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ISSN 1827-8817

mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 9 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Una giornata di tensione per Piazza Affari e Btp. Draghi: «Manovra giusta». Ma a preoccupare non è solo il fronte economico

Quattro salti in padella 1) La manovra ancora confusa e le Borse in tilt. 2) La crisi di credibilità del capo del Tesoro. 3) La lotta di successione nel Pdl. 4) La rottura di Bossi sulla Libia. L’Italia traballa senza guida

La superficialità ci può uccidere

Ascesa e caduta di Giulio II

I titoli vacillano. Il lungo viale I mercati attaccano. del Tremonti, Fare la manovra, Superministro poi nuovo governo sempre più debole

L’annunciato ritiro del premier

La crisi con il Colle sulla Libia

La guerra per il dopo Silvio: ex An e Formigoni contro Alfano

Povero il Paese che decide la politica estera con i sondaggi

di Enrico Cisnetto

di Giancarlo Galli

di Franco Insardà

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ttenzione, stiamo correndo un gravissimo pericolo. Di cui gli italiani devono rendersi conto al più presto. Le difficoltà oggettive del Paese e la squallida rappresentazione di sé che offre la politica italiana – ogni giorno in modo sempre più evidente e clamoroso – rischiano di esporci ad un attacco senza precedenti da parte della speculazione finanziaria internazionale, in un effetto domino con gli altri Paesi europei in difficoltà. Sono giorni che il differenziale tra il tasso d’interesse pagato sui nostri Btp decennali e gli omologhi bund tedeschi sta macinando record storici.

hi è veramente Giulio Tremonti, il più autorevole dei nostri ministri capace al tempo stesso di “convivere” con Berlusconi (letti separati, ovviamente), nutrire un confessato legame sentimental-padano con Umberto Bossi tuttavia evitando di presenziare ai sacri riti di Pontida, subire un serrato corteggiamento dell’emiliano Pierluigi Bersani già Pci, Pds, Ds, ora leader del Pd? E questo senza tirare in ballo le vieppiù amicali consuetudini con il mondo bancario e la nebulosa delle Fondazioni appena un paio di lustri fa fieramente osteggiate in quanto simbolo dell’immortale nomenklatura.

ROMA. Una conversazione amichevole, che il giornale “nemico”(la Repubblica) ha trasformato in una classica intervista, è stata un’altra pietra lanciata in uno stagno, quello del Pdl, che ultimamente è tutt’altro che calmo. Agitato sia dalle vicende giudiziarie sia da quelle politiche legate alla successione al Cavaliere. Ancora non si è sopito il clamore suscitato dalle questioni legate all’ex collaboratore del ministro Tremonti, Marco Milanese, che dalla Sicilia - dal gip di Palermo - arriva la richiesta di imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa per Saverio Romano.

bituati come siamo a vivere consumati da una lenta marea di banalità, delegittimazioni di vario titolo e scandali infiniti, accogliamo con distacco persino le cose più incredibili. Come ad esempio un presidente del Consiglio che governa (quando governa) sulla base dei sondaggi e che decide su qualunque argomento “sentendo” l’umore popolare. Ora, forti di un’aspirazione liberale, non possiamo arrivare a dire che scegliere in base alla maggioranza dell’elettorato sia un’aberrazione. Ma ci sono argomenti e questioni che un governo non può e non deve delegare all’umore.

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Cameron annuncia “un’indagine indipendente” e chiede le dimissioni dei dirigenti

Murdoch travolto dal fango Dopo il News of the World, perquisito anche il Daily Star di Antonio Picasso er l’Hackgate quella di ieri è stata una nuova giornata campale. Il più grande scandalo nella storia del giornalismo britannico, che vede coinvolta la News Corporation di Rupert Murdoch, ha portato all’arresto di Andy Coulson, 43 anni ex direttore di News of the World e successivamente capo uf-

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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ficio stampa del premier David Cameron. La mossa di ScotlandYard era prevista. Il fermo per il giornalista, infatti, è solo la conferma del progresso delle indagini. Queste stanno mettendo in luce un pericoloso teorema che rischia di lambire anche Downing Street.

WWW.LIBERAL.IT

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’Italia senza guida

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A essere colpiti sono stati soprattutto i titoli finanziari di Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bpm, Mediobanca, Fonsai, Generali

Una giornata nera

Tensione e paura a Piazza Affari: un feroce attacco speculativo precipita la Borsa a -4 per cento, mentre lo spread tra Bund e Btp tocca i massimi storici arrivando a quota 245. Ma Draghi promuove la manovra e assicura: «I nostri istituti di credito sono solidi» Dall’alto il nuovo governatore della Bce Mario Draghi, la Borsa di Seoul e Jean-Claude Trichet. Nella pagina a fianco, Marco Milanese

di Giancristiano Desiderio l differenziale tra i titoli di Stato tedeschi e i titoli di Stato italiani è arrivato alle stelle mentre Piazza Affari scivola giù che è una meraviglia. Meno male che oggi è sabato e i mercati sono chiusi. Se ne riparla lunedì e si spera che sia un buon parlare per l’Italia e i suoi conti. Intanto, ci s’interroga: è la situazione turbolenta dei mercati e dei titoli a indebolire il ministro dell’Economia o è proprio la debolezza di Tremonti che eccita i mercati mettendo l’Italia nel girone infernale del “rischio Grecia”? Le risposte possibili sono ambigue e il dilemma rimane. Proprio come rimane il pericolo di speculazione internazionale sul nostro Paese. Ecco perché appaiono ancora più irresponsabili e folli gli attacchi che il ministro Tremonti ha ricevuto nientemeno che dal suo governo e dal presidente del Consiglio. Quella che si è conclusa è stata una settimana di ordinaria follia all’italiana.

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La linea del governo sulla politica di bilancio è stata finora quella del rigore e dei conti in ordine. Dobbiamo tenere il debito sotto controllo oggi e domani - è stato sempre il ragionamento ad alta voce di Giulio Tremonti - perché i mercati ci osservano. La manovra, dunque, era una priorità e con lei anche l’autorevolezza di Tremonti. Tuttavia, fatta la manovra - e nel modo che sappiamo - ecco che proprio sul mercato della Borsa e dei titoli di Stato le cose si mettono male. Lo spread tra Btp e Bund decennali ha toccato ieri massimi storici arrivando a quota 245. Una tensione e una differenza senza precedenti. La Borsa di Milano, unica in Europa, scende. Colpiti risultano soprattutto i titoli finanziari: Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bpm, Mediobanca, Fonsai, Generali. Le due cose - titoli e mercati -, è inutile dirlo, si tengono. E siccome in qualche modo tutto si tiene, ecco che la pioggia arriva quando il ministro Tremonti non è più quel drago di qualche tempo fa: oltre agli ex amici che ha in casa - Berlusconi, Bossi e in pratica tutto il governo - ci si mette anche la magistratura che indaga pure sul suo amico Marco Milanese che lo ospitava nella sua casa romana di via Campo di Marzio pagando un affitto di 8.500 euro. Come se non bastasse, Tremonti ci mette del suo e fornisce non pochi

Il caso della Grecia è senz’altro quello più delicato. Ma se Atene va giù definitivamente, non è detto che affondi da sola. Anzi, le turbolenze e i contraccolpi si farebbero sentire ovunque

spunti alla stampa nazionale e internazionale prima dicendo di chiedere al «dottor Letta» - «vi do il numero di telefonino» - per il caso del commasalva-Finvinvest in manovra e poi dando dell’emerito cretino al ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Così il presidente del Consiglio impegnato a presentare nientemeno che il libro del suo responsabile salvatore, onorevole Scilipoti, decide di rispondere al telefonino del dottor Letta per dire che proprio Tremonti del “comma 23” sapeva tutto, ma proprio tutto. Poi, per completare l’opera, dice due paroline al quotidiano la Repubblica su Tremonti: «Pensa di essere un genio e crede che tutti gli altri siano dei cretini. Lo sopporto perché lo conosco da tempo e va accettato così. Ma è l’unico che non fa gioco di squadra».

Dove l’unica cosa che si capisce cretini a parte - è che non c’è un gioco di squadra. Infatti, nella “situazio-

ne greca” o “simil-greca” in cui, a torto o a ragione, siamo, l’unico gioco di squadra che il governo dovrebbe fare è quello di non indebolire chi agli occhi del mondo era fino all’altro ieri il garante della nostra politica di bilancio. Invece, la caccia a Tremonti sembra essere diventato lo sport preferito del governo, della maggioranza e della stampa amica. E a poco vale la pezza messa da Berlusconi, invitando a pranzo il titolare dell’Economia «per concordare insieme l’agenda di governo».

Per fortuna Draghi fa il suo mestiere e ci dà una mano dicendo: «Bene la manovra, le banche italiane sono solide». Eppure, la manovra non è ancora un capitolo chiuso. Soprattutto per il governo e la sua variegata maggioranza. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, ha fatto sapere proprio ieri da Gardone Riviera che «la manovra è indispensabile ma deve essere resa più equa e responsabile».


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La Guardia di Finanza ha una storia fatta anche di “deviazioni” negli alti gradi

«Chi ricopre certi ruoli stia attento ai collaboratori»

L’ex ministro Reviglio “assolve” il suo allievo: «Conosco Tremonti da sempre, so che è onesto. Certo, meno battute lo aiuterebbero» di Franco Insardà

ROMA. «Non penso che un attacco speculativo nei confronti dell’Italia possa sortire effetti, in genere si fanno nei confronti dei Paesi che hanno diversi livelli di rischio. Noi rispetto agli altri stiamo meglio. La Bce sta facendo il suo dovere e la manovra di Tremonti è perfettamente in linea». Il professor Franco Reviglio, ex ministro delle Finanze, del Bilancio e per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno nella Prima Repubblica, difende il suo allievo Giulio Tremonti: «Ha fatto una buona manovra e io al suo posto non avrei agito diversamente. Può modificare qualcosa per renderla un po’ più equa, ma le dimensioni e i tempi sono corretti. Sto preparando un saggio sul raffronto dei conti pubblici all’epoca di Quintino Sella e oggi. I problemi sono gli stessi: pareggio del bilancio, debito pubblico, ma l’Italia è profondamente cambiata. Centocinquanta anni fa la spesa pubblica era un settantesimo dell’attuale, votavano quattrocentomila persone su 25 milioni e Cavour, ad esempio, veniva eletto con 800 voti. Sella ha messo l’imposta sul macinato che non era certamente progressiva».

cesco Curcio, di “sospetti”nei confronti del capo di Stato Maggiore delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi. Tremonti ha anche accennato a “cordate” esistenti all’interno della Guardia di Finanza in vista della nomina del Comandante Generale.

Una storia che si ripete e che fa correre veloce il pensiero al generale Raffaele Giudice, comandante della Guardia di Finanza dal ’74 al ’78, iscritto alla P2 di Licio Gelli e plurinquisito nello scandalo dei petroli degli anni ’80, insieme con l’altro generale delle Fiamme Gialle, Donato Loprete, anche lui iscritto alla P2, fuggito in Spagna. Ma i titolari dell’Economia hanno avuto spesso problemi per i comportamenti di alcuni ufficiali delle Guardia di Finanza. Nel 2001 Tremonti sostituì il generale Giovanni Mariella che stava continuando l’opera moralizzatrice dell’arma iniziata dal generale Rolando Mosca Moschini, che lo aveva messo al posto di Nicolò Pollari come capo di Stato Maggiore. Ma al cambio di guardia a Palazzo Chigi Pollari tornò in sella: il comando interregionale della Lombardia venne assegnato al generale Emilio Spaziante, luogotenente di Pollari, al comando provinciale fu nominato il colonnello Rosario Lo Russo. Il Nucleo regionale di polizia tributaria fu affidato al colonnello Stefano Grassi, aiutante di campo di Tremonti, che lavorò al ministero dell’Economia insieme a Marco Milanese, capo della segreteria del ministro, compagno di corso all’accademia della Finanza di Dario Romagnoli, che fa parte dello studio tributario di Tremonti. Non va meglio al viceministro dell’Economia per il centrosinistra. Nel 2006 Vincenzo Visco, infatti, si imbatte nella vicenda del generale Roberto Speciale che lo accusa di essere stato oggetto di indebite, insistite e minacciose pressioni da parte di Visco per trasferire alti ufficiali in servizio a Milano. La storia va avanti per mesi tra querele, ricorsi al Tar fino a concludersi con le dimissioni di Speciale e la sua candidatura con il Pdl. E oggi su via XX settembre si è abbattuto il caso Milanese.

«La manovra potrebbe essere modificata, per renderla almeno un poco più equa»

Il professor Reviglio sulla vicenda di Marco Milanese che, secondo alcuni, avrebbe indebolito la posizione del ministro dell’Economia taglia corto: «Chi ricopre certi ruoli deve fare molta attenzione ai collaboratori. Lo dice uno che, quando era alla guida dell’Eni, ha avuto collaboratori che, a mia insaputa, facevano delle cose illecite sotto il mio naso. Sono, comunque, sicuro che Tremonti è al si sopra di ogni sospetto. Milanese era un ufficiale di Finanza addetto al ministro, come succede sempre per i titolari dei ministeri economici. Parliamo di un corpo che nella storia della Repubblica è stato sempre al servizio del Paese. Come succede in ogni istituzione ci può essere qualcuno che non fa il proprio dovere. In questo Paese, purtroppo, sono molto diffusi un comportamenti illeciti: dall’evasione fiscale a cose peggiori. Certo le quantificazioni che la Corte dei Conti fa della corruzione mi lasciano perplesso: come si fa a quantificare un fenomeno del genere? Sicuramente la corruzione c’è, ma non si può misurare. Altra cosa è l’evasione fiscale perché si può raffrontare con l’economia sommersa ed è un fenomeno molto più diffuso, altrimenti non si riuscirebbero a capire certe cose. Il Paese reale è diverso da quello rappresentato dalle statistiche, siamo tra i più ricchi nel rapporto tra patrimonio mobiliare e immobiliare. Il centro studi di Mediobanca ha pubblicato una serie di ricerche sulla piccola e media impresa, a cura di un altro mio allievo Fulvio Coltorti, dalle quali esce un’Italia diversa da quella rappresentata. Purtroppo i media vanno alla ricerca del sensazionalismo e perdono di vista il Paese reale. Conosco Tremonti da molti anni, ha sempre fatto delle battute. Certamente ha sbagliato perché è ministro, ma non si possono dedicare pagine e pagine su un simile episodio». Giulio Tremonti, però, ha parlato ai pubblici ministeri di Napoli, Henry John Woodcock e Fran-

Conoscendo il passato prossimo della storia della manovra verrebbe da dire che con il metodo della cosiddetta collegialità che i ministri si sono dati e che Giulio Tremonti alla fine ha dovuto accettare, qualcuno se ne poteva anche accorgere prima che la manovra non è il massimo della equità e che le batoste che prendono i risparmiatori fanno vedere le stelle. A conti fatti - è proprio il caso di dire - se Tremonti si sente il primo della classe qualche buon motivo dovrà pur averlo. La manovra è stata letta e riletta, girata e rigirata e alla fine nessuno si era accorto di ben due piccole cose: la norma-salva-Fininvest e la mancanza di equità. Il governo fa del suo meglio per aumentare i motivi di incertezza e preoccupazione del momento.

Solo qualche giorno fa era stata la leader degli industriali Emma Marcegaglia a sottolineare il rischio proveniente dall’elevato spread di differenza tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi: «Con un debito pubblico elevato come il nostro, 100 punti base di differenza equivalgono a 16 miliardi di euro in più di deficit». Hai voglia a fare manovre. A questa situazione si va ad aggiungere il fattore greco: «Il caso Grecia rende le tensioni finanziarie - aveva detto il presidente di Confindustria - sui mercati molto pesanti. L’Italia non è in pericolo, ma se permanesse una situazione di grossa turbolenza ne risentirebbe». Proprio qui è il tasto dolente per l’Italia: alle turbolenze finanziarie vanno ad aggiungersi le turbolenze politiche e le turbolenze giudiziarie. Ci sarebbe bisogno di stringere i ranghi e di fare forza comune e invece avviene l’inverso: il governo si trova unito contro il suo uomo più importante (qualunque sia il giudizio su Giulio Tremonti che si voglia dare). In fondo, Tremonti e la finanza italiana sono sotto attacco o a rischio speculazione in Europa e nel mondo, ma il modello di questo attacco nasce a Roma e nella stessa compagine di governo. Il cattivo esempio, si potrebbe dire, è dato proprio dall’Italia. Una volta innescati meccanismi pericolosi è difficile disinnescarli, ma nel governo si fa la gara del peggio. Il caso della Grecia, non c’è dubbio, è quello più delicato. Ma se Atene va giù definitivamente non è detto che affondi da sola. I contraccolpi si farebbero sentire ovunque e le «turbolenze» evocate dalla Marcegaglia si sono avvertite ieri in Italia con molta nettezza. Il nostro punto di forza era proprio la carta della manovra di bilancio. Per nostra sfortuna - diciamo così - è stata giocata nel modo peggiore. Ieri è stato un venerdì nero. Ma da lunedì si ricomincia. La speranza è che il piano di salvataggio messo a punto per tenere su Atene e la Grecia sia un buon salvagente per tutta la eurozona. Il pericolo concreto è che se le cose greche si complicassero, allora, ne pagherebbero le conseguenze i Paesi più vicini alla Grecia: a cominciare da Portogallo, Italia e Spagna. C’è da auspicarsi che la voglia matta della maggioranza di mettere mano alla manovra di bilancio non complichi ulteriormente le cose né economicamente né politicamente. Perché al punto in cui siamo giunti non è più in ballo il destino del governo Berlusconi, ma il destino dell’Italia.


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l’Italia senza guida Il “cinicone straintelligente” (copyright Brunetta) sempre più nell’occhio del ciclone: una manovra contestata, i rapporti con la Lega si sono rotti, Berlusconi lo tiene a distanza e un’inchiesta si addensa sul suo staff. Ma da dove viene e dove vuole andare Giulio II, l’uomo che crede di poter sfidare impunemente tutto il Paese? Forse fra gli “gnomi” della finanza...

Il lungo viale del Tremonti di Giancarlo Galli hi è veramente Giulio Tremonti, il più autorevole dei nostri ministri capace al tempo stesso di “convivere” con Berlusconi (letti separati è doveroso precisare), nutrire un confessato legame sentimental-padano con Umberto Bossi tuttavia evitando di presenziare ai sacri riti di Pontida, subire un serrato corteggiamento dell’emiliano Pierluigi Bersani già Pci, Pds, Ds, ora leader del Pd? E questo senza tirare in ballo le vieppiù amicali consuetudini con il mondo bancario e la nebulosa delle Fondazioni appena un paio di lustri fa fieramente osteggiate in quanto simbolo dell’immortale nomenklatura. Ancora: le crescenti attenzioni per la galassia cattolico-progressista che non si riconosce più né nel Pdl né nell’Udc. Sino ad avere chiamato a collaborare il presidente dello Ior Ettore Gotti-Tedeschi, venuto dall’Opus Dei.

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Qualche stagione fa, quando Tremonti non stava al governo con l’abituale schiettezza, il veneziano Renato Brunetta lo descrisse con folgorante battuta: «Un cinicone straintelligente». Gli chiesi un incontro durante la stesura di un libro (Poteri deboli, Mondadori 2006), in cui sostenevo la fragilità del Sistema Italia. Risposta: «I numeri li facevo vedere a tutti, li spiegavo…». (S’era da poco clamorosamente dimesso dal dicastero dell’Economia per insanabili incomprensioni con Gianfranco Fini). «A Roma, tranne quella persona straordinaria che è Ciampi, pochi capivano. C’è scarsità nella classe dirigente di persone che dispongono di una visione globale. Ho nostalgia di Enrico Cuccia, Guido Carli, Bruno Vicentini, Mario Sarcinelli. Perché no, Lamberto Dini e Nino Andreatta. Adesso il sistema di potere è collassato, la politica controlla poco

mentre le banche controllano le industrie, ed insieme i media, cosicché gli italiani faticano ad essere informati».

Ad appena un lustro di distanza, chissà se Giulio II (nella storia patria del Dopoguerra, Giulio I è Andreotti), direbbe le stesse cose, dopo aver ripreso baldanzosamente possesso del Quartier Generale di via XX Settembre in Roma Capitale, sempre in virtù dell’amore (o dell’infatuazione?) che per lui nutre, sorvolando sul caratteraccio, il premier Cavalier Silvio. Da dove scaturisca il fascino ammaliatore di Tremonti è un mistero. Non liquidabile, politicamente, sulla posizione di anello di congiunzione fra berlusconismo e leghismo; nemmeno sull’indubbia e rara capacità di “parlare coi numeri”, quasi fosse un alchimista del XXI secolo. C’è qualcosa in più, e di ben più alto: l’autorevolezza che il professor Tremonti ha saputo conquistare nei consessi internazionali. Competenza, impeccabile inglese: sino a convincere magari nei summit a porte chiuse di Aspen e Davos, a Bruxelles e New York, che i “conti” dell’Italia non sono così male. Il debito pubblico accumulato (120 per cento del Pil) sarà altissimo, eppure a giudicare una Nazione sovrana, occorre mettere sulla bilancia anche il debito dei privati. Così, con magistrale escamotage, Tremonti ha convinto i sodali che non stiamo peggio di altri. Anzi. Oltretutto gli italiani sono il popolo più risparmioso del pianeta. Certo in calo causa la crisi, ma sempre oltre l’11 per cento del Pil. Digressioni avanti di proseguire nella narrazione: perché mai se il risparmio è la gallina dalle uova d’oro, s’è deciso di azzopparla col decreto finanziario in discussione che aumenta il prelievo fiscale sulle cedole (pur astutamente esentando quelle di

Bot e Cct che resteranno al 12,5 per cento), la tassazione dei depositi-titoli che per i piccoli patrimoni assume e caratteristiche di una imposta patrimoniale mascherata? Chi non lo ama sostiene che in Tremonti Giulio, classe 1947 da Sondrio, magari a sua insaputa convivano due anime, in perenne lotta: il liberalizzatore che ama il mercato, il capitalismo, la competitività, ed il centralizzatore freddo, spietato. E che la seconda finisca regolarmente col prendere il so-

Qualcuno sostiene che in lui vivano due anime in lotta perenne: il liberale dedito al mercato e l’accentratore pravvento, tant’è che la sorella Angiolina, pittrice e scrittrice, ed il fratello Pierluigi, farmacista, hanno ridotto al minimo i contatti.

D’altronde, Giulio II pretende per sé l’etichetta di “colbertista”, dal ministro del Re di Francia Luigi XIV Jean-Baptiste Colbert, che nel Seicento cercò di ridurre il deficit, nonostante le forti spese militari, con una vigorosa lotta contro gli sprechi di Corte, la corruzione, e favorendo le industrie statali nascenti. Con malizia, il Tg1 di giovedì (13,30) ha

diffuso un fuorionda in cui, durante la conferenza-stampa, Giulio II, credendo i microfoni spenti, ha dato del cretino proprio al collega Brunetta che parlando, stava esprimendo opinioni sulla manovra non proprio in linea con le proposte del superministro, l’erede del Gran Colbert più temuto e sopportato che amato da Re Silvio. Al Nord, ove Tremonti è ben conosciuto anche per le doti di commercialista ad altissimo livello, va prendendo corpo l’opinione, forse un po’ cinica, che Tremonti militi in un personalissimo partito, essendosi ritagliato su misura gli abiti di Salvatore della Patria. Un’Italia, altrimenti destinata a finire in rottamazione. In sostanza l’arrogante sicumera del tecnocrate che dopo una navigazione politica degna dell’Ulisse omerico, vuole giocarsi in proprio le carte, accumulate in trent’anni di navigazione.

Laureato in giurisprudenza al Ghisleri di Pavia, pur non disdegnando la libera professione, Giulio II simpatizzante socialista (con o senza tessera non si sa), debutta nei ministeri romani come “sherpa” del ministro alle Finanze Franco Reviglio, economista torinese, senatore, che Bettino Craxi aveva imposto alla presidenza dell’Eni. Approda in Parlamento nel 1994, nelle liste di Mariotto Segni, subito passando al Gruppo Misto. Ho conosciuto da vicino sia l’Umberto Bossi che Silvio Berlusconi. Innamoramento reciproco, Gloria & Poltrona di ministro delle Finanze. Recita l’annuario parlamentare: «Alla formazione del governo Berlusconi, accetta la difficile sfida di andare direttamente ad applicare le sue teorie in materia di tasse. Il quarantasettenne professore dell’Università di Pavia ha sempre avuto il pallino dello sfoltimento delle tasse, ed ha


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Lontano dai palazzi del potere diceva: «La politica non conta più nulla, sono le banche a dominarci tutti» propagato le sue idee con editoriali sul Corriere della Sera e sul Mondo». Tutto chiaro: da socialista con Reviglio a “pattista” con lo sfortunato Segni. Quindi il Berlusca e l’adesione a Forza Italia. Tuttavia continuando a consultarsi col leader leghista, nonostante questi abbia rotto (provvisoriamente) col Cavaliere di Arcore. Carattere sobrio, quasi spartano, anche nella vita familiare (sposato con Fausta Beltrametti, ha due figli: Luisa e Giovanni, entrambi indirizzati all’avvocatura), privilegia le passeggiate in montagna e la raccolta dei funghi che definisce «il golf dei poveri».

Una volta si presentò calzando scarponi alla villa del Berlusca in Sardegna; la scorsa estate ha allegramente pedalato in Valcamonica con Eridano e Roberto Bossi. Ama talmente la Guardia di finanza che volentieri dorme in caserma. Al ministero, dove ha allestito una cucina, pranza verso mezzanotte, per riprendere a lavorare concedendosi un bicchierino di cognac. Oltre l’aneddottica: liberista o colbertista? Folgorato dal berlusconismo, in una prima fase strapazzò le banche ma-

nifestando l’intento di eliminare le Fondazioni, ingaggiò un braccio di ferro col governatore Antonio Fazio facendo arricciare la pelle a Gianni Letta, smobilitò la partecipazione pubblica in Telecom e l’Ente Tabacchi. Per quest’ultimo intascando dalla British American Tobacco oltre due miliardi di dollari. Parola d’ordine, privatizzare! E massimo rigore nella ricerca di buchi, distrazioni, omissioni nei conti pubblici. Una severità da monaco giansenista che lo porta ad avere la lettera di dimissioni in tasca, e non esitando a recapitarla al Cavaliere. Seguono le riconferme, di legislatura in legislatura. Irrita di volta in volta Fini, Casini, Rutelli. E sterza bruscamente dal liberismo al colbertismo: liquidato Antonio Fazio, realizza la Pax bancaria sebbene presto vengano a galTutte le anime di Giulio Tremonti, superministro dell’Economia, autore di una manovra contestata: dall’alto con la Marcegaglia, con Berlusconi e con Brunetta, da lui definito “un cretino”. A sinistra a una festa-raduno della Lega Nord a Pontida

la le magagne del settore. Attorno alla Cassa depositi e prestiti (pubblica) imbastisce un sistema che assomiglia tanto al vecchio Iri. E le tasse? Dopo la brillante riuscita dell’amnistia sui capitali trasferiti all’estero (rientro fruttato miliardi all’erario), Tremonti giura a Silvio che «non metterà le mani nelle tasche degli italiani». Promessa da montanaro, pare abbia aggiunto. Ed invece… Cos’è accaduto a Giulio II? Lo “strizzare”i portafogli di pensionati, depositanti, piccoli risparmiatori, a quale logica risponde? Delle due l’una: i conti pubblici non godevano di quella salute proclamata dai bollettini medici, oppure stiamo assistendo al passaggio da una fase politica di partecipazione e consenso ad una autoritaria. Laddove più che la volontà del Parlamento e le esigenze popolari, sembra rilevino le suggestioni più care al “tremontismo”: l’opinione degli stranieri. Forse calcolando che il dopo-Berlusconi, elezioni anticipate o meno, dovrà venire benedetto dagli gnomi della finanza internazionale. Che lui conosce bene, più di qualunque altro. Poiché aspira al ruolo di proconsole della tecnocrazia mondiale.


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l’Italia senza guida

Il partito del Cavaliere e la sua maggioranza sotto pressione sia per le vicende giudiziarie sia per le lotte interne

La guerra di successione Berlusconi indica in Alfano il prossimo premier e il Pdl, già provato dalla sua elezione a segretario, esplode. Apre il giro Formigoni, che vuole con Alemanno le primarie. E poi arriva il colpo da Palermo: chiesto l’arresto di Romano di Franco Insardà

ROMA.

Una conversazione amichevole, che il giornale “nemico” (la Repubblica) ha trasformato in una classica intervista, è stata un’altra pietra lanciata in uno stagno, quello del Pdl, che ultimamente è tutt’altro che calmo. Agitato sia dalle vicende giudiziarie sia da quelle politiche legate alla successione al Cavaliere.

Ancora non si è sopitoil clamore suscitato dalle questioni che vedono protagonista l’ex collaboratore del ministro Tremonti, Marco Milanese, che dalla Sicilia arriva la notizia che il gip di Palermo, Giuliano Castiglia, ha chiesto l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa per Saverio Romano, ministro delle Politiche agricole. La procura siciliana nei mesi scorsi aveva chiesto l’archiviazione per Romano, sospettato di collusioni, ma il giudice per le indagini preliminari sulla base degli atti a lui presentati ne ha chiesto l’imputazione. Delle

presunte collusioni del ministro hanno parlato i pentiti Angelo Siino e Campanella. Ora la procura ha venti giorni di tempo per formulare il capo d’accusa e chiedere il rinvio a giudizio.

In questo clima Berlusconi ha, in pratica, nominato il suo erede, annunciando che alle prossime politiche il candidato premier del centrodestra non sarà più lui, ma Angelino Alfano, il nuovo segretario del Pdl. «Io, se potessi, lascerei già ora...» ha detto al quotidiano diretto da Ezio Mauro. Quanto al Quirinale ha precisato: «Non fa per me», la persona adatta «è Gianni Letta». Passa appena qualche ora e uno di quelli che da anni viene indicato come un possibile successore del Cavaliere esce allo scoperto. Roberto Formigoni ricorda che il Pdl è «il partito delle primarie. Alfano sarebbe un’ottima soluzione come candidato premier per il 2013, ma sarà il nostro popolo a sceglierlo. Non c’è spazio per una no-

mina dall’alto. D’altra parte, il Pdl il primo luglio ha deliberato l’uso delle primarie per individuare i candidati a tutte le cariche elettorali, sindaci, presidenti di Provincia e Regione. Sarebbe strano, anzi una contraddizione, non scegliere così il candidato premier».

Il dibattito nel Pdl è, quindi, ufficialmente aperto, forse proprio come voleva Berlusconi per sondare gli umori. E se da una parte si schierano i fedelis-

«Non possiamo però caricare Angelino Alfano di ogni potere salvifico»

simi alla linea del premier, dall’altra non mancano le voci discordanti.

Al governatore lombardo, infatti, si aggiunge il sindaco di Roma Gianni Alemanno: «Alfano è la persona adatta a raccogliere nel 2013 il testimone da Silvio Berlusconi come candidato premier del centrodestra. L’ho votato convintamente come segretario del nostro partito e sto collaborando con lui fin dal primo momento. C’è però

un elemento da sottolineare: il candidato a premier nel 2013 deve nascere attraverso le primarie.Va benissimo Alfano, ma vorrei che la sua candidatura nascesse da una grande mobilitazione popolare che solo le primarie possono dare per dare una spinta nuova non solo al nostro partito ma a tutto il centrodestra».

Da Mirabello, dove è in corso la festa del Pdl, Maurizio Gasparri rincara la dose: «Non so se tutto questo porterà alla candidatura di Angelino Alfano o a quella di qualcun altro. Il fatto che il segretario del principale partito di maggioranza possa diventare candidato premier è nel novero delle cose. Si è avviato un percorso di ricambio che orienta il Pdl verso il futuro, smentendo i profeti di sventura che sostenevano che Berlusconi non avrebbe accettato un percorso del genere. Berlusconi ha un incontestabile consenso sulla sua leadership. Poi non so se questo percorso por-


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La crisi della maggioranza ci rende un boccone appettibile per gli speculatori di tutto il mondo

I mercati e i titoli remano contro. Fate la manovra, poi al voto È una squallida realtà, ma non possiamo fare altrimenti: le opposizioni devono concordare la exit-strategy del governo in cambio delle urne di Enrico Cisnetto ttenzione, stiamo correndo un gravissimo pericolo. Di cui gli italiani devono rendersi conto al più presto. Le difficoltà oggettive del Paese e la squallida rappresentazione di sé che offre la politica italiana – ogni giorno in modo sempre più evidente e clamoroso – rischiano di esporci ad un attacco senza precedenti da parte della speculazione finanziaria internazionale, in un effetto domino con gli altri Paesi europei in difficoltà. Sono giorni che il differenziale tra il tasso d’interesse pagato sui nostri Btp decennali e gli omologhi bund tedeschi – vero termometro dell’affidabilità che i mercati assegnano ai sistemi paese – sta macinando record storici.

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Ieri lo spread è arrivato a superare quota 245 punti base – il che vuol dire quasi 40 miliardi di oneri in più da pagare, visto che ogni punto ci costa 160 milioni – mentre soltanto una settimana fa era il 35% di meno (182 punti) e un anno fa oltre la metà (121 punti il 27 luglio 2010), anche se in giugno, quando Moody’s aveva messo nel mirino il rating del debito pubblico e delle 16 maggiori banche italiane, il differenziale era già arrivato a 220 punti. Anche la pressione sui titoli bancari in Borsa – ancora ieri e giovedì gli ennesimi crolli – è andata ben oltre quelli che possono essere i reali problemi del sistema creditizio, che per esempio è molto meno esposto dei concorrenti tedeschi o francesi sui titoli greci e portoghesi considerati “spazzatura” dalle società di rating, e che neppure su Bot e Btp nostrani ha da temere, visto che sono solo un settimo dei totale dei titoli pubblici che le banche hanno in portafoglio (poco più di 200 miliardi su 1500 e rotti) e sono un quarto (200 contro 790 miliardi) delle obbligazioni dello Stato italiano detenute da investitori esteri. Eppure, da tempo Intesa, Unicredit e le altre banche quotate sono oggetto di vendite che hanno reso la loro capitalizzazione borsistica ridicola rispetto al patrimonio netto. La dice lunga il fatto che gli ordini di vendita vengano in buona misura dagli Stati Uniti, sia dai super-speculativi hedge fund ma anche dai più istituzionali fondi pensione. Significa che i mercati hanno deciso un cambio di strategia rispetto ai mesi scorsi: finora l’attacco speculativo era sui tre paesi in difficoltà più piccoli – Grecia, Portogallo, Irlanda – mentre Italia, Spagna e negli ultimi tempi il Belgio, venivano coinvolti per un puro effetto di trascinamento; adesso, invece, non avendo più margini su attività finanziarie limitate e speculate da mesi e mesi, giocano al ribasso, vendendo allo scoperto, sui Paesi di maggiori dimensioni. E sull’Italia in particolare, visto che si è fortemente ridotto lo scarto tra il nostro

spread e quello della Spagna, che ha sempre preceduto, e di molto, l’Italia nella classifica di rischio in un eventuale “contagio”.

Naturalmente ci sono molte possibili spiegazioni “esterne”, a cominciare dal ruolo delle agenzie di rating, per interpretare quanto sta avvenendo sui mercati, ma ormai non c’è dubbio che lo spettacolo indecoroso offerto dalla politica nostrana pesi più di ogni altra cosa

L’alternativa a questo scambio ha il sapore amaro di un piatto greco andato a male da qualche mese

nell’indurre gli operatori finanziari a valutare che il paese sia, e ulteriormente possa essere, vittima di una fase di grave e perdurante instabilità. Dunque, è inutile cercare altrove i colpevoli o evocare fantasiosi complotti: il fianco scoperto dell’Italia è il suo fallimentare sistema politico-istituzionale. Punto. Ed è da qui che occorre ripartire. Certo, il fatto che prima Trichet e poi Draghi – quasi in una simbolica staffetta – abbiano speso parole rassicuranti circa la manovra varata dal governo e il fatto che siano credibilmente centrali gli obiettivi di azzeramento del deficit e di una qualche riduzione del debito, è assai importante e di conforto. Ma non basta. Le tensioni interne alla maggioranza, anche sulla manovra stessa e più in generale nel progressivo distacco tra Pdl e Lega su molti temi – anche di rilevanza internazionale come le missioni militari – danno l’idea che il governo possa liquefarsi da un momento all’altro. Il fatto che non sia ancora caduto, nonostante le molte occasioni, sta anche nella debolezza e fragilità dell’op-

posizione. In particolare, a fronte della crescita dei soggetti alla sua sinistra e dei movimenti a forte connotazione anti-politica, il Pd mostra imbarazzanti incertezze e divisioni – dal no all’abolizione delle province alla doppia e opposta opzione sui referendum elettorali – che rendono non così sicura come la vende Bersani la vittoria in caso di elezioni, o comunque la condizionano alla riedizione del già miseramente fallito “schema Ulivo”, con i riformisti subordinati ai massimalisti. Ma semmai tutto questo è un aggravante agli occhi dei mercati, che sanno di poter speculare sulla doppia debolezza, del governo e dell’opposizione. E che sullo sfondo intravedono la sagoma di una seconda Tangentopoli, con ingredienti diversi ma con rischi non dissimili rispetto a quella del 19921994, e sanno che come allora essa può diventare il fattore scatenante di una crisi politica di sistema.

Ma proprio per questo, c’è una domanda che angoscia chi osserva con apprensione l’offensiva speculativa cui stiamo assistendo e ha a cuore le sorti di questo benedetto Paese: conviene tenerci questo governo, perché una crisi sarebbe gettare benzina sul fuoco e quindi non ce la possiamo permettere, oppure siccome l’immagine deteriorata dell’esecutivo è una componente non secondaria dei nostri problemi prima si chiude questa esperienza e meglio è? La domanda è davvero da un milione di dollari, ma è bene non eluderla. Alla fine, la cosa più saggia appare quella di approvare subito la manovra – confermandone sia il perimetro sia tutti o quasi i provvedimenti che la compongono, tanto il grosso riguarda gli anni futuri e sappiamo già che saranno comunque oggetto di modifiche o addirittura di stravolgimenti – chiamando però l’opposizione, a cominciare da Di Pietro, non si dice a condividerla ma almeno a non attaccarla in modo violento, per dare la sensazione che le divisioni politiche non impediscono alla classe dirigente più avveduta di mandare segnali univoci ai mercati. E però negoziare fin da subito che una volta fatta passare la manovra e riaffermato il principio che c’è unità intorno all’intento di non deflettere dalla linea concordata in sede Ue circa il raggiungimento del pareggio di bilancio entro il 2014 e la riduzione del debito, il governo si presenta dimissionario in parlamento, e in quella sede si apre una fase nuova che porti alle elezioni anticipate nella primavera del 2012 con una legge elettorale non solo degna di questo nome ma anche capace di favorire un dopo elezioni all’insegna della governabilità duratura e solida. Difficile? Difficilissimo. Ma l’alternativa ha il sapore, terribilmente amaro, di un piatto greco andato a male. (www.enricocisnetto.it)

terà alla candidatura di Berlusconi, di Alfano o Mario Rossi, così come non conosciamo neanche se la formazione sarà più ampia o se sarà la stessa. Ma ad Alfano è già stato dato un onere gravoso, quello di rinnovare il partito e di guidarlo fino alla fine della legislatura. E questo, in un momento di grave crisi economica. Ora sosteniamo tutti Angelino in questa fase poi si vedrà. Non possiamo però caricare lui di ogni potere salvifico. È un uomo coraggioso e ha dimostrato finora di governare bene il partito. Ma io ritengo che per il Pdl sia una ricchezza avere una pluralità di persone da presentare come possibili candidati premier». Secondo Gasparri i possibili candidati del centrodestra per il 2013 potrebbero essere Pier Ferdinando Casini, Roberto Maroni, Roberto Formigoni, Giulio Tremonti, Angelino Alfano e, ovviamente, Silvio Berlusconi. Jole Santelli, vicepresidente dei deputati del Pdl, si colloca invece a metà del guado: «Ogni suggerimento va valutato, compreso quello delle primarie del centrodestra lanciato da Formigoni. Difficilmente Alfano può essere interpretato come una designazione dall’alto, e bastava stare venerdì all’Auditorium della Conciliazione per capire quanto il Popolo della libertà vi si riconoscesse. Per il momento, impegnamoci tutti ad aiutare il neo segretario all’apertura massima del partito sul territorio e alla difficile missione che lo attende. Poi non ci saranno sfide che non potranno giustamente essere affrontate e vinte».

Di stretta osservanza, la posizione del deputato milanese Massimo Corsaro, fedelissimo del ministro La Russa, secondo il quale «la designazione di Angelino Alfano a segretario del Pdl, accettato da tutti, è stato un chiaro passaggio per un partito che investe sul futuro e ha fatto una scelta generazionale importante. Nel momento in cui siamo tutti intorno al nuovo segretario per rilanciare l’azione politica del partito credo che sia naturale immaginarlo come il prossimo candidato premier. Anche se mancano due anni e in politica è un tempo abbastanza lungo. Alfano è oggi l’incarnazione di un percorso che vede il partito impegnato a passare da una fase di leadership carismatica insostituibile nella fase di creazione del partito a una struttura nella quale ci sono organigrammi, partecipazioni e discussioni». Una visione sulla quale concorda anche Paolo Russo, molto vicino a Claudio Scajola, che precisa: «È un po’ datato parlare di componenti. È naturale che il segretario di un partito sia anche il naturale candidato premier. Lo stesso vale per il Pd con Bersani».


l’Italia senza guida

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Da Berlusconi, che “incolpa” Napolitano per l’intervento contro il raìs, a Frattini che solidarizza con i ribelli, agli aut aut leghisti. La brutta figura dell’Italia è palese. Anche per la Nato

Il governo qualunquista di Enrico Singer ra cominciata male. Con Berlusconi che aveva dichiarato di «non voler disturbare Gheddafi» – la rivolta contro il raìs era appena cominciata – e poi con i nostri jet spediti per giorni e giorni a volare sulla Libia – chissà quanto sarà costata quella fase del nostro intervento – senza sganciare nemmeno una bomba. Adesso si sta trasformando nell’ennesimo pasticcio del governo. Una brutta figura internazionale che ci isola dagli alleati della Nato e ci fa apparire di nuovo titubanti di fronte a quel governo provvisorio che, pure, dopo tante incertezze, abbiamo riconosciuto come l’unico rappresentante legittimo del popolo libico. Tutto mentre le operazioni sul terreno e le trattative segrete si accelerano tanto che il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Anders-Fogh Rasmussen, dice che il colonnello ha le ore contate e Nicolas Sarkozy spera di poter dare buone notizie già per il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia. Di male in peggio, insomma. In un’imbarazzante girandola di concessioni

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alla Lega che vuole tagliare le missioni all’estero mascherando la scelta come un risparmio di bilancio, condita con le improbabili precisazioni del ministro della Difesa, La Russa, che assicura che l’efficienza delle azioni – ma quale, visto che non sono mai stati forniti i dettagli delle incursioni – non diminuirà e con le nuove dichiarazioni di Berlusconi che candidamente conferma di essere stato sempre contrario alla partecipazione dell’Italia all’intervento militare che gli sarebbe stato imposto dal presidente della Repubblica – che è anche capo supremo delle Forze armate – e dal voto del Parlamento.

Per fortuna un po’ d’ordine lo ha riportato proprio Giorgio Napolitano che ha definito il decreto legge del Consiglio dei ministri sulla riduzione delle nostre missioni «soltanto ipotesi» che, per diventare decisioni effettive devono essere concordate con l’Onu e con la Nato per rispettare gli impegni presi e il principio toghether in toghether out: si comincia insieme, si finisce insieme. Il caso è esploso al momento di varare il

rifinanziamento dell’impegno italiano sui fronti caldi delle crisi internazionali. Attualmente ci sono 9.950 militari all’estero che – con la logistica e gli armamenti – costano 811 milioni di euro a semestre. Lo slogan della Lega – «riportiamo i nostri ragazzi a casa» – ripetuto anche dopo la morte del caporal maggiore Gaetano Tuccillo, si è tradotto in una battaglia in Consiglio dei ministri favorita dalla generale tendenza ai tagli di bilancio. Un accordo di massima, a quanto si sa, era stato negoziato personalmente tra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi: così il costo complessivo per il prossimo semestre è stato ridotto di circa 120 milioni a quota 694 milioni. Ma la vera vittoria della Lega e, in particolare, di Roberto Calderoli che è stato il più combattivo, è di avere strappato la promessa che 2078 uomini rientreranno entro la fine dell’anno. Sul totale di 9.950 si tratta di un numero molto importante: quasi un quarto dei nostri soldati impegnati nelle missioni internazionali. In particolare per la Libia il taglio economico è stato superiore alla metà dello stanzia-

mento: dai 142 milioni del costo sostenuto finora, a meno di 60 milioni. Il risparmio sarà raggiunto, tra l’altro, con il ritiro della portaerei Garibaldi, anche se il ministro La Russa ha cercato di minimizzare questa mossa sostenendo che l’impegno «re-

Sono 9.950 i nostri militari all’estero, e costano 811 milioni di euro a semestre sta identico» perché i tre aerei che partivano dalla Garibaldi saranno sostituiti dagli aerei che decolleranno dalle basi terrestri. Se, in termini di uomini, i

tagli della missione in Libia significheranno cento militari in meno, gli altri 1.978 dovrebbero essere ritirati soprattutto dal Libano e dall’Afghanistan, i Paesi che assorbono il maggior numero dei nostri soldati all’estero. Ed è proprio questo notevole ridimensionamento che più ha sorpreso il presidente Napolitano e lo ha spinto a fare immediatamente il suo distinguo.

Il Capo dello Stato è intervenuto sugli annunciati tagli alle missioni italiane all’estero in margine all’incontro con il presidente tedesco, Christian Wulff. Napolitano ha detto che, in seno al Consiglio di Difesa da lui presieduto, si è discusso della «possibile riduzione numerica» della missione Unifil in Libano di cui l’Italia è stata promotrice e alla quale ha dato il contributo più alto rispetto ad altri Paesi. Ma, ha detto ancora il presidente della Repubblica, «è stato sottolineato con grande nettezza, innanzitutto dal ministro della Difesa, che si tratta di ipotesi. Perché diventino decisioni bisogna procedere di concerto con l’Onu e con gli altri organismi interna-


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Ma sulla Libia non decidono i sondaggi Il premier segua le indicazioni del Colle: non si possono trattare le missioni in base agli umori di Vincenzo Faccioli Pintozzi bituati come siamo a vivere consumati da una lenta marea di banalità, delegittimazioni di vario titolo e scandali infiniti, accogliamo con distacco persino le cose più incredibili. Come ad esempio un presidente del Consiglio che governa (quando governa e non è impegnato in altre attività) sulla base dei sondaggi e che decide su qualunque argomento “sentendo” l’umore popolare. Ora, forti di un’aspirazione liberale, non possiamo arrivare a dire che scegliere in base alla maggioranza dell’elettorato sia un’aberrazione. Ma ci sono argomenti e questioni che un governo non può e non deve delegare all’umore, proprio o dei propri cittadini.

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Come insegna il ministro Tremonti, che ha lanciato una manovra in grado di scontentare tutti (ma proprio tutti) per compiacere Bruxelles e “tenere i conti in ordine”– fingendo di ignorare che non esiste un singolo provvedimento di stimolo all’economia – quando si parla di materie sensibili non si guarda in faccia a nessuno. E se Palazzo Chigi accoglie senza un battito di ciglia la scelta di falcidiare le famiglie, le piccole e medie imprese e i meno abbienti (che hanno visto la propria pensione congelarsi), non si capisce perché non possa usare lo stesso cinismo per un altro argomento. Nello specifico la politica estera di questo nostro, povero Paese. Dopo una mattinata di sortite contraddittorie e di disorientanti annunci di possibili retromarce, due giorni fa è dovuto come semzionali». Una vera doccia fredda sulla Lega che già vantava un nuovo successo all’interno della maggioranza di governo. E che ha reagito alle parole di Napolitano con grande nervosismo. «Così è Napolitano che ci dichiara guerra», dicevano ieri a via Bellerio. E ancora: «Non può essere il presidente della Repubblica a fare la politica del governo». Il pensiero del Carroccio lo ha espresso ufficialmente anche il ministro Calderoli dichiarando che «il Consiglio Supremo di Difesa è un organo di indirizzo, quello deliberativo è il governo e poi il Parlamento». Una tesi ripetuta anche a Berlusconi che è stato invitato dalla Lega a «non farsi commissariare dal Colle» in un clima sempre più pesante in cui è stato anche rimproverato a Napolitano di avere ricevuto al Quiri-

pre intervenire il presidente della Repubblica per rilegittimare l’impegno italiano sui fronti caldi del mondo e a garantirne un orizzonte temporale coerente con quello fissato in accordo con gli alleati. Aveva cominciato Silvio Berlusconi, con una dichiarazione concepita probabilmente per dare soddisfazione alla Lega: «Io ero e sono contrario all’intervento in Libia, ma ho dovuto accettarlo per un intervento preciso del capo

come sempre, smentite) il capitolo esteri potrebbe passare inosservato. Ma così non è e non deve essere.

La questione della Libia, ovviamente, nasce dalla premessa: Silvio Berlusconi sa abbastanza bene che una quota considerevole del mondo politico e della popolazione italiana non guarda con favore ai bombardamenti su Tripoli. Ma questi non vengono da un capriccio: vengono da una risoluzione dell’Onu, recepita dalla Nato e posta in essere da una coalizione di Paesi di cui l’Italia fa parte. Il Patto atlantico non è un circoletto di campagna, dove se il torneo di tennis mette in palio un bel premio si può giocare e se non ci piace possiamo rimanercene con i piedi a mollo in piscina: è una delle strutture (per quanto oramai obsoleto e probabilmente molto migliorabile) che dà senso alla parola Occidente. Così come l’Unione europea, esso rappresenta l’unità dei popoli in nome di valori che dovrebbero essere condivisi fra tutti. Ovviamente la campagna di Libia ha incontrato delle (legittime) resistenze, e Berlino ha chiarito con la propria posizione che si può essere in disaccordo e quindi non partecipare. Per ogni motivo che si ritenga valido. Ma buttarsi nella mischia per ottenere una telefonata di ringraziamento da Obama e poi sparare

Il concetto che la maggioranza degli elettori ha la facoltà di decidere tutto è giusto in linea teorica, ma disastroso se si applica a economia e politica estera dello Stato e per il voto di due commissioni alla Camera e al Senato». Insomma: il premier si sarebbe volentieri «affiancato alla scelta della signora Merkel», ma si è ritrovato con «le mani legate», soprattutto dal Quirinale.

Volendo mettere da parte per un momento l’ennesimo scontro istituzionale, una querelle che dura da un biennio che vede il Colle “brutto e cattivo” contro un premier “buono ma impotente”, viene da domandarsi perché ci si debba sempre delegittimare in questo modo agli occhi del mondo. In una giornata in cui i nostri titoli di Stato perdono ancora più terreno, in cui i mercati fissano con la bava alla bocca il nostro debito pubblico e nel governo si moltiplicano le voci di dissenso interno (poi,

Clima pesante: il premier è stato invitato dal Carroccio a «non farsi commissariare dal Quirinale» nale i rappresentanti dei ribelli libici che, per altro, hanno incontrato anche Silvio Berlusconi e il ministro degli Esteri Frattini, che sempre ieri ha confer-

mato l’appoggio al governo provvisorio. Ma questo gli esponenti leghisti, adesso, preferiscono non ricordarlo. Anche perché nel pre-vertice tra Bossi e Berlusconi la Lega aveva ottenuto altre due misure collegate che le stavano molto a cuore. Un finanziamento di 440 milioni di euro alla Protezione civile che sta gestendo l’emergenza profughi e il prolungamento del pattugliamento delle navi della nostra Marina militare davanti alle coste tunisine fino al 31 dicembre. In questo clima di polemiche Anders Fogh Rasmussen è arrivato a Napoli per fare il punto sulle operazioni militari in Libia con il generale Charles Bouchard, responsabile della missione Unified Protector, e con l’ammiraglio Samuel Locklear, capo del comando interforze di Bagnoli. Una visita-lampo.

sull’intervento dei carabinieri in Afghanistan, oppure partecipare ai raid su Tripoli salvo ogni giorno commentarli negativamente è un trucchetto non soltanto brutto a vedersi, ma anche e soprattutto un comportamento scorretto.

Il decisionismo del premier, il suo “ghe pensi mi”, non dovrebbe applicarsi sulla scelta dei candidati premier o sull’imposizione dei nomi da inserire nelle liste elettorali: quelli sono campi in cui, davvero, l’elettorato deve avere sempre l’ultima parola. Potrebbe invece essere utilizzato in un campo più proficuo, per restituire all’Italia la dignità internazionale che le compete senza dover essere sempre bersaglio di critiche e commenti velenosi da parte della comunità mondiale. Se invece i suoi “tira e molla” nascono dall’amicizia con Gheddafi, quel Colonnello per cui Roma venne agghindata, non rimane molto altro da dire se non auspicare al più presto le elezioni.

Il suo portavoce ha detto che l’appuntamento a Napoli era programmato da tempo e «non è in relazione con i tagli al finanziamento della missione decisi dal governo italiano».

Alla Nato preferiscono occuparsi della situazione sul terreno che lascia prevedere sviluppi a breve termine. Secondo Rasmussen le forze fedeli a Gheddafi non sono più in grado di condurre operazioni offensive di rilievo e questo è il momento di spingere sull’acceleratore nella speranza di costringere il colonnello a negoziare una sua uscita di scena. Anzi, ogni divisione della coalizione non farebbe altro che favorire la resistenza di Gheddafi e allungare la crisi. Il costo delle operazioni militari è stato molto pesante per tutti. La Gran Bretagna ha

già speso 260 milioni di euro. Gli Usa, che hanno sostenuto in particolare la prima parte delle azioni, hanno sborsato 1,1 miliardi di dollari (circa 760 milioni di euro). Adesso si tratta di «battere il ferro finché è caldo», per usare le parole di Rasmussen. Pensando anche al dopoGheddafi che, secondo il segretario generale della Nato, dovrebbe passare all’Onu. «Vorremmo che le Nazioni Unite raccogliessero il testimone per aiutare il popolo libico nella transizione verso la democrazia», ha detto Rasmussen. Quando, come e se questo sarà possibile è presto per dirlo oggi. Ma di sicuro non si facilita una soluzione annunciando la riduzione dell’impegno italiano. E dichiarando che, in fondo, Gheddafi poteva benissimo rimanere al suo posto.


società

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Parla Ruben Razzante, autore del “Manuale sul diritto dell’informazione” ROMA. Ruben Razzante, professore di diritto dell’informazione e del prodotto culturale e di diritto del copyright e legislazione dei beni culturali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha appena pubblicato la quinta edizione del “Manuale del diritto dell’informazione e della comunicazione”, fondamentale per comprendere meglio le dinamiche di un mondo in costante evoluzione. Esempio lampante i cloud computing, le nuove tecnologie e i “social network”, che stanno rivoluzionando il modo di fare informazione ma anche mettendo in crisi la tutela della privacy. Ne abbiamo discusso con l’autore. «È chiaro – dice a liberal Razzante che la rete rende più difficile la tutela della privacy, ci sono dei meccanismi di profilazione (l’operazione che si compie quando ci si registra ad un sito, ndr) che incidono sulla tutela della privacy degli utenti. La tecnica pubblicitaria più utilizzata al momento è il “behavioral targeting” ovvero la pubblicità comportamentale, basata proprio sulla profilazione: noi riceviamo “casualmente” dei suggerimenti pubblicitari che sono calibrati su quelli che sono i nostri comportamenti di navigazione». Ma in questo modo la nostra privacy non è costantemente sotto attacco? È vero e gli interessi pubblicitari, anche i motori di ricerca, fanno sì che sia sempre più vulnerabile. Il Garante ha usato l’immagine di Pollicino e

«In Rete siamo tutti prede. E predatori» «L’autoregolamentazione è la strada migliore per la tutela della privacy» di Martha Nunziata

«Io non sono favorevole al disegno di legge Alfano, non credo che sia la soluzione: è una base di partenza, ma fare adesso un decreto appare quanto meno sospetto» questo problema deve essere affrontato a livello normativo dall’Autorità italiana e dai Garanti in tutta l’Europa, ma la prima tutela deve arrivare dall’autoregolamentazione di noi stessi. Ciascuno di noi deve essere geloso della propria privacy, più responsabile nella gestione dei nostri dati, e quindi astenersi dal pubblicare particolari della propria vita privata che poi attraverso meccanismi di indicizzazione dei motori di ricerca diventano difficilmente controllabili. Social network e motori di ricerca: come dovrebbero essere regolamentati? E il trattamento dei dati sensibili è abbastanza protetto nel nostro Paese? I gestori di Facebook hanno in realtà già fatto dei passi avanti, prevedendo dei filtri ulteriori nel trattamento dei dati, per cui ciascuno di noi che volesse accedere attraverso il proprio profilo ad altre funzioni po-

Il direttore giapponese del “Cove”, sotto inchiesta (e poi prosciolto) per violazione della privacy. A sinistra il professore Ruben Razzanti trebbe farlo soltanto dopo aver superato vari stadi di consenso. Molte persone, però, dovrebbero denunciare di più le eventuali violazioni della privacy; prima di essere “taggati” in una foto, bisognerebbe chiedere il consenso. Spesso, però, non viene fatto e quindi ci si può rivolgere al Garante della privacy, mandando una semplice e-mail all’Ufficio ricorsi ed avviare una procedura che in alcuni casi può sfociare in fattispecie penalmente rilevanti. A volte ci troviamo di fronte a una pigrizia degli utenti nel rivendicare i propri diritti. La recente delibera dell’Agcom sul diritto d’autore ha riaperto il dibattito sul tema. Ha ancora senso parlarne, nell’era digitale? Non solo ha senso, ma è opportuno. Io non condivido le proteste di questi giorni, credo che le cose vanno chiamate con il loro nome: la pirateria è un reato, scaricare illecitamente del ma-

teriale è un reato. Molti motori di ricerca lucrano in termini pubblicitari dalla pubblicazione anche di contenuti creativi i cui diritti spetterebbero ad altri. Una tutela del diritto d’autore va garantita anche in Rete, stabilendo delle forme nuove di remunerazione. Ad esempio l’e-book: certamente potrà rendere meno del libro cartaceo, però è pur sempre una remunerazione dell’opera creativa e quindi un riconoscimento della proprietà intellettuale degli autori. Non tutto può girare gratis, bisogna trovare delle forme di remunerazione e quindi non solo deve esistere la tutela del diritto d’autore, ma occorre proteggerlo, soprattutto in rete. È ovvio, però, che in Rete è più facile avere informazioni gratis: per questo credo che sia necessario trovare un accordo con i provider, con i motori di ricerca, con le nuove figure che sono presenti nella Rete e costruire una filiera che permetta

a tutti di guadagnare un po’, a partire dall’autore fino al distributore dei contenuti. Come si può conciliare il diritto di cronaca con la tutela della privacy e con il rispetto della persona? Prima di tutto i giornalisti dovrebbero rispettare il codice deontologico del 1998 per consentire il rispetto della legge sulla privacy. I media non dovrebbero sostituirsi ai tribunali, pronunciare sentenze prima che le persone vengano condannate, il cosiddetto linciaggio mediatico è un altro abuso: io credo che se i giornalisti non vogliano perdere definitivamente la credibilità che già in parte hanno perso devono astenersi dal pubblicare particolari che nulla aggiungono alla notizia. Ci vorrebbe un “gentlemen agreement” tra tutti gli editori, per astenersi dal dare particolare risalto alle notizie che non sono notizie, ma in realtà gossip e altre degenerazioni. Pensiamo alla pubblicazione delle intercettazioni: qual’è il confine tra diritto di cronaca e diffamazione? Le intercettazioni sono uno strumento fondamentale di indagine, ma devono essere usate con cautela, non devono essere fatte “a strascico” perché finiscono per coinvolgere soggetti che non fanno parte delle indagini e soprattutto non devono essere pubblicate. Il contenuto delle intercettazioni che non hanno alcuna rilevanza penale non deve essere pubblicato. Le confidenze e gli sfoghi che a tutti noi nella vita privata possono capitare, rientrano nella sfera della riservatezza e della privacy. E tutti noi abbiamo diritto che non vengano pubblicate. I giornalisti che pubblicano le intercettazioni che non hanno rilievo penale, o che sono ancora al vaglio degli inquirenti, commettono un abuso, violano il proprio codice deontologico e come tutti i professionisti che violano le proprie norme professionali devono essere puniti in modo esemplare. L’avvertimento, la censura, la sospensione e la radiazione per i casi più gravi sono sanzioni che comunque compromettono il decoro del giornalista. È necessaria una nuova legge per regolamentare questa materia? Io non sono favorevole al disegno di legge Alfano, non credo che sia la strada giusta, ma rappresenta una buona base di partenza. Ma farla oggi, sull’onda dell’emotività, sembrerebbe sospetta, e spaccherebbe ancora di più l’opinione pubblica: avremmo bisogno invece di una legge condivisa da tutti.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

DA MONTAIGNE A SCUOLA DI FELICITÀ di Pier Mario Fasanotti

semplicemente scandaloso che alcuni grandi editori italiani non abbia«Come fa a sapere tutte queste cose di me?» (Bernard Levin); «Riconosco in no in catalogo certe opere. Non mi riferisco a testi importantissilui la mia stessa persona» (André Gide); «Qui c’è un tu che rispecchia il Le sue mi per la Catalogna o per la Cecenia, tanto per fare un esemmio Io, qui è stata superata e conciliata la distanza che separa il temricette per pio, ma a scritti universalmente importanti. Provate a po dal passato e dal futuro» (Stefan Zweig).Tutte frasi esclamacercare in qualsiasi libreria le Memorie d’oltretomba di tive a testimonianza dell’universalità e della atemporalità barcamenarsi nella crisi degli scritti di Montaigne. Una sua accesa estimatrice Chateaubriand. Dovete spendere circa 90,00 euro con coltivando l’arte di vivere sono era Virginia Woolf, che paragonava i lettori del un’edizione lussuosa della Einaudi. Un tascabile di smagliante attualità. Rileggere i “Saggi” francese ai visitatori di una galleria: «C’è non esiste, a meno di avere la stessa mia forsempre una folla davanti a quel quadro, a tuna: ordinarlo su Internet (costo 9,00 euro, per credere (che Bompiani ristamperà scrutare dentro le sue profondità, a vedervi riflessi vecchia edizione Longanesi). Lo stesso dicasi per a settembre) e la brillante, i propri volti; e più questa folla guarda, più vede». Non è Michel de Montaigne, autore dei Saggi, che pur è sul coun caso che ci sia una parentela metodologica tra la Woolf e modino di molti lettori colti. Per fortuna a settembre la Bomdocumentata biografia di Montaigne, tradotta in ciò che la scrittrice inglese definiva «flusso piani ristampa i pensieri di questo grande francese. A proposito Sarah Bakewell di coscienza», ossia costante e minuta attenzione al mondo, l’afferrare del quale citiamo alcuni dei tanti autorevoli giudizi: «Non è in Montaiil tempo nel suo percorso dentro di noi. gne, ma in me stesso, che trovo tutto quello che vedo in lui» (Blaise Pascal;

È

Parola chiave Globo di Maurizio Ciampa Il symphonic-pop di Faris & Rachel di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Dissonante, musicale… Amelia Rosselli di Filippo La Porta

Altare della Patria: la parola alla difesa di Claudia Conforti Il ventaglio perduto di Wayne Wang di Pietro Salvatori

Corpi femminili come paesaggi di Marco Vallora


da Montaigne a scuola di

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Scriveva infatti Montaigne: «Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da un’età all’altra… ma di giorno in giorno, di minuto in minuto». Montaigne, dopo una buona carriera di magistrato a Bordeaux e dopo la morte del suo intimo amico La Boétie, viaggiò molto, si dedicò ai doveri impostigli dal ruolo di seigneur delle sue terre del Périgord (sud-ovest della Francia), ma soprattutto, nello studio della torre del castello di famiglia, lesse avidamente e scrisse ogni giorno. Fu Seneca il suo viatico: «Se non afferrate la vita, essa vi scivolerà tra le mani. Se la afferrate, essa scivolerà via comunque. Per cui dovete seguirla e attingervi come da un torrente rapido, che non scorrerà sempre». Oggi c’è un modo di seguire Montaigne mentre segue tutto ciò che lo circondava: leggere la documentata e brillante biografia appena edita dall’editore Fazi (nella collana curata da Vito Mancuso ed Elido Fazi) intitolata Montaigne, l’arte di vivere, di Sarah Bakewell (443 pagine, 19,00 euro). L’autrice, vincitrice del National Book Critics Circle Award 2010 per la migliore biografia, intreccia vicende personali e politiche dell’epoca al pensiero di Montaigne, affascinato dai testi classici a tal punto da far incidere sulle travi del suo studio decine e decine di frasi a suo avviso irrinunciabili alla personalissima recherche umana e intellettuale. Di statura modesta ma robusto, il barone del Perigord (il titolo nobiliare venne tardivamente concesso ai suoi avi commercianti) si vestiva o di nero o di bianco, spesso s’appoggiava sul bastone ma pare solo per vezzo, cavalcava per ore, s’incuriosiva di tutto a tal punto che andò al manicomio di Ferrara per incontrare Torquato Tasso, lì rinchiuso. Tutto lo attirava. Perlomeno da quando si sbarazzò dell’ossessione giovanile per la morte, un elemento che lo incupiva e lo distanziava dagli altri. Fu un incidente a cavallo a portarlo a immaginare la morte come un sollievo e non come a un eterno e nero incubo. La lettura di molti classici latini e greci confermarono e consolidarono la conclusione cui era arrivato attraverso vicende del tutto personali. Montaigne «sopportò» la morte di quasi tutti i suoi figli: «se non senza rimpianto, senza dolore». L’unica sopravvissuta si chiamava Leonor, che si sposò ed ebbe figli.

Montaigne visse in un’epoca di forte turbolenza politica, anzi di incessante conflitto armato. Già a quindici anni (era il 1548) assistette a Bordeaux, allora città un po’ lugubre, a violenti tumulti durante i quali alcuni esattori furono uccisi e i loro corpi trascinati per le strade. Intuì che quando viene fomentata, una folla si trasforma in un mostro. Pur disarmato, ebbe il coraggio di gettarsi in «quel mare tempestoso d’uomini forsennati». Annota la sua biografa: «Quelle violenze insegnarono a Montaigne molte cose sulla complessa psicologia del conflitto e sulla difficoltà di sapersi barcamenare nelle crisi». Lo scrittore ed ex magistrato conobbe probabilmente re Enrico II. Ne è testimonianza una sua frase in cui si lamentava del fatto che il sovrano non riusciva «mai a chiamare col nome giusto un gentiluomo di questa contrada di Guascogna». Parlava senza dubbio di sé visto che si era presentato col nome regionale, ossia Eyquem. Enrico non era certamente all’altezza del geniale padre Francesco I, da cui aveva ereditato il trono nel 1547: «era dipendente - come scrive Sarah Bakewell - da una schiera di consiglieri, tra cui un’amante attempata, Diane de Poitiers, e una moglie molto potente, Caterina de’ Medici. La debolezza di Enrico II è uno dei motivi per cui, di lì a qualche anno, la Francia sarebbe scivolata nel caos poiché varie fazioni rivali sfruttarono la situazione per dare il via a una lotta per il potere che avrebbe lacerato il Paese per decenni». Montaigne apprese alla perfezione il latino da un precettore tedesco, poi frequentò la scuola pubblica, che ebbe modo poi di accusare di «metodi violenti». Dato che assunse la carica di magistrato, è facile desumere che avesse studiato Giurisprudenza. Lui non ne fa cenno esplicito, tuttavia loanno IV - numero 26 - pagina II

è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda.

C’

P ENSIERI IN PILLOLE

È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo cosa c’è dentro. Così, abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo.

C’è un certo rispetto e un generale dovere di umanità che ci lega non solo alle bestie che hanno vita e sentimento, ma anche agli alberi e alle piante. Noi dobbiamo giustizia agli uomini, e grazia e benignità alle altre creature che possono esserne suscettibili. C’è qualche relazione fra esse e noi, e qualche obbligo reciproco. Noi siamo fatti tutti di pezzetti e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo.

da a dismisura Parigi. Probabilmente fu qui che s’iscrisse alla facoltà. Ritiratosi dal mondo politico, si tuffa nello studio dei classici e nell’appuntare quotidiano pensieri e riflessioni, sempre avendo come baricentro un’esasperata ma serena attenzione verso il tempo presente, i suoi contemporanei non importa se contadini o analfabeti, e alle continue mutazioni del proprio pensiero. Non si sforzava mai né di leggere né di scrivere: «Sfoglio ora un libro, ora un altro, senz’ordine né programma… quanto alle difficoltà, se ne incontro leggendo, non sto lì a logorarmici; le lascio andare, dopo aver fatto contro di loro uno o due assalti… non faccio niente senza gioia». Non era intellettualmente superbo: «L’intelligenza l’avevo lenta… non afferro che le cose più elementari». Parla anche di «immaginazione fiacca» e descrive la sua giovane mente come una festa di ghiri. Non drammatizzava la sua pigrizia. Aveva scoperto la forza terapeutica della scrittura. I Saggi, scritti dal 1572 e il 1592, ruotano attorno all’arte del vivere. Del vivere il meglio possibile. A chi ispirarsi, dunque? Lo scopo era senz’altro quel che i greci chiamavano eudaimonia, ossia felicità, gioia o «fiorire dell’umano». Come arrivarci? Forse mediante la ataraxia, ossia «stato di quiete e di imperturbabilità», o meglio ancora lo stare in equilibrio, il mantenersi equanimi. Rivolgendosi al mondo greco, Montaigne comprese la differenza tra varie scuole. La comunità epicurea originale imponeva ai propri seguaci di lasciare le loro famiglie e vivere come membri di una setta in un «giardino» privato. Gli scettici preferivano continuare a occuparsi delle vicende di tutti i giorni, pur distanti dalla certezza che ci sia una certezza se non quella provata. Gli stoici, infine, si ponevano a metà strada tra queste di-

felicità

Il nostro essere è cementato di qualità malsane… Chi togliesse nell’uomo il seme di tali qualità, distruggerebbe le condizioni fondamentali della nostra vita.

[a proposito dei vecchi che si lamentano di continuo] …In essi c’è una sciocca e caduca presunzione, un chiacchiericcio noioso, quegli umori spinosi e selvatici, e la superstizione, e una ridicola cura delle ricchezze. (Michel de Montaigne, dai Saggi) *** Lo scrittore austriaco Stefan Zweig, grande ammiratore di Montaigne, parafrasò il messaggio del pensatore francese, che pur odiava le «prediche», elencando otto punti nodali della sua visione sulla vita: - Affrancarsi dalla vanità e dall’orgoglio; - Emarciparsi dalla paura e dalla speranza, dalla fede e dalla superstizione; - Liberarsi dalle abitudini; - Liberarsi dalle ambizioni e da qualunque forma di avidità; - Svincolarsi dalla famiglia e dall’ambiente; - Essere liberi dal fanatismo; - Affrancarsi dal destino: siamo noi i suoi padroni; - Affrancarsi dalla morte: la vita dipende dalla volontà altrui, la morte dalla nostra.

scipline. Il francese capì che la chiave era nel coltivare l’arte della presenza mentale, che i greci chiamavano prosoché. Seneca insegnava: «Colui che impara a mettere a fuoco la propria vista e a vivere in maniera pienamente cosciente, non potrà mai annoiarsi della vita». Il «trucco» del distacco proveniva anche da Epitteto: «Non devi cercare che gli avvenimenti vadano come vuoi, ma volere gli avvenimenti come avvengono: e vivrai sereno». Montaigne, comunque, trovava congeniale l’approccio degli epicurei, più inclini a evitare la vista delle cose brutte e a concentrare l’attenzione su quelle belle. Se lo stoico tende i muscoli dello stomaco e invita il nemico a sferrare l’attacco, l’epicureo invece preferisce schivarlo. Sul cristianesimo spende poche parole. Credeva in Dio e basta. A proposito di Gesù, figura che non approfondisce, offre la lezione del Messia dicendo soltanto: «Non crocifiggete le persone».

La vita come un fiume che scorre continuamente, si diceva all’inizio. Montaigne non ebbe mai alcuna remora nel correggere i suoi scritti o ad accostarli ad altri che parevano di diversa impostazione filosofica. Quando si presentò (nel 1588) ai suoi lettori, non avvertì il bisogno di discolparsi per la natura digressiva e personale della sua opera. Dichiarò: «È il lettore negligente che perde il mio argomento, non io». Il saltare di palo in frasca era per lui una sorta di metodo, anzi di necessità interiore. Che perseguì fino alla morte. I Saggi, come scrisse Virginia Woolf, raggiunsero «non la loro fine, ma la loro sospensione nel pieno del loro incedere». Montaigne morì dopo una lunga malattia renale. Non nemmeno aveva sessant’anni. Riferendosi ai calcoli che gli procuravano tanto dolore, scrisse: «Traggo dal mal della pietra almeno questo profitto, che quello che non avevo ancora potuto ottenere su me stesso per conciliarmi del tutto e familiarizzarmi con la morte, esso lo farà». Guarderà alla morte imminente con occhi pieni di dolcezza. Ma in fondo, la morte era sempre stata presente nella sua mente, pur cambiando, lui, il modo di considerarla.


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9 luglio 2011 • pagina 13

GLOBO i chiama Martin Behaim il costruttore del primo globo o mappamondo. È un monaco di origine boema, navigatore, cartografo, astronomo. E in veste di astronomo, nel 1484, accompagna il portoghese Diego Cao nell’esplorazione delle coste africane fino alla foce del fiume Congo. A testimoniare il passaggio della spedizione resiste ancora un’iscrizione in pietra: «Qui sono giunti i navigli del chiarissimo Giovanni II re del Portogallo». Dopo aver soggiornato in Portogallo e nelle isole Azzorre, il nostro Martin Behaim rientra in patria, e lì costruisce il suo mappamondo (lo si può trovare, lo dico per i più curiosi, ben conservato nel Germaniches Nationalmuseum della città di Norimberga tranquillamente posizionato su un tre piedi ferro). Curiosamente lo chiama mela, der apfel. Il mondo dunque come una mela, rotondo e a portata di mano, esposto per intero allo sguardo di chi l’osserva, che, con un solo dito, lo può far girare su se stesso. E ci può giocare come fa Charlie Chaplin nel Dittatore.

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Dagli azzardi conoscitivi ha preso corpo il nostro destino. Con la “mela terrestre” di Martin Behaim il mondo si è fatto immagine e si è inaugurata un’epoca che ancora non è finita: quella della globalizzazione

Siamo esseri allo scoperto di Maurizio Ciampa

In quella piccola massa sferica, Behaim stipa tutto: quello che ha visto nei suoi viaggi e quello che gli è stato raccontato, magari in una notte di bonaccia da marinai di fervida immaginazione. Nella mela di Behaim si distendono le linee della vecchia e della nuova geografia, come in un grandioso compendio enciclopedico, c’è Tolomeo e c’è Marco Polo e, insieme, prendono vita territori fantastici e isole immaginarie. E tutto coesiste e s’intreccia. Deve fare un certo effetto questa terra in miniatura che si è fatta mondo mettendosi sotto gli occhi di tutti senza ombre, senza segreti. Un punto vale l’altro: non c’è centro in una sfera. Probabilmente questo è l’inizio della globalizzazione. Probabilmente. Ma lo vedremo. Guardiamo l’anno di costruzione: è il 1492, anno di vertigini, potremmo dire. Il mondo comincia a sporgersi sul baratro del nuovo. I confini e gli orizzonti si spostano, si allargano. Inevitabilmente le identità traballano, si fanno più precarie. È quell’insieme di segni che sommariamente chiamiamo Modernità. E tutto, o molto, passa attraverso una mela, il piccolo globo pensato da un monaco e realizzato dagli abili artigiani di Norimberga. L’esplorazione geografica, un po’ autentica avventura conoscitiva, un po’ conquista, espressione di potenza e voluttà d’arricchimento, si avventa sui mari, diventando il demone dell’epoca. In questa cornice la descrizione geografica è la regina dei saperi, e il viaggio d’esplorazione il suo laboratorio. Il 3 agosto del 1492, come è noto, Cristoforo Colombo salpa dal porto di Pa-

Il messaggio topologico dell’era moderna è che gli uomini sono costretti a condurre la propria esistenza sul margine esterno di un corpo rotondeggiante e accidentato perso nell’universo. Un corpo che non è né grembo materno né contenitore e non può offrire alcun tipo di riparo los de la Frontera, con tre navi e un equipaggio di centoventi uomini. Cercano l’Asia e troveranno l’America. Si dice che Colombo, prima di partire, abbia voluto conoscere Martin Behaim, essendo rimasto molto impressionato dal suo globo, che non riuscì a portare con sé come avrebbe voluto. Poco male: l’America non era ancora segnata… Lo storico e giornalista Garry Wills, in un saggio dedicato alla scoperta dell’America, dice che Colombo partì dall’Europa con «la mappa del Vecchio Mondo in testa». Il nostro geografo Franco Farinelli gli replica in modo assai convincente: «Con l’impresa di Colombo è l’intero mondo

che diventa nuovo: subordinato all’immagine geografica esso acquista nella sua interezza un significato completamente diverso dal precedente, un’inedita esistenza e consistenza, un nuovo carattere e una nuova ragione».

Nel globo il mondo si fa immagine: è questa la nuova ragione. Con la mela di Martin Behaim inizia un’epoca che non è ancora finita: l’epoca del globo, come la chiama Peter Sloterdijk, uno dei più importanti filosofi europei, autore, fra l’altro, di una grandiosa trilogia Sfere (solo il primo volume è uscito in traduzione italiana dall’editore Meltemi con un titolo davvero origina-

le: Bolle), un vero e ambizioso trattato di storia universale, un nuovo globo in cui si compendia la vita del Mondo e il processo di globalizzazione che ne è la nervatura, nervi e sangue della nostra stessa vita. Sloterdijk comincia con il cambiare le date, è il gesto, più o meno arbitrario, più o meno arrischiato, di ogni innovatore. Per Sloterdijk la globalizazzione non è affatto una vicenda che si consuma dentro i confini della Modernità, si colloca ben prima, fermenta nella testa dei cosmologi antichi, sono loro che ne configurano lo spazio, anche se le sue conseguenze più radicali si svilupperanno assai più tardi. Ma è nel loro azzardo conoscitivo che prende corpo il destino del nostro mondo. Da allora viviamo dentro sfere, dentro globi, e pensiamo l’uomo e l’ambiente che gli è esterno nelle linee di questo modello mentale. Una sfera, un globo, per l’uomo che si è formato nell’intimità del grembo materno, è anche un involucro di protezione. All’interno, nel nucleo del globo c’è protezione e sicurezza; all’esterno solo pericolo. Ma dov’è più l’esterno e dove l’interno nel mondo globalizzato, del tutto ubiquo, smarrito in una orizzontalità smarrente. Ecco il problema segnalato, con qualche preoccupazione, da Sloterdijk: «Mentre in passato la sfera-cosmo speculativa dei filosofi aveva elevato a intuizione una forma altissima di protezione all’interno di un tutto avvolgente, la nuova mela terrestre rende noto agli europei, in modo discreto e al contempo crudele e interessante, il messaggio topologico dell’era moderna: e cioè che gli uomini sono esseri viventi costretti a condurre la propria esistenza sul margine esterno di un corpo rotondeggiante e accidentato perso nell’universo; un corpo che in sé non è né grembo materno né contenitore e non può offrire nessun tipo di riparo». Nel nuovo globo non c’è riparo: l’uomo è radicalmente esposto, allo scoperto, privo di ogni protezione. Siamo tutti esseri soppiantati, dice Sloterdijk. Ed è il punto, è la condizione da cui partire, e non per reperire una sicurezza fittizia e dal fragile equilibrio. Durerebbe poco. Non si possono ripetere i vecchi riti identitari, in cui molta politica contemporanea ancora si attarda, strozzata dalle prospettive di breve respiro, o dalla mancanza di prospettiva. «Innumerevoli cittadini dei moderni Stati nazionali a casa non sentono più di coincidere con la propria identità e nella propria identità non si sentono più a casa», dice ancora Sloterdijk. Allora occorre un’altra mela, un nuovo globo, un nuovo disegno del mondo, capace di tenere insieme le acque e le terre di questo smarrimento. Un globo per esseri soppiantati.


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Cd

musica

AUTOPROMOZIONI socialmente incoscienti di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi oppie così hanno il potere d’intrigarmi. Lui (il diavolo, probabilmente) si chiama Faris Badwan, è inglese, canta, suona l’organo e le tastiere elettroniche, di solito con The Horrors manipola un garage-rock un po’ luciferino. Lei (l’acquasanta, di sicuro) è Rachel Zeffira, soprano canadese, trascorsi canori in quel di Verona, virtuosa di pianoforte, violino, corno inglese, oboe. Si incontrano nel 2009 a un party. Faris rompe subito gli indugi: «Ricordo di averle confidato la mia passione per i gruppi femminili degli anni Sessanta, aggiungendo che mi sarebbe piaciuto in qualche modo ricrearne l’atmosfera. Così, le ho preparato una compilation con le mie canzoni favorite e me ne sono andato in tournée con gli Horrors. Lei, in cambio, mi ha inviato un suo demo che in seguito si è evoluto nel brano The Lull. Pensavo d’ascoltare un frammento d’opera lirica, e invece mi sono imbattuto nelle ShangriLas rivedute e corrette». Poco importa se sarà symphonic-pop. Senz’altro si potrà combinare qualcosa di buono. Faris e Rachel si reincontrano, decidono di chiamarsi Cat’s Eyes, registrano l’extended play intitolato Broken Glass e intuiscono che la strada giusta è puntare su pezzi lunghi non più di tre minuti. Incorniciare micro emozioni come quelle dei Beach Boys, che Brian Wilson definì teenage symphonies. Incidono Cat’s Eyes a Bath, nei Real World Studios di Peter Gabriel, e se lo fanno produrre da Steve Osborne che ha lavorato con Doves, New Order e Happy Mondays. «La lavorazione del disco si è rivelata particolare», ha dichiarato Rachel. «Dovevamo far dialogare strumenti e attitudini a prima vista inconciliabili. Se io suonavo il corno inglese, Faris lo modificava elettronicamente fino a renderlo diverso dall’originale. È riuscito a distorcere e manipolare qualsiasi elemento acustico. L’oboe, ad

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Festival

zapping

ock e parola scritta non vanno d’accordo. Nonostante le ansie «d’autore» che di tanto in tanto aggrediscono questo o quell’artista, sono mondi meravigliosamente separati. Già basterebbe la frase di Frank Zappa: «Gente che non sa scrivere che intervista gente che non sa parlare per gente che non sa leggere» per fare giustizia del binomio rock e parola scritta. Ora ci si mettono anche i social network a dimostrare il fatto. Seguite su Twitter Folder_Rock: dietro questo account si cela Tony Beddard, un tale di San Francisco. Tony cura il booking per un club locale, riceve un sacco di musica da ascoltare da parte di giovani band della Bay Area. E ha un hobby: colleziona le cartellette promozionali che accompagnano i cd che riceve. Da qualche tempo Tony si diverte a spulciare le più improbabili frasi autopromozionali contenute nei comunicati stampa di presentazione. Frasi come: «descrivo il nostro suono come progressivo jazz e rock nella vena degli Yes e degli Smiths», oppure: «nel 2006 decisero di portare la band a un livello più alto, affittarono il furgone e cominciarono a fare concerti in Idhao», oppure «non siamo davvero sicuri del genere che suoniamo: rock, folk, jazz? noi lo definiamo discomusic socialmente cosciente, o indie rock erotico», oppure «accettiamo di fare un concerto ogni due settimane, per massimizzare la nostra performance» e via così con un vaso di pandora di cretinate a ruota libera. A qualcuno potrebbe venire in mente di spulciare i comunicati stampa degli artisti, anche grossi, italiani, e non è escluso che un giorno o l’altro avremo un fantastico résumé di cazzate rock made in Italy. Nel frattempo benediciamo il fatto che a fare il buon rock bastano tre accordi, tre o quattro parole. E che gli uffici stampa, a volte, si autodenuncino!

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Il symphonic-pop di Faris & Rachel esempio, s’è trasformato nel suono di un sintetizzatore». Faris Badwan, in buona sostanza, ha architettato canzoni più ascoltabili/memorizzabili di quelle degli Horrors e le ha fatte interpretare (quasi tutte) da Rachel Zeffira suggerendole di svestire per una volta i panni del soprano per indossare quelli di chanteuse. A cominciare dal pezzo che dà il titolo all’album, in bilico fra le Ronettes e i B-52’s, è tutto molto «cinematico»: tipo Dolce Vita felliniana, ma con un tocco di horror come certi film a basso costo girati da Roger Corman. The Best Person I Know, rarefatta e un tantino lisergica, cede il passo a I’m Not Stupid: voce che è un sussurro, coro d’angeli, pianoforte dark. E se Face In The Crowd punta alla surf music e al twist con lui che regge le redini del canto come fosse Serge Gainsbourg e lei che gli fa da viziosa partner come Jane Birkin, Not A Friend è la classica

«mattonella» anni Sessanta con Rachel truccata da Françoise Hardy. Plumbea e arabeggiante, Bandit è invece l’ideale premessa al post-punk spettrale di Sooner Or Later, mentre l’aplomb cameristico di The Lull si stempera in commedia musicale vintage e Over You, fra genio e sregolatezza, è un mix di James Bond e rhythm & blues. E non vi sfugga il classicismo in odor di santità della conclusiva I Knew It Was Over, che Faris & Rachel hanno avuto il privilegio di eseguire qualche mese fa nella Basilica di San Pietro in Vaticano durante una messa pomeridiana. «Sapevamo che se ci fossimo riusciti, nessuno sarebbe stato in grado di copiarci», hanno esclamato. Volete la prova? C’è il video su YouTube. Benedetto da centomila internauti. Cat’s Eyes, Cat’s Eyes, Polydor/Cooperative Music, 17,99 euro

Villa Carpegna, dove il jazz non è il “parente povero” ercoledì 6 luglio è iniziata a Roma la seconda edizione del festival di Villa Carpegna, che nel corso di un mese presenterà, in uno dei parchi più gradevoli della Capitale, un numero molto alto di concerti jazz, fatto abbastanza inusuale ormai nelle manifestazioni estive che utilizzano quel vocabolo di quattro lettere come alibi per presentare musicisti rock e pop, pur di grande importanza. A differenza degli altri festival, in questo di Villa Carpegna, Stefano Mastruzzi ha saputo creare quasi una idea di palinsesto radio-televisivo con titoli e «programmi» ben definiti. Idea intelligente, del tutto assente nelle altre manifestazioni similari, dove tutto si basa sulla star non importa se jazz, rock, pop, heavy. E il jazz? Certo è presente, ma, spesso, relegato in «cantina». I grandi spazi sono per le «stelle» e nel jazz le stelle ormai sono quasi tutte esplose e diventate «buchi neri». Si può obiettare che se questa musi-

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di Adriano Mazzoletti ca non ha più i Davis, i Coltrane, gli Stan Getz o i Duke Ellington, non è certo per colpa degli organizzatori dei Festival. Si può replicare però dicendo che se si continua a trattare il jazz come parente povero, finirà con l’essere polverizzato dalla musica commerciale. A meno che qualcuno, che possiede dignità e rispetto per la propria Arte, si rifiuti di partecipare a queste kermesse. Al proposito viene alla mente l’episodio della vita di Mozart cacciato a calci nel sedere dal maggiordomo del conte Colloredo perché dopo il concerto pretendeva di cenare al piano di sopra con gli ospiti, pensando di averne il diritto, mentre l’altro che lo considerava un

servitore qualsiasi, voleva che mangiasse giù in cucina. Cosa fa Mozart? Sbatte la porta, se ne va rinunciando ad avere un protettore nobile e, malgrado tutto il suo talento, finisce nella fossa comune del cimitero. Fortunatamente c’è ancora qualcuno, che pur non rinunciando al rock e alla musica di consumo, riesce a tenere ben distinti i vari «programmi». Il 6 e 7 luglio la Cam, etichetta discografica che si è sempre contraddistinta per produzioni jazz di grande interesse, ha presentato tre concerti con Enrico Pieranunzi. Il primo in Duo con Danilo Perez, il secondo in Trio con John Patitucci e Joe La Barbera e infine in Quintetto con

Rosario Giuliani, Flavio Boltro, Dedè Ceccarelli e John Patitucci. E due serate esclusive con le ultime produzioni di artisti d’avanguardia del jazz scandinavo e il quintetto del giovane e brillante Fulvio Sigurtà. Dal 10 al 18 luglio, durante il Roma Jazz’s Cool, si esibiranno, fra gli altri, Sheila Jordan, il giovanissimo chitarrista Lage Lund, la pianista Chihiro Yamanaka e il Quintetto di Rosario Giuliani. Dal 20 al 21 luglio il Festival sarà dedicato al Blues, mentre dal 26 al 30,Villa Carpegna ospiterà la XIV edizione di Una striscia di terra feconda con cinque doppi concerti fra cui Antonello Salis, Danilo Rea, Dado Moroni. Infine dal 22 al 25 saranno presentati molti nuovi talenti del jazz italiano. Nelle date intermedie (ieri e oggi luglio), il Roma Tarantella Festival, mentre dal 31 luglio al 5 agosto sarà la volta del Rock. Ecco un modo intelligente di organizzare un Festival che oltretutto non utilizza Jazz nel titolo mentre invece ne avrebbe la facoltà.


arti Mostre

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eravamo ripromessi di ritornare su un personaggio importante della pittura, non soltanto parigina, ma cosmopolita e international style come Van Dongen, e ci sembra giusto mantenere la promessa, come altre volte non ci è riuscito, visto il correre precipitoso (ancora) di troppe ghiotte occasioni espositive. Anche perché la bella mostra al Museo dell’Arte Moderna di Parigi, che fa rincontrare opere conservate nello stesso museo con altre, rare e poco viste, che provengono da istituzioni olandesi (essendo nata la mostra a Rotterdam, come il nostro artista, nel 1877), al di là della divertente figura di questo iconoclasta, offre varie meditazioni alla nostra considerazione del Moderno, se non proprio del Contemporaneo. È vero che giusto vent’anni fa, lo stesso museo parigino gli aveva dedicato una retrospettiva importante e choc, dal momento che il suo nome era scomparso da ogni silloge ben educata dell’arte moderna e da ogni uggiosa tabella di valori ufficiali d’avanguardia (perché con la sua deriva mondana-boldinesque, la frequentazione di troppe nobildonne viziose e il suo aderire a una pittura apparentemente da salotto ed esageratemente sgargiante e pirotecnica, anzi, scoppiata, non poteva che urtare la sensibilità teneruccia delle vestali, appunto, del Contemporaneo più puritano e manualistico). Ma non era bastata, quella retrospettiva, molto parigina e molto voyante, con la bava eversiva d’un importante catalogo «rivalutativo», a recuperarlo all’attenzione patria e a reimporlo davvero alla memoria storica. Non bastano mai, queste operazioni di resuscitamento tardivo, a far rientrare nei ranghi e negli stabbi delle categorie obbligate questi ex lege, sfacciati e liberi,

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Archeologia

Corpi femminili come paesaggi di Marco Vallora questi eccentrici inacciuffabili e felicemente viscidi, come anguille scottate, e pure sfrontati, nell’ignorare le doverose etichette di comodo. E forse è un bene, che non siano riassorbiti d’ufficio, che si preservino inconciliati. Anche perché l’anticonoclasta Van Dongen, ch’era di fondo un anarchico, per quanto mondano, come vuole il titolo provocatorio della mostra (e che fu introdotto a Parigi e nell’ambiente picassiano e modigliaesco del Bateau Lavoir da un critico e letterato realmente anarchico, come Felix Fénéon, ch’era stato accusato perfino d’aver messo una bomba in un caffé) faceva di tutto per non essere irrigimentato, in qualsivoglia famiglia strutturata. E anche quando espone per la prima volta in una sede ufficiale, pur essendo, nello

spirito e nel colore, il più fauve di tutti, non si mischia a quella squadriglia di avventurosi, da Matisse a Vlaminck, da Marquet a Derain, che avanzano in gruppo, in quella celebre sala «maledetta» delle «belve», che diede il titolo paradossale e involontario al loro gruppo. Eppure la Germania espressionista s’accorge presto della sua anomalia cromatica e della sua inedita sgrammaticatura anatomica, e lo convoca rapida a esporre con il gruppo del Die Brucke. «Straniero sempre» come sottolinea un suo esegeta. Forse la sua colpa, l’unica dannazione è questa: piace troppo, nonostante la sua outrance, il suo eccesso, biografico (le feste, le donne, la povertà mischiata allo scialo), pittorico, morale («la sua pittura sa di oppio e di ambra»

sosteneva Apollinaire, che lo fiancheggiava ma non lo amava troppo. Anche con un filino di moralismo: «Egli prostituisce i suoi più nobili e bei suoi colori a delle vergogne urbane, che egli sottolinea, come straniere»). Cittadino, sempre. Certo, se confrontiamo le sue Lottatrici di Tabarin, paciose, grassocce, caricaturalmente renoiriane, però con i soliti occhi bistrati da clonate Marchesa Casati e i contorni forti degli chignon, neri come gomitoli di lana, con le Demoiselles d’Avignon del suo amico Picasso, che sono esattamente degli stessi mesi, un poeta-ideologo del Moderno Avanguardistico quale Apollinaire (pur non percependo subito l’importanza epocale di quell’incunabolo cubista dello spagnolo, salvo subirne la sua forza eversiva ed esplosiva, di granata storica) non ha dubbi da che parte stare. Ma il fatto che Van Dongen, con quelle sue donne-sfingi («l’unico paesaggio che amo è quello del corpo femminile») e quelle sibille quotidiane, dalle curve così viziose (che spesso le sue tele vengono arrestate in pompa magna, come mariuoli presi con le mani nel sacco) piaccia, piaccia ai ricchi committenti scriteriati, come ad artisti intelligenti e difficili quali Picasso e Derain, a letterati quali MacOrlan e Max Jacobs, come a sarti intelligenti quali Poiret e la «terrificante» Jasmy Alvin (la sua musa androgina, dagli occhi accalamarati di viola e il taglio à la garçonne dei capelli a scodella) sino a galleristi quali Vollard e Kahnweiller, che lui ritrae spadellato sopra uno sfondo rovente, con colori lividi e tumefatti (insieme al surrealista Cravan Van Dongen è un grande cultore di boxe) non basta a farlo cacciare dall’empireo dei Grandi. E basterebbe il suo Autoritratto come Nettuno offenbachiano o le sue Mercanti d’erba e amore marocchine, iper-matissiane e azzerate dal rosso, a rendercelo simpatico e imprescindibile.

Kublai Khan: svelato il mistero del naufragio

n altro mistero intorno alla figura leggendaria di Kublai Khan (1215-1294) è stato svelato. E il merito è tutto italiano. È stata infatti da poco individuata la baia dove fece naufragio nel 1281 la flotta del mitico Kublai Khan, imperatore mongolo della Cina, durante il secondo tentativo di invasione del Giappone fallito a causa di un tifone. La scoperta è stata fatta nelle acque della Baia di Maegata, sulla costa occidentale dell’isola di Ojika, nella prefettura di Nagasaki (Giappone meridionale). L’identificazione è avvenuta - si legge nel rapporto finale pubblicato dalla spedizione - durante la recente campagna della missione archeologica italiana in Giappone organizzata dalla Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e dall’Università di Bologna e da Archeologiattiva, diretta da Daniele Petrella e Sebastiano Tusa, in collaborazione con l’Asian Research Institute of Underwater Archaeology sotto la direzione dell’archeologo Hayashida Kenzo, noto per le sue ricerche nelle acque di Takashima. Un primo tentativo di invasione dell’arcipelago giapponese era stato condotto nel

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di Rossella Fabiani 1274 da Kublai Khan - fondatore del primo impero cinese della Dinastia Yuan e descritto da Marco Polo nel Milione - ma era fallito non tanto per un disastro marittimo quanto per il probabile ritiro di parte delle forze in campo che comportarono sconfitte terrestri come quella di Hakata (nell’ambito della moderna Fukuoka). È infatti probabile, secondo l’ipotesi degli archeologi italiani, che la flotta sia affondata in vari punti lungo le coste occidentali del Giappone meridionale laddove l’isola di Ojika (come tutto l’arcipelago di Goto di cui fa parte) occupa un posto strategicamente interessante. Il secondo tentativo fallì invece quasi certamente a causa di un tifone che ebbe disastrose conseguenze sulla flotta. Ed è probabile che a determinare il disastro siano state anche ristrettezze economiche e dissidi interni alla corte imperiale. In un tale clima d’incertezza la flotta dovette essere allestita in fretta e con materiali non appropriati. Inoltre

non è secondario il fatto che la struttura delle navi era stata ideata soprattutto per la navigazione fluviale. Le tracce, consistenti, che dimostrano il disastro navale della flotta di Kublai Khan sono state rinvenute dagli archeologi nella Baia Imari, nei mari dell’isola di Takashima, posta più a Nord di Ojika e dell’arcipelago di Goto. I reperti raccolti durante le ricerche a Takashima hanno permesso di avere non soltanto la prova della presenza dei relitti appartenenti alla sfortunata spedizione del 1281, ma anche di recuperare consistenti porzioni di parti lignee d’imbarcazione che hanno consentito a Daniele Petrella di ricostruire la struttura e l’aspetto di nave della sfortunata flotta. I rinvenimenti effettuati nel corso degli scavi nella Baia di Maegata a Ojika hanno consentito di ipotizzare con certezza che anche in questa baia abbiano fatto naufragio alcune navi della flotta del Gran Khan. Tuttavia le ricerche hanno anche permesso di identificare le tracce di ulteriori naufragi o ancoraggi nella baia di navi di varie epoche che praticavano il commercio tra le coste della Corea e della Cina e questa parte insulare del Giappone. Non per nulla, era considerata particolarmente strategica la posizione dell’isola di Ojika quale ponte naturale nelle rotte di collegamento tra la Corea, la Cina e il Giappone meridionale.


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il paginone

Bersaglio ricorrente di paradossi denigratori, l’Altare della Patria è un’architettura che trasuda sentimenti. Facile deriderla, più difficile intendere la sua straordinaria capacità di provocazione. A cent’anni (appena celebrati) dall’inaugurazione del monumento firmato da Giuseppe Sacconi, l’arringa della difesa a uno storico processo degli anni Ottanta… di Claudia Conforti l 26 gennaio 1986 a palazzo Venezia fu organizzato dal Mediocredito del Lazio con la consulenza del Cresme un convegno di studi sulVittoriano: il monumento a Vittorio Emanuele II ideato alle falde del Campidoglio dall’architetto Giuseppe Sacconi nel 1884. Il convegno ebbe la forma vivace e drammatica del processo giudiziario, con un presidente della Corte (Franco Piga), due avvocati dell’accusa (Giovanni Klaus Koenig e Bruno Zevi), due della difesa ( Claudia Conforti e Paolo Portoghesi), testimoni (Giulio Carlo Argan, Giulio Andreotti, Giovanni Spadolini), consulenti tecnici e una folta schiera di autorevoli giurati. Gli atti del convegno in forma di processo furono integralmente pubblicati l’anno successivo nel volume Processo all’altare della patria, a cura di Vanni Scheiwiller, Atti del processo al monumento in Roma a Vittorio Emanuele II, Mediocredito del Lazio- Libri Scheiwiller, Roma 1987. A cent’anni dall’inaugurazione del monumento, appena celebrati, volentieri acconsento alla richiesta di pubblicare su queste pagine il testo che redassi in quell’occasione in difesa del Monumento che, allora vituperato, nel frattempo è stato attentamente restaurato, riaperto al pubblico, dotato di un ascensore tanto utile quanto sciattamente progettato. Insomma il Vittoriano è stato restituito alla città, che lo ha affabilmente metabolizzato nella quotidianità del vivere urbano. *** Delineiamo dapprima una rapidissima sintesi della fortuna critica del Vittoriano. Nei primi vent’anni di vita del progetto tra il 1884 e il 1904, vivente Sacconi, (divulgato attraverso i disegni e

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anno IV - numero 26 - pagina VIII

soprattutto i modelli) lo schieramento favorevole è praticamente plebiscitario. Esso va da Benedetto Croce a Gabriele d’Annunzio: con l’adesione degli archeologi Corrado Ricci e Giacomo Boni; degli scultori Lodovico Pogliaghi e Leonardo Bistolfi (questi ultimi non del tutto imparziali, poiché collaboreranno ad alcune delle tante sculture che animano il monumento). Sono invece certamente imparziali gli architetti (alcuni dei quali hanno partecipato al concorso per il monumento e lo hanno perso), tra essi i celebri Ernesto Basile, Guglielmo Calderini, Giulio Podesti e Giulio Magni. È di quest’ultimo l’affermazione che «la concezione [del Vittoriano...] fu grandiosa e geniale a un tempo».Tra i letterati favorevoli Ferdinando Martini e Ugo Ojetti, autore di una perspicace cronaca intitolata al monumento e «alle sue avventure» del 1907. Infine ricordiamo l’autorevole e non sospetto consenso di Camillo Boito (teorico dell’architettura, architetto e letterato, autore del racconto Senso, da cui Luchino Visconti trasse l’omonimo capolavoro cinematografico), che nel 1893, con lucida consapevolezza dei tempi, scrive che il monumento (deve essere) una specie «di sintesi storica, una filosofia della storia incarnata nelle rappresentazioni reali e simboliche». Per quanto attiene all’uso degli ordini classici dell’architettura impiegati da Sacconi, Boito, che come progettista persegue l’affabile intimismo di un medioevo fortemente intellettualizzato, non esita a riconoscere che per quel monumento «a Roma non si poteva scegliere altra architettura fuori della classica antica». Trascuriamo nell’elencazione i giudizi favorevoli dei politici,

Alcuni particolari dell’Altare della Patria troppo spesso viziati da motivazioni di ordine non precisamente estetico. In proposito Ferdinando Martini riferisce che Agostino Depretis, capo del governo e infaticabile patrocinatore del Vittoriano (e del suo architetto il marchigiano Giuseppe Sacconi), osservando la possente fabbrica in costruzione, esclamava con sollievo: «Il monumento deve andare sul Campidoglio. Se no, mi ci mettono Garibaldi!» (la cui statua monumentale fu esiliata infatti sul Gianicolo).

Le prime critiche negative partono con quella formidabile svolta del gusto, che coincide con l’affermarsi del modernismo, che in architettura segna l’irreversibile abbandono degli ordini architettonici. Inizia Luigi Serra, un sacconiano pentito, che dopo aver definito Sacconi «il più grande architetto moderno», nel 1903 sulla rivista L’Arte Italiana Decorativa e Industriale, avanza contegnose riserve sulle architetture

Chi ha pa del Vittori dell’antico maestro che, alla luce del nuovo gusto floreale, paiono «fredde e inanimate». La stroncatura parte decisa con Alfredo Melani, appassionato sostenitore della nuova architettura liberty, che redige per l’editore svizzero milanese Hoepli un diffusissimo manuale intitolato Storia e stili dell’architettura (1905) in cui taccia il «monumentissimo» di «assieme architettonico legnoso, senza slancio, sagomato timidamente, infelice nei rapporti delle masse».A queste generiche argomentazioni affianca la fotografia di uno degli avancorpi di accesso ai musei, sottolineandone con esatta perspicacia gli allentamenti sintattici e le debolezze grammaticali (fregio atrofizzato in rapporto alle paraste angolari, colonne libere usate alla «celtica», ovvero impropriamente, da pittore quadraturista più che da architetto costruttore ecc.). Le censure di Melani hanno tuttavia una risonanza molto relativa, circoscritta al mondo degli studi e della pratica delle arti. Il successo di pubblico della stroncatura passa invece

per una di quelle spericolate «serate futuriste» che euforizzano i teatri italiani nel corso del 1913: al teatro Costanzi di Roma il letterato fiorentino Giovanni Papini, tardivamente convertito ai furori di Marinetti, lancia la celebre e insolente definizione del Vittoriano: «bianco ed enorme pisciatoio di lusso». La puerile irriverenza dell’epiteto ne garantirà un successo generalizzato e inossidabile.

Ma il destino critico del monumento non è ancora determinato, nonostante il corrivo sarcasmo futurista che, si badi bene, irride per motivi opposti a quelli che muoveranno gli epigoni detrattori del monumento. Papini infatti è spinto da un’incontenibile (e frustrata) nostalgia del futuro e da una simmetrica ripugnanza del passato, che nella requisitoria contro Roma e il Vittoriano gli fa esclamare irriguardosamente: «Gli italiani d’ingegno hanno sempre, come i dannati di Dante la testa voltata all’indietro - dalla parte del culo. E spesso per questo vengono fottuti».


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cenni gli vengono implacabilmente rivolte. Esse sono basate su quattro argomentazioni, ricorrenti sotto diverse vesti: a) il delirio nostalgico per un passato che non si è conosciuto, il quale spesso si alimenta di uno pseudoumanesimo lacrimoso che mitizza e rimpiange tutto ciò che è stato e che non è più (compresi i vicoli maleodoranti, l’assenza di infrastrutture e di servizi, le ricorrenti alluvioni ed epidemie, che caratterizzavano la Roma preunitaria); b) la presunta vacuità retorica che impronterebbe le forme del Vittoriano; c) la presunta assenza di giustificazioni funzionali; d) il «cattivo gusto» che ne contrassegnerebbe le rappresentazioni simboliche e l’architettura.

Tralascio il punto a) poiché è evidente che l’edificio non è responsabile di ciò che gli preesisteva e della eventuale demolizione: nessuno si sogna di addebitare al Colosseo la perdita del lago e dei giardini di Nerone, pur di impareggiabile bellezza. Sul punto b) invece val la pena di soffermarsi: certamente il Vittoriano è un’architettura traumatica, nel senso che è prodotto di un colossale trauma che ha sconvolto I’Italia. Parlo del passaggio cruento e controverso che ha condotto all’unità politica nazionale, esiliando duchi e principi, sovvertendo governi e declassando città capitali a centri di provincia. Di questo trauma rimane traccia nel carattere solennemente impositivo, esaltato dal candor illaesus del travertino, che fa svettare il monumento sulla città, da ogni parte la si guar-

aura iano? Comunque ancora nel 1925 all’Esposizione internazionale di architettura di New York I’Italia fascista invia «le riproduzioni in rilievo e in fotografia del monumento a Vittorio Emanuele [. . . ] quasi a rappresentare la produzione ufficiale e ad affermare la tradizione classica».

Il dibattito sul razionalismo e sulla fondazione di un’architettura fascista mette in sordina la polemica sul monumento, salvaguardato ideologicamente dalla sua nuova funzione di Altare della Patria, dove si conservano i resti del Milite Ignoto, a memoria di tutti i soldati periti nel primo conflitto mondiale. Il furore antiVittoriano riesploderà nel dopoguerra: tra i primi attacchi si distingue quello di un giovanissimo e promettente borsista dell’Accademia Americana in Roma, che nel 1953 sulla rivista Architectural Review definisce il Vittoriano «un mostro scintillante… interessante solo per il lato grottesco… ridicolo in se stesso e catastrofico sotto il profilo urbanistico». Sorprenden-

temente il giovane è Robert Venturi, futuro esponente del Postmodernismo architettonico, che ancora non ha imparato da Las Vegas il fascino visionario della complessità e della contraddizione, temi a cui dedicherà, una quindicina di anni più tardi, riflessioni capitali. Con l’eccezione di due generosi saggi di Paolo Portoghesi sull’eclettismo a Roma e dell’attento e seducente volume di Marcello Venturoli La Patria di marmo, del 1953, il Vittoriano diventa bersaglio ricorrente di facili paradossi denigratori. Il monumento è una sorta di catalizzatore maieutico, capace di estrarre da ingegni solitamente stolidi la stilla sapida del sarcasmo spiritoso, della metafora graffiante. Non fosse altro che per questa sua straordinaria capacità di provocazione il monumento va non solo salvato, ma tenuto in buon conto! Ma esistono altri e più concreti motivi per guardare con occhi spregiudicati la grande e candida mole, che mi propongo di dimostrare partendo proprio dalle critiche che da de-

patrio e perciò è così facile deriderla, proprio perché disarmata nella sua ostensione emotiva e sentimentale: ed è noto che il riso è la prima arma a cui ricorrono coloro che temono la violenza eversiva del sentimento. Il ricorso di Sacconi al linguaggio classico degli ordini è un tratto romantico, l’appello a un mondo di forme eloquenti, che nei secoli hanno saputo parlare agli uomini, qui chiamate a esprimere lo stupore felice e spaventoso, dunque mitico, per una realtà nazionale del tutto nuova e sorprendente. Sul punto c), cioè sulla vacuità funzionale del monumento si è consumato uno dei più fastidiosi equivoci tra i tanti che hanno bersagliato l’edificio. In realtà esso trascrive in un’epica un po’melodrammatica un tratto caratteristico di Roma: la diffusa presenza di rampe, gradoni, scalinate, che si sottraggono all’arcigna funzionalità del semplice collegamento verticale, per farsi luoghi sociali di conversazione, di contemplazione e di riposo: luoghi deputati all’accoglienza e alla socialità urbana. Il monumento risponde infatti al cerimoniale di una liturgia laica e unitaria, che si esprime fin dagli anni Ottanta del XIX secolo in periodici pellegrinaggi secolari che richiamano a Roma da tutta la Penisola folle di popolo desiderose di rendere omaggio al re Buono: a Vittorio Emanuele II di Savoia pater patriae. Né il Pantheon, dove il Savoia è sepolto, poteva fornire la risposta spaziale adeguata a questa inedita ritualità, così impregnato come esso è dai riti della religione cattolica. E non è certo senza ragione che il solenne candore dell’Altare della Patria sia la prima architettura che si scorge dal rettifilo di via Nazionale, la strada che conduce i pellegrini dalla nuova stazione ferroviaria di Termini al centro di Roma. Dopo secoli in

sterno; all’interno, nei grandi ambienti configurati dalle possenti sostruzioni della fabbrica, che affondano nel rimosso urbano di ventisette secoli, Sacconi ricava le sale per i musei delle bandiere, delle corone e del risorgimento, i cui accessi sono situati nei due avancorpi laterali sottomessi ai propilei. Per concludere sulla questione del gusto propongo come prova, seppure indiretta, la seguente testimonianza: «(Egli) portò la bizzarria al più alto grado del delirio. Deformò ogni forma, mutilò frontespizi, rovesciò volute, tagliò angoli, ondulò architravi e cornicioni, e profuse cartocci, lumache, mensole, zig-zag, e meschinità di ogni sorta. La sua architettura è un’architettura alla rovescia. Non è l’Architettura, è una scarabattoleria di ebanista fantastico...». Queste distruttive riflessioni non sono indirizzate a Sacconi, ma al sublime Francesco Borromini. Si tratta infatti del giudizio, fondato sul gusto, che Francesco Milizia formula nel XVIII secolo su Borromini nel suo Dizionario. Questo giudizio, proprio come quello che gli epigoni di Papini esprimono sul Vittoriano, è viziato da un risentimento polemico e cieco, che deforma irrazionalmente l’oggetto e la sua valutazione.Tradotto operativamente (demolizione, mutilazione, alterazione), rischia di provocare guasti irreparabili, gli stessi che noi oggi rimproveriamo alle generazioni che ci hanno preceduto.

A questo invito alla cautela voglio far seguire un’ultima considerazione: intorno al Vittoriano si sono affollate innumerevoli metafore denigratorie, in gran parte caratterizzate da referenti gastronomici: gran torta nuziale, gateau di panna, prodotto di bassa pasticceria, orgia di marmi, abbuffata di capitelli ecc. Queste

Croce, D’Annunzio, Boito furono degli estimatori. Papini invece, in un delirio tardo-futurista lo definì “bianco ed enorme pisciatoio di lusso”. Un epiteto che fece epoca. Del resto, anche Borromini fu “stroncato” di, e che tanto disturba i nuovi esteti della città «a misura d’uomo», qualsiasi cosa questa espressione voglia dire. Da quel trauma deriva anche la vena sentimentale che pervade l’architettura del Vittoriano, il suo romantico classicismo. È l’architettura di coloro che, come il Sacconi, non hanno vissuto in prima persona gli eventi risorgimentali, nella quotidianità che ridimensiona ogni grandezza, ma li hanno trasfigurati emotivamente e sentimentalmente attraverso i racconti dei padri come quello di Sacconi, garibaldino e combattente all’assedio romano del ‘48. E ilVittoriano esprime anche questa doppia valenza ideologica e sentimentale, di patriottismo e di amore filiale. È un’architettura che trasuda sentimenti di amor

cui le facciate e le cupole delle chiese si attestano come vertici prospettici che sacralizzano le strade di Roma, per la prima volta è un edificio secolare, dal forte richiamo patriottico e nazionalistico, a costituire il fuoco visivo di un asse viario fondamentale della città moderna. Dunque il Vittoriano è edificio deputato di nuove liturgie nazionali e metropolitane, concepite e realizzate, secondo lo spirito della belle époque in chiave teatrale, da scenografia lirica, sottomesso allo sguardo, al vedere e all’essere guardati. La sua debordante scalinata è a un tempo palcoscenico e platea, luogo di rappresentazione rituale e postazione panoramica da cui apprezzare a 360 gradi la grandiosa bellezza di Roma. Questo per quanto attiene all’e-

espressioni rivelano in filigrana, in chi le pronuncia, un ideale di gusto tendenzialmente astinente e punitivo, che denuncia un’attitudine meschina, incapace di abbandonarsi alla forza sconcertante della visionarietà; l’aspirazione a un bon ton quaresimale e minimalista di chi troppo possiede e poco conosce. Ma i destinatari originari del Vittoriano non erano certo mefitici borghesi oppressi da una travolgente opulenza alimentare, bensì quel popolo variegato e difforme, per lingua, abitudini e tradizioni che dalla Sicilia al monte Bianco condivideva una fame atavica e invincibile e che dall’abbondanza degli ornati, dalla ricchezza dei marmi, dal fasto dei bronzi e degli ori si sente in qualche modo risarcito e, forse simbolicamente, appagato.


Narrativa

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alvo qualche paragrafo ambientato ad Amsterdam, questo romanzo di Simenon si dipana a Sneek, sorniona e pettegola cittadina della Frisia. Qui la classe alta dà molta importanza alla gerarchia formatasi all’interno dell’Accademia del Biliardo. Qui, sull’affaccio di canali, la vita di ognuno è regolata da pignolesche abitudini e dal ritmo imposto dai pregiudizi piccolo-borghesi. Giganteggia per la sua mediocrità il medico Hans Kuperus, informato da una lettera anonima che la sua virtuosa e scolorita moglie Alice lo tradisce con il signor de Schutter, ricco, dongiovanni, col privilegio di essere «l’unico abitante di Sneek cui fosse concessa una cattiva reputazione». È un pugno nello stomaco, anzi è l’aculeo dell’umiliazione che s’infila nelle carni molli di un’esistenza noiosa. Reso cornuto proprio da Schutter, che è presidente incontrastato dell’Accademia del Biliardo! Con uno stratagemma, che lascerà possibili falle nell’indolente inchiesta giudiziaria, Kuperus si avvicina al cottage del tradimento e spara ai due, buttando poi i corpi nell’acqua destinata di lì a poco a gelarsi. Un duplice omicidio che ha scarsa connessione con la passione, ma solo con un orgoglio di borghesuccio. Scrive Simenon: «Ci aveva messo un anno a decidersi! E forse non l’avrebbe fatto se, due settimane prima, Schutter non fosse stato di nuovo eletto, per un altro anno, presidente dell’Accademia del Biliardo». Pagina dopo pagina il lettore intuisce che dietro questa spinta s’intrecciano motivazioni riconducibili alla serpeggiante (e mai sondata) insoddisfazione di vita. Kuperus, dopo la vendetta, non altera la ragnatela delle abitudini. E una volta a casa dorme con la servetta Neel, con la quale, viva la signora Alice, rosea, paffuta e avvolta da un vago sapore di caramella, non s’era mai permesso nemmeno uno sfioramento malgrado certe «vampate di desiderio quando rimanevano soli». Perché allora lei e non una piccante dama della capitale? Simenon: «Il dottor Kuperus non avrebbe saputo dire se fosse una bella ragazza: aveva zigomi larghi da contadina, tratti grossolani. Certo, non aveva un corpo perfetto, ma la carne era florida e soda…». Capita spesso che il prolifico narratore francese insista su ossessioni inspiegabili e morbose. Il medico non fa come il rivale Shutter, il seduttore nobile che si fa servire da un maggiordomo il livrea e tuttavia «ostenta opinioni rivoluzionarie». Lui, «un uomo bana-

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Il prigioniero di Sneek Ambientato nella Frisia degli anni Trenta, “L’assassino” di Simenon. Storia di un duplice omicidio in una realtà di “piccola gente” di Pier Mario Fasanotti le», non cerca altrove. Assedia la femmina che ha in casa, ragazzotta dalle «carni dolciastre», gli occhi indifferenti anche nei momenti che dovrebbero essere eroticamente più intensi. Neel sa perfettamente quel che ha fatto il suo «padrone», ma non ne fa parola. E quando lui la tormenta chiedendole che cosa dicono di lui per strada e nei negozi, alza le spalle. L’opinione pubblica lo considera colpevole, anche in assenza di prove certe, i ragazzi scappano sguaiatamente quando lui, «col cappotto e la dignità», cammina per strada. Il giudice, che è anche un amico, lo interroga svogliatamente. Ma le distanze da lui le prendono in molti. Kuperus vede aumentare a dismisura l’ossessionante curiosità su quel che gli altri pensano di lui. È allora si fa provocatorio, sfida amici e conoscenti quasi volesse fare una confessione pubblica, dare uno schiaffo contro «il mondo piccolo» degli altri (ma anche suo) piuttosto che scegliere una via di fuga: «…li vedeva andare e venire e non poteva evitare di guardarli con ironia, perché si riconosceva in loro, riconosceva in loro l’uomo

libri Georges Simenon L’ASSASSINO Adelphi, 153 pagine, 16,00 euro

che era stato». Qualcuno si vanta di un prossimo viaggio a Parigi? Kuperus sbatte quella «piccola gente» (frase che Simenon usa in altri romanzi) di fronte alla «noia della loro vita, della loro città, del loro biliardo quotidiano». E se, come gli suggerisce un amico, andasse lontano? Ma che bisogno c’è: «il suo universo lo seguiva col suo straziante mistero». Il medico è incatenato al suo segreto, al suo rimorso, è definitivamente incastonato in «una geografia tutta sua». Sa bene che ognuno dei suoi concittadini «sogna qualcosa di diverso e vorrebbe tagliare la corda». Ma tutti rimangono. Anche Neel, alla fine, smette d’essere un desiderio. Kuperus sa di essere «l’assassino». Ma resta in quella prigione che è la sua città-casa. Il romanzo è stato scritto nel 1935. Rischia d’essere vecchio? Per nulla: Simenon descrive il corto circuito di certi uomini, il punto di svolta dopo il quale c’è il continuo precipitare di esseri appesantiti dal mistero e da ciò che non riescono a comprendere.

Sopra a sinistra, Georges Simenon. In alto, la copertina del libro “L’assassino”. Qui sotto, uno scorcio di Sneek, la cittadina della Frisia del romanzo

Il Bibliofilo

L’esordio “solariano” di Quarantotti Gambini

el 2010 si è celebrato, in maniera quanto mai evanescente, il centenario della nascita di Pier Antonio Quarantotti Gambini, romanziere, saggista e poeta istriano che operò nella Trieste dei Saba e dei Bazlen, divenendo loro amico e sodale. Il Comune di Trieste ha dedicato allo scrittore una mostra documentaria, svoltasi dal 16 ottobre al 12 dicembre 2010, presso Palazzo Gopcevich dalla quale ha ricavato un bel catalogo, intitolato Quarantotti Gambini. L’onda del narratore (Edizioni Comune di Trieste, 108 pgine, 10,00 euro), a cura di Marta Angela Agostina Moretto e Daniela Picamus. Il catalogo, corredato da un ricco apparato iconografico, in gran parte inedito, ricostruisce la vicenda umana e letteraria di questo autore tra i più discreti e appartati del nostro Novecento, che ha al suo attivo numerose pubblicazioni, da La rosa rossa (1937) a Primavera a Trieste (1951), da La calda vita (1958) a I giochi di Norma (1964). Fu proprio Saba a incoraggiare Quarantotti Gambini a scrivere, spesso dandogli preziosi consigli, come nel caso di uno dei suoi libri più fortunati, L’onda dell’incrociatore, edito da Einaudi nel 1947, a cui il poeta triestino

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di Pasquale Di Palmo diede il titolo definitivo: «Caro amico, mentre mangiavo una fetta d’anguria (forse l’ultima di quest’anno) in piazza del Ponterosso, ho trovato - senza cercarlo - il titolo del tuo libro». Bisogna inoltre ricordare quel raro dialogo a due voci che riproduce il carteggio, svoltosi tra il 1930 e il 1957 e proposto da Mondadori nel 1965 con il titolo Il vecchio e il giovane. Fu sempre Saba che si interessò per fare pubblicare il giovane autore presso Einaudi. Ma l’esordio di Quarantotti Gambini avvenne nel 1932. Si tratta del trittico di racconti intitolato I nostri simili, uscito come 26° volume delle Edizioni di Solaria di Firenze, in un’edizione che comprendeva anche una tiratura di testa di 250 esemplari numerati, dei quali i primi 25 stampati su carta Doppio Guinea. Il volume, di 272 pagine, venne pubblicato a cura di Alberto Carocci e Alessandro Bonsanti, responsabili della rivista Solaria dalla cui costola era nata la collana che aveva ospitato titoli di Gadda, Loria, Giotti, Quasimodo, Vittorini e dello stesso Saba. Ma la curiosità di quest’opera prima sta tutta nel

“I nostri simili”, uscito nel 1932, dedicato a Saba, suo primo sostenitore, e lodato da Montale

patronimico dell’autore che si firma con il suo vero cognome «Quarantotto Gambini», che verrà poi cambiato in Quarantotti Gambini. Il narratore ricordò così questa sua prima pubblicazione: «Ho scritto in quegli anni (tra l’inverno 1929-’30 e quello 1931’32), mentre, iscritto all’Università di Milano, iniziavo di malavoglia gli studi di giurisprudenza, I tre crocifissi, Il fante di spade e La casa del melograno, i tre racconti apparsi nell’autunno del 1932 nel volume intitolato I nostri simili. Di questi racconti, due (I tre crocifissi e Il fante di spade) erano stati pubblicati precedentemente a puntate, nel 1931 e nel 1932, dalla rivista fiorentina Solaria, per interessamento, se ben ricordo, di Eugenio Montale, cui Saba aveva parlato di me, nonché per la simpatia che subito mi dimostrarono tutti i “solariani”specialmente Alessandro Bonsanti. Sottolineo questi particolari perché è stato appunto con l’apparizione di quei miei racconti in Solaria che ha avuto inizio prima ancora che si stampassero I nostri simili (che ho dedicato a Umberto Saba) la mia carriera letteraria. Il primo crisma pubblico, dopo quello privato di Saba a Trieste, lo ho avuto a Firenze, con l’articolo che Eugenio Montale volle dedicare a I nostri simili nella rivista Pègaso, quando il libro era appena uscito al principio del 1933».


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poesia

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Dissonante, musicale… Amelia Rosselli

Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana. Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della mia passione! La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio. Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male, la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci supino la tua stella è la tua dimora. Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della demarcazione tra poveri e ricchi. Amelia Rosselli (DaVariazioni belliche)

di Filippo La Porta melia Rosselli è la voce poetica più sperimentale, audace e struggente della seconda metà del Novecento, del tutto estranea a manifesti e avanguardie organizzate. Vorrei citare in proposito un suo verso da Variazioni belliche: « (…) Combiniamo/ menzogne e fragili riviste d’avanguardia costose/ come le ambizioni che esse proteggono (…)». Nei suoi versi confluiscono dottissime riflessioni teoriche sulla composizione musicale (mutuate dalla musica seriale) e un vissuto incandescente, che preme sulla lingua e si libera in catene associative inusitate. Ed è struggente perché in essa tutto cade, fatalmente (cade l’alba, «a rintocchi», cadono le bombe e anche la luna «pende…») , anche se lei non vorrebbe («purché tu non/ cada») e cade lei stessa (con una reminiscenza dantesca: «caddi tremante nelle/ braccia di Dio»), fino a precipitare con il corpo quel giorno del 1996 in cui decise di gettarsi dalla finestra del suo appartamento: «per la fibra dell’universo che rifiuta di cadere ad ogni/ nostra caduta…».

A

Mi piacerebbe impedire, con un decreto-governativo, agli specialisti e ai professori di avvicinare i suoi versi lunghi - a volte due endecasillabi - così puntigliosamente elaborati e carichi di una musicalità dissonante, con quel dettato altissimo però sfiorato qui e là dalla disarmata semplicità di una canzonetta: «Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio/ cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta/ del bar vicino»). Versi lunghi, sdrucciolevoli, poiché lei non vuole riprendere fiato, e anzi dice la sua verità, ustionante o lieve, fino in fondo. La lingua è come straniata dai lapsus (volontari e non), da citazioni storpiate da altre lingue («le pulchre abitudi-

il club di calliope

ni»), da errori lessicali, dalle sgrammaticature: non «sulla sua passione» ma «su della sua passione» (che sembra una reminiscenza del Belli…), e così «dentro della preghiera rimaneva…», «dentro della conoscenza risiedeva…», «dentro del caffè…», «dentro del mare…», o anche «contro d’ogni impero…», etc.

Pasolini ebbe a notare che il lapsus nella Rosselli «si fa da sé», espressione di una lingua «imposseduta» dall’autrice (e di un «nucleo spirituale inesprimibile razionalmente»). È dunque qualcosa di «oggettivo» e di liberatorio imparentato con gli esperimenti dei surrealisti. Le sillabe sono per lei particelle ritmiche e insieme vanno a comporre quelle «idee» che sono anche solo delle congiunzioni, degli articoli: «come» o «il» sono per la Rosselli idee! L’elemento semantico si incardina sulla sonorità, da essa indistinguibile. Il registro alto è interrotto, come prima accennavo, da materiali «bassi», da inserti della conversazione quotidiana: «Che cazzo vuoi disse il portiere alla portinaia difficoltosa/ credi ch’io non sia capace. L’estraneo». «Il cuore pensa: nulla può fermarlo dal pensare/ “il cuore è buono”, non ce la faccio più/ a guidare il rinoceronte (…)» (Serie ospedaliera, 1963-1965). La poesia penetra nei pensieri segreti del cuore su se stesso, come non potrebbe fare nessuna sonda. E poi nella sua musicalità post-seriale irrompe ogni tanto come una immagine aliena (o infantile, ispirata dal mondo animale: qui e altrove la figura del

rinoceronte, o «Due tigri nel giardino…», «due scimmie solcarono l’anima di tracce invisibili», o il sonetto che suona «con le campane/ ei muli», o in una poesia tarda «il mondo è sottile e piano:/ pochi elefanti vi girano, ottusi»), un grido di dolore, la confessione di una impossibilità. La poesia che ho scelto comincia con una diagnosi realistica, sconsolata sull’umanità terminale del Novecento, che può vantarsi di due invenzioni, come scrisse una volta Elsa Morante: l’automobile e l’atomica, entrambe apocalittiche. Lei dichiara di voler vincere la sua battaglia contro il male, ma sembra perdersi per strada, e così la parole si addensano, si ripetono («fandonie» per tre volte in poche righe), incapaci di darsi un ordine. In questo panorama desolato c’è però l’epifania dell’amore, della sua stella cadente che brilla nonostante tutto, quell’amore «che ci divide e ci unisce»), l’amore che «era un gioco instabile; un gioco/ di fonosillabe».

Il canzoniere di Amelia Rosselli (che si autodefinisce «fiore strampalato»), benché disseminato di segni cifrati, è insieme spigoloso e misteriosamente accogliente, ipnotico e seduttivo. Sembra governato da leggi proprie, dal semplice aspetto grafico, da una delimitazione spaziotemporale interamente determinata dal primo rigo, da una musica silenziosa, enigmatica (scandita da indicazioni precise: «nella lettura ad alta voce ciascuno dei versi era poi da fonetizzarsi entro identici limiti di tempo») ed elaborata nella teorizzazione di una «nuova prosodia», basata non sul numero delle sillabe ma su valori di quantità, intensità, durata e intonazione (Giovanni Giudici, nella prefazione all’opera poetica della Rosselli). Ma si apre improvvisamente all’altro, all’alterità nascosta misteriosamente in chiunque di noi. A volte prossimo alla paranoia, al delirio (che come ci insegna la psichiatria è a sua volta metafora di situazioni molto reali), alla malattia mentale, è in grado di comunicare con chiunque avverta dentro di sé quello stesso malessere, con chiunque «non può dormire di notte/ facilmente ingannato dalla marcia della/ vita» (Documento 1966-1973).

QUELLO CHE RESTA DOPO LO SGUARDO in libreria

Sì, ricordo: chi viene dalla notte ha il suo segno di luce, vivo o spento, cerchio ovale o losanga, e il suo lamento o il suo silenzio nelle appena rotte tenebre della strada. Ma non sento se era a dinamo o a pila la tua spora, anima, quando non essendo ancora mi sfioravi nel buio come un vento.

Giovanni Raboni da Versi guerrieri e amorosi 1984-1989

di Loretto Rafanelli

a bella antologia Le terre emerse di Fabio Pusterla (Einaudi, 216 pagine, 16,00 euro) permette di conoscere la produzione di uno dei più importanti poeti della Sesta generazione poetica nazionale, per quanto egli sia del Canton Ticino. Il libro raccoglie una discreta scelta di poesie dei cinque volumi da lui pubblicati dal 1985 al 2008, presso Casagrande e Marcos y Marcos.Temi svariati quelli ripresi nelle sue poesie, alcuni decisamente originali: dalla vicenda del cuoco suicida Vatel alla descrizione del villaggio operaio Crespi d’Adda, dalla epica figura dell’«ascoltatore radiofonico» Robin, alla pietra di scagliola. Ma Pusterla è essenzialmente il poeta della natura, delle cose, degli animali, che compaiono quasi di continuo nei suoi versi, tuttavia, a differenza di alcuni autori, quali ad esem-

L

pio Frost o Bacchini, questo mondo pare un mondo cristallizzato e separato, quasi come fosse racchiuso in una bacheca, oggetto freddo e senza alcuna vita, oppure, ribaltando la prospettiva, il mondo degli umani separato e congelato, corpo vitreo, ridotto in una teca. Certo è che un tale disorientamento/spiazzamento emerge con chiarezza in alcuni versi dello scrittore: «La disfunzione è altra, è nei vapori/ che velano le cose… l’esilio comunque è in questo/ non essere intero mai, non esistente del tutto/ nell’istante, e sempre distante/ dal vero». Pusterla vede una società nel finire e avverte:«Cerca quello che resta/ dopo lo sguardo». Perché il nostro percorso è quello di chi «tornando da un lungo viaggio» non può che sentirsi «come in un cimitero di memorie» e sa che «non si può più parlare delle cose».


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di Pietro Gallina l Postino, opera lirica in tre atti del compositore messicano Daniel Catán (1949-2011) - commissionata dall’Opera di Los Angeles - ha debuttato giorni fa allo Châtelet di Parigi con convincente e sorprendente successo. La composizione è basata sull’omonimo film diretto da Michael Radford nel 1994 (con protagonisti Massimo Troisi, Maria Grazia Cucinotta e Philippe Noiret, tratta dal romanzo Ardiente Paciencia del cileno Antonio Skármeta). Autore di cinque opere - Encuentro en el ocaso (1980), La hija de Rappaccini (1991), Florencia en el Amazonas (1996), Salsipuedes, a Tale of Love, War, and Anchovies (2004), Il Postino (2010) - Catán era uomo coltissimo e di formazione universale: nato in Messico da genitori ebrei sefarditi di origine russa, studiò in Inghilterra filosofia e negli Usa, a Princeton, allievo di Milton Babbit, ottenne il Ph.D in musica. Amico del Premio Nobel Octavio Paz, era anche un avido studioso di letteratura. Stabilitosi per un tempo in Giappone, con soggiorni in Indonesia, ritornò in Messico e si dedicò essenzialmente alla composizione di opere, ma anche di musica da camera, sinfonica e colonne sonore per film e televisione. Con Placido Domingo stabilì una grandissima amicizia che servì anche a stimolarlo e consigliarlo nella sua ultima opera, appunto Il Postino, per la quale Catán pensò di affidare il ruolo di Neruda al celebre tenore. E nel caso del Postino è singolare che un ruolo come quello di Neruda, il quale dovrebbe essere di baritono, avendo la parte di tenore il postino Mario Ruoppolo interpretato da Charles Castronovo, invece venga affidato a un altro tenore! Bisogna anche rilevare che Catán riuscì, con la sua opera del 1994 Rappaccini’s Daughter, a far rappresentare per la prima volta un lavoro lirico in lingua spagnola negli Stati Uniti. Ma per tornare al successo del Postino sulle scena parigina, si può pensare che forse esso sia dovuto al fatto che la storia del semplice postino, il quale dice a Neru-

I

spettacoli Opera Il Postino (con Domingo) conquista Parigi MobyDICK

Sopra, il compositore messicano Daniel Catàn, autore dell’opera lirica, commissionata dall’Opera di Los Angeles, che ha esordito allo Châtelet di Parigi. A destra, Placido Domingo nei panni di Pablo Neruda e sotto, una scena della rappresentazione da di voler imparare la poesia, sia ormai divenuta universalmente celebre. O magari una parte del successo va attribuita a Placido Domingo, essendo sempre più rare le sue apparizioni di tenore. E anche la morte recente dello stesso compositore e librettista Daniel Catán, scomparso dopo il debutto del Postino a Los Angeles nel settembre scorso, può essere stato un elemento di richiamo. Ma alla prima di Parigi si è avuta l’impressione che le ragioni

del successo risiedano nella qualità dello spettacolo in sé, pur considerando il concorso dei temi citati. Una musica di piena orchestrazione tardo romantica-hollywoodiana, - nella struttura wagneriana (senza pezzi chiusi) - con atmosfere e respiri principalmente pucciniani e straussiani e un tocco qua e là di modernismi da Debussy, Strawinsky e Berg fino ai nostri giorni. Eppure un autore che ha messo in melodramma un film

Televisione

dà l’idea appunto di voler trasportare la storia sulla scena con lo stesso modulo del cinema, ovvero comporre una bella colonna sonora dal vivo con i personaggi in carne e ossa. Alla riuscita dell’opera è stata di molto aiuto la regia di Ron Daniels che ha fatto muovere i personaggi davvero naturalmente e spontanemente, senza immobilismi o prolissità; si aggiunga pure una scattante semplicità e chiarezza nella scenografia, con uso di immagini proiettate e mezzi tecnici impiegati con rapidità nei numerosissimi cambi di scena. L’Orchestra Sinfonica di Navarra diretta da un ispirato Jean-Yves Ossonce e la quadratura di un cast di canto affiatato e spronato al massimo della preparazione dall’icona Domingo, specialmente con Amanda Squitieri e Cristina Gallardo-Domâs, hanno fatto il resto. Il pubblico ha ringraziato come se avesse colto il pulsare antico del belcanto nell’opera del compositore nato in Messico, la quale però di messicano non ha proprio nulla.

“Falling Skies”, un serial per famiglie ma con gli alieni hissà se questa estate, per dieci martedì, la gente affollerà di meno gelaterie e pizzerie per seguire, sul canale Fox di Sky le puntate di Falling Skies, annunciate come un prodotto partorito «dalla mente geniale di Steven Spielberg». Tutto può andare bene, o abbastanza bene, quando fuori piove e fa freddo. Il caldo e le vacanze sono gli antagonisti più micidiali dei serial televisivi. Chi possiede un registratore My Sky ha una scappatoia. Molte persone, soprattutto giovani, hanno già assaggiato la serie fantascientifica su Internet, in lingua inglese. E a questo proposito posso dire che sono stati avvantaggiati dato che il doppiaggio ha molte falle, a tal punto da caricaturizzare alcuni personaggi. L’inizio di Falling Skies è meritoriamente insolito: gli alieni ci sono già e si comportano da padroni. Sono di

C

due tipi: robot a due gambe e insettoni con sei zampe. Mostruosi, efficaci nella violenza sterminatrice. Spazzano via tutto anche con navicelle spaziali. L’idea di Spielberg (che è coproduttore, mentre il copione è stato scritto da Robert Rodat) è quella di focalizzare immediatamente il movimento di resistenza degli umani, molti dei quali, in specie giovanissimi, sono stati schiavizzati mediante inserimenti meccanico-larvali nella colonna vertebrale. I killer d’acciaio a due gambe hanno il passo militare, che ri-

corda il rumore degli stivali nazisti. E ci si chiede subito se il serial non contenga, in parte o in toto, un’ambizione metaforica o comunque una riproduzione in veste apocalittica delle pagine più brutte della storia, quelle delle colonizzazioni. Non è mai invecchiata, purtroppo, l’idea di dominare il mondo o vaste zone del mondo. Può tuttavia essere banalmente datata la fiction che si rifà - dopo alcuni buoni film su scontri interstellari - allo scatto d’orgoglio dell’uomo non più padrone in casa propria. Non è un caso che il primo attore sia un docente di Storia, che ricorda come minoranze oppresse abbiano sovente avuto la meglio su eserciti creduti invincibili. E qui sta il fulcro della vicenda di chi si oppone agli invasori venuti dallo spazio. Scatta la dinamica di tutte le resistenze. Ci sono i militari che, vista l’emergenza, impartiscono ordi-

ni. Ci sono i civili, talvolta considerati dai primi solo una zavorra, un ostacolo alla strategia bellica (finora modesta). Emergono inevitabilmente gli stereotipi: il capo militare ottuso, l’intellettuale che sa vincere perché ha letto più libri di un generale, il medico donna sul cui volto cala fin dalle prime scene il bagliore dell’eroismo intelligente, il figlio che rivaluta la figura paterna. Gli insettoni meccanici sono una sorta di rumore di sottofondo, al centro prende corpo la complessità del gruppo sociale. Ha ragione il Chicago Sun Times quando scrive che questo serial «è un fidato dramma familiare, ma con gli alieni». La narrazione popolare è fatta di stereotipi, ma pur riflette la vita. Certe volte però si esagera, si scivola in meccanismi ripetitivi. Il capo degli «sciacalli» che non aderiscono alla resistenza è filmisticamente patetico, sguaiato come si agitasse in un fumetto. Ho il timore che il déjà vu sia più potente dell’estate (p.m.f.) che invita tutti al bar.


MobyDICK

Cinema

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di Pietro Salvatori

n weekend interlocutorio per le sale italiane. Dopo la sbornia di Transformers 3 e in attesa di Harry Potter, che con I doni della morte parte II si avvia, a quattordici anni dalla comparsa in libreria del primo volume, alla sua conclusione anche sul grande schermo, chi volesse rifugiarsi nella frescura della sala come rimedio al grande caldo o per ostinata e inesauribile passione dovrà accontentarsi di pellicole il cui appeal, almeno a dar retta alla loro esposizione pubblicitaria, non è una freccia da poter scagliare per attirare frotte di fans adoranti in sala. Il ventaglio segreto è senza dubbio la pellicola che condensa le maggiori aspettative. Il film firmato da Wayne Wang, autore nato a Hong Kong ma ormai da qualche decennio adottato da Hollywood, si ispira a Fiore di neve e il ventaglio segreto, best-seller internazionale di Lisa See, giornalista del Washington Post e di Cosmopolitan. Non un libro per tutti i gusti, ma chi l’ha letto ne è rimasto folgorato. Sul celebre portale Internet Bookshop, il pubblico che vi si è approcciato gli ha attribuito il ragguardevole punteggio di 4,56 su 5. La storia si snoda lungo la Cina del XIX secolo, seguendo lo stesso percorso a ritroso della sua autrice, sovente di casa nel Paese della Grande Muraglia alla ricerca delle proprie origini familiari. Una Cina in cui le donne sono costrette a bendarsi mani e piedi, vengono inibite a comunicare con il mondo maschile ma anche fra di loro. Sviluppano così il nu shu, un codice linguistico che sfrutta le decorazioni dei ventagli, i ricami sui fazzoletti, le incisioni sul legno per comunicare fra di loro, raccontandosi storie fantastiche e piccole cose quotidiane.

U

Fiore di neve e Lilly sono due bambine coetanee, il cui destino viene inesorabilmente segnato dall’esser state sottoposte alla pratica della fasciatura dei piedi nello stesso giorno. Una volta diventate adulte e ormai date in moglie ai rispettivi mariti, le due donne fanno uso del nu shu utilizzando un magnifico ventaglio bianco, presente nel titolo dell’opera letteraria ma cassato dalla locandina del film. Fin qui i punti di contatto tra carta stampata e pellicola sono molti, compreso l’utilizzo della tecnica narrativa del flashback di una ormai quasi novantenne Fiore di neve. Ma alla storia principale gli sceneggiatori affiancano una trama parallela. Le protagoniste Nina e Sophia, due discendenti delle donne del nu shu, cercano di conservare in maniera duratura la loro amicizia, nata sin dai tempi della loro infanzia, nonostante le loro carriere impegnative e le loro vite amorose complicate. Ci troviamo in una Shanghai in continua e velocissima evoluzione, una metropoli dinamica che fa da contrasto con le lezioni che il passato offre alle due donne. Nina e Sophia, persone perfettamente calate nella complessità dell’era moderna dovranno riuscire a comprendere il significato della storia della loro unione ancestrale celata tra le pieghe dell’antico ventaglio bianco di seta. L’orpello narrativo condito da più che sottili riferimenti a un sofferto amore saffico, non aiuta Wayne Wang a rendere il suo film appetibile. Fattosi notare per Smoke, piccola perla che una quindicina di anni fa ottenne spazio, visibilità e un Leone d’argento alla mostra del cinema di Berlino, dopo Blue in the face, che di Smoke era una sorta di ideale seguito, la carriera dell’autore di Hong Kog ha assun-

Il ventaglio

perduto

di Wayne Wang

È un’occasione mancata dal regista di Hong Kong il film che si ispira al best seller di Lisa See sulla condizione delle donne in Cina e sul loro codice linguistico “nu shu”. Diverte “Balkan Bazaar” di Edmond Budina. Molto meno il film che Franco Columbu dedica a se stesso

to una parabola nettamente discendente. Che il regista abbia perso smalto lo testimonia senza ombra di dubbio la lentezza laccata di una pellicola che ha il sapore di un polpettone stracotto, che prova a emozionare in maniera talmente sfacciata che si finisce più per fare caso con disappunto agli intenti dell’autore che non al (lento e stucchevole) dipanarsi del racconto. Ed è un vero peccato, perché le possibilità di entrare in dialogo con una realtà, come quella cinese di oggi, così diversa eppure in sinistra continuità con la propria omologa del secolo scorso, viene sprecata malamente per gettarsi nelle braccia di un melò che ha poco da offrire se non ai maniaci del genere. Che potranno vederlo in anteprima, visto che la Eagles ha acquisito la possibilità di farlo uscire in Italia come Paese pilota. Il pubblico della penisola sarà così il primo a poterlo vedere.

Edmond Budina ci strappa dalle soffuse atmosfere del Ventaglio segreto per portarci in quelle un po’scalcagnate ma ilari di una commediola che ha il merito di mettere insieme produttori italiani e albanesi a lavorare su uno stesso progetto. Cosa assai rara e difficilmente digeribile da parte dei grandi distributori, che in effetti hanno impiegato quasi un anno a far uscire al cinema un filmino che non sarà eccezionale, ma che presenta alcuni aspetti effettivamente gradevoli. La trama è il consueto, semplice, spunto per la più classica delle commedie degli equivoci: Julie ha quarant’anni, è francese e dopo il divorzio dal marito italiano decide di tornare a vivere in Francia. Nel tornare alla terra natia, decide di portare a casa anche le spoglie del padre, un ex ufficiale dell’esercito deceduto e sepolto in Italia. Ma la bara non c’è più. Per sbaglio è stata spedita in Albania. Budina gioca la sua partita nel campo del contrasto tra il placido e agiato mondo occidentale, tutto preso dai propri impegni e dalle proprie nevrosi, e la ruralità grossolana e bonacciona di un’Albania colta nei suoi angoli più nascosti. Un mix mescolato con garbo, un po’ didascalico nel suo gioco di chiaroscuri, ma che riesce a dosare con sufficiente verve gli aspetti ilari con quelli più malinconicamente ironici. L’uscita albanese di Balkan Bazaar ha dato il là a non poche polemiche. La Chiesa ortodossa d’Albania ha protestato vivacemente per il finanziamento di un film che, a suo avviso, la denigra. Una posizione che ha provocato una levata di scudi analoga e speculare di una serie di intellettuali e artisti sqipetari, indignati dall’intromissione della gerarchia ecclesiastica in una faccenda attinente alla sfera prosaica di attori, botteghini e popcorn. Forse anche grazie alla contesa dialettica, o forse no, Balkan Bazaar è nel frattempo diventato il maggior incasso della stagione a Tirana e dintorni, surclassando anche i più quotati blockbuster internazionali. Ma in Italia questo è anche il weekend di Dreamland, produzione che ha infestato le città italiane con dei manifesti 6x3 così approssimativi che hanno fatto pensare per un po’ che non si trattasse effettivamente di un film, quanto piuttosto di una trovata pubblicitaria per una gara di Franco Columbu, due volte Mister Olympia, che è un po’come dire campione del mondo nel body building. Invece proprio di un lungometraggio si tratta, nel quale Columbu interpreta se stesso in un’accozzaglia di luoghi comuni mal girati e peggio interpretati sugli italiani negli States. Il trailer sostiene che «scriverà una nuova pagina nella storia del cinema italo-americano». Siamo d’accordo: quella delle barzellette.


ai confini della realtà I misteri dell’universo

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MobyDICK

di Emilio Spedicato

a ragazzo ero un lettore accanito, ma libri in casa ce ne erano pochi, quasi tutti perduti nel bombardamento che distrusse la casa da cui eravamo sfollati. Leggevo senza difficoltà seicento pagine in un pomeriggio, e avendo pochi libri questi erano letti e riletti. Libri di autori allora raccomandati per i ragazzi (I ragazzi della via Pal, di Ferenc Molnar), e i grandi romanzi di avventure di Emilio Salgari e quelli con elementi scientifici di Jules Verne. Il primo lavoro scientifico che lessi fu la sintesi di Mondi in collisione di Immanuel Velikovsky, pubblicata da Selezione, tradotto dal Reader’s Digest, libro che fu un best-seller e suscitò un clamoroso dibattito nel mondo astronomico. Sempre ragazzo lessi una sintesi della teoria di Wegener sulla deriva dei continenti, che mi affascinò profondamente, poi in anni liceali lessi tre libri che influirono sul mio futuro. Il primo fu Materia e antimateria di Ginestra Amaldi, la figlia del grande fisico Edoardo Amaldi, amico di Fermi e Majorana. Un libro scritto molto chiaramente dove si davano le basi della fisica atomica e subatomica. Gli altri due, letti alla fine del liceo e decisivi per la mia iscrizione a fisica, furono L’Universo, pianeti, stelle e galassie di Margherita Hack, e Che cosa è la matematica di Richard Courant (cui è ora dedicato un prestigioso centro matematico a NewYork) e Robbins Herbert.

D

Incontrai Margherita Hack nel maggio del 1970 quando, lavorando al centro di ricerche nucleari Cise di Milano ma ancora avendo l’astronomia nel cuore, partecipai a un convegno di astrofisici a Erice. Non ho ricordi di carattere tecnico di quel convegno, svoltosi nella meravigliosa cittadina sulla cima di un monte da cui si vedono le isole Egadi e qualche volta la Tunisia. Cittadina medioevale, case in bella pietra chiara, conventi trasformati in luoghi per lezioni o incontri, grazie al professor Zichichi. Dei partecipanti ricordo in primis Erasmo Recami, poi mio collega a Bergamo, studioso di Majorana e autore di fondamentali scoperte sulla superluminalità. Ricordo il passaggio che mi diede con la sua 600 sino a Catania, dove lavorava, per le strade tutte curve e saliscendi di un tempo, i campi verdissimi di grano non maturo, e i contadini in groppa a un asino e coperti di una palandrana nera. E ricordo Margherita Hack, donna di notevole bellezza, di grande dinamismo, e la migliore di tutti nel nuotare davanti alle rovine di Selinunte, dove la spiaggia sabbiosa era, se ben ricordo, di un colore rossastro. Non ho poi avuto occasione d’incontri significativi con la Hack, essendo divenuto un matematico computazionale. La ricordo a uno dei convegni a Venezia su Matematica e cultura e rammento che fu invitata al cinquantenario della fondazione dell’osservatorio del Campo dei Fiori, presso Varese, alla cui costruzione io partecipai un poco, e dove scrissi la mia tesi per la laurea in fisica. Da quando la Hack scrisse il libro citato, l’astronomia ha fatto passi immensi, grazie alle sonde spaziali, ai telescopi molto più potenti, agli strumenti da calcolo più raffinati. Nel primo dopoguerra il grande astronomo Hoyle scrisse un libro di

Tu chiamalo se vuoi…

Energia astronomia, dicendosi sicuro che quanto vi era scritto di lì a cinquecento anni non sarebbe cambiato se non marginalmente. È quasi tutto cambiato invece, e radicalmente; si pensi che allora pochi credevano a sistemi planetari extrasolari, che ora sappiamo esistere forse per la maggioranza delle stelle (e per gli oggetti intermedi fra stelle e pianeti chiamati nane brune...). E che la formazione di un pia-

camente varie tematiche principalmente cosmologiche alla luce delle attuali conoscenze, o non conoscenze, dato che l’intero sistema della fisica di base è in crisi, con centinaia di particelle introdotte ma non rivelabili per spiegare la massa oscura (dimenticando la teoria di Eulero, Lesage, Van Flandern...) e la teoria delle stringhe che ha portato anch’essa a tantissimi risultati non corrispondenti alle

Si professa atea Margherita Hack, e il titolo del suo nuovo libro insiste sulla caratteristica, seppure i contenuti si distanzino da questa tematica. Ma la scienziata è comunque disposta a vedere Dio nella cosa che domina l’universo... neta gassoso, che si riteneva richiedere circa dieci milioni di anni, impiega invece solo circa un secolo come dimostrato da Meyer et al! Non si conoscevano gli oggetti Apollo e ben pochi crateri da impatto sulla Terra, ora ne sono conosciuti tanti e anche di origine recente. Addirittura uno sulle coste dell’Australia, verso il 540 AD, avrebbe causato la cosiddetta peste di Giustiniano nella regione Mediterranea e la carestia in Cina che portò l’imperatore al suicidio e il popolo al cannibalismo. Nel recente libro Il mio infinito, Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea (Dalai editore, 208 pagine, 17,50 euro), la Hack presenta sinteti-

osservazioni, ma comunque accettati come validi in qualche universo parallelo, anche se mai accessibile... (e lasciamo da parte il caos nel mondo particellare, su cui il Nobel Leon Lederman ha espresso le sue perplessità nel bellissimo libro The God particle). Il riferimento all’ateismo è più nel titolo che nel contenuto del libro, scritto da persona equilibrata, che a un certo momento, riconoscendo nell’energia l’aspetto dominante dell’universo, dice che potrebbe vedere Dio in tale energia. E ricordiamo che Hoyle nella sua maturità scrisse il libro The intelligent universe. Qui vede l’universo dominato da una intelligenza,

che anch’essa potrebbe essere chiamata Dio, soprattutto in relazione al problema della vita che lui, nello scenario di un universo finito nello spazio e nel tempo, ritiene impossibile essersi formata per caso... Chi sia Dio è certo un enigma anche per i teologi, ricordiamo che San Tommaso, dopo la visione mistica dei suoi anni avanzati, smise di scrivere e giudicò di poco valore quanto aveva prodotto nella sua Summa. E che dire dei milioni di pagine di commenti che si trovano nel mondo buddista... lo specifico del Dio di cui parla Gesù è l’amore per l’uomo, che non ritroviamo, direi, nel Dio mosaico, nel Dio (unico e antecedente nella unicità a quello mosaico) dei Turchi, detto Tengri... o dei Kalasha, la piccola tribù dell’alto Chitral che conserva riti anche prevedici.

Potrei considerare alcune affermazioni del libro obiettabili. Mi limito a ricordare che le legge E = mc^2 fu presentata da Olinto De Pretto, amico del padre di Einstein, in una conferenza a Milano e fu pubblicata con la dimostrazione in un articolo nel Tomo LXIII parte seconda, 1903-04, degli Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti; è un lavoro di 37 pagine, con commento e lode di Schiaparelli. De Pretto aveva riderivato la teoria di Eulero e Lesage che spiega l’attrazione fra corpi, fenomeno mai spiegato da Newton e invero nemmeno da Einstein perché il modello della palla che cade in una buca dello spazio curvo è logicamente errato. De Pretto propone inoltre una spiegazione sulla natura dell’etere. E che l’etere non esista, come è affermazione moderna, per l’esperimento di Michelson e Morley è pure affermazione discutibile, dopo che tre fisici matematici russi hanno provato in un lungo recente articolo degli Annali dell’Università di Kazan che i due americani utilizzarono leggi dell’ottica in modo errato.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Pensioni, questo governo ormai fa la voce grossa con i deboli TERZO POLO: EPPUR SI MUOVE. Nonostante le difficoltà oggettive che si presentano sullo scenario politico nazionale e regionale, il Terzo Polo, superando tatticismi ed egoismi territoriali lentamente prosegue nel proprio cammino. In Basilicata si verifica lo stesso clima. C’è chi crede in questa formula nuova che mette in chiara crisi il traballante bipolarismo: elezioni amministrative, lo stesso referendum si sono prestati a questa chiave di lettura; c’è invece chi intralcia il nuovo progetto con argomentazioni che hanno un respiro corto e che costringono a svolgere ruoli marginali e condizionati dall’esuberanza del Pd. Eppur qualcosa si muove. Lo abbiamo visto nella composizione, in alcuni comuni importanti, di liste del Terzo Polo con risultati interessanti (Pisticci, Melfi, Rionero), come nel nascente nuovo Polo a livello regionale che si presenta come un evento politicamente da leggere in chiave positiva per il semplice fatto che trattasi di movimenti politici che si sono spostati verso il centro provenendo dal centrodestra. La stessa cosa possiamo dire di Fli che, celebrando il primo congresso provinciale a Potenza, ha rimarcato la convinta determinazione a costituire in regione il Terzo Polo. Per quanto ci riguarda, come Udc, abbiamo seguito le direttive nazionali e abbiamo accompagnato questo processo partecipando ai lavori del tavolo regionale nelle sue fasi costituenti e intendiamo accelerare il progetto trasferendolo dal piano strettamente istituzionale a quello politico. Di questo daremo conferma nella Prima Convention Nazionale che si terrà a Roma il 22 luglio alla quale porteremo il nostro contributo. Per esser chiari, se il nuovo Terzo Polo trova un suo riconoscimento formale nella massima Istituzione Regionale, a maggior ragione l’Udc ha l’interesse ad accompagnare questo processo stando in prima fila e seguendo gli sviluppi con attenzione e serenità. Per onor di cronaca ricordiamo che Casini è stato il primo assertore di questo nascente Terzo Polo. Auspichiamo, da ultimo, che l’esempio dato dai terzopolisti a livello regionale venga seguito, con la nascita del Terzo Polo, nelle province e nei comuni della Basilicata. Gaetano Fierro Presidente Coordinamento Regionale Udc - Basilicata

La previsione della ridotta rivalutazione annuale delle pensioni superiori a 1400 euro mensili e la mancata rivalutazione di quelle di poco superiori si traducono in una effettiva riduzione delle stesse, in considerazione del costante aumento delle addizionali comunali e regionali autorizzate dal governo, a seguito delle riduzioni dei contributi nazionali ai bilanci dei comuni e delle regioni. Se si aggiungono: il diminuito potere di acquisto della moneta a causa dell’inflazione, il progettato aumento dei ticket per medicinali e visite specialistiche, è evidente la situazione drammatica che attende i pensionati. Ogni commento è superfluo. Un paragone però è necessario: ai pensionati si chiede di stringere ancora di più la cinghia dei pantaloni mentre si riducono le tasse ai più ricchi. L’aliquota massima dell’Irpef viene ridotta al 40%. Ne beneficeranno di un punto quelli che hanno un reddito di 55mila euro e di tre punti tutti i redditi superiori a 75mila. Il divario economico aumenterà e si avvicineranno alla fascia dei più poveri moltissimi pensionati. In questo modo non mi pare si rilanci l’economia e la crisi rischia di aggravarsi come fu con la tassa sul macinato introdotta da Quintino Sella. Certo è facile essere forti con i più deboli, come ricorda una vecchia massima popolare.

Luigi Celebre

LA RACCOLTA DIFFERENZIATA NON BASTA La questione rifiuti a Napoli va affrontata sì con la raccolta differenziata, che va incentivata, ma anche con una politica seria e responsabile. Il sindaco Luigi De Magistris deve individuare subito i siti per le discariche e adoperarsi affinché siano funzionanti i termovalorizzatori. Solo in questo modo il problema dei rifiuti a Napoli potrà risolversi e non ripresentarsi sistematicamente in tutta la sua drammaticità. Ci vuole buona volontà per realizzare un sistema di gestione dei rifiuti efficiente, e purtroppo i napoletani fanno le spese di una cattiva programmazione che non ha mai raggiunto livelli di autosufficienza.

Fabio Coppola

BENZINA. QUANDO L’AUMENTO È INCOMPRENSIBILE Incomprensibile. Non possiamo che definire così l’aumento del costo della benzina che è arrivata a 1,64 euro al litro, mentre diminuisce il costo del barile di petrolio. Vediamo. Nel luglio 2008 il prezzo del petrolio era di 93 euro al barile e il prezzo della benzina era di 1,56 euro al litro. Nel luglio 2011, ossia oggi, il prezzo del petrolio è di 65 euro al barile e quello della benzina è arrivato a 1,64 euro al litro. Insomma, mentre il prezzo del petrolio diminuisce, addirittura del 30%, quello della benzina aumenta

in modo sproporzionato, anche considerando l’aumento di 4,19 centesimi di accisa più Iva. Sono i misteri dolorosi per gli automobilisti e di tutto il sistema dei trasporti che viaggia, in prevalenza, su gomma.

Primo Mastrantoni

VACANZE E ANIMALI DOMESTICI Come ogni anno in vista del periodo delle vacanze estive si verificano i picchi massimi del fenomeno dell’abbandono di animali domestici. I dati enunciati dal sottosegretario alla Salute Francesca Martini stimano in circa 600.000 i cani randagi sul territorio italiano, e 300.000 (su una popolazione di circa 7 milioni di cani e altrettanti gatti). Se a questi aggiungiamo i dati diffusi dalla Lav, sono circa 150mila i cani che ogni anno vengono abbandonati e di questi circa 40mila nel periodo estivo. Ben vengano le campagne contro l’abbandono degli animali e del randagismo accompagnate da misure e provvedimenti come la microchippatura, e sanzioni penali e amministrative. Ma queste dovrebbero essere accompagnate da misure positive per promuovere vacanze con gli amici a 4 zampe. Esistono siti Internet e associazioni che elencano località turistiche più facilmente frequentabili. Eppure il tutto sembra ancora essere lasciato alla libera iniziativa delle compagnie e dei servizi di viaggio e

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Cinquanta singhiozzi al minuto Da oltre tre settimane ormai Jennifer Mee, che abita in una piccola e tranquilla cittadina dello stato della Florida, non riesce a darsi pace. Continua a singhiozzare arrivando fino a 50 singhiozzi in un minuto. Nelle ultime tre settimane Jennifer è ricorsa a tutti i metodi di cura tradizionali. E nel giro di pochi giorni dai blog e via mail sono arrivati centinaia di consigli, tutti finora inutili. Anche i dottori si sono trovati di fronte a un rebus. Come ogni giorno, la ragazza si è svegliata per andare a scuola e d’improvviso ha cominciato a singhiozzare senza più fermarsi. Solamente quando va a dormire di notte, e con l’aiuto di Valium, il disturbo cessa, ma solo momentaneamente. Cardiologi, pediatri e neurologi hanno provato di tutto: test del sangue, tomografia computerizzata, risonanza magnetica e diversi medicinali. Purtroppo, ancora niente da fare per la giovane donna. Non va a scuola e non riesce a mangiare normalmente. Ingerire acqua a piccoli sorsi, prendere un cucchiaino di aceto, favorire uno starnuto, inghiottire rapidamente un cucchiaino di zucchero o prendere un cucchiaio di succo di limone puro: la madre ammette di aver provato tutti i metodi tradizionali.

di ricezione turistica, mentre, per contro, numerosi comuni dotati di spiagge, hanno deliberato negli ultimi anni di vietarne l’accesso agli animali domestici con la previsione di pesanti sanzioni per i proprietari inosservanti di tali divieti.

D.P.

LE PROMESSE DA MARINAIO DEL GOVERNO Gli italiani possono constatare ogni qualvolta si recano ai distributori per fare il pieno che il governo promette ma non mantiene. Solo poche settimane fa si era impegnato a non aumentare ancora l’aliquota dell’accisa per sostenere il Fondo unico dello spettacolo, individuando altrove il reperimento di risorse. E invece, dal 1° luglio 2011 sono operativi gli aumenti governativi delle accise di benzina e diesel (+ 0,19 cent/litro) per finanziare proprio il Fus e le agevolazioni fiscali per il cinema.

Lettera firmata

ABOLIZIONE DELLE PROVINCE Non si capisce più nulla: il Pdl che ha sempre promesso durante tutta la campagna elettorale di voler diminuire i costi della politica, promettendo ovunque l’abolizione delle province, si rimangia le promesse; stessa cosa dicasi per il Pd, che ogni giorno si dice pronto a tagliare i costi della politica, e poi non vota per la soppressione di questi enti. Ma allora si vogliono tartassare solo i comuni mortali e lasciare indenni gli appartenenti alla casta politica.

APPUNTAMENTI LUGLIO VENERDÌ 22 - ORE 11 - ROMA AUDITORIUM CONCILIAZIONE Iª Convention Nazionale del Terzo Polo per l’Italia

LE VERITÀ NASCOSTE

Gianfranco Farini

Campeggio ad alta quota Anche i sostenitori delle vacanze avventurose potrebbero vacillare di fronte all’insolita “piazzola” scelta per queste tende. Per i campeggiatori che vi alloggiano, invece, si tratta di ordinaria amministrazione: quello che vedete, infatti, è il bivacco di una cordata di scalatori esperti immortalati da National Geographic Gordon Wiltsie sulle pareti del Great Sail Peak, un muro di granito che svetta sull’isola di Baffin, in Canada

FIOCCO ROSA A LIBERAL Mentre noialtri di liberal lavoravamo alacremente, lo scorso lunedì 4 luglio il nostro vice direttore Enrico Novi e sua moglie Annalisa abbracciavano per la prima volta la loro secondogenita Fulvia. A lei, alla sorellina Livia e ai genitori, i più affettuosi auguri di tutti i colleghi di via della Panetteria.


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“News of the World”: non si placa la bufera sul magnate di News Corporation. Che adesso rischia grosso. E Renault blocca le pubblicità su tutte le testate del gruppo

Il crollo dell’impero? I Murdoch sotto attacco. Ieri perquista anche la sede del “Daily Star”. E Cameron prende le distanze di Antonio Picasso er l’Hackgate quella di ieri è stata una nuova giornata campale. Il più grande scandalo nella storia del giornalismo britannico, che vede coinvolta la News Corporation di Rupert Murdoch, ha portato all’arresto di Andy Coulson, 43 anni ex direttore di News of the World e successivamente capo ufficio stampa del premier David Cameron. La mossa di Scotland Yard era prevista. Il fermo per il giornalista, infatti, è solo la conferma del progresso delle indagini. Queste stanno mettendo in luce un pericoloso teorema che rischia di lambire anche Downing Street. Un’altra

P

ziotti. Sarà soddisfatta la famiglia reale. Un po’ meno le forze di polizia. Se Goodman ha corrotto davvero alcuni agenti, anche questi devono essere scovati e inquisiti. Nel tardo pomeriggio, sempre di ieri, inoltre, si è svolta una perquisizione alla redazione del Daily Star, altro tabloid per cui lavora attualmente Goodman.

Al momento, tuttavia, la vera vittima del caso è la News Corp. Insieme al suo azionista di maggioranza ovviamente. Murdoch appunto. Lo squalo che ha saputo fagocitare nel suo impero transcontinentale le più illustri testate del giorna-

In manette Andy Coulson, l’ex direttore del tabloid britannico (ed ex portavoce di Downing Street) coinvolto nello scandalo intercettazioni. Il premier: «Siamo sotto choc» e promette chiarezza penna eccellente finita dietro le sbarre di New Gate è Clive Goodman, ex corrispondente per il News a Buckngham Palace e già ospite delle carceri britanniche nel 2007, per aver intercettato messaggi vocali dai cellulari di alcuni membri della casa dei Windsor. Per lui l’accusa è di corruzione di poli-

lismo anglosassone e che si è imposto come il più importante produttore televisivo al mondo. Italia parzialmente esclusa, come sottolineano le redazioni nostrane con una soddisfazione, francamente, poco giustificata. Domani News of the World, 168 anni di discutibile giornalismo scandalistico al

Sopra, il tycoon australiano Murdoch; la targa fuori la redazione del tabloid che domenica chiuderà. Sotto: Giuliana del Bufalo servizio del cittadino medio, sarà in edicola per l’ultima volta. La redazione paga pegno per gli errori e la totale mancanza di professionalità di cui sono stati responsabili i giornalisti che vi hanno lavorato 78 anni fa. Nel frattempo Rebekah Brooks, a suo tempo direttore della testata e oggi Amministratore delegato del gruppo, ha presentato le sue dimissioni. Murdoch le ha respinte. Una scelta che ha provocato la disapprovazione anche del governo Cameron. Il premier, in parte prendendo le

distanze dallo scandalo, ma anche con una mossa non in linea con la tradizione del mondo anglosassone – per cui la sfera pubblica non si dovrebbe intromettere negli affari privati – ha detto che, se fosse stato per lui, la Brooks sarebbe già fuori dalla porta.

Nel mentre che la giustizia faceva il suo, Cameron si è presentato ai media con l’intenzione di evitare qualsiasi congettura e spiegare il suo punto di vista. In merito a Coulson, sebbene amici «e resteremo ami-

ci», ha detto, il premier si è assunto la responsabilità del suo mandato a Downing Street. Immediata quindi al domanda se fosse stato avvertito che l’ex direttore del tabloid aveva legami con un detective privato accusato di omicidio – come hanno scritto il Daily Telegraph e il Guardian. «Non mi diedero alcuna specifica informazione su Andy Coulson. Non ricordo che lo fecero». Una dichiarazione reticente, quella di Cameron, visti i suoi rapporti tanto stretti con l’arrestato. Il giovane governo tory, da po-

L’ex direttore Rai, Giuliana Del Bufalo, commenta la vicenda inglese: «Il gossip ha distrutto l’informazione»

«La stampa è complice del mondo che condanna» ROMA. Spiavano anche una ragazzina vittima di un maniaco e i familiari di alcuni soldati inglesi morti in Iraq e Afghanistan. Spesso in combutta con frange prezzolate delle forze dell’ordine. «Dopo anni di retorici omaggi al purismo del giornalismo britannico», spiega l’ex direttore di Rai Parlamento, Giuliana Del Bufalo, « cade forse oggi l’ultimo velo di un sistema di informazione globalizzato e mostruoso a ogni latitudine. Gli editori puri sono ormai un miraggio ottocentesco, il quarto potere è stato fagocitato da obiettivi politici, commerciali e personalistici, che fanno parte di un sistema gelatinoso». Ricatti, agenti deviati, intercettazioni illegali, dossieraggio. La

di Francesco Lo Dico macchina del fango sembra proprio un modello da esportazione. La vicenda di News of the world è un caso limite, ma le maniere spicce in uso nel mondo scandalistico rappre-

ti inventati ricalca ormai i meccanismi della fiction. La carta stampata tende ormai ad ogni livello, dalla cronaca politica a quella giudiziaria, a imbastire una narrazione da soap opera. La

«Il caso Strauss-Kahn dovrebbe esserci da monito: la presunzione d’innocenza è una nobile categoria di pensiero, mentre le condanne sbrigative lasciano spesso macerie» sentato dalla testata, e il traffico criminoso delle notizie, sono indicative di una certa direzione imboccata dal giornalismo tout court. Il modello di intrattenimento fondato su gossip, insinuazioni, falsi testimoni e documen-

storia personale al centro del palcoscenico, e gli accadimenti politici a fare da sfondo decorativo. La stampa ha senz’altro le sue responsabilità, nell’aver creato un reality stenografato. Ma non cre-

de che viceversa le esibizioni di certi politici che esibiscono turpiloqui, gestacci e varie amenità, obblighino il cronista a raccontare la realtà che ha a disposizione? La personalizzazione è uno dei tratti distintivi di questi ultimi tempi: vende, affilia, genera concorrenza spietata. Ma talune pratiche del giornalista, molto in voga anche qui in Italia, creano un cortocircuito nella deontologia: l’imputato che la carta stampata pretende di giudicare, processare, svelare, non è molto migliore del giudice che lo condanna con un misto di morbosità e scandalismo preventivo, agito spesso su commissione. Murdoch ha chiuso la testata incriminata, e va bene. Ma in Ame-


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a cercare. Visti i metodi non proprio ortodossi di recuperare le notizie. È interessante notare che una testata vicina al governo abbia separato i problemi che Cameron dovrà affrontare dallo scandalo in sé.

Critiche altrettanto feroci sono giunte dal Guardian e dall’Independent. Quello che sorprende di più è la posizione del Times – stesso editore del News, ma decisamente di un’altra categoria. «Prima o poi sarebbe finita», ha scritto William Rees-Mogg, vecchio leone del giornalismo britannico. Possibile che, in questo caso, l’ordine di scuderia della News Corp. sia stato di abbandonare la zavorra di Coulson piuttosto che far affondare tutta la nave. Tuttavia, conoscendo la coerenza dei notisti inglesi, è possibile che la scelta non sia stata dirigenziale, bensì editoriale. E cioè che sia stato l’austero Times, in piena autonomia, a sganciarsi dallo scandalo. D’altra parte, è una battaglia effettivamente tra media quella che si sta combattendo sulle sponde del Tamigi. Perché a molti non piace l’idea che Murdoch si impossessi anche di BSkyB, il canale satellitare seguito da 10 milioni di telespettatori. Lo squalo australiaco più di un anno al potere, vuole a tutti i costi evitare le bordate sparategli contro dalla concorrenza anti-Murdoch. Ecco perché Cameron abbandona Coulson a se stesso, definendo spregevole il sensazionalismo che ha caratterizzato il News of the World in questi ultimi anni. «La Gran Bretagna è sotto choc, non so cosa passasse per la testa di questa gente», ha detto ancora il primo ministro. Infine, ha promesso la formazione di una commissione che faccia luce sulla situazione attuale di tutta

la stampa nazione e detti nuove regole etiche per il settore. È il fallimento della Press Compliants Commission, l’authority britannica del comparto. La stampa del Regno Unito, che per anni ha bacchettato il mondo intero in quanto non in linea con la propria integrità morale, non ha saputo scorgere la trave nel proprio occhio.

Ma torniamo a Murdoch. Perché il bersaglio di tutta la questione è effettivamente lui. Lo dimostra l’accanimento di tutta Fleet Street contro lo squalo. Ie-

rica una larga parte dell’opinione pubblica lo accusa di plagiare le coscienze. Non è che qualche suo dipendente ha pensato di affinare la tecnica per farsi notare dal capo? Più sono vari gli interessi di un editore, e più c’è il rischio che l’informazione da lui fornita sia parziale o omertosa. Brecht amava ricordare che l’informazione è potere, ma ora che l’una è confluita nell’altro, occorrerebbe ristabilire limiti e regole. Il fatidico punto più basso è stato superato da tempo, e lasciare che tutto si stemperi nella corsa da uno scandalo all’altro, crea una forma di pericolosa assuefazione che ci porta ad accettare l’inaccettabile. Che cosa dovrebbe cambiare, a suo parere? Innanzitutto andrebbe passato in rassegna il gran bazar dell’intercettazione. Accoglierla sui giornali in maniera indiscriminata, anche quand’è irrilevante sul piano giudiziario ma cata-

La News Corp. è la prima multinazionale mondiale: 32,8 miliardi di dollari di fatturato, una presenza a 360 gradi nel mondo, sia nei media (stampa, tv e on line), sia nell’entertainment ri il Telegraph, quotidiano tradizionalmente conservatore, titolava sarcasticamente: «Addio mondo crudele», in riferimento al News che chiude e alla probabile batosta che giungerà sulle spalle del suo anziano proprietario. Il giornale lasciava intendere che la squadra di Murdoch se la sarebbe andata

no è già titolare del 39,1% di azioni. La recente offerta di 8,3 miliardi di euro è volta ad accaparrarsi il pieno possesso della piattaforma. L’Hackgate, a questo punto, rischia di compromettere i piani. Proprio alla luce dello scandalo, il governo britannico ha deciso di prendersi altro tempo prima

strofica sul piano personale, ha generato barbarie. Si è dato il via a un meccanismo inarrestabile, dove brutte azioni hanno prodotto reazioni peggiori in un quadro di agguati incrociati che non ha risparmiato nessuno. Occorerebbe poi un bella separazione delle carriere in stile Alfano: o si fa il politico, o si fa l’esperto di servizio pubblico, che ne pensa? Quella della Rai è una storia lunga è tormentata, ma io credo che più semplicemente, noi giornalisti dovremmo riflettere su quel vizio perverso che è la voglia di sbattere il mostro in prima pagina. Il recente caso Strauss-Kahn dovrebbe fare da monito per tutti. Dovrebbe ricordarci che la presunzione d’innocenza è una nobile categoria di pensiero, e che le nostre sentenze di condanna improvvisate, quando poi vengono smentite dal corso degli eventi, lasciano soltanto dolore, reputazioni infrante e macchie indelebili anche in chi non è colpevole di niente.

di giudicare ammissibile la scalata. In questo senso, potrebbe avere ragione il Telegraph: «Murdoch ha chiuso News of the World per salvare l’operazione BSkyB», ha scritto David Hughes. Il problema è che la questione non si risolve soltanto a Londra. E tanto meno si chiude buttando la chiave della cella di Coulson. La News Corp. è la prima multinazionale mondiale: 32,8 miliardi di dollari di fatturato, una presenza a 360 gradi in tutti i continenti, sia come giornalismo (cartaceo, televisivo e on line), sia come entertainment.

La chiusura del News avrà i suoi strascichi. Non fosse altro per i dipendenti che da lunedì saranno a spasso. Basterà il Sun on Sunday, anch’esso del vecchio Rupert, a rimpiazzare il vuoto nelle edicole? Ma anche per le penali che, in un secondo momento, il suo editore sarà chiamato a risarcire verso tutti coloro che pretendono di sentirsi offesi dalla testata. Quando è un elefante a morire, tutti diventano sciacalli. In quel caso da Londra potrebbe partire uno tsunami dalle dimensioni imprevedibili. Perché non immaginare ripercussioni, almeno di immagine, sul Wall Street Journal, fino ad arrivare alla nostra piccola Sky Italia? Se lo scandalo sulla pelle di tutti è la linea che ha ispirato il News, altrettanto può succedere presso altre testate. È così che potrebbe ragionare l’opinione pubblica, visto che il produttore (Murdoch) è sempre lo stesso. Lasciate da parte le congetture, ammissibili sulla carta, ma deboli nella realtà, chi è sotto attacco è la famiglia Murdoch: Rupert con i suoi 80 anni e James, classe 1972, già incoronato principe ereditario. E se qualcuno vuole fare le scarpe allo squalo, bisogna sparare anche al delfino.

Cameron ha annunciato che bisognerà riformare le regole del giornalismo. Ma se a farlo è la politica, non si rischia che il cane continui a mordersi la coda? È per questo che per quanto riguarda la situazione italiana, io vorrei un Ordine dei giornalisti più presente e deciso nel sanzionare le condotte che meno si attagliano a un mestiere così delicato. Negli ultimi tempi è intervenuto solo su Vittorio Feltri, e francamente l’atteggiamento una tantum mi sembra riduttivo vista la deriva generalizzata. Quanto ha inciso il clima di guerra permanente nello specifico caso italiano? Direi che la cosa peggiore è aver malinteso il concetto di libertà d’espressione e diritto di cronaca. La libertà professionale, senza regole non esiste. E finisce dove inizia la vita privata altrui. E in secondo luogo, forse la continua invocazione dei nostri diritti, ci ha fatto dimenticare i nostri doveri.


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Oggi milioni di persone e decine di leader stranieri assisteranno alla nascita della nazione più giovane del mondo. È il 54esimo Stato del Continente Nero

Sud Sudan, anno zero Dopo 50 anni di guerra e milioni di morti, Juba proclama la sua indipendenza da Khartoum (e al Bashir) di Martha Nunziata envenuti nel 54° Paese dell’Unione Africana». Il cartellone che campeggia all’inizio di una delle arterie principali di Juba, poco prima dell’unico ponte cittadino sul grande Nilo Bianco, è enorme: racchiude, in quelle sette parole, passato, presente e futuro della Repubblica del Sud Sudan. Oggi il paese nato dal referendum di gennaio, del quale si parlò più per il satellite antibrogli affittato da George Clooney, paladino dei diritti civili dei sudanesi, che per la sua importanza storica, proclamerà la propria indipendenza e festeggerà la nascita della nuova repubblica. Più di venti capi di stato e centinaia di dignitari stranieri si ritroveranno nella capitale, Juba, il giorno in cui questo nuovo paese isserà la sua bandiera e comincerà il primo mandato del suo primo presidente, Salva Kiir Mayardit, l’ex guerrigliero Dinka, protagonista della vita politica del paese fin dai primi anni ’70, quando era ancora un semplice ufficiale di collegamento dell’Splm, il Movimento per la Liberazione del Popolo del Sudan. Cappello da cowboy sempre in testa, Mayardit non ha mai nascosto l’obiettivo finale durante tutta la sua carriera, la secessione dal Nord e l’indipendenza: anche così si spiega il 93% dei voti raccolti nelle elezioni del 2010, quelle che hanno, di fatto, accelerato il processo di indipendenza. The final walk to freedom l’hanno battezzata: la marcia finale verso la libertà. È lo slogan di un Paese che sta per nascere, ma anche di un popolo che finalmente, dopo anni di guerra civile, di vittime innocenti, di soprusi subiti (e spesso ignorati, o dimenticati, dal mondo occidentale) raggiunge la tanto agognata indipendenza da “quelli del Nord”. Non è un caso, probabilmente, che anche il presidente del Sudan del Nord, Omar Hassan al Bashir, nonostante il mandato

«B

A lato, Omar al Bashir, ieri il primo a riconoscere l’indipendenza. In basso a destra: Salva Kiir, il nuovo presidente

Il 99% dei sud-sudanesi ha votato per l’indipendenza al referendum che si è tenuto lo scorso gennaio, come previsto dall’accordo di pace siglato nel 2005 d’arresto internazionale spiccato nei suoi confronti per le atrocità enormi commesse in Darfur, altra terra che sembra destinata a non trovare pace (al Bashir è stato il primo capo di Stato ancora al Governo nei confronti del quale il Tribunale Internazionale dell’Aia ha preso un provvedimento del genere, ndr.) andrà nel Sud per la proclamazione dell’indipendenza. L’amministrazione di Khartoum ha già fatto sapere che ha tutte le intenzioni di mantenere delle buone relazioni con il neo Stato: «Andrò a Juba fra un paio di giorni - ha detto al Bashir - per congratularmi con il nuovo Stato e augurare ai rappresentanti sicurezza e stabilità». Oggi Juba, la capitale improvvisata e forse provvisoria di un Paese tutto da costruire, vive un fermento e una concitazione che non aveva mai conosciuto prima. Cantieri ovunque, case, pa-

lazzi, alberghi in costruzione, nuove strade che vengono tracciate, vecchie che vengono asfaltate, un traffico mai visto in quella che sino a pochi anni fa era poco più che un grosso villaggio.

Per gli oltre 8 milioni di cittadini del Sudan del Sud, oggi è un giorno importante ed emozionante: per molti di loro, protagonisti della prima e della seconda guerra civile, è il giorno sognato una vita intera. Il processo di indipendenza della Repubblica del Sudan del Sud (qualcuno la chiama“secessione dal Nord”) è diventato realtà all’inizio dell’anno, grazie al referendum votato dalla quasi totalità della popolazione (oltre il 98% dei quattro milioni di votanti si espresse a favore della separazione dal Nord): per arrivare al risultato del referendum, tuttavia, dopo l’accordo di pace negoziato nel 2005,

sono state necessarie trattative lunghissime, con le parole che giorno dopo giorno hanno preso il posto delle pallottole. Lo status di nuova nazione, infatti, ha avuto costi altissimi: 2 milioni di morti solo quest’anno a causa di violenze tribali e legate alla ribellione, come hanno riferito le Nazioni Unite, sottolineando la situazione preoccupante della regione dal punto di vista della sicurezza e 4 milioni di profughi, allontanati dalle proprie case nel corso di una brutale guerra civile che si è protratta per 21 anni, in due fasi :la prima e la seconda guerra civile sudanese dal 1955 al 1972 e dal 1983 fino al 2005. In questi giorni molti di coloro che erano accampati a Fabaroma, alla periferia di Khartoum, stanno facendo ritorno nei villaggi di origine. Ma non è per tutti così: la regione di Abyei, una delle aree più ricche di petrolio, al confine con il Sudan del

La lunga mano di Pechino “opziona” i ricchi giacimenti

Le riserve di greggio e la Cina IL NEONATO Sud del Sudan è ricco di giacimenti petroliferi che potrebbero rappresentare il futuro di questa nazione. Ma c’è chi ha già messo gli occhi sul greggio sudanese: la Cina è diventata oggi il principale partner commerciale di molti paesi africani e, fra questi, il Sudan del Nord e adesso lo sarà anche del Sud, soprattutto nel settore petrolifero. La Cina, che non è firmataria del Trattato di Roma e quindi non aderisce all’accordo relativo alla International Criminal Court (Tribunale Criminale Internazionale), pochi giorni fa ha ignorato l’esistenza di un

mandato di cattura internazionale a carico di Bashir, ospitandolo a Pechino, dove i due paesi hanno rinnovato i reciproci rapporti di amicizia. Sia per il Nord che per il Sud del Sudan, gli interessi cinesi sono e continueranno ad essere di primaria importanza per entrambe le economie. I leader di Juba hanno capito che il Nord è il crocevia fondamentale per l’esportazione del petrolio e al Bashir sa perfettamente che sarà necessario trovare un accordo con Salva Kiir Mayardit, il neo presidente del Sud Sudan, per non perdere i miliardi di investimenti cinesi.


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri)

Nord, è una terra distrutta, con città rase al suolo, dove la gente scappa ancora oggi dalle milizie di al Bashir. E poi la distruzione quasi totale di scuole, strade, ponti, ospedali, e l’esodo all’estero della maggior parte del personale sanitario. Le conseguenze del conflitto continuano a riflettersi ancora adesso negli indicatori sanitari, tra i peggiori del mondo: il 48% dei bambini sotto i cinque anni è malnutrito, tre su quattro non sono vaccinati contro il morbillo, il 95% dei parti non è assistito da staff specialistico e una donna su sette muore di parto. Sono i bambini, soprattutto, la parte di popolazione più esposta, in questo momento: circa la metà dei sudanesi del Sud hanno meno di dieci di anni, secondo il rapporto dell’Unicef, e un bambino su nove muore prima di compiere cinque anni: «Dobbiamo fare tutti la nostra parte in questo giorno storico - ha detto Anthony Lake, il direttore generale dell’Unicef - per aiutare questa generazione dell’indipendenza. Anche in asenza di conflitto i

bambini del Sud del Sudan devono affrontare sfide più grandi di loro. È su questi bambini più svantaggiati e vulnerabili che dobbiamo concentrare le nostre risorse e la nostra attenzione». Amnesty International e Human Rights Watch, dal canto loro, hanno auspicato che l’indipendenza del Sud sia caratterizzata da passi avanti importanti sul piano dei diritti umani. «Il Sud Sudan deve celebrare la sua nascita mostrando un fermo impegno verso i diritti umani di tutti, in particolare delle donne e dei bambini» - ha dichiarato Daniel Bekele, direttore per l’Africa di Human Rights Watch. «Il rispetto della li-

l’analfabetismo tra la popolazione femminile che supera l’80%. Più della metà della sua gente deve nutrirsi, vestirsi e ripararsi con meno di un dollaro al giorno. In questo contesto, il rischio di aumento della violenza, danni alla popolazione civile e ulteriori sofferenze umanitarie è molto reale». Anche dopo il referendum di gennaio, infatti, gli scontri tra le forze governative dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) e i gruppi armati di opposizione sono aumentati d’intensità e i soldati hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni illegali di civili, saccheggi e distru-

Ricco di petrolio, il Paese è anche il più povero del mondo: la maggioranza della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno; oltre il 10% dei bambini non arriva a festeggiare i 5 anni bertà d’espressione, di associazione e di riunione è essenziale per il neonato stato» - ha commentato invece Erwin van der Borght, direttore per l’Africa di Amnesty International.

Alcuni analisti segnalano da tempo che il territorio sottosviluppato rischia di trasformarsi in uno stato prossimo al fallimento se non riuscirà a controllare le insurrezioni e le sanguinose lotte feudali che dividono le sue tribù: neri cristiani e animisti del Sud contro gli arabi del Nord. Per questo anche il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel giorno della nascita della nuova nazione ha sottolineato le proprie preoccupazioni: «Il Sudan del Sud - ha detto - si collocherà nella parte inferiore di tutti gli indici di sviluppo umano, con il più alto tasso di mortalità materna al mondo e

zioni di proprietà private. Una situazione che, adesso che gli occhi dell’intera comunità internazionale si sono aperti anche sul Sud del Sudan, sembra rientrata nella normalità, anche se il confine tra i due paesi resta comunque militarizzato. Dal punto di vista economico, comunque, il paese che nasce oggi ha un notevole potenziale, come dimostra anche il recente rapporto dell’Onu. Il Sud del Sudan può vantare considerevoli riserve di petrolio, immense quantità di terreni coltivabili, e il Nilo Bianco che scorre attraverso il suo centro, irrigandolo da nord a sud. Potrebbe svilupparsi, perciò, come una nazione prospera ed autosufficiente, anche se da solo non potrà rispondere a queste sfide né realizzare il suo potenziale. Questo richiederà collaborazione, un completo e continuo impegno della comunità internazionale.

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grandangolo Il referendum che ha approvato la Carta è stato un plebiscito

La rondine del Marocco può fare Primavera (araba)?

Le scelte del sovrano Mohammed VI sono un esempio di come le rivoluzioni del Medioriente non abbiano prodotto solo reazioni di piazza, ma anche cambiamenti profondi della cultura politica. Al contrario di ciò che è successo in Siria, Libia e Bahrein, dove i regimi continuano a usare la forza. C’è una speranza anche per la democrazia di Pierre Chiartano l vento della primavera araba ha spazzato così forte che «niente sarà più come prima». Frase che, nell’ultimo decennio, abbiamo già sentito pronunciare. Ma questa volta è vero, pur tra i tanti distinguo: la Siria non è come la Tunisia o l’Egitto. E qualche scetticismo: il mondo islamico ci ha storicamente abituati alle rivolte e a primavere cui facevano seguito gli autunni del radicalismo religioso. Tutti padroni di pensarla con distacco. Ma il fatto che rimane è che, nonostante non ci siano stati dei veri cambi di regime, ma solo che alcuni dittatori abbiano fatto le valigie, il cambiamento nella cultura politica e di governo c’è stato. La monarchia del Marocco è un bell’esempio di come trasformarsi per restare in sella al governo del proprio Paese. Un esempio di cui autocrati come il giovane Bashar al Assad avrebbero dovuto fare tesoro. Anziché aprirsi alle riforme, con una popolazione in fibrillazione, i capi regime come quello siriano, libico o del piccolo Stato del Bahrein hanno usato la mano pesante. Precipitando così la primavera «nell’inverno dello scontento arabo» come ha dichiarato il politologo Gregory Gause.

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Il re del Marocco, Mohammad VI, ha evitato accuratamente discorsi televisivi pericolosamente aggressivi, visti i disastrosi esiti di quelli dei suo colleghi poi capitolati. E ha cercato di anticipare le richieste di chi scendeva in piazza

per protestare. Ha capito per primo i grandi cambiamenti culturali indotti non solo dai social network, che hanno bypassato le tradizionali rappresentanze del consenso raffigurate dai partiti d’opposizione, spesso addomesticati dai regimi. Con un’informazione libera sulla rete che è diventata formazione politica delle «masse» arabe, tanto per usare un termine abusato dalle ideologie dell’altro secolo. Il quarantasetten-

servitù e licenza delle società feudali. Dove, quando il monarca assoluto non era in grado di distribuire prebende, privilegi e pane, veniva appeso al primo albero dalla folla inferocita. Un popolo arrabbiato pronto poi a farsi rimettere il giogo da un despota meglio attrezzato. In molti osservatori occidentali era questa l’immagine che prevaleva di una «piazza araba» che sembrava non esistere.

La nuova Costituzione stabilisce diritti e libertà fondamentali, radicati negli standard universali

L’altra domanda che si pongono in tanti è se nella cultura araba e islamica esista il dna da cui far nascere una forma di democrazia, anche lontana parente di quella occidentale. Occorre subito fare chiarezza e distinguere tra cultura, tradizione e religione islamica. E come se facessimo un paragone tra la cattolica Spagna della prima metà del XX secolo e la cattolica Germania del Reno occidentale. Entrambe cristiane di dottrina romana, ma con una realtà di sviluppo culturale e civile così imparagonabile. Il mondo musulmano è altrettanto variegato. Nelle società più arretrate l’interpretazione del libro sacro sarà più conservatrice, se non fuorviante. Il basso livello d’istruzione della gente porterà chi governa la raccolta del “consenso” a scegliere concetti facili, a forti tinte, pronti a infiammare i cuori, la dove non si riesce a riempire lo stomaco. E Mohammad VI si è ben guardato dall’adottare quel tipo di linguaggio, evitando di gridare al com-

ne regnante ha scelto di coinvolgere l’opposizione, capire le richieste della gente e spingere sull’acceleratore delle riforme. Sull’esempio di un monarca illuminato. A dimostrazione che spesso il cambiamento dal basso può produrre non solo una reazione, ma anche una mutazione costruttiva. Le rivolte della Primavera araba dunque non sembrano legate al classico pendolo storico tra

plotto straniero e al tradimento. Nelle comunità più avanzate, avendo a che fare con cittadini meglio istruiti, si utilizzerà un verbo più sofisticato e vicino – dicono gli esperti – ai veri insegnamenti del Corano. È dunque l’intreccio tra cultura, tradizioni e religione che produce il modello. Nell’islam, sempre secondo gli studiosi, ci sarebbero poche differenze dall’Africa del Nord all’Indonesia: le differenze sarebbero per lo più dettate dalle culture locali. Sarebbe dunque sbagliato un approccio vincolato solo all’aspetto religioso. Un buon esempio lo porta l’antropologo della McGill University, Philip Carl Salzman, che da anni studia in loco le culture tribali dal Maghreb al Baluchistan. Lui come altri ha sottolineato due differenze principali nella società di quelle regioni: la divisione tra cultura tribale e cittadina (in parte già descritta da Ibn Khaldun).

Un fatto che si riflette anche nell’evoluzione delle strutture statuali e nel concetto, molto relativo, di cittadinanza o di dipendenza da un potere centrale. In estrema sintesi le società tribali e nomadi sono da sempre più libere da ogni vincolo, abituate a trattare alla pari con il potere centrale. Diverso il discorso per le società contadine, vincolate alla stanzialità e alla necessità di alcune infrastrutture come l’approvvigionamento idrico che le ha rese tradizionalmente più legate allo Stato. E di


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Riforme troppo lente, l’Egitto urla di nuovo. E ad Hara mezzo milione di persone va in piazza

Al Cairo e Damasco va ancora in scena il venerdì della rabbia di Etienne Pramotton

quelle cittadine, dove si è sviluppato il ceto d’esperti religiosi, di fedeli maggiormente istruiti e di attività che per prosperare avevano bisogno di poter viaggiare in sicurezza da un centro ad un altro. Così anche in Marocco, dove qualche anno fa si è varato una legge per un diritto di famiglia avanzato, ci si è scontrati per la sua applicazione con quel mix di cultura arretrata, tradizione e islam conservatore. Oggi, invece, con il nuovo testo costituzionale si stabilisce una vera e propria carta dei diritti e libertà fondamentali, radicata negli standard universali dei diritti umani. Non calata dall’alto, ma richiesta dal basso. Senza fare distinzioni tra democrazie islamiche ed occidentali, che è un po’ il mantra che recitano i filogo-

Il re ha cercato di anticipare le richieste di chi scendeva in piazza per protestare. E ha fatto bene vernativi anche in Turchia: democrazia senza aggettivi. Il progetto di riforma – che ricordiamo è stato approvato da oltre il 98 percento di chi ha votato il referendum popolare e da oltre il 72 percento degli aventi diritto – istituisce una monarchia costituzionale, democratica, parlamentare e sociale. Un equilibrio dei poteri flessibile tra il legislativo e l’esecutivo: il governo è responsabile davanti alla Camera dei rappresentanti. Il Capo del governo può sciogliere la Camera, a mezzo di un decreto assunto in Consiglio dei ministri. È una risposta a ciò che chiedeva la gente che protestava durante la Primavera, anche in Marocco, dove chi conta ancora è la casta del Makhzen, legata alla casa regnante. Ma c’è anche chi non si accontenta dell’attuale riforma costituzionale e ne sottolinea alcuni aspetti non affini alla separazione

dei poteri, chiave di svolta di tutte le democrazie. La riforma rafforzerebbe la bipolarità tradizionale del sistema politico marocchino, con il re che controlla e il governo, che esegue un doppio lavoro. Comunque il tempo ci dirà se è giusto applicare tout court i concetti del costituzionalismo occidentale per valutare un cambiamento che rimane paradigmatico di un altro modo di affrontare le rivolte popolari. Ma in Marocco c’era un’opposizione rimasta spiazzata e che chiedeva di più. «Mamfakinch: non molleremo. Mamsawtinch: non voteremo. Erano e sono le parole chiave del dissenso marocchino – se pure una minoranza – raccolte attorno al Movimento 20 febbraio. Il colpo di scena invece è stata la velocità con cui le autorità hanno risposto ai malumori dei dissidenti. Una richiesta gridata fin dall’inizio delle manifestazioni», spiega a liberal Karima Moual, giornalista del Sole24Ore e direttrice del nuovo magazine Marocco Oggi. «Era la vera sfida, la grande riforma, la cosa intoccabile e inviolabile cui metter mano. La risposta è stata immediata: subito la nuova costituzione. Tempo tre mesi ed ecco il progetto pronto per il referendum. La risposta dei dissidenti è stata il boicottaggio. Non è questo il gioco della democrazia. La vera partita va giocata a viso scoperto». Poi arriva il paragone tra Marocco e Siria.

«Ci sono stati due discorsi importanti nel Maghreb e nel Mashreq. Quello del re Mohammed VI, e in Siria, l’intervento all’università di Damasco di Bashar al-Assad. Che cos’hanno in comune? Solo parola “discorso”. I due interventi sono la parabola di quel che sta avvenendo. Il caso del Marocco, è una mossa politica che ha sullo sfondo manifestazioni, ma anche un decennio di lavoro intenso per le riforme, che ha permesso al Paese di rappresentare l’eccezione dell’area. Cosa succede in Siria? Dopo un lungo silenzio del regime – continua la Moual – e le contestazioni di una piazza sempre più insanguinata, arriva l’atteso discorso. Dove Bashar ha fatto appello a “un dialogo nazionale per una nuova costituzione”, annunciando anche elezioni legislative ad agosto. Non pare sia bastato però».

ROMA. Se in Marocco le proteste sono state in parte neutralizzate da un potere che ha sparigliato le carte con una costituzione nuova di zecca, l’Egitto è ancora in fibrillazione e la Siria è ormai una bomba ad orologeria. È stato il venerdì della «punizione e della perseveranza» per protestare contro la lentezza delle riforme e per invocare processi più trasparenti contro gli esponenti dell’ex regime. Migliaia di egiziani si sono ritrovati ieri sulla grande piazza Tahrir del Cairo per chiedere riforme e sanzioni contro i dirigenti dell’ex regime, cinque mesi dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak. Alcuni manifestanti hanno passato la notte sulla piazza dormendo nelle tende. La polizia non era presente, il servizio d’ordine è affidato agli stessi organizzatori. Sui manifesti esposti si leggeva: «La nostra rivoluzione continua» o «Il popolo chiede la realizzazione delle promesse della primavera araba». Un manifestante esibiva un cartellone con su scritto: «Non abbiamo visto cambiamenti. Abbiamo cacciato Mubarak, ma al suo posto abbiamo un maresciallo», alludendo a Hussein Tantaoui, capo del consiglio militare che dirige il Paese. La manifestazione è stata organizzata dai giovani pro-democrazia e dai partiti laici. Il potente movimento dei Fratelli musulmani, che in un primo tempo aveva esitato a prendere posizione, ha lanciato un appello a manifestare. Quindi anche la Brotherhood islamica è scesa in campo. Appelli a manifestare sono stati lanciati in altre città dell’Egitto. I manifestanti chiedono le dimissioni dei responsabili dell’ex regime ancora in carica nel governo e nell’amministrazione, in particolare nella polizia e nei governatorati (amministrazione regionale). Chiedono anche all’esercito di non utilizzare i tribunali militari per giudicare i civili e di ritirare lo stato d’emergenza in vigore da 30 anni. Domandano sanzioni contro gli agenti di polizia coinvolti nella repressione della rivolta popolare del gennaio-febbraio, che ha provocato centinaia morti. Insomma, non si accontentano di cambiamenti di facciata e vogliono che i Gattopardi egiziani si tolgano cortesemente di torno. Sarà difficile. Gli egiziani hanno definito ”martiri” le persone morte nelle proteste. Oltre 840 persone

sono state uccise nei 18 giorni che hanno portato all’estromissione di Mubarak dopo che la polizia aveva usato proiettili di plastica, gas lacrimogeni e manganelli contro i manifestanti. Ieri, intanto, media locali affermavano che il vice di Mubarak, Omar Suleiman, non si candiderà alle presidenziali che si dovrebbero tenere entro la fine del 2011.

Folla oceanica invece nella piazza al-Assi, nella città ribelle di Hama, nel nord della Siria. Circa 450mila per il venerdì della collera. Lo ha riferito ieri Rami Abdel Rahmane, capo dell’Osservatorio dei diritti dell’Uomo (Osdh). «Oltre 450mila persone sono arrivate a piazza al-Assi per manifestare contro il regime del presidente Assad», affermava Rahmane, sottolineando che i manifestanti «rifiutano il dialogo con il potere e chiedono la fine del regime». Le forze di sicurezza siriane hanno effettuato un raid ad Harasta, sobborgo di Damasco, ferendo due persone, in vista di nuove proteste contro il regime. Lo riferivano ieri residenti e attivisti per i diritti umani. Nella notte circa 300 agenti della sicurezza sono entrati nel sobborgo, dove ci sono proteste quotidiane a favore della libertà politica, e hanno iniziato a sparare con mitragliatrici montate su automezzi e a fare arresti casa per casa. L’organizzazione siriana per i diritti umani Sawasiah afferma in un comunicato che le forze di sicurezza hanno fatto irruzione anche nel principale ospedale di Harasta. Una tattica impiegata in raid analoghi in altri centri della Siria. Intanto per la città martire di Hama si è mosso anche il dipartimento di Stato Usa. L’ambasciatore americano in Siria giovedì ha visitato la città per manifestare solidarietà agli abitanti, alle prese con la repressione dopo settimane di proteste anti-governative. La Siria ha condannato la visita dell’ambasciatore Robert Ford – che sarebbe avvenuta senza l’autorizzazione di Damasco – perché sarebbe stato un tentativo di incitare a nuove manifestazioni per il venerdì. Foggy Bottom ha affermato che l’ambasciata Usa aveva informato Damasco che un suo team era in viaggio per Hama. Poi in serata le prime notizie di morti durante le manifestazioni.


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il personaggio della settimana Bocciata all’Ena per 3 volte, si “vendica” guidando per anni l’economia della Francia

Madame Christine, la ”lady di velluto”

La Lagarde sarà la prima donna nella storia ad assumere la direzione del Fmi. Ma premette che «non si travestirà da uomo» e lancia i Paesi emergenti come futuri timonieri del mondo di Maurizio Stefanini a sua promessa era stata di “abbassare il livello di testosterone”al Fondo Monetario Internazionale; ma l’annunciata intenzione di “non travestirsi da uomo” e di continuare a portare la gonna fa capire che comunque quello della 55enne Christine Lagarde come direttore dello stesso Fmi sarà un mandato ormonale. Anche se evidentemente in sensi non identici a quelli di Dominique Strauss-Kahn. Come prima donna alla testa dell’organismo, è un personaggio di rottura. Come francese, nel momento in cui vari Paesi a economia emergente chiedevano di rompere con la convenzione che ha sempre mantenuto un europeo alla Banca Mondiale in cambio del monopolio Usa sulla Banca Mondiale e alcuni votavano anche in contrapposizione a lei per il messicano Agustín Carstens, è invece un personaggio della massima continuità. Ma molti la vedono come presumibile ultimo nome nella lista ininterrotta degli europei, lei stessa ha promesso che manterrà come sua priorità “il valore della diversità”. «Se risulto eletta aveva promesso - mi consacrerò in forma permanente a adattare la rappresentanza del Fondo, in particolare le quote parti, alle realtà economiche in evoluzione. Certi passi importanti devono essere fatti in un futuro prossimo e bisognerà arrivarci». Ha anche fatto intuire che un esponente di un Paese emergente potrebbe essere il successore dell’americano John Lipski a quell’incarico di “primo direttore generale aggiunto” che equivale in pratica a un numero due del Fondo. Una possibile tappa proprio per preparare un ricambio anche alla

L

poltrona numero uno.

Diversificato anche il suo approccio al suo predecessore. Come lui, francese. Diversamente da lui, donna e dunque risposta esplicita al grave maschilismo predatorio ostentato da Dsk. Come lui, dichiaratamente a favore di una riforma dell’Fmi. Al contrario di lui, socialista e in gioventù pure comunista, non di sinistra ma appartenente allo schieramento di destra di Sarkozy. Come lui, già ministro francese dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria: una poltrona cui è arrivata otto anni dopo di lui, e in cui nell’intervallo era passato anche Sarkozy. A differenza di lui, passata dal ministero al Fmi direttamente. E però, a differenza di Strauss-Kahn che ha un dottorato in Economia, lei è avvocato. Sul suo predecessore, lei diplomaticamente dice di averlo conosciuto e apprezzato; ma che il processo deve nondimeno fare il suo corso. Per sicurezza, comunque, il Fondo Monetario Internazionale le ha sì aumentatolo stipendio, rispetto a Dsk: del 16%.. Ma l’ha pure impegnata a partecipare a un “programma di training etico”, per ripulire l’immagine parecchio appannata dell’istituzione. 55 anni, nata proprio a Capodanno del 1956 a Parigi, Christine Madeleine Odette Lallouette è quarta e ultimogenita dopo tre figli maschi, di cui uno è diventato un celebre baritono. Ed è figlia di un docente universitario di Inglese e di una docente in Lettere Classiche. Al Liceo, per la verità, emerge, o forse è meglio dire che si sommerge, in un campo assolutamente diverso da quello che l’avrebbe poi resa famosa in tutto il mondo: membro della nazionale francese di nuoto sincronizzato, a 15 anni vince una medaglia di bronzo ai campionati francesi. Sono passati quarant’anni, ma tuttora Christine conserva un fisico asciutto e scattante appunto da ballerina acquatica. D’altra parte continua a praticare regolarmente nuoto, oltre a immersioni subacquee, yoga e giardinaggio. E il suo profilo salutista è meglio precisato dagli ulteriori particolari di essere vegetariana e astemia.Insomma: anche in ciò è l’esatto contrario del bon vivant e tipicamente francese Dsk,

ed ha invece un tipo di profilo nettamente americaneggiante. Ciò si spiega forse col particolare che a 17 anni, con la morte del padre e i conseguenti problemi della madre a mantenere quattro figli con uno stipendio da professoressa, lei si concentra sullo studio, e a 18 anni dopo la maturità vince una Borsa di Studio negli Stati Uniti che la segnerà nel profondo. Sarà appunto contagiata dal salutismo Usa, anche se comunque l’attività atletica le aveva già dato una predisposizione.

Imparerà un inglese americano perfetto, anche se anche qui la professione paterna deve aver dato per lo meno una prima buona infarinatura. Nel Maryland prende un diploma liceale, e a Washington effettua uno stage come assistente di William Cohen: un rappresentante repubblicano nel Maine, che in futuro diventerà segretario alla Difesa di Bill Clinton. Non c’è da stupirsi se gli americani la considerino un po’ dei loro, ed abbiano così caldamente raccomandato la sua elezione. Di ritorno in Francia segue un corso di studi politici a Aix-en-Provence, e tenta di entrare all’Ena: la prestigiosa Scuola Nazionale d’Amministrazione in cui si forma gran parte dell’élite francese. Ma la bocciano due volte: esperienza che, vista la sua carriera successiva, si può forse paragonare a quando Giuseppe Verdi fu respinto dal Conservatorio milanese che oggi prende il suo nome. A differenza del grande musicista, però, lei dice di non avere recriminazioni. Al posto dell’Ena farà ben tre master: in inglese, in diritto degli affari e in diritto sociale. Inizia a insegnare diritto all’Università di Parigi X3, nel 1981 diventa avvocato, e si associa a Baker & McKenzie: un importante studio legale d’affari Usa che con 4600 collaboratori in 35 Paesi è uno dei primi a tentare di darsi un ruolo mondiale. Grazie al suo perfetto stare in equilibrio tra cultura francese e cultura americana lei vi fa una rapida carriera: nel 1987 è associata all’ufficio parigino, nel 1991 gerente, nel 1995 membri del comitato esecutivo a Chicago e nel 1999 presidente del consiglio di amministrazione. La prima donna ad accedere a questa posizione.


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Il 4 agosto si decide sull’abuso di potere PARIGI. La Corte di giustizia della Repubblica (CJR), che in Francia esamina il ruolo del ministro dell’Economia Christine Lagarde nell’affaire legato a Bernard Tapie, ha deciso di rinviare al 4 agosto la sua decisione sull’eventuale apertura di un’inchiesta per abuso di potere. Lo riferisce la stessa CJR. Nei giorni precedenti alla nomina della Lagarde alla guida del Fondo monetario internazionale (Fmi), aveva già deciso di rinviare la sua decisione dal 10 giugno all’8 luglio, una manovra che ha consentito di non ostacolare la sua candidatura al Fmi. Che la CJR «decida o meno di proseguire le indagini, ho esattamente la stessa fiducia e la stessa serenità», ha detto ieri la Lagarde. Nelle ultime settimane, l’ex ministro dell’Economia è stata tirata in ballo nel caso legato a Bernard Tapie per la sua decisione di ricorrere a un tribunale arbitrale, quindi alla giustizia privata, piuttosto che alla magistratura tradizionale, per risolvere un dissidio fra l’ex controverso uomo d’affari e l’ex banca pubblica Credit Lyonnais a proposito della vendita di Adidas nel 1993. Secondo alcuni, la Lagarde «era al corrente del fatto che nel novembre 2008, uno degli arbitri dell’affaire Tapie aveva partecipato a due arbitrati»

L’affermazione lavorativa non le impedisce di farsi una famiglia; si sposa, nel 1986 nasce il suo primogenito PierreHenri Lagarde, e nel 1988 il secondogenito Thomas Lagarde. Ma qui c’è un piccolo mistero, visto che praticamente nessuna fonte giornalistica riesce a riportare né la data delle nozze, né quella del divorzio, né la professione del coniuge, né il suo nome di battesimo. Tutto quel che si sa è appunto che ci sono sta-

tank Center for Strategic and International Studies (Csis), in cui presiede con Zbigniew Brzezinski la commissione Azione Usa-Polonia e le questioni legate all’apertura commerciale polacca. Nel 2003 è anche membro della Commissione per l’allargamento della comunitò euro-atlantica, e nel 2004 Chirac le dà la Legion d’Onore. In concomitanza con questo interessamento per la Polonia c’è anche una relazione con Each-

A Strauss-Kahn la legano differenze enormi e similitudini: soprattutto, entrambi vogliono riformare il Fondo ti un matrimonio e un divorzio; nomi e anni di nascita dei figli; e che Christine ha preferito comunque tenersi il cognome di quel marito misterioso. Sotto la sua Presidenza, che dura fino al 2004, Baker & McKenzie aumenta la sua cifra d’affari del 50%, fino a chiudere l’esercizio del 2004 a 1128 milioni di dollari. E nel 2002 il Wall Street Journal la classifica quinta donna d’affari d’Europa. Tra 1995 e 2002 è anche membro del think

ran Gilmour: imprenditore polacco con il quale alcune fonti informano su un suo ulteriore matrimonio e divorzio. Ma lo abbiamo già ricordato che le vicende familiari della Lagarde sono piuttosto misteriose… Nell’aprile del 2005 Christine entra infine nel Consiglio di Sorveglianza della multinazionale finanziaria olandese ING Group. Ma lo lascia quasi subito, perché il primo ministro Dominique de Villepin la vuole Ministro delega-

to al Commercio Estero nel suo governo. E inizia così la sua carriera governativa, quasi in contemporanea a un nuovo capitolo della sua vita sentimentale. Dal 2006 inizia infatti a convivere con l’imprenditore marsigliese Xavier Giocanti, che sposerà nel 2009. All’inizio, parte subito con una gaffe. Rivelando la sua formazione liberista americaneggiante, spara infatti contro il diritto sociale francese: “complicato e pesante”. Ma sopravvive, e diventa anzi un elemento pressoché inamovibile degli Esecutivi Transalpini.

Ministro dell’Agricoltura e della Pesca nel governo Fillon I. Ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego nel governo Fillon II. Dopo i due anni e mezzo di Dsk, allo spinosissimo superdicastero dell’Economia si erano susseguiti nove ministri in otto anni. Perfino Sarkozy, non era riuscito a rimanerci più di otto mesi. Anche qui, Christine fa un’altra memorabile gaffe, quasi in stile “se non hanno pana perché non mangiano brioches?”di Maria Antonietta. Ai francesi imbestialiti per un aumento della benzina lei consiglia infatti “spostatevi in bicicletta”, e loro la ribattezzano sarcastici “Madama la Marchesa”. E un ancor più grave infortunio lo ha quando nel 2008 autorizza l’intervento di un tribunale arbitrale che darà 385 milioni di euro a Bernard Tapie: il discusso imprenditore protagonista di vari scandali e di un tentacolare contenzioso con il Crédit Lyonnais. L’opposizione di sinistra chiederà addirittura di metterla sotto processo, ma lei resiste: quella volta, come altre. Puntando i piedi, minacciando in continuazioni le sue dimissioni per vedersele sempre respingere, Christine all’Economia ci mette le radici. E le radici le mette anche nella lista delle 100 donne più potenti del mondo della rivista Forbes. Settantaseiesima nel 2004, ottantottesima nel 2005, trentesima nel 2006, dodicesima nel

2007, quattordicesima nel 2008, diciassettesima nel 2009, quarantatreesima nel 2010. Mentre nel 2010 il Financial Times la nomina “miglior ministro delle finanze dell’eurozona”, per il modo in cui è riuscita a fronteggiare la crisi economica. Potrebbe indurre a qualche sardonica osservazione, il già citato particolare che non si tratta di una laureata in Economia. Addirittura, negli Stati Uniti questo ruolo ne fa una diva pop, nell’interpretazione dell’attrice Laila Robins in uno sceneggiato tv sulla crisi proiettato giusto il 23 maggio dalla catena Hbo: Too Big to Fail il titolo (Troppo Grandi per Fallire). Sembra che sia stata la scena in cui la sua alter ego prende di petto il Segretario al Tesoro Usa Hank Paulson a renderla soprattutto popolare presso il grande pubblico Usa, ed a spianarle infine la via per l’Fmi.

Arrivata a un punto dove nessuna donna era mai arrivata prima di lei, Christine dice di aver avuto soprattutto due modelli. Di una non dice il nome, ma spiega che era un’avvocatessa di Baker & McKenzie che «si dipingeva sempre le labbra prima di ricevere i clienti», e che le avrebbe appunto insegnato come non trascurare la propria femminilità per la carriera. Pur assicurando che “neanche esagerava” nell’altro senso. L’altro modello è la madre: la professoressa di francese, latino e greco. Curiosamente, adesso sarà proprio sulla Grecia che dovrà fare il suo esame principale. Non è l’unico problema in agenda. In autunno c’è in particolare da affrontare il problema dei cambi e da tentare di mediare con l’irriducibilità cinese sul tema. C’è l’Egitto che ha bisogno dell’aiuto dell’Fmi ma ha deciso di rifiutarlo. E c’è anche il seguito del caso Dsk. Ma soprattutto sulla Grecia, prevedono gli esperti, la figlia della professoressa di Greco dovrà misurare la propria credibilità. E, assieme, la residua credibilità del Fondo.



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