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he di cronac

Chi si adatta bene alla povertà, evidentemente è ricco Lucio Anneo Seneca

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 3 AGOSTO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Oggi il Cavaliere in Parlamento (che intanto salva Verdini e boccia Milanese)

Napolitano incalza il premier Giù la Borsa. Il Quirinale preoccupato: «Puntare sulla crescita» O Berlusconi presenta un pacchetto serio o l’Italia rischia grosso di Errico Novi

Cinque riforme da fare subito

Ripartire o morire

di Gian Luca Galletti

di Gianfranco Polillo

on è più il tempo di parole in libertà. Oggi Berlusconi, presentandosi alle Camere, ha due alternative. O porta dei fatti concreti o per il Paese saranno guai.

ncora una volta la crisi globale, che ha origine nelle incertezze che guidano l’Occidente, ha colpito duramente. Lo ha fatto in Europa, ma soprattutto in Italia.

ri ha chiuso a -2,5) e Napolitano è molto preoccupato: «Serve unità politica e sociale e soprattutto servono iniziative a sostegno della crescita». In pratica, il Capo dello Stato ha dato la traccia a Silvio Berlusconi per il discorso che farà oggi prima alla Camera e poi al Senato. Iniziative per la crescita: questa è la parola d’ordine ripetuta anche dalle opposizioni e dalle forze sociali. Per Berlusconi è un po’ l’ultima chance: o si presenta alle Camere con delle proposte concrete di riforma, o i mercati continueranno ad attaccare - indisturbati - l’economia italiana.

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ROMA. La Borsa non si ferma più (ieri Piazza Affa-

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Il ministro Frattini accoglie la richiesta del Terzo Polo e richiama l’ambasciatore. Ieri sera manifestazione a Montecitorio

Il mondo vuole fermare Assad? L’Onu si divide tra chi vuole l’intervento militare (Inghilterra) e indifferenza (Russia). Ma sui rapporti con Damasco si gioca la credibilità della diplomazia occidentale «Washington ha mollato la questione siriana» Parla Edward Luttwak: «Gli Stati Uniti hanno deciso che dal Medioriente che sa solo litigare non si può ottenere più nulla. Meglio puntare sull’Oriente» Pierre Chiartano • pagina 12

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«Ma c’è un’opposizione che possiamo aiutare» Giovani, sunniti, poveri e frustrati dalla repressione del regime. Ecco chi sono, e come si possono sostenere, coloro che hanno sfidato il dittatore Joshua Landis • pagina 14

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«Tra guerra totale e ignavia esiste una terza strada» Isolamento diplomatico, congelamento dei beni, pressione politica: la Siria non è in grado di tenere testa a questi elementi, se sono costanti Danielle Pletka • pagina 14 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

ROMA. Spinta dal Terzo Idv) per sollecitare il goverdi Franco Insardà Polo, l’Italia batte un timino a prendere provvedido colpo, mentre l’Onu resta paralizza- menti drastici, fino alla rottura delle reto e non riesce a trovare una posizione lazioni internazionali con il regime. Sul comune sulla condanna del regime si- fronte diplomatico, invece, ieri è stato il riano che, malgrado l’inizio del Rama- giorno della paralisi all’Onu, spaccato dan, continua a sparare sui propri citta- in due tra chi vorrebbe una reazione dini inermi: ieri sarebbero state altre dura contro Assad e chi invece preferidecine le vittime. L’Italia, dunque, ha ri- sce l’indifferenza. I rappresentanti dei chiamato l’ambasciatore a Damasco 15 Paesi del Consiglio di Sicurezza, doper protesta contro la repressione, chie- po il veto minacciato da Russia e Cina, dendo all’Europa di fare lo stesso, men- potranno al massimo arrivare a una ditre ieri sera, davanti a Montecitorio, si è chiarazione non vincolante di invito a svolta una manifestazione organizzata fermare le violenze. da tutte le opposizioni (Terzo Polo, Pd e a pagina 12 149 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il commento

prima pagina

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Il Cavaliere non può limitarsi alle chiacchiere

Liberalizzazioni e fisco: ecco le cose da fare di Gian Luca Galletti on è più il tempo di parole in libertà. Oggi Berlusconi, presentandosi alle Camere, ha due alternative. O porta dei fatti concreti o si lancia nell’ennesimo, lungo, sperticato show autocelebrativo. Se farà questo, sarà segnata non solo la sua strada ma anche quella, almeno nell’immediato, di tutto il Paese: sorretta solo dalle chiacchiere – parole in libertà, appunto – l’economia italiana non potrà neppure più aggrapparsi ad altre manovre correttive. Semplicemente, i mercati – e non solo loro – si limiteranno a giudicare questo governo non credibile. Di fatto, già la manovra di luglio ) come noi avevamo previsto, del resto), è stata giudicata insufficiente… non ne serviranno altre improntate sugli stessi errori di valutazione.

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In caso contrario, se vorrà portare alle Camere fatti concreti, il premier non potrà limitarsi alle promesse: faremo, diremo, voteremo… I mercati non s’accontentano più di verbi declinati al futuro, vogliono impegni precisi e declinati al presente. E, nell’esercizio del governo di un Paese, i fatti concreti sono gli atti legislativi: servono disegni di legge attuativi delle riforme e provvedimenti chiari, utili alla crescita della nostra economia. Insomma, l’alternativa è sempre la stessa: governare o promettere. Quello che ha fatto in questi tre il governo Berlusconi è sotto gli occhi di tutti. Intendiamoci, noi non ci chiudiamo gli occhi di fronte alla situazione internazionale: siamo nel pieno di una tempesta finanziaria perfetta dove l’Europa nel suo complesso (e quindi l’euro) è sotto attacco. Ecco: noi siamo stati colti da queta tempesta senza nemmeno l’ombrello. Ci mancano i fondamentali: abbiamo un debito spaventosamente alto e la crescita spaventosamente bassa (o nulla). Condizioni pericolosissime nel pieno di una tempesta finanziaria. Se esci senza ombrello mentre diluvia, come minino ti bagni. E noi siamo già quasi completamente zuppi per la semplice ragione che in questi tre anni il governo non si è occupato dei fondamentali dell’economia: niente misure contro il debito, niente misure per la crescita. Che cosa occorre fare adesso? È inutile nascondersi dietro a un dito o ricominciare un iter inutile di dibattiti e riunioni. Nell’immediato serve: a) la riforma fiscale; b) un piano di liberalizzazioni; c) una riforma dell’architettura istituzionale che comporti risparmi forti tramite l’abolizione delle province e l’accorpamento di molte amministrazioni comunali; d) un piano chiaro di privatizzazioni; e) una manovra che preveda tagli non lineari ma ragionati e mirati. Tutti sanno che cosa bisogna fare – subito – per salvare e rilanciare l’Italia: il difficile è farlo. Questo governo fin qui, ha pensato di poter coniugare la tutela dell’economia con il mantenimento del consenso popolare: questa accoppiata – nel pieno di una tempesta finanziaria mondiale – non è più possibile: bisogna fare delle scelte. O, se preferite, bisogna governare. Se questo governo vuole governare, noi siamo pronti anche ad agosto a rimanere in Parlamento per approvare disegni di legge e provvedimenti economici. In caso contrario, è bene che questo governo passi la mano subito. Ecco, oggi alle Camere Silvio Berlusconi dovrà dipanare questo interrogativo: il suo esecutivo vuole governare o no? Non c’è più tempo per rinviare la risposta.

il fatto Il Quirinale chiede unità di tutte le forze politiche e sociali per affrontare la crisi

La Borsa preme su Berlusconi

Un’altra giornata negativa a Piazza Affari. Preoccupato affondo di Napolitano (in vista dell’intervento del premier alle Camere): «Occorre subito stimolare la crescita» di Errico Novi

ROMA. Tocca ancora un volta al presidente della Repubblica evocare uno spirito di unità che il governo non riesce a preservare, neppure al proprio interno. Mentre Berlusconi e Tremonti lavorano alla crisi finanziaria quasi come se fossero alla guida di due esecutivi paralleli (il primo prepara l’intervento alle Camere di oggi senza il ministro, che a sua volta convoca opportunamente il Comitato per la stabilità finanziaria), mentre insomma la maggioranza si perde dietro il microconflitto politico, Giorgio Napolitano diffonde a metà pomeriggio una nota piena di preoccupazione: «La parola è alle forze politiche, di governo e di opposizione, chiamate a confrontarsi con le parti sociali sulle scelte da compiere per stimolare l’indispensabile crescita dell’economia e dell’occupazione».Vanno dunque integrate, avverte il Capo dello Stato, le «decisioni sui conti pubblici» assunte con la manovra. Serve la famosa fase due, quella necessaria a rimettere in moto lo sviluppo, che l’esecutivo promette da mesi, inutilmente. Napolitano aggiunge un messaggio altrettanto chiaro: seguirà, dice, con «preoccupazione» gli esiti del confronto, che non può fallire considerati «gli andamenti dei mercati». Il presidente della Repubblica richiama tutti al senso di responsabilità e avverte che il momento è delicatissimo. Peraltro solo la situazione paradossale della maggioranza, debole eppure capace di alimentare le proprie divisioni anziché serrare le fila, può richiedere che sia il Quirinale a ribadire l’urgenza della responsabilità. Perché in realtà basterebbero i dati di un inizio settimana terribile per la Borsa e i titoli italiani: dopo il

disastro di lunedì, Piazza Affari fa registrare un nuovo calo, del 2,53%, con la Fiat messa in ginocchio dalle notizie sulle vendite (-8%); lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi resta altissimo, anche se i 372 punti di fine giornata attestano un lieve progresso rispetto ai 384 della mattina. E tanto per avere idea di quanto sia grave lo score, vale la pena di ricordare che il differenziale di inizio giornata supera addirittura lo spread dei “bonos” spagnoli, quotati alla fine a 380.

In questo clima dunque il presidente del Consiglio oggi si presenta in Parlamento per una doppia informativa: alle 15 a Montecitorio, due ore e mezza dopo a Palazzo Madama. Nessun ordine del giorno né votazioni seguiranno il dibattito, peraltro contenuto entro tempi non lunghissimi, con dieci minuti a disposizione per ogni gruppo. Il leader dell’Udc Casini si augura d’altronde di dover ascoltare poche «chiacchiere», piuttosto qualche «proposta seria». Si aspetta, dice, che «Berlusconi proponga un decreto, insomma misure concrete». Poco spazio, in un momento del genere, per la polemica fine a se stessa, giacché una richiesta di dimissioni sarebbe «un esercizio inutile, come la mozione di sfiducia». Parole non lontane da quelle pronunciate da uno dei dirigenti della minoranza democratica, Beppe Fioroni. Ma sulla stessa linea in fondo si colloca anche il segretario del Pd Bersani. Il quale insiste sì con la richiesta di «andare a votare subito» ma sposa pure la tesi del Terzo polo per una «soluzione transitoria in netta discontinuità con il passato». Certo, «dopo questo lunedì», dice Bersani, «Berlusconi dovrebbe andare al Quirinale e rimettere il


la votazione

La Camera salva soltanto Verdini No alle intercettazioni. Sì alle indagini su Milanese e all’apertura delle cassette di sicurezza di Marco Palombi

ROMA. Marco Milanese sì, Denis Verdini neanche per sogno: questo il verdetto dell’aula della Camera sulla richiesta (di due Procure diverse) di utilizzare alcuni elementi di prova a loro carico. Entrambi, peraltro, avevano chiesto ai colleghi di dire sì ai magistrati, entrambi sono intervenuti per spiegare la loro posizione, ma evidentemente la geopolitica interna del centrodestra non poteva garantire ad entrambi lo stesso trattamento: l’ex consigliere di Tremonti è causa e vittima della perdita di potere dell’odiato superministro, l’altro è un potentissimo architrave del sistema berlusconiano. Qui sta la semplice ragione della discrasia nel voto della maggioranza, Carroccio super-legalista compresa. La differenza tra i due s’è vista fin dal dibattito: scarno e rapidissimo quello su Milanese, approfondito e assai partecipato quello riguardante il banchiere toscano. I momenti più interessanti, ovviamente, sono stati i discorsi dei due protagonisti: «Mai avrei immaginato di dover prendere qui la parola per difendermi da accuse così gravi ed infamanti come quelle che mi vengono mosse - ha scandito l’ex ufficiale della Guardia di Finanza, naturalmente dichiarandosi innocente -. Provo disagio e mortificazione per questa situazione che coinvolge la credibilità stessa delle istituzioni in un momento difficile per il Paese». Fin qui l’intervento di prammatica, ma l’ex braccio destro di Tremonti ha detto assai di più: «Chiedetevi perché – s’è rivolto all’opposizione - sono state mosse queste accuse contro di me: dovete interessarvi di questo. È vostro dovere farlo, onorevole Bersani, proprio in un momento in cui è evidente l’attacco mosso da più parti al sistema dei partiti, sui quali si regge la nostra democrazia: non farlo e non intervenire per sapere cosa c’è dietro questa macchina del fango, sarà per tut-

ti noi imperdonabile». Insomma, per Milanese è all’opera una sorta di Spectre, interessata a indebolire l’intero sistema dei partiti e il suo dante causa in particolare, cioè il ministro dell’Economia, con l’intento – si immagina – di conquistare il governo del paese per vie non democratiche. Alla fine, come detto, la Camera ha autorizzato l’utilizzo dei suoi tabulati e l’apertura di alcune cassette di sicurezza che gli sono state sequestrate dalla magistratura napoletana: per la richiesta d’arresto, invece, se ne riparlerà nella settimana che parte dal 19 settembre.

«Il ministro Tremonti spiato? I servizi segreti non hanno informazioni e non ne sanno nulla», dice Gianni De Gennaro, il direttore del Dipartimento sicurezza Al solito più battagliero, forte evidentemente anche del sostegno della sua maggioranza, Denis Verdini: «Sono due anni che vengo travolto dal tritacarne mediatico e giudiziario e per questo chiedo di concedere l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni perché ne voglio uscire velocemente», ha scandito in aula il coordinatore del Pdl. Era solo l’inizio: «Sono abbastanza forte, nessuno mi distrugge, non ho paura, ho perso molte cose, ma non voglio perdere la mia onorabilità. Chiedo che si rifletta su questo, perché così si sputtana la gente». Nel merito dell’indagine, invece, Verdini contesta «la scelta dei pm di estrapolare solo alcune intercettazioni tra tutte quelle che sono state fatte.Vanno invece inserite tutte perché altrimenti si trasforma la vita di ognuno in un reato. Si trasformano rapporti di 30-40 anni, non di società ma di amicizia, in questioni criminogene. Io voglio avere tutte le intercettazioni, ci saranno non meno di mille intercettazioni: ce ne sono da tutte le parti, ce l’hanno tutti integrali, sulle pen drive, stampate, pubblicate sui giornali. E io

mandato nelle mani di Napolitano». Ma intanto è legittimo augurarsi che in aula «ci sia un’analisi veritiera, che non si racconti la solita favola. Se si comincia ragionare si può discutere».

Ma è uno spirito aperto quello con cui il Cavaliere si presenterà alle opposizioni? Chi ha lavorato alla preparazione del discorso dice di sì, che il presidente del Consiglio difenderà il legittimo «ottimismo», basato sui buoni fondamentali dell’economia italiana, ma nello stesso tempo chiederà a tutti di avanzare proposte e di lavorare nel segno della collaborazione. Resta però il dubbio che a spingere Berlusconi verso l’informativa alle Camere sia stata sì la “nuova guardia” del Pdl, quella che va da Alfano a Frattini passando per Fitto, Sacconi e il fedelissimo Romani, ma che dietro la mossa del premier ci sarebbe anche la voglia di mostrare la sostanziale, sopravvenuta irrilevanza di Tremonti. Nell’esecutivo ci si comporta insomma come se convivessero malvolentieri due diverse compagini e come se quella guidata da Tremonti fosse in inesorabile discesa.

non mi sono ancora potuto difendere perché ci si difende nei tribunali!. Compatta, alla fine, la maggioranza nel dire no alla procura che indaga sugli appalti per il G8 e la ricostruzione dell’Aquila. Lega allineata e coperta, come detto: «Non abbiamo avuto nessun ripensamento rispetto al caso Papa», ha spiegato Luca Paolini, componente leghista della Giunta per le autorizzazioni della Camera. In questo paese, infatti, «l’immunità c’è pure per il Santo Padre» e serve a tutelare le istituzioni: «E poi, in fondo, di cosa viene accusato Verdini? Di aver accompagnato una persona a Palazzo Chigi? Chiunque faccia politica riceve ogni giorno decine e decine di persone e cerca di far fronte a numerose richieste…». Alla fine le telefonate del deputato toscano – che non ha partecipato al voto – sono state dichiarate inutilizzabili col consenso di 301 deputati (compresi i sei radicali) contro 278. La Caperaltro, mera, aveva già dato retta in anticipo a Verdini anche sulla “riflessione” chiesta intorno alla legge sulle intercettazioni: l’aula discuterà del ddl fortemente voluto da Silvio Berlusconi la terza settimana di settembre. Proprio quando il povero e abbandonato Milanese rischierà l’arresto.

vitati ma riluttanti a presenziare. Nessuna notizia invece sulla presenza al summit del ministro più titolato a intervenire, Tremonti appunto. Il quale invece si impegna in altre iniziative, tutte comunque opportune. La ricordata convocazione del Comitato per la stabilità finanziaria, innanzitutto: vi partecipano, con il ministro, il direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni, il presidente della Consob Giuseppe Vegas, quello dell’Isvap Giancarlo Giannini e il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli. Si siedono dunque attorno allo stesso tavolo due candidati alla carica di governatore, con quello attuale,

liano: il presidente dell’Eurogruppo Junker tiene a far sapere che oggi incontrerà Tremonti in Lussemburgo. Poco dopo è il commissario Ue per gli Affari economici, Olli Rehn, a preannunciare la conversazione telefonica fissata sempre con Tremonti per il tardo pomeriggio. Nonostante il Financial Times, dunque, l’élite europea – quella visibile, non quella inafferrabile della speculazione – considera tuttora il responsabile del Tesoro un interlocutore altamente affidabile. Una portavoce della Commissione europea ribadisce a sua volta «piena fiducia» nelle misure adottate dall’Italia con la manovra economica. Tremonti ha molti più alleati oltreconfine che nel suo stesso governo.

Frattura sempre più grave tra premier e responsabile dell’Economia, che lavorano come se guidassero due esecutivi diversi. Ma il ministro ha dalla sua Bruxelles: da Commissione ed Eurogruppo arrivano segnali di fiducia e richieste di incontro

In questo secondo schieramento però si registra un riavvicinamento tra il titolare dell’Economia e la Lega. Anche il partito di Bossi è, come Tremonti, perplesso per la scelta dei berlusconiani di sfidare il Parlamento. Quando si diffonde notizia del vertice convocato a Palazzo Grazioli per la serata, i berlusconiani suggeriscono ipotesi varie rispetto alla partecipazione dei leghisti, in-

Mario Draghi, che invece incontra proprio Napolitano, al Quirinale, per la seconda volta in cinque giorni. Al Comitato riunito da Tremonti si ipotizzano analisi e contromisure per fronteggiare l’ondata speculativa, con la Consob in particolare impegnata a «monitorare» la vendita di titioli italiani da parte di Deutsche Bank.

Sul responsabile dell’Economia pesa lo sguardo non benevolo della stampa internazionale, con il Financial Times che descrive come particolarmente inopportuna la vicenda dell’affitto pagato a Milanese. Però a Bruxelles conservano intatta la stima nei confronti del ministro ita-

Oltretutto l’appuntamento con Junker lascia intendere che il ministro farà forse appena in tempo a correre alla Camera per il discorso di Berlusconi. E che in ogni caso non è certo con lui che il premier limerà gli ultimi dettagli dell’intervento. Contributo essenziale arriva invece da Maurizio Sacconi, che nel Pdl viene già quotato come il più probabile successore di Tremonti in caso di sue dimissioni. Sono fantasie, assai coltivate però all’interno della maggioranza, che descrivono un quadro per nulla rassicurante: perché fanno pensare appunto che nell’esecutivo sia in corso un regolamento di conti ai massimi livelli, innescato dalla vicenda Milanese, piuttosto che un’effettiva rimodulazione della strategia anticrisi. Il che rischia di pesare in modo visibile sul tavolo fissato per domani con le parti sociali, e sul quale Napolitano pure ripone giustamente forti attese.


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l’approfondimento

Ennesima giornata negativa per Piazza Affari; il differenziale con i bund tedeschi continua a crescere: l’attacco non si ferma

Crescere o morire

La politica non governa più i mercati: ecco dove nasce la crisi mondiale. In piena tempesta, l’Italia ha pensato che fosse sufficiente tenere i conti in ordine. Invece serviva progettare lo sviluppo. Per questo ci troviamo nell’occhio del ciclone di Gianfranco Polillo ncora una volta la crisi internazionale, che ha origine nelle incertezze che guidano l’Occidente, ha colpito duramente. Lo ha fatto in Europa, ma soprattutto in Italia: anello debole della catena che congiunge i principali paesi dell’eurozona. Strano destino quello del nostro Paese. Quando la borsa cala, il nostro affonda. Quando risale, il recupero è anche maggiore, ma, nel medio periodo, il saldo è penalizzante. La dinamica è ormai ripetitiva. Al primo allarme internazionale, lo spread dei titoli del debito pubblico rispetto al bund tedesco tende a crescere. A volte in modo vorticoso. Il massimo toccato nella giornata di ieri è stato pari a 384 punti base. I buoni poliennali del tesoro rendono ormai il 6 per cento annuo, ma molte case d’affari non si accontentano. La soglia massima, per quelle strane alchimie finanziarie che è difficile comprendere, è fissata nel 7 per cento. Limite di sostenibilità – come si dice – un

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crinale, superato il quale, tutto diverrebbe più difficile. Ed ecco allora la grande concitazione. Il tentativo di una manovra d’emergenza che anticipi la decorrenza della stretta varata per il 2013 ed il 2014. O, in alternativa, una manovra aggiuntiva che già si quota per 30 miliardi. Molto dipenderà da come i mercati reagiranno – dopo i primi momenti e le inevitabili incertezze di valutazione – alla scelta americana di contenere il debito con un intervento (2.400 miliardi contro i 4.000 inizialmente previsti), che i mercati non hanno gradito.

Dalla crescita del costo del debito alla caduta di borsa il passo è breve. Il ragionamento – da un punto di vista economico e finanziario – è stringente. Se gli interessi sul debito italiano aumentano, i vecchi titoli in possesso della clientela, ma soprattutto delle banche, subiscono perdite in conto capitale. Gli utili d’esercizio sono, pertanto, destinati a subire limature, più o

meno grandi, e quindi il valore delle azioni – che sono un multiplo degli utili – subiscono una sorte analoga. Che poi dalle banche il sentiment coinvolga tutti gli altri settori è abbastanza evidente. Il Governo sarà – come abbiamo visto – costretto ad intervenire, con un impatto immediato sulla disponibilità di risorse possedute dalle famiglie. La cui risposta non potrà che essere una riduzione del livello dei consumi. Il mercato anticipa questo nuovo scenario e brucia

Germania e Gran Bretagna hanno puntato sulle misure per la ripresa

ricchezza in una corsa contro il tempo. Naturalmente non c’è nulla di automatico. Se il clima internazionale dovesse cambiare, la ruota invertirebbe la sua corsa, dando a tutti un po’ di respiro. E chi ha ecceduto in pessimismo, sarebbe costretto a conteggiare le perdite del proprio agire.

Il cappio, come si vede, è tutto esterno: fuori della portata dei governi nazionali che possono, naturalmente, giocare di rimes-

sa, per contrastare i fenomeni più devastanti. Ma non sono in grado di determinare con le proprie politiche il corso degli eventi. Su questo aspetto, sia in Europa, ma soprattutto in Italia, si è riflettuto poco. Prevale un vecchio schema teorico che il processo storico ha spazzato via. Quello dell’onnipotenza della politica che si incardinava sul principio della sovranità nazionale. L’estero contava, ma era solo un’appendice delle politiche nazionali. Assumeva una forza incontrollata – la crisi del 1992/93 – solo quando si erano consumati tutti i margini dei possibili interventi ed allora il velo della moneta veniva spazzato via dal susseguirsi delle svalutazioni e dall’intreccio perverso dell’eccesso di inflazione e di stretta creditizia. Schema logico, ancor prima che economico, che non regge più alla prova dei tempi. Oggi i governi sono prigionieri di logiche lontane che riflettono i profondi cambiamenti che sono intervenuti nei grandi equilibri mon-


Via libera definito dalle Camere al piano sul debito americano: ma i mercati sono scontenti

«È solo un accordo elettorale: Washington non è Atene» «I giornali hanno diffuso panico e così i partiti si sono paralizzati. Alla fine, hanno vinto solo gli estremisti», dice Joseph La Palombara di Martha Nunziata

ROMA. La salvezza è arrivata. L’America, e Obama, hanno scongiurato il default, garantendo il governo federale fino al 2013, grazie all’accordo tra i leader del Congresso e tra Democratici e Repubblicani. La Camera ha approvato (269 voti a favore,161 contro) l’accordo sull’aumento del tetto del debito fino a 2.400 miliardi di dollari e tagli per almeno 2.500 miliardi di dollari in 10 anni, cifre decisamente inferiore ai 4.000 miliardi di dollari identificati da Standard & Poor’s. E ieri con il voto del Senato l’accordo è diventato legge, evitando così il tanto temuto fallimento. Obama potrebbe firmare subito, un compromesso che non piace a nessuno, ma che gli permette di festeggiare domani serenamente i suoi 50 anni. Ma è proprio vero che la prima potenza economica del mondo rischia lo stesso di perdere il mantenimento del rating AAA e di essere declassato portando gli Usa (e il resto del mondo) sull’orlo dell’insolvenza? Ne abbiamo parlato con Joseph LaPalombara, Professore di Scienze politiche e Management all’Università di Yale. Professore, l’accordo approvato sembra aver scongiurato il rischio di default per gli Usa. È una manovra sufficiente? E lei la condivide? No, non mi convince. Tanto per cominciare, non si capiscono ancora tutti i dettagli dell’accordo, mi sembra che gli stessi mercati, cominciando proprio da quello americano, non abbiano espresso un alto livello di fiducia. Mi sembra importante, in ogni caso, commentare la dimensione particolare di questo fenomeno politico. Mi riferisco alla stampa, anzi, a tutti i mezzi di comunicazione che continuano a collaborare nel creare la distorta impressione che, senza un accordo sul limite del debito pubblico, ci sarebbe il default. Si era arrivati addirittura a paragonare la situazione economica americana con quelle della Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo, creando un’atmosfera di panico ingiustificata. Il mio paese è ancora la più grande potenza economica del mondo, ma sembrava che non sarebbe riuscita a pagare gli interessi sul debito pubblico se non ci fosse stato l’accordo. Questa previsione, però, era, e rimane, solo una montatura. Rincresce che solo qualche quotidiano abbia spiegato che, se fosse venuta a mancare l’autorizzazione all’innalzamento del limite del debito (concessa dal Congresso tantissime volte in passato) l’unico risultato imme-

«Il vero problema era disegnare un nuovo regime fiscale. E su questo Obama alla fine ha ceduto»

diato sarebbe stato quello che il governo federale non avrebbe pagato le spese pubbliche che lo stesso Congresso aveva autorizzato come, per esempio, quelle per gli interventi militari americani all’estero. È già iniziata la campagna elettorale, allora? È una manovra per screditare Obama? È ovvio che si poteva affrontare il problema diversamente, ma non lo si è fatto per mancanza di quel tipo di leadership politica responsabile e coraggiosa, che purtroppo è venuta a mancare da questa parte dell’atlantico, anche se nella Ue non mi sembra che vada meglio. Proprio perché si è riusciti a creare un clima di crisi di default, una mancanza

di accordo avrebbe creato una specie di terremoto economico mondiale. Si è giocato con le reazioni psicologiche, emotive e non si è trattato di leggi economiche. I membri repubblicani più estremisti del Congresso erano pronti a rischiare anche questo tipo di panico, pensando di poter scaricare sulla Casa Bianca tutta la colpa. In questo senso sì, siamo già in campagna presidenziale. Tutti a Washington stanno guardando alle elezioni dell’anno prossimo, e non all’esigenza immediata di concentrarsi su cosa fare per salvaguardare il benessere del proprio paese. Ed è anche per questo che tutti i sondaggi americani ci fanno capire la mancanza assoluta di fiducia che il cittadino comune esprime nei riguardi del governo. Questo accordo può essere considerato una vittoria di Obama o al Congresso alla fine è prevalso la ”ragione di stato”? Parlare di vittoria è prematuro. Questo vale sia per la Casa Bianca sia per il Congresso. Forse vale solo per i Tea Party, ma a loro rischio. Purtroppo in entrambe le istituzioni, Congresso e Casa Bianca, invece, è venuto a mancare proprio il senso dello Stato. Anche se negli Stati Uniti il livello di faziosità e di polarizzazione politica attuale sembra essere senza precedenti, anche se qualche giornalista vuole ricordarci che, anche nei primi anni trenta del secolo scorso, il Congresso americano si comportò in modo tale da stroncare la ripresa economica e prolungare la depressione. I punti fondamentali della manovra sono il taglio alle spese e l’aumento del tetto del debito, ma le tasse resteranno bloccate ancora per un anno e mezzo: è il prezzo che i democratici hanno dovuto pagare al partito repubblicano? Evidentemente ci saranno scadenze da rispettare, una a novembre, l’altra a febbraio, ma la loro natura precisa non è ancora chiara. L’aspetto preoccupante di questo accordo è in realtà l’idea che il problema sarà risolto solo con il taglio della spesa pubblica, lasciando ogni discorso fiscale al futuro. Ma questo punto dell’accordo, oltre a rappresentare una volontà dei democratici, Obama in testa, di piegarsi al ricatto dei repubblicani, non potrà far altro che ritardare la già troppo lenta ripresa economica degli Usa, che invece, per la dimensione del proprio mercato interno, dovrebbe fungere da locomotiva.

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diali. La “piccola” economia – il gruppo di testa dei paesi occidentali, capaci di fare il bello ed il cattivo tempo – ha ceduto il passo alla “grande” economia. Un processo inclusivo che ha abbattuto non una, ma due barriere: quella tra capitalismo e socialismo reale e quella tra mondo sviluppato e sottosviluppato. È stata una grande contaminazione, un grande meticciato, che ha creato nuove gerarchie geo-politiche. Ma soprattutto una potenza incontrollabile – quella dei mercati – senza storia e senza memoria. Che non rispetta altri valori, se non quelli del “dare e dell’avere”.

L’Italia si è cullata per troppo tempo sulla sua antica tradizione. Ha sottovalutato questo salto nel paradigma, attardandosi sulle politiche del bel tempo andato. In ciò confortata dai lenti progressi compiuti nel controllo dei conti pubblici o nella limitazione del danno. Ma questo era possibile finché i mercati agivano in souplesse. Scoppiata la crisi, l’effetto tzunami è stato improvviso quanto inevitabile. A sostegno di questa tesi basta citare l’esperienza tedesca o quella inglese. Nel primo caso le scelte più dolorose, dal punto di vista economico e sociale, sono state compiute negli anni passati. Deflazionando volutamente la propria economia, come avvenne all’inizio del 2000, - vale a dire comprimendo i consumi e l’occupazione – la Germania ha rimodellato il suo sviluppo puntando soprattutto sulla delocalizzazione e le esportazioni, per ricollocarsi al centro del mercato internazionale. L’Inghilterra, a sua volta, colpita al cuore dalla crisi bancaria, non ha esitato a ricorrere ad una cura draconiana (tagli della spesa pubblica ed inasprimento delle imposte indirette) che ha ridimensionato la domanda interna e rimesso in modo un nuovo meccanismo di accumulazione: in ciò favoriti dalla svalutazione della sterlina fuori dall’area dell’euro. Dire che l’Italia non ha fatto alcunché, sarebbe ingiusto. Le manovre tentate, sia dal centro destra che dal centro sinistra, sono state rilevanti da un punto di vista quantitativo. Ma non sono riuscite a sintonizzarsi – si pensi solo alla vicenda Marchionne – con lo spirito del tempo. Lo Zeitgeist: come dicono i tedeschi. Ed ora la loro crisi è soprattutto il riflesso di quel disallineamento. Sul“che fare”dovremo quindi discutere a lungo. Ma la premessa di tutto – tanto a destra quanto a sinistra – è percepire l’intensità del cambiamento che è alle nostre spalle e comportarci di conseguenza. Almeno in questo dovremmo essere keynesiani, quando il grande economista diceva: «Gli uomini pratici, che si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». Un errore che dovremmo correggere.


società

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Continuano le proteste dopo l’approvazione del decreto Maroni sulla circolazione dei cittadini e sul rimpatrio degli irregolari

«Siamo immigrati o mafiosi?» Diciotto mesi di detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione ROMA. Due pugni nello stomaco che dovrebbero far riflettere. A Lampedusa i corpi senza vita dei 25 migranti asfissiati nella stiva di un barcone partito dalla Libia, a Bari la rivolta dei rifugiati nel Centro di accoglienza. Due episodi della stessa tragedia: la fuga verso la libertà e una vita migliore. In questo clima ieri a Palazzo Madama si è discusso sul decreto Maroni di recepimento delle direttive europee sulla libera circolazione dei cittadini e sul rimpatrio degli immigrati irregolari, già approvato dalla Camera lo scorso mese. Il decreto prevede il rimpatrio dei clandestini, allunga la permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) da 6 a 18 mesi ed estende da 5 a 7 giorni il termine entro il quale lo straniero deve lasciare il territorio nazionale su ordine del questore, nel caso non sia stato possibile il trattenimento presso i centri. La norma che ha fatto insorgere le opposizioni e organizzare di fronte a Palazzo Madama anche un presidio della Cgil è quella che prevede la permanenza di diciotto mesi nei Cie degli immigrati. Gianpiero D’Alia, capogruppo dei senatori dell’Udc, dopo il voto contrario dell’Aula alla pregiudiziale presentata dal suo partito, ha definito il provvedimento: «Incivile e fa vergognare. Se questo è il modo con cui pensano di affrontare un tema complesso e delicato come quello del contrasto all’immigrazione clandestina, c’è veramente da indignarsi».

di Franco Insardà Pietro Marcenaro del Pd, presidente della Commissione speciale diritti umani del Senato, non è stato meno tenero: «Il ministro Maroni vada una volta a vedere con i suoi occhi un Cie. In tutti questi anni non una sola volta ha messo piede in un Cie per rendersi personalmente conto della situazione. I Cie sono peggiori del peggiore dei carceri: anche nel peggiore dei carceri vige la Costituzione e c’è un sistema di garanzie». A questo proposito è stato approvato in Senato un ordine del giorno Pd con il quale si impegna ad adottare le misure ne-

senza aver commesso un reato. Governo e maggioranza sono forti con i deboli e deboli con i forti e cercano di far rientrare dalla finestra una disposizione che il Senato aveva sonoramente bocciato molti mesi fa». Il capogruppo dell’Udc a Palazzo Madama ha messo in evidenza un aspetto paradossale: «Per i mafiosi governo e maggioranza prevedono un massimo di dodici mesi di custodia cautelare, per lo straniero, che non si sa se regolare o irregolare, perché deve essere accertato, prevedono diciotto mesi di detenzione in un centro

portato la comunità internazionale a decidere l’intervento militare in Libia. È necessaria un’azione preventiva che è possibile solo se si rinuncia all’idea assurda e totalmente irrealistica di poter bloccare le partenze. È necessario anticipare nei punti di partenza la possibilità di richiesta di asilo e offrire la possibilità di viaggi regolari e sicuri. Solo così si può fermare o alme-

massacri». La senatrice Maraventano ha invitato le opposizioni «a trovare un accordo per tentare di gestire questo fenomeno, per non renderci complici di ciò che accade e delle morti che si verificano».

Intanto oggi a Bari il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, presiederà una riunione tecnica di coordinamento interforze provinciale per affrontare la questione relativa al

Il capogruppo dell’Udc a Palazzo Madama, Gianpiero D’Alia: «Respinte le pregiudiziali che abbiamo presentato, ma il decreto violerebbe i principi sanciti dalla nostra Costituzione» cessarie per consentire l’ingresso dei giornalisti nei Cie. Dopo il voto contrario dell’Aula alla pregiudiziale dell’Udc D’Alia ha chiarito che l’iniziativa «era volta a dimostrare la violazione degli articoli 3, 10, 13, 25, 27 e 77 della Costituzione. In sostanza, il decreto violerebbe i principi di uguaglianza, conformità del diritto italiano a quello internazionale, carattere non punitivo della pena, e non avrebbe le caratteristiche di necessità e urgenza». Secondo D’Alia l’introduzione di un tetto di diciotto mesi per la permanenza in un Centro di identificazione equivale «a una condanna a una pena detentiva

di identificazione ed espulsione. Se questo è il modo con cui pensano di affrontare un tema complesso e delicato come quello del contrasto all’immigrazione clandestina c’è obiettivamente da mettersi le mani nei capelli e da indignarsi».

Il senatore Marcenaro è ritornato sui venticinque morti asfissiati al largo di Lampedusa: «Ci obbligano a ricordare le migliaia di vittime delle traversate del Mediterraneo. L’Unhcr ha stimato in oltre 1.500 le persone annegate nel Mediterraneo dalla fine di marzo a oggi. Si tratta di un’emergenza umanitaria forse più grave di quella che ha

no limitare la strage in corso. E solo così si possono combattere sul serio e non solo a parole i trafficanti di esseri umani».

Parole in parte condivise anche dalla senatrice della Lega Nord e vicesindaco delle Pelagie, Angela Maraventano, secondo la quale «con la Libia non riusciamo a stipulare accordi a causa della guerra, ma non possiamo più tollerare questi

Cara di Bari-Palese, con il capo Dipartimento libertà Civili e immigrazione del ministero dell’Interno, Angela Pria, il vicecapo della Polizia e direttore centrale della Criminalpol, Francesco Cirillo, il vice prefetto vicario di Bari, Antonella Bellomo, i vertici provinciali delle forze di polizia, i presidenti della Commissione Nazionale e Territoriale per il Riconoscimento della protezione internazionale.


Una lettura al giorno

Storie di bambini sperduti: i primi due racconti di una serie di Roberto Genovesi

La spiaggia di Farhat e il cane Blakky di Roberto Genovesi

Dedicato ai pi첫 piccoli e ai pi첫 deboli, oggetto di violenze quotidiane nel mondo. Come raccontano i protagonisti di oggi... pagina I - liberal estate - 3 agosto 2011


una lettura al giorno La mia spiaggia

Farhat viene dalla Somalia. A Pantelleria ha perso suo padre e i suoi fratellini. Vende collanine nella spiaggia che è casa sua... i chiamo Farhat, ho quattordici anni e passo tutto il giorno sulla spiaggia. Sono tutto nero, come il legno bruciato che resta tra la cenere quando il fuoco si spegne. Ma non perché sono abbronzato. Sono nero perché vengo dalla Somalia dove la mia gente sta combattendo. È per questo che, con mio padre e con i miei due fratelli più piccoli, un gior-

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no abbiamo deciso di andarcene. La spiaggia dove passo tutto il giorno ha la sabbia del colore dell’oro e il mare che la lambisce è trasparente come l’acqua in una tinozza di vetro e azzurro come il cielo che vedo ogni mattina quando mi sveglio tra gli ombrelloni. Sì perché io in spiaggia ci dormo anche. Quando siamo andati via dalla terra dove sono nato mi sono messo a piangere perché c’ero affezionato molto. Avevo imparato a memoria i nomi di tutte le strade del mio villaggio ed ero diventato amico di tutti i bambini del quartiere. Poi, a un certo punto, i nostri genitori ci hanno detto che non dovevamo più vederci.

Hanno cominciato a non salutarsi più e poi, un giorno, un gruppo di adulti ha comprato alcuni fucili al mercato nero e da allora è successo il finimondo. Così mio padre ha venduto le due pecore, la mucca e i materassi e con quei soldi ha comprato quattro posti su una barca che ci avrebbe portato

via dalla Somalia. Io dormo tra i lettini accatastati vicino all’ultima fila di ombrelloni. Per fortuna su questa isola, che si chiama Pantelleria, l’estate dura molto e solo in inverno inoltrato sono costretto a trovare qualcosa di meglio nell’entroterra. Il padrone della spiaggia mi permette di dormire sulla sabbia perché durante il giorno vendo alle persone che vengono a prendere il sole le cose che lui compra dai cinesi. Faccio un bel bottino perché sono bravo a vendere e in cambio di quei soldi mi ritrovo un giaciglio sicuro, lontano da quelli che mi stanno cercando per farmi tornare dove la mia gente sta combattendo. Quando siamo arrivati alla barca io non volevo credere ai miei occhi. C’erano centinaia di persone in attesa al molo. Si spingevano e si insultavano e c’era un tipo grosso come un orso che li frustava per farli stare zitti. Ma loro continuavano a strillare e allora quel tipo grosso ha tirato fuori un fucile a canne mozze e ha sparato un colpo in mezzo alla gente. Due donne sono cadute per terra senza fare un fiato e non si sono mosse più. Una aveva in braccio un bambino piccolissimo che è rotolato sul legno bagnato del molo e, come un sacco pieno di patate, è caduto in acqua. Io ho fatto un cenno a mio padre ma lui mi ha trattenuto stringendomi fino a farmi male. Così il bambino ha galleggiato per un po’ sul pelo dell’acqua e poi è andato a fondo. Poi quel tipo grosso ha emesso un paio di ringhi e tutti abbiamo cominciato lentamente a salire sulla barca. Alla fine eravamo talmente tanti

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che, per non affondare, dovevamo darci da fare in continuazione per buttare fuori l’acqua. Abbiamo passato sei giorni e sei notti a buttare fuori acqua dalla barca.

Io vendo asciugamani, collanine, orologi e braccialetti. Ma oggi ho guadagnato poco perché sono stato impegnato in un’altra faccenda. Quando il bagnino arriva in spiaggia, ogni mattina attorno alle sette, sistema la bandiera delle condizioni del mare in modo che la gente possa vederla e regolarsi di conseguenza. Se è verde si può fare il bagno, se è rossa è proibito perché può essere pericoloso. Naturalmente io so come va a finire. La bandiera rossa viene ignorata, soprattutto dai bambini più piccoli e dai loro genitori e così il bagnino ha sempre un bel da fare per controllare che nessuno si metta in pericolo. All’alba del settimo giorno abbiamo visto finalmente la costa. Ma invece di aspettare che la barca si avvicinasse alla spiaggia, molti si sono buttati in acqua estenuati da un lungo viaggio fatto stipati come sardine e si sono portati appresso anche molti di coloro che avrebbero volentieri aspettato. Così è scoppiata una mezza rivolta e qualcuno ha tirato fuori dei coltelli che aveva nascosto chissà in che modo per tutto il viaggio. Mentre sulla nave si azzuffavano, in acqua quei pochi che erano stati spinti giù a forza gridavano per richiamare l’attenzione di qualcuno. Mio padre si è accorto che alcuni di loro non sapevano proprio nuotare e sarebbero morti annegati come il bambino sul molo se non avessero ricevuto aiuto subito. Ma la gente continuava a spingere e mio padre non riusciva a buttarsi in acqua per soccorrere i naufraghi. Ma il peggio è accaduto quando un elicottero ci ha individuati e ha cominciato a volteggiare sulle nostre teste. La gente si è fatta prendere ancora di più dal panico e anche gli altri si sono buttati in acqua in un frastuono d’inferno. Io sono rimasto pietrificato per qualche secondo mentre le pale dell’elicottero continuavano a girarmi sopra la testa. Mi sono voltato a cercare mio padre ma non c’era più. Non so se si sia buttato in mare per aiutare qualcuno oppure semplicemente per sfuggire all’elicottero ma da quel giorno non l’ho visto più. Io sono molto bravo a vendere collanine perché riesco a individuare al primo sguardo il potenziale acquirente. Non è questione d’esperienza. Piuttosto si tratta di intuito visivo. C’è la mamma indaffarata con il bambino da cambiare che non ti degna nemmeno di uno

sguardo. C’è il signore che legge il giornale che appena ti vede avvicinarsi fa finta di non capire quello che c’è scritto e si copre la faccia con le pagine aperte. C’è la signora anziana tutta imbrilloccata che non saprebbe che farsene di una collanina fatta a mano da un ragazzino di colore. E ci sono le ragazze. Le ragazze sì che le comprano le mie collanine. Sarà perché so fare il simpatico o forse perché capiscono che le ragazze mi piacciono davvero ma, quando mi vedono arrivare, le ragazze mi sorridono subito e cominciano a rovistare nei miei sacchetti. Se sono in gruppo ancora meglio perché si spalleggiano, fanno battute, si provano tutte le collanine che possono e poi, finalmente, qualcuna la comprano. Prima però mi chiedono sempre come mi chiamo, quanti anno ho e da dove vengo. Ma io rispondo sempre la stessa cosa. Io non vengo da nessuna parte. Vengo dalla spiaggia, perché questa ormai è la mia spiaggia. Mi sono accorto che ero arrivato a riva solo quando ho toccato con le mani la sabbia. Non so per quanto tempo ho nuotato e non so nemmeno perché l’elicottero mi abbia lasciato perdere. C’era tanta gente in mare che gridava e un ragazzino silenzioso che nuota a pelo d’acqua magari passa inosservato, soprattutto quando è quasi buio e io sono del colore del buio. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivato a terra è stata quella di cercare i miei fratellini. Ho camminato per un giorno e una notte percorrendo tutto il perimetro della spiaggia per vedere se magari la marea poteva averli trascinati in un altro punto dell’isola. Ho chiesto anche ai pochi che erano riusciti ad arrivare a riva sani e salvi ma niente. Così ho pensato che probabilmente li aveva presi l’elicottero e ora si trovano in uno di quei posti dove rinchiudono tutte le persone che prendono in mare. Quando vendo le mie collanine penso che un giorno, quando avrò fatto tanti soldi, li andrò a riprendere per portarli in una casa vera, qui sulla spiaggia, la mia spiaggia, dove non ci sono fucili. Le ragazze non lo sanno, non possono saperlo. Ma ogni collanina che comprano, la comprano per i miei fratellini. Anche oggi ho pensato ai miei fratellini. È la prima cosa che faccio quando mi sveglio. Ma oggi è stata una giornata molto particolare perché ho dovuto fare una cosa più importante. Mi sono avvicinato a un ombrellone occupato da un gruppo di ragazze con le quali ho fatto amicizia da qualche giorno. Dicono che la prossima settimana torneranno in una città

del Nord che si chiama Torino dove studiano in un posto importante che si chiama università e che ti dà un documento col quale poi si trova un lavoro. Anche papà mi ha detto che avrebbe trovato un lavoro. È l’ultima cosa che mi ha detto prima che ci imbarcassimo. Ma gli mancava un altro documento con un nome difficile che ora non ricordo. Così mi ha detto che avrebbe prima dovuto trovare questo documento e poi un lavoro.

Le ragazze dell’ombrellone hanno cominciato a spiegarmi che a uno come me, per trovare lavoro, un lavoro vero, servireb-


be quel documento dal nome difficile che si chiama permesso di soggiorno ma che non me lo danno se non trovo prima un lavoro. Così si è aperta una discussione molto animata. Alcune delle ragazze dicevano che non era possibile, altre che invece era necessario. E mi stavo anche divertendo un mondo a sentirle litigare per finta per colpa mia ma non ho fatto in tempo a vedere come sarebbe finita perché, a un tratto, ho sentito un grido. Mi sono voltato e ho visto una signora molto giovane che agitava le braccia e guardava verso il mare. All’inizio non ho capito un granché di quello che stava succedendo.

Poi ho sentito che una delle ragazze diceva che il bagnino era andato al bar. Ma anche allora non ho capito cosa c’entrasse questo particolare con il fatto che la signora continuava a gridare. E così ho lasciato i miei sacchetti sotto l’ombrellone delle ragazze e sono andato verso la riva.

La signora piangeva e gridava e indicava l’acqua. E c’era tanta gente attorno alla signora che gridava. C’era il signore che leggeva sempre, la mamma che di solito cambiava i pannolini ai suoi bambini e la signora anziana tutta ingioiellata. Ma c’erano anche tante altre perso-

ne. Tutte attorno alla signora che gridava, immobili come statue di cera, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ma poi ho scoperto che guardavano in un punto preciso e così ho aguzzato la vista per capire meglio. Così ho visto una piccola testa emergere appena dalle onde a una cinquantina di metri dalla riva. Come vi ho già detto quando c’è esposta la bandiera rossa non si può fare il bagno e oggi è una di quelle giornate in cui bisognerebbe esporne almeno due di bandiere rosse per quanto sono alti i cavalloni. Ed è proprio in mezzo a una di queste onde gigantesche che ho visto la testa di quel bambi-

no. E poi le sue braccia, agitate come i tentacoli di un grosso polipo. E le vedevano anche gli altri. Tutti gli altri, ma nessuno si muove. Nessuno fa nulla e, per giunta, ho sentito che il bagnino è al bar.

Così non ci ho pensato due volte e mi sono buttato in acqua. La corrente è fortissima e a ogni bracciata che riesco a dare sembra che la forza del mare mi voglia ributtare a riva. Per un attimo ho pensato di rinunciare ma poi mi sono detto che se ero riuscito ad arrivare a riva da una barca di legno mezza affondata in mezzo al Mediterraneo potevo fare certamente quaranta metri per arrivare a quel bambino. Ho stretto i denti e ho cominciato a prendere a capocciate le onde mentre con le braccia facevo mulinelli per avanzare. Sarebbe stato anche divertente se non avessi sentito le urla di quel bambi-

no farsi sempre più flebili. A un tratto, proprio quando ho immaginato di non potercela fare più la mia mano ha toccato qualcosa di morbido e caldo. Ho tirato e in quel momento un’onda mi ha buttato addosso il bambino come fosse un sacco. L’ho stretto forte e ho cominciato a tornare indietro. Ma il peso di quel corpo quasi immobile non mi permetteva di tenere la testa fuori dall’acqua. Mi sono sforzato e ho cercato di nuotare come meglio potevo per tornare alla riva. Ma alla fine le forze mi hanno abbandonato e ho cominciato a scendere sempre più in basso. Con gli occhi semiaperti ho visto una sagoma di un canotto avvicinarsi a pelo d’acqua e una mano da adulto afferrare il bambino che stringevo. Così mi sono rilassato continuando a scendere. Questa è la mia spiaggia. E nessun bambino può morire sulla mia spiaggia.

Ma Bakkly sta bene

Sette anni, nomade, si aggira col suo canino adorato nella metro della grande città per racimolare qualche spicciolo. Finché incontra un orco ggi è stata una giornata speciale. Non sono andato a scuola, ma non è per questo. È che oggi sono morto… ma Blakky, per fortuna, sta bene. Blakky è il mio cane. Un cucciolo di cane bastardo con il pelo tutto nero che però, quando c’è il sole forte, sembra marrone scuro. Le orecchie di Blakky sono nere con la punta bianca e saltano subito all’occhio perché, come tutti i cuccioli, anche il mio ha le

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orecchie molto più grandi di un cane normale. Stamattina mi sono svegliato come al solito alle quattro e mezza. Ho appena sette anni ma sono sempre il primo che si sveglia. Gli altri bambini sono pronti alle sei ma io, a quell’ora, ho già portato Blakky a fare i bisogni e sono pronto per andare a lavorare.

Come ogni sera, anche ieri, i grandi hanno riunito noi bambini davanti al fuoco acceso in mezzo alle roulotte e ci hanno affidato i compiti per il giorno dopo. Se sei bravo e hai dimostrato di saperci fare, ti danno un lavoro importante, altrimenti finisci a fare la comparsa ai semafori mentre tua mamma chiede l’elemosina alle macchine che si fermano col rosso. Io sono bravo e dunque posso lavorare anche da solo. E oggi mi è toccata la linea A della metro. Naturalmente Blakky viene con me. È fondamentale che venga anche lui.

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una lettura al giorno Un po’ perché mi tiene compagnia e un po’ perché ogni tanto trovi qualche grande a cui piace fare i dispetti ai bambini e Blakky lo sente subito quando un grande è malintenzionato e comincia a ringhiare. È piccolo ma si fa rispettare. A me piacerebbe andare a scuola come qualche altro bambino che conosco ma papà non mi ci manda. Dice che noi «zingari» non siamo ben visti dalla gente e che se non mi manda a scuola lo fa per me, lo fa per proteggermi dai dispetti degli altri bambini. Io non ci credo tanto ma andare in giro con Blakky mi diverte e allora sto zitto. A proposito, io non sono uno zingaro, sono un nomade. La mia famiglia viene dalla Polonia e io ne conosco la storia a memoria perché papà dice che mi serve per restare legato alle mie radici anche se è da quando sono nato che giro per il mondo.

Mio nonno fu catturato a Varsavia dai tedeschi e poi venne internato ad Auschwitz. A scuola raccontano che in quel posto sono stati uccisi tanti ebrei. È vero ma c’era anche mio nonno e i tedeschi hanno ammazzato anche tanti zingari. In verità mio papà mi ha raccontato che, a differenza degli ebrei, gli zingari potevano scegliere. Potevano avere salva la vita se si facevano sterilizzare. Significa che non puoi avere più bambini. Mio nonnò accettò, anche perché mio papà era già nato. Così fu mandato prima a Ravensbruck e lì un medico lo visitò. Quando uscì dall’ospedale non poteva più avere bambini ma in cambio fu arruolato in un reparto di soldati che chiamavano Battaglione Dirlewanger. Nonno portava sul colletto della divisa due grandi S e tutti lo salutavano quando passava per la strada. Ma poi nonno decise di scappare lo stesso e di fuggire in Russia con il resto della famiglia. Perché lo fece? Papà dice perché aveva scoperto che il suo comandante, da cui aveva preso il nome il reparto in cui si trovava, era stato cattivo con un bambino prima di diventare soldato e a lui la gente che è cattiva con i bambini non piaceva. Nemmeno a me, ed è per questo che non mi separo mai dal mio Blakky.Ma quando esco per lavorare devo stare attento lo stesso. La gran parte della gente ti ignora, qualcuno ti dà qualche spiccio ma c’è anche qualche grande che vuole farti del male. Spesso sono quelli che ti sorridono più degli altri. Prima ti sorridono, poi ti chiedono come si chiama il cane e io non glielo dico. Allora ti

offrono qualche caramella e cercano di accarezzarti la testa o di toccarti. È allora che il mio papà dice che bisogna scappare via, perché dice che quella gente improvvisamente si trasforma, come se diventasse un lupo mannaro. E allora non si controlla più. Prima sembrano buoni e poi diventano come il

menti Blakky le avrebbe buscate. Insomma, stamattina ho cominciato presto. Come al solito sono entrato nella prima carrozza, ho guardato se c’era qualcuno della sicurezza o qualche poliziotto e poi ho tirato fuori il bicchierino di plastica e ho cominciato a chiedere spiccioli. Blakky mi dava il tor-

mento. Mordeva e mordeva e mordeva. E poi, a forza di mordere, il guinzaglio mi andava a finire tra le gambe facendomi inciampare. All’inizio ho cercato di farlo stare fermo ma non c’è stato verso. La gente mi guardava e rideva e ridevo pure io perché Blakky è proprio un bel cucciolo, e tanto affettuoso anche se a questa età non si sa ancora controllare. Alla fine erano tutti intorno a noi e battevano le mani. Io tiravo per aria il bicchierino e Blakky lo afferrava al volo con i denti. Io glielo levavo subito altrimenti lo ciancicava tutto ma poi si ricominciava. Qualche spiccio l’ho rimediato lo stesso e mi sono anche divertito. Fino alle otto. Alle otto la gente che non è zingara va a lavorare e la metro si riempie di persone. Alle otto le porte automatiche si aprono ed è come se un mare duro irrompesse den-

«Bastardo piccolo zingaro...». Ho riflettuto: è vero, sono piccolo, zingaro, anche se noi diciamo nomade, e a giudicare da Blakky bastardo non mi sembra un insulto comandante del reparto dove faceva il soldato mio nonno. Lui è scappato e papà dice che, in casi del genere, anche io devo scappare. A me non è successo mai niente perché io capisco sempre quando è il momento di scappare. Non mi è mai successo niente, almeno fino a oggi.

Stamattina alle sette ero già al capolinea della metro. Blakky era un po’ agitato, come sempre, e aveva già cominciato a prendere di mira l’orlo dei miei pantaloni. È ancora piccolo e deve farsi i denti, così rosicchia tutto quello che gli capita a tiro, compreso l’orlo dei miei pantaloni. Una volta sono tornato a casa con un buco così ma ho detto a mamma che era stata colpa di un chiodo altri-

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come una corazza contro le infezioni. Puzzo un po’ ma mi ci sono abituato e in certi casi aiuta perché la gente, pur di non venire a contatto con te, si scansa più rapidamente. Ma oggi su quel vagone della metro c’era anche un grande cattivo. Me ne sono accorto perché l’ho sentito parlare ad alta voce e i grandi cattivi, quando parlano, si riconoscono subito dagli altri. Quando la porta della metro si è aperta ho fatto per uscire ma il guinzaglio di Blakky è rimasto impigliato con qualcosa all’interno del vagone. Così ho tirato ma il guinzaglio non voleva saperne di sganciarsi. È stato in quel momento che ho sentito il grande cattivo. Ha detto solo «bastardo piccolo L’autore, l’opera zingaro» e mi ha dato una spinta. I racconti pubblicati in queste pagine In quel momento fanno parte del ciclo dei Bimbi sperduti, la porta della meun ampio progetto creativo ed editoriale tro ha cominciato dedicato da Roberto Genovesi ai bambia richiudersi e io ni che nel mondo sono quotidianamente sono scivolato. vittime delle violenze individuali e colletSono piuttosto tive degli adulti. Giornalista ed esperto di magro perché media education, Genovesi si occupa da non mangio molmolti anni di narrativa e tv per i ragazzi to spesso e così ed è autore di romanzi e fumetti particonon mi sono melarmente attenti alle problematiche delravigliato quanl’infanzia e dell’adolescenza. Da qualche do sono andato a settimana è in libreria il suo nuovo finire giù proprio romanzo La vendetta di Augusto tra la pedana e il (Newton Compton) che vede come protavagone. Per forgonisti proprio un gruppo di bambini, tuna che il guinorfani o schiavi, che vengono addestrati zaglio del mio cacome sacerdoti dalle legioni romane. ne si è sganciato in tempo. Blakky è saltato fuori dal vagone proprio mentre la porta si richiudeva. Gli ho fatto segno di non seguirmi di sotto perché si sarebbe fatto male e poi non ho visto dice che queste sono le occasio- più nulla. ni migliori per sfilare qualche portafogli ed è per questo che Prima che arrivasse tutto lui comincia a lavorare proprio quel nero ho riflettuto sulle alle otto. Io invece sono ancora parole del grande cattivo che troppo piccolo per queste cose mi ha spinto e, tutto sommato, e non so nemmeno come si fac- ho pensato che non avesse tutcia. E poi la confusione era co- ti i torti. Io sono piccolo e nessì tanta che anche volendo… suno lo può mettere in dubbio. Per via delle spinte che mi da- E sono pure uno zingaro anvano mi è caduto il bicchierino che se papà preferisce che ci con gli spicci ma non c’ho pen- chiamino nomadi. E poi non è sato nemmeno un momento a vero che bastardo è una paroraccoglierli perché la gente sta- laccia. Lo è anche Blakky che va facendo male a Blakky. Lo è un cucciolo bellissimo. E alla hanno spinto, calpestato e io fine ho pensato, chi se ne imcapivo che gli facevano male porta di quello che mi ha detto per via di quel suo guaito pro- quel grande cattivo. L’imporlungato che fa solo quando, per tante è che Blakky non si sia sbaglio, qualcuno gli pesta una fatto nulla. Certe volte, quanzampa. Questa volta, però, lo do le persone mi dicono parofaceva più forte. le che non capisco, piango Allora ho cominciato a strillare perché mi accorgo che sono per farmi sentire e la mia voce parole cattive da come alzano si è andata a unire a quella di la voce. Papà dice che è per Blakky. Insomma, per un po’ questo che certa gente è diverabbiamo fatto un bel fracasso. sa da noi e che facciamo bene Fino a quando qualcuno si è a prendergli il portafogli. Ma fatto da parte e siamo riusciti stavolta non ho pianto. È diad arrivare alla porta che si ventato tutto nero… ma non apriva. Io non mi lavo spesso. ho pianto perché da dove mi Mamma me lo vieta perché di- trovo ora ho visto che Blakky ce che la sporcizia sul corpo è sta bene. tro i vagoni. Io di solito me ne vado prima ma oggi, per via del fatto che mi divertivo tanto a giocare con Blakky, mi sono scordato di guardare l’ora. Così quando ho cercato di uscire mi hanno spinto dall’altra parte del vagone e mi sono ritrovato con le spalle appiccicato alla porta. Mio fratello più grande


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach

Corre l’anno 1949: nasce l’Nba Dalla fusione fra le due leghe maggiori di basket (e i soldi dell’hockey) parte la guerra dei titani a National Basketball Association, il regno dorato e il sogno proibito dei cestisti di tutto il mondo, è in realtà figlia dell’hockey. Nata ufficialmente il 3 agosto del 1949, l’Associazione è in realtà frutto di una fusione fra la Basketball Association of America e la American Basketball League. La prima, nata nel 1946, è stata infatti voluta e fondata dai proprietari delle maggiori arene dell’hockey di America settentrionale e Canada. La data della sua nascita viene fatta risalire dunque a questa data: parliamo di 17 squadre, tutte costrette per statuto ad avere uno sponsor, che si dividono fra cittadine minuscole e grandi città. Proprio per questo, i dirigenti iniziano a mettere dei paletti che porteranno la Nba, nel 1953, ad avere soltanto 8 squadre: pur sponsorizzate, infatti, molte compagini risiedono in agglomerati urbani talmente piccoli da non potersi permettere stadi in grado di accogliere il sempre maggior numero di tifosi che segue il basket. Anche la Nba, come tutto il resto degli Stati Uniti, parte con la segregazione razziale: e anche se il primo giocatore tecnicamente “di colore” è il nippo-americano Wataru Misaka, il primo anno veramente interrazziale è il 1950. L’Associazione apre le porte agli afro-americani, spianando la strada a molte delle leggende della pallacanestro mondiale.

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Senza Chuck Cooper ai Celtics e Nat “Sweetwater”Clifton ai Knicks – che divennero loro malgrado vittime di razzismo becero nei primi anni di carriera – il mito di Michael Jordan probabilmente avrebbe saltato una generazione. E il più grande giocatore di tutti i tempi - simbolo e bandiera dei Chicago Bulls per dodici stagioni - sarebbe oggi probabilmente un pensionato. Come tutto negli Stati Uniti di quegli anni, anche la Nba diventa simbolo di volontà di crescita e ottimismo: gli anni della recessione sono combattuti con la riduzione degli stipendi e dei biglietti, la discriminazione viene schiacciata via dalla tenacia dei pionieri e le donne iniziano a calcare i parquet. Quasi un sogno se guardiamo a quello che l’Associazione è diventata oggi: un agglomerato di interessi contrapposti e personalismi, capace ancora di entusiasmare ma troppo spesso travolta da scandali legati al doping e agli eccessi dei giocatori. Mentre il “lockout” – lo stop al mercato dei giocatori e lo sciopero degli stessi contro un nuovo contratto di categoria “al ribasso” – sembrano aver fermato la prossima stagione.

Disconoscere l’avversario, errore fatale di destra e sinistra Dall’intervista che Errico Novi fa al filosofo e professore Sebastiano Maffettone si evince che la «sinistra...comparativamente è un po’ meglio» della Destra di Berlusconi. Nel corso degli anni, fino a tutto oggi, ho potuto constatare, anche sulla mia pelle, come tale affermazione non sia supportata dalla realtà.Tralascio, per carità cristiana, quello che i “comunisti” (non sono cambiati di una virgola)hanno fatto alla mia famiglia, io piccoletto, nelle “radiose”giornate della liberazione. Passiamo alla post laurea, per la ricerca del posto di lavoro in Umbria dove vivo. Tutte le strade chiuse,aperte solo per i sudditi del Pci somari, pecore, muli che fossero!, ed oggi non è cambiato nulla. Scandali, quelli che si sanno, dove la sinistra è impelagata fino al collo in Umbria con Sanitopoli, in Lombardia con Penati e compagni, in Emilia Romagna a Bologna, piani regolatori pro Coop ecc., in Abruzzo (fatti recentissimi), in Puglia nella sanità con Tedesco e compagni, ecc. ecc. ecc. Gli orologi d’oro, le macchine di lusso, le puttane, i trans, la cocaina e cose simili non fanno schifo a nessuno di questi ipocriti della sinistra. Negli enti locali, dove hanno quasi sempre comandato, anche al tempo della Dc, hanno fatto il brutto ed il cattivo tempo, tanto da permettersi diversi... orologi d’oro, macchine di lusso,ville al mare ecc, ecc. Anche se nel corso dei miei studi a Perugia non ho avuto come insegnanti universitari Karl Popper, ma semplici insegnanti come Tamborra,Marino Bon di Valsassina, Foderaro, l’esule zaratino Perini Bembo, Mastellone ecc, ho sempre ragionato prima in negativo, ma la conclusione è stata sempre la stessa: la sinistra è sempre la stessa, altro che mani pulite. Per quanto sopra pregherei Casini di non seguitare a flirtare con il Pd, altrimenti il suo progetto, per me poco credibile con lo 0,1% di Rutelli, il “traditore monegasco”Fini, il nostro 4/5% ed ora si parla anche del radical chic “baffino”, non avrà il sostegno di quelli come me che non sono andati a sinistra come la signorina Bindi (aveva ragione Cossiga nel suo giudizio su di lei)perché profondamente geneticamente schifati da quella e da questa sinistra! Se poi faccia tutto questo per arrivare a fare il presidente del Consiglio con Bersani e compagni (un Prodi ter) faccia pure... avrà sempre il mio “no grazie”.

Un vostro lettore Udc di Gualdo Tadino, Eriberto Polidoro

(Risponde Errico Novi) Gentile Eriberto, lei commette lo stesso errore che fanno a sinistra, almeno a mio modo di vedere: giudica infrequentabile una certa parte politica per le sue pregresse nefandezze. Nel Pd, e più a sinistra del Pd, riservano lo stesso trattamento alla destra: nessun sostanziale riconoscimento (tranne che a chi ripudia Berlusconi). A me non sembra che il progetto di Casini consista nel flirtare col Pd: molto più semplicemente il leader dell’Udc dice di voler costruire una nuova stagione per il governo del Paese con le sue espressioni migliori. E con chi, naturalmente, è in grado di condividere alcuni punti non negoziabili di un eventuale programma. Finora il Pd ha mostrato di voler davvero incrociare le attese di Casini e del centro? Non pare così. Il partito di Bersani continua a oscillare tra buoni propositi moderati e riflessi massimalisti. Altro è dire che in momenti drammatici il Pd sa esibire una cultura della responsabilità: gli eventi straordinari non bastano. Detto questo, non può essere nella condotta dei suoi peggiori esponenti locali, il motivo di una chiusura ai democratici. I veri nodi sono altri, appunto. Certo, lei contesta la pretesa di chi, come Maffettone, distingue comunque tra questione morale di destra e di sinistra. Maffettone però la mette sul piano del “qui ed ora”: è “questa” destra che, secondo lui, ha superato la soglia del tollerabile. Posso dirle che i più avveduti nello stesso Pdl ammettono (solo in forme riservatissime) che in periferia i peggiori sono loro. Non si lasci ingannare da quanto avviene nella sua Umbria o, per esempio, nelle Marche, dove le lobby di sinistra fanno carne da macello. Forse la colpa più grave di Berlusconi è nel non aver saputo favorire la crescita di una decorosa classe dirigente di destra, a Roma e lontano da Roma. Il Cavaliere ha sprecato occasioni straordinarie. Ed è forse questo il motivo, diverso da quelli citati prima per il Pd, che complica oggi un avvicinamento tra l’attuale governo e l’Udc.

L’IMMAGINE

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Un dipinto al bacio C’è l’artista che dipinge con le unghie e chi scrive poesie con la punta del naso. Natalie Irish, invece, realizza i suoi capolavori utilizzando le labbra. Dopo averle ripassate con uno spesso strato di rossetto, le appoggia sulla tela. Facendo pressione modula l’intensità del colore e modifica le sfumature

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Parla l’esperto statunitense Edward Luttwak: «Sono sempre più scettico sul ruolo degli occidentali in Medioriente»

«Goodbye, Damasco!» «Gli Usa non interverranno contro il regime siriano. Mentre la Turchia sta alla finestra...» di Pierre Chiartano un Ramadan di sangue per i siriani. Mentre sullo sfondo si delinea un cambiamento epocale: il grande ritiro degli americani dal Medioriente, feriti, indebitati e stanchi. Sulla strage nella città di Hama in Siria anche Ahmet Davotoglu, ministro degli Esteri turco, ha dichiarato che è «inaccettabile. Dunque Ankara sempre più in imbarazzo rispetto ai rapporti col regime di al Assad. E nel primo governo condotto da una maggioranza a ispirazione islamica, come quella formata dall’Akp, ciò che ferisce di più è la scelta dei tempi. All’inizio del Ramadan.

È

«È completamente sbagliato, è successo alla vigilia del Ramadan. È un fatto che condanniamo duramente», ha sbottato il ministro turco, durante una conferenza stampa, prima della sua partenza verso la Norvegia, dove assisterà ai funerali di una delle vittime del folle Anders Breivik. E Ankara, come ricordava ieri a liberal il generale Carlo Jean, è quella che ha

in mano i destini della Siria. Solo un intervento turco potrebbe determinare un cambiamento della situazione. Nel governo Erdogan si temono però conseguenze non volute e incontrollabili. A dimostrazione che forse la Turchia, a dispetto delle proprie ambizioni di potenza regionale, non ha ancora raggiunto quella sicurezza politica e quella stabilità interna necessarie per muoversi con determinazione nello scacchie-

lombia. E c’è aria di sgombero strategico dal Medioriente da parte di Washington, con la conseguente ripresa delle velleità di Parigi e Londra come broker regionali. Ma già dalla vicenda libica si vede con quali capacità i due Paesi siano in grado di muoversi. «I turchi sono i vicini di casa della Siria. Hanno un grande esercito. Però la loro specialità è quella di parlare – soprattutto Davutoglu – senza poi fare assolutamente

«Il regime baathista ha appena lanciato un canale satellitare dedicato alla religione islamica, ma sta chiudendo molte moschee. E molte di queste sono state trasformate in caserme dell’esercito» re mediorientale. Un fatto auspicato da molte cancellerie occidentali, anche quelle che hanno da sempre ostacolato l’ingresso di Ankara nella Ue.

«Oltre le chiacchere i turchi non andranno», conferma a liberal, Edward Luttwak, raggiunto telefonicamente in Co-

nulla. «Mentre il governo italiano si occupa di politica estera e manda le truppe in Afghanistan, in Kosovo, in Libano e agisce; il governo americano parla e agisce; i turchi parlano e non agiscono. Sia Erdogan – un islamista mal celato – che Davutoglu, prima abbracciavano i membri del governo siria-

no con segni di grande amicizia, dichiarando quanto quello di Damasco fosse un regime perfetto. Dimenticandosi quanto invece fosse e sia una sporca dittatura. Ora proferiscono minacce, ma non faranno assolutamente nulla. Quando i profughi siriani entrano in territorio turco, proibiscono ai giornalisti stranieri di parlare con questi profughi». Ricordiamo anche che nelle prime settimane della rivolta siriana c’erano state numerose polemiche nel mondo arabo contro la censura attuata dai media turchi, sulle notizie

provenienti dal Paese confinante. E anche un giornale arabo come Asharq Alawsat (Il Medioriente, testata edita a Londra sotto gli auspici dei reali Saud) ha sottolineato l’assurdità di certe posizioni di Damasco: «Il regime baathista ha appena lanciato un canale satellitare dedicato alla religione islamica, ma sta chiudendo molte moschee. E molte di queste sono state trasformate in caserme dell’esercito». Insomma le incongruenze del regime alawita sono ormai palesi in tutto il mondo arabo. Ma la Turchia

Ieri sit-in davanti a Montecitorio e maratona oratoria di solidarietà con i manifestanti siriani di Terzo Polo, Pd e Idv

L’Italia batte un colpo: via l’ambasciatore ROMA. Una maratona oratoria, partita ieri sera alle 20, con un sit-in di protesta davanti a Montecitorio organizzato dai partiti del Terzo Polo a cui si sono uniti il Pde l’Idv in un’unica manifestazione, senza distinzione di parte, facendo appello a tutte le forze politiche italiane anche della maggioranza, per la libertà della Siria, affinché i diplomatici siriani possano raccontare al loro governo che l’Italia è unita al fianco dei manifestanti siriani e contro ogni tipo di violenza.

Secondo Gianni Vernetti, deputato dell’Api ed ex sottosegretario agli Esteri, il regime di Assad «rappresenta uno dei principali elementi di instabilità in tutta l’aria mediorentale: sostiene militarmente ed economicamente i gruppi terroristi, minaccia costantemente la sovranità libanese, ha un pericoloso accordo militare con l’Iran.

di Franco Insardà Serve una nuova risoluzione in Consiglio di sicurezza, sono necessarie nuove sanzioni, bisogna aumentare in ogni modo l’isolamento diplomatico del regime. Anche per questo ritengo che l’Italia debba intraprendere un’iniziativa diplomatica con l’obiettivo di

per definire un preciso piano di sanzioni, di pressioni e di blocco dei beni del regime siriano». Lunedì il Terzo Polo lo aveva chiesto a gran voce: «Il governo deve richiamare in Italia per consultazioni il proprio ambasciatore e interrompere le rela-

Gianni Vernetti (Api): «Serve un’iniziativa diplomatica con l’obiettivo di deferire il regime di Assad alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità dell’Aja» deferire il regime di Assad alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità dell’Aja». Mentre Alessandro Ruben, deputato di Fli nel corso del dibattito alla Camera sulla crisi siriana, ha invitato formalmente il governo italiano «a operare insieme ai partner europei e alle Nazioni Unite

zioni diplomatiche con la Siria. Inoltre deve insistere nel chiedere alla Ue interventi immediati e ogni tipo di sanzione contro il regime di Assad». Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini ha deciso di richiamare per consultazioni l’ambasciatore a Damasco Achille Ameri. Un’iniziativa, come ha chiarito

la Farnesina, presa per «dare un forte segnale di riprovazione per le inaccettabili repressioni operate dal regime siriano». E l’Italia, si legge sempre nella nota della Farnesina, ha proposto anche il richiamo degli ambasciatori di tutti i Paesi della Ue, ma l’appello è caduto nel vuoto. Il portavoce del capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, infatti ha sottolineato che l’Unione europea non prevede di richiamare il suo ambasciatore a Damasco ed ha dichiarato: «La decisione di richiamare gli ambasciatori spetta agli Stati membri, noi non abbiamo nessun ruolo decisionale per questo». Se a questo si aggiunge che lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha trovato un accordo sull’adozione di una bozza di risoluzione che condanna la Siria il cerchio è chiuso. Sulla vicenda siriana il Terzo Polo ha incalzato il governo e il sottosegretario


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sempre a Londra, sottolineava qualche tempo fa la necessità di porre fine all’ «eccezione siriana», secondo cui il regime di Damasco sarebbe diverso da quello egiziano e da quello tunisino, da quello libico e da quello yemenita: «non farlo significherebbe barattare i diritti politici fondamentali dei siriani con le politiche arabe del regime», scriveva la testata palestinese. Il consulente del Pentagono non è però pessimista sul futuro della protesta: «Non penso che al Assad possa farcela a soffocare nel sangue la rivolta. Il padre riuscì a sedare una ribellione (1982, ndr) col massacro di 10mila persone. Bashar, per for-

«Il governo americano ha deciso: questa zona non produce, non crea e non inventa, ma sa soltanto urlare, esigere e pretendere. Da ora in avanti se la dovranno cavare da soli»

non cambia ancora marcia. «Chi fugge dalla Siria per andare in Turchia – spiega il politologo Usa – viene reso muto». Quindi Luttwak esprime tutto il proprio disappunto per il comportamento del premier turco e del suo responsabile al dicastero degli Esteri. Ciò che suggerisce l’esperto americano è che di fronte all’incapacità di garantire un minimo di libertà ai profughi, come si potrà mai intervenire in maniera drastica contro il regime di Damasco. E discutere di intervento militare sembra essere diventato un

semplice esercizio di retorica politica: se ne parla sicuri di non doverlo attuare.

«Nessuno farà alcun intervento militare. Gli americani hanno deciso di abbandonare la zona degli “asciugamani in testa”dall’Afghanistan, all’Iraq al Medioriente. In Libia ha rifiutato il ruolo tradizionale di chi vince le guerre. Perciò ha lasciato quella vicenda in mano ai francesi e agli inglesi. Ma come ben si è visto e si vede non sono riusciti neanche a sconfiggere un Gheddafi con qualche

mercenario africano». Traduzione: la nuova politica occidentale in Nordafrica e in Medioriente sarà presto nelle mani di incapaci. Siamo nei guai. «Questa volta Washington ha evitato di farsi coinvolgere per poi essere criticata». Presa anche da problemi molto più importanti. «I francesi hanno detto benissimo, non c’è bisogno degli americani: facciamo noi». Si è visto con che risultato. «Il governo Usa ha deciso che in questa zona che non produce, che non crea, che non inventa, ma che sa solo urlare, esigere e

pretendere, dal prossimo futuro se la dovranno cavare da soli. Parliamo di una regione che va dall’Afghanistan al Marocco. Il nostro focus oggi è in Asia e nel Pacifico, con un confronto emergente con la Cina. Un confronto che potrebbe portare a uno scontro, ma che ha condotto anche a diverse collaborazioni. Dobbiamo interagire con gente che ha voglia di lavorare, cooperare e produrre. È una decisione strategica che dovrebbe essere molto chiara».

«In Siria gli americani non interverranno. L’unica speranza è che quel regime di contrabbandieri legalizzati, di ladri e di torturatori crolli, come penso avverrà». E anche una testata come Al Quds al Arabi (Gerusalemme Araba), gestita da palestinesi espatriati e pubblicata

all’Esteri, Stefania Craxi, ieri durante l’informativa alla Camera ha detto: «Dobbiamo continuare ad agire per fare in modo che sia il popolo siriano, a cui l’Italia continuerà ad assicurare sostegno e vicinanza, a decidere il suo futuro. Il ministro Frattini sta approfondendo tutte le misure più opportune e ha deciso di richiamare il nostro ambasciatore per consultazioni, per dare un forte segnale».

Intanto con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, sono entrate in vigore le sanzioni che l’Unione europea ha imposto su altri cinque membri del regime siriano che si aggiungono alla lista di 29, guidata da Assad. Tra i cinque, anche il ministro della Difesa Ali Habib Mahmoud, due membri della famiglia Assad, tra cui uno zio del presidente, e due alti ufficiali del’intelligence, compreso il responsabile dei servizi segreti a Hama. Mentre dopo le delle dichiarazioni del capo della diplomazia britannica William Hague, secondo cui un intervento armato non dovrebbe essere una «remota possibilità», la Germania invita alla cautela. «In Libia abbiamo avuto

tuna, non è in grado di farlo. Gli alawiti combatteranno fino all’ultimo, ma sono una minoranza e sono localizzati solo in certe aree del Paese. C’è il rischio di una guerra civile, anche perché il governo ha continuato una politica di divisione etnica. Ci sono dunque le condizioni per incoraggiare un conflitto civile. Qualche segnale c’è già stato, con aggressioni e omicidi di carattere etnico. Il problema è la Turchia che parla, ma non agisce». Riguardo alla presenza e all’efficacia dell’azione dei Fratelli musulmani in Siria, Luttwak è critico: «in ogni Paese dove manca una vera rappresentanza politica, ci sono sempre loro. Ma cosa offrono? Slogan e retorica, senza mai affrontare i problemi economici e sociali. Lavorano quasi in ogni moschea, ma quagliano poco».

una risoluzione dell’Unione Africana e della Lega Araba - ha ricordato il sottosegretario agli Esteri tedesco, Werner Hoyer -, in questo caso non abbiamo nulla di paragonabile». Posizione ribadita anche dal ministero degli Esteri francese: «Le situazioni in Libia e in Siria non sono simili - ha premesso la vice portavoce del Quai d’Orsay, Christine Fages. Noi continuiamo a lavorare a New York con i nostri partner». Il che, dopo la prima riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, conclusasi con un nulla di fatto a causa delle divisioni fra i Paesi membri e per l’opposizione di Russia e Cina, significherà una semplice dichiarazione non vincolante.

Sopra il dittatore siriano Bashar el Assad, responsabile della repressione sanguinosa di questi giorni dei manifestanti a Damasco; in alto Edward Luttwak

I l t u t t o m e n t r e i n S i r i a c on t i n u a a salire il bilancio della repressione. Ventiquattro civili sono stati uccisi lunedì, dieci dei quali dopo la preghiera della sera nel primo giorno di Ramadan, che si aggiungono agli oltre 130 morti del fine settimana. Secondo l’Onu, dall’inizio delle proteste di marzo in Siria, di almeno 3000 persone non si hanno più tracce, mentre 12000 sono state incarcerate.


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Uno dei maggiori esperti di Siria indica come dobbiamo agire per sostenere una rivolta diversa da tutto il resto della Primavera

Ecco chi si può aiutare L’opposizione al regime di Assad è divisa ma porta avanti la stessa richiesta: libertà di Joshua Landis na grande parte della popolazione siriana è molto arrabbiata con gli Stati Uniti. Soprattutto i sostenitori di Assad, che ritengono Washington il vero fomentatore delle rivolte in corso nel Paese. Dobbiamo ricordarci che le proteste sono partite dopo che l’ambasciatore americano Robert Ford si è recato ad Hama - nota roccaforte dell’opposizione - per dimostrare che gli Stati Uniti sono dalla parte di quella popolazione. Ma è stata anche la prima volta che un rappresentante ufficiale dell’ambasciata ha mostrato di parteggiare per l’opposizione. Le dimostrazioni lealiste, questo va detto, sono state per la maggior parte realmente spontanee. Partite dal quartiere cristiano di Damasco, le proteste sono arrivate davanti all’ambasciata. Ma ovviamente nulla di tutto questo sarebbe mai potuto avvenire se il governo e l’esercito siriano non avessero dato il loro permesso: hanno la capacità di fermare tutto ciò che vogliono.

U

Ora gli Stati Uniti hanno poche opzioni davanti: possono ritirare lo staff diplomatico, ma non penso che il presidente Obama voglia farlo. Vogliono avere un ambasciatore, e un’ambasciata, che possa girare per il Paese e parlare con la popolazione, in modo da sapere cosa sta succedendo realmente. La migliore fonte di intelligence, al momento, è proprio diplomatica. D’altro canto ci sono però molte persone per la maggior parte repubblicane - che a Washington spingono proprio per il ritiro. Va detto che è stata la posizione dei neo-conservatori a spingere (almeno, è una possibilità) l’ambasciatore Ford a compiere il suo viaggio ad Hama: molti di loro, fra cui Jennifer Rubin sul Washington Post, lo accusavano da tempo di essere un fantoccio di Assad. E il Dipartimento di Stato era molto preoccupato dalla possibilità di essere indicato come un sostenitore del regime. Certo, gli Stati Uniti potrebbero anche convocare l’ambasciatore siriano Imad

Isolare il regime e ripartire con le sanzioni: facciamolo per noi

Tra guerra e ignavia c’è una terza via di Danielle Pletka nche la Siria ha avuto la sua “bloody sunday”, la sua domenica del sangue. Almeno 80 persone sono morte nelle città di Deraa, Idlib e Hama. Quest’ultima era già stata il teatro di un massacro: nel 1982, Assad padre ordinò la strage di più di 20mila “islamisti”. Da quando la Primavera araba ha toccato quest’ultimo, resistentissimo bastione della dittatura araba sono morte almeno 2mila persone: tutte per mano del governo. Apparentemente, il massacro di domenica è stato “troppo” per il presidente Obama: si è definito “sgomento”. Allora è stato lui a convocare una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza Onu? No, quello l’hanno fatto Italia e Germania. Allora è lui che ha ordinato di rafforzare le sanzioni? Neanche, quello l’ha fatto l’Ue. Ma ha fatto qualcosa in più che scrivere un comunicato e pubblicarlo? No. Alcuni sostengono che l’indifferenza americana sia giusta, altri che sia sbagliata. In pratica qualcuno vuole “non fare nulla”e qualcun altro invoca “una quarta guerra”. Invece è importante sottolineare che esiste un’ampia gamma di possibilità fra la guerra e l’inerzia. Da un punto di vista decisionale, gli Stati Uniti sembrano scivolare verso la fine.

A

E se lo staff del presidente (i politici, non i decisionisti) si potrebbe consolare pensando che portare l’Europa al Consiglio di Sicurezza per sanzionare la Siria sia una sorta di “guida dalle retrovie”, dovrebbe invece rendersi conto che siamo molto

più indietro di quanto sembri. Assad sta imparando la lezione della Libia. Contro tutte le previsioni, e nonostante “l’impegno” della Nato, Gheddafi è ancora aggrappato al potere. E se dovesse continuare a rimanerci attaccato, coloro che in Europa gli si oppongono inizieranno a perdere interesse. Proprio come sta facendo Obama. E la popolazione libica tornerà sotto la sua catena. In Siria stiamo facendo ancora di meno.

Il nostro ambasciatore è rimasto dietro le quinte per “testimoniare” il massacro (per consolare i sopravvissuti?). Siamo apparentemente troppo distratti per fermare l’Onu (il cui maggior finanziatore è l’America) dal far ripartire la propria partnership economica con il regime di Assad. È arrivato il momento di richiamare il nostro ambasciatore, chiedere al dittatore di andarsene, iniziare a trovare dei modi per sostenere l’opposizione siriana, isolare ancora di più le forze fedeli al regime, isolare la Siria dal resto del mondo e iniziare il processo di sostegno alla libertà di quel popolo. Se non vogliamo farlo per loro, facciamolo per noi stessi. La Siria è l’alleato più importante dell’Iran, e inizia a contare su una rete pericolosa e sparsa per tutto il mondo. La caduta di Assad darebbe un colpo e un segnale molto forte al regime degli ayatollah. Come ha detto in maniera egregia Martin Indyk del Brookings, non c’è da pensarci molto: si tratta di un’unione perfetta fra i nostri valori e i nostri interessi. E così sia.

Moustapha. È stato già richiamato per i rapporti secondo cui starebbe monitorando e ostacolando l’opposizione siriana che vive negli Usa, usando video e foto per certificare chi partecipa alle manifestazioni

nel Paese sono molto significative: parliamo del 12 per cento alawita [una setta islamica eterodossa che costituisce la base del potere degli Assad], un 10 per cento di cristiani e un altro 5 per cento di altre minoranze.

Nel Paese esistono moltissimi piccoli gruppi: gli islamici, i laici, i nazionalisti, gli internazionalisti, quelli che vogliono dialogare e quelli che non ci pensano nemmeno. Molti raggi senza un ombrello contro la dittatura che si svolgono nel Paese. Insomma, c’è una certa volontà di fare pressione sul governo di Damasco. Ma non basta. Bisogna infatti tenere presente che in Siria esiste una larga fetta trasversale della popolazione che si ritiene fedele ad Assad. Fra questi le minoranze, che

Un totale pari al 27 per cento della nazione: temono la presa di potere dei partiti islamici e le conseguenti “pulizie etniche” che – ne sono convinti – seguirebbero immediatamente. Queste persone ricordano il detto secondo cui “quando c’è una rivoluzione, c’è sempre qualcuno che la paga”. Dobbiamo poi in-


la crisi siriana coloro che sono al governo. Il problema di base è che l’opposizione al regime, in Siria, è sempre stata molto frammentata: ecco perché gli Assad sono riusciti a rimanere così a lungo al potere. Non esiste partecipazione politica – i partiti sono stati banditi sin dalla presa di potere del “Leone”, nel 1963 – e l’unica formazione che ancora resiste è quella, spesso estremista, dei Fratelli musulmani. Per Damasco, esserne membro è un crimine capitale.

L’opposizione, oggi, è guidata da giovani attivisti fra i 20 e i 30 anni, per la maggior parte anonimi per scelta. Devono preservare questa scelta, che diventa una forza non da poco: gli permette di evitare per la maggior parte delle volte il regime. Ma è anche una debolezza enorme, dato che non permette la creazione di una leadership riconoscibile e riconosciuta. Il risultato di questa situazione è che esistono moltissimi piccoli gruppi: gli islamici, i laici, quelli nazionali, quelli internazionali, quelli che vogliono dialogare e quelli che non ci pensano nemmeno. Molti raggi senza un ombrello comune. Nonostante questo fattore, però, l’opposizione è riuscita a portare avanti in maniera organica le proprie richieste. E questo messaggio contiene diverse sfaccettature: dignità, li-

serire nella lista la media borghesia e tutti coloro che, per un motivo o un altro, hanno paura della guerra civile: sostanzialmente tutti coloro che hanno qualcosa di sostanziale da perdere, che siano i propri affari, i propri negozi o anche l’impossibilità di mandare i propri figli a scuola. Vogliono delle riforme, certo: ma le vogliono vedere in maniera progressiva. Hanno paura della “sindrome irachena”, ovvero la scomparsa della borghesia. In Iraq, i sunniti sono stati scaraventati dal vertice della scala sociale all’ultimo gradino e ne stanno pagando il prezzo. È chiaro che gli alatiti temono la stessa sorte. Infine vanno considerati i due milioni e mezzo di iscritti al partito Ba’ath, che temono di finire purgati dopo la caduta del regime (anche qui, proprio come è avvenuto in Iraq).

Non ci sono segnali che dimostrino un cedimento strutturale del governo. L’esecutivo non è stato in grado di domare il dissenso e ora paga un prezzo molto alto, sia economico che dal punto di vista della politica internazionale. Ma sicuramente questo non lo ha incrinato dall’interno: non si sono verificate grandi fughe dai membri del regime o, cosa ancora più importante, dai generali dell’esercito. Il non essere

riusciti a domare il dissenso deriva dal fatto che le manifestazioni di piazza sono state spontanee e improvvise, dato che una parte della popolazione – ma non i “soliti noti”al regime – ha deciso di unirsi alla Primavera araba in corso nel resto della regione. In molti modi, l’opposizione siriana non era pronta per quello che si è verificati. Insomma, sono saltati sul treno in corsa ma di sicuro non hanno fatto partire la locomotiva.

Siamo al paradosso per cui moltissimi dei leader dell’opposizione “seconda versione”non si conoscono fra di loro; in alcuni casi ignorano proprio l’esistenza di persone che, come loro, stanno guidando manifestazioni simili in altre città del regime. Soltanto da poco hanno iniziato a conoscersi, incontrandosi di nascosto, ma hanno scelto di rimanere anonimi e di limitare al minimo i contatti: quello in corso è un gioco pericoloso e loro sono il bersaglio mobile di tutti

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fra i gruppi di opposizione. Persino la Fratellanza musulmana si è piegata e ha giocato secondo le regole: hanno dimostrato di voler limitare la retorica religiosa e concentrarsi sul pluralismo politico, un cambiamento molto importante rispetto alle rivolte siriane degli anni ’80.

In conclusione, non sappiamo come andrà a finire: tutti gli analisti sono divisi su questo tema. Di sicuro non è ancora una guerra civile, dato che le linee contrapposte non si sono ancora divise su dei confini settari. Il regime e l’opposizione non hanno “rotto” i confini religiosi, ma questo non toglie nulla al fatto che la maggioranza dei dimostranti è sunnita, povero, giovane e si sente alienato dalla persecuzione del regime. L’opposizione ha promesso di portare altre persone in piazza, di convincere altri siriani della bontà del loro progetto: fino ad oggi non è chiaro se ci riusciranno o meno, ma si sono dimostrati molto resistenti. Dall’altra parte, però, il regime è rimasto unito; i militari sono schierati e la forza è dalla loro parte. L’Unità di intelligence economica ha prodotto un’analisi secondo la quale il regime non può continuare a lungo a mantenersi al potere per mancanza di fondi. Ritengono che le difficoltà economiche che affronta la Siria siano arrivate al punto di non

L’identikit della maggioranza dei dimostranti è presto fatto: sunnita, povero, giovane e alienato dalla persecuzione del regime. Persino i Fratelli musulmani hanno deciso di seguire le loro regole bertà, fine della corruzione e fine del regime. La presenza di slogan religiosi è stata molto limitata e, quando si è verificata, i contrappesi all’interno dell’opposizione sono riusciti a fermarli. Questo dimostra che esiste un piano centrale e una pianificazione comune, e anche una qualche forma di accordo

ritorno: ma abbiamo già visto nazioni di quell’area che, sotto pressione economica, non hanno condotto alla caduta delle dittature. La povertà non conduce necessariamente alla democrazia: storicamente, le sanzioni non sono mai riuscite a ribaltare i regimi. Sono un espediente molto popolare in Occidente perché rappresentano un trucco politico: soddisfano i gruppi di pressione interna e costano molto poco. La Siria è al tempo stesso simile e diversa alle altre nazioni dove è sbocciata la Primavera araba. Egitto e Tunisia sono caratterizzate da religione ed economia comune: in entrambi questi Stati, il governo è riuscito a creare una comunità nazionale. Ma nel Levante questo non è accaduto: esistono grandi differenze ed è molto debole il senso di unità nazionale. Ma tutti coloro che protestano dicono la stessa cosa: quindi c’è una cultura comune, un sentire e un movimento unico. In un certo senso, siamo davanti all’ultimo bivio della storia moderna dei Paesi arabi: se vincerà il senso di comunità, porterà grandi frutti non soltanto alle singole nazioni ma a tutto l’insieme.


ULTIMAPAGINA Aberdeen rifiuta di intitolare un ponte a Kurt Cobain e forse ne salva la memoria. Chi si ricorda infatti di Downing?

Il catalogo delle strade di Osvaldo Baldacci estini incrociati agli incroci stradali. Personaggi famosi cui dedicare strade cittadine, ma anche strade famose che fanno dimenticare la persona a cui sono dedicate. E intitolazioni che fanno sorgere polemiche, o polemiche che impediscono intitolazioni. Il tema è tornato alla ribalta in questi giorni per il caso di Aberdeen, la cittadina nello Stato di Washington che aveva pensato di dare a un ponte il nome del suo concittadino Kurt Cobain, leader scomparso del gruppo musicale Nirvana. Ma l’opposizione alla proposta è stata talmente forte da far saltare la decisione. Drogato e suicida, ribelle trasgressivo oltre i limiti, tutt’altro che un modello: per questo secondo gli oppositori non poteva essere accettabile tributargli l’onore onomastico. Una diatriba interessante, che suscita molte riflessioni, ma dà anche lo spunto per una ricerca su molte curiosità nascoste tra le strade del mondo e i loro nomi. Kurt Cobain visse ad Aberdeen la sua adolescenza dopo essere nato a Hoquiam e si uccise a 27 anni, circostanza che lega la sua morte ad altre star della musica scomparse alla stessa età, come Jimi Hendrix e pochi giorni fa Amy Winehouse. La sua candidatura è stata bocciata seccamente, dieci contro uno: “un cattivo esempio per i giovani”.

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Si potrebbe pensare che tanti cittadini illustri Aberdeen non li ha avuti, e quindi forse è lecito intitolare un pezzo di città a personaggi di questo tipo, comunque legati comunque più allo spettacolo che a cose ben più gravi come criminalità, tirannie, guerre. Però è altrettanto lecito che una comunità decida di dare onore a chi ritiene un modello, e quindi non è obbligatorio celebrare chi comunque ha distrutto la sua vita. Riflessione che non posso esimermi dal fare neanche su Amy Winehouse: sta incalzando il processo della sua “beatificazione”, ma è molto evidente che si tratta di un obiettivo a scopo commerciale. Non è perché hai una splendida voce e muori a 27 anni che diventi un personaggio fantastico, e se si può credere che la giovane sia una vittima schiacciata dal mondo che l’ha triturata, non si può accettare che quello stesso mondo torni a sfruttarne l’immagine di vittima per raddoppiare i ricavi: se c’è una vittima ci devono essere pure i carnefici, e non è il destino cinico e baro. Ma torniamo alla toponomastica. Perché poi non è detto che il matrimonio fra strade e personaggi da onorare funzioni sempre e comunque. Ad esempio in Inghilterra, ma certamente non solo lì, ci sono luoghi che hanno acquistato di per sé una tale fama da aver del tutto occultato il valore del personaggio cui era intenzione fare onore con la dedica. E oltre alle controversi e ci sono molte incongruenze. Basti pensare alla celebre Penny Lane di Liverpool. Celebre per i Beatles, ma chi era Penny? James Penny, mercante di schiavi del diciottesimo secolo. Non proprio un personaggio dai valori oggi condivisi, e comunque neanche un personaggio tanto illustre. Ma grazie ai Beatles Penny Lane ha conquistato una fama tutta sua, prescindendo dal suo originario titolare. Difficile che oggi qualcuno decida di intitolare di nuovo una strada a James Penny, ma si può escludere che verrà in-

DIMENTICATE titolata una strada alla strada dei Beatles, una Penny Lane Street? Qualcosa di simile si potrebbe dire per Downing Street: chi caspita è Downing? Solo una ricerca ci permette di scoprire che Sir George Downing fu un soldato e diplomatico che prestò servizio sotto Oliver Cromwell, nel diciassettesimo secolo, se per caso interessi a qualcuno. D’altro canto lo scopo delle intitolazioni delle strade è quello di creare un immenso museo della memoria a cielo aperto per ricordare costantemente pezzi della propria storia e persone e valori cui ispirarsi. Ma succede anche il contrario, ci si anestetizza e si passa mille volte per una via, o se ne immette il nome nel navigatore, senza che nel nostro cervello si accenda alcuna lampadina. Poi ci sono strade che conservano il loro nome tradizionale senza un’origine chiara, ma solo perché da chissà quanto si chiamano così ed è così che la gente le trova. Oppure hanno un’origine incerta: ad esempio a Londra gli esperti discutono su chi sia Bucca da cui deriva Buckingham o Padda da cui scaturisce Paddington.

L’uso poi di intitolare strade non è uniforme nel mondo. Lì dove ci sono nuove costruzioni nuovi nomi sono necessari. Ma nelle città dalla storia antica i nomi precedono le decisioni e seppure a volte vengono cambiati (per dare speciali onori o per cancellare errori di valutazione storica) sono casi non rari ma davvero accompagnati da accesi dibattiti. Spesso incide la mutata coscienza storica per la quale quel che valeva un tempo oggi non vale più. Esempio non tanto banale le vie italiane di stampo fascista cancellate con la Repubblica, mentre si discute (per la verità non moltissimo) di vie ancora intitolate all’Unione Sovietica e a Stalin. Ma in Italia che di strade ne ha

davvero tante, i nomi sono appunto una questione antica, che ha avuto forse il suo ultimo rinnovamento di massa con l’unità. Ecco dunque che Giuseppe Garibaldi è il più citato in vie e piazze d’Italia, con 4247 intitolazioni. Segue Giuseppe Mazzini con 3307. ottimamente piazzati anche Cavour (solo a Roma ha sia una via che una piazza), e i vari Savoia.

Distante Giovanni Giolitti con 261. Nomi che competono con le ovunque presenti via/piazza Italia e Roma, mentre è facile comprendere perché altre intitolazioni ovunque diffuse richiamino ad esempio Dante o Marconi. E anche in Italia ci sono le polemiche persino sui nomi storici. Di recente nei comuni di Udine,Trieste, Gorizia, Cremona, Genova, Savona e La spezia si è

La Penny Lane dei Beatles è intitolata a un feroce mercante di schiavi del XVIII secolo. Mentre la residenza del primo ministro inglese ricorda un soldato di Cromwell chiesto di sostituire la toponomastica dedicata al generale Armando Cadorna. All’estero in Francia vince la dedica a De Gaulle, seguita però da Giovanna d’Arco e Victor Hugo. In Germania i personaggi“di strada”sono molteplici, da Goethe a Bismark a Kant. Forse le dispute più accese si scatenano nei Paesi anglosassoni proprio perché lì non è così onnipresente l’abitudine di dare nomi di persone a strade e piazze. In Gran Bretagna molti posti portano ancora nomi consuetudinari, ed è normale imbattersi in Station Road, Main Road o High Street. Negli Usa poi a prevalere fu addirittura la numerazione delle strade, come la famosa Fifth Avenue. In Giappone poi i nome delle vie proprio non esistono, ad essere indicati sono gli isolati, classificati per numero.


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