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ISSN 1827-8817

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he di cronac

Il genio è un per cento

ispirazione e novantanove per cento sudore Thomas Alva Edison

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 21 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Senato invece salva Alberto Tedesco che pure aveva detto in Aula di non volere alcuna protezione

La dignità di Montecitorio Dalla Camera sì all’arresto di Papa: 319 favorevoli, 293 contrari Casini chiede il voto palese ma il Pdl risponde no. Il deputato sotto inchiesta: «Sono sereno». Almeno la metà dei leghisti vota con l’opposizione: per il governo è un colpo durissimo Indagato l’esponente del Pd

La carestia dimenticata

Tempesta su Penati: corruzione MAGGIORANZA IN CRISI

SINISTRA IN CRISI

GIORGIO LA MALFA

Un segnale a Berlusconi: il suo tempo è finito

Ma ora il problema si apre per il Pd

«Corruzione, subito una commissione d’inchiesta»

di Giuseppe Baiocchi

L’ex presidente della Provincia di Milano sotto inchiesta per la gestione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni Francesco Pacifico • pagina 6

Africa, torniamo a parlare dei pani e dei pesci

di Giancristiano Desiderio

di Riccardo Paradisi

ra la primavera turbinosa del 1993. Con grande scandalo dei benpensanti, la Lega sventolava il cappio della forca nell’aula di Montecitorio, a simbolo della protesta di popolo contro la “casta” e la politica (e i suoi costumi) di quell’epoca.

e la destra piange, la sinistra non ride. Il doppio voto alla Camera e al Senato (ma anche l’inchiesta per corruzione su Filippo Penati) apre un grave problema di credibilità al Pd. E viene da chiedersi: l’avranno capito i suoi dirigenti?

a corruzione ormai ha preso il sopravvento: non basta più un generico richiamo all’onestà. Occore una vera e propria ripartenza morale. E la Camera deve indagare su se stessa. Così dice Giorgio La Malfa che nel 1993 lanciò il «partito degli onesti».

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di Paola Binetti l Corno d’Africa sta attraversando uno dei peggiori periodi di siccità degli ultimi 60 anni. Le notizie che ci giungono sono drammatiche. I diritti umani sembrano espropriati da una natura matrigna e indifferente e gli abituali allarmi lanciati dalle Ong presenti sul campo non riescono a mobilitare il senso di responsabilità e di solidarietà dei Paesi industrializzati. Non reagiscono né i Paesi del G2, né quelli del G8, sorda appare tutta la vasta area dei Paesi del G20. Solo Benedetto XVI ha rilanciato l’appello.

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Oggi l’Unione mette al centro il suo futuro. «Niente miracoli», dice Angela Merkel

Allarme Barroso: è in gioco l’Europa Drammatico appello agli Stati prima del vertice sulla crisi greca gnale che uscirà da Bruxelles sarà, comunque, forte perché «tutti hanno a cuore il futuro dell’euro, che è la più importante realizzazione della Ue, e saranno uniti nella sua difesa». Niente miracoli, insomma, ma dall’incontro a quattr’occhi tra il Cancelliere tedesco e il Presidente francese, ieri a Berlino, sono uscite parole di speranza su quello che i capi di Stato e di governo dei diciassette Paesi che fanno parte dell’eurozona saranno in grado di decidere a Bruxelles.

di Enrico Singer ngela Merkel avverte che il vertice straordinario dei leader di Eurolandia non farà miracoli, ma è anche convinta che un accordo ci sarà. Perché la cura della crisi della Grecia – e della moneta comune – è indispensabile e richiede «un processo controllato fatto di passi successivi per risolvere la causa del problema: la riduzione del debito di Atene e l’aumento della competitività del Paese». Nicolas Sarkozy è convinto che il se-

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

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• ANNO XVI •

NUMERO

140 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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politica & corruzione

il fatto Il Senato tra le polemiche «salva» il Pd Tedesco che non voleva «protezioni». E poi scoppia il parapiglia in Transatlantico

La Camera non salva Papa Sì all’arresto con il voto segreto, come chiesto da Pdl e Responsabili. La Lega determinante: metà dei suoi deputati vota con l’opposizione

di Marco Palombi

ROMA. La giornata era iniziata con almeno due sorprese inerenti proprio le vicende giudiziarie che riguardano Alfonso Papa: le perquisizioni ordinate dal pm napoletano Woodcock negli uffici romani dell’Eni e gli avvicendamenti ai piani alti della Guardia di Finanza che hanno allontanato i generali coinvolti proprio nella cosiddetta inchiesta P4. Secondo i rumors di Transatlantico i militari negli uffici dell’azienda petrolifera italiana servono a cementare l’accusa di associazione a delinquere per Luigi Bisignani, Papa e gli altri in vista del Tribunale del Riesame di venerdì, mentre per quanto riguarda le stellette della Gdf si tratta di un’operazione firmata da Giulio Tremonti e dal comandante generale Nino Di Paolo.

Obiettivo: promuovere per rimuovere quei generali coinvolti nell’inchiesta napoletana e che, secondo la ricostruzione dello stesso ministro dell’Economia davanti ai Pm, sono la cordata che nelle Fiamme Gialle fa capo al premier Silvio Berlusconi. Alla fine, il capo di Stato maggiore Adinolfi viene mandato a fare il capo del comando interregionale di Firenze, mentre Vito Bardi passa dal comando a Napoli al ruolo di ispettore per gli istituti di istruzione delle Fiamme Gialle a Roma. È questo lo sfondo su cui comincia nell’aula di Montecitorio assente l’ondivago Umberto Bos-

il caso Dalla Prestigiacomo sì a due emendamenti che la maggioranza boccia

Rifiuti, il governo si vota contro Alla fine vince la Lega: addio decreto salva-Napoli ROMA. Non sono bei giorni, per il centrodestra e a caos politico ormai si aggiunge caos politico. Ieri, con i voti della sola opposizione nell’aula della Camera è passata una parte di una mozione dell’Idv sui rifiuti, su cui il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, aveva espresso parere favorevole, ma contro cui hanno votato i deputati di maggioranza e tutti i ministri. Per intenderci: Prestigiacomo si è astenuta mentre tutti i membri del governo in aula votavano no. Successivamente, su altre mozioni, come quella dell’Udc e del Pd, a fronte del parere favorevole del governo, ministri, sottosegretari e deputati della maggioranza hanno espresso un voto di astensione. Insomma: la stessa maggioranza di governo non era d’accordo con se stessa. Tanto che dai banchi di opposizione si è ripetutamente urlato: «Dimissioni, dimissioni». Il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto si è più volte recato al banco del governo a parlare con il ministro Prestigia-

como ed è stato più volte invitato dal presidente Fini a tornare al proprio banco. Alcuni ministri si sono avvicinati alla Prestigiacomo, primo fra tutti Ignazio La Russa, per comprendere il significato del suo atteggiamento. «Quello che sta accadendo in aula – ha commentato Walter Veltroni - non l’ho mai visto. Il parlamento non è un luogo dove si può giocare.Tanto più in assenza di una maggioranza e di una divisione che oggi è verificabile. Il governo dovrebbe trarne le conseguenze». «Il governo è vittima di un colpo di sole» ha detto invece il capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi.

Dopo tutto questo caos, che comunque ha procrastinato per l’ennesima volta la soluzione all’urgenza rifiuti in Campania, l’Aula ha approvato la proposta del relatore di rinviare in commissione il decreto legge. Su un’analoga proposta ieri la maggioranza era stata battuta. Ma a questo punto, viste le divisioni nella maggioranza, il provvedimento sembra avviarsi verso un binario morto, fino alla decadenza, a settembre. In pratica, la Lega ha ottenuto ciò che voleva, l’accantanamento del decreto, in pratica l’abbandono a se stessa di Napoli e della sua emergenza rifiuti: i maligni ieri dicevano che il Pdl aveva concesso questo successo alla Lega (sia pure con la contrarietà della ministro Prestigiacomo) sperando di ottenere poi un salvacondotto per Alfonso Papa…

si, presentissimo il Cavaliere - il dibattito sulla richiesta di arresto per l’ex magistrato e deputato del Pdl Alfonso Papa, proprio nelle stesse ore in cui a palazzo Madama si decide se mandare ai domiciliari Alberto Tedesco, senatore eletto nel Pd, già assessore alla Sanità nella prima giunta di Nichi Vendola (l’inchiesta è quella sugli scandali che ruotano attorno a Giampaolo Tarantini).

Il risultato è noto: Alfonso Papa andrà in galera e Alberto Tedesco invece si salva. Entrambi, assai tesi, avevano preso la parola in Aula. Tedesco per chiedere il voto palese e il sì all’arresto da parte del Senato, Papa per proclamarsi innocente davanti ai suoi colleghi e raccontare come nella notte avesse dovuto «spiegare ai miei due figli, pieno di dolore, come e perché la prossima settimana potrei non tornare a casa a dormire». Trecentodiciannove deputati hanno detto sì, con voto segreto, alla richiesta d’arresto della procura napoletana (293 i no): vuol dire che non solo lo ha fatto l’opposizione compattamente, ma anche un bel pezzo della Lega - Roberto Maroni in testa e facendolo vedere a tutti, mentre qualche suo amico si fotografa col cellulare s’è schierata contro il collega di maggioranza. Un silenzio irreale ha accolto la lettura del risultato nella solitamente assai rumorosa aula di Montecitorio: a rompere l’incantesimo proprio Alfonso Papa, che si è alzato per


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Maroni fa il «rivoluzionario» col permesso del capo

Dal salvataggio di Tedesco all’indagine su Penati

Dalla Camera un segnale a Berlusconi

E ora per il Pd si apre un problema grave

di Giuseppe Baiocchi

di Giancristiano Desiderio

ra la primavera turbinosa del 1993. Con grande scandalo dei benpensanti, la Lega sventolava il cappio della forca nell’aula di Montecitorio, a simbolo della protesta di popolo contro la “casta”della politica della Prima Repubblica. Poi però, nel segreto dell’urna e in quella stessa aula, la stessa Lega votò contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Salvando di nascosto il “Cinghialone”, ma per una volta sola, l’astuto Bossi scelse di far crescere l’indignazione dell’opinione pubblica e di affrettare il tempo di nuove elezioni che avrebbero sancito la fine del passato e la nuova stagione della politica. Quella Lega, giovane di vita istituzionale e portatrice di un acre “profumo di nuovo”, era in Parlamento una falange macedone compatta e inscalfibile che seguiva ciecamente il suo padre-profeta. Allora quei 55 deputati votarono senza incertezze e mantenendo il segreto, mentre pubblicamente il Carroccio si scagliava contro il consociativismo e la “vecchia politica” protagonista di Tangentopoli.Diciotto anni più tardi, invece, la Lega è partito di governo e sente sulla sua pelle il richiamo di una base indignata e delusa dai magri risultati fin qui ottenuti e insieme “prigioniera”di un’alleanza dove sotto il berlusconismo si sono consumate scelte e traffici poco commendevoli. Di qui la spinta a distaccarsi dalla “casta”e a non apparire “impiccata al vecchio”, proprio quando il Paese, con i sussulti di rabbia e di indignazione, trasmette da qualche mese l’intenzione prepotente di comunque “voltare pagina”. Ieri Bossi a Montecitorio non c’era, era rimasto a Milano. E negli ultimi giorni ha trasmesso una immagine ondivaga, anche per tenere comunque conto delle divisioni che attraversano il suo partito: Se da un lato la lealtà verso il premier e la sua stessa antica diffidenza verso il potere sostanziale e ricrescente dei magistrati lo faceva propendere per il “no”comunque alle manette, dall’altro non poteva restare sordo alla marea montante della base, alla ricerca di un qualsiasi capro espiatorio.

e la destra piange, la sinistra non ride. Il doppio voto alla Camera e al Senato (ma anche l’inchiesta per corruzione su Filippo Penati) apre un grave problema di credibilità al Pd. E viene da chiedersi: l’avranno capito i suoi dirigenti? È vero, Alberto Tedesco aveva chiesto in Senato di non avere protezioni, di essere arrestato, ma ora ha un’arma forbidaile in mano: può sempre dimettersi e affrontare il proprio destino. Lo farà? E che dirà altrimenti l’opinione pubblica, di fronte alla «condanna» di Papa parallela al «salvataggio» di Tedesco? La sinistra deve battere un colpo, subito. Quanto alla maggioranza: la sostanza politica è che non ha “salvato”l’onorevole Papa dall’arresto. Per giri e rigiri di parole e cose che si vogliano fare, la realtà dei fatti è questa: la richiesta di carcerazione preventiva per il deputato del Pdl coinvolto nell’inchiesta sulla cosiddetta P4 sarebbe stata respinta se la maggioranza avesse votato compatta no.

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Bossi manda segnali ondivaghi: fa avanzare i suoi in formazione non più compatta come ai tempi di Craxi, e rende più “liquida” la maggioranza E allora la soluzione della “libertà di coscienza”ai 59 deputati diventava l’unica strada praticabile. Anche perché monta nel suo stesso gruppo parlamentare la spinta ad accelerare la crisi e a farla finita con Berlusconi. D’altronde, se il capofila di questa tendenza rivelatasi maggioritaria nel segreto dell’urna, resta il ministro dell’Interno, anche per Bossi paradossalmente non è una sconfessione. Nonostante il polverone mediatico accrediti (o speri) un cambio di leadership, se il dissenso si convoglia dietro a Maroni, la Lega non si spaccherà: la ormai lunga storia del Carroccio dimostra che Maroni sa essere un ottimo rivoluzionario ma sempre con il “permesso” del Capo. Forse, per un partito drammaticamente incerto sulla sua stessa natura e sulle prospettive di lungo periodo (nuove alleanze comprese), mantenere comunque il collegamento con la base militante e incanalare il dibattito interno in mani sicure è una piccola vittoria probabilmente inattesa. Certo, nel confuso panorama politico, lo scoprirsi determinante nei numeri e il rendere “liquida e fluttuante” una maggioranza parlamentare che fino ieri aveva retto a tutte le tempeste è un “fatto politico”di notevole rilevanza. Ma forse, paradossalmente, per Bossi e tutti i suoi vale meno rispetto al salvataggio dell’unità interna….

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SIlvio Berlusconi ha giocato la sua partita con dignità: ha messo la faccia in questa battaglia presentandosi in Aula, ma alla fine ha perso Il dibattito parlamentare è stato di alto livello. E lo diciamo senza alcuna ironia. Tuttavia, anche quando il Parlamento ha dato una buona prova di sé e della sua funzione, il cuore della giornata politica di ieri è da ricercarsi nei travagli della maggioranza e, in particolare, nei rapporti tra la Lega e il partito di Berlusconi. La maggioranza si è presentata in Parlamento nel peggiore dei modi. Umberto Bossi, che non era presente al momento del voto, nei giorni precedenti ha cambiato idea ben tre volte: prima dicendo sì, poi no, quindi sì. Proprio sulla diversità di idee della Lega in merito all’arresto si è in pratica dissolta la maggioranza di governo. In fondo, le parole di fuoco di Fabrizio Cicchitto - «il giacobinismo ha causato tanti mali nel secolo scorso e purtroppo continuerà a causarne nel secolo nuovo» - sono da rivolgersi ad esponenti leghisti della maggioranza. Il ministro dell’Interno, presente in Aula, ha ritenuto di rivendicare il voto a favore dell’arresto dicendo: «Noi siamo coerenti». Questa coerenza, però, poteva essere espressa anche in modo palese senza far ricorso al voto segreto e drammatizzare ulteriormente una giornata politica che ha visto mischiare cose come l’arresto di un deputato come Papa e il decreto legge per la spazzatura di Napoli che la Lega vuole abbandonare alle ortiche della Commissione Ambiente. La maggioranza non ha avuto in sé la forza di mostrare la sua coerenza politica e parlamentare perché avrebbe mostrato solo la coerenza dell’incoerenza. Il capo del governo si era esposto in prima persona dicendo che c’è “il rischio di una escalation di arresti”e che “di questo passo si rischia di minare i numeri della maggioranza e di tornare al clima del ‘92”. Ma i numeri della maggioranza sono minati dalla stessa (ex) maggioranza.Voto segreto o palese, la Lega ha rivendicato la scelta del sì all’arresto. Come l’opposizione. Ma con una fondamentale differenza: la Lega è in maggioranza e al governo. Quello che Berlusconi chiama “clima del ‘92”ce l’ha in casa. Ieri alla Camera, dopo il voto, si piangeva. Ci saranno state anche lacrime di coccodrillo. Perché sulla libertà e sulla carcerazione di Alfonso Papa si è giocata una partita in cui la Lega ha deciso di votare contro il capo del governo. Di fatto, l’alleanza tra Pdl e Lega non c’è più. E anche il Pd non se la passa troppo bene: indubbiamente non ci aspettano giorni facili.

uscire dall’aula abbracciato dai colleghi del Pdl. Quanto a Tedesco, invece, palazzo Madama ha detto no ai domiciliari, sempre col voto segreto: solo 127 i senatori che si sono schierati per il sì alla richiesta del gip di Bari a petto di 151 contrari e 11 astenuti. Non è chiaro, essendo la Lega ufficialmente favorevole all’arresto, né si saprà mai se a salvare l’ex assessore pugliese sia stata la maggioranza o l’opposizione sotto la coperta dell’anonimato. Commento di Massimo D’Alema: “E’ andata com’era prevedibile e ragionevole”.

Nonostante le sorprese finali, però, il dibattito s’era invece rivelato noioso, almeno rispetto alle premesse pugilistiche della mattina, quando Franceschini aveva accusato a gran voce “i guerrieri padani”di aver scambiato il ritiro del decreto sui rifiuti campani con il no all’arresto di Papa. «Siete stati voi a mettervi d’accordo sotto banco per salvare lui e Tedesco», ribatteva - urlando pure lui - il capogruppo leghista Reguzzoni, mentre Di Pietro si commuoveva per la sorte del collega e chiedeva a tutti di abbassare i toni. Nel pomeriggio, infatti, tutti si sono tenuti bassi: discorsi dell’opposizione che elogiavano la completezza e l’accuratezza dell’inchiesta e discorsi di maggioranza – persino la Lega, pure ufficialmente favorevole all’arresto - che sottolineavano che la libertà personale è un bene supremo e l’arresto cautelare, insomma, non si fa (almeno se sei deputato, perché se sei un immigrato irregolare vai in galera per 18 mesi senza aver commesso alcun reato). L’avvocato Sisto del Pdl, non contento, s’è inventato pure il “super fumus persecutionis” e “caccia all’uomo-parlamentare” nei confronti di Papa, dopo aver giocato il suo intervento attorno alla mozione degli affetti: noi Margiotta del Pd però lo salvammo. Gli unici picchi sono arrivati verso la fine: il primo quando la liberaldemocratica Daniela Melchiorre, entrata e uscita più volte dalla maggioranza, dà dei «servi della gleba» ai vocianti colleghi del Pdl; il secondo durante l’aulico intervento del responsabile Mario Pepe, che garantisce che l’arresto di Papa non solo «non pulirà le nostre coscienze», ma farà «andare in galera tutti noi». Negli stessi istanti Silvio Berlusconi ribadiva la linea a mezzo stampa: «Dobbiamo bloccarli, c’è il rischio di una escalation di arresti: di questo passo i magistrati mineranno i numeri della maggioranza - ha fatto sapere il premier - Qui ci si ritrova tutti al clima del 1992». La palma d’oro, però, va a Maurizio Paniz, PdL, che ieri ha invocato «la riscossa civica e morale del Parlamento», paragonato la carcerazione preventiva alla tortura e sostenuto che gli onorevoli sono discriminati: «Per certi pm noi siamo più uguali degli altri». Non sono stati accontentati.


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politica & corruzione Qui accanto, Bettino Craxi depone in tribunale nel 1993. Il 29 aprile del 1993, la Camera negò l’autorizzazione a procede nei suoi confronti, benche fosse stato raggiunto già da oltre dieci avvisi di garanzia per vari procedimenti penali: quell’atto fece precipitare il paese nel caos politico. Sotto, la celebre borsa di Mario Chiesa, con la quale il «mariuolo» (la definizione è di Craxi stesso) consegnava le tangenti. Nella pagina a fianco, Giorgio La Malfa

Dopo il terremoto di Mani Pulite si pensava a un cambio di rotta, ma con il Parlamento di ”nominati” le cose sono peggiorate

Tangenrolex

Ormai tutti la chiamano «nuova tangentopoli». In realtà c’è una differenza sostanziale tra quanto accadde nel 1993 e quel che succede oggi: ieri il problema era il finanziamento (illecito) ai partiti, oggi si arricchiscono i singoli di Maurizio Stefanini el 1993 il punto di non ritorno della Prima Repubblica fu quando la Camera a voto segreto negò l’autorizzazione a procedere per Craxi, e il leader socialista fu assalito da una folla che gli tirò monetine in quantità all’uscita dell’Hotel Raphael. Oggi, passare da Bettino Craxi a Alfonso Papa e Alberto Tedesco sembra quasi una conferma della vecchia battuta di Marx, sulle analogie tra il golpe di Napoleone I e quello di Napoleone III: «La storia non si ripete, se non in grottesco». Ma non è solo il precipitare di livello dei protagonisti a fare effetto. Rispetto al 1993, in Italia si sono ormai disintegrati del tutto quei partiti che avevano fatto la storia del Paese, e che rappresentavano anche un importante aggancio con le grandi famiglie ideologiche europee e mondiali. Rispetto al 1993, si è esaurita del tutto quella fiducia nella possibilità di una rivoluzione liberista e maggioritaria in senso anglo-sassone che aveva ali-

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mentato la grande stagione referendaria, e da cui ci si aspettava che ponesse fine al tradizionale malcostume della politica italiana. Rispetto al 1993 con l’aggancio all’euro e un nuovo ordine mondiale sempre meno occidental-centrico sono pure venuti meno molti di quei margini di manovra che allora permettevano ancora di venire a capo anche dei più micidiali contraccolpi, magari a colpi di svalutazioni competitive. In compenso, la Seconda Repub-

blica ha permesso infine all’Italia di conoscere un regime di alternanza democratica, che ha portato praticamente tutte le forze politiche ad avere prima o poi responsabilità di governo. E questo è stato un dato in sé positivo.

Solo che in quest’era dell’alternanza ancora nessun governo è mai riuscito a confermarsi. A ogni elezione politica di questi 18 anni ha sempre vinto lo schieramento opposto a quello

L’addio alle preferenze invece di migliorare la situazione, ha finito per complicarla: chi vince vuole tutto e subito

che aveva vinto la volta precedente. Ognuno di questi schieramenti ha poi iniziato a decomporsi subito dopo la vittoria, per le risse tra i diversi alleati. Si può anche ricordare come, ove non vi siano state elezioni anticipate, tutte le coalizioni che hanno vinto hanno iniziato a incassare disfatte sistematiche di amministrative e europee a partire dal terzo anno di governo, fino a punto alla sconfitta delle politiche successive. Come dire che nessuno di

coloro che ha vinto è mai riuscito a convincere: contribuendo ulteriormente al venir meno di appartenenze e generose illusioni. Per questo, più che pro, gli italiani della Seconda Repubblica votano contro. E sempre per questo, i partiti che si sono ricostruiti, frammentati e riricostruiti a catena al posto di quelli vecchi, ormai, più che dall’ideologia o dalla storia sono identificati dai leader. Anche i più radicali: i dipetristi, i vendoliani, i grillini… Dopo vari appuntamenti in cui non si era più raggiunto il quorum, i referendum sono tornati ad agitare la politica: ma stavolta si posizioni di tipo statalista, in particolare il voto sull’acqua, in singolare contrasto con quella sfiducia sempre più marcata nelle istituzioni che gli stessi promotori di quest’ultima consultazione condividono. Della serie: chi gestisce il pubblico ci fa schifo, ma vogliamo comunque dargli da gestire quanta più roba possibile. L’uninominale si è del tutto screditato, per il modo in cui gli


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L’analisi di Giorgio La Malfa che negli anni Novanta usò la formula del ”partito degli onesti”

Una commissione d’inchiesta sulle cause della corruzione

«Non basta più un generico richiamo all’onestà. La politica deve indagare su se stessa per trovare le radici del proprio malcostume» di Riccardo Paradisi l partito degli onesti, ricordate? Era stato l’allora segretario del Pri Giorgio La Malfa, siamo nel 1992, a usare questa formula dopo essersi dimesso dal settimo governo Andreotti. L’espressione, già usata da Spadolini, veniva rilanciata da La Malfa di fronte alle sempre più vistose crepe che l’edificio della Prima repubblica mostrava all’immediata vigilia del suo sgretolarsi sotto i colpi della magistratura. Oggi, dopo un quindicennio, La Malfa non se la sente di riproporre quell’espressione. Non solo perché adesso gli suona “troppo calvinista” ma perché questa enunciazione d’intenti non è più sufficiente contro la dilagante corruzione politica; pervadente, capillare e soprattutto trasversale. Non a caso alla Camera e al Senato si è votato per autorizzare l’arresto di un esponente del Pdl e di uno del Pd. Si tratta insomma di fare qualche passo concreto per arginare un fenomeno connaturato alle forme e al carattere d’una società liquida e post-valoriale, allentamento etico che non interessa solo la politica ma che nella politica assume connotazioni più odiose e dannose, considerato che è sulle risorse pubbliche che s’avventa la fame dei masnadieri trincerati dietro le appartenenze partitiche.

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La Malfa ripercorre con liberal la parabola discendente della politica italiana: dai tempi eroici della ricostruzione fino ai giorni nostri passando per lo smottamento della prima repubblica e la nascita della sedicente seconda. «La forza delle posizioni ideologiche della prima repubblica, la persistenza nel dopoguerra delle culture politiche ottonovecentesche sublimava molte pulsioni primarie, limitava il fenomeno del malcostume, lo rendeva marginale e comunque molto individuale, limitato cioè a singoli esponenti politici corrotti per loro natura. Non era assolutamente un fenomeno così generalizzato. Nei partiti vigeva una morale politica, un’etica di cui si rispondeva alla propria coscienza prima ancora che ai propri compagni. E dove esisteva un controllo severo. A questa etica dei partiti – al netto delle tendenze partitocratiche che andava assumendo il sistema politico - c’era il clima della ricostruzione, l’entusiasmo per il ritorno alla democrazia. Questa spinta virtuosa si è andata poi appannando e corrompendo via via che ci si allontanava dagli anni eroici della resistenza e della ricostruzione. Tutto si stemperava nella routine di governo e delle ammnistrazioni sicché gradualmente quelli che erano visti come eccezioni diventano generalmente tollerati, considerati come fisiologici, tanto che la prima repubblica è caduta sotto gli scandali». Da anomalia nasce anomalia: la secon-

da repubblica infatti concepita in polemica con la prima e sulla spinta delle inchieste della magistratura nasce in polemica contro la magistratura. «Intendiamoci – precisa La Malfa – una polemica in parte legittima considerato il massimalismo e la furia indiscriminata con cui si sono colpiti e distrutti almeno cinque partiti storici italiani ma la retorica antigiustizialista coi suoi eccessi simmetrici ha finito con il diventare l’alibi per ogni misfatto, il rifu-

«La polemica contro la magistratura ha finito col legittimare ogni misfatto»

gio d’ogni mascalzone che si trasforma in un perseguitato politico». In Italia insomma è sempre vero quello che ebbe a dire Antonio Maccanico e cioè che è molto raro che si scontrino due ragioni piuttosto a scontrarsi sono due torti. «Tuttavia – continua La Malfa –io oggi non userei più quella formula partito degli onesti. Mi suona molto astratta, troppo illuministica. Non si poteva e non si può ricostruire la società italiana sullo stampo della società di Ginevra di Calvino. Questo non significa che non si debba affrontare il nodo della questione morale. Lo si deve fare con mezzi più concreti ed efficaci. Imponendo alla classe politica una riflessione su se stessa e sulle proprie cadute. Come? Per esempio si potrebbe fare una commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause della corruzione politica».

Passare dalla retorica della questione morale a un’indagine scientifica, all’inchiesta minuta delle sue sorgenti. «Per esempio – si domanda La Malfa – la proliferazione degli enti pubblici è una delle cause? Il criterio delle remunerazioni e delle consulenza nelle pubbliche amministrazioni assieme alla gestione e all’organizzazione del pubblico sono una concausa? Per ridurre il perimetro della corruzione si dovrebbe ridurre anche il pascolo dell’impiego e della spesa pubblica». Non che il privato come hanno dimostrato i fatti più recenti, anche italiani, sia la sede d’ogni virtù ma la corruzione pubblica ha il suo punto di ricaduta sulla collettività, si approvigiona e s’alimenta delle risorse di tutti, mette in conflitto, come si è visto, i poteri dello stato. Si tratta allora di affamare la corruzione, perimetrando e censendo i suoi pascoli, riducendoli anche. Un’iniziativa che però non può discendere e procedere dai proclami che sotto la spinta emotiva e con una buona dose di demagogia vengono ormai fatti quotidianamente da tutti ma devono appunto procedere da una conoscenza scientifica delle cause delle corruzione. Tanti anni fa, quando si pose il problema della giungla delle retribuzioni, si fece una commissione parlamentare su questo dato. La classe politica che oggi deve costringersi a riflettere sulle cause della corruzione dovrebbe oggi fare una cosa simile. Anche meditando sul fatto che rispetto a un parziale svuotamento di funzioni e una sopravvenuta delega legislativa ad altre sedi come quella Europa il parlamento nazionale è ormai pletorico». Andrebbe insomma ripensata anche l’architettura costituzionale. «Per snellire lo stato nazionale e renderlo più efficace, anche contro i vuoti politici che l’Unione Europea avrebbe dovuto riempire. Lasciando vuoti ampi margini di decisionalità»

italiani invece di usarlo per costringere i partiti a scegliere i candidati migliori si sono piegati col Mattarellum a accettare qualunque paracadutato piombasse loro addosso; così che alla fine il Porcellum è arrivato addirittura all’abolizione integrale di ogni possibile preferenza. Ma il venir meno sia delle campagne per le preferenze che delle macchine di partito invece di abbattere il costo della politica lo ha fatto schizzare in alto: e lo stesso dicasi della corruzione. Col Pdl Papa, appunto, anche il Pd Tedesco è finito in mezzo a questo Armageddon. E la decisione con cui il Pd ha deciso di chiedere comunque il suo arresto a qualcuno sembrerà forse prova di rigore. Ad altri invece ricorderà Edoardo Nottola: il costruttore speculatore edilizio – consigliere comunale protagonista delle Mani sulla città di Francesco Rosi, pronto a scaricare sul suo stesso figlio la responsabilità dello scandalo in cui è coinvolto, in modo da poterne addirittura approfittare per diventare assessore all’edilizia.

Insomma, l’ideologia faceva rubare, ma rappresentava anche un calmiere al furto. Una volta preso quel che serviva a far funzionare gli apparati e a dare uno stipendio al numeroso personale che ci viveva attorno, il prelievo si fermava.Viceversa oggi gli eletti selezionati al dito dal capo, proprio perché non hanno idea di quanto potranno durare, sembrano preoccuparsi solo di arraffare quanto possono intanto che fanno in tempo. Magari non è così; magari si potrebbe dimostrare che rispetto alla Prima Repubblica il prelievo è calato. Ma se pure la quantità è minore, lo scandalo è invece maggiore, proprio perché tutto va nelle tasche dell’arraffatore. Senza più alcun alibi morale sui fini che giustificano i mezzi. Mentre l’irritazione verso la “Casta”cresce, dunque, Calderoli prova la carta del taglio drastico del numero dei parlamentari, collegando anche a loro remunerazione al lavoro fatto. Ma si può equiparare il lavoro di un deputato o un senatore a quello di un usciere? In realtà, componente importante dell’opera di un parlamentare dovrebbe essere la presenza nel proprio collegio, a coltivare i rapporti con gli elettori. Ma, lo si è ricordato, lo stesso Calderoli col Porcellum ha reso questo rapporto completamente inutile. Da una parte, dunque, Calderoli è di quelli che dice demagogicamente di voler togliere a Roma i ministeri. Dall’altra, fa di tutto per farvi concentrare gli eletti. Che dire? Il fatto è che, altra differenza fondamentale, nel 1993 tutti i fusibili della politica saltarono. Ormai, tutti i corti circuiti del futuro bisognerà affrontarli senza salvavita.


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ROMA. A marchiarlo per la vita ci ha pensato il suo omonimo Alessandro Penati. Era il 2005, ai tempi della conquista della Milano-Serravalle e l’economista scrisse che, «a guardarlo bene, questo Penati somiglia un po’ a Gordon Gekko (quello di Wall Street). Speriamo solo che non faccia proseliti. Di capitalisti disinvolti, ci bastano quelli privati. E avanzano». Chiacchierato, Filippo Penati, lo è sempre stato. Cinquantott’anni, cresciuto e pasciuto nel Pci e in contrasto con i gruppettari suoi coetanei, qualche esperienza in fabbrica per poi diventare insegnante, assicuratore a tempo perso e vicepresidente della sezione attività ricreative di Lega Coop. Riformista, spregiudicato, coraggioso nel ribaltare tutti i tabù e i sancta sanctorum della sinistra, pronto a creare alleanze con Letizia Moratti e Roberto Formigoni e a mettere alla porta un assessore di Rifondazione, stanco dei suoi tatticismi. Ma l’uomo ha avuto anche la sfortuna di doversi cimentare in due operazione economiche titaniche: da sindaco di Sesto San Giovanni (1994-2001) eccolo dare il là alla riconversione dell’area ex Falck, un milione e mezzo di metri cubi che potrebbero rendere l’ex Stalingrado d’Italia una Milano 4 avveniristica; da presidente della provincia di Milano (2004-2009) la resa dei conti con il Comune – e dopo anni di liti imbarazzanti tra soci pubblici e privati – per il controllo della Milano Serravalle. Infatti pagò una cifra spropositata per parte delle quote detenute dal defunto costruttore Marcellino Gavio dell’autostrada che gestisce l’A7 e le principali tangenziali del capoluogo lombardo. Per questa operazione è finito nel mirino della Corte dei Conti, per l’altra (come ha svelato ieri mattina il sito del Corriere della Sera) è stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Monza con le accuse di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. In estrema sintesi l’attuale vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia avrebbe intascato negli anni tangenti pari a 4 miliardi di lire, cioè a 2 milioni di euro. Una notizia che è una bomba perché arriva nel giorno nel quale la Camera decide dell’arresto del pdl Alfonso Papa (il centrodestra si è detto solidale), mentre a Milano il Pd fatica a imporre la sua moral suasion sul neosindaco Giuliano Pisapia. L’interessato ha respinto ogni addebito ed espresso «serenità. Sono a disposizione della procura di Monza, nutro assoluta fiducia nella magi-

politica & corruzione Sotto inchiesta la gestione dell’area ex Falck: l’ipotesi è corruzione

Indagato Penati, il Pd nel caos

Il leader del centrosinistra milanese accusato di aver ricevuto tangenti tra il 2001 e il 2002 per la sistemazione delle ex acciaierie di Sesto San Giovanni di Francesco Pacifico

stratura e sono certo che alla fine dell’indagine la mia posizione verrà totalmente chiarita. Sono sereno, ripeto, e ringrazio il mio partito per il sostegno che mi ha immediatamente manifestato. Non ho nulla da temere». Compreso Penati, sono quindici gli indagati. Tra loro anche il suo ex capo di gabinetto in Provincia, Giordano Vimercati, l’attuale assessore comunale al Bilancio di Sesto con delega ai rapporti con le aziende per i progetti relativi alle risorse finanziarie e all’edilizia privata, Pasqualino Leva ( che si è dimesso), una funzionaria importante dell’ufficio edilizia pubblica dello stesso Comune, Nicoletta Sostaro, l’architetto Marco Magni, il più famoso collega Renato Sarno e alcuni dirigenti della coop rosse. Gli inquirenti punterebbero a dimostrare che tutte le operazioni immobiliari sarebbero state gestite da una cricca di politici e di amministratori. I quali avrebbero accettato le pressioni di imprenditori spregiudicati per condizionare la scrittura del piano di governo del territorio di Sesto San Giovanni: tangenti e ricatti con l’intento di aumentare la volumetria della futura cittadella. L’inchiesta dei pubblici ministeri monzesi Franca Macchia e Walter Mapelli è un po’ una summa del malaffare nell’ex roccaforte operaia. Ha passato al setaccio ogni passaggio nelle principali operazioni edilizie che hanno riguardato la città: la riconversione dell’area Falck, ma anche gli interventi edilizi sui terreni lasciati dalla Marelli e quelli scaturiti dalle assegnazioni del Servizio integrato trasporti dell’Alto Milanese. Le toghe fanno capire che devono spiegare molte cose soprattutto gli amministratori del dopo Penati. L’inchiesta sull’area Falck riapre una ferita mai sanata nella sinistra postcomunista. E non soltanto perché in 25 anni si sono soltanto sprecate parole e accuse. Smantellate le acciaierie nel 1996, dal 2000 i terreni diventano di proprietà di Giuseppe (gola profonda dell’inchiesta) e Luca Pasini, che staccano un assegno da 400 miliardi di vecchie lire sperando di fare uno spettacolare centro direzionale disegnato da Mario Botta e di offrire una nuova casa all’allora Banca Intesa.

Vuoi il cambio di programma di Ca’ de Sass vuoi le liti con il Comune sul piano regolatore, i due imprenditori nel 2005 devono cedere per 88 milioni l’intera area all’immobiliarista Luigi Zunino, patron del gruppo Risanamento. I suoi progetti sono ancora più ambiziosi, con Renzo Piano chiamato a disegnare case e verde. L’amministrazione – è pur sempre


politica & corruzione

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«La maledizione di una città-diavolo» «Sono saltate le regole e nella rete della corruzione può cadere chiunque», dice Giulio Sapelli di Francesco Lo Dico

ROMA. «Alla base di tutto c’è la disgregazione dei partiti nazionali. Il progressivo decadimento delle ideologie in precipitati demagogici e neopopulisti è stato scolpito in una legge elettorale che ha sancito il trionfo dell’elitismo. È pur vero, come dicevano Mosca e Pareto, che sono gli eletti a scegliere gli elettori e mai viceversa, ma un tempo il cursus honorum, la militanza politica, la gavetta, funzionavano come garanzie di qualità proprie dell’elitario. Questi sapeva tenersi al riparo, in genere, da basse speculazioni personalistiche. L’ideologia fungeva per lui come schermo di resistenza dal piccolo tornaconto. L’uomo di potere di un tempo si preoccupava perciò soltanto di dirigere il traffico all’incrocio tra politica ed economia. Poi, spariti i semafori dei vecchi partiti, sulle strade si è riversato il caos». È una breve lezione di storia contemporanea, quella che Giulio Sapelli, docente di Economia politica all’università di Milano, affida alle pagine di liberal. Il professore, d’altro canto non è affatto interessato alla piccola contabilità giudiziaria in perenne aggiornamento. Gli importa piuttosto, precisa, individuare alcuni fenomeni propri della società liquida odierna. «Non sono affatto milanesi», precisa, «ma propri di un Paese rimasto senza semafori». A proposito di viabilità problematica, professore: perché l’ingorgo di politica e malaffare diventa ogni giorno più inestricabile? L’intreccio tra business e politica non è una novità, e non deve sorprendere che esso non si sia miracolosamente interrotto dola Stalingrado d’Italia – ottiene di destinare il 30 per cento all’edilizia popolare Anche questa volta tutto si ferma: l’imprenditore di Nizza Monferrato è travolto da un crack da quasi 3 miliardi di euro. E le banche creditrici vendono nel 2010 per 405 milioni di euro l’intera area alla cordata capitanata da Davide Bizzi. Il quale promette che i lavori partiranno entro la fine 2012 e che creerà 3mila lavoratori per un periodo di dieci anni. Il timore è che ogni velleità cada miseramente, lasciando spazio soltanto al malaffare. Giorgio Oldrini, attuale primo

po Tangentopoli. Semmai bisogna notare che i vecchi partiti facevano allora da regolatori del traffico al crocevia tra affari e politica. Basti dire che un tempo, come insegna il caso di Donat-Cattin, si entrava ricchissimi in Parlamento per uscirne impoveriti. E che oggi ci si avventura invece in politica alla ricerca di ricchezza. Non è curioso che come nel ’92, una serie di scandali abbia Milano come motore primo?

film all’italiana? Va detto senza remore che la corruzione è fisiologica all’interno di ogni sistema di potere. Ciò che differenzia la Penisola da altri Stati è semmai il modo di intercettarla e di combatterla. Nei Paesi del Common law si è percorsa la strada del lobbismo. Una sorta di poliarchia trasparente atta a disciplinare e pubblicizzare i gruppi di pressione. In Italia, e più in genere nel sud dell’Europa, si sono imposti invece i gruppi clanici, un arcipelago di piccoli e grandi interessi confluiti in correnti e fondazioni. II vero problema non è quindi l’improvvisa riscoperta di un Paese attraversato dalla corruzione, ma il fatto che il malaffare e lo scambio illecito prosperino in virtù della loro invisibilità. Un ragionamento che spiega come mai tutti i politici indagati dalla Procura di Milano strillino contro i giudici cancerogeni. Il problema è chi scopre i reati, o chi li commette? Anni fa scrissi un libro significativamente intitolato “Cleptocrazia”. Continua a essere ripubblicato in tutto il mondo, tranne che in Italia. Un altro album di famiglia poco gradito, bisogna supporre. Oggi manca la selezione della classe dirigente. Un tempo si faceva gavetta nelle sezioni, si facevano riunioni interminabili, si scrivevano tesi numerate che richiedevano infiniti dibattiti. Oggi i convegni durano mezza giornata, c’è scarsa o nulla formazione politica e le ragioni di

«I vecchi partiti erano ordinamenti giuridici di fatto che regolavano il traffico all’incrocio tra politica ed economia. Spariti i semafori, è cominciato il caos» I meccanismi di corruttela rispetto ad allora si sono evoluti sulla falsariga della trasformazione dei partiti, ma Milano è particolarmente interessata al

fenomeno soltanto in ragione della sua mole. È una delle aree più produttive d’Europa, e una delle più diseguali. Studi recenti dicono che l’uno per cento dei suoi abitanti detiene il quaranta per cento delle ricchezze. Siamo in presenza di una Tangentopoli 2.0, oppure si tratta sempre dello stesso

cittadino di Sesto San Giovanni e spesso in polemica con Penati, non nasconde il suo imbarazzo per la presenza tra gli indagati di un suo assessore. Ma chiede «di non confondere il passato con il presente. Sono fatti che risalgono ad anni addietro. Interventi al momento non sono ancora stati fatti, bonifiche nemmeno per cui mi risulta complicato immaginare come potrebbero essersi verificati episodi di corruzione o concussione».

Ma l’episodio va oltre i confini del hinterland milanese. Intanto perché l’ennesimo stop all’apertura dei cantieri a Sesto potrebbe in estrema ratio far scoppiare una bolla immobiliare sotto la Madunina. Congela-

partito più nobili, magari impartite dall’alto, sono sparite insieme a un’intrinseca forza persuasiva che tratteneva da certe tentazioni di basso conio. I partiti erano ordinamenti giuridici di fatto, che scaturivano dalla società stessa, per dirla con Santi Romano. Ci tocca rimpiangere la Prima Repubblica? Il sottobosco su cui è fiorita la Seconda Repubblica ha trovato nei ritrovati finanziari di oggi un terreno molto fertile. Le mille scatole cinesi di oggi, le shadow bank, i fondi neri, hanno inabissato i traffici oscuri di oggi in un labirinto spesso imperUn scrutabile. tempo sapevamo perlomeno che i partiti venivano foraggiati da entità sotto gli occhi di tutti: l’Unione Sovietica, la Cia, e via discorrendo. Eppure nonostante l’incredibile tracotanza delle agenzie di rating, degli speculatori e di certe banche che invece conosciamo benissimo, nessuno muove un dito per tentare di ristabilire un minimo di trasparenza, perché, dicono, deve decidere il mercato. Non c’è nessun mercato e nessuna mano invisibile, siamo nelle mani di un oligopolio finanziario che finge di essere mercato libero aperto alla competizione. Un’altra delle ragioni che fanno male a Milano, come al resto d’Italia.

grandi banche (IntesaSanpaolo e Unicredit) che hanno sovvenzionato i lavori. Guarda caso Ca’ de Sass e piazza Cordusio si sono molto spese per trasferire l’area da Zunino a Gissi.

Bersani: «La magistratura scoprirà che sono cose senza fondamento». Ma al Nazareno temono di essere equiparati alla destra e di perdere peso in tutto il Nord ta l’ex area Falck, in ritardo le opere a Fiera Milano City e nella città della moda che sorgerà nel quartiere Garibaldi, c’è il rischio che a pagare il prezzo più alto siano le due

Ep p oi

c ’è

l’aspetto prettamente politico della faccenda. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, lo stesso che aveva nominato Penati alla guida della sua segreteria, ha dichiarato: «La magistratura faccia il suo mestiere per accertare questa

vicenda. Credo che alla fine sarà in condizione di verificare che sono cose senza fondamento». In Transatlantico suoi compagni di partito sono stati più chiari: «Intanto veniamo equiparati alla destra, che no a caso ha subito espresso solidarietà pelosa. Ma quest’inchiesta, mentre a Milano Pisapia ci mette all’angolo, finisce per colpire quello che in questi anni è stato il principale ambasciatore del riformismo oltre il Po, che sa recuperare consensi nei confini di Pdl e Lega. E dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno per non essere fagocitati da Vendola e Grillo».


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l Corno d’Africa sta attraversando uno dei peggiori periodi di siccità degli ultimi 60 anni. Le notizie che ci giungono sono drammatiche. I diritti umani sembrano espropriati da una natura matrigna e indifferente e gli abituali allarmi lanciati dalle Ong presenti sul campo non riescono a mobilitare il senso di responsabilità e di solidarietà dei Paesi industrializzati. Non reagiscono né i Paesi del G2, né quelli del G8, sorda appare tutta la vasta area dei Paesi del G20. Il primo allarme è stato lanciato il 28 giugno da Elisabeth Byrs, portavoce dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari: «Due stagioni di scarse piogge hanno determinato la peggiore siccità nel Corno d’Africa degli ultimi sessant’anni», e aveva aggiunto: «Molte zone pastorali sono in stato d’emergenza». Il 30 giugno le Nazioni Unite hanno dichiarato lo «stato di carestia», il livello più grave nella scala delle emergenze. Ma a più di due settimane dalle dichiarazioni dell’Onu, la situazione invece di migliorare sta vistosamente peggiorando. C’è una sorta di assuefazione alle cattive notizie che anestetizza le coscienze individuali e quelle istituzionali, per cui anche gli allarmi lanciati dagli Organismi più qualificati finiscono col cadere nel vuoto. Eppure anche in questo caso si trattava di una disgrazia annunciata, prevedibile, che esigeva misure adeguate. Interventi a carattere multidimensionale, capaci di fronteggiare il problema della fame, ma nello stesso tempo capaci di ragionare sulle condizioni di una agricoltura obsoleta, destinata a una degradazione progressiva, che aggiunge danno a danno, povertà a povertà, fame a fame. I ridotti tassi di piovosità negli ultimi 3 anni han-

I

I ridotti tassi di piovosità hanno provocato un crollo di produzione agricola e allevamento e hanno peggiorato i tassi di malnutrizione nell’area no provocato un crollo della produzione agricola e dell’allevamento e hanno contribuito a peggiorare i tassi di malnutrizione all’interno della regione. Al dramma nel dramma si aggiunge la guerra tra poveri che si consuma tra queste popolazioni che mentre si spostano in cerca di cibo, invadono altri paesi e altre terre già ai limiti del collasso alimentare. Secondo l’Onu, gli scontri violenti provocati dalla siccità hanno costretto nel 2011 più di 135mila somali ad abbandonare il Paese.

Un valore aggiunto per noi italiani. Il corno d’Africa è una penisola a forma di triangolo sul lato est del continente africano. È una regione famosa in tutto il mondo per la sua estrema povertà e per la sua instabilità politica, l’una strettamente relazionata con l’altra, tanto da occupare gli ultimi posti nel continente e nel mondo nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano. Secondo le più recenti stime, la siccità rischia di condannare alla fame una popolazione di circa 10 milioni di persone in Kenia, Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Uganda e Gibuti. Sono molti gli italiani che per varie ragioni si sentono sollecitati a intervenire in aiuto di questi Paesi, soprattutto dell’Etiopia e della Somalia, con cui abbia-

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Un’assuefazione alle cattive notizie anestetizza le coscienze individuali e istituzi

La sparizione dei Dopo l’accorato appello di Benedetto XVI su carestia e siccità nel Corno d’Africa, viaggio umanitario ed etico nel dramma di una regione che l’intero Occidente non può più ignorare di Paola Binetti mo avuto intense relazioni nella breve storia del colonialismo italiano, al punto da immaginare di poter creare una sorta di Africa Orientale Italiana, lontanissima e difficilmente raggiungibile dalla madrepatria. In qualche modo questa povertà estrema è anche frutto di una colonizzazione che ha mancato i suoi obiettivi essenziali: la promozione delle condizioni di vita di quei popoli, per renderle più umane e più autonome. Difficile giudicare una memoria storica ancora troppo vicina, ma certamente la necessità di intervenire in loro soccorso è urgente, concreta e a tutto tondo, fatta di interventi a brevissimo termine e di una progettualità di medio termine, che possa mettere la parola fine a un dramma di lunghissima durata, per popoli che hanno l’unico peccato di essere nati nel luogo sbagliato in un momento sbagliato. La storia e la memoria: è sempre questa la sollecitazione che preme alle nostre coscienze, al di là di una disanima di colpe ed errori, c’è oggi più di allora la voglia di far qualcosa per questi Paesi in stato di crisi permanente, mentre noi speriamo che la nostra crisi sia solo transitoria, e potremmo farlo anche per dare alla nostra sobrietà una ragione di valore in più. Per non chiuderci nello stretto cerchio della nostra sopravvivenza, che se confrontata con la loro appare una sopravvivenza dorata, con la nostra aspettativa di vita media che raggiunge e supera gli 85 anni, mentre la loro non arriva ai 40 anni. Viviamo il doppio di loro e questo vorrà pur dire qualcosa in termini di impegno e di servizio, di contributi doppiamente generosi in un momento in cui ci sentiamo assediati da un lento e corrosivo processo di impoverimento.

Il campo profughi di Daadab. Guardando le immagini televisive colpisce questa marcia inesorabile verso un luogo di speranza che non sembra arrivare mai. Con l’esperienza delle nostre difficoltà all’accoglienza degli immigrati, ci chiediamo con sgomento come e dove saranno accolti questi stranieri in patria. Qualcuno ha definito Dadaab il capolinea della disperazione. Dadaab è il più grande campo profughi al mondo, situato nel nord-est del Kenya, vicino al confine con la Somalia. Un campo, originariamente costruito dalle autorità keniote con l’aiuto di una rete di agenzie umanitarie, con l’obiettivo di ospitare 90mila rifugiati. Ora ce ne sono più 400mila, e il numero è destinato ad aumentare rapidamente. Il governo di Nairobi, sotto la

pressione dell’Onu, ha dovuto creare un ulteriore sezione, la Ifo-2, che va ad aggiungersi alle altre tre che già esistevano: Ifo, Dagahaley, e Hagadera. Le condizioni igieniche sono assolutamente insoddisfacenti, le scorte alimentari ai minimi storici, le condizioni umane degradate e degradanti. Eppure per arrivare qui migliaia di persone hanno percorso migliaia di kilometri, hanno attraversato il deserto, hanno dovuto difendersi dagli animali selvaggi ma anche da banditi, che non esitano a privare questa gente del nulla che hanno e che non di rado violentano donne, che sono poco più che bambine. Una miseria morale infinita, in cui si danno appuntamento tutti i peggiori difetti della nostra umanità. Eppure Dadaab è nell’immaginario di queste persone un luogo dal sapore di casa; uno spazio in cui possono mettere la loro tenda e aspettare che le cose migliorino, che qualcuno si ricordi di loro, in cui non

si può sognare ma neppure immaginare un futuro migliore. Per molti di loro il poter essere registrati come rifugiati è già motivo di speranza, conferisce uno status dal quale possono attendersi aiuti, qualcosa che li sottrae all’anonimato del deserto, ma non a quello della fame. Le agenzie umanitarie che operano in Dadaab sono preoccupatissime: «I rifugiati sono davvero troppi e per di più quando giungono nei campi sono esausti, disidratati e spaventati. Molti di loro hanno camminato per due mesi e hanno visto i loro cari morire per la strada». Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), Dadaab nel 2010 riceveva una media di 7000 rifugiati al mese. Oggi questa cifra è abbondantemente superata e nessuno sa dire quante persone arrivino ogni giorno! I bambini sono le prime vittime e Monica Rull, che coordina i progetti di Medici senza frontiere in Kenya e Somalia afferma: «Ci


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ionali, per cui anche gli allarmi degli Organismi più qualificati cadono nel vuoto

i pani e dei pesci volere e di sapere essere presente, proprio in virtù di quella teoria dei diritti umani che è come il nerbo della nostra civiltà attuale.

In basso, un’immagine di povertà nel Corno d’Africa. A destra, Benedetto XVI durante l’Angelus della scorsa settimana

sono altissimi livelli di malnutrizione tra i minori, soprattutto quelli che hanno meno di cinque anni».

Una generazione a termine: bambini che muoiono. Di questa sciagura umana dovuta alla persistenza della carestia nel Corno d’Africa i bambini sono le maggiori vittime: per numero, per gravità e per conseguenze derivate dal cronicizzarsi della denutrizione. Non a caso l’Unicef sta alzando la sua voce a difesa dei bambini di oggi che non saranno gli uomini di domani: «Quella in corso nel Corno d’Africa è la più grave emergenza umanitaria al mondo e la Somalia è l’epicentro della crisi. In questo Paese oltre 500mila bambini soffrono di malnutrizione acuta e hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria». E aggiunge: «La regione meridionale del Paese è la più colpita, con l’80% di tutti i bambini malnutriti; in alcune

zone del sud, un bambino su tre soffre di malnutrizione acuta». Disgraziatamente per noi ci siamo fin troppo abituati a questi tassi di povertà e malnutrizione, a queste immagini che hanno il sapore di un esodo biblico mai finito e questa anestetizzazione delle nostre coscienze nuoce a noi non meno che a questi bambini. Anche se l’Africa orientale è frequentemente colpita da una drammatica insicurezza alimentare, la situazione attuale è estremamente problematica e non permette di girarsi dall’altra parte. Questi bambini hanno gli stessi diritti dei bambini di tutto il mondo: il diritto a vivere, ad avere una casa con la propria famiglia, un contesto in cui crescere giocando con altri bambini, e cosa non da poco il diritto a ricevere una istruzione adeguata. Anche perché gran parte della loro salute è legata anche alle condizioni di educazione e informazione. Sono bambini come tutti gli altri che costituiscono il futuro della loro terra e della loro nazione. I tassi di malnutrizione registrati raggiungono punte del 45% tra i profughi somali giunti in Etiopia. Circa 24mila persone muoiono ogni giorno per fame o cause ad essa correlate. Sono dati migliori rispetto alle 35mila persone di dieci anni fa o alle 41mila persone di venti anni fa. Ma tre quarti dei decessi interessano bambini al di sotto dei cinque anni d’età. La maggior parte dei decessi per fame sono causati da malnutrizione cronica: i bambini arrivano nei campi profughi già denutriti e continuano ad essere denutriti. Oltre alla morte, la malnutrizione cronica causa indebolimento della vista, uno stato permanente di affaticamento, che non consente loro di lavorare, una crescita stentata ed un’estrema suscettibilità alle malattie. Le malattie parassitarie e infettive colpiscono non solo a causa della denutrizione, ma anche per le precarie condizioni igieniche. Si calcola che la causa principale di morte dei bambini fino a 5 anni è dovuta alla disidratazione conseguente alle diarree provocate da infezioni intestinali. Per questi bambini la cura della salute incomincia da una corretta nutrizione e si sviluppa con adeguate condizioni di igiene e su questi due fronti l’occidente deve mostrare con i fatti di

Lo sciacallaggio e la speculazione dei mercati. In questo contesto emergenziale, dalla forte connotazione etica, non possiamo dimenticare che oltre alle condizioni di povertà e di siccità, oltre alle scarse condizioni igieniche dei Campi profughi, la situazione del Corno d’Africa è ulteriormente aggravata dall’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, con una stima di circa il 240% di crescita. Un aumento ingiustificato se si considera il mondo nella logica della globalizzazione dei mercati e si tiene conto che la fame non è un male inevitabile. Dal 1990 al 2010 infatti la produzione alimentare complessiva di cereali, legumi, tuberi, carne ecc., è aumentata del 47%, mentre l’aumento medio dei prodotti in questi stessi anni è stato del 3,3%. L’incremento della popolazione nello stesso periodo è stato, a livello mondiale, dell’1,9% annuo, mentre nel Terzo mondo è stata del 2,5%. Il rapporto tra produzione di cereali, legumi, ecc. in rapporto all’incremento della popolazione globale non giustifica affatto le condizioni di estrema precarietà alimentare che si so-

Secondo l’Onu, gli scontri violenti provocati dalla siccità hanno costretto nel 2011 più di 135mila somali ad abbandonare il proprio Paese no create. In altri termini non è il cibo che manca, manca piuttosto una distribuzione adeguate delle risorse alimentari, mentre fin troppo spesso si creano vere e proprie forme di speculazione proprio sugli alimenti essenziali. All’interno dell’Unione assistiamo a fenomeni aberranti in nome delle leggi di mercato.Tonnellate e tonnellate di eccedenze alimentari vengono stoccate e lasciate marcire quando non vengono distrutte. L’ultimo grave episodio è quello relativo alle centinaia di migliaia di tonnellate di riso invenduto che rischia di deperire perché nulla è stato deciso. L’Ue, in nome del protezionismo, acquista a prezzo di mercato il riso che i produttori non sono riusciti a vendere e lo deposita in magazzini senza saperne che fare. Quali sono le ragioni alla base di queste scelte e quali gli strumenti per destinare tali risorse alimentari verso i Paesi che ne hanno bisogno? La causa primaria della fame del mondo non sta infatti in una produzione alimentare insufficiente, ma nell’impossibilità per i più poveri di acquistare gli alimenti prodotti. I prezzi dei generi alimentari sono troppo alti per i redditi medi della popolazione del Terzo mondo. Nei Paesi avanzati la spesa alimentare rappresenta il 20-25% del reddito familiare, mentre il resto viene speso per ve-

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stiario, mezzi di trasporto, alloggio, divertimenti ecc. Nei Paesi più poveri invece la spesa alimentare costituisce fino all’ 80% del reddito familiare. Da noi la povertà raramente comporta fame e denutrizione, nel Terzo mondo invece significa subito fame e stato di denutrizione cronica. In Occidente il fenomeno alimentare più diffuso è la sovralimentazione. Noi soffriamo di mali fisici tipici del nostro modo di mangiare: disturbi al cuore, appendicite, calcoli, vene varicose, emboli, trombosi, ernia, cancro del colon e del retto, obesità, ecc. Ma forse soffriamo ancor più di una certa avidità, che induce ad affrontare in termini speculativi il rapporto tra costi e produzione, per cui se il senso comune vorrebbe che mentre aumenta la produzione i costi diminuissero, ci troviamo davanti a situazioni diametralmente opposte. Ma se la produzione aumenta, pur di non far diminuire i costi, gli investitori innescano spirali di tipo speculativo profondamente immorali se si considerano le cose nell’ottica estrema di Daadab. Se nel Corno d’Africa c’è fame, una fame disperata di cibo, in Occidente c’è fame di giustizia, se ne sente l’assenza, una sorta di siccità che dura da troppo tempo, e che diventa indispensabile curare per poter affrontare anche i temi economici con una maggiore tensione etica. È la patologia dell’Occidente che va trattata come una vera e propria emergenza morale. La fame può coesistere con i granai pieni, un dato di fatto, sconcertante, che induce a riflettere per cercare di ridurre la distanza fra le popolazioni che muoiono di fame e quelle che vivono nell’abbondanza alimentare. La domanda inquietante che dobbiamo porci è perché il progresso anziché avvicinare il mondo ha accentuato la distanza fra poveri e ricchi? L’umanità si trova oggi di fronte a una sfida indubbiamente di ordine economico e tecnico ma ancor più di ordine etico e politico. È una questione di solidarietà vissuta e di sviluppo autentico, al pari di qualsiasi questione di progresso materiale.

La speranza: aiuti in arrivo. In questo clima di emergenza globale, che reclama viveri e valori, gli appelli del Papa stanno diventando sempre più insistenti, come se volessero smuovere le nostre coscienze affette da una insidiosa e contagiosa siccità morale. In risposta al suo invito la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha invitato gli italiani a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas italiana e per questo dal canto suo ha stanziato un milione di euro dai fondi derivanti dall’8 per mille. Anche molte altre agenzie umanitarie hanno iniziato una campagna d’informazione per raccogliere più fondi possibili. La priorità da loro indicate sono sostanzialmente due: maggiore assistenza ai bambini e le scorte d’acqua. Ma il sistema di aiuti messo in campo dalle organizzazioni internazionali rischia il collasso di fronte ad una emergenza crescente. In ordine sparso i paesi europei stanno correndo al capezzale dei popoli africani. Londra ha promesso 59 milioni di euro, Berlino punta ad aggiungere 5 milioni di euro agli oltre 3 milioni di euro già destinati al Corno d’Africa e ai programmi di aiuto avviati nell’area. Dall’Italia non sappiamo ancora quale sarà la risposta, ma ci auguriamo che sia fattiva e generosa, nonostante la crisi che ci affligge, che non può però diventare un alibi per sottrarci all’aiuto di popoli di cui per di più siamo stati a lungo amici.


mondo

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Atene alla finestra giudica “ottimo” il piano, mentre Sarkozy e Merkel si incontrano in un “pre-summit” per decidere il da farsi

Salvate l’Europa Barroso si appella ai leader dell’Ue (ma Berlino vorrebbe smarcarsi). Oggi l’ennesimo vertice di Enrico Singer ngela Merkel avverte che il vertice straordinario dei leader di Eurolandia non farà miracoli, ma è anche convinta che un accordo ci sarà. Perché la cura della crisi della Grecia – e della moneta comune – è indispensabile e richiede «un processo controllato fatto di passi successivi per risolvere la causa del problema: la riduzione del debito di Atene e l’aumento della competitività del Paese». Nicolas Sarkozy è convinto che il segnale che uscirà da Bruxelles sarà, comunque, forte perché «tutti hanno a cuore il futuro dell’euro, che è la più importante realizzazione della Ue, e saranno uniti nella sua difesa». Niente miracoli, insomma, ma un momento importante, forse decisivo, per sviluppare un lavoro serio per rafforzare i sistemi di governance economica,

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grado di decidere a Bruxelles. E, soprattutto, su come queste decisioni saranno accolte dai mercati che, almeno nelle ore della vigilia, hanno dimostrato fiducia con un generale rimbalzo delle principali Borse europee, compresa Piazza Affari che ha recuperato un altro 2,5 per cento.

Per i dettagli del nuovo piano che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – allontanare il pericolo del default dei conti pubblici greci, bisognerà attendere i risultati della riunione di oggi. Ma l’ennesimo pre-vertice tra la Merkel e Sarkozy – che dovrebbero arrivare assieme a Bruxelles – ha già pronunciato alcuni verdetti: su chi comanda davvero in Europa, sul peso della Banca centrale che, da novembre, sarà guidata da Mario Draghi, e sulle debolezze

Il presidente della Commissione ha detto che la situazione è «molto seria. È arrivato il momento di decidere e che i leader dell’eurozona si assumano le proprie responsabilità» nel pieno rispetto dell’autonomia della Bce. Dall’incontro a quattr’occhi tra il Cancelliere tedesco e il Presidente francese, ieri a Berlino, sono uscite parole di speranza su quello che i capi di Stato e di governo dei diciassette Paesi che fanno parte dell’eurozona saranno in

strutturali dell’euro. Il presidente della Commissione europea, il portoghese José Manuel Barroso, ha detto che la situazione è molto seria, che è arrivato il momento di decidere e che i leader dell’eurozona si devono assumere le proprie responsabilità perché «il futuro

Il Cancelliere tedesco Angela Merkel scherza con il francese Sarkozy e il britannico Cameron. In mezzo il premier greco Papandreou. Sopra, il presidente della Commissione José Barroso dell’euro è a rischio». Il suo è stato un vero e proprio appello alla buona volontà e all’impegno perché dalla riunione di oggi esca una strategia condivisa per affrontare la crisi del debito sovrano greco e della moneta comune. Ma poi Barroso è rimasto nel suo ufficio al sesto piano di Palais Berlaymont e il compito di convincere Angela Merkel ad accettare un compromesso sull’intervento delle banche nel salvataggio di Atene è toccato a Nicolas Sarkozy.

Dire che Eurolandia è ormai diretta da Parigi e da Berlino – sia quando sono in accordo, sia quando esprimono ricette diverse – è talmente scontato che nessuno più se ne meraviglia. Eppure ad essere tagliati fuori dal tavolo di chi decide non ci sono soltanto i Paesi come la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda che già dipendono dagli aiuti del fondo di solidarietà e sono costretti a seguire le condizioni poste per ottenerli, ma ci sono Paesi come l’Italia, la Spagna, il Belgio e la stessa Olanda che

sono, di fatto, retrocessi a comparse chiamate a ratificare le intese raggiunte da Francia e Germania. E che rischiano di essere contagiati dalla crisi senza poter incidere da protagonisti nelle scelte per contrastarla. Il ministro delle Finanze francese, Francois Baroin, ha detto che i leader della zona euro sono d’accordo «sull’obiettivo, sul metodo e sul calendario» per affontare la crisi greca e che le discussioni si concentrano ancora sul «grado di partecipazione del settore privato» per evitare un credit event, in pratica il temuto fallimento, anche soltanto “selettivo”, come sarebbe quello che passasse attraverso una ristrutturazione del debito. Una delle ipotesi di partecipazione delle banche è il cosiddetto rollover. In pratica al settore privato, che la Merkel vuole assolutamente coinvolgere per evitare che il costo del piano-bis di salvataggio ricada esclusivamente sugli Stati, verrebbe chiesto di reinvestire in nuove obbligazioni di durata più lunga.

Sul tavolo del negoziato è arrivata anche l’idea di una tassa speciale sulle banche il cui ricavato dovrebbe andare al fondo salva-Stati che sarebbe in questo modo potenziato affiancando risorse private a quelle pub-


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do pacchetto di aiuti alla Grecia, dovrebbero dimostrare ai mercati che l’Europa ha la volontà ed anche gli strumenti per evitare che i 21 mesi di crisi del debito sovrano possano inghiottire Spagna e Italia. Da Madrid è intervenuto anche il premier spagnolo, José Luis Zapatero, che ha mostrato tutta la sua preoccupazione dichiarando che, nonostante le incoraggianti parole di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, «un’intesa non è stata raggiunta». L’esito del vertice di oggi non si può definire ancora scontato. Anche se la Commissione europea avrebbe già creato una task force per monitorare trimestralmente i progressi della Grecia nelle riforme richieste a garanzia del pacchetto di aiuti lasciando intendere che, alla fine, il nuovo piano di salvataggio ci sarà. E l’euro ha risentito positivamente di tutti questi segnali di ottimismo: ha chiuso sul filo di 1,42 dollari dopo avere toccato un massimo di 1,4240 dollari.

Se il governo greco ha detto, senza troppi giri di parole, che «il vertice di Bruxelles determinerà il futuro della Grecia e dell’Europa», a conferma di quanto sia importante la riunione di oggi è arrivata anche una telefonata del presidente americano Barack Obama ad Angela Merkel per sottolineare come la Casa Bianca – che è alle prese con una crisi di bilancio altrettanto allarmante – sia sensibile ai problemi dell’euro anche per le prospettive della crescita a libliche. È una possibilità che ha un vantaggio: non farebbe scattare il credit event con il suo corollario negativo delle revisioni al ribasso delle valutazioni delle agenzie di rating. Niente scenari di default selettivo o temporaneo, insomma. Ma la reazione delle banche è stata immediata: il presidente della federazione degli istituti di credito tedeschi, Michael Kemmer, l’ha definita «una falsa pista». Un no è arrivato anche dalla federazione delle banche francesi. E dire che l’idea era stata lanciata proprio dal ministro francese degli Affari europei, Jean Leonetti. Così la soluzione per il momento più quotata è un mix d’interventi che comprenderebbe anche il riacquisto del debito greco da parte dello Stato ellenico (che sarebbe possibile dopo la concessione di un nuovo prestito) e il rollover da parte delle banche che sarebbe, in ogni caso, su base volontaria per evitare che appaia come un’insolvenza dei pagamenti appena mascherata dall’emissione di nuovi titoli.

Ad opporsi a una soluzione del genere è, prima di tutto, la Bce la cui posizione è stata ribadita più volte dal suo attuale presidente, Jean-Claude Trichet. Non si tratta di una guerra privata tra la Banca centrale

europea e Angela Merkel. Il problema è quello del rapporto tra la Bce, che ha il compito di governare la politica monetaria di Eurolandia, e gli Stati che ne fanno parte e che, se hanno problemi di solvibilità del loro debito, devono risolverli con gli strumenti che hanno a disposizione come le manovre di bilancio. Questo è un principio valido in assoluto, ma che nel caso dell’eurozona mostra i suoi limiti perché l’autorità monetaria spetta alla Bce, mentre l’autorità di bilancio risponde ai singoli governi nazionali dei diciassette Paesi che hanno aderito alla moneta comune.

Per questo la Banca centrale non può che chiedere ai governi della zona euro di «trovare soluzioni appropriate il più presto possibile», come ha detto anche ieri Jean-Claude Trichet. È un invito che vuole spingere i governi a un coordinamento della governance economica, soprattutto nel campo dei conti pubblici, per aumentare la stabilità dell’euro e per proteggerlo dalla speculazione internazionale. Da Atene, intanto, arrivano dichiarazioni rassicuranti. Il ministro delle Finanze greco, Evangelos Venizelos, ha spiegato che il suo Paese si trova «in una situazione di difficoltà, ma non di fallimento».

I capi di Stato, oltre a trovare l’accordo sugli aiuti alla Grecia, dovrebbero dimostrare ai mercati che l’Europa ha la volontà e gli strumenti per evitare che la crisi possa inghiottire Spagna e Italia Per quanto riguarda la sesta tranche del prestito da 110 miliardi che dovrebbe essere concessa nel settembre prossimo, Venizelos ha detto che potrebbe essere considerata come la prima rata del nuovo prestito che dovrebbe essere deciso oggi nel vertice di Bruxelles e che, per definirne l’entità, i rappresentanti della “troika” (Fondo monetario internazionale, Unione europea e Banca centrale europea) hanno già fissato due appuntamenti in Grecia il 16 agosto e il 15 settembre. Naturalmente Atene sottolinea l’importanza del nuovo piano di salvataggio anche come mossa per contrastare il possibile contagio della crisi alla Spagna e all’Italia. Senza «decisioni coerenti», ha detto Venizelos, potrebbero scatenarsi in modo «imprevedibile» effetti negativi che potrebbero destabilizzare tutta la zona euro.

E, in realtà, i capi di Stato e di governo che si ritroveranno oggi nel Palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio europeo, oltre trovare l’accordo sul secon-

vello globale che ha bisogno di stabilità sui mercati. Secondo alcune fonti americane, che trovano conferme a Bruxelles, dal vertice dei leader di Eurolandia difficilmente potranno uscire tutti i dettagli del nuovo piano di aiuti alla Grecia. E’ possibile che i capi di Stato e di governo si limiteranno a sottoscrivere una forte dichiarazione politica che li impegni a risolvere la crisi del debito tratteggiando le iniziative da intraprendere – in particolare quella che più sta a cuore alla Germania sul coinvolgimento del settore privato nel pacchetto degli aiuti – ma lasceranno ai ministri delle Finanze il compito di definire in concreto le misure da mettere in campo in un vertice dell’Eurogruppo che le sottoporrebbe, poi, all’Ecofin ancora entro il mese di luglio. La volontà di raggiungere l’intesa c’è. E lo dimostra anche il rinvio di un’ora – dalle 12 alle 13 – dell’inizio della riunione di oggi per consentire agli sherpa di mettere a punto il testo del documento che dovrebbe essere approvato e che viene limato riga per riga.

i che d crona

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mondo

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La stampa britannica attacca: «Scotland Yard è riuscita a collezionare un catalogo di fallimenti in tutti i campi»

Agenti d’insicurezza Londra si ritrova all’improvviso senza polizia. E si avvicinano le Olimpiadi di Antonio Picasso n catalogo di fallimenti. È così che la stampa britannica definisce i risultati (non) ottenuti dalla polizia londinese, meglio nota come Scotland Yard, in merito alle indagini sulle intercettazioni di News of the world. Nemmeno il parlamento, in questo senso, è tenero. Il presidente della commissione affari interni della Camera dei Comuni, Keith Vaz, ha stimato che potrebbero essere dodicimila le persone coinvolte, come vittime, nello scandalo. Finora, però, ne sono state rintracciate circa un centinaio. Collusione con la News Corporation e superficialità. Queste le due accuse che hanno az-

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La corruzione, ha detto l’inquilino di Downing Street, «è stata sradicata dal corpo». Ma la fiducia della popolazione è crollata al minimo storico zoppato la forza di polizia più celebre del mondo. Nello scorso fine settimana, si è assistito alle dimissioni del comandante, sir Paul Stephenson, seguite da quelle del suo assistente, John Yates. Entrambi sono sospettati di aver accettato vacanze premio e altre prebende illecite da parte della News Corp. É un’evidente situazione di corruzione.Tuttavia, il caso coinvolge l’intero apparato di sicurezza britannico. E forse è questo che maggiormente allarma la classe politica nazionale. Alle ambiguità di sir Paul e del suo vice si aggiunge l’incompetenza nel rendersi conto che la News Corp. avesse allestito un apparato di controllo praticamente parallelo a quello statale. Anzi, forse ancora più articolato. «La compagnia dei Murdoch ha deliberatamente tentato di bloccare nel 2005-2006 l’indagine penale della polizia di Londra sulle intercettazioni illegali perpetrate dal News of

the World». È quanto afferma un rapporto della commissione affari interni del parlamento. A sua volta, la commissione interna di Scotland Yard sta indagando sui movimenti di Dick Fedorcio e di Andy Hayman, rispettivamente responsabile della comunicazione estera della Met (la polizia di Londra) e vice commissario per le operazioni speciali della stessa agenzia. A quanto risulta, il primo sembra che fosse a conoscenza delle intercettazioni del News of the world. Resta da fare luce sui rapporti tra lui e il vice direttore della testata, Neil Wallis. Sul secondo, invece, gravano le ombra del conflitto di interessi. Dal 2007, anno della sua andata in pensione, Hayman si è trasformato in editorialista di punta sia per il News of the world, sia per il Times.

Da notare che Wallis ha poi fatto da consulente esterno della Met, chiamato da Fedorcio, nell’ambito delle pubbliche relazioni. Un incarico che gli ha fruttato 24mila sterline l’anno, 36mila euro circa. A tutto questo bisogna aggiungere il volume di informazioni di cui la polizia sarebbe in possesso e che non avrebbe ancora messo a disposizione della magistratura. Un giudice britannico ha ordinato a Scotland Yard di divulgare tutte le informazioni di cui dispone sulle intercettazioni ai danni di Hugh Grant e della sua ex fidanzata Jemina Khan. L’attore britannico aveva scoperto di essere stato spiato dai giornalisti di News of the World nel 2010 ed era stato in prima linea nella campagna che ha condotto alla chiusura del tabloid. Insomma, la Met pare che sapesse da molto tempo che il clan Murdoch seguiva la vita privata di mezza Inghilterra. E di buona parte della popolazione d’oltre Atlantico. Eppure non avrebbe mosso un dito per contrastare l’inganno. La situazione è pesante. C’è il rischio che l’opinione pubblica britannica perda la fiducia nei confronti di una delle più antiche istituzioni nazionali. Non si L’ex capo di Scotland Yard, sir Paul Stephenson, lascia l’edificio dopo le dimissioni. A destra David Cameron, primo ministro britannico

Ma il Labour non molla e chiede “tutta la verità”

Le scuse di Cameron: «Ho commesso errori» Il premier britannico parla ai Comuni: «Uno scandalo enorme, pronte le inchieste» di Massimo Fazzi ssumere Andy Coulson come portavoce «è stata una mia decisione, di cui mi assumo la piena responsabilità. È stato un errore». David Cameron torna dall’Africa e interviene alla Camera dei Comuni per dire la sua sulla vicenda delle intercettazioni: l’attacco del Labour non lo molla, e il premier deve spiegare molte cose. Prima fra tutte, il rapporto con l’ex redattore del News of the World, poi divenuto suo portavoce, pedina centrale dell’inchiesta che ha portato alla chiusura dello storico tabloid. Il premier ha annunciato che è partita un’inchiesta giudiziaria sulla vicenda per chiarire i rapporti tra la stampa e la polizia, ma anche tutte le persone coinvolte nella vicenda: «Un torrente di rivelazioni nelle ultime settimane hanno incrinato la fiducia nei media, nella polizia e la politica. La gente vuole che il governo metta fine alle pratiche illegali e che agiamo dalla parte delle vittime». Il premier conservatore ha annunciato che l’inchiesta sulle pratiche illegali dei media riguarderà «non solo la

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stampa scritta, ma anche tv e social media». Cameron ha assicurato davanti ai Comuni che sullo scandalo intercettazioni verrà condotta «un’indagine della polizia e un’ inchiesta giudiziaria ad ampio raggio, per stabilire che cosa è accaduto e impedire che possa accadere di nuovo». Ma da buon politico, il premier non ha intenzione di addossarsi tutte le colpe e intende sviare: «La responsabilità più grande che ho è quella di ripulire. Mi dispiace per quanto successo».

David Cameron ha ribadito che quella di assumere Andy Coulson come portavoce fu una sua decisione di cui si assume la piena responsabilità e per la prima volta ha ammesso che fu un errore: «Col senno di poi non gli avrei mai offerto il lavoro e mi sarei aspettato che lui non lo avrebbe accettato. Si impara dagli sbagli, io ho imparato», ha assicurato il premier, che però si dice convinto che Coulson sia innocente fino a prova contraria: «Sarò all’antica, ma ci credo ancora». Alle dichiarazioni del primo ministro ha


mondo

Per il futuro si pensa a una donna. Ma fino a oggi l’unica candidatura avanzata è quella del detective Tennison, ovvero un personaggio tv dell’opposizione è partito di nuovo all’attacco: «Dovrebbe assumersi le sue responsabilità così come lo ha fatto l’ex capo di Scotland Yard, Sir Paul Stephenson».

Ma Cameron non ci sta a farsi mettere in croce, e parte il contrattacco: «Siamo stati i primi ad essere trasparenti sugli incontri con Rupert Murdoch. Sugli incontri dei miei predecessori bisognava aspettare la pubblicazione dei diari di Alastair Campbell», ha detto il premier Tory alludendo alle memorie del portavoce di Tony Blair. Cameron ha aggiunto che «lo stesso Murdoch ha detto che il leader di Downing Street a cui era più vicino era Gordon Brown». Due giorni fa, il magnate aveva raccontato di essersi recato a Downing Street subito dopo le ultime elezioni, in cui aveva sostenuto il leader conservatore, entrando dalla porta sul retro su disposizione dello staff del premier. Intanto si apre un nuovo fronte nello scandalo intercettazioni che sta travolgendo l’impero mediatico di Rupert Murdoch. Dopo l’inchiesta in Gran Bretagna e un’indagine negli Stati Uniti, ora anche l’Australia, patria natìa di Murdoch, mette sotto osservazione le proprietà della News Corp. Il premier australiano Gillard ha dichiarato che la News Ltd «dovrà rispondere ad alcune domande anche in Australia».

E dopo Londra e New York, anche l’Australia mette sotto i riflettori l’impero di Murdoch. Il premier Gillard ha dichiarato che il tycoon «deve spiegare tutto» risposto il capo dell’opposizione Ed Miliband, secondo il quale David Cameron è rimasto intrappolato in un “tragico conflitto di lealtà” e ha ribadito la richiesta al primo ministro di scuse “ora”. Ma il premier si è difeso dichiarando che «non c’è stato alcun problema» nei mesi in cui Coulson è stato portavoce di Downing Street, senza scusarsi come chiesto da Miliband. E il leader

contano i film e i romanzi che hanno come protagonisti, come semplici personaggi, agenti e detective di questo organo di polizia fondato ancora nel 1829. Scotland Yard è, agli occhi della gente comune inglese e non, un pezzo di storia della capitale britannica. Il suo coinvolgimento nelle intercettazioni dei Murdoch fa pensare a una fuga di notizie, private ma anche di sicurezza nazionale, la cui portata resta incalcolabile. «Ci vorranno anni prima che si abbia una stima completa dei danni», ha commentato Vaz. Parole che non facilitano il compito di Cameron. Ieri, ai Comuni, ha indicato che la sua priorità è appunto ricostruire la reputazione della polizia londinese. «Ringrazio sir Paul per il lavoro svolto e vorrei ringraziare anche John Yates, il suo vice», ha detto il premier. «E chiedo che, vista la loro dipartita, si possa ripristinare il prima possibile la fiducia nei confronti della polizia». È seguita la conferma di nominare immediatamente un nuovo capo di Scotland Yard. «La corruzione – ha aggiunto Cameron – deve essere sradicata dalle forze di sicurezza». In merito, Cameron ha già ricevuto un briefing dal sindaco di Londra, Boris Johnson, appena tornato dall’Africa. Il primo cittadino della capitale britannica ha informato il premier sull’andamento delle indagini interne alla Met. Tuttavia, non si può far finta di nulla sul fatto che, tra i due, potrebbe aprirsi una competizione interna al partito conservatore, nel caso le sorti di Cameron alla guida delle esecutivo si mettessero male. E se Johnson tramasse per traslocare a Downig street? La malizia tutta italiana, nella vicenda, non guasta.

I laburisti però, Vaz in primis, non stanno aiutando Cameron. Le recenti critiche sull’Operazione weeting, avviata da Scotland Yard, per incastrare gli altri collusi, a questo punto appaiono controproducenti. Vaz ha detto che è un’iniziativa che prevede un organico di agenti non sufficiente. «Il primo ministro deve assumersi le proprie responsabilità così come ha fatto il capo di Scotland Yard», ha detto il leader dell’opposizione, il laburista Ed Miliband, re-

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plicando al premier ai Comuni. In seno alla classe politica britannica, la testa che si vuol far saltare è quella del fresco inquilino di Downing street. Il tempo, dal canto suo, è altrettanto avversario. Il prossimo anno, infatti, Londra ospiterà le olimpiadi. È uno di quei grandi eventi che attraggono l’attenzione anche di terroristi e facinorosi di ogni tipo. Non dimentichiamoci, poi, che a settembre ricorre il decimo anniversario dell’attentato di New York contro le Torri gemelle. Tenuto conto che i jihadisti sparsi per il mondo non hanno ancora vendicato la morte di Osama bin Laden, non è escluso un loro ritorno di fiamma. La piazza londinese, a questo punto scoperta sul fronte della sicurezza, rischia di essere un target ben più sensibile di altri.Yates stava lavorando proprio a questo dossier. Evidentemente, per quanto riguarda la strategia della sicurezza, bisogna ricominciare da capo. Non si può nemmeno pensare a riprendere i passati responsabili del settore. Hayman, infatti, che ha gestito la situazione nelle strade e le indagini post-7 luglio 2005 (gli attentati di Londra, firmati da al-Qaeda, che hanno provocato la morte di 52 persone). La sua competenza in merito non è mai stata fonte di discussione. Hayman ha anche scritto un libro su come si dà la caccia a un terrorista. Ironia del caso, è sempre Scotland Yard ad aver ottenuto uno dei pochi risultati brillati sul fronte di guerra ad al-Qaeda. I suoi consulenti, infatti, sono impegnati in Afghanistan, ma anche in Pakistan, in appoggio alle forze di sicurezza locali. Fuori dal contesto nazionale, insomma, permane un mito che, in patria, si sta sgretolando.Tuttavia, non ci si può certo affidare a un esperto del settore, ma stipendiato dai Murdoch, com’è appunto Hayman, per garantire la sicurezza di Londra.

Si nutre il timore, poi, che da Scotland Yard a News of the world sia passata una chissà quale quantità di informazioni riservate e sensibili. La commissione di inchiesta interna sta lavorando proprio su questo. Ciononostante finora, gli indagati hanno mantenuto un atteggiamento poco collaborativo. In controtendenza con l’intero scenario, si è espresso però ieri il vice sindaco di Londra, Kit Malhouse, con delega alla Met. A suo dire, l’apparato di sicurezza della città è ancora solido. Anzi, una lista con i nomi delle persone che potrebbero andare a sostituire Stephenson e Yeats è già stata presentata. Bisogna solo aspettare domani, quando verrà pubblicato il bando sulla Police Review, il magazine interno a Scotland Yard. Da allora i tempi sono rigidi: sei settimane almeno per avere un nome. Malthouse auspica di chiudere la questione entro settembre, in modo da avere un sostituto di sir Paul entro Natale. «Stiamo cercando qualcuno che abbia gli attributi del detective Tennison». Il vice sindaco ha fatto riferimento alla protagonista del serial tv “Prime suspect”, interpretata da Hellen Mirren. Il prossimo comandante in capo di ScotlandYard potrebbe essere una donna?


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grandangolo Parla Fahmy Huwedi, intellettuale egiziano vicino alla Muslim Brotherhood

La Primavera araba ha dato vita a una nuova Fratellanza

I Fratelli musulmani egiziani «sono pronti a svolgere un ruolo di opposizione forte, ma è fondamentale che nel Paese si svolgano elezioni libere. Sulle aperture americane attenderanno, ma in Iran sono sicuri che vincerà Khamenei che aprirà ai riformisti. Ora sono pronti anche ad accettare un secolarismo non nemico della fede» di Pierre Chiartano ahmy Huwedi è uno dei più importanti i più seguiti commentatori politici in Egitto. Conduce da anni un programma d’approfondimento su al Jazeera, ha scritto numerosi libri sul Medioriente, ha fondato testate giornalistiche e promosso iniziative di varia natura. È un membro autorevole dei Fratelli musulmani. Liberal lo ha raggiunto telefonicamente al Cairo per fare il punto su Primavera araba, rapporti con l’Occidente e le future elezione politiche in Egitto. «Mi faccia cominciare dalla cosa più importante. La Primavera è cominciata, ma a tutt’oggi non possiamo dire a cosa porterà. Non sappiamo se diventerà un fatto compiuto. Detto questo, il primo risultato di questa ventata di rivolte è che i regimi hanno fatto le valigie. In più ora la gente sente che ha voce in capitolo nelle decisioni che riguardano i propri interessi. Parlano del proprio futuro e del presente, un tempo gestiti dalle vecchie autocrazie. Ora si deve pensare a costruire un nuovo ordine. Questa costruzione non è ancora cominciata, perché dopo più di 30 anni d’autocrazia non è facile serve tempo e notevoli sforzi». Certamente la Primavera ha avuto diversi risvolti in Tunisia e in Egitto, rispetto ad esempio a Libia, Siria o Bahrein per non parlare dei uno Stato non arabo come l’Iran. «In Iran hanno avuto una rivoluzione islamica e oggi vorrebbero costruire un nuovo Stato, sempre islamico. In Egitto e in Tunisia si voglio-

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no costruire degli Stati democratici. In Siria la dittatura sta resistendo, dopo quarantenni di regime la famiglia Assad è ora sotto pressione. Bashar al Assad dopo 11 anni di governo non è riuscito a fare alcuna riforma. In Egitto la gente si è sbarazzata del regime, non è stato così in Siria, nello Yemen e in Libia dove le vecchie autocrazie stanno lottando per resistere al cambiamento. Vogliono

«Il punto non è quanti voti prenderà questo partito, ma se ci sarà o meno correttezza alle urne del Cairo» mantenere il controllo del potere». Fare una previsione sul futuro di questi regime risulta difficile anche per Huwedi. «Siria e Libia sono due casi differenti. Per i siriani sarà probabilmente un fatto prettamente interno, se le forze antiregime riusciranno a rovesciare Assad. In Libia c’è il petrolio e il gas e l’Occidente ha più a cuore la situazione libica per una questione d’interesse». Per non parlare dei pasticci che stanno combinando

i francesi tra Cirenaica e Tripolitania. «Nello Yemen la situazione è ancora diversa. Lì c’è la paura di al Quaeda. Il vecchio regime è ancora puntellato dall’Occidente, perché si teme che l’organizzazione che fu di bin Laden possa prendere piede in quella regione. Si vuole trovare un modo per togliere di mezzo al Quaeda. Così abbiamo il petrolio in Libia e al Quaeda nello Yemen come elementi che richiamano l’attenzione internazionale. In Siria la situazione è più difficile, per via degli stretti legami con l’Iran. Se si scuote il regime a Damasco trema anche il Libano, con tutto ciò che ne consegue per la politica di Teheran». Non dimenticando la lotta di potere intestina che da mesi vede contrapposti il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e la guida suprema Alì Khamenei.

«È un problema interno iraniano. Ahmadinejad cerca di organizzarsi il futuro, visto che non ha alcuna chance di essere rieletto. Ma non possiamo affermare che ci sia alcuna minaccia interna per il regime iraniano ora. Sono certo che Khamenei sia molto più forte del presidente, avendo il supporto del clero sciita».Visti i continui tentativi da parte della guida suprema di ridurre il potere di Ahmadinejad, si potrebbe ipotizzare una reazione forte del presidente? «Non penso. Credo invece che i riformisti torneranno presto sulla scena iraniana, nei prossimi due anni. E sono convinto an-

che che Khamenei accetterà le loro proposte, perché è stanco della politica dell’attuale presidente e degli scarsi risultati che ha fin qui ottenuto». Nello sviluppo del Rinanscimento arabo e islamico è importante il rapporto con l’Occidente e con l’Europa in particolare. Relazioni non sempre facili, specialmente a causa di un secolarismo, non solo culturale ma anche politico, che caratterizza il Vecchio continente e alcuni Paesi come la Francia.

Una cultura che mettendo Dio fuori dalla storia non comprende come fede e modernità possano convivere e ha sempre visto con sospetto ogni religione. Sia quella cristiana che distingue tra Cesare e Dio, figuriamoci quella musulmana che mette Dio dappertutto. «Il problema dell’Europa e che guarda al mondo islamico pensando alla propria evoluzione storica. In Europa c’era il potere della Chiesa e l’influenza importante del Papa. Nel mondo musulmano non c’è un papa e neanche un potere religioso come lo intendete in Europa». Non esiste un papa musulmano, ma Dio è ovunque. «Certo ma dipende da come si gestisce il rapporto con Dio. Se si mette il Signore nel cuore dello Stato oppure fuori da quei confini. I musulmani pensano che Dio sia la cosa più importante nella loro vita. In Europa invece si può vivere senza Dio. Anche tra i credenti c’è differenza, i cristiani lo ricordano una volta la settimana di domenica, i


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musulmani cinque volte al giorno». E se il laicismo esasperato ha creato problemi nel Vecchio continente, promuovendo la sublimazione di concetti terreni come la classe, la razza o la nazione, gli stessi problemi li ritroviamo in Turchia come in altri Paesi musulmani. Perché allora non creare un ponte per un dialogo tra Islam ed Europa?

«Dobbiamo creare questo ponte, perché la fede non può essere isolata dal contesto sociale e politico. Possiamo identificare due tipi di secolarismo. Il primo è contro la fede, come quello che troviamo in Francia ad esempio. Poi ne esiste un altro che accetta di avere a che fare con la religione, come succede in Inghilterra, dove la regina è capo della

Gli Usa hanno una strategia per poter continuare a gestire la loro politica, magari attraverso alleanze con gli islamici Chiesa. Noi approviamo il secolarismo che accetta la fede, ma non quello che è contro la religione». Ora la gente coinvolta nella Primavera araba vuole scrivere la propria agenda politica, senza alcuna interferenza esterna. Se ciò è vero per la situazione in Tunisia ed Egitto, non lo sembra ad esempio nel caso libico e siriano, dove invece l’intervento internazionale sembra auspicabile. «L’intervento esterno non è auspicabile, non solo in Tunisia ed Egitto ma anche in Siria. In Libia il problema è che la gente accetta il supporto della Nato, ma non sopporterebbe alcun militare sul terreno. C’è una grande sensibilità su questo argomento, perché si intuisce che un intervento militare più ampio non difenderebbe gli interessi locali, ma quelli internazionali dell’energia. Comunque ora è troppo tardi e Gheddafi sa dell’appoggio occidentale ai ribelli. In più Nicolas Sarkozy ha voluto

giocare un ruolo simile a quello di De Gaulle». Per non parlare dell’intervento diretto di reparti speciali francesi sbarcati nei pressi di Bengasi un mese prima che cominciasse la rivolta di Bengasi, aggiungiamo. «Il gioco in Libia è ancora in corso e non sappiamo esattamente cosa stia accadendo. Ora i francesi ci sono e la Nato sta operando. Dobbiamo aspettare per vedere come andrà a finire». E sembra proprio che sia arrivata una luce verde da Washington per Parigi, per tornare ad operare in quella regione. Ambizione francese mai sopita, ma fortemente ridimensionata dagli americani fin dai tempi della vicenda di Suez nel 1956. E vedendo ciò che sono riusciti a fare i francesi nel Libano meridionale, c’è solo da essere preoccupati. «Anche se i ribelli libici non sono in grado di sbarazzarsi di Gheddafi, non accetteranno mai la presenza di militari francesi sul loro territorio, e neanche alcun Paese arabo potrebbe accettarlo». A settembre in Egitto ci saranno le lezioni politiche e la posizione dei Fratelli Musulmani sembra forte, alcuni sondaggi li vedrebbero al 30 percento, come maggior partito se pur di maggioranza relativa. Ma nel complesso quadro della transizione politica i Fratelli si stanno preparando a gestire il potere? «Premetto che nelle lezioni del 2005 abbiamo preso il 20 per cento dei voti. Anche se arrivassimo al 30 percento non avremmo la maggioranza, per cui giocheremmo il ruolo di un’opposizione. Il Paese ha bisogno di una forte opposizione. Il punto non è quanti voti prenderanno i Fratelli musulmani, ma se ci saranno o meno elezioni libere per la prima volta nella storia dell’Egitto moderno. Per noi è più importante avere delle libere elezioni che ogni altro risultato elettorale. Sappiamo che in Occidente c’è timore sul ruolo che potrebbero svolgere il Fratelli in Egitto. Io penso che potrebbe essere molto vicino a quello dell’Akp turco». Quindi per la Muslim Brotherhood prima serve risolvere i problemi base di una democrazia, poi si può pensare alla raccolta dei voti. Ma il movimento islamico ha tante anime al suo interno che tendono a prendere strade diverse.

«Ci sono i riformisti tra i Fratelli, ma anche i conservatori. Ci sono talmente tante anime che si stanno formando molti partiti. I riformisti si stanno organizzando per costituire una loro formazione politica. Rischiamo di presentarci alle prossime lezioni con quattro partiti, il che indebolirebbe molto la forza del movimento islamico nel parlamento egiziano. Il vero problema è se la nuova generazione di giovani che sono scesi in piazza fonderanno un loro partito. Questa sarebbe una formazione in grado di sfidare i Fratelli musulmani». Poche settimane fa Washington ha annunciato di voler aprire un dialogo col movimento islamico in Egitto. «Non penso che al momento significhi un vero cambiamento della politica americana verso i Fratelli o il mondo islamico in generale. Hanno una strategia complessa per poter continuare a gestire la loro politica, magari attraverso alleanze con i Fratelli musulmani. È ancora presto per dirlo. Non è ancora il momento di occuparsi di politica estera, prima viene la situazione interna egiziana. Naturalmente le relazioni con Israele sono un elemento chiave è un ostacolo, per cui non c’è intenzione di aprire adesso questo dossier. Sono sicuro che gli americani stiano osservando la situazione in attesa dei risultati elettorali». Insomma, per i Fratelli «wait and see» riguardo Washington.

Al lavoro le diplomazie di Francia e Russia per uscire dall’imbarazzante stallo libico

«Gheddafi deve lasciare il potere. Solo così potrà restare in Libia» di Etienne Pramotton

ROMA. Muammar Gheddafi deve lasciare la poltrona, come chiedeno tutti a gran voce, ma potrebbe rimanere in Libia se accettasse di cedere completamente il potere. Ecco la ricetta francese al casino libico. Lo ha affermato ieri il ministro degli Esteri francese Alain Juppé in un’intervista con la tv Lci. «Uno degli scenari effettivamente contemplati è quello che prevede la sua permanenza in Libia ad una condizione che ripeto: cioè che (Gheddafi) esca definitivamente dalla vita politica libica», ha spiegato. Intanto due membri del Consiglio nazionale di transizione dei ribelli hanno incontrato ieri il presidente francese Nicolas Sarkozy a Parigi. La Francia è stata la prima nazione a riconoscere pubblicamente il consiglio e la prima a condurre raid aerei contro le forze di Gheddafi, quando sono cominciate le operazioni militari, ora guidate dalla Nato. Visto anche la parte ”attiva” svolta nel dare fuoco alle polveri della rivolta bengasina e nella gestione mediatica della prima fase della ”rivoluzione” libica. Intanto anche a Mosca si muove la diplomazia per trovare una soluzione al pantano in Nordafrica. Il presidente russo Dmitri Medvedev considera «raggiungibile» un compromesso tra le parti in conflitto in Libia. «Dobbiamo continuare a cercare una soluzione pacifica della situazione, un compromesso che, a mio parere, è possibile raggiungere tra Bengasi e Tripoli», ha affermato il presidente russo in una conferenza stampa al termine colloqui con il cancelliere tedesco Angela Merkel. Facile dunque intuire la convergenza sul riconoscimento del Cnt con il salvacondotto per il colonnello. Un equo scambio. Medvedev ha affermato che la sua posizione sulla Libia non è cambiata.

Secondo lui, le risoluzioni Onu 1970 e 1973 «vanno bene», ma il testo deve essere rispettato e «se si dice ”chiudere lo spazio aereo”, non significa guerra», ha precisato. Anche per questo su un altro fronte, quello siriano, Mosca sta tenendo un basso profilo, perchè non si vorrebbe «uno sviluppo della situazione simile a quello libico». Legittime aspirazioni che non tengono conto però delle aspirazioni dei siriani che sono scesi in piazza e di quelli che hanno perso la vita. E della violenza che il regime ha

ormai scatenato. A sua volta, la Merkel ha affermato che l’obiettivo principale è «togliere legittimità quale capo di Stato a Gheddafi e il nostro ministro degli Esteri è molto attivo nel gruppo di contatto in tal senso».

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha ricevuto ieri a Mosca Abdel Ati al-Obeidi, emissario del colonnello Gheddafi. La Russia ha annunciato di voler discutere la situazione attuale del Paese nordafricano, così come gli sforzi di mediazione dell’Unione africana, dopo una presa di posizione – per quanto ambigua – sui ribelli del Cnt che Mosca continua a non riconoscere come «unico» rappresentante ufficiale del popolo libico. Lunedì il ministro russo infatti aveva affermato che Mosca era contraria al riconoscimento del Consiglio nazionale di transizione come autorità legittima di governo. E parteggiare per Bengasi significava «parteggiare per la guerra civile». Tuttavia, relativamente al Cnt libico, il capo della diplomazia russa ha precisato che «si tratta di riconoscere il Cnt e altri gruppi di opposizione in quanto partecipanti ai negoziati, essendo il Cnt senza alcun dubbio una parte dei negoziati stessi». Dunque una parziale marcia indietro forse dovuta anche al risultato ottenuto dai ribelli martedì, con la conquista del porto di Brega, startegico per il flusso petrolifero verso l’Occidente. E quindi Mosca intrattiene «contatti con Tripoli e con Bengasi». Da New Delhi, dove si trovava in visita il Segretario di Stato Hillary Clinton, un portavoce del dipartimento di Stato aveva fatto sapere che l’incontro di sabato scorso in Turchia aveva avuto lo scopo di «consegnare un chiaro e fermo messaggio: l’unico modo per fare passi avanti è che Gheddafi lasci il potere». Le dimissioni dei rais sono, per il portavoce, un «punto non negoziabile» per la soluzione della crisi libica. Giusto tre giorni fa Hillary Clinton aveva riconosciuto il Consiglio di transizione nazionale libico come «legittimo governo» della Libia. Non si è fatta attendere la replica di Tripoli, che ha ribadito l’assoluta non intenzione di Gheddafi di lasciare il potere e il rifiuto di imposte precondizioni al proseguimento dei contatti.


ULTIMAPAGINA

Arrestato ieri Goran Hadzic, ultimo criminale di guerra ricercato dall’Aja. La Serbia pronta per l’ingresso nell’Ue

Balcani, ora la guerra di Vincenzo Faccioli Pintozzi oran Hadzic non ha mai avuto la statura e il carisma di Ratko Mladic o l’imponenza militare di Radovan Karadzic. Il suo ruolo nella guerra di Croazia del 1991 non lo ha portato a operazioni di enorme rilievo, e non c’è nessuna Srebrenica nel suo curriculum: però è l’ultimo dei grandi ricercati dall’Aja per i crimini che vennero compiuti, da una parte e dall’altra, nel corso di uno dei conflitti più sanguinosi del XX secolo. Ed è anche quello che è riuscito a sfuggire per più tempo alla giustizia internazionale. Ora, a 52 anni, la sua fuga è finita: arrestato ieri, sarà trasferito davanti al Tribunale penale internazionale, dove lo aspetta un’accusa di “atrocità”. L’arresto giunge a meno di due mesi da quello, molto più rumoroso, del generale Ratko Mladic: insieme, i due guidavano le forze separatiste serbe: Hadzic dovrà spiegare le uccisioni di centinaia di croati ordinate da lui.

G

Nato il 17 settembre 1958 a Vinkovci, nella Croazia orientale, Goran Hadzic era uno sconosciuto magazziniere iscritto nelle fila del Partito democratico serbo (Sds) prima di essere eletto nel giugno del 1990 presidente di Sds a Vukovar, una delle roccaforti della minoranza serba in Croazia. Dopo la dichiarazione di indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia nel giugno 1991, Hadzic è prima alla guida dell’autodichiarato Distretto autonomo serbo della Slavonia, mentre nel febbraio del 1992 è presidente dell’auto proclamata Repubblica serba della Krajina - che ingloba il precedente Distretto di Slavonia - regione separatista dalla Croazia, posizione che manterrà fino al dicembre 1993. È in questi anni che, in base alle accuse, si macchia dei crimini di guerra e contro l’umanità tradotti in 14 capi d’accusa di cui dovrà ora rispondere all’Aia. Tra questi rientra anche l’efferato massacro, nel dicembre 1991, di 264 civili croati prelevati dall’ospedale di Vukovar e uccisi nella fattoria di Ovcara, a cinque chilometri di distanza. L’esperto legale e avvocato Toma Fila, interpellato dalla radio B92, ha spiegato che «la procedura dell’estradizione sarà la stessa adottata per Ratko Mla-

È FINITA dic: si procederà prima all’identificazione dell’arrestato una volta arrivato nel centro di detenzione, poi al rinvio a giudizio, dopodichè un pannello di giudici dovrà esprimersi sulla decisione di estradarlo all’Aia». L’arresto è stato confermato e commentato in mattinata dal presidente della Serbia, Boris Tadic: «Abbiamo chiuso una pagina macabra della nostra storia». Il presidente ha detto che le autorità non sapevano dove si nascondesse l’ultimo criminale di guerra serbo: «Come con Mladic, sul cui arresto i media hanno intessuto speculazioni gratuite, anche con Hadzic voglio dire ora, prima che escano nuove speculazioni, che

noi non sapevamo dove si nascondeva, non abbiamo preparato nulla in anticipo, e il suo arresto è solo il frutto del lavoro del team incaricato di rintracciare e catturare i criminali di guerra», ha detto Tadic ai giornalisti.

«Avevo promesso che avremmo portato a termine questo lavoro, e lo abbiamo fatto - ha aggiunto il presidente, per il quale - la Serbia chiude con ciò il capitolo più difficile nella collaborazione con il Tribunale dell’Aja». Con questo arresto Belgrado chiude la lista dei sospetti criminali di guerra da consegnare al Tribunale penale internazionale dell’Aja, adempiendo ad una delle condizioni chiave per il proseguo del suo cammino verso l’adesione all’Ue. E proprio l’Unione europea si è unita ai commenti positivi: «Per la Serbia si tratta di un passo importante verso l’Europa», ha dichiarato il presidente della Commissione europea, José Manuel Durão Barroso, che insieme al presidente stabile Herman van Rompuy e l’Alto rappresentante per gli Affari esteri Catherine Ashton si aspetta ora che Hadzic sia trasferito al Tribunale penale dell’Aja «senza ritardi». Al coro si è unito il Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che “saluta” l’arresto dell’ultimo criminale di guerra ricercato dal Tpi rilevando che la attura di Hadzic consente di chiudere «uno dei capitoli più dolorosi della recente storia europea». Rasmussen loda il passo intrapreso dalle autorità serbe per rispettare i loro obblighi internazionali: «Il futuro della Serbia si basa sulla costruttiva cooperazione con i suoi vicini e con la famiglia euro-atlantica», ha affermato il capo della Nato, assicurando che l’Alleanza resta impegnata ad assistere la regione dei Balcani occidentali sulla sua strada verso questa integrazione.

L’ex leader degli indipendentisti deve rispondere ai giudici internazionali di centinaia di omicidi che sarebbero stati ordinati da lui durante il comando delle milizie secessioniste serbe

Goran Hadzic, ex presidente della Repubblica di Krajina e presunto autore del massacro di Vukovar. In alto, parenti delle vittime delle violenze perpetrate nel corso del conflitto


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