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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 30 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il titolare dell’Economia va in televisione per difendersi: «Non ho bisogno di rubare soldi agli italiani»

Chi spia Giulio Tremonti? Clamorosa denuncia del ministro: «Temo di essere controllato» Lo si accusa per la sua casa e per l’eventuale affitto “in nero”. Ma sta passando sotto silenzio il gravissimo sospetto che qualcuno usi corpi dello Stato contro di lui. Fossimo in America... Paradossi da “Repubblica delle banane”

Parla Francesco Rutelli

Il Parlamento deve essere informato

«Che cos’altro deve succedere per far nascere un nuovo governo?»

di Osvaldo Baldacci n ministro spiato da un corpo che dipende da luiE per conto di chi? Certo, il clima in cui viviamo da qualche anno non è dei migliori. È inquinato da corruzione e rancori; e, cosa forse peggiore, i troppi scandali sono troppo spesso rimasti sospesi, lasciando un sapore più di avvertimento che di verità.

U

segue a pagina 2

di Franco Insardà Rutelli non ha dubbi: «Le dichiarazioni di Tremonti sono per un verso inadeguate e per l’altro inquietanti». a pagina 3

La legge che blocca i casi Mills e Ruby

Il processo breve s’allunga. Dal Senato arriva Mussari e Marcegaglia, un altro sì ad personam ancora un passo! Le forze sociali e la Terza Repubblica

di Enrico Cisnetto l documento firmato da tutte le parti sociali per denunciare la gravità della crisi italiana e il pericolo dello stallo di fronte ad essa, è molto importante ma nello stesso tempo di scarsa utilità. Quello che conta è che sindacati e associazioni di categoria si sono riuniti e hanno deciso di fare fronte comune.

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Opposizioni durissime contro il via libera alla norma che salva il premier. Protesta anche il Csm: «Così andiamo nella direzione opposta rispetto alla Ue». Il provvedimento deve tornare alla Camera

Il dibattito sulla riforma elettorale

Non serve il bipolarismo per riportare l’Italia in Europa di Francesco D’Onofrio Riparte il dibattito sulla riforma elettorale, ma è venato da un vecchio pregiudizio sulla governabilità.

Marco Palombi • pagina 6

a pagina 4

a pagina 5

Uno dei leader neocon contro la scelta dei “Tea party” di bloccare la decisione sul debito

A una settimana dalla strage

«Repubblicani, siete degli incoscienti»

Signor Breivik, mi lasci in pace

È incubo default negli Usa. Obama: «Non c’è più tempo» di William Kristol

Parla Edward Luttwak

«Vedrete, alla fine l’accordo arriverà»

overnare significa scegliere. Votare significa scegliere. Aver votato contro Boehner alla Camera dei Rappresentanti nel più grande confronto del Congresso ha significato votare con Nancy Pelosi. Votare contro Boehner ha significato scegliere di sostenere Barack Obama. a pagina 9

G

di Pierre Chiartano «L’accordo c’è già sul 95 percento dei punti a cominciare dal fatto che gli Usa sono nella condizione della Grecia». Edward Luttwak getta acqua sul fuoco. a pagina 8 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

147 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Il celebre analista è stato chiamato in causa dall’assassino Daniel Pipes • pagina 24

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

pagina 2 • 30 luglio 2011

Paradossi da ”Repubblica delle banane”

Il Parlamento deve essere informato di Osvaldo Baldacci segue dalla prima Come se non si fosse mai andati a fondo e il marcio fosse rimasto sotto la superficie perché qualcuno potesse strumentalizzarlo a proprio vantaggio. Ora tornano a esplodere bubboni come fuochi di artificio, destabilizzando uno scenario già delicato. Meglio, forse, che il male venga a galla, ma per essere curato.

In quest’atmosfera da fine impero arrivano come macigni le dichiarazioni del ministro Tremonti, eppure l’attenzione generale non sembra aver colto il punto essenziale: esiste certo la questione di chi pagava l’affitto e se fosse in nero o meno (certo, anche questo conta se si vuole ripristinare un clima di legalità) ma ben più rilevante è la denuncia fatta da Tremonti a proposito della necessità di rifugiarsi in quella casa perché non si fidava di stare nella caserma della Guardia di Finanza, che da lui stesso dipende, perché si sentiva spiato, seguito, controllato. Non è roba da poco. Qualcosa che si inserisce nel clima cui abbiamo accennato e che si sposa con le dichiarazioni di Marco Milanese relative a cordate interne alla Guardia di Finanza. Intendiamoci. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, non bisogna cedere troppo a dietrologie, complottismo, antipolitica e tutto il resto. E poi non siamo degli ingenui. Che anche in corpi militari ci siano amicizie e simpatie politiche, è del tutto naturale, se non è dannoso al lavoro svolto. Che le amicizie (o forse sarebbe meglio dire alleanze) diventano cordate allo scopo di fare carriera lo sappiamo. Non va bene, ma non siamo verginelle: si sa che queste cose esistono. Si tratta di contenerle nel limite della decenza, di non farle prevaricare sull’interesse pubblico, di generare anticorpi che compensino il potere di queste cordate, e persino la concorrenza è già uno di questi anticorpi. Ma poi, se le cose degenerano, si passa al terzo livello, davvero dannoso per lo Stato: le cordate si cristallizzano, pensano solo al potere e a contrastare i nemici, prescindendo del tutto da ogni etica dello Stato. Non conta più il merito ma solo la fedeltà (neanche l’amicizia, ma la fedeltà): chi non si allinea viene fatto fuori qualunque siano le sue capacità e magari anche la sua dirittura morale, ogni questione viene gestita in funzione di rafforzare il potere e il giro di affari e ogni nomina è subordinata all’asservimento a un sistema di interessi. Questa è già una situazione grave. Ma Tremonti ha denunciato l’esistenza di un livello ulteriore, conseguenza di questo ma ancor più grave. Se lo stesso superministro non si sente al sicuro, e neanche nella caserma attinente al proprio ministero, e sospetta pedinamenti, intromissioni, controlli, spionaggio a suo danno, a questo punto non è solo l’interesse dello Stato ad essere danneggiato, bensì addirittura la sua stessa sicurezza viene messa in pericolo. Se è a questo stadio che ci troviamo, forse bisognerebbe andare fino in fondo. Forse i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica non devono accontentarsi di vedersi squadernati succulenti spettacoli di sangue per allietare le estate del novello pubblico da Colosseo. Forse occorre una riflessione più seria e alle grida scomposte dell’antipolitica occorre far subentrare il lavoro serio e tenace di veri servitori dello Stato. E in questo senso il Parlamento dovrebbe forse approfondire la questione, chiedere che gli venga detto di più, interrogare le istituzioni che possono essere coinvolte. Deve riprendere la sua autorità e la sua autorevolezza, affrontando una questione grave che va vista in profondità.

il fatto Scoppia un altro caso, più grande di quello dell’affitto in nero

Un complotto contro il ministro La denuncia del titolare dell’Economia è gravissima ma tutti fanno finta di niente. È tollerabile che un corpo dello Stato sia luogo di conflitti e ricatti? di Errico Novi

ROMA. Franco Frattini parla alla radio più o meno negli stessi minuti in cui Giulio Tremonti va in onda a Unomattina. Il ministro degli Esteri assicura che la risposta data dal collega di via XX Settembre sulla casa in affitto è «convincente». Secondo un così autorevole rappresentante del governo (autorevole almeno quanto Tremonti), dunque, sulla vicenda non c’è null’altro da chiarire. La lettera al Corriere della Sera basta e avanza. Come se fosse normale quanto lasciato trapelare dal ministro dell’Economia varie volte e anche ieri, stavolta dalle colonne di Repubblica: «La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato». E ancora: «Non me la sentivo più di tornare in caserma», e si sta parlando della caserma della Guardia di finanza, «per questo ho accettato l’offerta di Milanese». Non solo Frattini, ma evidentemente tutti i parlamentari e ministri della maggioranza ritengono che non ci sia alcunché da chiarire. Nessuno si scandalizza.Tremonti, si limitano a dire, ha fornito le risposte necessarie. La replica all’editoriale dell’ambasciatore Sergio Romano basta e avanza. Ma davvero è così? Davvero lo squallore continuo del retrobottega politico ha innalzato a tal punto la soglia di sopportabilità da provocare indifferenza a un simile, inquietante risvolto? «No, no è possibile e infatti mi aspetto che qualcuno, almeno dall’opposizione, interroghi il ministro in Parlamento», dice Marcello Sorgi, editorialista ed ex direttore della Stampa. Ecco,

il Parlamento. Sarebbe la sede naturale in cui affrontare la questione. Che evidentemente ha un carattere non solo giudiziario. Preso atto che sulle affermazioni del ministro toccherà alla Procura fare tutti gli approfondimenti, in gioco c’è anche la credibilità e la solidità stessa dello Stato. Come nota proprio Sorgi, «è l’incrocio tra le rivelazioni fatte da Tremonti e quelle di Milanese a suscitare maggiore sconcerto. L’ex consigliere politico di via XX Settembre già aveva parlato di una Guardia di Finanza divisa in cordate pronte a tutto. Il ministro dell’Economia a sua volta dice che a spiarlo erano probabilmente proprio gli uomini deputati a garantire la sua sicurezza». Ora, prosegue l’editorialista della Stampa, «può anche darsi che la classe politica arrivi al punto da ritenere normale una cosa del genere. Ma a parte che si tratta di cose tipiche solo dei regimi, e che forse nemmeno in un regime potrebbero avvenire. A parte questo, io non ci credo che a nessuno sia già venuta, se non lo sconcerto, almeno la curiosità di capire cosa ci sia di vero».

«Tutti abbiamo fatto un salto sulla sedia», continua Sorgi, «e ci sono tutte le condizioni per un’interrogazione parlamentare. Mi aspetto dunque che almeno dall’opposizione qualcuno assuma l’iniziativa. A parte le spiegazioni fornite sull’affitto pagato a Milanese, spiegazioni imbarazzate ma magari plausibili, è il motivo che lo ha spinto a passare dalla caserma a quella casa che è inquietante: si sentiva spiato, era spiato davvero?... E poi: da chi, esattamente, era spiato, ammesso che fosse così? E perché sarebbe arrivato que-


l’intervista

«Un nuovo governo contro i veleni» Parla Francesco Rutelli: «Tremonti doveva denunciare prima questa vicenda inquietante» di Franco Insardà

ROMA. «Il caso Milanese non è concluso, la magistratura deve fare il suo lavoro. Le dichiarazioni di Tremonti sono per un verso inadeguate e per l’altro inquietanti». Il leader dell’Api Francesco Rutelli, ex presidente del Copasir, commenta così le parole del ministro sul caso Milanese. Presidente Rutelli Il ministro Tremonti ha dichiarato: mi sentivo spiato, controllato e in qualche caso pedinato? Dopo queste dichiarazioni la domanda da rivolgere a Tremonti è una sola. Quale? Ha sporto denuncia? Ha interessato la Guardia di Finanza, i servizi segreti, le forze di polizia, la magistratura su fatti di questa gravità? Se lo ha fatto il Copasir se ne deve interessare. E se non lo ha fatto? La vicenda si fa ancora più grave. Non è possibile che un ministro della Repubblica, titolare di grandi responsabilità istituzionali, possa avere avuto un comportamento omissivo. Se non lo avesse fatto si aprirebbero diversi scenari, che non voglio neanche prendere in esame, su eventuali motivi che lo avrebbero trattenuto dal farlo. Così come è grave che un ministro venga spiato? Non so se la cosa sia avvenuta e non ho elementi sufficienti per dirlo è però una questione che dovrà essere affrontata dal Copasir. Soprattutto è grave che il ministro dell’Economia si senta spiato in una caserma della Guardia di Finanza. Una affermazione come quella del ministro Tremonti allude, in modo molto esplicito, a delle attività ille-

cite in seno alle istituzioni. E la cosa diventa paradossale nel momento in cui si tratta delle istituzioni che lo stesso ministro guida. Così come è paradossale che il ministro dell’Economia possa pagare “in nero”... Su questo sta indagando la magistratura ed è necessario, nel rispetto dei ruoli, attendere le conclusioni prima di esprimere dei giudizi.

Ci sarà bisogno di una maggioranza formata certamente dal Pdl, dal Terzo Polo e, auspicabilmente, dal Pd

Questa vicenda mette fuorigioco la persona che, fino a ieri, veniva indicata da tutti come possibile alternativa a Berlusconi? Non ho mai creduto che questa cosa potesse avvenire. Così come non credo che sia possibile un ricambio all’interno del governo Berlusconi. Nel momento in cui cadrà il Cavaliere non si potrà certo trovare il successore all’interno dell’attuale governo. Ci sarà bisogno di un governo del presidente con una maggioranza formata certamente dal Pdl, dal Terzo Polo e, auspicabilmente, dal Pd. Secondo lei quanto durerà questo governo? Temo che le pressioni che arrivano sull’economia italiana non siano destinate a ridursi. Sarà la situazione internazionale dei mercati ad accelerare la fine del governo. Berlusconi, secondo alcuni, si

st’ordine? Domande che esigono risposte. Se come credo qualcuno costringerà Tremonti a parlarne alle Camera, c’è da credere che la presidenza di Montecitorio o di Palazzo Madama metterà la questione immediatamente all’ordine del giorno. Parliamo del ministro chiamato ad assicurare la credibilità dell’Italia sui mercati».

In più, come osserva da Repubblica Claudio Tito, che del quotidiano diretto da Ezio Mauro è tra i giornalisti impegnati a seguire con maggiore costanza le vicende del governo, «a suggerire un passaggio parlamentare dovrebbe essere la stessa delicatezza dell’inchiesta: se non ne desse conto in modo ampio,Tremonti passerebbe per chi agita simili ombre per avere una giustificazione. Dovrebbe presentarsi in Parlamento proprio per evitare che si metta in dubbio la veridicità delle sue dichiarazioni. Proprio per questo», osserva Claudio Tito, «dovrebbe ripetere le stesse cose in una sede istituzionale consona». Si tratta quindi di preservare la propria credibilità e, aggiunge il notista politico di Repubblica, «di rendere la denuncia più efficace». Peraltro sarebbe curioso se Tremonti assumesse un atteggiamento dimesso, dal momento che «sicuramente le sue azioni sono calate, sicuramente per Tremonti le possibilità di conquistare la futura leadership non sono le stesse di pochi mesi fa, ma nemmeno si può dire che siano irreversibilmente compromesse. Quanto meno», dice Tito, «su questo non mi sbilancerei in modo netto».

augurerebbe un beau gest da parte di Tremonti, così come fece l’ex ministro Claudio Scajola. La cosa non mi appassiona. Sarebbe troppo tardi. Intanto imprese, banche e sindacati chiedono al governo un cambio di marcia e discontinuità? Non avranno risposte perché la discontinuità che chiedono le parti sociali ha per oggetto proprio il governo. Intanto l’Api prepara la sua seconda festa nazionale, a Labro dall’1 al 4 settembre, dal titolo “Noi per cambiare l’Italia”. Un plurale giustificato dall’itinerario politico unitario percorso dalle diverse componenti del Terzo Polo che devono collaborare per accelerare questo cambiamento che è la priorità per il nostro Paese. Un plurale indispensabile per uscire dalla crisi, per riconciliare il Paese, per farlo tornare a crescere. Proprio noi del Terzo Polo stiamo disegnando questa alternativa e credo che sia una pagina tutta da scrivere e per la quale stiamo lavorando. Penso che la nostra convention del 22 luglio abbia dimostrato la nostra compattezza e nei prossimi giorni dovremo accelerare su questo processo unitario. A settembre ci troveremo all’inizio del post-bipolarismo. Il bipolarismo vive una crisi irreversibile e il cambiamento è ineluttabile. In questo clima di rinnovamento quello tracciato dal Terzo polo è il percorso da seguire. Intanto l’Italia che deve sopportare l’approvazione di provvedimenti come il processo lungo e i ministeri al Nord. Con tutti i problemi che hanno

Difficile in ogni caso che gli aspetti più sconcertanti delle rivelazioni fatte da Tremonti passino inosservate. Lo si intuisce dalle dichiarazioni di Francesco Rutelli (nell’intervista pubblicata in questa pagina, ndr) e dalle richieste che avanzano altri esponenti dell’opposizione: il capogruppo dell’Idv alla Camera Massimo Donadi, per esempio, non annuncia già interrogazioni come giustamente si aspetterebbe Marcello Sorgi ma sostiene comunque che «il ministro dell’Economia ha il dovere di spiegare tutto agli italiani: deve chiarire, oltre alla questione dell’affitto,

gli italiani i nostri concittadini saranno contenti di sapere che è stata approvata un’altra legge che rende più incasinata la giustizia italiana e che il governo ha posto la fiducia su un’altra legge a favore del presidente del Consiglio. Un provvedimento che non risolve i problemi della giustizia, ma serve a illudersi di aver risolto i problemi del premier. E i ministeri al Nord? Le parole di Napolitano sono assolutamente perfette. Non c’è una virgola da correggere. Semmai c’è da augurarsi che il governo si rimetta in riga, anche se è difficile visto che la Lega ha la golden share di questo esecutivo. Il problema è che la Lega ha capito che il federalismo è un fallimento e deve alzare il tiro, con la pagliacciata del ministeri al Nord.

la risposta a Sergio Romano sul Corriere. Neppure dal quotidiano di via Solferino il responsabile di via XX Settembre peraltro si sofferma sui “pedinamenti”. Si limita a dire, a proposito dell’appartamento di via Campo Marzio, di aver pensato all’inizio ad un «diverso contratto» ma di aver subito accantonato l’idea «per ragioni personali», in ogni caso «non di convenienza economica ma di “privacy”». Riservatezza necessaria a cosa? A evitare qualche forma di “osservazione ravvicinata”? Interrogativi che, insieme con i virgolettati attribuiti al ministro da Repubblica, descrivono un quadro opaco attorno alla Guardia di Finanza. A Unomattina Tremonti dice ancora: «Prima di fare il ministro dichiaravo 10 miliardi di vecchie lire l’anno», a sostegno della tesi per cui non avrebbe mai avuto necessità di affitti “in nero”. E poi: «Do in beneficenza più di quello che prendo come parlamentare, non ho casa a Roma e non ho particolare vita di salotti, di potere, di appalti: faccio il mio lavoro soprattutto all’estero». Molta cura dunque nello sforzo di tutela dell’immagine pubblica, soprattutto nella difesa di un profilo molto lontano da quello di altri big dell’esecutivo. Come dice Claudio Tito, non è detto che le quotazioni di Tremonti siano scese al punto da non poter più risalire. Come ammette l’appena nominato guardasigilli Francesco Nitto Palma, «Tremonti non deve dimettersi». E lui stesso d’altronde vorrebbe «continuare a lavorare». Magari senza essere pedinato.

«C’è da chiedersi chi ha dato l’ordine di pedinarlo»,dice Marcello Sorgi,«sono cose che non si vedono neanche nei regimi». Claudio Tito di “Repubblica”:«Se il responsabile dell’Economia la portasse alle Camere,la sua denuncia sarebbe più efficace» da chi e perché si sentiva spiato e pedinato e quale sia la guerra tra bande all’interno della Guardia di Finanza». Aspetti molto delicati: non c’è da meravigliarsi, questo sì, che il ministro dell’Economia eviti di affrontarli nel corso dell’intervista a Unomattina. Com’è anche comprensibile, nella trasmissione principe della mattinata Rai Tremonti parla invece della questione che più suscita interrogativi nella gran parte dell’opinione pubblica, quella relativa all’affitto condiviso con Milanese: «Non ho bisogno di rubare soldi agli italiani, non l’ho mai fatto», spiega, ripetendo dunque con altre parole quanto affermato nel-


l’approfondimento

pagina 4 • 30 luglio 2011

La stagione del bipolarismo è finita: ogni spinta della società va indirizzata con chiarezza alla definizione delle regole future

Ancora un passo

Il documento presentato dalle forze sociali coglie in pieno il dramma dello stallo politico. Ma occorre uno sforzo ulteriore: bisogna «costringere» la politica a mettere mano al sistema nel suo complesso. Verso la Terza Repubblica di Enrico Cisnetto l documento firmato da tutte le parti sociali per denunciare la gravità della crisi italiana e il pericolo dello stallo di fronte ad essa, è molto importante ma nello stesso tempo di scarsa utilità. Sia chiaro, non entro minimamente nel merito del balletto delle indiscrezioni e supposizioni che la sua uscita ha innescato, nel tentativo di leggerci una paternità politica – Berlusconi? Tremonti? Poteri forti? – e quindi un possibile “cui prodest”. Quello che conta è che sindacati e associazioni imprenditoriali e di categoria si sono riuniti e hanno deciso di fare fronte comune, tralasciando molti e non banali motivi di divisione, per sollecitare la politica – il governo, ma anche le opposizioni – ad assumersi tutte le responsabilità che il momento grave richiede.

I

Si tratta di un gesto non rituale, che arriva al momento giusto, e del quale, dunque, non va trascurata l’importanza sim-

bolica. Ma, appunto, solo simbolica. Perché è evidente che quel documento trova la sua ragion d’essere nell’essere stato scritto, a prescindere da quel che contiene (auspici, condivisibili ma maledettamente generici) e soprattutto non contiene (manca di qualunque proposta). E non nel senso dei tanti suggerimenti, più o meno buoni, che di solito ciascuna parte sociale indica come le cose da fare per affrontare questo o quel problema. Quelli, per ca-

pirci, di cui lamenta la mancanza il leader della Uil Angeletti, che non a caso ha ritirato la firma. Sì, certo, se fossero stati indicati tre o quattro provvedimenti da prendere, male non avrebbe fatto. Ma sarebbe stato come parlare al muro. No, io parlo della proposta per risolvere il problema dei problemi: il malfunzionamento del sistema politico e istituzionale. Questione dalla quale poi discendono tutte le decisioni mancate prima ancora che le decisioni

Anche il criterio di reclutamento della nuova classe dirigente va ripensato

sbagliate di cui tutti i corpi sociali si lamentano.

Già, in quel documento manca l’analisi del perché la classe politica non è all’altezza del compito, perché le istituzioni non funzionano e perché in questi anni né il centro-destra né il centro-sinistra sono stati capaci di dare risposte convincenti al declino del Paese. E, di conseguenza, non possono che mancare anche le ricette per come guarire da queste malat-

tie. Questa osservazione l’avevamo già fatta nel maggio scorso, in occasione dell’assemblea di Confindustria, quando avevamo notato come la presidente Marcegaglia, pur dicendo che il «decennio perduto» che sta alle nostre spalle, quello della mancata crescita, è colpa delle «lacerazioni interne a ciascuno dei due poli della politica, alle prese con problemi di leadership personali anteposti al benessere del Paese», aveva avuto persino il pudore di usare la parola “bipolarismo”, figuriamoci se si poteva spingere a denunciare il fallimento di quel sistema bipolare maggioritario a suo tempo voluto (e sempre difeso, anche recentemente) dagli industriali, e indicare come lo si possa virtuosamente sostituire. Invece, è proprio su questo terreno che imprenditori e lavoratori, cioè le forze produttive e quindi più sane del Paese, si devono spingere se vogliono evitare il peggio. Bisognava dire con linguaggio esplicito che la maggioranza è


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Non esiste un «modello unico» valido per tutti i paesi del Vecchio Continente

Non serve il bipolarismo per riportare l’Italia in Europa

Riparte il dibattito sulla riforma elettorale, ma come al solito è venato da un pregiudizio sul sistema che dovrebbe garantire la governabilità di Francesco D’Onofrio embra che il dibattito sulla legge elettorale politica stia ripartendo, in qualche modo anche trasversalmente. Appare una sostanziale convergenza nel ritenere necessario che i parlamentari nazionali siano in qualche modo ancorati ad un territorio di provenienza, sia con la reintroduzione del voto di preferenza, sia con la elezione ad uno o due turni in collegi comunque maggioritari. In questo dibattito ricorre peraltro in modo sostanzialmente ripetitivo una affermazione in virtù della quale vi sarebbe la necessità dell’adeguamento dell’Italia al bipolarismo tra destra e sinistra perché questo costituirebbe una sorta di “normalità europea”.

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zione delle specifiche competenze dell’ente locale medesimo. Il fatto infine che negli Stati dell’Europa continentale si è finiti con il dar vita ad un Parlamento europeo, anche se non ancora dotato del potere di formazione di un vero e proprio Governo europeo, ha ulteriormente introdotto una distinzione tra identità politico-nazionale e Consiglio europeo sostanzialmente interstatale, che ha finito con il rendere necessaria una legge elettorale proporzionale per la elezione dei componenti nazionali del Parlamento europeo medesimo.

Non occorre certamente ripercorre il lungo e travagliato dibattito che ha caratterizzato anche in Italia l’accettazione delle espressioni “destra-centro-sinistra”: basti ricordare i numerosi e rilevantissimi scritti di Norberto Bobbio proprio su questo punto. Qualora infatti si guardi con adeguato senso storico e politico al processo che ha dato vita allo Stato nell’Europa continentale nel corso degli ultimi cinque secoli, ci si rende conto che la sua nascita ed il suo successivo sviluppo fino ad oggi hanno finito necessariamente con il comporre – in sede nazionale appunto – la dimensione della identità delle diverse componenti culturali e politiche (che a quello specifico Stato hanno dato vita ed al cui sviluppo hanno concorso) con la dimensione del programma di governo che in ciascuno Stato è risultato caratterizzante nelle sue diverse fasi storiche. La composizione tra le identità delle diverse forze culturali e politiche da un lato, ed i programmi di governo, ha pertanto rappresentato la radice politica ed istituzionale di fondo del modo con la quale, in ciascuno Stato appunto, si è dato vita alla legge elettorale politica e alle sue successive e significative modifiche. Il fatto che in ciascuno di questi Stati si sia anche dato vita a sistemi elettorali per la formazione di organi di amministrazione locali e di organi legislativi regionali ha ulteriormente reso più complesso il problema stesso della definizione della legge elettorale politica. Occorreva in tal caso rispondere anche alla domanda del se si intendeva procedere nel senso di sistemi elettorali tra di loro raccordati in modo da essere funzionali ad una vera e propria professione politico-elettorale, o se si preferiva procedere alla definizione di sistemi elettorali distinti l’uno dall’altro in fun-

L’Ottantanove e la conclusione della Guerra Fredda hanno cambiato anche gli schemi istituzionali

Anche pertanto, a voler prescindere da questo più recente sviluppo europeistico, non si può non rilevare che in ciascuno Stato componente della odierna Unione europea si sono adottate leggi elettorali politiche che hanno realizzato in modo diverso il punto di equilibrio tra identità e programma, talvolta oscillando nel senso della accettazione della alternativa destra-sinistra, tal’altra preferendo la formazione e la stabilità dei governi rispetto alla tutela della identità culturale delle diverse componenti politiche. Occorre aver presente pertanto che la di-

stinzione destra-sinistra è stata profondamente segnata dalla stagione della “Guerra fredda”; non sorprende del pari che la storia europea continentale ci aveva consegnato diverse espressioni di destra e diverse espressioni di sinistra; non sorprende infine che la concreta esperienza politica di forze ideali di provenienza cristiana e ancor più cattolica abbiano cercato di sottrarsi proprio all’alternativa tra destra e sinistra per dar vita a soggetti politici e ad alleanze di governo più centrali che centriste. Non vi è dunque una sorta di “normalità bipolare europea” rispetto alla quale l’Italia dovrebbe in qualche modo essere costretta ad adeguarsi. Si può certamente essere proporzionalisti fino al punto da non porre alcuno sbarramento quantitativo alla rappresentatività di componenti culturali comunque presenti in modo consistente nella società italiana; si può al contrario essere maggioritari fino al punto da prevedere premi di maggioranza costruiti per la stabilità del governo, molto più che per la identità programmatica delle sue componenti; si può essere favorevoli ad un sistema elettorale nazionale che tenga conto dei sistemi elettorali locali e regionali; si può infine essere orientati

dal contesto europeo attuale, che non ha certamente dato vita ad un nuovo Stato, ma che allo stesso tempo non è più caratterizzato soltanto dalla somma di Stati nazionali.

Qualora dunque si guardi con attenzione alla lunga e complessa storia dei singoli Stati europei, non si può certamente cogliere alcuna presunta normalità europea per quel che concerne i sistemi elettorali politici: si può dunque operare una scelta per convenienza o per convinzione, ma non per una ipotetica costrizione europea.

«in evidente difficoltà» e che l’opposizione è «incapace di esprimere un disegno riformista». Aggiungere che tutto questo non accade per sfortuna, ma per colpa di un sistema politico malato.

E subito dopo indicare le scelte che occorre fare per superare questa situazione: nuova legge elettorale come premessa di un sistema politico rinnovato; nuovi assetti istituzionali da decidere mettendo mano alla Costituzione in modo organico e in un clima di concordia. Certo, da tanti soggetti che rappresentano interessi diversi e in molti casi contrastanti, non ci si poteva certo attendere di entrare nel dettaglio, ma indicare che questa è l’unica strada per venirne fuori vivi, beh questo sì che sarebbe stato lecito attendersi che fosse, e sarebbe lecito attendersi che sia al più presto. No, non rispondete il solito ritornello «questo non compete a noi», perché non è vero. Sia chiaro, a voi parti sociali non spetta il compito di sostituirvi alla politica, promuovendo governi tecnici e neppure dando vita a corporativi “partiti di categoria”, ma spetta invece di portare le forze politiche esistenti sui terreni decisivi che abbiamo detto e costringerle a fare scelte che finora hanno evitato. Non vi si chiede di trasformarvi in comitati elettorali, bensì attrezzarvi a far passare nel Paese un nuovo modello di sistema politico e istituzionale. Magari lanciando idee forti, come la richiesta di un’Assemblea Costituente cui consegnare il compito, non riuscito ai parlamenti degli ultimi vent’anni, di riscrivere in modo condiviso le regole del gioco. E se il ceto politico recalcitra o non è in grado di farlo, a voi spetta persino il compito di indurre, o comunque di aiutare, la nascita di forze nuove che rinnovino l’offerta politica esistente. Non si sta evocando il partito degli industriali – che pure certe parole della Marcegaglia hanno lasciato supporre si volesse fare – o quello dei lavoratori, anche perché il passaggio non è «cambiamento degli uomini a invarianza di sistema», bensì «cambiamento di sistema e quindi anche di uomini». E fa una bella differenza. Il «ghe pensi mi» l’abbiamo già sperimentato, ed è stato un clamoroso fallimento. Ci basta e avanza. Invece, si sta dicendo che la società civile può e deve, anche e soprattutto per il tramite di forze sociali organizzate come le vostre, coagularsi intorno a progetti e idee che abbiano come obiettivo la ricostruzione del Paese, sapendo che in mancanza non potranno che prevalere le qualunquistiche parole d’ordine dell’anti-politica. E sarà peggio per tutti. (www.enricocisnetto.it)


diario

pagina 6 • 30 luglio 2011

Inflazione al top: a luglio è al 2,7%

No-Tav: guerriglia nella notte

Crac Alitalia, Cimoli indagato

ROMA. nflazione stabile a luglio,

TORINO. È di sei feriti fra le for-

ROMA. Si chiude dopo due anni

ferma sul livello massimo da novembre 2008. In questo mese secondo i dati dell’Istat - i prezzi al consumo sono cresciuti del 2,7% rispetto a luglio dell’anno scorso, segnando lo stesso incremento annuo di giugno. Nel confronto con giugno, invece, c’è stato un aumento dello 0,3%. L’inflazione acquisita per il 2011 è pari al 2,5%. L’inflazione di fondo, calcolata al netto di beni energetici e alimentari freschi, si stabilizza al 2,1%. Il principale effetto di sostegno alla dinamica dell’indice generale, a luglio, deriva dall’aumento congiunturale del 2,0% dei prezzi dei beni energetici, che determina una netta accelerazione del loro tasso tendenziale di crescita (10,7%, dal 9,3% di giugno).

ze dell’ordine il bilancio di circa due ore di guerriglia alla quale hanno dato vita, nel corso della notte di ieri, circa 200 manifestanti che hanno attaccato il cantiere della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, alla Maddalena di Chiomonte (Torino). I feriti sono un dirigente e tre agenti di Polizia, un maresciallo dei Carabinieri e un agente della Guardia di finanza, colpito a un piede da una bomba carta e trasportato in ospedale. Contro di loro, aderenti all’area antagonista, di matrice autonoma e anarchica, la maggior parte dei quali con il viso coperto, indossando caschi e maschere antigas hanno lanciato pietre, biglie metalliche, bulloni, petardi, bombe carta e fumogeni.

l’inchiesta della Procura di Roma sulla bancarotta della vecchia Alitalia, oggi in amministrazione straordinaria. Le indagini hanno portato a sette indagati. A loro la notifica che prelude le richieste di rinvio a giudizio per alcuni degli ex dirigenti della compagnia aerea in carica tra il 2001 e il 2007. Tra questi l’ex presidente Giancarlo Cimoli e l’ex amministratore delegato Francesco Mengozzi. Tra i reati ipotizzati la bancarotta per dissipazione e/o distrazione. Secondo i magistrati Mengozzi e Cimoli avrebbero gestito male il settore Cargo prevedendo costi abnormi a fronte del fatturato e sarebbe rimasti «inerti a fronte della perdurante situazione critica del settore».

Fra le proteste delle opposizioni la maggioranza dà il via alle norme che salveranno il premier dai casi Mills e Ruby

Un altro sì “ad personam”

Il Senato approva il processo lungo. Il Csm: andiamo contro l’Europa di Marco Palombi

Con 160 voti a favore, 139 voti contrari e nessun astenuto, Palazzo Madama ha approvato l’ennesima legge «ad personam» per il presidente del Consiglio. Infatti si tratta di norme che i legali del premier potranno utilizzare per allungare fino alla proscrizione il processo Mills e quello su Ruby e la prostituzione minorile. Il provvedimento adesso torna alla Camera

ROMA. Simbolicamente, ieri è stata la giornata del trionfo di Niccolò Ghedini, mentre Francesco Nitto Palma – completo scuro e cravatta blu per il suo esordio da Guardasigilli – se n’è stato in Senato a prendersi i complimenti e le pacche sulle spalle dei colleghi in quella che potrebbe essere l’imitazione di quello che, giusta la tradizione popolare siciliana, va sotto il nome di “pupo” («non avrà effetti deflagranti», s’è limitato a dire braccato da una cronista del Fatto). Ieri, infatti, l’aula di palazzo Madama ha finalmente accontentato l’avvocato padovano del presidente del Consiglio – finora un po’ a corto di successi in Tribunale - dandogli il posto di dominus nel processo, e poco importa che per farlo si finisce per mandare in vacca l’intero sistema giudiziario aumentando ancora di più il rischio prescrizione per molti processi. Ci si riferisce al cosiddetto “processo lungo”, un ddl nato male e cresciuto peggio su cui ieri, in Senato, il governo ha ottenuto la sua 48esima fiducia della legislatura (160 sì, 139 no): ora il testo dovrà tornare alla Camera, che se ne occuperà a settembre, ma per il povero Ghedini c’è già una brutta sorpresa.

Il ddl è stato scritto talmente male che ci sono alcuni errori che non potrebbero non spingere il presidente della Repubblica a rinviarlo alle Camere e dunque saranno necessarie nuove correzioni a Montecitorio e un nuovo passaggio in Senato. Vecchie questioni che riguardano il diavolo, le pentole e i coperchi, si sa. Resta in campo, comunque, l’ennesima proposta di legge schizofrenica di questo centrodestra sempre scisso tra il reazionarismo manettaro che è la sua cultura più profonda e le esigenze personali di Silvio Berlusconi, che sono la sua ragion d’essere. Successe già con la famosa legge Cirielli: nata dalle viscere del mondo ex missino per negare le attenuanti generiche ai recidivi, grazie ad un emendamento di Forza

Italia divenne il veicolo con cui si tagliavano i tempi di prescrizione dei reati. Una cosetta che all’epoca serviva a Cesare Previti (va detto che Cirielli, a quel punto, sconfessò la legge). Oggi un ddl della leghista Lussana che intendeva tagliare i benefici della legge Gozzini per gli ergastolani finisce per sbilanciare il processo penale a favore della difesa allungando ulteriormente i già eterni tempi dibattimentali. Col silenzio complice e il voto utile, ovviamente, del Carroccio.

Insomma, il cosiddetto processo lungo è un’accozzaglia di interventi in materia penale senza alcun rapporto tra loro. C’è la parte leghista che prevede che per i reati puniti con l’erga-

stolo non sia possibile il rito abbreviato (che comporta automaticamente uno sconto di pena a 30 anni) e che per i detenuti non sia possibile alcun beneficio carcerario prima di aver scontato tre quarti della pena (26 anni per quelli del “fine pena mai”). «Altro che indulto o amnistia», si sgolava ieri il senatore padano Mazzatorta rivendicando al suo partito l’ennesimo attacco ideologico e propagandistico al sistema di riabilitazione: peccato sia proprio di questi giorni la notizia che i detenuti liberati con l’ultimo indulto hanno percentuali di recidiva assai più basse del normale. Insieme alla filosofia leghista del “buttare la chiave”, però, nel ddl è finita anche quella “tutto per Silvio” del Pdl.

Con una serie di emendamenti si è andati a toccare alcuni punti del codice penale di cui spesso – ma sarà un caso – s’era lamentato Niccolò Ghedini nei processi del Cavaliere. È il caso, ad esempio, della modifica all’articolo 190, quello che regola il diritto alla prova: vi si legge che il giudice «a pena di nullità» dovrà ammettere «le prove, ad eccezione di quelle vietate dalla legge e di quelle manifestamente non pertinenti», mentre attualmente si parla di «prove superflue o irrilevanti» senza minacce di «nullità». Spiega Luigi Li Gotti, avvocato e senatore di Idv: «In poche parole significa che o si fa quello che dice l’avvocato difensore oppure per il processo non ci sarà più nulla da fare. Tutte le prove che lui


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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Rapporto Svimez: «Al Sud due giovani su tre non lavorano

Direttore da Washington Michael Novak

ROMA. Emergenza giovani nel Sud dell’Italia: «due su tre sono a spasso», ossia senza un’occupazione, e oltre il 30% dei laureati under 34 non lavora e non studia. A lanciare l’allarme è il Rapporto Svimez 2011 sull’economia del Mezzogiorno, che verrà presentato il prossimo 27 settembre, le cui anticipazioni sono state rese note ieri. Stando al rapporto, poi, pur lasciandosi alle spalle la recessione più grave dal dopoguerra, il Sud arranca «con Abruzzo, Sardegna e Calabria che guidano la ripresa. Un Sud dove le famiglie hanno difficoltà a spendere e il tasso di disoccupazione effettivo volerebbe al 25%, considerando chi il lavoro lo vuole, ma non sa dove cercarlo». Nel complesso, comunque, nel Sud Italia una persona su quattro non lavora, se consideriamo anche i lavoratori in cassa integrazione e gli scoraggiati, rileva il rapporto. In particolare nel 2010 si legge nello studio - il tasso di disoccupazione nel Sud è

e di cronach

Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

stato del 13,4% (contro il 12% del 2008), più del doppio del Centro-Nord (6,4%, ma nel 2008 era il 4,5%). Se consideriamo tra i non occupati anche i lavoratori che usufruiscono della Cig e che cercano lavoro non attivamente (gli scoraggiati), il tasso di disoccupazione corretto salirebbe al 14,8%, a livello nazionale, dall’11,6% del 2008, con punte del 25,3% nel Mezzogiorno (quasi 12 punti in più del tasso ufficiale) e del 10,1% nel Centro-Nord.

Da sinistra: Anna Finocchiaro, Gasparri e il neoministro Nitto Palma. A fronte, Karima el-Mahroug, la popolare Ruby

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica

chiede dovranno essere accettate». E non possono non tornare alla memoria le lamentele di Ghedini perché i Tribunali non accettavano le sue chilometriche liste di testimoni. Ma non è finita: le mani sono state messe anche sull’articolo 495, che disciplina i provvedimenti del giudice in ordine alla prova. Passasse il processo lungo, il magistrato potrebbe revocare l’ammissione di prove solo se queste fossero contemporaneamente «superflue» «e manifestamente non pertinenti». Una “e” al posto di una “o” e rifiutare una prova (quindi anche una testimonianza) all’avvocato Niccolò diventa praticamente impossibile: il che, peraltro, comprime un po’ troppo l’autonomia del giudice e rischia di mettere la legge in fuorigioco costituzionale.

Poi ci sono gli errori materiali. Ad esempio nel ddl si prevede l’esclusione dai benefici penitenziari per una serie di reati gravissimi – dal terrorismo all’estorsione – compresa la “strage” senza vittime. Peccato che poi, a proposito di questo reato, si parli di aggravanti per “morte del sequestrato”. Ma se era senza vittime? Il problema è grosso, tanto che giovedì sera se n’è accorto pure il governo. Il sottosegretario Caliendo, a quel punto, è andato dall’opposizione a chiedere pietà: correggiamo tutti insieme almeno gli errori ma-

Il testo è così pieno di errori tecnici che dovrà essere corretto e approvato di nuovo, anche da palazzo Madama teriali. Il problema è che lo stesso governo, su quel testo scritto male, aveva già posto la questione di fiducia e quindi non c’era modo di intervenire. «È quasi certo – ha spiegato un tecnico del Pdl all’Ansa – che dovremo correggerlo alla Camera e tornare di nuovo in Senato. Così com’è non reggerebbe alcun vaglio di costituzionalità».

Intanto il mondo della giustizia è già in fibrillazione per gli effetti devastanti che questa legge avrebbe nel caso venisse approvata: «Chiunque comprende – ha scritto la giunta dell’Anm – che così il difensore dell’imputato potrebbe chiedere e ottenere l’ammissione di un numero indefinito di testimoni sulla medesima circostanza, purché non ma-

nifestamente “non pertinenti”. Ad esempio un imputato in un processo per uxoricidio potrebbe chiedere e ottenere l’ammissione come testimoni di tutti i suoi amici, parenti e conoscenti sull’esistenza del vincolo coniugale tra lui e la vittima, prova certamente pertinente, ma altrettanto certamente manifestamente superflua». Per il segretario Palamara, che lo ebbe proprio come testimone di nozze, il “processo lungo” sarà per Nitto Palma «il banco di prova della sua volontà di avere un approccio coerente in favore della giustizia», essendo peraltro un ex magistrato, «un tecnico in grado di capire la fondatezza delle nostre osservazioni critiche». Ieri ha avuto modo di esprimere la sua preoccupazione sul tema anche il vicepresidente del Csm Michele Vietti: «Si tratta di una misura – ha spiegato – che va obiettivamente nella direzione opposta rispetto all’impegno per diminuire la durata dei processi sul quale noi siamo impegnati in modo prioritario, anche per tenere il passo con l’Europa”». Il Consiglio superiore, ha insistito l’ex deputato Udc, aveva presentato una risoluzione con proprie valutazioni sul provvedimento e aveva accettato di non votarla su richiesta dei componenti laici di centrodestra per consentire un migliore approfondimento: «Prendiamo atto che il governo ha ritenuto di non fare lo stesso».

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economia

Il presidente chiede un ultimo sforzo bipartisan per trovare una mediazione. «Sento che siete vicini alla soluzione del problema», dice al Congresso

Incubo default

Luttwak ottimista: «Alla fine, un accordo ci sarà». Ma i mercati tremano e Obama: «Non c’è più tempo» di Pierre Chiartano un dramma quasi cinematografico, la vicenda legata al possibile default americano. Siamo sull’orlo del baratro, ma in realtà «l’accordo ci sarebbe già». C’è apprensione nel mondo per le conseguenze di un fallimento del debito pubblico americano e per i continui fallimenti dei negoziati tra Casa Bianca e repubblicani – tanto che anche i banchieri di Wall Street hanno fatto un appello alla politica perché si trovi un accordo – «ma si tratterebbe di schermaglie politiche, alla fine firmeranno». Sono saltati i nervi persino al governo di Pechino che siede su di una montagna di titoli di debito Usa. L’agenzia di stampa cinese Xinhua riportava ieri i sentimenti dell’esecutivo, per cui gli Usa sarebbero «irresponsabili a non trovare un accordo», perchè le liti tra democratici e repubblicani rischiano di trascinare nell’abisso Stati terzi, per problemi di leadership americana. Pechino parla apertamente di un rischio recessione peggiore di quella del 2008. Insomma, la tensione è alle stelle.

È

«Ma l’accordo c’è sul 95 percento dei punti, a cominciare da una premessa: che gli Usa sono nella condizione della Grecia. Il consenso è su un taglio di 1.200 miliardi di dollari subito, nei prossimi 18 mesi. E come se in Italia si facesse una manovra da 170 miliardi di euro, visto le proporzioni dei rispettivi pil, senza prendere in considerazione che il debito italiano è maggiore. C’è anche un accordo per un ulteriore taglio da 2.800 miliardi di dollari. Il disaccordo è su una stretta aggiuntiva da 240 miliardi. Quindi c’è l’accordo su quasi tutto, ma per ragioni elettorali vogliono litigare fino all’ultimo minuto su questa parte marginale del negoziato». E infatti, nonostante il clima da Armageddon finanziario, i Treasury bond si vendono ancora al 3 per cento «e non hanno dovuto aumentare il rendimento, perché tutti sanno che l’accordo sarà raggiunto». A sostenerlo è Edward Luttwak famoso politologo ed economista americano di origine rumena, già consulente del governo Usa. Liberal lo ha raggiunto telefonicamente a Washington. «La cosa più importante è che c’è un accordo per una manovra che è già imponente. Solo il governo britannico ha fatto meglio per ora. Pur essendo quel Paese in un mare di guai, ha ancora la tripla A nel rating sul debito nazionale. Perché hanno fatto la manovra necessaria». Cioè una manovra draconiana al cui confronto quella italiana, dilazionata nel tempo, assomiglia a pannicello caldo. Londra è nei guai fino al collo, ma i buoni del Tesoro di Sua Maestà non sono scontati. «In

Italia i Btp hanno un valore nominale e poi vengono venduti con lo sconto. Questo perché la manovra italiana è stata percepita come di dimensioni ridotti e dilazionata». Ma negli Usa la febbre sta salendo ad ogni ora che ci avvicina al 2 agosto, termine ultimo per alzare i limiti al tetto di spesa pubblica americano. Il voto, già slittato da mercoledi, era stato fissato per giovedi alle 18 americane (mezzanotte in Italia). A pochi minuti dalla votazione, è arrivata un’altra sorpresa: si rimandava tutto in serata. Momenti di grande concitazione e non solo negli Usa dalle parti della Pennsylvania avenue, ma anche in Europa. Poi lo stop senza appello: giovedi la Camera non vota. Il presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, era rimasto

su tutta la linea. I Tea party volevano il paragone tra Grecia e Usa, con tagli drastici. Le tesi di gente come Krugmann e Friedmann e quelle dei democratici di sinistra hanno perso. Infatti sono “incazzati” con Obama», chiosa il politologo. Si litiga ai margini degli schieramenti, in presenza di un accordo di massima, ma un’ala avrebbe stravinto, afferma Luttwak, quella a destra dei repubblicani. «La tesi sulla crisi economica come giustificazione per aumentare la spesa pubblica è stata rifiutata».

Solo che i repubblicani vogliono incoronare la loro vittoria con ulteriori allori. «Mentre la sinistra democratica è stata completamente sconfitta. Obama, se vuole essere rieletto, deve ascoltare la

L’esperto americano: «I conservatori vogliono stravincere questa sfida per motivi esclusivamente elettorali, perciò aspetteranno l’ultimo secondo prima di chiudere il negoziato. Ma comunque il piano di tagli per la sinistra è già una sconfitta» senza parole di fronte all’offensiva vincente del Tea Party, quelli che non vogliono più sostenere uno Stato federale spendaccione. Si fanno i nomi di Sarah Palin e Michele Bachmann, ma «il Tea party è una cosa seria, non è rappresentato da due donne arrabbiate. Hanno i numeri e rappresentano una parte colta e preparata dell’America. In Europa li presentate come degli estremisti e la Palin aiuta a dare questa interpretazione. Ma non è così», continua Luttwak. I guardiani del rigore, i libertarian contro il Big Government hanno esplicitamente invitato i neo eletti nel partito repubblicano a far mancare il loro voto ad un piano che rappresenta un compromesso troppo forte con la posizione «no-tax» dei conservatori, e che avrebbe costretto il Parlamento a rivedere ulteriormente il tetto del debito nel 2012, in piena campagna elettorale. Un ulteriore motivo d’agitazione per la Casa Bianca, che vede uno stop dei propri piani proprio quando mancano pochi giorni alla fatidica scadenza del 2 agosto.

Forse sarà il Tesoro americano, in mancanza di un accordo entro quella data, a decidere quali creditori avranno la precedenza nei pagamenti. Il presidente Obama aveva comunque già deciso di porre il veto alla legge, se fosse passata, in attesa del «piano B» a cui i leader democratici e repubblicani del Senato statunitense starebbero già collaborando e di cui è convinto Luttwak. «Il Tea party ha vinto, le sue tesi hanno vinto. Basta guardare a cosa i democratici hanno offerto, dimostra una vittoria

denziali e governare un grande Paese come l’America. Ha governato per otto anni ed è andato via col più alto consenso mai ottenuto da un presidente. Anche il caso Tea party è uno di quelli in cui gli europei non capiscono un tubo delle vicende statunitensi». Però ora i fari di tutto il mondo sono puntati su Washington, quanto ancora dovremo stare in ansia prima di vedere firmato questo benedetto accordo? «Il balletto della politica potrà continuare fino all’ultimo secondo, però si chiuderà in tempo affinché tutti possano andare a cena. L’orario verrà rispettato». In Europa, dove l’euro è già in pericolo, l’ansia aumenta.

voce del popolo, per cui deve muoversi dalle proprie posizioni iniziali. Il piano di enormi tagli è già una sconfitta per la sinistra dell’asinello. Il consenso oggi e con il Tea party che non è la parodia che se ne fa in Europa. Non è rappresentata né da Sarah Palin né dalla Bachmann. Volendo fare un paragone, il Tea party ha avuto lo stesso trattamento mediatico che ebbe Reagan alla vigilia della sua prima elezione: vecchio attore di Bmovie che non poteva vincere le presi-

«In Europa c’è un altro problema. Hanno deciso di aiutare la Grecia anche se Atene non ha fatto alcun taglio sostanziale alla spesa. Continuano a pagare le baby pensioni e non hanno licenziato nessuno nell’amministrazione pubblica. Il trasferimento di questi soldi è legato solo al fatto che non si vuole che i buoni del tesoro greci che molte banche europee – tedesche e francesi – hanno in pancia diventino carta straccia. Ciò che non hanno detto i banchieri centrali è che molte banche come quelle italiane hanno buoni del tesoro in enormi quantità. Il problema è che nella loro contabilità hanno messo il valore nominale dei titoli di debito. Se si dovesse passare


economia

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Dopo il rinvio del voto sulla proposta del Gop

Amici repubblicani, Siete incoscienti

Il direttore di “Weekly Standard”, leader neocon si schiera contro la scelta dei falchi dei Tea Party di William Kristol overnare significa scegliere. Votare significa scegliere. Aver votato contro John Boehner alla Camera dei Rappresentanti questa settimana nel più grande confronto dell’attuale Congresso ha significato votare con Nancy Pelosi. Votare contro Boehner ha significato scegliere di sostenere Barack Obama, scegliere di aumentare le possibilità che passi una legislazione peggiore di quella di Boehner. Quando l’Heritage Action Fund e il Club for Growth e i senatori Vitter, Paul e altri hanno scelto di sollecitare la Camera dei Repubblicani ad unirsi ai Democratici per sconfiggere Boehner, hanno scelto di appoggiare Barack Obama.

G

«È sicuramente una vittoria del Tea party, ma non quello di Sarah Palin e di Michele Bachmann. Si tratta di un movimento diverso da come lo presentano i media europei. E stavolta hanno dimostrato di avere in numeri anche in Parlamento»

Sopra: Edward Luttwak, famoso politologo ed economista Usa; in alto: apprensione a Wall Street. A sinistra: lo speaker della Camera John Boehner e a destra, il neocon “Bill” Kristol

il valore reale, molti grandi istituti sarebbero insolventi. Ora dovrebbero essere ricapitalizzati con un azzeramento delle azioni e delle obbligazioni. E naturalmente il licenziamento degli attuali gestori. Ci sono state molte dichiarazioni sulla solidità delle banche italiane che hanno appena passato uno stress test. L’unico problema che era un test fasullo. Basato su prestiti e sofferenze, ma tenendo fuori il portafoglio sui titoli di debito che sono scritti a bilancio col valore nominale. Come mai dopo lo stress test le banche hanno perso valore in borsa? Un’altalena di discese sul mercato e di risalita dei titoli, grazie a interventi esterni». Quindi il mercato puniva le banche e gli situti centrali intervenivano, anche con il nuovo fondo europeo, per far risalire i titoli. Per Luttwak gli stress test sono «di Pulcinella». «Le banche irlandesi fallirono pochi giorni dopo averlo passato positivamente». Intanto staremo vedere se Capitan America riuscirà ad arrivare in tempo per salvare il mondo.

Non è giusto! Di-

me successo altre volte in passato. Quando dietro a una forte braccio di ferro fra forze diverse c’erano comunque strategie politiche chiare e facilmente spiegabili. Quando in qualche misura si faceva davvero l’interesse dei conervatori. Oggi, l’Heritage Action e il Club for Growth hanno scelto di rendere più forti Barack Obama, Nancy Pelosi e Harry Reid. Stanno lavorando per la sconfitta politica di John Boehner, di Eric Cantor, paul Ryan e la maggioranza dei Repubblicani alla Camera. Agire così non significa seguire i principi conservatori. Questa è solo una balla per auto assolversi, è solo un modo per far passare il settarismo come fosse un mantra conservatore.

È da escludere che i conservatori possano ottenere un risultato migliore dopo il tracrollo dello speaker della Camera dei Rappresentanti

ranno questi gruppi e questi senatori. Non stiamo appoggiando Obama, vogliamo solo che Boehner faccia di più, che vada più avanti. Molto bene, allora. La destra pro-Obama può spiegare come la sconfitta di Boehner alla Camera andrà a beneficio dei conservatori, alla loro capacità di fare di più e andare più avanti? No, non può! Basta leggere le loro dichiarazioni per capirlo. Non fanno nemmeno finta di spiegare come la sconfitta di Boehner possa dar luogo a una migliore politica o a un migliore risultato politico per i conservatori, nel breve, medio o lungo termine.

P e r c h é n o n r i e s c o n o a spiegare come una sconfitta può comportare una vittoria. Una sconfitta, e sappiamo tutti che è così, può comportare solo una sconfitta. È da escludere che i conservatori possano ottenere un un migliore risultato dopo il tracrollo di Boehner alla Camera questa settimana. Qui non si è trattato di opporsi a un cattivo accordo bipartisan così co-

Ma non fraintendetemi. La proposta Boehner non è eccellente. Ma poteva tenere sotto scacco Obama fino alla fine del suo mandato. E ci avrebbe consentito di lavorare sotto traccia per evitare un suo secondo mandato nel 2012. Un successo di Boehner, oggi - al netto di tutti gli errori che lui o altri possano aver commesso nelle scorse settimane, financo mesi - avrebbe reso più facile evitare il bis di Obama alla Casa Bianca. E questo, non deve sfuggire, significa che con un nuovo presidente nel 2013 si potrebbe immaginare un nuovo futuro politico per questo paese.

L’esitazione con cui i Repubblicani affrontano la drammatica situazione di questi giorni doverbbe indurli, tutti, a far bene i propri calcoli. Se vogliono evitare di finire nella schiera di quelli che lavorano e si posizionano alla destra del Presidente, devono scegliere di appoggiare John Boehner. Contro Barack Obama. Perché vincere contro Obama non è un vizio. E perdere su Obama non è una virtù.


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economia In vista dell’assemblea dei soci, il colosso vuole modificare le strategie

ella Milano degli affari fioriscono, moltiplicandosi, le congetture attorno ai mandanti (o agli ispiratori) di quell’autentica bomba ad orologeria esplosa venerdì 22 luglio, quasi a ciel sereno, nella riunione del patto di sindacato e del Consiglio d’amministrazione di Mediobanca, il Sancta Santorum dell’alta finanza. Sebbene le decisioni debbano venire ratificate dall’assemblea dei soci (il 28 ottobre prossimo), difficilmente sarà possibile innestare la retromarcia sui “limiti di età” della dirigenza: 75 anni per i consiglieri, 70 per il presidente, 65 per l’amministratore delegato e il direttore generale.

N

Diciamo subito che si è trattato di una vittoria piena dei manager: i cinquantenni, poco più o poco meno, come l’ottimo presidente Renato Pagliaro, l’amministratore delegato Alberto Nagel (particolarmente apprezzato per grinta e competenza), il direttore generale Francesco Saverio Vinci. Essi, in sostanza, chiedono che Mediobanca recuperi lo stile ed il dinamismo delle origini: quelli dell’Era di Enrico Cuccia e del delfino Vincenzo Maranghi, che avevano fatto dell’Istituto, la locomotiva del nostro sistema economico. Morto Cuccia (nel 2000) e presto scomparso Maranghi, progressivamente perdendo smalto ed autorevolezza, s’era trasformata in terreno di caccia. Di poltrone ed equilibri fra i soci.Vivendo sotto la presidenza del romano Cesare Geronzi una delle stagioni meno esaltanti. Finché lo stesso Geronzi fu costretto (non estranee le disavventure giudiziarie) a trasferirsi alla Generali di Trieste, il colosso assicurativo terzo in Europa e fiore all’occhiello del “sistema Italia”con la sua ragnatela di partecipazioni. C’è rimasto però poco. E sotto la pressione dei manager di Mediobanca (principali azionisti di Generali), ha dovuto lasciare pur con milionaria liquidazione. Questa apparente digressione, a spiegare quanto sia stata lunga e dura la battaglia di Pagliaro-Nagel-Vinci per la conquista dell’autonomia. Il cui significato è molto semplice: i vertici non saranno più condizionati, come nel recente passato, dal gioco di equilibrio dei soci. Quelli che con le loro manovre, spesso di puro potere, hanno zavorrato la già mitica Mediobanca, per fare qualche esempio, a tenersi l’11,82 per cento di Telco-Telecom o il 14,36 della Rcs-Corriere della Sera. Che stanno negativamente influendo sui bilanci. Si pensi: la partecipazione in Rcs, in carico a 208 milioni di euro, agli attuai valori di borsa, ne vale la metà. Ma perché mai Mediobanca dovrebbe mantenere partecipazio-

Il derby Mediobanca: così cambierà il potere Dietro la guerra per il rinnovamento c’è quella per il controllo della finanza di Giancarlo Galli

Da una parte il nuovo management (la triade Pagliaro-NagelVinci), dall’altra i vecchi «soci illustri»: quello che sembra un conflitto generazionale è in realtà una vera lotta di potere ni nel deficitario settore editoriale? Enrico Cuccia vivente, esisteva una regola così enunciata dal fondatore: Mediobanca non si occuperà mai né di case da gioco né di giornali! I successori si sono comportati diversamente. Trasformando Mediobanca in una stanza di compensazione dei vari potentati che controllando i media possono avvolgere con cortine di nebbia le loro manovre, talvolta a sfondo anche politico. Ha ben detto il chief-esecutive officer di In alto, la sede di Mediobanca. A destra, dall’alto, Nagel, Pagliaro e Vinci. A sinistra, Bollorè, Della Valle e Geronzi

Unicredit Federico Ghizzoni, che con l’8,66 è il primo azionista di Mediobanca: «Con il nuovo assetto, si vuole mettere il vertice operativo nella condizione di massima autonomia, in modo da avere totale responsabilità anche nella gestione delle partecipazioni rilevanti. Per farlo occorreva responsabilizzare totalmente i manager». Seguendo questa linea, s’è posto un freno pure alle ambizioni del francese Vincent Bollorè che attraverso il suo intreccio di quote, circa l’11 per cento di Mediobanca, direttamente o indirettamente controllate, aveva nell’Era dell’amico Cesare Geronzi costruito il trampolino per una scalata alle Assicurazioni Generali, delle quali Mediobanca possiede oltre il 12 per cento. E non è un mistero che in successive battute Bollorè mirava a “francesizzare” le Generali, trasferendole nell’orbita dei gruppi assicurativi Groupama ed Axa.

Pertinente domanda: come è stato possibile ai manager di Mediobanca imporsi sulla galassia dei soci? La risposta va ricercata in una sotterranea ma incisiva rivolta di figure emergenti dell’imprenditorialità italiana: da Luca di Montezemolo a Diego Della Valle, che sotto traccia lavorano per un ricambio generazionale. I “limiti d’età” prospettati per Mediobanca costituiscono infatti uno sgambetto pragmatico alla gerontocrazia dominante in tanti settori dell’economia e soprattutto della finanza. Ancora dominata da una schiera di ultrasettantenni che (caso pressoché unico al mondo) è uscita indenne dalla crisi che ha investito Banche & Finanza, quasi non avesse alcuna responsabilità. Visto in controluce, ciò che accade in Mediobanca va ben oltre l’area finanziaria. Il “ringiovanimento” appare così un pressante richiamo anche alla politica. In scenari che richiedono energie fresche (riflettiamo sull’età di Putin, Obama, Sarkozy, Cameron, la Merkel), l’Italia dei Palazzi romani si configura come un gran gerontocomio. E pur facendo credito alle buone intenzioni, come non constatare che da botti vecchie difficilmente potrà uscire vino nuovo? Conclusione: con epicentro Mediobanca, s’è avuta una scossa tellurica all’insegna del cambiamento. Mandando in prima linea i manager. Naturalmente, fra le ovattate boiseries della finanza, i tanti «arzilli vecchietti» in circolazione (la definizione è di Diego Della Valle, classe 1953), vanno studiando le contromosse per non mollare. E ci proveranno, non v’è dubbio. Idem nei vari santuari della politica. Eppure il segnale che scaturisce da Mediobanca apre il cuore alla speranza, inducendo a dire, gridare: «Forza, cinquantenni!».


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Comunicazione e multimedialità

L’ULTIMO TRENO PER IL FUTURO di Roberto Genovesi

n tempo le regole della narrazione e della comunicazione erano daquale speriamo prima o poi di risvegliarci. Non stiamo camminando su una Una te. Poi sono arrivati i nuovi media, i social network e molte costrada dalla quale prima o poi uscire. Tutte le strade hanno degli svinse sono cambiate. In modo irreversibile. Perfino la struttucoli, tutte le autostrade hanno delle uscite. Questa no. Non abbiamutazione ra cerebrale delle nuove generazioni, quelli che Marc mo imboccato una strada. Ci siamo gettati da un aereo con il genetica influenza Prensky dieci anni fa chiamava i «nativi digitali», si è riaparacadute. E chi ha mai provato questa esperienza sa tutte le forme della narrazione. dattata al cambiamento, dando vita a ciò che molti che, dal momento in cui i piedi si staccano dal preChe ci piaccia o no, è una strada non hanno paura di definire un nuovo anello dellino, è inutile guardarsi indietro. Perché innello sviluppo del genere umano. Oggi i dietro non si torna. E, soprattutto, come senza ritorno. E i nativi digitali, ormai unico scrive Nick Bilton, nell’ultimo capitolo del nuovi umani sono in grado di comunicare bacino di utenza significativo, esigono suo nuovo libro, Io vivo nel futuro, non ci sarà dacon più soggetti contemporaneamente, assorbire risposte sintetiche, competenti ta possibilità di scelta perché «… dovremo tutti passainformazioni da più fonti contemporaneamente, gestire per la stessa, involontaria mutazione…». Nick Bilton lare più azioni e pensieri contemporaneamente. Insomma, e veloci. Ma l’Italia vora per il New York Times, di cui è anche design integration fra qualche tempo, chi esclamerà Aspetta, non dirmi troppe coè in ritardo... editor. Naturalmente ha un suo blog che trovate cercando su Google se insieme che mi confondo sarà preso per matto. E, quel che più conta, non siamo dentro un sogno - qualcuno parla addirittura di incubo - dal Bits Blog e insegna alla New York University.

U

Parola chiave Drammaturgia di Franco Ricordi Joss Stone ruggiti & sospiri di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Prima e dopo Charles Baudelaire di Francesco Napoli

Dodici libri per l’estate di Pier Mario Fasanotti Post-impressionisti ma imprevedibili di Marco Vallora

MOBYDICK VA IN VACANZA Anche quest’anno in agosto Mobydick non uscirà, ma a partire da martedì prossimo 2 agosto troverete su liberal un inserto quotidiano di quattro pagine con una proposta di lettura. Ritratti, pagine di storia, racconti inediti, resoconti di viaggi, fenomeni cinematografici, riflessioni filosofiche saranno gli argomenti che di giorno in giorno vi proporremo. L’appuntamento con Mobydick è per sabato 10 settembre. Buone vacanze a tutti!


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Per scrivere il suo nuovo libro, edito in Italia da Codice Edizioni, si è limitato a registrare la sua esperienza di giornalista e uomo di comunicazione e a fotografare il mondo che gli gira attorno. Il risultato viaggia su due binari paralleli. Per molti il libro di Bilton rappresenta una sintesi ben costruita di un dato di fatto. Per altri, soprattutto per i sedicenti esperti italiani di comunicazione che passano le loro giornate a ipnotizzarsi reciprocamente in convegni fiume, un masso gettato in uno stagno. «I consumatori tradizionali non torneranno - scrive Bilton - la pubblicità sui giornali non tornerà. I media, i brand, le forme di narrazione consolidata non torneranno. E, alla fine, quasi tutti compiranno questa transizione». Quasi tutti, appunto. Ma non gran parte degli operatori italiani del mondo della comunicazione, della narrazione per immagini, dei format televisivi. Che grazie a un atteggiamento passivo, legato a un concetto didascalico e funzionale (alla politica, alle lobbies, alla propaganda, fate voi) della creatività, stanno perdendo forse l’ultimo treno per il futuro. I nostri film riescono a vincere solo premi costruiti in Italia (vedi i David di Donatello), vengono scartati alla selezione per gli Oscar e per i maggiori premi internazionali ma, in compenso, fanno incetta di Nastri d’Argento. Un po’come in quel film in cui Totò lasciava a digiuno il cavallo «ma di acqua quanta ne vuole». Ma i nostri eroi sono ostinati, un po’ come i professori universitari che si presentano oggi, nel 2011, ai panel sulla comunicazione per le scuole, con l’intento di spiegare ai «nativi digitali» che esistono i nativi digitali e che si tratta di una grande novità nonostante qualche studente di prima gli faccia subito notare che la teoria di Prensky è del 2000 e che sono passati oltre dieci anni. Appunto, dieci anni, una vera novità, è la risposta convinta dei prof di casa nostra. Alle volte l’ostinazione sfocia nel delirio d’onnipotenza. Quell’atteggiamento che spinge chi ha sbagliato strada a convincersi che non ha bisogno del segnale di inversione di marcia perché prima o poi quel sentiero porterà dove vuole lui comunque. «So che parte di voi spera che questi cambiamenti si fermino - scrive ancora Bilton nel suo libro - o almeno raggiungano una certa stabilità. Ma non accadrà. Non stiamo parlando di un tratto di strada dissestata. Questa è una società che sta cambiando sotto i vostri stessi occhi». Un cambiamento che riguarda tutti gli assetti: posizione geografica, fiducia, spazio, tempo e connessioni.

Un nuovo mondo insomma. Che non dobbiamo andare a cercare prendendo un aereo o un treno. Perché in questo mondo, che ci piaccia o meno, ci stiamo ormai dentro fino al collo e dobbiamo convincerci che bisogna giocare secondo le sue regole. Un mondo in cui i ruoli non sono più quelli tradizionali. O meglio, i ruoli tradizionali possono essere trasformati e riposizionati sulla base di diverse regole. A partire dai parametri della comunicazione. Nel mondo dei media tradizionali ogni notizia ha una fonte, l’utente è il fruitore passivo del lavoro del giornalista che è deus ex machina della situazione. Decide lui quale notizia diffondere, quando, in che modo. Nella società del flusso circolare dei media le cose stanno in modo diverso. Il deus ex machina è la notizia e tutti i soggetti fanno a gara a chi per primo sarà in grado di metabolizzarla e trasformarla in un prodotto fruibile sulle diverse piattaforme a disposianno IV - numero 29 - pagina II

l’ultimo treno per il

futuro

zione. Competenza, velocità, capacità di sintesi. Un gioco al massacro nel quale gli immigrati digitali non hanno scampo ma in cui i nativi digitali non solo non si trovano a disagio ma si sentono a casa. Perché la loro struttura cerebrale è fatta apposta per il multitasking, per l’apprendimento non più in sequenza ma, e ci torneremo quando parleremo di narrazione pura, a insiemi. «Un breve video di una rivolta a Chicago - scrive Bilton ripreso con un cellulare e caricato su YouTube da un passante compare accanto al servizio di una rete televisiva multimilionaria come la Cnn. Un tweet mandato da uno studente in Iran può raggiungere lo stesso numero di persone di un messaggio che parta dal New York Times». Niente più bugie, niente più sotterfugi, niente più tentativi di manipolazione della notizia. Niente più gerarchie, niente più regole verticali. Se cambiano i punti di riferimento, cambiano i valori dei gesti. Non è più la notizia ad avere un prezzo ma la velocità con la quale questa notizia entra nel circolo mediatico. Il nuovo umano è un’isola multimediale. Una spugna che è in grado di assorbire sollecitazioni da ogni suo poro. Una stella attorno alla quale ruotano vorticosamente decine di pianeti, decine di piattaforme, ognuna con il suo linguaggio specifico che però ha con gli altri il dna comune che permette di produrre convergenza digitale. Un altro universo insomma. Forse un universo che qualcuno non è nemmeno in grado di comprendere e per questo non è possibile, né forse giusto, fargliene una colpa.

Ma comprendere l’incapacità di capire non significa comprendere l’ostinazione a non volersi togliere di mezzo dalla corrente di un fiume che sta sfrecciando verso la cascata. La forma cartacea di comunicazione così come noi la conosciamo fra un po’non avrà più motivo d’esistere, la forma audiovisiva di narrazione, così come noi la proviamo, non avrà presto più pubblico. La narrazione, perché tutto è narrazione, sta cambiando e in questo momento c’è solo una cosa da fare. Convincersi di essere inadeguati. Perché solo così si può andare incontro al cambiamento con la voglia di apprendere e di cambiare. I consumatori, è convinto Bilton, stanno cercando forme di narrazione nuove, che non abbiamo ancora offerto loro. Ma quali? Ebbene i nuovi parametri della società della comunicazione nell’era della convergenza digitale hanno prodotto due cambiamenti essenziali. Uno principale e l’altro indotto. Quello indotto è il riassetto del sistema cerebrale dell’utente che si è rapidamente riadattato ai nuovi parametri. Un po’come il callo che si forma in un punto dove sempre più spesso batte il colpo. Quello principale a cui tutti dovremmo fare molta più attenzione di quanto non accada, è la mutazione dei linguaggi della comunicazione. Una mutazione genetica che sta influenzando tutte le forme della narrazione. Gli immigrati digitali sono in via di lenta ma naturale estinzione. A sostituirli progressivamente i nuovi umani, quelli che si muovono come stazioni orbitanti della comunicazione, che decidono se e quando ricevere input, che nel tempo di sfogliare la pagina di un quotidiano hanno già letto l’homepage di tre agenzie dal loro palmare, che alla terza pagina di descrizione del cielo prendono il libro e lo frullano dalla finestra, che di fronte a inquadrature più lunghe di tre secondi (il tempo dei videoclip) cambiano canale. Mostri? Angeli? Non è dato saperlo e non è nemmeno così importante. Quel che è certo è che sono loro gli individui alfa della nuova comunità umana, quelli che leggeranno, ascolteranno, guarderanno nei prossimi anni. Individui abituati a fare sintesi delle emozioni. Per questo e per loro, come conclude Bilton «è tempo di riorganizzarsi, ripensare e tornare all’impresa della narrazione».


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parola chiave

30 luglio 2011 • pagina 13

DRAMMATURGIA a drammaturgia, o poesia drammatica, è da sempre considerata nella storia della riflessione estetica come il termine più alto e discriminante dell’esperienza artistica. Da Aristotele ai nostri tempi il dramma è considerato «la fase suprema dell’arte», anche se, per il suo rimando alla rappresentazione in pubblico quindi al teatro, è stata spesso osteggiata: ha iniziato Platone (che peraltro molti considerano un sublime «drammaturgo», con Socrate come epocale dramatis persona protagonista dei suoi dialoghi), quando ha scacciato gli artisti drammatici, sia nella Repubblica che nelle Leggi. Ma ecco che subito dopo lui il genio di Aristotele ha riscattato l’essenza del dramma, intravedendo ciò che di fatto ha caratterizzato per due millenni la drammaturgia occidentale: essa è «più filosofica e più elevata della storia», proprio perché tende all’universale e non al particolare, come appunto la storia. Pertanto il dramma rappresenta qualcosa che non è necessariamente accaduto, ma che «potrebbe accadere», come la vicenda di Edipo.

L

È qui che Aristotele sorvola davvero più di due millenni, pervenendo ai nostri giorni con una grandezza e lucidità che raramente si può dare nell’umanità: egli supera Brecht, e nella sua definizione di dramma è implicito il grande rimando politico del teatro occidentale: proprio perché, essendo più elevato e filosofico della storia, non sta «né da una parte né dall’altra»; ma questo non significa che la drammaturgia non sia «politica», al contrario essa ha fondato, proprio con la prima e unica grande trilogia che ci perviene, l’Orestea di Eschilo, la stessa democrazia occidentale. Il vero teatro politico non parteggia, non sta per gli uni o per gli altri, come Shakespeare non tiene per Cesare e Antonio ovvero per Bruto e Cassio; la grande drammaturgia politica è quella che risulta in grado di ritrarre le ragioni del dramma nella politica di ogni tempo, anche quando in tali vicende possa subentrare, tanto per fare un esempio, una storia d’amore che magari rischi di condizionare l’andamento e l’intreccio della più grande vicenda di una società. È proprio quello che sfugge a Brecht e, in maniera diversa, a tutto il teatro politico del XX secolo che, influenzato dalle prescrizione marxiste di Benjamin, Lukacs e dello stesso Brecht, rischia di fare del teatro politico non tanto la realizzazione del dramma, quanto un comizio di parte travestito da dramma. Ma la drammaturgia l’ha sempre spuntata sulle prescrizioni o proscrizioni di ogni epoca, che siano state cattoliche (da Agostino a tutta la patristica il dramma viene fermamente condannato), ovvero illuministe o scientiste. L’estetica moderna, da Schiller a Hegel, da Schelling a Nietzsche fino all’ermeneutica di Gadamer, ha sempre intravisto nel dramma quella fase suprema dell’arte in cui la letteratura coniuga il soggettivo della lirica

La sua crisi in epoca contemporanea rappresenta uno dei segnali di maggiore involuzione estetica e della nostra stessa situazione esistenziale. Ma il dramma è più filosofico e più elevato della storia...

Alle soglie dell’universale di Franco Ricordi

Condividendo la loro protesta, vorremmo suggerire ai giovani occupanti del Teatro Valle di rileggere senza partito preso il “Calderon” di Pasolini. Per evitare di confondere le buone ragioni con il «balletto brechtiano del marxista amaro» a suo tempo denunciato dal poeta con l’oggettivo dell’epica, pervenendo così all’Assoluto della rappresentazione; ovvero al più autentico scontro e insieme incontro della libertà con la necessità: e in questo senso il mito dell’Antigone sofoclea è stato assunto più volte a esempio insormontabile, stante lo scontro fra la libertà evocata da Antigone e la necessità del divieto da parte di Creonte. Pertanto anche nel cinema della nostra epoca ciò che conta non è il fattore ideologico ma quello estetico, e un film risulta tanto più bello e significativo quando riesce a rappresentare al suo meglio le ragioni di tutte le parti in

campo, la quintessenza del dramma che supera le nostre vite, e riesce anzi a ritrarci in quel grande mondo-teatro nel quale, dalla nascita alla morte, da sempre viviamo. Proprio per i motivi suddetti bisognerà riconoscere come la crisi della drammaturgia contemporanea, o del XX secolo, rappresenti uno dei segnali di più grande involuzione della stessa storia estetica e, in generale, della nostra situazione esistenziale. Il dramma, sembrerebbe, non esiste più: alle sue opere più sublimi è subentrata la fiction, nemmeno più il bel film, ma il prodotto televisivo seriale, ovvero la stessa telecronaca diretta dei fatti.

Ma questo è ciò che contraddice l’antica definizione di Aristotele, proprio perché il dramma non è realtà, ma una poesia «più elevata della storia»; e in esso la fantasia è più poetica (più vera) della realtà. Tuttavia proprio in questi ultimi tempi, a ridosso dell’occupazione del teatro Valle di Roma, il problema della drammaturgia è tornato giustamente alla luce: molti, diremo quasi tutti, hanno evocato la nascita di un nuovo Centro di Drammaturgia italiano, che potesse in tal caso ubicarsi proprio al Teatro Valle ovvero al Teatro India, altro spazio gestito dallo Stabile capitolino. E certo sarebbe una opportunità assai importante, anche a ridosso della chiusura dell’Eti (Ente Teatrale Italiano) e soprattutto dell’Idi, l’Istituto del Dramma italiano. In tal senso condividiamo pienamente la protesta degli occupanti del Valle, e la loro richiesta di un centro di drammaturgia (insieme a un codice etico più volte evocato che possa riconoscere diversamente il mestiere del teatro in Italia, affetto inoltre da particolare gerontocrazia).Tuttavia la protesta che ha accompagnato tale occupazione si sta svolgendo in un clima che purtroppo ricalca, seppure in maniera diversa, la suddetta presa di posizione brechtiana: essa è inevitabilmente «di sinistra», o per lo meno «di opposizione», e cavalca immancabilmente le tensioni politiche del momento, schierandosi (e forse venendo anche strumentalizzata) da parte di una sinistra che ancora oggi non può fare a meno di rivendicare la propria egemonia sul teatro e sulle arti tutte.

Proprio a questa realtà vorremmo contrapporre la drammaturgia e l’idea teatrale di un grande uomo di sinistra, Pier Paolo Pasolini, che peraltro è stato l’unico a non cadere nella trappola del «teatro politico di chi la pensa come me», denunciando in maniera sferzante quello che lui definiva il «balletto brechtiano del marxista amaro». Vorremmo proprio suggerire ai giovani occupanti del Teatro Valle di rileggere attentamente, senza partito preso, proprio l’opera teatrale del grande Pasolini, in particolare il testo intitolato Calderon, forse la più importante interpretazione dei fatti del ’68 su scala mondiale. È questo, probabilmente, il più grande e autentico viatico per poter comprendere la crisi della drammaturgia post-bellica, e in tal modo progettare quello che, giustamente, essi (ma non soltanto loro, beninteso) hanno richiesto: la nascita di un nuovo e importante Centro di Drammaturgia nazionale. Un teatro senza nuova drammaturgia, diceva Silvio d’Amico, è un teatro morto. E un Paese senza nuovo teatro, diceva Garcia Lorca, è un Paese che sta morendo. Pertanto l’impegno per una Nuova Drammaturgia, oltre che un dovere estetico, è divenuto oggi un impegno etico: anzi, un imperativo etico che siamo tenuti ad assolvere «al di sopra delle parti», né per la destra né per la sinistra, ma elevandoci nuovamente, come l’essenza del dramma, «al di sopra della storia».


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Pop

pagina 14 • 30 luglio 2011

a quando Amy Winehouse s’è bevuta la vita, Joss Stone non ha più rivali. La leadership, adesso, è nella sua voce: inglese, come quella di Amy. E soul, con digressioni ben calcolate nel rock e nel funky. Smokey Robinson, dopo averla ascoltata, l’ha definita «Aretha Joplin». E lei, la ventiquattrenne Jocelyn Eve Stoker nata a Dover, che da ragazzina intonò spavalda On The Radio di Donna Summer nel programma televisivo Star for a Night facendo crollare dagli applausi lo studio della Bbc, ha ricambiato la stima del soulman americano con undici milioni di dischi venduti, più un Grammy Award e due Brit Awards vinti. Debutta nel 2003, la Stone dall’ugola d’acciaio, con l’album di covers rhythm & blues intitolato The Soul Sessions. E mentre Lenny Kravitz, Paul Weller e Mick Hucknall annunciano in coro che è nata una stella, Mick Jagger la invita a duettare con lui nella colonna sonora del remake del film Alfie. Nel 2004, la vulcanica Joss ribadisce la propria forza con Mind, Body & Soul e la rivista Interview la definisce «cantante dalla voce coraggiosa, che punge come un whisky invecchiato per poi sciogliersi dolcemente come melassa». Seguono, nel 2007 e nel 2009, Introducing Joss Stone e Colour Me Free! che scandiiscono la bontà d’una black music forte e passionale, omaggio ai miti da lei più amati: Aretha Franklin, Otis Redding e James Brown su tutti. Con il nuovo album intitolato LP 1 ripensando ai mitici dischi in vinile, inciso a Nashville, scritto e prodotto col chitarrista Dave Stewart (l’ex Eurythmics che di voci femminili se ne intende: leggi Annie Lennox), Joss Stone inaugura la Stone’d Records, etichetta di sua proprietà. Fra i

ruggiti e sospiri

due, un cinguettio di lodi: «Non mi sono mai divertita così tanto a registrare un disco», ha dichiarato lei, «complice Dave, che mi ha garantito le giuste dosi di spontaneità e creatività». E lui, di rimando: «Joss riesce ogni volta a trasmettere emozioni sincere, passando nel giro d’una sola strofa dalla ferocia di una leonessa al più impercettibile dei sospiri». In effetti, la sua voce s’incolla ora folkie, ora bluesy, a una ballata come New Born che si fa via via più trascinante. Poi si mette sulle tracce di Karma, funky furbissimo con le tastiere che ricalcano Superstition di Stevie Wonder. E ancora, godetevela nel caracollante rhythm & blues di Don’t Start Lying To Me che all’improvviso derapa nel rock inseguendo un pianoforte dall’umore honky tonk; nel cuore e nei muscoli di Last One To Know, fior di ballad asprigna; nella soul music di Drive All Night giocata di fioretto, in punta di piedi; in Cry Myself To Sleep, gioiellino acustico che poi lievita e si elettrifica; nel godibile, orecchiabilissimo rhythm & blues di Somehow; e infine nuda e cristallina, coccolata dalla chitarra acustica, nel gospel di Landlord e in Take Good Care, a un soffio dal country. Perfino nel pop melodico di Boat Yard, unico neo del disco, Joss riesce a delineare atmosfere che Duffy o Adele (inglesi e «nere» quanto lei) sbrigherebbero in fretta e furia, senza infamia né lode. E il prossimo traguardo? La soulgirl lo coglierà con una band nuova di zecca, i SuperHeavy, accanto a Mick Jagger, Dave Stewart, al vocalist giamaicano Damian Marley (figlio di Bob) e al compositore indiano A.R. Rahman, conosciuto in patria come «il Mozart di Madras». Miracle Worker, trascinante e ragamuffin, è il primo singolo. L’album uscirà fra poche settimane.Ve lo racconterò.

di Stefano Bianchi

Joss Stone, LP 1, Stone’d Records/Frontiers/Edel, 18,99 euro

D

Jazz

trascorso quasi mezzo secolo da quando alcuni musicisti italiani iniziarono a interessarsi a una musica, esclusivamente nera, il cui «nome» era apparso per la prima volta nel titolo di un brano inserito nel disco Change the Century che il Quartetto di Ornette Coleman aveva inciso il 9 ottobre 1959. Quel brano dal titolo Free, non comparve più fino al 21 dicembre dell’anno successivo, quando venne pubblicato un altro disco sulla cui copertina appariva per la prima volta la parola jazz unita a free. Free Jazz era il titolo, non solo dell’album, impreziosito dalla riproduzione del quadro White Light di Jackson Pollock, ma anche del lungo brano che copriva le due facciate dell’intero long playing eseguito da un doppio quartetto con due trombe, due ance, due contrabbassi e due batterie. Quel disco diventò immediatamente il manifesto di una nuova rivoluzione che mise in crisi il concetto di «stile», ma non solo. Coleman e i suoi musicisti intendevano superare virtualmente tutto ciò che era stato fino allora il jazz, oltre a indagare sui fondamenti socioculturali del mondo nero. Se negli Stati Uniti, il jazz alla fine

È

musica

Joss Stone

Collettivi democratici e malintesi sul “Free” di Adriano Mazzoletti degli anni Cinquanta sembrava non aver ancor assunto connotazioni politiche, alcuni musicisti avevano però preso coscienza dell’annoso e grave problema dei diritti civili e contribuirono alla lotta dei neri per la conquista della parità. I più sensibili furono Max Roach, Abbey Lincoln, Sonny Rollins e Charles Mingus che crearono composizioni dedicate al movimento. Fra le molte, Freedom Day, Freedom Suite, Original Fables of Faubus che Mingus aveva indirizzato a Orval Eugene Faubus governatore razzista dell’Arkansas. Già nel 1955 era venuto maturando un movimento per l’egua-

glianza, promosso dalle comunità di colore. Le battaglie per il riconoscimento dei diritti civili si dividevano in due filoni. Il primo, pacifista, auspicava la prointegrazione gressiva delle masse di colore nella società bianca; il secondo, più intransigente, chiedeva la formazione di un potere contrapposto a quello dei bianchi. Agli inizi degli anni Sessanta però la guerra del Vietman, iniziata nel 1955, cambiò il modo di guardare l’America. In Italia dal punto di vista musicale, le prime tracce della ribellione apparvero nel 1966, quando Franco Migliacci e Mauro Lusini scrissero C’era un ragazzo che

zapping

L’ANNUS HORRIBILIS dell’industria live di Bruno Giurato

iamo al pianto e alla miseria. In un’intervista rilasciata a Topspin il Ceo di Ticketmaster, Nathan Hubbard, ha definito il 2010 l’anno in cui l’industria del live e del ticketing ha fatto registrare il suo peggior decremento. «In 35 anni in Ticketmaster, ma credo da qualsiasi altra parte, non è mai andata così male. Occorre fermarsi un attimo e chiedersi: “Perché? Cosa sta cercando di dirci il fan riguardo a ciò che non funziona in questo business?”». Magari il fan starà cercando di dirci che i biglietti dei concerti costano carriolate di soldi? Capita che due amici vengano a trovarti nella città del magùn e della Madunìna, in trasferta per The Wall di Roger Waters, e vieni a sapere che hanno pagato 200 euro a biglietto. Così al Ceo preoccupato verrebbe da fare una domanda: ma il rock una volta non era la musica dei giovani e squattrinati? Non diciamo a prezzi politici, ma almeno accessibili sì. Ma poi decidi di lasciar perdere l’argomento, che sta diventando più inflazionato della morte di Amy Winehouse e delle discussioni politico-culturali sul massacratore norvegese. Decidi per una passeggiata a Corso Torino e i Navigli, pista della movida meneghina. Ti infili nel primo bar con live band (rock) e paghi dieci euro una vodka, mentre la musica procede noiosa in stile Coldplay accoppiati con gli U2. Locale vuoto. Finisce che raggiungi il primo naviglio e trovi un rapper ignoto. Una birra costa tre euro, le strofe vanno e si capiscono, la base è ben prodotta. Il pubblico c’è, e canta pure. Assisti a uno spettacolo musicale vivo. Ti verrebbe voglia d portarci il Ceo di Ticketmaster, cospargerlo di miele e farlo pungere a morte dalle zanzare, che da queste parti sono grosse come pipistrelli, il vampiro.

S

come me amava i Beatles e i Rolling Stones, cantata da Gianni Morandi. Altre canzoni cosiddette «di protesta», vennero composte e cantate da Lucio Battisti, Fabrizio De André, Francesco Guccini e i Nomadi. Contrariamente alla canzone, il jazz italiano negli anni precedenti il ’68, non aveva ancora assunto quelle caratteristiche politiche che lo avrebbero contraddistinto poco dopo, quando alcuni musicisti «scoprirono» i lavori di Ornette Coleman e degli altri adepti del free. Cercarono di imitarli, senza capirne le profonde motivazioni, e ne fecero una sorta di «rivoluzione» socio-politica di stile italiano, sostenuta dalla stampa di estrema sinistra ed extraparlamentare. Successivamente l’atteggiamento di forte reazione di questi musicisti causò non pochi problemi alla diffusione del jazz presso vasti strati di pubblico. Tutto ciò fortunatamente è da tempo scomparso. Grande perciò, è stata la mia sorpresa quando, sere fa, durante uno dei tanti festival del jazz, un gruppo si è presentato con queste parole «siamo un collettivo democratico». Peccato che la loro musica sembrava alquanto ammuffita.


arti Mostre

MobyDICK

crivo, consapevolmente, in ritardo dell’affascinante mostra al Mart di Rovereto, dedicata alla Rivoluzione dello sguardo del periodo dopo-impressionista, per i soliti scrupoli di correttezza professionale. Dal momento che avevo scitto un saggio in catalogo, troppo corposo, per essere contenuto nel già corpulento volume Skira, e che avrebbe dovuto diventare un volumetto a sé, ho preferito non consigliare una mostra, in cui ero in qualche modo coinvolto. Ma oggi mi pare interessante avanzare qualche riflessione non tanto sulla sostanza in sé della mostra, ma sulle problematiche connesse, che, credo, una rassegna pensata come questa possa utilmente suscitare. Tra l’altro, in un momento assai delicato per il Mart, che vede sciogliersi, ahimé, l’ottimo e proficuo rapporto con la sua vitalissima direttrice, Gabriella Belli, che abbandona dopo tanti trionfi Rovereto, per raggiungere i Musei di Venezia, e sostituire il valente direttore in congedo Giandomenico Romanelli. Ottime prospettive anche per Venezia, non c’è dubbio, ma sarà un trauma comunque, per il Mart, che ha vantato in queste ultime stagioni alcune mostre di assoluto rilievo, forse tra le più garantite e originali del nostro controverso Paese. Speriamo così non si tronchi il vantaggioso rapporto con l’intelligente e poco accademico direttore del Museo d’Orsay parigino, Guy Cogeval, che non soltanto ha permesso in questi anni a Rovereto d’accogliere alcuni pezzi davvero altissimi e inamovibili, ma che ha collaborato anche, con i suoi saggi e le sue curatele, a rivoluzionare e svecchiare la visione un po’ lisa e prevedibile che le rassegne sull’Impressionismo trascinano sempre con sé. È pur vero che anche Marco Goldin, a Rimini, aveva recentemente recepito questa problematica, mostrando gli

S

Architettura

30 luglio 2011 • pagina 15

Post-impressionisti ma imprevedibili di Marco Vallora artisti dei Salons, «rinnegati» dalla critica modenista, mescolati provocatoriamente insieme ai maestri della modernità, che in quegli stessi Salons non erano riusciti a penetrare. Dimostrando quando la distanza storica annulli certi contrasti partigiani e permetta di riscrivere una storia, non-manualistica, meno tendenziosa e impostata a criteri agonistici, fatta di primati e rifiuti. Al Mart, se il nostro occhio non è troppo condizionato e pericolosamente difforme, si è sottoposti quasi a un ribaltamento di prospettive e a un effetto di «straniamento» culturale, che è abbastanza

curioso (lo si può anche osservare, stando alle spalle dei visitatori). Di fronte a opere impressioniste, così conosciute, e sfruttate, e ahimé ormai quasi stampate nei nostri occhi, con effetto affiches-cartolina, che ha quasi del saturo, del risaputo - per dire: la monettiana fanciulla con ombrellino, la renoiriana signora con le carni opime, lo scorcio di Senna cui tutti gli adepti si sono sottomessi o il pezzetto di Moulin Rouge cui nessuno si è potuto sottrarre - sì, certo, si guarda, s’ammira, si ammicca soddisfatti ai compagni che t’accompagnano, ma c’è pure come una istintiva reazione se non di sa-

turazione, certo di riconoscimento quasi meccanico, benjaminiano. E del resto, che reazione mai «fresca» e innocente si può avere di fronte all’inflazionatissima Stanza di Van Gogh ad Arles? Scatta uno sguardo come preparato e risaputo, se non désabusé, e, credo, non soltanto da parte di chi ha veduto troppe icone sfruttate e ha frequentato troppi musei, prospettiva che sarebbe troppo snob e sbilanciata, ma anche da parte del pubblico meno scafato e sofisticato. Mentre sono, e non più paradossalmente, proprio le opere un tempo rifiutate e sdegnate dalla critica alta, ovviamente qui ben scelte e sorprendenti, di Gervex, di Raffaelli (nella immagine la sua Famille de Jean-le-Boiteux, paysans de Plouga, ndr), di Tissot (poteva esser una scelta migliore) a colpire lo sguardo e ad attirare l’attenzione, anestetizzata, da troppo berlitz-impressionista. Forse proprio perché «bucano» quella coltre ormai nebbiosa e impostata (si veda l’effetto velario della carrozzina di Berthe Morisot, che pure è un bellissimo quadro) di esperanto franco-galante/impressionistico, che ha colmato le nostre pupille e che ci rende un poco storditi. Ma la sorpresa più impressionante si ha di fronte all’ostensione di un quadro, non a caso, così tabu e proibito, come l’Origine del Mondo di Courbet. C’è da parte del pubblico come una sorta di impressionante silenzio dello sguardo, di terribile spartiacque mentale. Mentre di fronte alle altre tele si disegna ogni volta e s’addensa come un ronzante grappolo di sguardi e commenti, qui c’è come il terrore bruciante di avvincinarsi e perdersi nella «ferita» lacaniana. Una bianca cesura di folla che colpisce. Uno scostarsi allarmato delle tendine dello sguardo. Nonostante c’è chi trovi il coraggio di avvincinarsi alla carne della pittura viva e di affrontare questa esperienza fortissima. In realtà non si tratta altro che d’un soffice, vaporoso sbuffo di pittura, capace però di gettarci in faccia al mistero assoluto e irresolubile del nostro esserci.

Campos Venuti, storia di un urbanista militante e tre parole chiave «antifascismo», «restistendi Simona Pareschi za» e «Costituzione», sono i principi fondamentali che Giuseppe Campos Venuti ha ereditato dalla dichiarazione di guerra del 1940, alla politica per dagli insegnamenti di Giuseppe Dozza - primo la casa degli anni Sessanta, fino alla dissoluzione delle cittadino della «Dotta» dal 1945 al 1966 - e che hanno aspettative sociali, che negli ultimi decenni non hanno tracciato il suo lungo percorso di urbanista. A Bologna, trovato lo spazio dovuto nella disciplina urbanistica. E alla presentazione del suo ultimo libro (Un bolognese racconta degli incontri, durante la sua militanza politicon accento trasteverino. Autobiografia di un urbani- ca, con Giorgio Napolitano e Giovanni Berlinguer; del sta, Edizioni Pendragon, 12,00 euro), questo grande ro- legame tra politica e architettura che nel dopoguerra mano, bolognese di adozione, ha sottolineato così ciò sottolineava la distanza tra gli studenti, schierati con il che «l’innovazione non può cambiare»: i presupposti movimento moderno, e i docenti conservatori. Si irofondamentali su cui è cresciuta l’Italia del dopoguerra. nizza sulle lezioni di Mario Ridolfi, che non voleva a In questa sintesi, che pare più un programma politico, studio i giovani studenti politicizzati, perché avevano è concentrato il reale impegno di Campos Venuti nel «troppa cultura e poca pratica», e si ricorda il lavoro a far coesistere la migliore intenzione politica con una fianco dei maestri dell’urbanistica e dell’architettura concreta attuazione urbanistica: l’esempio migliore di italiana: Arnaldo Foschini, Marcello Piacentini, Luigi questa coincidenza è ben attuata nella rinascita del Piccinato e Giuseppe Samonà con l’Inu. Campos Venuti ha lavorato sempre concentro storico di Bologna. tro la sregolata speculaÈ da una appassionata zione sulla rendita urbaformazione politica, pana - dominio di pochi - e a rallela a quella architettofavore delle classi meno nica - e solo in seguito urabbienti. In linea con la banistica - che si può compolitica di centrosinistra, prendere l’irriducibile l’idea di Campos Venuti di aspirazione sociale di una «urbanistica riformiCampos Venuti. L’autobiosta», aveva il compito di grafia racconta, attravermediare tra l’amministraso la lunga esperienza cozione pubblica e gli inteme urbanista, dei successi ressi dei privati, e prevee delle illusioni dell’Italia: Una veduta del centro storico di Bologna

L

deva una pianificazione che regolasse in modo equilibrato il mercato, mettendo al primo posto i cittadini. Era un riformismo che preferiva un «buon compromesso» a una «irrealizzabile perfezione», la ricerca del miglior equilibrio tra quantità edilizia e qualità della vita, privata e pubblica. Il ruolo utopico dell’urbanista, poi reso tecnico dalla prassi, è carico di enormi responsabilità sociali, e legittimato da una visione collettiva; così la programmazione territoriale implica un’attitudine eclettica che deve mettere insieme pratica progettuale, prospettiva economica, amministrazione locale, visione ideale e previsione approssimata per il futuro imminente. A differenza dell’architettura, che si conosce solo attraverso l’esperienza diretta della sua dimensione fisica, l’urbanistica, la cui sostanza è il Piano, rimane materia astratta, spesso fragile nel momento della sua applicazione. In certa misura, l’urbanista avrebbe il compito di preservare la collettività dalla ipertrofica vocazione degli architetti: nella migliore delle ipotesi, artistico-architettonica, nella peggiore, invece, impura e commerciale. La necessità di rispondere alle tendenze culturali di un’epoca, insegna Campos Venuti, deve integrarsi con la natura dei luoghi e con la loro storia; per questo è così importante la salvaguardia dei centri storici. Se l’architettura è un bene comune, è compito delle amministrazioni attuali tornare a considerare i centri storici - ma non solo i centri - come elementi fondamentali, capaci di arricchire e raffinare la coscienza civile. Senso civico, impegno morale e coerenza politica, valgono più dei valori fondiari.


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pagina 16 • 30 luglio 2011

il paginone

Divertirsi, cioè “fare cose diverse”. Questo lo scopo delle vacanze. Un momento, nel corso dell’anno, in cui si dovrebbe finalmente essere padroni del tempo, condizione ideale per dare spazio ai libri. Ecco i consigli di un lettore doc…

Dodici compagni di viaggio di Pier Mario Fasanotti e informazioni sono ormai alla portata di tutti. Eppure si sente ancora dire, al bar o sugli autobus: «Tra qualche giorno vado in vacanza e non so proprio che cosa leggere». Ammesso che sfuggano le recensioni che appaiono sui quotidiani e periodici, basta un’ora o due in una libreria e si ha la possibilità di scegliere, a seconda dei gusti. Nessuna annata libraria è un disastro o una catena di mediocrità. Molti europei (i nordici in testa) leggono dappertutto, soprattutto in metropolitana. Noi no. Non ci divertiamo: il verbo «divertire» significa «fare cose diverse». In Italia c’è un gruppo di persone (equivalente alla popolazione di Bologna) che legge moltissimo. Poi il deserto di curiosità verso la pagina scritta. Non tiriamo in ballo l’educazione culturale, pur importante. Il fatto è che pochi sono convinti che la lettura è un piacere. Soprattutto in vacanza, quando si padroneggia il tempo. Qui di seguito alcuni consigli tra narrativa e saggistica. Una segnaletica, arbitraria e incompleta. Ma non può essere diversamente: parafrasando Borges,l’elenco o la mappa più veritiera è infinita, ossia impossibile. Ecco una scusante per chi scrive queste note.

L

Quel bacio Sullo sfondo ci sono drammi e malinconie, ma Alcina si ricorda del lungo bacio («a momenti mi portava via il fiato») ricevuto dal suo amato prima di emigrare in Argentina. La protagonista della bellissima storia di Romana Petri decide di non guardare più al passato, alla guerra partigiana, ai morti: se l’Umbria l’avvolge velenosamente, sarà una nuova terra a far germogliare il futuro. Arriva il coraggio di cambiare: «ne va di tutta la mia vita». Sì, aveva ragione suo padre quando diceva che «la vita è un lampo». Spiega l’autrice: «Ho scritto un romanzo sul senso dell’esemplarità: è la storia di un amore esemplare durato trent’anni, inossidabile, sempre felice e che non ha mai avuto un momento di crisi». Non è vicenda a due, ma saga che si gonfia gradualmente, in un’Argentina macchiata dalla dittatura militare. Storia d’amore, ma anche specchio di un secolo strano, il Novecento. Romana Petri, Tutta la vita, Longanesi, 425 pagine, 18,60 euro anno IV - numero 29 - pagina VIII

Killer Il nuovo romanzo del cileno Ampuero è diventato un caso letterario nei Paesi di lingua spagnola, a tal punto che se ne vendono copie pirata ai semafori. In un caldo gennaio dell’Avana Fidel Castro fuma il suo sigaro, ignaro del fatto che l’uomo che lo spia da tempo, uno dei più micidiali sicari dell’America Latina, potrebbe ucciderlo. Siamo a un passo dall’«attentato perfetto», ma la Cia non ritiene opportuno che Cuba rimanga senza una guida. Allora scatena il detective Brulé: si muove tra falsi indizi, donne perfide e sensuali e tranelli disseminati in Germania, in Russia e negli Usa. Il risolutore non avrà, poi, altra scelta che quella di sparire. Ma fa un incontro agghiacciante. Roberto Ampuero, Il sicario di Fidel, Garzanti, 345 pagine, 19,60 euro

Enigma Ancora pagine stupende dall’irlandese John Banville. Adam, un uomo che ha trascorso l’esistenza a scandagliare i misteri dell’infinito, sta morendo in una stanza in penombra. Davanti a lui sfilano i familiari: il figlio «grosso e goffo come se fosse incompiuto», la bella nuora Helen, attrice di teatro, la secondogenita Petra, esempio di incomunicabilità, il fidanzato di lei, Roddy, dandy incuriosito dai pensieri del capofamiglia. Personaggi immersi nella grande banalità, ma oggetto di invidia da parte degli antichi dei di Grecia: annoiati nell’Olimpo, scendono a cercare la vita da vicino e un antidoto agli sbadigli. Banville, elegantissimo prosatore, entra nel baricentro di tutte le storie, ossia il dilemma eterno sul senso dell’esistenza. John Banville, Teoria degli infiniti, Guanda, 318 pagine, 18,00 euro

Famiglia Tutto comincia dalla gelida notte del 12 gennaio 1914, in una casa colonica dell’Emilia. La famiglia Bruni entra tutta intera in una narrazione che comprende vicende umane ma anche presagi come quello, demoniaco, della capra d’oro. In quella pianura innevata emergono figure ancorate a valori antichi, a magie, a certezze povere e saldissime. In questo modo i

sette giovani maschi Bruni affrontano la prima guerra mondiale: si va dalla rassicurante aia del casolare alle pietraie del Carso, dagli argini del Piave e del Tagliamento all’Africa e alla Russia. E poi, caduto il fascismo, il faticoso dopoguerra, col pericolo che tutto si slabbri. Valerio Massimo Manfredi, Otel Bruni, Mondadori, 358 pagine, 19,00 euro

Tutti a casa Divertente e arguto il romanzo della nicaraguense Gioconda Belli, che si rifà all’archetipo descritto da Aristofane in Lisistrata. In un immaginario paese del Centro-America, favorite da un vistoso calo di testosterone a causa di eruzioni vulcaniche, alcune donne salgono al potere, guidate dalla giornalista «impegnata» Viviana Sansòn. E gli uomini? Tutti a casa, tra detersivi e bambini. Il nuovo governo, ovviamente formato dalle ministre della «Sinistra Erotica», applica una saggia economia casalinga e ottiene risultati eccellenti. Anche se certe trovate giustizialiste ridicolizzano il già bizzarro corso della storia. La presidente sarà poi vittima di un attentato, mentre gli uomini scendono in strada a protestare contro la perdita del potere. Gioconda Belli, Nel paese delle donne, Feltrinelli, 264 pagine, 17,00 euro

Paura Indubbiamente originale la storia narrata da Marcel Beyer, tra i più affermati scrittori tedeschi. Hermann Funk assistette, da ragazzino, alla tremenda distruzione di Dresda (febbraio 1945), e vide cadere dal cielo uccelli carbonizzati. Ciò lo indusse a dedicarsi all’ornitologia, sotto la guida dell’eccentrico professor Kaltenburg. Il luminare dell’etologia lo porterà nella Germania comunista, dove conoscerà misfatti e misteri: dal «complotto dei medici» di Mosca al caso Slànsky di Praga, dalla rivolta di Budapest alla moria delle cornacchie dopo l’abbattimento del Muro di Berlino. Hermann allarga i suoi interessi fino a mettere a confronto il panico degli animali e la paura dell’uomo, sentimento che ha dominato l’interoVentesimo secolo. Marcel Beyer, Forme originarie della paura, Einaudi, 383 pagine, 22,00 euro


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Norimberga «proclamò stupidamente fedeltà demente». Ceronetti confessa una certa pietà per quel quasi centenario: «sono ostile al carcere a vita; dare la morte è meno orribile». Guido Ceronetti, Ti saluto mio secolo crudele, Einaudi, 124 pagine, 17,50 euro

Mente lucida

Psicopatologie Il periodico tedesco Bild l’ha definito «il nuovo Stephen King». Paul Cleave, neozelandese, che oggi riscuote un successo internazionale, descrive abilmente le indagini di Joe, ossessionato dall’ordine e dall’esigenza di tenere tutto sotto controllo. Entra nell’inchiesta di un serial killer, chiamato «l’intagliatore», che ha ucciso sei donne. Quando il giornale annuncia la settima vittima, Joe, poco considerato nel commissariato dove lavora, decide di dare una caccia spietata all’assassino anche perché sa, e lui solo sa, che ne ha uccise sei di donne, non sette. Anche il malvagio dà un’occhiata al giornale, ma lo fa con noia: «Perché leggere le notizie, quando sono io a crearle?». Un concatenarsi di suspense e di humor nero, nerissimo. Paul Cleave, The cleaner, Elliot, 380 pagine, 18,50 euro

Novecento Guido Ceronetti lo chiama «secolo crudele». E lo descrive alla sua maniera, manovrando i fili di certi episodi-«marionetta» (lui è esperto di teatrini). Pungente, lessicalmente sapiente, non conformista, prende qua e là materiali e li rende narrazione. I segnali in Morse, «un battito del secolo», terminano il 31 gennaio 1997 con la chiusura della stazione che collegava Europa e America. Ultimo messaggio, di «ebbrezza dionisiaca»: «Chiamiamo tutti. Questo è il nostro ultimo grido prima dell’eterno silenzio». Lo scrittore-saggista fece il marconista, sapeva battere S.O.S. (save our souls). Oggi l’appello è diventato mayday, storpiatura angloamericana del francese m’aider. Marilyn Monroe fu punita «per aver segnato l’epoca con la sua nociva bellezza, o cara agli Dei per non aver conosciuto vecchiaia?». Volle ricattare il potere (i Kennedy e la mafia), «piccola povera scema». Cercarono il suo quadernino rosso, niente da fare. Forse non scrisse mai nulla. Rudolf Hess, delfino di Hitler «monarca paranoico», diventò «ergastolano in aeternum»: lo liberò il suicidio con cavo elettrico. Aveva cessato di esistere quando atterrò in Inghilterra, con in testa un disegno strano. E si ruppe la caviglia. A

L’India, per come si muove velocemente la sua economia, pone ormai in risalto la lentezza industriale dell’Europa. Se per alcune costruzioni occorrono, in Inghilterra, più di dieci anni di lavoro, nell’ex colonia britannica il risultato è raggiunto in soli sei mesi. L’India sta superando il Giappone e, secondo alcuni studi, si troverà davanti agli Usa entro il 2050. L’impatto sociale è spaventoso. William Dalrymple, già storico a Cambridge, si è trasferito a Nuova Delhi. Può essere considerato il Tiziano Terzani scozzese perché racconta storie di persone che hanno imboccato una via del tutto diversa rispetto a quella imposta dall’ipercinetismo economico. È sufficiente uscire da Gargaun sull’autostrada per Jaipur per trovarsi in un periodo pre-moderno, dove domina la lentezza. L’autore incontra un uomo cosparso di cenere. Parlandogli si accorge che non è un qualsiasi contadino. Quattro anni prima era direttore commerciale della Kelvinator (elettrodomestici) di Bombay. «Un giorno decisi che non potevo passare il resto dei miei giorni a piazzare ventilatori e frigoriferi. Donai tutto ai poveri e mi avviai verso un monastero. Quando si cammina in montagna la mente diventa lucida. Non possiedo nulla, dunque non ho preoccupazioni». Ed ecco le vicende di altri otto persone con un destino in controtendenza. C’è il monaco buddista che imbraccia il fucile per difendere il Tibet, c’è una guardia carceraria che diventa danzatore per due mesi l’anno, c’è la monaca Jaina che sta accanto all’amica in fin di vita. William Dalrymple, Nove vite, Adelphi, 354 pagine, 24,00 euro

Coppie instabili Una provocazione, in apparenza. Ma al suo interno si possono trovare verità scomode. Anche perché il tema, delicatissimo, è l’amore coniugale. La tesi del filosofo e polemista

Bellezza È facile raccontare la storia di una bellissima donna, nobile, ricca, sposata, nipote di pontefici, apparentemente dissoluta, uccisa dal marito esasperato dai suoi infiniti tradimenti. Ma una storia del genere non può essere presentata come vera senza consultare le indispensabili fonti primarie (carteggi e documenti d’archivio). Elisabetta Mori, con un lavoro certosino, ha reso una storia reale più affascinante di ogni possibile storia falsa. La vita di Isabella de’ Medici, ricomposta «facendo combaciare» i mille e mille pezzi dei racconti dei contemporanei, pare quasi inventata. Intorno a questa donna un’epoca storica in cui i legami politici, economici e di sangue dei Medici erano uniti a quelli di tutti i regnanti italiani ed europei; un secolo, il Cinquecento, in cui lotte religiose, dinastiche, congiure e duelli coinvolgevano ogni aspetto della vita. In mezzo una donna cui il marito un giorno scrisse: «Io ti adoro Bella, e credi che quanto mi morirò … niun’altra cosa mi si ricordarà se non che io ti adoro». Elisabetta Mori, L’onore perduto di Isabella de’ Medici, Garzanti, 295 pagine, 25,00 euro

Il Bosforo Pare strano ma è vero: a parlare le lingue turche, molto simili tra loro, sono, nel mondo, duecento milioni di persone. Non solo i turchi europei di oggi, ma anche gli abitanti dell’ex Turkestan russo e sovietico e quelli che sono in quegli Stati che finiscono in stan: Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan. Parlano turco anche gli uiguri del Xinjiang cinese, minoranza musulmana perseguitata dal regime di Pechino. La stessa cosa vale per le tribù siberiane, per certi popoli del Caucaso e del Caspio (per esempio gli azeri dell’Azerbaijan). Del resto la lingua è stata il collante del grande impero ottomano, nato nel Trecento. Nel 1453 il sultano Maometto II conquistò Costantinopoli e divenne quindi l’erede di Bisanzio, prosecuzione della potenza romana nel vicino Oriente. Un impero musulmano anche se non tutta la popolazione segue il Corano. Gli ottomani, eredi dei popoli della steppa, furono per secoli la più grande minaccia dell’Europa. Non solo: rappresentarono un modello alterna-

Da Romana Petri a Ceronetti, da Isabella de’ Medici a Fidel Castro, dal Bosforo a Bombay. Una mappa incompleta e arbitraria per una piccola libreria portatile Pascal Bruckner è che sia proprio l’amore idealizzato ed emancipato a minare la durata del matrimonio. Insomma, se l’amore viene elevato a ideale assoluto e totalizzante e in più ha una valenza «commerciale» nel senso che aiuta la realizzazione sociale, ecco che le coppie, prima o poi, «scoppiano». Oggi non ci si unisce più per interesse, per calcolo sociale, per volontà dei genitori, ma solo per amore. Una tappa fondamentale nel percorso dell’uomo libero, ma probabile trappola della famiglia che non riesce più a vedere i limiti, che non ce la fa più a pazientare. Il troppo sentimento, così sbandierato, sarebbe dunque un elemento di instabilità. Se tutti pensano che i coniugi debbano essere continuamente travolti dalla passione, è chiaro che alla minima trasformazione sentimentale (inevitabile) ci si trova spiazzati. Non ci si deve sorprendere perciò dinanzi all’aumento dei divorzi. Pascal Bruckner, Il matrimonio d’amore ha fallito?, Guanda, 115 pagine, 12,00 euro

tivo di società, di cultura e di convivenza religiosa rispetto ai canoni occidentali. Tra il Sei e il Settecento, con il decollo tecnologico, con l’Illuminismo e con il liberalismo dell’Europa, la grande terra attorno a Costantinopoli entrò nella fase del declino. I turchi non ressero il passo con l’Occidente. Il crollo avverrà con la prima guerra mondiale. Un giorno, racconta quello straordinario divulgatore di storia che è Barbero, un ambasciatore dell’impero ottomano arrivò in una capitale europea. Gli ospiti cristiani gli mostrarono, credendo di compiacerlo, alcuni rari manoscritti del Corano. Il diplomatico si scandalizzò e cercò di comprare quelle copie per riportarle in patria. Non gli andava che il Libro fosse in esilio e fosse fatto conoscere. Episodio che sottolinea la mancanza di interesse per l’altro: qui la più grande differenza tra l’Europa cristiana e l’impero ottomano. Alessandro Barbero, Il divano di Istanbul, Sellerio, 212 pagine, 12,00 euro


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Narrativa

libri

Federica Manzon DI FAMA E DI SVENTURA Mondadori, 435 pagine, 19,59 euro

ra le pieghe delle polemiche italiche tutte sul versante della questione romanzo, resta tacita e silente la querelle sull’esordio. La piena di esordi, occhieggiata in tralice, non viene mai troppo apertamente criticata perché possibile fonte di sorpresa e di vitalità. La vitalità del nuovo e della sorpresa ma anche l’aspettativa di qualcosa che metta movimento in una situazione di apparente tranquillità, che possa rompere gli schemi di una scrittura il più delle volte piatta. Risponde ai criteri del nuovo, e non solo, il romanzo d’esordio della giovane Federica Manzon, editor della casa editrice Mondadori, Di fama e di sventura. Il romanzo che ha pur caratteristiche simili ad altri esordi letterari, come la corposità del testo ha, a differenza di molti, il passo sicuro, uno stile e un livello formale decisamente originali. L’impeto della lingua, lavorata e decisa sul corpo di una storia che non ha paura dell’ipertrofia. Anzi, la scrittrice si concede una sorta di virtuosismo narrativo alimentando il plot con un vero e proprio lavoro sull’intreccio, tecnica che permette di seguire la vicenda del protagonista attraverso molte altre storie collaterali. Molti hanno parlato di saga, di un romanzo al cui centro sta ed evolve una famiglia, eppure molto di questo romanzo consiste nel seguire l’epica di un uomo, di un personaggio-uomo, attraverso un lento e poi sempre più deciso avvicinamento alla sua esistenza interio-

F

Il Bibliofilo

L’epopea di Tommaso,

eroe

moderno Corposo, sicuro, originale, linguisticamente impetuoso l’esordio dell’editor Federica Manzon di Maria Pia Ammirati re. Chi era costui? Il tratto di saga si ricava in realtà nella prima parte del romanzo quando di Tommaso, il protagonista, non si intuiscono ancora le tracce. Parliamo infatti della famiglia di Tommaso a partire dalla nonna

Vittoria, una coriacea triestina da cui viene la stirpe e la storia: «Vittoria era bella ed era giovane. Era l’unica figlia femmina di una stirpe di maschi tutti partiti per mare». Quando il protagonista apparirà, sulla scena del romanzo non sarà il personaggio che il lettore avrà in animo di seguire, sarà percepito come una presenza secondaria e non come protagonista. Tommaso nasce da una figlia di Vittoria, che muore per un incidente durante il parto, e da uno sconosciuto, probabilmente da un marinaio. Nasce malato e debole, viene affidato alle cure di una zia che non lo ama, finisce in collegio e ne viene espulso per indegnità. La vita di Tommaso, nato sotto i peggiori auspici, è la storia di un debole, di un bambino e poi adolescente schiacciato dal peso di una famiglia senza riscatto: «tutta la vita non fu altro che un faticosissimo tentativo di combattere contro ciò che lo affliggeva: il respiro lento, le spalle rachitiche e il buon cuore». Eppure Tommaso ha negli occhi la luce dell’ostinazione, una luce che a volte appare sinistra. La storia della vita di Tommaso continua con molte altre sorprese e diviene persino esemplare per talune scelte, appartenendo certo alle storie eroiche, perché Tommaso darà prova, anche a fine della sua esistenza, di essere un eroe moderno dando a questa parola parecchie coloriture e accenti, compresi quelli negativi. Eppure mai di fronte alle sue scelte, soprattutto quelle fatte sul versante dell’interesse personale, il personaggio ci apparirà negativo. Né accenti di odio o antipatia ma solo pietà verso un eroe che incarna molto del male dei nostri tempi.

Quando Mata Hari ballò nuda per Marinetti

argaretha Gertruida Zelle era nata in Olanda, quattro mesi prima di Marinetti. Dopo un matrimonio infelice si trasferì a Parigi, all’inizio del Novecento, esibendosi in locali tutt’altro che raffinati, in danze dal sapore orientale e dalla forte carica erotica che la resero presto celebre. Nota in tutta Europa con il nome Mata Hari e sempre in cerca di amicizie altolocate, volle incontrare Effetì, a Milano. Marinetti non lo poteva sapere, ma forse era già una spia che usava, anche, “le sue spiritose caviglie parlanti” per ottenere le confidenze di alti ufficiali francesi, a uso della Germania. Sarà fucilata in Francia all’alba del 15 ottobre 1917». Queste informazioni si trovano nella documentata biografia di Giordano Bruno Guerri intitolata Filippo Tommaso Marinetti: invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario, edita da Mondadori nel 2009, dalla quale ricaviamo che la stessa avventuriera, «più seducente che bella», danzò alla Scala il 17 dicembre 1911 nel quinto atto dell’Armida di Gluck, ottenendo un grande successo, mentre Marinetti si trovava in Libia. «Si tro-

«M

di Pasquale Di Palmo vava invece a Milano quando la donna tornò per interpretare Venere in un balletto. Uomo di mondo, sospettò subito che non fosse indiana e non intese sedurla, però la invitò a esibirsi, in privato, anche per gli amici futuristi». La performance avvenne nell’appartamento milanese di Marinetti sito in corso Venezia 61, soprannominato la Casa Rossa: «Mata Hari si presentò in corso Venezia senza il corredo dei sette veli necessario per eseguire la “Danza del Fiore”, e risolse il problema con la massima semplicità», esibendosi in costume adamitico, «lieta di essere valutata da questi futuristi straricchi di forza creatrice». Il singolare incontro tra questi due straordinari personaggi trova adesso un ulteriore riscontro attraverso la vendita di un esemplare dell’edizione originale di Mafarka le Futuriste, il romanzo africano scritto da Marinetti in francese ed edito da Sansot & Cie di Parigi nel 1909, che riporta la seguente dedica manoscritta del capostipite del futurismo: à Madame Mata Hari/ hommage d’admiration intellectuelle... Il volume,

Il riscontro dell’episodio nella dedica alla danzatrice in una copia di “Mafarka”

che presenta la falsa indicazione di «quarta edizione» e che è custodito in un cofanetto rilegato in mezzo marocchino marrone, con dorso e piatti di carta marmorizzata, figura nel catalogo di giugno 2011 della Librairie Le Feu Follet di Parigi al ragguardevole prezzo di ottomila euro. La tiratura dell’edizione francese fu di 21 mila copie mentre quella della traduzione italiana di Decio Cinti, uscita qualche mese più tardi per le Edizioni Futuriste di Poesia, fu di 14 mila esemplari. «Giudicato in seguito la migliore opera letteraria di Marinetti, Mafarka scandalizzò per l’esaltazione della sensualità, che si fa eroismo e volontà di potenza. [...] Erano incriminate soprattutto le pagine sullo “stupro delle negre” e quelle che descrivono il pene di Mafarka», aggiunge ancora Giordano Bruno Guerri. Cinquecento esemplari dell’opera vennero posti sotto sequestro a Milano su iniziativa dell’avvocato Samonati e l’autore, denunciato per oltraggio al pudore, fu condannato a due mesi di carcere, commutati in seguito in un’ammenda. Nell’essenziale bibliografia marinettiana, allestita da Domenico Cammarota nel 2002 per Skira, si legge: «Nel giugno 1910, l’autore annuncia Il terrore della notte, seguito del Mafarka, “già scritto per tre quarti”; ma del testo si perdono le tracce».


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poesia

30 luglio 2011 • pagina 19

Prima e dopo Charles Baudelaire di Francesco Napoli na ragione deve pur esserci se Attilio Bertolucci ha confessato di avergli rubato due versi, se Mario Luzi nel tradurlo vede in lui il poeta in grado di introdurre una «drammatizzazione» nell’idea romantica tesa alla «ricostituzione dell’unità del mondo», se Giorgio Caproni ci farà sempre i conti subendone l’influenza fino alle opere più tarde, franco cacciatore dell’Inconnu, o se Davide Rondoni, nel cimentarsi di recente nella sua traduzione, abbia apertamente confessato di «averlo addosso» e che «molti versi portano via, rapimenti improvvisi ancora dopo centocinquanta anni». Si tratta semplicemente di Charles Baudelaire, inesausto campione per larga parte del Novecento poetico. E se un testo e il suo autore possono emblematicamente rappresentare lo spartiacque tra un prima e un dopo, un passato e un presente, tra una modalità storica e una contemporanea di fare poesia, questi, probabilmente, sono proprio le Corrispondenze e Charles Baudelaire. L’edizione del 1857 dei Fiori del male dove questo sonetto apparve segna per davvero un solco. Lo stacco provocato da quest’opera in Italia, per restare alle nostre latitudini, viene sì riconosciuto dalla comunità poetica ma con una sorta di diffrazione temporale.

U

fiori del male sembrarono subito ai contemporanei una grande provocazione. Lo scandalo suscitato fu forte al punto che l’editore e l’autore subirono un processo per oscenità: sei componimenti furono censurati e i due condannati anche al pagamento di una pena pecuniaria. Ma l’urto non era per certe crudezze ma, molto più probabilmente, la critica rimase sconcertata dall’esplosiva e dirompente miscela di altezza formale dei testi, Baudelaire lavorava e cesellava i suoi versi fino all’ossessione maniacale, e bassezza dei temi.

Uno dei meriti esplicitamente riconosciuti a Baudelaire è quello di aver portato in poesia la città, le stanze delle abitazioni, gli interni, compresi i più infimi e sordidi, dell’animo umano. Ora, depurato da quest’ultimi aspetti forse troppo intrisi di materiale negatività, l’immagine e il tema della città con i suoi contorni e le sue contorsioni esistenziali mi pare non siano così lontani da alcuni dei grandi poeti tuttora in attività come Maurizio Cucchi o Milo De Angelis. La folla, la strada, la grande città con i suoi volti fatti anche di pietre e mattoni al poeta francese «passeggiatore solitario» - Le promeneur solitaire era uno dei titoli pensati per I fiori - appaiono gli emblemi di un disagio personale e generazionale. Baudelaire dà così spazio a quel senso di vuoto provocato dalla vioEscludendo certi prestiti tematici raccolti dagli scapi- lenta trasformazione socio-economica dell’Ottocento e gliati come Camerana o Praga pressoché contempora- lo fa inaugurando la poetica del simbolismo, generata neamente, la poesia baudelariana giunge a noi rifles- da un desiderio di ritrovare il legame perduto tra le sosa dagli sviluppi successivi di quella francese, in parti- cietà pre-industriali e la natura. Se resta «classico» (i colare dalla visionarietà di Rimbaud o dal simbolismo versi sono per lo più alessandrini, le strofe rimate, il soaccentuato di Mallarmé. Pascoli e D’Annunzio, o Goz- netto trova in lui un grande interprete), Baudelaire è rizano e Lucini in misura minore, sembrano non co- solutamente moderno per il ruolo che proprio nelle Corglierne la grandezza. È proprio Mallarmé a penetrare rispondenze assegna all’immaginazione nella ricerca con maggior forza nella nostra poesia, soprattutto con poetica. L’immaginazione è per lui la più «matematica» l’azione promossa su di lui da Ungaretti prima e dal- delle facoltà in grado com’è di comprendere l’«analogia l’Ermetismo poi.Tutto questo darebbe allora ragione a universale» fra le cose e permettere al poeta di scoprire Giovanni Raboni, traduttore eccelso dell’intera opera l’indicibile, esorcizzando in questo modo l’opprimente di Baudelaire, del perché solo alla fine dell’egemonia angoscia che la realtà più concreta e materiale suscita. di quella scuola, e quindi ben dopo la seconda guerra Qualsiasi cosa nell’universo «si risponde» (è la teoria mondiale, appaiono anche in Italia solide e organiche centrale delle Corrispondenze), la poesia diventa la matrice dei simboli e dà traduzioni di Bauall’uomo i mezzi per delaire. Così la cooltrepassare il reale noscenza e incidenin un surreale che gli za diretta dei Fiori del male nella norende tollerabile il strana latitudine reale stesso. È un tempio la Natura, dove a volte parole poetica avviene con Nelle «corrisponun certo ritardo, con denze» sono tra loro escono confuse da viventi pilastri; un’angolazione e accostati i diversi e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli un’ottica provinciamessaggi sensoriali che gli lanciano occhiate familiari. le. Eppure la grandal provenienti dezza di Baudelaire mondo naturale. E per alcuni, ad esemd’altronde se per Come echi che a lungo e da lontano pio Thibaudet, è nelBaudelaire, con una tendono a un’unità profonda e oscura, la stretta e rivoluimpressionante movasta come le tenebre o la luce, zionaria alleanza dernità, «le arti i profumi, i colori e i suoni si rispondono. tra poesia e prosa aspirano, se non a nella quale il critico sostituirsi l’un l’alfrancese vi riconotra, per lo meno a Profumi freschi come la carne d’un bambino sce un’arte «sottile» prestarsi reciprocadolci come l’oboe, verdi come i prati e «delicata», sicuramente energie nuomente foriera della ve», ben si com- e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza, modernità poetica. prende anche come Ma se in Italia peral pari e con la mecon tutta l’espansione delle cose infinite: viene questa modadesima forza innol’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino, lità è solo grazie alvativa in poesia sia l’intermediazione possibile cogliere che cantano i trasporti della mente e dei sensi. mallarmeana o, me«tutta l’espansione glio, di Rimbaud. delle cose infinite:/ Charles Baudelaire Prima di tornare l’ambra e il muda I fiori del male nello specifico del schio, l’incenso e il nostro esemplare, è benzoino,/ che canopportuno ricordatano i trasporti della re ancora come I mente e dei sensi».

CORRISPONDENZE

il club di calliope TRA POCO SARANNO DUE ANNI Manca poco perché arrivi il secondo anniversario Io ti penso tantissimo, mia cara, Con amore e gratitudine A volte mi sento ancora sopraffatto dal dolore. Mi dispiace così tanto, tesoro. Sono così dispiaciuto. Mi dispiaccio per ogni parola che possa averti causato sofferenza. So che è stato così. Quando a volte negli ultimi anni hai pianto disperatamente. Mi dispiaccio per il peso della mia personalità Che a volte è ricaduto su di te. I miei stati d’animo, la malinconia, il silenzio, la ritrosia, la preoccupazione, talvolta i problemi. A volte sapevi benissimo ciò che provavo, ma altre no E ti sentivi responsabile per tutto. Ti prendevi la colpa Per tutto quello che non andava bene sotto il sole cocente (Come nelle tue stampe Il Mercoledì delle Ceneri) Invece, spesso ero io che sbagliavo. Mentre tu Sei riuscita a tener ben lontane da me le tue sofferenze, I pensieri lugubri, lo sconforto Il tuo incolparti. Non hai mai voluto farmi sentire il minimo peso, Cercando di non lamentarti mai Per non far pesare a nessuno la tua sofferenza interiore. Ma qualche volta non ci sei riuscita Allora ti sei sentita responsabile per quello. I rimpianti non servono, cara, lo so. E tu non puoi più cancellare i miei Con dita tiepide e vive Ed io non posso far sparire le tue lacrime salate con i baci Ricordo ancora i sorrisi allusivi che mi rivolgevi Il timore che a volte dimostravi nel venire verso di me Il tuo modo di tenermi stretto. Amavo così tanto il tuo modo di abbassare il mento Quando parlavi amorevolmente di me con gli altri Cercando di celare quel tuo timido sorriso. Allora, qualche volta piegavi la testa sulla mia spalla. Due anni! Non può essere così tanto tempo, non può! Mi aspetterai amore mio? Mi aspetterai? Com’è lunga Quant’è lontana la strada Che si protrae davanti…

Michael Novak (Traduzione di Elisabetta Barberi)


Opera

MobyDICK

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spettacoli

Gioacchino

Rossini

restituito a se stesso di Francesco Arturo Saponaro ue produzioni nuove, Adelaide di Borgogna e Mosè in Egitto, e la ripresa della Scala di seta di qualche anno fa. Saranno l’ossatura della 32ª edizione del Rossini Opera Festival (Rof), in calendario a Pesaro dal 10 al 23 agosto. Un’edizione con forte identità musicologica e di ricerca. Due titoli infatti - l’Adelaide di Borgogna e Il Barbiere di Siviglia programmato al Teatro Rossini per un’unica sera, in forma di concerto (con diretta video in Piazza del Popolo) - appaiono per la prima volta nell’edizione critica, da poco preparata a cura della Fondazione Rossini, da sempre partner scientifico del Rof. Quella del Barbiere è un aggiornamento e una rivisitazione, necessari alla luce dei più recenti criteri, della prima, ormai storica, del 1969. E si annunciano prossime due altre edizioni critiche, che si tradurranno negli allestimenti di Ciro in Babilonia nel 2012, e di Aureliano in Palmira nel 2013.

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Danza

Musicologia più teatro. Da un lato la ricerca storico-scientifica, puntualmente documentata in edizioni critiche che richiedono anni di studio; lavoro che fa capo e compete alla Fondazione Rossini. Dall’altro la realizzazione operativa, teatrale delle partiture restituite alla loro identità, compito a cui provvede il Rof. Con una verifica concreta, nel fuoco dell’esecuzione, dei prodotti di quest’originale laboratorio interattivo di musicologia applicata. È la singolare formula che in questi decenni ha contrassegnato la rassegna pesarese, e la sua fortuna internazionale. Un festival ideologico, di un solo autore, con itinerario e missione già tracciati: la restituzione del poderoso catalogo rossiniano, depurato dai malcostumi esecutivi che in quasi due secoli si erano largamente e tenacemente sovrapposti alle intenzioni di Gioachino Rossini. E anche il pubblico, di conseguenza, è mosso da un interesse particolare. Tanto che arriva dai quat-

tro punti cardinali, e al botteghino vede prevalere gli spettatori stranieri sugli italiani, con sensibili ricadute sull’economia turistica. Adelaide di Borgogna è una delle ultime partiture che ancora rimangono per completare il recupero del catalogo teatrale di Rossini. Rispetto all’esecuzione di qualche anno fa, in forma di concerto, questo nuovo allestimento teatrale è presentato come un sostanziale passo avanti. Il direttore artistico, Alberto Zedda, ha lasciato intendere che quest’opera desterà sicuramente sorpresa, smentendo quell’immagine diffusa di lavoro mancato, mediocre, che discende dal severo quanto opinabile giudizio di uno studioso del passato. L’altra nuova produzione ripropone un capolavoro certamente gradito al pubblico, Mosè in Egitto. Opera tanto cara al compositore da spingerlo a rielaborarla più volte, essa esiste infatti in ben quattro versioni: due si riferiscono all’originaria stesura napoleta-

na, due ne offrono una profonda trasformazione, indotta dal trasferimento di Rossini a Parigi. Notevoli le differenze fra la lezione napoletana, scelta per il Rof di quest’anno - nella quale risaltano sobrietà di scrittura, trattamento belcantistico della vocalità secondo canoni di astratta bellezza, improvvise accensioni drammatiche che prefigurano aspetti del futuro teatro musicale - e quella francese. Quanto alla ripresa della Scala di seta, insolita è la breve distanza dalla fortunata apparizione di pochi anni fa. Ma la geniale regia di Damiano Michieletto, che aveva mietuto unanime successo, ha suggerito la riproposta della messa in scena. Sempre di livello importante le compagnie di canto, com’è tradizione del Festival, che completa il cartellone con un fitto programma di altri appuntamenti. Calendario delle recite, notizie sui cast, prenotazione e acquisto biglietti su www.rossinioperafestival.it.

Le contaminazioni di Mvula Sungani di Diana Del Monte on Italia, la mia Africa ieri sera Mvula Sungani ha portato in scena la sua eredità, un retroterra culturale consegnato al coreografo dalla voce narrante del genitore. Nato a Roma, Sungani è infatti figlio di un medico africano emigrato in Italia negli anni Sessanta dal Malawi e proprio su questo suo retaggio e sulla condizione di emigrante in genere il coreografo ha voluto ragionare, attraverso la sua danza. A chiudere la rassegna Invito alla Danza che si è svolta a Villa Pamphilj, dunque, un viaggio a ritroso nell’Italia dei primi del Novecento, quando il popolo di emigranti parlava i nostri tanti dialetti, per costruire un parallelo con la condizione attuale, ovvero quella di un Paese divenuto lui stesso meta di immigrazione. Per non dimenticare chi eravamo, chi siamo e chi vorremmo essere, il progetto si promuove come un momento dedicato alla memoria, da intendersi come fonda-

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mentale base di conoscenza per comprendere il presente e per costruire il futuro. Nel fare ciò, il coreografo italoafricano e direttore artistico della compagnia che porta il suo nome utilizza uno stile da lui stesso battezzato «Danza Black»: un misto di modern dance (prevalentemente Horton e Limon), contact improvvisation, tecnica Dunham e danza afro-acrobatica. In prima assoluta per la rassegna romana, Italia, la mia Africa, mescola sapientemente i diversi elementi del tea-

tro, il video e le nuove tecnologie di illuminotecnica in pieno stile Sungani. L’accompagnamento musicale è composto da ritmi africani affiancati alla musica originale di Nando Citarella, eseguita dal vivo dal suo gruppo musicale La Paranza. Artista poliedrico, Nando Citarella si esprime come musicista, attore, cantante e docente; studioso delle tradizioni popolari svolge una importante ricerca sulla musica tradizionale e sul teatro popolare del Sud Italia. La Crdl Compagnia Mvula Sungani inizia la sua attività nel 1992 con il nome di Iisda Compagnia Mediterranea e nel 2002 si trasforma in «Centro Regionale della Danza del Lazio», affiancando al titolo il nome del direttore artistico. Dotata di una modernissima struttura tecnico-organizzativa nelle vicinanze del centro della città, la com-

pagnia è arrivata a programmare mediamente sessanta rappresentazioni annuali che toccano molte regioni italiane. Diverse le partecipazioni televisive sia della compagnia sia dello stesso Sungani che sin da giovanissimo può vantare alcune partecipazioni nelle esibizioni di Ginger Rogers, Ella Fitzgerald, James Brown, Stevie Wonder, Miriam Makeba. E se «Contaminazione» sembra essere la nuova parola d’ordine per gli artisti dell’arte della danza, l’esperienza televisiva ha certamente insegnato a Sungani l’arte della retorica in ambito coreutico, portando i suoi lavori a esibire una fascinazione tecnica di sicuro impatto sul grande pubblico.


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Cinema

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tafestival che al Courmayeur Film Festival. Basti dire che si tratta di una produzione interamente italiana, ma girata senza eccezioni in lingua inglese, per concedere respiro internazionale a un prodotto che è già stato venduto bene in tutto il mondo. La Universal Pictures, non proprio gli ultimi arrivati, ha acquisito i diritti di distribuzione per Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Gran Bretagna e Scandinavia, oltre che per l’Australia.

di Pietro Salvatori

i si potrebbe chiedere perché, dei film di un certo interesse programmati per il mese di agosto, neanche uno faccia capolino in un weekend che passerà probabilmente alla storia come il più povero di offerta cinematografica di tutto il 2011. Il 5 agosto i fans accaniti potranno vedere Tekken - il film, pellicola ispirata alla celeberrima saga di videogiochi picchiaduro (la stroncatura della critica non ne ha impedito una massiccia diffusione virale all’estero. In Italia il gruppo facebook ufficiale, al contrario, riesce appena a raggiungere numeri a tre cifre). Addirittura al 12 è stata posticipata l’uscita di Hanna, uno psico-thriller diretto da Joe Wright, inespresso quanto talentuoso regista di Espiazione e di Orgoglio e pregiudizio. Non sono bastati nel cast nomi del calibro di Eric Bana e Cate Blanchett per convincere la Warner a puntare sul film, inizialmente previsto per metà luglio e slittato nel periodo meno redditizio dell’anno, al netto di ulteriori sorprese. Lo stesso fine settimana arriverà in sala I pinguini di Mr. Popper, pellicola della quale ammettiamo sapere ben poco, ma che sfodera come asso nella manica il multiforme grugno di Jim Carey, latore, se non di capolavori, per lo meno di simpatiche pellicole di sicuro successo. Bene, niente di tutto questo sarà a disposizione degli spettatori che al guado di una fresca estate volessero recarsi al cinema. Due pellicole di ostica distribuzione, al punto da essere pressoché sconosciute anche alla gran parte degli addetti ai lavori. La Fox propone Diario di una schiappa, commediola vecchia di un paio d’anni, della quale, bizzarramente, offrirà a stretto giro di posta anche il sequel, fresco di stampa su pellicola. Nulla di nuovo sul fronte occidentale dei teen-movie, con il solito ragazzino sfigatello che percorre un’ora e mezza di amene battutine in attesa del riscatto finale. Ha potenzialità, ma non le esprime per quanto avrebbe potuto, Vanishing on 7th street. Interessante perché la metafora di una Detroit, tra le metropoli più in crisi degli States contemporanei, che finisce buia e deserta, scenario di un horror-thriller futuribile, era interessante. Non basta Brad Anderson a rendere del tutto convincente un’opera che pure echeggia di alcuni interessanti riflessi alla Philip Dick. E che forse per questo meriterebbe una seconda visione.

C

Sono della scorsa settimana, e resistono ancora qua e là in diverse sale, le cose più interessanti da vedere al cinema, se proprio non ne volete sapere di Capitan America. «Alla fine del giorno» è la traduzione letterale di At the end of the day - Giorno senza fine, particolarissima pellicola anglofona nel titolo ma italianissima nell’ispirazione e nella produzione. Firma Cosimo Alemà, da qualche lustro tra i maggiori autori italiani di videoclip, spalla fedele di Gianna Nannini, Luciano Ligabue, Subsonica, Fabri Fibra, Le Vibrazioni e Max Pezzali. Che decide di cambiare radicalmente genere, e di impegnarsi come prima esperienza di lungometraggio in un horror classico, dai ritmi serratissimi e dai sapori antichi di chi tanto ha masticato del genere. Un’operazione veramente interessante, presentata con successo sia al Fan-

Giochi

di guerra con caccia all’uomo Cosimo Alemà, regista di videoclip per celebri rockstar nostrane, approda al lungometraggio con un horror dai ritmi serrati. E in attesa di più appetitose uscite agostane, c’è “Bitch Slap” che strizza l’occhio alla premiata ditta Tarantino/Rodriguez. E poi “Tekken”, dal videogame al grande schermo

Alemà costruisce una storia classica: sette amici decidono di partire per una giornata in campagna, dedicandosi alla propria passione, il sostai, «giochi di guerra» con fucili a pallini, vernice e via discorrendo. Raggiungono così una zona deserta, sufficientemente lontana da qualunque centro abitato e si dividono in due squadre, pronti a combattere a colpi di mimetiche e aria compressa. È l’inizio di un incubo. Ben presto, il gruppo si ritrova vittima di una misteriosa minaccia che si nasconde fra gli alberi, mentre il loro gioco si trasforma improvvisamente in una caccia all’uomo. Un plot classico, che si sviluppa con un elementare gioco di situazione iniziale - rottura della quiete - catarsi e risoluzione (?). Come nella migliore tradizione del genere, del quale Alemà si dimostra buon intenditore, oltre che fruitore occasionale. Nel suo tentativo di non strafare, il regista, che è anche sceneggiatore, forse esagera nella pulizia del racconto, che avvince per velocità e frenesia, ma che rimane epidermico nel suo comunicare emozioni, raccontare personaggi, far appassionare alla storia. E se questi sono i difetti di un film che, per intenti e per mezzi non poteva che essere imperfetto, con un cast di semidebuttanti e prodotto quasi esclusivamente con le forze del solo Alemà, i pregi ci sono, eccome. Una fotografia tridimensionale, abbagliante nel suo riuscire a dare una profondità tridimensionale a location e tecniche di ripresa che avrebbero scoraggiato chiunque. Che se abbinata a una colonna sonora dal sound notevolissimo, calibrando sapientemente enfasi, sperimentazione e silenzi - questi ultimi merce rarissima nel cinema nostrano - restituiscono un’atmosfera che da sola vale il prezzo del biglietto. Sia pur imperfetto dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, At the end of the day vale comunque una visione. Se non altro per dare ad Alemà la possibilità di esprimersi con altri budget e in un periodo dell’anno meno sfavorevole. Cambiando totalmente genere, ambientazione, target, ci si tuffa in Bitch Slap - Le superdotate, firmato da Rick Jacobson, tra i più prolifici registi della serie tv Nikita. La storia strizza l’occhio alla premiata ditta Tarantino/Rodriguez. Ci sono tre ragazze poco raccomandabili. Una spogliarellista notevole, un’assassina, impiegata a portare su e già pacchi per conto di un gruppo di trafficanti e una broker che lavora per una grande corporate. Le tre (anti)eroine arrivano in un rifugio sperduto nel deserto: tutte, per motivi diversi, vogliono ricattare un pericoloso criminale. Il riferimento all’ultima deriva grandguignolesca di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez non è casuale. Il film richiama quell’impostazione da finto-grindhouse rilanciata in pompa magna dai due registi amici sin dalla grafica e dai temi scelti per pubblicizzarlo. Ma qui si fonde con il gusto per le pellicole di Russ Meyer, il suo gusto sbarazzino e un poco osceno - quel tanto che basta - per le superdotate. Una sorta di divertissment che arriva nelle sale italiane con due anni di ritardo rispetto alla sua distribuzione statunitense, in un periodo che molti giudicheranno infelice, ma che, tutto sommato, è la giusta collocazione di un prodotto da mandare giù come digestivo dopo la pizza per le frotte di ragazzi costretti alla città, e che gli appassionati del genere non si faranno comunque scappare.


Camera con vista

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di Sandra Petrignani

state, tempo di gialli. Non sono un’appassionata, anzi sull’argomento sono veramente naïve, basti dire che resto ancora ferma ad Agatha Christie e quanto mi concedo di vera passione meno remota non supera Georges Simenon. Però mi sono arrivati due polizieschi editi da Iperborea e, colpita dal fatto che l’elegantissima casa editrice di Emilia Lodigiani, dopo essersi permessa di bocciare quel successo planetario di Stieg Larsson (Uomini che odiano le donne, nel caso vi sfuggisse), si pieghi a due romanzetti di genere, mi sono messa a leggerli. Chissà che non possa ampliare i miei orizzonti. Dunque il primo s’intitola Il blues del rapinatore (185 pagine, 15,50 euro). L’ha scritto il danese Flemming Jensen, autore scandinavo dal nome non particolarmente difficile e questo, pur non essendo un suo merito, me lo rende simpatico. Poi, però, scopro che fa il simpatico di mestiere, sì un po’alla Beppe Grillo, anche se per fortuna meno scatenato, uno che coniuga comicità e politica, e questo mi raffredda parecchio. Lo dico perché teniate conto che la mia è una lettura macchiata dal pregiudizio, oltre che dall’incompetenza. Il romanzo ha il tono di uno spiritoso monologo recitato su un palcoscenico che tenta di strappare la risata a ogni acapo. Forse non c’è nessun male in questo, forse a molti sotto l’ombrellone farà piacere sbellicarsi dal ridere leggendo un giallo. Io sono tradizionalista e mi pare che il genere non vada contaminato più di tanto. Insomma, preferisco qualcosa che non mi spiazzi e di ridere nessuna voglia (detto fra noi, poi, non è il tono urlato di Flemming Jensen, che sta sempre lì a darti di gomito e a farti l’occhiolino che può conquistarmi).

E

Così passo al secondo. E andiamo subito decisamente meglio (nomi impronunciabili a parte).Titolo: L’uomo con la

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ai confini della realtà

Mentre la Senna scorre…

copione collaudato, impressionabile e romantico. Non porta la pistola per non farsi venire la tentazione di uccidere, ama la mamma lontana, sola ma parecchio tosta, e ha problemi con un fratello che non ha ancora deciso cosa fare di se stesso. Insomma possiamo identificarci facilmente con lui pur non avendo mai fatto niente di particolarmene avventuroso o vagamente malavitoso; poi questi tipi borderline che, da una parte sono poco raccomandabili, dall’altra assurgono, complice una buona trama, alla figura di eroi positivi funzionano meravigliosamente in libri di questo genere. Qui la storia muove dalla scomparsa di una ragazza. È il marito che la cerca, e non si sa se per copertura o per amore vero. Magari è stato lui stesso a farla a

tratto indimenticabile di una madre rimasta sola, tratteggiato dallo sguardo impietoso e carico di senso di colpa di una figlia, che ha un’improvvisa rivelazione sulla propria infanzia, e sul difficile rapporto con la donna che l’ha messa al mondo. «Momenti di essere» li avrebbe definiti Virginia Woolf, quei momenti che accendono a pieno ritmo i motori di una narrazione.

Ma torniamo ai nostri assassini, poliziotti e cadaveri insanguinati. Lo scenario si addice al catalogo di Iperborea, eppure siamo in zona Adelphi e lo scrittore è l’immenso francesissimo Simenon, che però, come ben sanno gli appassionati, ha vissuto parecchio dentro una barca lungo la costa olandese. L’assassi-

…Maigret indaga. Questa volta su un singolare barbone, in una delle sue ultime inchieste datata 1971. E l’estate si tinge di giallo non solo con il prodigioso Simenon, ma anche con una serie di titoli di autori del profondo Nord proposti dalla casa editrice Iperborea

faccia da assassino (190 pagine, 15,50 euro). Autore Matti Rönkä (è un maschio, nato nella Carelia finlandese nel 1959), volto noto del telegiornale che inventando il personaggio seriale di Viktor Kärppä ha dato una svolta al suo destino conquistando un vasto successo e numerosi premi. Kärppä non è un commissario, ma un investigatore privato a tempo perso, quando cioè non è lui stesso implicato in faccende losche di piccolo cabotaggio al servizio della mafia russa di Helsinki. È malinconico come da

fettine e a metterla nel congelatore (ma il corpo, si scoprirà, non è di quella ragazza, respirate liberamente). Altro non dico, per non rovinarvi la suspense. Che è tanta, ben calibrata da un capitolo all’altro, intrecciata a un’immancabile storia d’amore per niente banale. Detto questo, anche se non c’entra con la carrellata poliziesca, mi sono ritrovata davvero a mio agio, al cospetto col «piacere del testo» di barthesiana memoria, solo quando ho letto d’un fiato Genius loci (60 pagine, 9,50 euro) della olandese Hella Haasse, che era compreso nello stesso pacchetto di Iperborea: due brevi, bellissimi racconti dove passa la vita interiore dei personaggi, dove il gioco d’ombra e di luce degli stati d’animo chiarisce qualcosa di essenziale sull’esistenza, come mi piace faccia la letteratura. Dove si trova il ri-

no (155 pagine, 16,00 euro) è del 1935. Ambientato fra Amsterdam e Sneek, paesino della Frisia, inscena un doppio omicidio di cui si conosce il responsabile già dalle primissime pagine. Una tecnica che Simenon governa a meraviglia: come tenere avvinto il lettore in un sostanziale immobilismo, aspettando che il cappio si stringa o si allarghi intorno al colpevole, mentre la vera punizione è la progressiva consapevolezza dell’inutilità del crimine compiuto, la sproporzione fra l’atto estremo e il risultato modesto. La vita del dottor Kuperus che in una botta si è liberato della moglie fedifraga e dell’amante, suo rivale al biliardo, è cambiata come sperava dopo l’assassinio? Certo può liberamente andare a letto con la servetta, può sperare di essere eletto presidente dell’Accademia del Biliardo, dove l’altro brillava assai più di lui. E con questo? I giorni scorro-

no lenti, i sospetti aumentano, la limitata società di provincia lo respinge in un gelato isolamento, la servetta ha un fidanzato che rovina la festa e un carattere che, nell’apparente sottomissione, ne fa una piccola manipolatrice e un grande personaggio. Prodigioso Simenon, ogni volta (tranne davvero pochissime eccezioni) si resta sbalorditi dalla sua profonda conoscenza della psiche umana, dai grandiosi risultati di una scrittura elaborata su umili elementi. È uscito in contemporanea, sempre da Adelphi, anche un ottimo Maigret, uno degli ultimi, data 1971, Maigret e l’uomo solitario (160 pagine, 10,00 euro), dove compaiono un barbone sui generis, una donna acida, una ragazza troppo leggera e troppo carina, inevitabilmente vittima. Maigret è qui forse più dolente del solito (la madre dello scrittore era appena morta e non era certo stato un rapporto facile il suo con lei). C’è una Parigi calda, estiva, però piovosa, di centro e di periferia, e molti interni stantii. Il commissario mastica la sua pipa e ragiona sulla natura umana come fa lui, senza filosofie, attenendosi ai fatti, mentre la Senna scorre, inesorabile.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Una politica italiana che fa discutere e la questione morale di Berlinguer L’IMPORTANZA DI ESSERE DONNA Il problema principale del Paese è l’impossibilità di operare quel sano e naturale ricambio generazionale nel mondo del lavoro. Nulla è stato fatto nella Finanziaria, né ci sono provvedimenti all’orizzonte per sostenere la famiglia o i giovani. In questo deserto propositivo e valoriale, spicca l’approvazione del decreto che impone le quote rosa a tutti gli organi rappresentativi italiani e ai cda di tutte le società quotate in Borsa. Inizialmente, un quinto delle poltrone per poi passare ad un terzo. Tralasciando pesi e misure, la cosa che lascia sgomenti è l’assoluta mancanza di criteri di scelta o di merito per la selezione di tali candidate. Le quote rosa così concepite sono una norma sessista e demagogica approvata ad arte nel vano tentativo di riconquistare il favore di un elettorato femminile. Una norma che ha il solo compito di rendere legale l’imbarazzante pratica di piazzare amanti, mogli e igieniste dentali in ruoli di potere. Noi forze di liberal, facciamo invece una proposta diversa. Quote riservate agli under 35, uomini e donne. Obbligo per tutti gli organi rappresentativi di riservare un quarto dei posti e dei candidati ai giovani, a prescindere dal loro sesso. E, senza violare gli ambiti del diritto privato con imposizioni anacronistiche, proponiamo la defiscalizzazione completa per le aziende private che operano assunzioni di under 35, fino al raggiungimento di un quarto della forza lavoro totale. Queste assunzioni devono essere fatte sulla base di rigidi meccanismi meritocratici. Concorsi seri e valutazioni di pubblicazioni, esperienze e competenze. Senza alcuna discrezionalità della politica nelle scelte e coinvolgendo la magistratura ordinaria nel controllo del processo. E, a parità di risultati, arrivando anche a ipotizzare una preferenza per il gentil sesso. In questo quadro la maggior parte dei posti andrebbe alle ragazze che sono, statistiche alla mano, da anni più preparati degli uomini. E insieme al lavoro doneremo loro qualcosa di più importante. La dignità e quell’autonomia che tanto spaventa chi invece colleziona e concepisce le donne solo come bambole. Noi di liberal, ricordiamo che nell’antica e gloriosa Sparta si tramandava che solo una vera donna, partoriva dei veri uomini. Emiliano Agostini de Angelis C O O R D I N A T O R E GI O V A N I CI R C O L I LI B E R A L RO M A CA P I T A L E

Non sono stato allievo di Popper, tantomeno sono un filosofo, neppure di complemento. Con la politica, però, ho una lunga pratica, avendo iniziato a quindici anni a bazzicarla. La lunga intervista al professor Sebastiano Maffettone, pubblicata mercoledì 27 luglio sul quotidiano liberal, mi ha confermato quanto già pensavo, cioè che oggi la politica in Italia è uno schifo, tanto che l’illustre professore della Luiss lo ribadisce per ben cinque volte nel corso della sua conversazione. Non sono invece d’accordo con il professor Maffettone sul suo giudizio liquidatorio su Enrico Berlinguer e sul suo modo di intendere la questione morale. Avendo avuto modo di parlare, di discutere e per qualche tempo collaborare con lui, posso dire che Berlinguer non ha mai pensato, contrariamente a quanto dice il professor Maffettone, che noi iscritti al Pci fossimo antropologicamente diversi dai militanti degli altri partiti o addirittura dagli altri esseri umani. Berlinguer sosteneva due fondamentali principi: 1) gli iscritti al Pci dovevano conoscere lo statuto del partito, che sanciva, in un apposito articolo, che i militanti dovevano avere anche nella vita privata un comportamento esemplare; 2) il sintagma etica-politica non era uno ossimoro come qualche stolto ha predicato tirando strumentalmente in ballo Niccolò Machiavelli. A questo proposito ho più volte sentito l’amico Luigi Firpo, uno dei fondatori della facoltà di scienze politiche di Torino, sostenere che l’etica doveva essere la premessa per una buona politica. Sempre Firpo considerava arbitraria l’attribuzione della teoria secondo cui “il fine giustifica i mezzi” al segretario fiorentino.

Diego Novelli

IL CASO SILVIA NOÈ: DALLA OMOFOBIA ALLA CRISTIANOFOBIA Perché la consigliera Silvia Noè, capogruppo dell’Udc all’Assemblea della regione Emilia Romagna, non può diventare presidente della commissione Pari Opportunità? Semplice, perché è cattolica. Da mesi sostengo che si sta pericolosamente passando dalla omofobia alla cristianofobia. Si iniziano in tal modo le attività della commissione Pari Opportunità, commissione che dovrebbe essere la paladina della non discriminazione, con un atto di palese discriminazione. Ancora una volta l’anima più estrema e radicale del Pd prevale sulla sua componente più moderata, ma tremendamente subalterna e latitante. Ed è chiaro l’uso strumentale che di tale commissione si vorrà fare, passando da un importante lavoro sulla pari opportunità fra uomo e donna, a una ambigua e sempre più ideologica pari opportunità “di genere”. Diversamente è andata a livello nazionale. La Camera dei deputati ha approvato la pregiudiziale di costituzionalità (evocata da Pdl, Udc e Lega) contro la legge che avrebbe previsto l’omofobia come aggravante per i reati di natura penale, con 293 sì, 250 no e 21 astenuti. Tale aggravante, infatti, contra-

sta con il principio di uguaglianza. Il reato commesso per motivi di omofobia rappresenta già una circostanza aggravante, in quanto atto commesso, più in generale, per motivi abietti e futili. Andare contro l’universale principio di uguaglianza non è forse discriminazione?

Glauco Santi

COSTI DELLA POLITICA Fra i costi della politica è il caso di inserire i consorzi di bonifica. I loro amministratori sono spesso politici in cerca di una sinecura. Le loro competenze potrebbero essere passate tranquillamente ad altri enti. In luogo dei contributi che essi pretendono dai consorziati dovrebbe provvedere la fiscalità generale.

Carla Bontempo

MANOVRA, BORSA E TRASFERIMENTO DI MINISTERI A MONZA L’altalena della Borsa valore ha fatto stare col fiato sospeso non solo il mercato finanziario ma anche la classe politica per le gravi ripercussioni economiche che un crollo dei titoli di Stato può provocare nella economia reale. Tanto che, per arginare l’azione degli speculatori, la manovra finanziaria presentata dal go-

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Mangiatore di hot dog rischia la mandibola NEW YORK. Si chiama Takeru Kobayashi ma è conosciuto come “Tsunami”. Fino a poco tempo fa era il campione indiscusso di una specilità tutta americana. Lui, giapponese, era il recordman nel mangiare il maggior numero di hot-dog nel minor tempo possibile. Il suo record, stabilito lo scorso anno, era di 53 hot dog e 3/4 mandati giù in 12 minuti. Ma durante l’allenamento in vista del “Nathan’s Famous” di New York, la gara più famosa di questa specialità che Kobayashi aveva già vinto 6 volte, una delle sue mascelle ha letteralmente smesso di funzionare. I medici gli hanno diagnostico una artrite alla mandibola. Come rivela un blog bene informato sulle bizzarrie dell’estremo Oriente, Kobayashi era al rientro alle competizioni dopo uno stop di qualche mese dovuto alla morte della madre e ci teneva a vincere la competizione per onorarne la memoria. Per questo, nonostante il dolore, ha voluto continuare l’allenamento fino a che la mascella non ha ceduto: ora la sua carriera è in forte pericolo. E dopo il danno anche la beffa. Il suo rivale storico, Joey Chestnut, ha superato il primato di Kobayashi, ingurgitando in una recente gara 59 hot dog e mezzo in soli 12 minuti.

verno, per concorde volontà della maggioranza e della opposizione, pur nella diversità delle valutazioni e del conseguente voto, ha avuto un iter brevissimo. Il prezzo della benzina ha raggiunto cifra altissima con il rischio di fare da acceleratore alla inflazione. Ma nonostante tutto ciò, vi è chi insiste ad inaugurare sedi di rappresentanza di tre ministeri a Monza. Per fare cosa? Il nostro è un Paese strano nel quale si privilegiano i sogni alla realtà? È un Paese nel quale ai problemi concreti della società, primo fra tutti quello della disoccupazione, si preferiscono azioni di conquista del “pennacchio” di sub-capitale con lo spostamento di qualche ufficio di rappresentanza ministeriale? O l’inaugurazione è stata fatta per acquietare il fermento dei propri elettori e tende a costituire una variante per distrarre l’opinione pubblica dai costi e dai sacrifici che la manovra finanziaria ci riserverà? Non è meglio, più giusto, più opportuno non dimenticare il nocciolo del problema e cioè la necessità di imporre maggiori sacrifici a chi più ha, alle rendite dei capitalisti, ai profitti, e non spalmare i sacrifici su chi è quasi alla soglia della indigenza?

Luigi Celebre

BERSANI COME PRODI

APPUNTAMENTI LUGLIO OGGI E DOMANI HOTEL ADMETO - SELINUNTE (TP) Summer School Sicilia

LE VERITÀ NASCOSTE

Nella morsa dell’onda Aguzzate la vista: sommerso da una nube di spruzzi c’è Yuri Farrant, il surfista che ha cavalcato questo “mostro” marino. Siamo sull’isola di Maui, alle Hawaii, alla spiaggia di Jaws (“morsa“, in inglese), dove una particolare conformazione del reef oceanico consente la formazione di cavalloni alti anche 21 metri

Bersani glissa sugli scandali interni del Pd e, come al solito, preferisce generalizzare dando l’onere della risoluzione di problemi equivalenti al sistema politico e alle istituzioni. Un modo di fare scontato e controproducente, che ricorda il Prodi di molti anni fa, che di fronte a fatti scontati dava risposte scontate. Quando capiremo che questo procedere è come avere una barca dove due marinai remano in senso diametralmente opposto, sarà troppo tardi.

Bruno Russo


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grandangolo Il killer norvegese si è scagliato contro il pensiero dell’autore

Io, citato da Breivik vi dico: lui non sarà un’eccezione

Il terrorismo di Berhiring Breivik mira a richiamare l’attenzione sulle sue idee politiche. E in questo ha almeno tre precedenti: Ted Kaczynski (Unabomber), Timothy McVeigh, l’attentatore di Oklahoma City e Baruch Goldstein, l’autore della strage di Hebron. Il mondo deve capire che è cominciata una nuova sfida. E correre al più presto ai ripari di Daniel Pipes a lontano la Scandinavia potrebbe sembrare idilliaca, un po’ per le famiglie reali e un po’ per i capi di governo che girano quasi senza scorta, ma ha avuto la sua bella dose di violenza, dall’assassinio del premier svedese Olof Palme a due massacri perpetrati in altrettante scuole finlandesi in un solo anno, rispettivamente con otto e dieci vittime. In altre parole, la furia omicida di Anders Behring Breivik di certo non è stata senza precedenti. In passato, si è avuta la magra consolazione di sapere che azioni simili - fortemente squilibrate - sono state perpetrate da individui che risentivano dell’influenza d’ideologie estremiste. Non è così per Behring Breivik. Questo terrorista annovera tra i suoi autori preferiti George Orwell, Thomas Hobbes, John Stuart Mill, John Locke, Adam Smith, Edmund Burke, Ayn Rand e William James. La mancanza di connessione fra il tradizionale conservatorismo politico di Behring Breivik e il suo squilibrio mentale presenta una sfida e un dilemma, del tutto nuovi e terribili.

D

Detto questo, non c’è motivo di pensare che Behring Breivik abbia un solo seguace o che un altro conservatore lo emulerà, massacrando dei socialisti. Questo non è mai accaduto prima e probabilmente non si ripeterà ancora. Si tratta di un’eccezione anomala e raccapricciante.Tuttavia, questa eccezione dice ai conservatori che bisogna essere

consapevoli di un pericolo a cui prima non si era mai pensato. Ci si può opporre ai socialisti, ma non si può diffamarli. Visto come Behring Breivik ha pianificato meticolosamente non solo l’attentato dinamitardo, facendo esplodere la

L’intento dello stragista? Mettere i bastoni fra le ruote a chi ostacola la sua rivoluzione

sto del 1995, “Industrial Society and Its Future”. A dire il vero, il legame esistente tra i due è molto stretto: Hans Rustad documenta come Behring Breivik abbia ampiamente plagiato Kaczynski, cambiando solo alcune parole chiave. A entrambi si aggiungano Timothy McVeigh (l’attentatore dinamitardo di Oklahoma City del 1995) e Baruch Goldstein (l’autore della strage di Hebron del 1994) e si hanno quattro clamorose eccezioni alla regola dominante delle stragi di massa islamiste. Un sito web, TheReligionOfPeace.com, enumera 17.500 attentati terroristici in nome dell’Islam negli ultimi dieci anni; arguendo che si arriva a circa 25.000 dal 1994.

sua furia omicida, ma ha anche progettato di postare in rete un manifesto e un video, e considerato il suo intento di trasformare il processo a suo carico in un teatro politico, in ultima analisi il terrorismo di questo giovane norvegese sembra mirare principalmente a richiamare l’attenzione sulle sue idee politiche. Infatti, nella sua prima apparizione davanti alla corte – il 25 luglio – secondo quanto riportato dall’Associated Press, il giovane ha presentato la sua furia violenta come «un’operazione di marketing» per il suo “Manifesto 2083 – A European Declaration of Independence”. In questo modo, Behring Breivik assomiglia all’Unabomber Ted Kaczynski, che è ricorso alla violenza come un mezzo per far conoscere il suo manife-

Abbiamo però a che fare con due ordini di grandezza ben diversi. Come osserva David P. Goldman, «c’è un mare di differenza tra l’uso organizzato dell’orrore da parte dei movimenti terroristici e le depravate azioni individuali». Sì, è vero, dobbiamo preoccuparci altresì per la violenza non-islamista, ma la varietà islamista prevarrà, ed essendo un movimento estremista vitale, continuerà a perseguire il suo intento. Ravi Shankar, caporedattore del New Indian Express, scrive: «Quello che è accaduto a Oslo venerdì potrebbe essere la fase iniziale di una nuova guerra civile: europei che si combattono gli uni con gli altri, musulmani e cristiani». E potrebbe anche avere ragione. Come da me sostenuto in un’analisi del

2007, «Le spiacevoli opzioni dell’Europa», il futuro del continente potrebbe consistere nell’islamizzazione o in un protratto conflitto civile. Ho tratteggiato la possibilità che degli europei autoctoni – che costituiscono il 95 per cento della popolazione del continente – un giorno si sveglieranno e si faranno avanti. Diranno “Basta!” e reclameranno il loro ordine storico. Ciò non è così remoto: un sentimento di stizza tra gli europei, meno tra le élite che tra le masse, contesta con veemenza i cambiamenti già in corso. Anche se ha attaccato i socialisti, e non i musulmani, Behring Breivik prova chiaramente questo sentimento di stizza. Più in generale, s’inserisce in un contesto di crescente violenza tra cristiani e musulmani, visibile dalla Nigeria all’Iraq sino alle Filippine. Non c’è da meravigliarsi che Behring Breivik appartenga alla scuola ”dell’Islam è malvagio” come ha spesso evidenziato nel suo manifesto: «…un Islam tollerante è una contraddizione, e la “creazione” di un passato tollerante per l’Islam allo scopo di rabbonire la posizione dei musulmani progressisti è una bugia. (...) per eliminare la violenza dall’Islam occorrerebbe liberarsi di due cose: del Corano come parola di Allah e di Maometto come profeta di Allah. In altre parole, per placare l’Islam bisognerebbe trasformarlo in qualcosa che non è. Oggi, l’Islam è ciò che è da quattordici secoli: violento, intollerante ed espansionisti-


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Il killer nuovamente interrogato. Preparava altri attacchi

La Norvegia piange la generazione perduta del 22 luglio di Martha Nunziata

Dall’alto: il disegno di Bleibel Hassan (illustratore libanese); Ted Kaczynski, alias Unabomber; Timothy McVeigh (strage di Oklahoma City) e Baruch Goldstein (strage di Hebron). A sinistra: Breivik molto più elastico di quanto la gente possa comprendere. (…) Eliminare la Shari’a (e tutti gli aspetti politici) dall’Islam è semplicemente impossibile».

Questa posizione si differenzia diametralmente dalla mia che sostiene che “l’Islam radicale è il problema, e quello moderato la soluzione”. Pur condividendo avversari comuni, queste due visioni dissentono sulla natura dell’Islam, sulle sue potenzialità di cambiamento e sulla possibilità di allearsi con i musulmani. Oltre ad aver massacrato dei norvegesi innocenti, Behring Breivik ha danneggiato il conservatorismo, il contro-jihad e (in particolare) quegli autori da lui citati nei suoi scritti, incluso me. Una lettura attenta del suo manifesto rivela che questo potrebbe essere stato finalizzato. Notando che la sua ex-appartenenza al Partito del Progresso norvegese danneggerebbe quest’ultimo, il giovane esprime la sua soddisfazione perché ciò aiuterà i suoi obiettivi rivoluzionari: «Prevedo che i media norvegesi perseguiteranno e mineranno il Partito del Progresso per il mio precedente coinvolgimento nell’organizzazione. Questa non è una cosa negativa, giacché un numero crescente di norvegesi vedrà in seguito distrutte le proprie “illusioni di un cambiamento democratico”(se il Partito del Progresso è annientato dai media multiculturalisti) e preferirà fare ricorso alla resistenza armata». In uno spirito simile, Breivik continua: «L’America come forma di governo ha fatto fiasco, e grazie agli dei per questo».

La tragedia di Oslo potrebbe essere il terribile inizio di una nuova guerra civile co. È una follia pensare che noi, nel corso di pochi anni o decenni, saremo in grado di cambiare la visione del mondo nutrita da una civiltà straniera. La natura violenta dell’Islam deve essere accettata come un dato di fatto. Molti conservatori culturali moderati lasciano intendere che vietare l’applicazione della Shari’a risolverà tutti i nostri problemi e costringerà i musulmani a integrarsi. Purtroppo, l’Islam è

Per estensione, Behring Breivik potrebbe aver voluto danneggiare quegli analisti dell’Islam citati nel manifesto. Mi definisce un“moderato”, che ovviamente non è inteso come un complimento, e boccia perfino i più intransigenti critici dell’Islam perché, a suo dire, mancano di coraggio: «Il motivo per cui gli autori di temi legati all’Eurabia e/o all’islamizzazione – come Fjordman, Spencer, Bat Ye’or, Bostom, etc. – non discutono attivamente di deportazione è dovuto al fatto che questo metodo è considerato troppo estremo (e pertanto danneggerebbe la loro fama). (…) Se questi autori hanno paura [sic] di diffondere una rivoluzione conservatrice e la resistenza armata, allora lo faranno altri autori». Behring Breivik spera di mettere il bastone tra le ruote a chiunque è da lui visto come un ostacolo alla sua chimerica rivoluzione. E almeno temporaneamente c’è riuscito.

l dolore e la rabbia, la commozione e l’indignazione. Sono i sentimenti duplici che vive la Norvegia, in queste ore: un paese in lutto, a cui è stata rubata l’innocenza. Straziante il dolore per chi non c’è più e rabbiosa la collera per chi, verso quelle vittime, quei giovani, inermi e indifesi, non ha avuto alcuna pietà, mentre infieriva con armi automatiche e freddezza mostruosa. Ieri tutta la Norvegia, a una settimana esatta dalla strage di Oslo e Utoya, ha pianto le 76 persone uccise dal delirio di Breivik del 22 luglio, con le bandiere esposte a mezz’asta in tutto il Paese per commemorare le vittime. Tra i primi funerali quelli di Bano Rashid, una 18enne di origini curdo-irachene, la prima di una lunga e dolorosa serie di esequie, alla presenza del ministro degli Esteri, Jonas Gahr Store. Alla veglia il primo ministro Jens Stoltenberg, che ha definito tutti i ragazzi assassinati «i nostri eroi, che non dimenticheremo mai». E poi ha sottolineato, ancora una volta, che «i proiettili che hanno ucciso la nostra gioventù hanno anche ferito la nostra democrazia, che però reagirà più forte di prima. Il 22 luglio - ha spiegato - è uno spartiacque. Ci sarà un prima e un dopo, ma la Norvegia che vedremo sarà ancora più aperta e tollerante».

I

Intanto, Breivik, reo confesso, che rischia 30 anni di carcere, in quanto i magistrati propendono per l’ipotesi di incriminarlo per il reato di crimini contro l’umanità, contro i 21 previsti dal codice penale norvegese per terrorismo, è stato interrogato ieri mattina al quartier generale della polizia della capitale norvegese per la seconda volta. Il killer è stato trasferito dal carcere di massima sicurezza di Ila, a bordo di un autoblindo dai vetri oscurati, per evitare che la folla, come accaduto sabato scorso, tentasse di linciarlo. Breivik sarà sottoposto, nelle prossime settimane, ad una perizia psichiatrica, da parte di due specialisti scelti dalla procura di Oslo. I risultati, come ha dichiarato al termine dell’interrogatorio, il Procuratore Capo Paal-Fredrik Hjort Kraby, dovranno essere depositati entro il primo di novembre, così da consentire l’istruzione del processo forse già entro la fine dell’anno: nei giorni scorsi, al contrario, si era ipotizzato l’inizio del procedimento non prima del 2012. Breivik, secondo quanto rivelato dal suo

avvocato, subito dopo l’interrogatorio, aveva progettato altri attacchi nel giorno in cui ha compiuto la strage: «Quel venerdì - ha detto il legale ad un giornale norvegese - aveva più progetti di diversa portata».

Emergono, nel frattempo, anche particolari tecnici, secondo gli investigatori: il 22 luglio Breivik parcheggiò la Volgswagen Crafter carica di mezza tonnellata di esplosivo, a base di nitrogeno, proprio davanti all’entrata dell’ufficio del primo ministro. Erano le 3 e 20 del pomeriggio: esattamente due minuti dopo, la bomba esplose e devastando il centro di Oslo. Mentre un’altro minivan, un più piccolo Fiat Doblò, è stato utilizzato da Breivik per allontanarsi dal centro di Oslo. È la ricostruzione degli istanti prima dell’attentato di Oslo, riportata dal quotidiano Telegraph, secondo cui le guardie poste davanti al palazzo del governo notarono il 32enne ma non si allarmarono perché indossava una divisa da poliziotto. E anche sull’isola la divisa trasse in inganno. Il killer, intanto, secondo l’agenzia Ria Novosti, sembra abbia seguito un programma di addestramento in un campo paramilitare segreto a Minsk, in Bielorussia. Lo scopo degli investigatori, poi, proprio sulla base delle dichiarazioni di Breivik, è stato quello di escludere l’eventualità di complici: in particolare, i magistrati stanno analizzando la presenza di una possibile rete di fanatici pronti a colpire, anche se negli ambienti della polizia norvegese si pensa più ad un delirio solitario di Breivik. Anche se rimangono alcune zone d’ombra da chiarire, come ad esempio come mai avesse un walkie talkie, e anche l’uniforme indossata dall’assassino sull’isola, che ha tratto in inganno il guardiano di Utoya, era stata probabilmente acquistata all’estero e aveva anche un logo della polizia norvegese, anche se non è chiaro come Breivik se lo fosse procurato. Di tutt’altro spessore, invece, è il rischio di emulazioni, in Norvegia e nel Vecchio Continente: per questo che l’Europol ha istituito un centro operativo di esperti di intelligence, di esplosivi e di terrorismo internazionale, offrendo così massimo sostegno alle autorità norvegesi.


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mondo

La Spagna alle elezioni il 20 novembre, il Parlamento verrà sciolto a settembre. Il leader: «Non mi ricandido»

L’addio di Zapatero Il premier cede alle pressioni causate da crisi e disoccupazione e anticipa il voto di Antonio Picasso a Spagna chiude anche il capitolo Zapatero. Ieri, con un annuncio parzialmente a sorpresa, il primo ministro ha dichiarato che il Paese sarà chiamato a rinnovare il Parlamento il prossimo 20 novembre. Il giorno coincide con la data del 36 esimo anniversario della morte di Francisco Franco. Ma questa è una pura coincidenza, come ha fatto notare lo stesso Primo ministro. All’appuntamento elettorale il leader del Partito socialista (Psoe) non si candiderà. Per questo la sua decisione è stata accolta solo in parte come inattesa. Già all’inizio di aprile, Zapatero aveva confermato la linea di molti tra i suoi predecessori che hanno governato la Spagna. Vale a dire quella di restare al potere per non oltre due legislature. Aznar ne è stato l’ultimo esempio. Attualmente l’ex premier conservatore è nel board del News Corp, la multinazionale di proprietà di

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Con le Cortes rinnovate e una vittoria elettorale, i socialisti sperano di avviare un piano di risanamento che contenga le perdite attuali Rupert Murdoch. Quel che non ci si aspettava era l’ennesima anticipazione del voto. El Pais in questo senso è molto critico. Per la quinta volta dalla ricostruzione della democrazia, il Paese si trova ad affrontare una legislatura che termina prematuramente. Non è un segnale di normalità politica. Lascia intendere il giornale conservatore. Soprattutto in un momento di evidente recessione. Un termine che la stampa iberica non è avara di adottare.

La scelta, tuttavia, è stata spiegata dallo stesso Zapatero. Durante la conferenza stampa di ieri, il premier ha sottolineato la necessità per il Paese di entrare in una fase di ricostruzione economica, dopo gli inciampi in cui è caduto nell’ultimo biennio. La Spagna, al momento, è in recupero di ossigeno dopo la crisi. Gli indicatori economici mensili e trimestrali appaiono nuovamente positivi. Da sottolineare soprattutto il dato di arresto della disoccupazione. A giudizio del premier, il voto di novembre potrebbe permettere di far approvare, a settembre, un pacchetto di leggi utili alla ripresa, e di far insediare il nuovo governo a inizio del 2012, in tempo utile per affrontare il nuovo esercizio economico. In tal caso, Zapatero pensa di poter passare le redini direttamente al suo vice, Alfredo Perez Rubalcaba, già

A sinistra: Zapatero; A destra: un’immagine delle passate elezioni; Alfredo Pérez Rubalcaba, prossimo candidato del Psoe e il leader del Partito Popolare Mariano Rajoy

L’opposizione ha già pronto un calendario di marcia

E il Partido Popular adesso spera... Mariano Rajoy: «Siamo pronti». La sfida comincerà dalle isole Canarie di Luisa Arezzo l presidente del Partido Popular, Mariano Rajoy confida di poter governare «al centro, con i moderati e per un cambio netto» e ha accolto con soddisfazione la «buona notizia» di anticipare le elezioni da parte del premier socialista Josè Luis Rodriguez Zapatero. Il leader dell’opposizione ha detto che la sua formazione politica «è proiettata a diventare la protagonista di un cambio di marcia» inequivocabile e duraturo e che sta già lavorando «per affrontare la crisi, superarla e creare nuovi posti di lavoro». Nella sua prima conferenza stampa dopo l’annuncio di Zapatero, Rajoy ha sotterrato l’ascia di guerra (almeno momentaneamente) e si è dimostrato disponibile a «parlare di futuro» con chi ha mostrato di aver compreso il desiderio della maggioranza del popolo di tornare alle consultazioni elettorali per dare una nuova chance al Paese. Insomma, un invito all’unità, destinato anche alle fazioni interne al PP, che non sempre sono stati concordi. Rajoy ha annunciato un primo programma di marcia, a partire

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dal mese di settembre. Quattro grandi convention utili a far sentire la nuova voce della Spagna. Si comincia il 9 e il 10 settembre nelle Isole Canarie, dove ha convocato un foro sull’occupazione e le politiche sociali. Poi sarà la volta di Madrid, la capitale, dove il 16 e il 17 toccherà il delicatissimo tema delle autonomie.

Zaragoza, il 23 e 24, per parlare del settore pubblico e infine nuovamente la capitale per annunciare il nuovo programma sull’istruzione. Per la presentazione del programma elettorale, bisognerà invece attendere la tre giorni dal 7 al 9 di ottobre. In questo caso sarà Malaga, roccaforte del Partido Popular, la cornice della Convención Nacional. Un appuntamento nell’aria già da settimane, e dato quasi per certo dopo che il 20 luglio scorso Rajoy aveva scaricato (o come scrivevano i giornali spagnoli, sacrificato) il potentissimo presidente della regione di Valencia Francisco Camps (peraltro appena rieletto nel maggio scorso con una valanga di voti) sull’alta-


mondo

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e progressismo. «Noi non siamo marionette nelle mani di politici e banchieri». È stato lo slogan più letto tra i cartelli degli Indignados. Il nemico è un tandem composto da Stato e sistema finanziario che ha illuso la popolazione di poter vivere al di sopra delle proprie disponibilità. Disoccupati di ogni età e settore, piccoli imprenditori, casalinghe, immigrati. La folla che ha animato la primavera madrilena è apparsa trasversale da un punto di vista sociologico, ma ben precisa come fascia fiscale di appartenenza. È la Spagna dei piccoli risparmiatori quella che si è rivoltata. Quella che aveva votato Aznar prima e che, per un desiderio di alternanza, si era orientata verso i progressisti nel 2004. Il 22 maggio appena passato, questo sentimento popolare si è tradotto nella peggiore sconfitta elettorale vissuta dai socialisti alle amministrative. Quel 27,8% di preferenze, dieci punti in meno e soprattutto un scarto di due milioni rispetto al Partito popolare, hanno fatto da foglio di via per Zapatero. Non è escluso che sia lo stesso anche per il resto del suo movimento. Il 20 novembre, in fondo, è molto vicino. Sono difficili gli spazi di recupero per Rubalcaba.

rono molti analisti spagnoli. Proprio in vista delle elezioni e per evitare scandali che avrebbero potuto rivelarsi controproducenti.

Soprattutto dopo le enormi manifestazioni degli “Indignati”, il movimento spontaneo che da metà maggio ha portato in strada decine di migliaia di persone e che aspira a cambiare la democrazia spagnola. E che secondo molti sarebbe adesso pronto a scendere in campo con una nuova sigla politica, un’eventualità che spaventa tutti. Secondo José Félix Tezanos, professore di sociologia alla Uned, «il 15-M può riuscire a integrarsi nel sistema attraverso la creazione di un partito politico o grazie a un’altra forma di partecipazione che rappresenti un’alternativa reale. Altrimenti può degenerare in violenze simili a quelle viste in Grecia». Tezanos, legato al Psoe tramite la rivista Temas, mostra ottimismo solo a condizione che la classe politica anteponga il consenso alle differenze e, attraverso l’unità, «cambi il modello economico da capo a piedi». Con o senza il permesso delle autorità comunitarie. Va però detto, che la modifica delle strutture del sistema finanziario e la fine degli eccessi delle banche hanno fornito la base per la nascita del movimento di protesta. Ma questo, secondo molti esperti spagnoli, è ancora lontano dal ricomporsi in una struttura politica organizzata.

La Convención Nacional del Pp è stata indetta a Malaga dal 7 al 9 ottobre, per presentare il nuovo programma elettorale. Al primo posto: lotta alla corruzione re della nuova era del Pp. Implicato nello scandalo Gürtel (dal nome in tedesco del principale colpevole, Francisco “Correa”– cintura), un caso di corruzione che ha coinvolto i dirigenti regionali del Pp e alcuni imprenditori che venivano favoriti nell’assegnazione degli appalti, Camps ha cominciato un braccio di ferro con la direzione del Partito popolare e il suo leader. Braccio di ferro che lo ha però portato alle dimissioni mettendo fine al suo “dilemma”: accettare di ammettere la propria colpevolezza e pagare una multa per evitare il processo o dare le dimissioni per difendersi in tribunale dato che «si considera innocente». «il Partito popolare ha finalmente pagato dazio al nuovo mercato dell’esemplarità» commenta-

ministro dell’Intero e ora leader entrante del Psoe. Appena venti giorni fa, Rubalcaba si è dimesso dagli incarichi dell’esecutivo proprio in vista della campagna elettorale. Con le Cortes rinnovate e una vittoria elettorale, i socialisti sperano di avviare un piano di risanamento che contenga le perdite attuali. Quello odierno, infatti, resta un senso di ottimismo meramente congiunturale.

Al di là degli indici più attuali infatti, la Spagna, con i suoi quasi 900mila disoccupati tra i giovani, resta il Paese con il dato peggiore nel comparto. Alla Moncloa, residenza ufficiale del presidente del Consiglio spagnolo, sono ben consapevoli della fragilità del momento. In realtà, le previsioni di un terzo mandato per i socialisti sono molto ridotte. La crisi in cui è caduto il Paese ha dato nuove chance di vittoria al Partido popular guidato da Mariano Rajoy, a suo tempo numero due del governo Aznar. Sempre El Pais è impietoso nei confronti del premier. Fin de la legislatura horribilis, ha scritto ieri a commento della dichiarazione di Zapatero. Il calcolo del premier è impostato sul desiderio di far ricadere unicamente sulle sue spalle tutte le responsabilità dei difficili momenti economici vissuti dal Paese. Così facendo, in teoria, l’elettore dovrebbe dimenticarsi del resto della sua compagine governativa e concederle la possibilità di un terzo mandato. Dell’opinione pubblica spagnola si sanno le idee più recenti. Idee tutt’altro che rassicuranti per il Psoe. Le manifestazioni di metà maggio degli Indignados hanno messo in luce il desiderio, soprattutto nutrito dalle nuove generazioni, di creare un nuovo modo di fare politica. Sentimento diffuso tra molti giovani in Europa. Lo si è visto anche in Italia con i referendum di metà giugno. Se non una democrazia diretta, almeno si punta a una maggiore partecipazione. Il che esula da qualsiasi colorazione ortodossa di destra o sinistra, come pure di conservatorismo

Soprattutto perché i popolari forse hanno intuito i desideri dell’elettorato. Alle amministrative, infatti, si sono presentati con proposte di decentramento fiscale in favore delle regioni.Tant’è che sono riusciti a espugnare il feudo socialista di Castilla-La Mancha. Il dubbio è che si tratti solo di un tatticismo. Attribuire più potere agli enti locali è nel Dna della Spagna postfranchista, ma non specificatamente per i

Le manifestazioni di metà maggio degli “Indignados” hanno messo in luce il desiderio, soprattutto giovanile, di creare un nuovo modo di fare politica conservatori. Del resto, se si vuole in qualche modo trovare una quadratura del cerchio tra i desideri della piazza e le inevitabili rigidità di un potere che deve essere tenuto da una classe dirigente, Madrid è costretta a ingegnarsi in sperimentalismi.

Per la Spagna è comunque la fine di un’era. Nel 2004, Zapatero aveva assunto gli abiti di un Tony Blair latino-continentale. Peraltro quando il premier britannico aveva già imboccato la sua parabola discendente. L’enfant prodige della politica madrilena era diventato premier a solo 44 anni. Stessa età dell’assunzione dell’incarico per Aznar, nel 1996. Oggi questo ricambio generazionale sembra essersi interrotto. Rubalcaba è nato nel 1951. Rajoy è appena quattro anni più giovane. Questo porta a pensare che i giovani Indignados – molti dei quali erano rimasti affascinati dalla spregiudicatezza delle iniziative di Zapatero, soprattutto in campo etico – potrebbero non identificarsi con qualsiasi dei due concorrenti alla premiership spagnola. Entrambi sono evidentemente fin troppo inseriti nei gangli istituzionali. Da qui il timore che le richieste della piazza, spesso difficili da realizzare, siano altrettanto complesse nella comprensione. Zapatero lascia il potere per lubrificare la ripresa economica del Paese. Non è detto che la sua personale uscita di scena sia sufficiente.


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Da presidente o da premier, (insieme a Medvedev) il leader vuole governare la Russia per trent’anni. Più del tiranno obiettivo: superare il record di Breznev e puntare dritto a quello di Stalin. Record di longevità politica, s’intende. In un Paese dove il potere si misura non tanto con le cariche ufficiali e i titoli quanto con l’effettivo controllo dell’apparato dello Stato, dell’economia, delle forze armate e dei servizi segreti, il vero sogno di Vladimir Putin è proprio questo: rimanere al comando il più a lungo possibile. Legare indissolubilmente il suo nome alla storia della Russia postcomunista. Da presidente o da premier poco importa. Anzi, quando c’era l’Urss andavano di moda le troike: c’era il presidente, il primo ministro e il segretario del Pcus, ma alla fine contava un uomo

L’

Nessuna sfida reale con il «delfino»: solo lui ha alle spalle l’organizzazione del partito. La sua corsa per il Cremlino è in discesa solo: quello che riusciva a dominare gli altri. In genere tenendo in mano le redini del partito. Adesso la formula non è più la stessa, ma la sostanza non è cambiata. Al Cremlino c’è un tandem: a nessuno sfugge, però, che l’uomo forte non è quello che, sulla carta, ha il titolo più importante, Certo. Il gospodin presidient, il signor presidente, si chiama

Dmitri Medvedev, ma l’ultima parola, la decisione finale sulle grandi scelte internazionali come sui più delicati affari interni spetta a lui, a Vladimir Putin che nella sua duplice veste è già in sella da dodici anni. Due mandati da presidente dal 2000 al 2008, più un mandato da premier che sta per scadere assieme a quello di Medvedev. Nel marzo del 2012 ci saranno le elezioni presidenziali ed è molto probabile che di fronte a Putin si apriranno le porte di un altro mandato da presidente che potrebbe anche diventare ancora una volta doppio (la Costituzione non consente più di due mandati consecutivi di 4 anni) portando, così, a vent’anni anni il saldo finale del suo regno. Leonid Breznev sarebbe superato: il paladino della stagnazione rimase al potere per diciotto anni, dal 1964 al 1982. Ma Josip Stalin sarebbe ancora lontano: il piccolo padre è stato padrone dell’Urss dal 1924 al 1953: ventinove anni. Imbattibile? Non proprio, se Putin riuscisse a sfruttare ancora il metodo del tendem presidente-premier che ha già sperimentato con successo.

Tutti si chiedono se nelle prossime elezioni presidenziali ci sarà la sfida diretta tra Medvedev e Putin. Ma la domanda è mal posta. Perché se Vladimir Putin dovesse decidere di candidarsi alla presidenza, la sua sarebbe una marcia trionfale verso l’ufficio al quarto piano del Cremlino. Altro che sfida: le possibilità di vittoria di Dmitri Medvedev sarebbero minime, senza un partito alle spalle, senza l’appoggio dei siloviki – i funzionari ex Kgb che Putin ha messo a dirigere i gangli dello Stato – e senza il sostegno dei militari. Per Medvedev l’unica speranza di essere rieletto presi-

La strategia in vista delle prossime elezioni

Lo zar Putin ha una meta: durare più di Stalin di Enrico Singer dente dipende da un’ipotesi che può sembrare assurda, ma che non lo è poi tanto: la voglia di Putin di prolungare il suo potere effettivo scegliendo di esercitarlo per altri quattro anni da primo ministro. Confermando il tandem, insomma. Con un nuovo patto di sangue con Dmitri Medevedv che, in cambio degli onori di un secondo mandato da presidente, dovrebbe assicurare fedeltà e rispetto al vero capo del Cremino. Con la stessa divisione dei ruoli decisa nel 2008. Al tecnocrate Medvedev, liberista e garantista, il compito di mostrare all’Occidente il volto dialogante della

nuova Russia. Ma con le leve delle decisioni strategiche – dalla guerra in Georgia alla linea da seguire con Gheddafi o Bashir el Assad, fino ai contratti del gas e del petrolio – saldamente in pugno a Putin. Non ci vorrà molto per scoprire se questa è soltanto fantapolitica. A Mosca i bene informati si attendono per settembre, al massimo per ottobre, quelle che vengono definite le “decisioni” di Putin e Medvedev sulle loro rispettive candidature. Del resto le elezioni presidenziali sono previste per marzo 2012, ma già nel dicembre di quest’anno ci saranno le elezioni per il rinnovo della


scenari

Duma, il Parlamento russo, che saranno la prova generale della partita per il Cremlino. E il braccio di ferro tra i due si fa più serrato per vedere se sarà davvero possibile arrivare a un nuovo accordo o se ci sarà la rottura.

In questi ultimi mesi i segnali di una divaricazione crescente tra Medvedev e Putin si sono moltiplicati lasciando immaginare che lo strappo sia ormai consumato e che i due finiranno comunque per sfidarsi. Sono nati anche dei comitati – animati soprattutto da economisti – che appoggiano la ricandidatura di Dmitri Medvedev mentre i fedelissimi di Vladimir Putin lavorano alla creazione di un Fronte popolare che dovrebbe allargare i consensi attorno al partito Russia Unita (lo stesso che indicò Medvedev come candidato al Cremlino nel 2008 e di cui Putin è presidente). Ma dietro queste grandi manovre che sembrano preparare lo scontro, si tratta a oltranza. Il più recente confronto tra Medvedev e Putin si è acceso sulle commesse del ministero della Difesa: terreno letteralmente minato in cui si muovono interessi economici enormi. Il ministro Anatoly Serdyukov, protetto da Vladimir Putin, è stato messo sotto accusa da Dmitri Medvedev che gli ha posto un ultimatum, scandalizzato dalla mancata conclusione dei contratti per aggiornare le tecnologie militari. «Se i prezzi dei produttori russi sono cari, il ministero può rivolgersi per le nuove commesse direttamente a fornitori esteri», aveva detto a muso duro Medvedev invitando Serdyukov a una verifica che scadeva martedì scorso. Ma è intervenuto Putin che ha giustificato l’impennata dei prezzi del materiale bellico di produzione russa con l’inflazione e ha guadagnato ancora un mese per l’inchiesta di Serdyukov. Quest’ultimo aveva spiegato di non avere concluso i contratti – per la

cifra record di 100 miliardi di rubli – a causa della crescita selvaggia dei prezzi di alcuni tipi di prodotti forniti dell’industria militare nazionale. Medvedev, però, era stato perentorio e aveva chiesto di analizzare i contratti uno per uno. «Si tratta di un sacco di soldi dello Stato e non si possono comprare schifezze», aveva detto. La verifica doveva concludersi in 15 giorni, ma Putin ha spostato scadenza al 31 agosto per dare tempo a un compromesso.

Il business dell’industria militare è uno dei più ricchi di Russia. La competizione tra le lobby che ruotano intorno alla difesa è molto forte e l’intervento personale di Putin non rappresenta soltanto il prevedibile aiuto a uno dei gruppi più potenti che tradizionalmente lo sostengono: è anche l’ennesima dimostrazione che il potere reale è nelle sue mani perché da primo ministro si è inserito in questioni che, teoricamente, non lo riguarderebbero dal momento che la difesa è di competenza del presidente. Anche dall’esito di questa vicenda, tra poco più di un mese, si potrà capire se il tandem avrà ancora un futuro oppure no. Ma anche se, come sostengono molti analisti politici russi, Putin non si fida più di Medvedev e annuncerà la sua candidatura alle presidenziali, questo non vorrà dire automaticamente che il tandem sarà condannato in assoluto come metodo. In fondo finora ha funzionato. Ha consentito a Vladimir Putin di continuare ad esercitare il potere reale per altri quattro anni, dopo i primi due mandati consecutivi da presidente, aggirando così il divieto del terzo mandato previsto dalla Costituzione che lui stesso aveva fatto approvare. E gli consentirà – a meno di clamorose sorprese – di essere rieletto presidente nel marzo del 2012. In questo caso, naturalmente, spezzato il patto con Medvedev, Putin dovrà scegliere un nuovo primo ministro e le voci concordanti a Mosca dicono che sarà un altro riformista che, magari nel 2016, potrebbe rinnovare l’esperimento del tandem per prolungare il regno di Putin al Cremlino. Oggi Vladimir Putin ha 59 anni. È nato il

7 ottobre del 1952 ed è in piena forma fisica, come dimostra anche sul tatami delle arti marziali – è cintura nera di karate – e ha di fronte a sé, o almeno si augura di avere, ancora una lunga carriera che potrebbe consentirgli di battere anche il record di longevità politica di Stalin. Soprattutto se, come sostengono molti storici dell’Urss, la vera data d’inizio dell’era staliniana più che il 1924, la morte di Lenin, deve essere considerato il 1928, dopo la liquidazione di Trockij, nel 1926, e la cancellazione della Nep con l’avvio della collettivizzazione forzata e la costruzione di un sistema di potere assoluto finito soltanto con la sua morte, il 3 marzo del 1954. Ma Putin di tutti questi riferimenti storici non si cura: l’importante per lui è mantenere il potere. Chi gli è vicino racconta che Vladimir Vladimirovic «non immagina la

Secondo un giornale, Medvedev avrebbe richiesto ai grandi oligarchi di schierarsi pro o contro di lui in vista della prossima sfida per il voto sua vita fuori dal Cremlino». Non è un caso che, nel 2008, quando inventò la staffetta con Medvedev, trasferì l’ufficio di premier dal moderno palazzone della Casa Bianca di Mosca, proprio all’interno del Cremlino – al secondo piano – per sottolineare la pari dignità con il presidente e per rimanere al centro delle decisioni. Anzi, i suoi collaboratori assicurano che l’ufficio di Putin è il «più frequentato», quasi che i compiti di Dmitri Medeved siano soltanto formali. Ovviamente non è proprio così. Medvedev ha cercato di costruire una sua rete di consenso in particolare negli ambienti economici dai quali, come ex presidente di Gazprom, proviene. Secondo il giornale Vedemosti, qualche settimana fa Medvedev avrebbe richiesto ai più influenti oligarchi russi una specie di pronunciamento pro o contro di lui.Voce non confermata, anzi smentita dal suo staff. Ma lo stesso quotidiano economico ha pubblicato un’intervista a due dei più ascol-

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tati consiglieri di Medvedev – Igor Jurgens e Evgeny Gontmakher – che hanno lanciato un vero e proprio allarme che suona come un invito alla sfida. La Russia «rischierebbe la catastrofe» se l’attuale presidente dovesse rinunciare a correre per un secondo mandato lasciando via libera a Putin, hanno detto Jurgens e Gontmakher che gestiscono l’Istituto di sviluppo contemporaneo (Insor) e che hanno elaborato per Medvedev un programma politico per il 2012.

I due sostenitori di Medvedev hanno pronunciato sentenze molto severe. Secondo loro, la «stabilizzazione putiniana è sinonimo di stagnazione, degrado e disastro». E se Putin dovesse tornare presidente la conseguenza sarebbe «fuga dei capitali, emigrazione dalla Russia e aumento dell’estremismo nazionalista». Alla cortina fumogena delle dichiarazioni a effetto si uniscono i sondaggi. I consensi per il presidente Dmitri Medvedev e il premier Vladimir Putin sono al minimo. In particolare Medvedev dalla sua salita al Cremlino non aveva mai registrato un rating così basso: secondo l’istituto demoscopico Fom, controllato dallo Stato, il 43 per cento dei russi ha fiducia in lui, contro il 49 dell’inizio del suo mandato e in drammatico calo rispetto al 62 per cento di consensi toccato a gennaio 2010, il suo risultato migliore. A livelli di guardia anche l’indice di sfiducia per Medvedev che dal 14 per cento dell’inizio dell’anno è salito al 23 per cento. Ma Putin, secondo il sondaggio di Fom , non sta molto meglio: il suo indice di sfiducia è passato dal 13 al 21 per cento e quello di gradimento è sceso al 50 per cento. Nel 2009 Putin godeva di un rassicurante 71 per cento e, ancora prima, da capo del Cremlino aveva toccato anche l’80 per cento. Ma come le bellicose dichiarazioni di guerra, anche i sondaggi vanno presi con le molle. I russi stessi, da tempo, non si fidano delle parole dei discorsi e dei numeri ufficiali. Quello che conta si decide dentro le mura del Cremlino. E Vladimir Putin non ha ancora deciso con quale strategia battere il record di Stalin. O, almeno, quello di Breznev.


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il personaggio della settimana Classe 1962, è stato capace di tenere ferme le redini del nostro sistema finanziario nel momento del bisogno

L’uomo del Monte È giovane, è bravo: ma soprattutto indipendente. Carta d’identità di Giuseppe Mussari, il presidente di Abi e Mps che, con la Marcegaglia, ha unito banche e parti sociali chiedendo al governo una svolta di Marco Scotti n Italia se hai meno di cinquant’anni, sei a capo di uno dei più importanti istituti di credito nostrani e, al tempo stesso, sei presidente dell’associazione che rappresenta tutte le banche, significa che sei davvero un “numero primo”. Un unicum. Essere al timone di una Confederazione comporta sempre grandi responsabilità ma anche, il rischio di qualche eccesso di protagonismo. Se invece si riesce a governare una barca con dentro, al tempo stesso, il Monte dei Paschi di Siena – la più antica banca italiana oltre che terzo istituto del Paese per dimensioni – e l’Abi, l’Associazione Bancaria Italiana, e si riesce a fare tutto questo non solo evitando di far parlare troppo di sé, ma riuscendo addirittura a portare avanti iniziative condivise, allora si è davvero un “numero primo”. E c’è di che applaudire.

I

In queste pagine, alcune immagini di Giuseppe Mussari, presidente di Abi (l’Associazione Bancaria Italiana che raggruppa i principali istituti di credito) e capo di Monte Paschi di Siena, la più antica banca italiana. In alto a destra, uno scatto di Mussari insieme con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti

L’applauso a Giuseppe Mussari – è lui l’unicum in questione – premia anche l’aver saputo mantenere un ruolo “altro”, estraneo ai giochi di potere, in un momento drammatico per l’economia italiana (“almeno finora, e sempre che il potere non lo guasti!”, dice di lui qualche amico che gli vuole bene). Le banche che subiscono i colpi della speculazione e che vengono svalutate giorno dopo giorno, lo spread tra i btp decennali e gli analoghi bund tedeschi che si allarga sempre più, i mercati volatili, i titoli di stato decennali venduti al 5,77 per cento di interesse (massimo dal 2000 ad oggi), la Deutsche Bank che, con colpevolissima mancanza di tempismo, si libera dell’88 per cento dei titoli di Stato italiani in suo possesso – passando da 8 miliardi a 997 milioni – creando l’apprensione di molti. Ebbene, a Mussari va il nostro applauso perché ha saputo eliminare ogni spinta centrifuga nel sistema economico, delle Confederazioni e sindacale italiano, cementandolo in un momento di massima allerta. E, superando le con-

suete spinte centrifughe del sistema economico italiano, ha promosso – d’intesa con Emma Marcegaglia – l’appello congiunto di Abi, Confindustria e sindacati al governo per il rilancio dell’economia. Una prova di polso, ma anche di carisma. Nato a Catanzaro nel 1962, Giuseppe Mussari rimane in Calabria fino al termine del liceo scientifico. Dopodiché si trasferisce a Siena dove si laurea a pieni voti in giurisprudenza. Nel 1993 entra nell’ordine degli avvocati e pochi anni dopo diviene presidente della Camera penale senese. Nel frattempo, entra nel salotto buono della finanza, ricoprendo ruoli di prestigio in società del calibro di Axa e Monte dei Paschi. In particolare, nel 2001 diviene presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena; prestigiosa carica che ha lasciato cinque anni più tardi, per approdare alla presidenza dell’istituto bancario che detiene tuttora. Dal maggio 2007 è anche membro del Supervisory Board di Axa Sa. Incarichi di grande prestigio che fanno da preludio all’Assemblea dell’Abi del 2010, che incorona Mussari all’unanimità come presidente al posto di Faissola. Ma la storia di questa carriera, praticamente travolgente – costruita in una maniera politicamente sobria se non neutra, ancorché compatibile con l’aria di sinistra che si respira a Siena – spiega molto eppure non tutto di un uomo capace di tenere ben strette in mano le redini del sistema bancario nostrano proprio ora che ne ha più bisogno. Vediamo perché.

Se un ipotetico compratore con risorse illimitate volesse accaparrarsi tutte le banche italiane quotate in Borsa, oggi potrebbe riuscirci con un investimento sostanzialmente limitato, di poco superiore ai 70 miliardi di euro. Si dirà: una cifra enorme. E ovviamente lo è. Ma diventa un numero quasi irrisorio se si pensa che solo quattro anni fa, alla vigilia della grande

crisi, quei soldi non erano sufficienti per portarsi a casa Unicredit, la principale banca italiana. Già, perché gli istituti finanziari quotati in borsa hanno perso da inizio anno dal 10 al 50 per cento del proprio valore. Non basta: le due più importanti banche nostrane, Intesa e Unicredit, hanno avuto un calo degli utili rispettivamente del 168 per cento e del 350 per cento. Un tonfo enorme che qualche broker, interrogato in proposito, giustifica con una sopravalutazione iniziale, cui è seguito un fisiologico adattamento che sta portando il loro valore su livelli “normali”. Questo nonostante quasi tutti gli istituti di credito nostrani abbiano brillantemente superato gli stress test – ovvero quei meccanismi attraverso i quali si mettono alla prova le debolezze delle banche in momento di crisi – indetti dalla Banca centrale europea. E, soprattutto, senza che gli istituti finanziari italiani avessero nel loro portafoglio grandi quantità di titoli di Stato greci, declassati giorno dopo giorno dalle agenzie di rating fino a divenire, sostanzialmente, “carta straccia”. Già questa è un’anomalia che avrebbe fatto rizzare i capelli in testa al più navigato dei manager. Eppure Mussari ha saputo reagire con grande solerzia, senza per questo perdere la calma. Ha voluto sottolineare (come ha fatto mercoledì il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini) che le banche sono solide e che, tutt’al più, è il sistema-paese a fare acqua da tutte le parti. Stretto com’è da un debito senza precedenti (la soglia dei 1900 miliardi non è mai stata così vicino) e da una ventennale assenza di riforme strutturali. Se a questa condizione, già di per sé difficile, sommiamo mercati che si mostrano un giorno euforici e il giorno dopo scettici, abbiamo un quadro che inizia a delinearsi. Ma è ancora incompleto. L’aumento incontrollato dello spread tra btp e bund viene preso come mero valore nume-


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Vita di un leader, da Catanzaro a Siena Nato a Catanzaro nel ’62, Giuseppe Mussari rimane in Calabria fino al termine del Liceo scientifico. Dopodiché si trasferisce a Siena dove si laurea a pieni voti in giurisprudenza. Nel ’93 entra nell’ordine degli avvocati e pochi anni dopo diviene presidente della Camera penale senese. Nel frattempo, entra nel salotto buono della finanza, ricoprendo ruoli di prestigio in società come Axa e Monte dei Paschi. In particolare, nel 2001 diviene presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena; prestigiosa carica che ha lasciato cinque anni più tardi, per approdare alla presidenza dell’istituto bancario che detiene tuttora. Dal maggio 2007 è anche membro del Supervisory Board di Axa Sa. Incarichi di prestigio che fanno da preludio all’Assemblea dell’Abi del 2010, che lo incorona all’unanimità come presidente al posto di Guzzetti. Il suo merito più recente è quello di essere riuscito a far sedere intorno a un unico tavolo la quasi totalità dei protagonisti della vita associativa italiana: Confindustria, i sindacati con Cigl, Cisl, e Ugl, l’Abi, Confcooperative, Lega Cooperative, Agci, Confcommercio, Confartigianato, Cna, Casartigiani, Confesercenti, Confapi, Cia, Coldiretti e Confagricoltura.

rico, dimenticando i suoi riflessi sull’economia reale: ogni punto di base (e giovedì siamo tornati a 337) ci costa circa 160 milioni di euro. E ancora, forse il più grave evento recente, la decisione della Deutsche Bank di cedere l’88 per cento dei titoli di Stato italiani in suo possesso. Un fiume di buoni del tesoro immessi sul mercato, provocando uno sconquasso le cui

merito da poco. Il documento prodotto da questa inedita “grande coalizione” evidenzia la necessità di un patto «per la crescita che coinvolga tutte le parti sociali; serve una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti ed una discontinuità capace di realizzare un progetto di crescita del Paese in grado di assicurare la sostenibilità del debito e la creazione

speculazione anche sui debiti pubblici europei. «È una pratica che io vieterei» ha sostenuto. E chi si sente di dargli torto?

Secondo punto a favore di Mussari: un’avversione verso le agenzie di rating e il loro ruolo dannoso per i mercati. In una recente intervista a Cnbc, il presidente dell’Abi, dopo il declassamento da parte di Standard &

Ha saputo mantenere un ruolo “altro”, estraneo ai giochi di potere in un momento drammatico per l’economia italiana dimensioni saranno comprese solo nelle prossime settimane. Torniamo a Mussari. In una situazione così concitata, il suo merito più recente è stato quello di far sedere intorno a un unico tavolo la quasi totalità dei protagonisti della vita associativa italiana: Confindustria, i sindacati (esclusa la Uil si è dissociata, forse un modo per affermare un’identità ormai un po’ anonima) e l’Abi. E nell’Italia dei mille campanili e delle mille divisioni, non è certo un

di nuova occupazione». È stata invocata quella coesione nazionale che si vide nel 1992 all’indomani di Tangentopoli. Un appello condivisibile e necessario, in cui il merito di Mussari appare evidente: aver saputo serrare le fila quando si è mostrata la necessità di farlo. Ma i motivi di apprezzamento per Mussari non terminano qui. Intanto, si è espresso – a titolo personale – contro i derivati di credito, i cosiddetti cds (credit default swap) utilizzati dalla

Poor’s del sistema italiano, ha dichiarato di non condividere un giudizio basato unicamente su ragioni umorali. La penultima previsione era di soli tre mesi precedenti e se in tre mesi «il Paese potesse perdere la strada maestra sarebbe davvero singolare. C’è da riflettere sul sistema di rating». Stesso giudizio è stato espresso dal presidente di Mps dopo la dichiarazione di Moody’s – altro colosso americano di rating – di avere messo sotto i riflettori le banche italia-

ne perché potenzialmente a rischio. Difesa delle banche e del sistema economico italiano non fa rima, in ogni caso, con un’acritica adesione alle politiche economiche nostrane – che negli ultimi 10 anni hanno prodotto una crescita dello 0,25 per cento di media, dati che ci equiparano a Honduras e Haiti – dal momento che Mussari ha sottolineato come sia necessario «disincentivare la crescita col debito, sarebbe un errore clamoroso che metterebbe a rischio la stabilità del Paese. È necessario trovare soluzioni discontinue se vogliamo agganciare una dinamica di crescita più veloce». Dal punto di vista strategico, il presidente di Mps ha sottolineato come sia fondamentale immaginare un sistema nuovo di privatizzazioni e di liberalizzazioni, facendo sì che l’economia italiana si scrolli di dosso lacci e lacciuoli che frenano la ripresa. Il presidente dell’Abi ha invitato il governo a ripartire dalla legge Obiettivo, con l’inaugurazione di almeno venti opere che portino al Paese nuove opportunità di investimento e di sviluppo. Un malcontento nei confronti della politica che è stato rimarcato – nell’intervista a Cnbc – anche dalla ferma volontà di Mussari di non entrarvi né nel presente, né nel futuro. E anche questo è un punto a suo favore. È un manager coraggioso, il presidente di Mps, soprattutto quando ha lanciato un aumento di capitale per il proprio istituto di credito da 2,2 miliardi di euro che si è chiuso il 10 luglio. Nei giorni in cui lo spread tra bund e btp era alle stelle, l’adesione in borsa alla richiesta di Mussari è stata del 99,91 per cento. Con questi soldi si potrà

rimborsare circa 1,9 miliardi di Tremonti bond e risparmiare, nel solo 2011, 160 milioni di euro. Da rimarcare anche la posizione espressa nell’intervista a Cnbc nei confronti dell’Unione Europea: «Immaginare un mondo senza Europa significa immaginare tanti piccoli sassi in un grande stagno, dove ognuno perde la propria identità. Si apre una nuova fase geopolitica, in cui il campo da gioco sarà completamente diverso, con soggetti come India, Cina, Estremo Oriente». Non vi sono alternative all’Unione europea.

Infine, vi sono ancora due motivi per cui Mussari ci risulta – con un termine estremamente “tecnico” – molto simpatico. Il primo si chiama «Paschi Face». E se sentite una certa assonanza con Facebook, non siete caduti in errore. Costato 400 milioni, il nuovo sistema informatico permette di snellire le procedure e, al tempo stesso, di ridurre i costi, rendendo così più semplice la comprensione da parte del cliente delle operazioni bancarie. Il secondo motivo sono i suoi guadagni. In un sistema come quello bancario, in cui i grandi manager guadagnano milioni di euro, il presidente di Mps porta a casa ogni anno 750 mila euro lordi, la metà della media del sistema, dopo un taglio rispetto al 2010 di oltre il 50 per cento. Per carità, siamo ben al di sopra della soglia di povertà, ma è un segnale significativo che Mussari dà all’intero sistema bancario: il momento d’oro delle banche è momentaneamente sospeso, tutti i protagonisti devono, necessariamente, fare un passo indietro. Applausi, per l’appunto.


ULTIMAPAGINA Si chiude domani la New Delhi Fashion Week. Tra modernità, tradizione e stravaganze fruscianti...

Bollywood si mette i tacchi di Roselina Salemi ella terra dove le statue degli Dèi bevono latte e l’acqua del mare diventa dolce, dove una sola città (Mumbai, ex Bombay) vanta 549 grattacieli e il 50 per cento della popolazione ha meno di 25 anni, i miliardari sono già oltre centomila e hanno voglia di glamour. La New Delhi Fashion Week, appuntamento ormai consolidato, racconta una moda in bilico tra passato e futuro, con le tentazioni occidentali e il gusto bollywoodiano dei gioielli e dei ricami, i colori della terra e delle spezie e qualche scandaloso accenno di spalle nude, un fianco che occhieggia, ma niente di troppo sexy.

N

La signora in rosso porta un velo che le copre completamente il visto e ricade su un immenso vestito gonfio. I corpini e le gonne sono principeschi, ma qualche volta sembrano tende lussuose, eleganti confezioni che devono nascondere il corpo, soprattutto le gambe. Guai a osare uno spacco. C’è una maggioranza di abiti da sera - i venti stilisti ospiti si sono concentrati soprattutto su quelli - per matrimoni o ricevimenti: qui, più che in ogni altro luogo, la moda è sogno. E la ricchezza per realizzarlo c’è, già da alcuni anni. Una classe sociale intraprendente e cosmopolita ha cominciato a comprare i gioielli di Bulgari. A viaggiare con valigie Vuitton. A progettare luxury malls, i templi dove abiteranno le nuove divinità: le grandi firme. Che, ovviamente non si fanno pregare. L’India è vicina, più della Cina. Versace è stato tra i primi ad aprire uno spazio monomarca all’interno dell’hotel J.W.Marriott di Mumbai (160 metri quadrati con un po’ di tutto, uomo, donna, casa, accessori. Ferravamo: nove corner in cinque anni.Trussardi è partito da Bangalore. Dior ha scelto New Delhi per la sua boutique nella galleria della moda all’hotel Oberoi, (la madrina è stata Bernadette Chirac). Gucci, Armani e Dior si vendono come il pane. Niente di strano che gli stilisti indiani – molti hanno studiato a Londra o a New York – abbiamo voglia di emergere. Gianfranco Ferré, nel 2005 era stato protagonista, applauditissimo, di uno show-evento sulla tolda di un’ex nave da guerra ancorata nel porto di Mumbai. Le donne ammiravano per le sue creazioni-scultura e i tessuti ricamati, ma lui aveva espresso qualche dubbio sulla possibilità della moda femminile di conquistare questo mercato favoloso eppure e difficile (vedere un notabile in gessato e turbante è più facile che vedere una signora in tailleur). Le donne portano ancora il sari, e la tradizione rimane forte, ma la tentazione fashion è ormai travolgente. Due milioni e mezzo di casalinghe tutt’altro che disperate, sono pronte a spendere, non solo in accessori. Valentino, sbarcato a Mumbai nel 2003 era stato un successo, e molte ragazze avrebbero indossato volentieri uno dei dieci abiti rossi da gran sera, usciti in passerella tra gli applausi (qualcuno era davvero più sexy del previsto). Un paio di fanciulle miliardarie hanno, a modo loro, violato le regole chiedendo all’atelier Valentino di trasformare in indimenticabili abiti da sposa i preziosi sari di famiglia. Con un mercato dell’abbigliamento che vale oltre 50 milioni di dollari, la presenza di un solido fashion system asiatico è solo questione di tempo. Basterà che la moda entri, come ha già fatto il sesso, negli scandalosi (non per noi) romanzi di Shobba Dé, la “loro”Jackie Collins. Che, un passo dopo l’altro, gli stilisti indiani considerati più cool,

A SPILLO

Happening ormai consolidato, la settimana della moda indiana racconta tendenze tra passato e futuro, i colori delle spezie e qualche scandaloso accenno di spalle nude. Ma niente di troppo sexy da Ritu Beri, amata da Nicole Kidman, a Manish Malhotra, ambizioso e colorato designer bollywoodiano, (piaceva a Michael Jackson), spostino l’Oriente verso l’Occidente reinterpretando i canoni del lusso. O che le vagabonde icone della bellezza asiatica decidano di esibire anche in patria i tailleur e gli abiti da sera comprati a ParigiLondra-New York. Waheda Rehman, ex Miss Mondo, copertina di Time, testimonial di Coca, Pepsi e l’Oreal, diventata famosa con il film Matrimoni e pregiudizi, ha un guardaroba europeo dai jeans ai sandali, passando per le borse Dior e Chanel. E se la modella Prya Sachdev si è sposata con un sari rosa antico dello stilista indiano Tarun Tahiliani, nell’appartamento newyorkese il look cambia: Armani, Ferrè e Ralph Lauren lui, Gucci, Chanel e Valentino lei. Mentre la nuovissima star Freida Pinto, consacrata dall’Oscar al film The Millionaire, è tradizionalista nelle attitudini (al cinema non si spoglia) e modernissima nel

guardaroba. Ma, per il principio di Locart, che vale tanto sulle scene del crimine, quanto nella moda, gli stilisti occidentali tornano dall’India portandosi dietro qualcosa. Chi sbircia sulle passerelle di New Delhi, trovando i vestiti forse troppo ingombranti e iperdecorati, si lascia poi suggestionare dai colori delle spezie e dai disegni (Etro), o dai gioielli etno (Bottega Veneta). Trova ispirazione per incredibili scarpe della collezione (Roger Vivier) da 7000 euro al paio.

Da accostare, volendo, a magiche borsine foderate in coccodrillo con cristalli bianchi e oro, oppure rossi, incastonati come le pietre preziose nei gioielli Moghul. Una“Jaipur”l’ha creata anche Jimmy Choo, pensando alla leggendaria Maharani celebrata da Cecil Beaton come una delle dieci donne più eleganti del mondo: sandali di seta rossa con tanto di diamante Koh-i-Nor, ovviamente finto, o smeraldi tagliati a goccia. Le nuove maharani invece sognano un abito senza spalline, con la gonna a fiori, il corpino dorato e il luccichio dell’oro. Ma anche tuniche scampanate e fruscianti, costruite con strati e strati di seta. Il minimalismo è ancora lontano.


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