alza i tassi di interesse.
La strategia, un po’ disumana, potrebbe avere senso nel caso Bernanke avesse alle spalle un’economia reale in regola. Al contrario, gli Usa sono in recessione. Da qui il dinamismo finanziario senza una regola. Da qui anche la debolezza della Fed, la quale può permettersi solo in parte di fare la voce grossa. Perché è vero che con i T bond le falle finanziarie della crisi sono state tamponate. Non è avvenuto altrettanto, però, nell’ambito industriale. Gli Stati Uniti stanno arrancando perché producono poco e consumano ancora meno. I loro 1,27
In alto, la sede della Federal reserve. A destra, Barack Obama. Nell’altra pagina, Ben Bernanke
trilioni di export sono spuri. Il made in Usa è sempre più un assemblato di prodotti intermedi realizzati all’estero e poi etichettati come statunitensi, per essere – in un terzo step – destinati ai mercati stranieri. L’americano medio non ha lavoro. Quindi né produce né consuma. In questo va reso merito alla scelta di Bernanke e alla sua politica dei bassi tassi ma anche di bassa inflazione. I primi hanno fatto comodo agli istituti di credi, la seconda ha evitato una ridicolizzazione del biglietto verde per un Paese che annaspa. Biglietto verde che, peraltro, è andato ad accumularsi nelle casse di Paesi stranieri, vedi la Cina, che adesso possono anche decidere di riconvertire il credito di sui dispongono con gli Usa in fondi sovrani. Si veda sempre l’esempio cinese. A Pechino si stanno rendendo
to, al Congresso, senatori e rappresentanti continuano a chiedere che il tetto del debito non solo non venga calmierato, ma addirittura che lo innalzi ulteriormente. Questo perché ogni parlamentare deve poi tornare nel suo seggio elettorale e convincere chi lo vota che, già disoccupato com’è, dovrebbe fare ulteriori sacrifici. È la vecchia storia del circolo vizioso di un’economia che non sa in che modo riqualificarsi, per tornare non solo grande sui mercati mondiali, ma soprattutto attendibile agli occhi del suo stesso Paese. É una sfiducia profonda quella che pesa sull’opinione pubblica nazionale. Gli ultimi sondaggi parlano del 70% dei cittadini Usa favorevoli al default tecnico. Un modo gentile per parlare di bancarotta. Un’ultima spiaggia che per il Paese potrebbe rappresentare un nuovo punto di partenza e un’opportunità per ricostruire tutto su nuove regole. Almeno sulla carta. Si è visto infatti che, pur dopo l’esperienza della crisi di tre anni fa, i mercati sono tornati a speculare senza alcuna ratio. Bisogna chiedersi, inoltre, come la prenderebbero i creditori stranieri. In Estremo oriente, si è particolarmente suscettibili di fronte al debitore moroso.
quadrante
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Yemen: 30 giorni (e basta) per Saleh SANA’A. L’opposizione yemenita ha accettato il piano di mediazione proposto dai Paesi del Golfo e che prevede le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, bersaglio di mesi di proteste, entro trenta giorni. «Abbiamo dato il nostro assenso finale all’iniziativa (del Consiglio di Cooperazione del Golfo) dopo aver ricevuto assicurazioni dai nostri fratelli del Golfo e dagli amici europei ed occidentali riguardo ad alcune clausole della proposta», ha annunciato il portavoce Mohammed Qathan. Quest’ultimo ha precisato anche che il Common Forum - coalizione parlamentare delle forze di opposizione - non ha ordinato la fine delle proteste, perché il piano non implica una sospensione delle manifestazioni».
Mosca, sgominata banda finti 007
Egitto, sondaggio choc contro Israele
MOSCA. Si fingevano generali
NEW YORK. Il 54 per cento degli
dei temibili servizi segreti russi (Fsb) e in questa veste estorcevano denaro agli imprenditori, finché la polizia non li ha scoperti. È successo a Mosca dove è stata sgominata una vera e propria rete di impostori. «Alcuni membri della banda - ha spiegato il portavoce del ministero degli Interni russo - hanno provato a estorcere un milione di euro a un businessman promettendogli un posto da dirigente in una struttura pubblica». Tre uomini sono stati arrestati in flagranza di reato mentre ricevevano dal malcapitato la prima tranche del pagamento: 3 milioni di rubli (circa 74mila euro). Nelle mani della polizia anche il capo dell’organizzazione criminale.
egiziani vorrebbe annullare lo storico trattato di pace firmato nel 1979 con Israele. È il risultato di un sondaggio condotto dal Pew Research Center. Il rilevamento è stato effettuato attraverso mille interviste condotte tra il 24 marzo e il 7 aprile. La ricerca ha mostrato la tradizionale freddezza degli egiziani anche nei confronti degli Usa. Solo il 15 per cento, infatti, vorrebbe relazioni più strette con Washington, a fronte di un 43 per cento che chiede maggiore distanza. Il sondaggio ha testato anche il gradimento dei possibili successori di Hosni Mubarak alla guida dell’Egitto. Fra i “papabili», l’89 % ha scelto Amr Moussa. A seguire Ayman Nour e Mohammed El Baradei.
Da Latakia a Daraa, la rivolta contro Assad incendia tutto il Paese. Sarkozy chiede a Ue e Onu «misure forti». Roma: «Fermare repressione»
Siria, è l’ora dei cecchini
Appostati sui tetti, colpiscono a caso. Finora le vittime delle proteste sono 400 di Martha Nunziata a tattica di Bashir Assad è sempre la stessa: da un lato concede, o sembra concedere, aperture democratiche al paese, dall’altro ordina all’esercito di usare la forza per reprimere le manifestazioni di protesta del suo popolo. È una tattica nota, peraltro: tutti i dittatori nordafricani e mediorientali l’hanno utilizzata prima di lui, altri lo faranno dopo. La fermezza del presidente siriano, però, è nel frattempo diventata repressione brutale: il paese è ormai un campo di battaglia. Ancora una giornata di scontri a Daraa, all’indomani dell’operazione militare contro la città epicentro della contestazione al regime di Bashar al Assad, «Gli spari contro gli abitanti continuano», ha indicato un attivista per i diritti umani, Abdallah Abazid. I punti di accesso alla città sono bloccati da carri e barricate, ma secondo l’attivista «alcuni soldati della quinta divisione hanno disertato e si sono uniti a noi» contro l’esercito fedele al regime. Le forze di sicurezza siriane ieri hanno arrestato circa 500 attivisti per la democrazia in tutto il Paese. È quanto denuncia l’organizzazione siriana per i diritti umani Sawasiah, citata da al Jazeera. La fermezza del presidente siriano, però, si è ormai trasformata in repressione brutale. Secondo le stime degli attivisti sono già oltre 400 le persone uccise dall’inizio della repressione. Almeno 25 solo lunedì a Daraa, capoluogo della regione meridionale dell’Hawran, nel sud del Paese, durante le operazioni militari effettuate con l’impegno di dieci tra carri armati e mezzi blindati dall’esercito regolare di Damasco.
L
L’esercito in forze, oltre tremila uomini schierati in assetto da combattimento, ha sparato contro i civili e ha messo sotto assedio la città, con cecchini appostati sui tetti, secondo quanto riferito da testimoni oculari alla tv araba Al-Arabiya. Ed è solo l’ultimo episodio, in ordine di tempo, perché sono diverse le città, soprattutto quelle più piccole, dove
Le proteste che hanno incendiato negli ultimi mesi la Siria non hanno per il momento avuto una “guida” politica ben definita e sono state piuttosto eterogenee a livello di partecipazione, senza distinzioni etniche o su basi religiose, se si eccettuano le manifestazioni per il diritto alla cittadinanza dei curdi ad al-Hasakah, nel nordest
ci sono state rappresaglie contro la popolazione: domenica a Ezraa, nel Sud, e l’altro ieri a Barza e a Duma, due sobborghi di Damasco, dove sono state uccise circa cento persone che partecipavano ai funerali dei morti del Venerdì Santo. La lista è lunghissima: negli ultimi giorni la Guardia repubblicana ha sparato su un corteo di manifestanti a Baniyas, e nel giro di poche settimane, da Daraa a Homs, fino alla capitale Damasco, nel sobborgo di Parasta e di Maadamiyeh il regime ha soffocato nel sangue decine di manifestazioni pacifiche. Fornendo spiegazioni come questa: «Le operazioni militari sono state decise per evitare che a Daraa venisse creato un emirato islamico comandato da un
emiro salafita». Le autorità siriane accusano «bande di criminali armati» di organizzare le manifestazioni, sostengono che l’esercito sia entrato a Daraa su richiesta della popolazione per «farla finita con i gruppi terroristi».
Una violenza, quella usata dall’esercito nella repressione delle proteste di Daraa, che ha ricordato a molti siriani la strage del 1982 a Hama, città che si era ribellata ad Hafiz al-Assad, il padre dell’attuale presidente siriano. Allora si contarono oltre diecimila morti. Le notizie sulle proteste, e le comunicazioni tra gli stessi rivoltosi, nel frattempo, trovano spazio soprattutto sul web, vero protagonista di questa primavera araba di
opposizione al regime. « Le cose sono notevolmente peggiorate: prima i manifestanti venivano arrestati, adesso vengono uccisi per strada». Alcuni bilanci parlano di circa 300 morti civili. Ce ne sono molti di più: almeno 400, forse 500», queste sono le parole del più famoso blogger siriano, Rami Nakhle, meglio conosciuto con lo pseudonimo Malath Aumran. «Una rivolta, quella siriana, che ha profonde radici anche in ambito politico e religioso: i protagonisti – sostiene Saad Kiwan, politologo libanese – delle proteste sono sunniti, in massima parte, e curdi, in minoranza, appoggiati discretamente dalla Giordania e dall’Arabia Saudita, contro la minoranza sciita-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Iran-Bahrein ad alta tensione: Manama espelle un diplomatico
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
TEHERAN. Si aggrava lo scontro tra l’Iran e il Bahrein, il cui governo accusa (a ragion veduta) Teheran di sostenere la sollevazione della popolazione a maggioranza sciita nel piccolo regno-arcipelago. Manama ha annunciato l’espulsione di un diplomatico iraniano e la Repubblica islamica ha risposto condannando la decisione e minacciando ritorsioni. Il mese scorso i due Paesi avevano già proceduto all’espulsione reciproca di un diplomatico. «L’ultima iniziativa del Bahrein è contraria alle relazioni di buon vicinato tra i due Paesi e non è basata su alcun fatto reale», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehman-Parast, citato dalla televisione in inglese PressTv. Teheran, ha aggiunto il portavoce, «si riserva il diritto di prendere misure di ritorsione». Lunedì le autorità del Bahrein avevano chiesto a un diplomatico iraniano di lasciare entro 72 ore il Paese arabo del Golfo accusandolo di esse-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
re in collegamento con una rete spionistica attiva in Kuwait. Alla fine di marzo il Kuwait aveva espulso anch’esso due diplomatici iraniani e Teheran aveva reagito con un’analoga misura. La tensione tra l’Iran e il Bahrein è altissima da quando i Paesi arabi hanno accusato Teheran di interferire nella sollevazione popolare, mentre l’Iran ha condannato l’Arabia Saudita per l’invio di truppe nell’emirato per aiutare a reprimere la sollevazione.
Da sinistra: Bashar al Assad, il capo della Cia Leon Panetta e il presidente francese Nicolas Sarkozy
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
alawita al Governo di Damasco, che portano equilibrio al rapporto di forza dovuto all’appoggio iraniano al regime di Assad. Uno scenario che apre prospettive tanto sconosciute quanto potenzialmente terribili. Il rischio è quello di uno scontro interconfessionale anche perché gli alawiti rappresentano appena il 10-12% dell’intera popolazione siriana». Nel frattempo si muove anche la diplomazia, sia pure con grande difficoltà.
Gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di imporre “sanzioni mirate” contro il regime siriano, e lunedì sera hanno ordinato alle famiglie dei diplomatici e al personale non essenziale della loro ambasciata di Damasco di lasciare il paese. Obama, però, anche se non ha mai fatto mistero di considerare l’Iran come il più pericoloso alleato di Assad, e del fatto che l’Iran, segretamente sta aiutando il Presidente siriano a reprimere le manifestazioni di piazza (accuse che il regime iraniano ha bollato come “parole irresponsabili”, peraltro), nutre anche molti dubbi in merito ad un intervento simile a quello della Libia. La situazione geopolitica della Siria è più complessa, perché se da una parte c’è solidarietà nei confronti dei manifestanti siriani, c’è anche la paura di scatenare un conflitto interconfessionale interno che può contagiare il Libano e sal-
Ancora violenze nella città simbolo della protesta. L’Occidente pensa alle sanzioni. Obama fa evacuare l’ambasciata darsi con le tensioni irachene, senza considerare il pericolo del riemergere di correnti islamiche radicali rappresentate dalla Fratellanza musulmana. Italia e Francia, intanto, chiederanno l’istituzione di una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sulle stragi di civili dei giorni scorsi. Una linea decisa ieri, durante un incontro tra i ministri degli Esteri Franco Frattini e Alain Juppè, a margine del vertice di Villa Madama tra Berlusconi e Sarkozy. Un’iniziativa che si aggiunge a quelle di Francia, Gran Bretagna, Germania e Portogallo, che stanno facendo circolare, in seno all’Onu, una bozza di dichiarazione di condanna della repressione violenta da parte della Siria delle manifestazioni di protesta. Resta da vedere se Russia e Cina saranno disposte ad appoggiare il docu-
mento. «Vorremmo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condannasse la violenza in Siria e sollecitasse alla moderazione», ha affermato un diplomatico occidentale. La speranza è che una condanna da parte del consiglio di sicurezza dell’Onu aumenti le pressioni sul governo siriano per porre fine alla repressione delle manifestazioni.
Oltre alla diplomazia ufficiale, nel frattempo, si muove anche quella dei servizi segreti. Solo ieri, infatti, è stata confermata la notizia del viaggio in Turchia del numero uno della Cia, Leon Panetta. Cinque giorni di trasferta ad Ankara, alla fine di marzo, durante i quali Panetta, uomo fidatissimo del Presidente Obama, ha incontrato diversi funzionari turchi, tra cui il capo dell’intelligence Hakan Fidan, che, secondo quanto riferisce il quotidiano turco Sabah, è stato inviato il mese scorso a Damasco dal premier Recep Tayyip Erdogan per incontrare il presidente siriano Bashar al-Assad. Due missioni che non erano state rese note fino a ieri, e che confermano il ruolo di “grande mediatore”che la Turchia potrebbe ricoprire nella difficile gestione delle crisi nordafricane e mediorientali. «In questo momento - sostiene per Liberal Saad Kiwan - in tutto il mondo arabo soffia solo il desiderio di libertà, di giustizia, di indipendenza nazionale e di un cambiamento radicale».
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Sul consenso informato si confrontano due culture: quella che privilegia l’uomo in sé e quella che punta sulla libertà in sé
Il valore della vita In Aula la legge sul testamento biologico: mettiamo sempre al centro l’essere umano di Paola Binetti ggi, il Parlamento affronta il nodo cruciale della bioetica attraverso la discussione sulla legge che dà «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento». Nella legge in questione, al di là dell’articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza. Da un lato, quella laica di ispirazione cristiana, in cui al valore della vita si affianca il valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, fondamento del senso stesso di responsabilità. Ma riconosce alla vita umana un valore in se stessa, anche a prescindere
O
vita alla possibilità di essere liberi. In questo secondo caso la libertà è considerata come qualcosa fine a se stessa, in cui tutto è consentito, anche il negare la vita e il suo valore, al punto da pretendere dalle istituzioni l’aiuto necessario a tradurre in pratica una possibile volontà di morire (eutanasia). È una concezione individualistica. Tra questi due approcci, ci sono alcune differenze: quattro, in particolare, sono i binomi confittivi.Vediamoli nell’ordine.
a) Tutela della vita & libertà e autonomia. Nelle due concezioni il valore della libertà e dell’autonomia, binomio essenziale nel processo di maturazione del soggetto, giocano un
nel secondo caso la perdita della libertà legittima la perdita della vita. Basta pensare al tema dei diritti umani, l’uomo ha diritto a veder riconosciuta la sua libertà perché esiste, perché è vivo, ma la proposizione non si può rovesciare. Nel dibattito sulle DAT il costante riferimento alla libertà del paziente serve quasi esclusivamente per affermare il diritto a non-vivere, per negare tutte le cure e rifiutare ogni tipo di sostegno, inclusa la nutrizione e l’idratazione. D’altra parte anche la libertà del medico è vincolata dalla necessità di agire in scienza e coscienza, proprio per poter esprimere il suo giudizio clinico con la massima oggettività possibile e in coe-
In questo dibattito, il costante riferimento alla libertà del paziente serve quasi esclusivamente per affermare il diritto a non-vivere, per negare tutte le cure, comprese nutrizione e idratazione dalle capacità del soggetto, incluse quelle considerate più importanti come la capacità di stabilire relazioni o di agire autonomamente. È una concezione in cui il valore della persona implica relazionalità e interdipendenza. Dall’altro lato, quella laico-laicista, centrata sul principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto e del tutto auto-referenziale, subordinando il valore della
renza con i suoi principi etici e deontologici. Medico e paziente sono in definitiva vincolati dalla loro coscienza che ovviamente deve essere ben formata perché ognuno di loro possa agire rettamente.
ruolo diverso. Nel primo caso l’uomo esercita la sua libertà all’interno di una progettualità che può svilupparsi proprio in quanto è vivo, nel secondo caso è come se la libertà fosse un valore che esiste in se stesso, per cui venendo meno, automaticamente comporta anche la fine della vita. Nel primo caso si può accettare di vivere anche per lunghi periodi in una condizione di apparente non-libertà,
In alto, “Il Giairo” di Giotto. Sopra, Beppino Englaro, padre di Eluana e a sinistra una veglia in sua memoria. Nell’altra pagina, Piergiorgio Welby e la Camera dei Deputati dove oggi si discuterà sulla legge per il consenso informato
b) Consenso informato e alleanza terapeutica: relazionalità & individualismo. Un’altra differenza sostanziale tra i due approcci è che il primo ha un carattere fortemente relazionale, mentre il secondo ha carattere prevalentemente individualistico. La legge ricava il suo titolo: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento proprio dal fatto che si è voluto mettere in primo piano il tema della relazione medicopaziente. Il malato non è solo davanti a decisioni così importanti della sua vita. Il medico, destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei suoi confronti, può agire solo dopo averne acquisito il consenso, e può acquisire il consenso solo dopo averlo adeguatamente informato, nell’ambito di un rapporto che non è mai riduci-
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vazione della vita. È quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente, evitando le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione. Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo “stato vegetativo” si prolunghi.
D’altra parte il rifiuto della nutrizione-idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve. Ma il diritto alla non attivazione o all’interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell’ora per allora, tipica
lo della libertà del paziente e del medico; l’autonomia del paziente non si riduca all’indifferenza del medico; il valore delle cure non diventi un inutile accanimento; l’alleanza medicopazienti non degeneri in una forma di contrattualismo. Il tema della scelta nelle DAT va sempre ricondotto nell’ambito delle scelte per la vita, senza tentare scorciatoie che l’abbrevino, alterandone i tempi naturali. È lo spirito della Costituzione, se si considera in toto l’art. 32, il comma 1 e il comma 2; se si tiene conto dei nostri codici e di tutta la giurisprudenza.
Nell’analisi del disegno di legge è stato evidenziato che: non basta che il no all’eutanasia sia affermato e riaffermato più volte in via di principio, deve essere concretamente ricavabile da tutto l’articolato della legge, che non deve lasciare spazio ad interpretazioni che potrebbero giustificare interventi diretti a legittimare la morte del paziente (cfr il rifiuto totale delle cure). La libertà del paziente e la stessa libertà del medico devono mantenere come orizzonte di riferimento il valore etico e deontologico dell’alleanza che li lega in funzio-
In realtà, questa legge non obbliga a vivere, ma proibisce di accelerare la morte del paziente, sia provocandola in modo attivo sia omettendo le cure indispensabili alla sua sopravvivenza bile ad un atto burocratico e prevede che tra di loro si stabilisca una relazione di alleanza. Il riferimento al consenso informato e all’alleanza terapeutica è una premessa indispensabile che pone al centro del ddl un approccio interpersonale, in cui libertà e dignità del paziente si confrontano e si rispecchiano nella liberà e dignità del medico.
c) Vincolatività e non vincolatività delle DAT. Paradossalmente quanti sostengono l’assoluta libertà del paziente pretendono la stretta vincolatività delle DAT, senza cogliere la contraddizione con il fatto che in questo modo negano o per lo meno coartano pesantemente la libertà del medico, mentre in realtà si dovrebbe valorizzarle tutte e due. Anche per questa ragione, noi ci batteremo perché il ddl torni alla formulazione del Senato, recuperando la prospettiva della convenzione di Oviedo, che parla di carattere orientativo delle DAT, impegnativo, ma non vincolante.
d) Nutrizione e idratazione & non attivazione e sospensione delle cure. L’aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire il
trare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente) può diventare un potente distrattore rispetto al vero punto critico della legge, che attual-
delle dichiarazioni anticipate di trattamento. In definitiva: l’Udc è sostanzialmente favorevole alla legge per quanto riguarda la tutela della vita e il no chiaro e fermo all’eutanasia; il si alle cure palliative e il no all’accani-
diritto alla non attivazione o alla interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita. Il dibattito sulla nutrizione-idratazione medicalmente assistita: se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rien-
mente riguarda soprattutto il diritto del paziente al rifiuto-rinuncia delle cure. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conser-
mento terapeutico; la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il no all’abbandono del malato. Punta in definitiva ad una formulazione in cui il valore della vita si integri con quel-
ne di un comune obiettivo: la salvaguardia della vita del paziente, evitando sia possibili forme di accanimento terapeutico, che forme surrettizie di abbandono e di indifferenza nei confronti del paziente. Il medico non può essere ridotto a mero esecutore delle volontà di altri secondo una logica contrattualistica, e la visione della medicina espressa dalla legge non può prescindere dall’antica tradizione che vede l’agire medico sempre orientato all’etica della cura, e mai complice di una volontà di morte. Non reggono quindi una serie di accuse alla legge, a cui si rimprovera di violare la libertà del paziente, obbligandolo a vivere suo malgrado. In realtà la legge non obbliga a vivere, ma proibisce di accelerare la morte del paziente, sia provocandola in modo attivo, sia omettendo le cure indispensabili. La legge consente alla dignità del medico di esprimere il suo livello di professionalità, per quell’agire in scienza e coscienza che è da sempre il suo carisma.
ULTIMAPAGINA
Dalla Finlandia alla Danimarca: in nome dell’ambiente si interrano edifici, luoghi pubblici e autostrade
La Scandinavia finisce Tomasz Walat er la prima volta al mondo è stato presentato a Helsinki il progetto di un’intera città sotterranea. Entro il 2020 dovremmo assistere alla costruzione di 400 locali sotterranei per un volume complessivo di nove milioni di metri cubi. Un tunnel collega ormai da diversi anni la stazione centrale della città a un centro commerciale distante quasi un chilometro. Qui si trova un negozio conosciuto in tutta Europa, lo Stockmann. La sua superficie è cresciuta fino a quasi 10mila metri quadrati. Per non intralciare il traffico nel centro cittadino, facilitare l’eliminazione delle macerie e trasportare i materiali, la città ha costruito una rete di vie sotterranee. Questa rete servirà in futuro come circuito sotterraneo di rifornimento per ridurre il traffico nel centro storico di Helsinki.Tre svincoli periferici a nord della capitale, sul mare, saranno costruiti in parte sottoterra. Il prossimo progetto in cantiere si chiama Pisara,“la goccia”in finlandese. Si tratta di una ferrovia sotterranea che andrà dalla periferia alla vecchia stazione centrale, e che avrà effettivamente la forma di una goccia. In tre anni una ferrovia a grande velocità collegherà la stazione ferroviaria e la stazione della metropolitana all’aeroporto Vantaa, distante 20 chilometri. Il collegamento sarà sotterraneo e passerà sotto la pista di decollo. La più grande stazione di autobus sotterranea è stata costruita cinque anni fa a Helsinki. E il posto più visitato della capitale è la Temppeliaukion, che ogni anno attira mezzo milione di
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SOTTOTERRA numerose saune che fanno parte dello stile di vita dei finlandesi. Ma tutte queste meraviglie non sono nulla in confronto al tunnel di 50 chilometri che dovrebbe attraversare Tallinn e collegare la Finlandia all’Europa. Il tunnel dovrebbe accelerare lo sviluppo della regione e diminuire la dipendenza dell’economia finlandese dal trasporto marittimo. Collegamenti stradali e ferroviari attraverso il golfo di Finlandia faciliteranno il trasporto delle merci e delle persone. Ma la decisione di costruire questo collegamento non è ancora definitiva. Dall’altra parte del Baltico, nello stretto di Belt Fehmarn, si costruisce un tunnel di 18 chilometri a 40 metri di profondità. Il costo (più di cinque miliardi di euro) sarà a carico della Danimarca, che grazie a questo tunnel sotterraneo beneficerà di un collegamento permanente con la Germania. Finora c’era solo un collegamento sulla penisola dello Jutland. In Svezia l’attività sotterranea si concentra a Stoccolma. Era dall’epoca di Alfred Nobel, inventore della dinamite, che non si sentivano altrettante esplosioni nella capitale. Sotto il lago Melar si costruisce un tunnel ferroviario che contribuirà a decongestionare l’area metropolitana e passerà accanto alla città vecchia e alla più antica chiesa della città, che risale al tredicesimo secolo e ospita le tombe dei re svedesi. Ma gli investimenti sotterranei più interessanti in Svezia sono a nord, a Kiruna. Sui marciapiedi illuminati della sua miniera, mezzo chilometro sotto terra, c’è più gente
La più grande stazione di autobus sotterranea è stata costruita a Helsinki. E il posto più visitato della capitale è Temppeliaukion, chiesa che ogni anno attira mezzo milione di turisti turisti. Al contrario di Gerusalemme, il tempio è inserito nella collina. Il muro scavato nella roccia fornisce un’ottima acustica ed è un luogo perfetto per i concerti.
Helsinki accoglie anche l’Agenzia europea dei prodotti chimici (Echa), che gestisce le procedure di registrazione e controllo delle sostanze chimiche nell’Ue. L’argomento decisivo nella scelta del luogo è stato il suolo roccioso, che ha permesso di scavare quattro piani e delle sale conferenze. L’edificio resisterebbe anche a un attacco atomico, dicono con orgoglio i responsabili del luogo. A dieci chilometri dal centro storico di Helsinki è stata scavato il più grande centro commerciale del Nord Europa. Oltre ai negozi, ospita una piscina e
che nel centro di Stoccolma.Tutti possono scendere nelle gallerie sotterranee, osservare il lavoro dei minatori, bere un caffè o visitare un museo e altri luoghi di questa città sotterranea. In superficie Kiruna è invece destinata a scomparire, perché ci si è resi conto che il filone di ferro più importante passa proprio sotto la città. Per sfruttarlo senza pericoli bisognerà quindi trasferire i suoi abitanti, anche se nessuno sa ancora dove.
Anche la costa norvegese investe sottoterra. La lunghezza di questa costa, compresi i fiordi e le isole, è di 25mila chilometri. Negli ultimi tempi i norvegesi cercano di renderla più dritta costruendo passaggi sotterranei e tunnel sottomarini. La galleria che collegherà le due più grandi città norvegesi, Oslo e Bergen, sarà lungo quasi 25 chilometri e diventerà il più lungo tunnel stradale del mondo. Eppure la Scandinavia è una delle regioni d’Europa meno popolate; c’è abbastanza posto per tutti e sembra difficile capire il perché di questa tendenza. In passato si costruivano città giardino e gli scandinavi avevano un grande esperienza in questo campo (come per esempio il quartiere diTapiola a Helsinki). Ma oggi si ha l’impressione che preferiscano abitare in luoghi che assomigliano più a una città che a un giardino. Indipendentemente da quello che pensano gli urbanisti, la gente pensa con la propria testa e con il proprio portafoglio. E oggi per andare a vivere in centro si è disposti a pagare cifre astronomiche. Ma visto che gli scandinavi non amano gli edifici alti e i grattacieli, l’unica alternativa era scavare. © Polityka