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he di cronac

L’economia è lo studio dell’intera umanità nei suoi affari quotidiani Alfred Marshall

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 4 AGOSTO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Una relazione modesta con solo la promessa di un piano Sud. Un pessimo preludio all’incontro con le parti sociali

Berlusconi: si sbaglia la crisi... Casini: basta propaganda, un tavolo comune per la crescita Un dibattito mediocre: dal premier nessuna misura per lo sviluppo ma solo elegie del suo operato. Allora perché stiamo affogando? Anche Alfano e Bersani scelgono la polemica, ma così non si va avanti INADEGUATEZZE

di Marco Palombi

Non ci siamo. Una svolta o si muore

nessuna autocritica, molta autoesaltazione e non una misura concreta. È una fumata nera l’atteso discorso del premier sulla crisi internazionale. E alle promesse del governo, il leader centrista Casini risponde: la situazione è grave, perciò servono fatti, e servono subito. E proprone, subito, una commissione per la crescita per fare proposte in sessanta giorni. a pagina 2

di Savino Pezzotta el suo discorso pronunciato ieri prima alla Camera dei deputati e poi al Senato, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sostenuto in maniera tranquilla che stiamo bene. Che il Paese si trova in una situazione economica e finanziaria sostanzialmente solida e che la ripresa si verificherà molto presto. A mio avviso, questo è stato un discorso che non ha affrontato in alcun modo e da nessun punto di vista le vere questioni che attanagliano la nazione. Il presidente del Consiglio è stato estremamente superficiale rispetto alle cose che vanno fatte per ripartire davvero. Dire che la situazione non è preoccupante, che tutto sommato stiamo meglio di altre realtà nazionali vuol dire che non si ha la cognizione di cosa succede nel Paese. a pagina 2

Falso scoop al tribunale di Napoli

ROMA. Mezz’ora di parole:

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Becchetti: «Niente di nuovo, tranne l’appello generico all’unità» Per l’economista, il Cavaliere si è preoccupato solo di rassicurare i mercati. «Ma senza nessuna idea di futuro» Franco Insardà • pagina 4

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Nasce l’asse Tremonti-Juncker, i due “commissariati”d’Europa Sarkozy vuole silurare il presidente dell’Eurogruppo. Che prova a resistere e chiede aiuto al superministro

Il giallo Papa: nessun errore nella notifica

Gli avvocati fanno ricorso ma avevano solo perso una raccomandata. Intanto la Camera si riduce le ferie. Fini: se serve, aperti a Ferragosto Gualtiero Lami • pagina 6

Enrico Singer • pagina 5

L’ex presidente arriva in aula in barella ma chiede subito di essere scagionato

Il Faraone alla sbarra: «Sono innocente» Al Cairo è iniziato tra scontri e tensioni il processo a Mubarak di Pierre Chiartano

Le ragioni della magistratura e quelle della folla

Serve una giustizia giusta, anche per un tiranno

i riaccende la tensione nelle piazze egiziane con il vecchio rais alla sbarra. Ma sarà la Norimberga egiziana o un processo farsa, con maxischermo in piazza per seguire la diretta tv? Ieri al Cairo nella sede dell’Accademia di polizia è cominciato il processo a Hosni Mubarak, deposto dopo la rivolta della scorsa primavera. Mentre all’esterno i sostenitori delle due fazioni pro e anti Mubarak si affrontavano. L’ex presidente 83enne, ricoverato a Sharm el-Sheikh dallo scorso aprile, è entrato in barella nella gabbia per gli imputati, dove si trovano anche i suoi figli Alaa e Gamal con le tute bianche da carcerati.

uale che sia il suo destino, il Faraone rimarrà nella memoria collettiva seduto su una sedia a rotelle mentre – da dietro una gabbia decisamente esagerata – si proclama innocente.

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

150 •

WWW.LIBERAL.IT

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 4 agosto 2011

il fatto «Il governo ha fatto tanto e tanto deve ancora fare»: il Cavaliere parla per mezz’ora e accusa la speculazione internazionale

Un dibattito scandaloso

Da Berlusconi nessuna misura concreta: così non convincerà le parti sociali. Anche da Bersani e Alfano discorsi al di sotto della necessità il commento di Marco Palombi

ROMA. La giornata della medio-

crità, tra l’autodifesa d’ufficio del premier e gli interventi solo polemici di Alfano e Bersani è cominciata di mattina col giallo dell’orario. Silvio Berlusconi - dopo che il suo ministro Elio Vito martedì aveva avallato la scelta di farlo intervenire alla Camera alle 15 - ha deciso che non vuole parlare a mercati aperti. Scelta bizzarra, quasi si temesse che un discorso del presidente del Consiglio in Parlamento possa causare una tempesta in Borsa: come che sia palazzo Chigi ieri mattina ha fatto presente a Gianfranco Fini che l’intervento andava posticipato. Meglio alle 17, dicevano gli uomini del governo. Passa un’oretta e ci ripensano di nuovo: meglio le 17.30, così i mercati sono proprio chiusissimi. «Una scelta saggia, assolutamente opportuna», la definisce il capogruppo leghista Marco Reguzzoni e anche Pierluigi Bersani si lascia andare ad un «mi sembra logico».

Intanto la scrittura del capitale discorso del premier era continuata di notte e nella mattinata secondo il solito canovaccio: consiglieri e ministri mandano le loro note scritte, lo staff di palazzo Chigi assembla il tutto prendendo suggerimenti qui e là. Il traballante Giulio Tremonti ci tiene a far sapere che lui ha supervisionato la stesura (ma non è proprio così), i giovani turchi del Pdl – che poi non sono tanto giovani – sottolineano il ruolo avuto dai ministri Sacconi e Romani, mentre sui giornali viene tirato in ballo anche Mario Draghi, che avrebbe avuto un colloquio telefonico sul tema con Berlusconi in persona (in realtà Bankitalia, come al solito, ha fornito materiali alla presidenza del Consiglio, che poi è stata sollecitata a tenerne conto dal preoccupatissimo Quirinale). Comunque, spiegava Gaetano Quagliariello, non è che l’idea di parlare in Parlamento sia del governo: «È importante ricordare la genesi di questo momento: il presidente del Consiglio è stato sollecitato dall’opposizione». Alla fine, comunque, l’ora del Cavaliere arriva, Montecitorio si riempie pian piano a partire dal primo pomeriggio. Silvio Berlusconi prende la parola nell’aula della Camera all’orario previsto,

Un esecutivo di unità nazionale per affrontare i problemi urgenti. E poi al voto

Non ci siamo. Una svolta o si muore di Savino Pezzotta el suo discorso pronunciato ieri prima alla Camera dei deputati e poi al Senato, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sostenuto in maniera tranquilla che stiamo bene. Che il Paese si trova in una situazione economica e finanziaria sostanzialmente solida e che la ripresa si verificherà molto presto. A mio avviso, questo è stato un discorso che non ha affrontato in alcun modo e da nessun punto di vista le vere questioni che attanagliano la nazione. Il presidente del Consiglio è stato estremamente superficiale rispetto alle cose che vanno fatte per ripartire davvero. Dire con leggerezza che la situazione non è preoccupante, sostenere che tutto sommato stiamo meglio di altre realtà nazionali, affermare che la situazione è sotto controllo sono concetti che possono voler dire soltanto due cose: o non si ha la cognizione di cosa sta succedendo nel Paese oppure non si capisce proprio la situazione reale. È inutile e scorretto dire che le opposizioni vogliono sostituire il sistema democratico con una sorta di dittatura dei mercati finanziari. In realtà, noi segnaliamo semplicemente che la tempesta che si è scatenata sul nostro Paese e che continua a infuriare sul nostro mercato ha delle ragioni e delle motivazioni di base. Nell’intervento del presidente del Consiglio tutto questo non è stato esplicato. Invece di fornire ricette o proposte, invece di dare la propria analisi sulla situazione, invece di indicare una strada ho visto da parte di Silvio Berlusconi una serie di proposte tutte improntate sul rinvio. Non ho sentito alcun progetto per il sistema-Paese, ma soltanto del-

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le vaghissime indicazioni di massima che sicuramente non possono cambiare e non cambieranno una situazione in realtà molto preoccupante. Non è stato convincente anche perché, secondo me, non era convinto neanche lui di quello che ha detto davanti ai deputati della Repubblica.

La strada da seguire era invece un’altra: andava fatta un’analisi realistica e reale della situazione in cui versa il panorama economico del nostro Paese, andavano valutate delle proposte concrete sulla ripresa dell’industria e sul mercato del lavoro, andava affrontato il capitolo dei sacrifici che intendiamo chiedere alla popolazione e quello dei sacrifici che intendiamo affrontare tutti insieme, noi per primi. Le proposte ci sono e sono concrete: detassazione delle famiglie, abolizione delle province, riforma fiscale e liberalizzazioni vere e il contrasto alla povertà. La linea dell’Unione di Centro, su questo, è chiara da tempo. Bisogna infine rendersi conto prima che sia troppo tardi che una fase politica è finita, che l’attuale situazione ha concluso la propria corsa. Dobbiamo aprire una nuova fase sociale e politica, una nuova fase che sia in grado di riprendersi la fiducia dell’elettorato italiano e quella della comunità internazionale, composta da governi e da mercati. Insomma, la politica italiana deve avere il coraggio di fare uno scatto in avanti, uno scatto d’orgoglio. Per fare questo è necessario che qualcuno faccia presto un passo indietro, dando così modo agli altri di formare un governo che sia un governo di tutti. Un esecutivo che abbia la possibilità reale di affrontare le vere questioni del Paese prima delle prossime elezioni. Il tempo stringe.

Sono convinto che il discorso sia stato pronunciato senza convinzione. E non ha convinto

alla sua destra Franco Frattini, alla sinistra Giulio Tremonti. Tutti però notano l’assenza iniziale di Umberto Bossi, che non aveva condiviso la scelta del premier di parlare in pubblico. «È a tutti chiaro - inizia il premier - che problemi ed emergenze da affrontare sono la diretta conseguenza della crisi di fiducia che scuote il mercato internazionale e non accenna a placarsi per l’incertezza dell’euro e la spinta alla speculazione finanziaria. Questa crisi, che è planetaria e non italiana, va fronteggiata con fermezza e coerenza, senza inseguire i nervosismi del mercato». Berlusconi non parlerà neanche mezz’ora, stancamente, e le sorprese saranno ancora meno di quelle preventivate. La tesi di fondo è: «Sappiamo che c’è molto da fare, ma non è stato fatto poco». E qui il solito elenco, un topos berlusconiano: «Come governo abbiamo approvato 27 misure per la crescita: 4 per la fiscalità di vantaggio, 5 per semplificazioni e liberalizzazioni, 4 per l’efficienza della giustizia, 11 per l’incentivazione del sistema produttivo, tre per valorizzare il capitale umano». Applausi dal gruppo del Pdl. «È partito il piano per il Sud coi 7,4 miliardi stanziati dal Cipe». Ancora applausi. Quanto al resto, sostanzialmente, tutto va bene madama la marchesa: «Come spesso succede nelle crisi di fiducia, i mercati non hanno valutato la nostra solidità, non hanno considerato la solidità del nostro sistema bancario, le condizioni patrimoniali delle famiglia». Le tensioni speculative, ha sostenuto il premier, «hanno fatto aumentare il differenziale tra Bund e Btp».

Insomma, «il nostro Paese è solido, come i nostri fondamentali economici e il nostro sistema bancario, che ha superato brillantemente tutti gli stress test europei». Sulle banche punta molto Silvio Berlusconi: «Le nostre sono ben capitalizzate, in grado di soddisfare le esigenze finanziarie delle famiglie e di sostenere la ripresa», tanto è vero che «la crescita del credito al settore privato è superiore a quella degli altri paesi. I ribassi delle azioni delle nostre banche sono assolutamente eccessivi». Tradotto: «Gli attuali valori di mercato sono di gran lunga inferiori ai valori di bilancio». E allora che succede? Questi cattivacci dei mercati non capiscono: «Non riflettono ancora


l’opposizione Botta e risposta tra i leader del Pdl e Pd: solo polemiche sterili

Casini: «Tavolo comune per favorire la crescita» «Detassare le famiglie, liberalizzazioni e abolizione delle province»: il piano d’emergenza dei centristi di Errico Novi

Silvio Berlusconi ieri ha difeso l’economia italiana alla Camera. A destra, il leader centrista Pier Ferdinando Casini. Nella pagina a fronte, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti l’importanza dei deliberati europei sul salvataggio della crisi, né l’accordo sul deficit Usa pare aver ridotto le tensioni sui mercati internazionali». Non solo, questi investitori non si sono fatti convincere nemmeno dal governo italiano: «Il nostro sistema politico è solido - dice Berlusconi - ed è stato capace con il concorso responsabile dell’opposizione di approvare in tre giorni una manovra da quasi 80 miliardi che assicura il pareggio di bilancio nel 2014 e l’abbattimento strutturale del debito pubblico. Lo dimostra il plauso con cui è stata accolta in Europa».

Quanto alle mosse future, il Cavaliere dice poche cose: «La crescita è l’obiettivo essenziale. Per questo governo e Parlamento devono attuare in tempi brevi la delega fiscale e assistenziale, così da modernizzare l’Italia e darle un sistema fiscale più favorevole alle famiglie, al lavoro e all’impresa». Sempre per crescere, dice il premier, «noi abbiamo proposto una riforma dello Statuto dei lavoratori e del quale è giunto il momento di verificare il grado di consenso in Parlamento». E poi

ancora le cose care a quel ministro o quell’altro: contrattazione locale, defiscalizzazione degli straordinari e nuovi ammortizzatori sociali; razionalizzazione e riqualificazione delle amministrazioni pubbliche; dimezzamento del numero dei parlamentari («il governo lo ha già approvato»), diminuzione delle province e taglio ai costi della politica (applausi dal Pdl). «Oggi più che mai dobbiamo agire tutti insieme - è la conclusione -. Raccolgo con convinzione l’invito alla coesione nazionale del presidente Napolitano e lo faccio mio. Nessuno nega la crisi e tutti dobbiamo lavorare per superarla: ciascuno faccia la sua parte». A quel punto un’opposizione, per il resto assai rispettosa, ha rumoreggiato e il nostro non l’ha presa bene: «State ascoltando un imprenditore che ha tre aziende in Borsa e quindi è in trincea, consapevole ogni giorno di quel che accade sui mercati», ha detto ritrasformandosi nel solito Berlusconi per la prima volta nella giornata. Il governo? «Completeremo il lavoro nel 2013 quando ci sottoporremo di nuovo al giudizio degli elettori». Praticamente una minaccia.

ROMA. Se l’aria che si respira fuori è pesante, quella che tira dentro al Parlamento non è migliore. Si profila un nuovo, ulteriore arroccamento della maggioranza, e quindi una già evidente difficoltà per qualunque ipotesi di vera coesione. Ma c’è un’aggravante, emersa nell’orgoglioso discorso di Alfano: il richiamo cioè all’insidia oscura della speculazione che d’ora in poi verrà respinto come nemica del popolo e usata dalla maggioranza come pretesto contro ogni critica: «I governi non li fanno i mercati ma i cittadini», è l’impennata populista del neosegretario pdl, al suo primo discorso in aula. Efficace ma sospettabile appunto di miopia autodifensiva. Così come cieco pare il motto del leghista Reguzzoni: «Non c’è alternativa a un governo presieduto da Berlusconi, la sola alternativa per l’Italia è l’asse Bossi-Berlusconi». Bersani di fronte a questo chiede il passo indietro del premier come «condizione» per il dialogo. Di Pietro non concede attenuanti, al Cavaliere: «Ma lei ci fa o ci è? Vive in un altro mondo». Casini è quello però che ricorda con più efficacia come la trincea già scavata dalla maggioranza non abbia senso. E aggiunge: «Molti considerano la fine del berlusconismo come fine di una stagione politica: ma se qualcuno pensa che tutto si risolve con la liquidazione politica di Berlusconi, non ha capito niente», dice il leader dell’Udc, «siamo a un passaggio epocale e dobbiamo rispondere con un suppelemento di serietà e responsabilità».

condo: «Aumentare la tassazione delle rendite, provvedimenti per le famiglie, liberalizzare l’energia», e poi, soprattutto, la proposta di una «commissione per la crescita con le parti sociali». Possibile agire «senza perdere tempo». Ma senza dimenticare che, appunto, «servirebbe un governo di armistizio tra i grandi partiti».

Bersani è più scettico sulla possibilità di conseguire qualche risultato con l’assetto attuale. E anzi è esplicito nel dire che «davanti all’emergenza del Paese siamo pronti a fare un passo avanti ma solo a condizione che ci sia il passo indietro di chi ci ha portato fin qui». Ribadito così: «Se non togliete l’impedimento, vi prendete la responsabilità voi». Si dice, il segretario del Pd, «impaurito dal discorso di Alfano: non possiamo consentirci genericità. E l’unico merito dell’intervento di Berlusconi è quello di aver parlato a mercati chiusi. Non è per polemica politica dunque che reclamiamo una svolta. Non basta il dialogo con le parti sociali. C’è bisogno di intervenire su problemi non secondari rispetto al debito e al deficit: la bassa crescita e la produttività in discesa, la liquidità delle imprese che fa soffrire anche le banche e incattivisce i mercati». Il leader democratico suscita l’applauso più accorato dei suoi quando protesta perché «almeno uno straccio di autocritica potevate farlo» E infine: «Le nostre proposte ci sono: su fisco, liberalizzazioni, pubblica amministrazione. Ma chi dovrebbe attuarle?».

Il leader dell’Udc invita il governo a aprire gli occhi e chiarisce: «Una fase è finita, sbaglia chi pensa che basta solo liquidare il presidente del Consiglio»

Ecco, Casini è forse il solo a rappresentare il rischio di non cogliere la profondità dello stravolgimento in atto. Chiede sì un «governo di armistizio», ma non in nome dell’impresentabilità del Cavaliere, piuttosto in ragione della «impopolarità» delle scelte da compiere. «Sono un po’ sconcertato dall’idea che si voglia continuare con la propaganda». E aggiunge: «Noi da tre anni chiediamo le dimissioni, non vorremmo proseguire in un dialogo tra sordi perché è evidente come tale richiesta sia inutile. E condividiamo il giudizio di Alfano sui governi tecnici, ma andrebbe aggiunto che il commissariamento alla politica avviene proprio quando la politica è sorda. E qui non ci si chiede per esempio perché la Borsa americana perde ma la nostra perde più di tutti: forse ci sarà anche un problema di credibilità». Dopodiché il leader dell’Udc ricorda lo sforzo comune della manovra «approvata in tre giorni come nessuno, nemmeno la Grecia, è riuscito a fare» e accetta la sfida delle proposte costruttive: «Anticipare con un decreto parte significativa della manovra 2013-2014, con il Parlamento che la dovrebbe esaminare ad agosto». Se-

Alfano parte dal realismo ma punta soprattutto sulla dichiarazione di guerra ai governi tecnici, che sarebbero appunto emanazione «non della democrazia ma della tecnocrazia». Poi certo apre a contributi dell’opposizione: «Se avete idee migliori, venite a darcele, se ci fossero delle proposte noi saremmo lieti di accoglierle qui in Palamento. Ma le proposte si fanno senza chiedere le dimissioni». Della Lega parla com’è ovvio il capogruppo, cioè il bossiano Reguzzoni. Ma senza che vi sia il suo leader ad ascoltarlo: Bossi non partecipa né al dibattito né al precedente Consiglio dei ministri, per una visita oculistica. Certo, Reguzzoni evoca come detto proprio l’asse tra il Senatùr e Berlusconi. Parrebbe bastare, anche se dal fronte del Carroccio pare arrivare sopratutto un richiamo di propaganda su falsi invalidi, immigrati, rifiuti di Napoli e Senato federale. Poco, nel merito. Troppo poco per bilanciare la chiosa di Bocchino: «La manovra triennale è una furbata all’italiana, i mercati non potevano che bocciarla».


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l’approfondimento

Il capo del governo si limita a una difesa d’ufficio del proprio operato. «Serviva una strategia di rilancio del Paese»

Discount Berlusconi

Il discorso del premier aveva una sola funzione: rassicurare i mercati. Ma senza idee nuove né proposte concrete è difficile fermare i ribassi e convincere le forze sociali. La relazione secondo gli economisti Becchetti e Paganetto di Franco Insardà

ROMA. È un po’la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Il discorso alla Camera del presidente del Consiglio viene letto così da Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’università di Tor Vergata: «Il premier ha elencato tutte le cose fatte dal suo governo, mentre il segretario del Pd Bersani ha sottolineato il divario di crescita tra l’Italia e gli altri paesi della Unione europea. Visto che l’intervento era rivolto soprattutto ai mercati la parte migliore dell’intervento di Berlusconi è stato l’appello all’unità, mentre avrei evitato il passaggio sul presidente-imprenditore. Di nuovo non c’è quasi nulla, è necessario cogliere l’urgenza di questi momenti per fare qualche passo in avanti e guardare al futuro con una certa serenità».

Per Luigi Paganetto, presidente del Ceis Fondazione Economia di Tor Vergata: «Non c’è dubbio, come ha detto il presidente Berlusconi, che la nostra economia è vitale. Ma proprio per questo l’azione del governo andrebbe indirizzata a sostener-

ne le parti che perseguono cambiamento e innovazione, invece di dire che è stato fatto quello che si poteva fare e che sono i mercati che non tengono abbastanza conto della solidità economica del nostro Paese. All’interno di un’Europa che insegue gli eventi, interviene per operazioni di salvataggio senza darsi una governance adeguata, occorre un plus di iniziativa che per l’Italia indichi un traiettoria chiara in termini di debito pubblico e di scelte per la crescita. I mercati valutano la rischiosità di un Paese non tanto in termini di valore assoluto del debito e deficit, ma del quadro programmatico rispetto agli obiettivi».

dello stimolo alla crescita, un compito difficile tenuto conto del contesto internazionale che consente di produrre in alcuni paesi a costi molto più bassi. L’Italia, però, avrebbe potuto agire, così come ha fatto la Germania, irrobustendo l’export e anche creando delle nuove relazioni sindacali in patria per avere una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro». In questi giorni si sta facendo tutto, secondo Becchetti «pressati dall’urgenza, certamente sarebbe stato meglio adottare alcune misure nei mesi scorsi.

Il professor Becchetti sottolinea come il governo «ha fatto abbastanza bene per quanto riguarda il controllo dei saldi complessivi del bilancio pubblico, mantenendo l’equilibrio finanziario. Però questo equilibrio è stato ottenuto con dei tagli orizzontali, senza intervenire specificamente nei singoli settori dell’amministrazione pubblica. Il governo ha fallito sul piano

«La manovra ha dimenticato una parte rilevante del programma»

Giusto per fare qualche esempio si potrebbe semplificare la burocrazia, ridurre la durata delle cause civili, ma su tutto mettere mano alla riforma fiscale. Purtroppo oggi sono tassate molto di più le due voci che contribuiscono allo sviluppo: il lavoro e il reddito. Bisognerebbe, invece, aumentare la pressione fiscale su quei settori che generano effetti negativi sulla collettività».

Non va dimenticato secondo il professor Becchetti che «questa crisi nasce per gli errori di alcune banche, salvate dai governi con esborsi che hanno peggiorato i conti pubblici, che hanno poi speculato sull’economia dei paesi che si sono indeboliti.Tenendo presente questa situazione bisogna pensare a tassare le transazioni finanziarie, misure sulle quali si sono espresse favorevolmente già Germania, Francia e la stessa Unione europea. È necessario cambiare le regole per evitare di essere assoggettati dai mercati finanziari». Paganetto insiste sui ritardi della politica «rispetto alla velocità

con cui l’economia si muove e questo aspetto è ancora più importante, dal momento che ci riferiamo a un mondo globalizzato. A livello europeo e italiano le decisioni sono lente rispetto alle esigenze di reazione immediata rispetto alla dinamica dei mercati. Questa cosa vale anche per la manovra che, seppure sia stata approvata in tre giorni, ha dimenticato una parte rilevante del programma di riforma, presentato entro aprile come previsto alla Ue. Un programma che aveva delle misure interessanti a partire dalla riforma fiscale e dalla riforma costituzionale per il pareggio del bilancio. È evidente, quindi, che gli investitori notando questa discrasia hanno poco fiducia nella nostra economia, mentre i mercati aspettano una chiara scelta di campo, una chiara indicazione sulle cose che si intendono fare e l’inizio della realizzazione. Questa manovra prevede una svolta tra il 2013 e il 2014, ma i mercati fanno le loro valutazioni oggi e ritengono probabilmente che e’ tropo poco quanto e’ previsto nell’immediato».


Voci di un cambio di guardia al vertice economico della Ue, in margine all’incontro di ieri

Nasce l’asse Tremonti-Juncker, i «commissariati» europei Sarkozy vuole sostituire il presidente dell’Eurogruppo con il più fedele Van Rompuy. E il lussemburghese ha chiesto aiuto al Superministro di Enrico Singer n incontro «lungo e fruttuoso», una «riflessione su tutti i problemi dell’euro che continuerà con serenità». Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker si sono salutati senza rivelare i dettagli di quanto si sono detti in due ore di colloquio, affidando a queste poche parole un messaggio che vuole essere rassicurante. Evitando gli annunci clamorosi, ma anche gli allarmi. Come previsto. E sarebbe stato davvero sorprendente il contrario perché Juncker e Tremonti tutto potevano fare fuorché lasciarsi andare a dichiarazioni preoccupate. Soprattutto a poche ore dal discorso di Berlusconi alla Camera. Anche la missione mattutina del ministro dell’Economia in Lussenburgo, insomma, era un tassello di quell’operazione-fiducia che dovrebbe costruire – per ora più a parole che con i fatti – una barriera di sicurezza attorno all’Italia. Eppure all’hotel de Bourgogne, residenza ufficiale del premier lussemburghese, c’era un’atmosfera strana: niente battute a effetto – passione coltivata da entrambi i protagonisti del faccia a faccia – e grande attenzione a pesare bene le frasi. Quasi i due avvertissero, oltre alla gravità della crisi, l’ombra del commissariamento che pesa sulle loro teste. Perché se tutti ormai sanno quanto sia incerto il futuro di Giulio Tremonti nel governo, minacciato com’è dalla vicenda Milanese, pochi forse sanno che è a rischio anche la carica di Mister euro che Juncker ricopre ormai dal 2005. Accomunati da alcune battaglie per far prevalere la loro visione di Eurolandia – ultima la proposta lanciata con una lettera a doppia firma per la creazione degli Eurobond – adesso si trovano uniti anche nella tempesta. Contro JeanClaude Juncker si sta muovendo addirittura il presidente francese, Nicolas Sarkozy, che – secondo le voci che si rincorrono sempre più forti a Bruxelles – avrebbe ottenuto anche il sì di Angela Merkel a una sostituzione che, a questo punto, sarebbe soltanto questione di tempo.

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Il nome del successore circola già. È Herman van Rompuy, il presidente stabile del Consiglio europeo che non perderebbe la sua attuale funzione. Anzi, la rafforzerebbe grazie al cumulo della responsabilità di guardiano della moneta comune. L’uscita di scena di Juncker, in questo caso, sarebbe parte di una riforma del vertice dell’Unione voluta proprio da Parigi e Berlino che attribuiscono

alla cacofonia delle prese di posizione delle istituzioni europee una delle cause dello tsunami finanziario che, a partire della Grecia, ha investito tutti gli altri anelli deboli della zona euro. L’incapacità dell’Europa di parlare con una voce sola e, soprattutto, di apparire credibile dipenderebbe, nell’analisi franco-tedesca, anche dalla frammentazione dei centri decisionali, dai personalismi, dalla vecchia logica di accontentare tutti con la spartizione dei posti di comando

Tra i due c’è sempre stata sintonia: insieme hanno presentato la proposta degli “eurobond” seguendo una specie di manuale Cancelli comunitario. Critiche in buona parte fondate che si uniscono, però, anche a una manovra di potere nemmeno tanto nascosta. Juncker, pur avendo alle spalle uno dei più piccoli Paesi della Ue, è personaggio poco avvezzo a piegarsi al dominio dell’asse Parigi-Berlino. Con Nicolas Sarkozy, in particolare, i rap-

porti sono pessimi e la riorganizzazione della testa operativa della Ue è l’occasione d’oro per regolare i conti. Tanto più che il sostituto in pectore Herman van Rompuy è, al contrario di Juncker, l’uomo più in sintonia con i voleri di Francia e Germania che, non a caso, lo hanno proiettato sulla poltrona di presidente stabile del Consiglio europeo scovandolo tra gli ex premier del Belgio, Paese che da più di un anno è guidato da un governo dimissionario per il dissidio tra fiamminghi (come Van Rompuy) e valloni.

Jean-Claude Juncker, alla fine del colloquio con Tremonti, ha annunciato che se ne andrà in vacanza, come aveva programmato, domenica prossima facendo finta di ignorare le manovre in corso per metterlo fuori dal gioco. Ma i bene informati a Bruxelles giurano che il cambio della guardia ci sarà entro ottobre, in occasione del vertice europeo d’autunno che dovrebbe presentare la riforma dei vertici della Ue come il momento politico della risposta alla tempesta finanziaria che i piani tecnici di salvataggio, finora, non sono riusciti a placare. Dal primo novembre, tra l’altro, Mario Draghi prenderà operativamente il posto di Jean-Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea completando l’assetto della nuova squadra chiamata a respingere gli attacchi alla moneta comune e anche il rafforzamento dei poteri di Herman van Rompuy è considerato – almeno da Parigi e da Berlino – come un tassello di questa generale strategia che dovrebbe tranquillizzare i mercati. La verità è che i vertici della Ue, quelli vecchi e quelli nuovi, sanno molto bene che le operazioni di salvataggio a base di finanziamenti straordinari a colpi di miliardi di euro non possono andare avanti all’infinito. Se per la Spagna la crisi economico-finanziaria ha portato alla convocazione di elezioni anticipate e alla fine dell’era Zapatero, per l’Italia un eventuale piano di salvataggio europeo sarebbe semplicemente impossibile date le dimensioni che dovrebbe avere. La massa del debito pubblico italiano – oltre 1800 miliardi di euro – è da solo superiore alla somma dei debiti pubblici di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna messi assieme e manderebbe in tilt qualsiasi Fondo salva-Stati presente e futuro. La risposta non potrà che essere strutturale. Magari ricorrendo al lancio di quegli Eurobond che proprio Juncker e Tremonti hanno proposto.

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In questi giorni ha ripreso vigore l’idea di una patrimoniale, ma secondo Luigi Paganetto, va tenuto presente che «L’esigenza principale rimane la diminuzione della spesa e un preciso sentiero di riduzione del debito pubblico e per riuscire a farlo bisogna destinare tutte le risorse che vengono recuperate dall’evasione fiscale e dalla riduzione della spesa pubblica. Occorrerebbe inoltre che lo Stato privatizzasse alcuni servizi, come le Poste, per ottenere delle risorse considerevoli. Questo sarebbe un segnale forte per i mercati. La riduzione della spesa pubblica va fatta seguendo un criterio di produttività, selezionando le spese che aiutano la crescita. La Pubblica amministrazione deve contribuire alla crescita con servizi efficienti e per farlo occorre creare competizione e monitoraggio per evitare che quelli in concessione, crescenti in numero ed importanza, si trasformino in aree di rendita».

Leonardo Becchetti, invece, ritiene che «l’idea della patrimoniale viene vista in modo negativo, ma teniamo presente che negli altri paesi ci sono tasse sul patrimonio molto più alte che da noi. In Italia l’Ici fu abolita da Berlusconi, per evidenti scopi elettorali, creando una situazione molto complicata. È noto a tutti che in nostro Paese ha una forza patrimoniale notevole, legata al risparmio delle famiglie, che potrebbe contribuire a finanziare l’economia con lo slogan: meno debito meno tasse sul lavoro. Se si riuscisse a ridurre il debito, legando, però, la cosa a una legge costituzionale che imponga il pareggio di bilancio e a una riduzione della tasse sul lavoro gli italiani potrebbero accettare un sacrificio come la patrimoniale. Anche perché, secondo uno studio molto famoso, se un Paese ha un debito/Pil superiore al 90 per cento ha molte difficoltà a crescere. Noi sia al 120 per cento... L’azione, quindi, dovrebbe essere combinata: da una parte il pareggio di bilancio, dall’altra il prelievo sui patrimoni, decisa in maniera bipartisan». La produttività del nostro Paese per Paganetto è «un problema di fondo perché cresce molto poco. L’aumento dipende dalle parti sociali, ma anche dal ruolo che i servizi pubblici e lo Stato hanno sui mercati. Considerando che i servizi sono il 70 per cento del reddito è fondamentale concentrare l’attenzione in tema di produttività su questo settore, mettendoli in concorrenza. Per raggiungere questi obiettivi imprese e sindacati devono trovare gli accordi per eliminare le resistenze che ci sono al cambiamento, allargare l’area in cui la concorrenza esercita la sua influenza, riducendo le posizioni di rendita e corporatismo. Se l’incontro programmato tra le parti sociali andrà in questa direzione esso potrà svolgere un’azione per lo sviluppo».


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politica

Voci e smentite sul presunto mistero di un vizio di forma nell’arresto ROMA. Esce o non esce? E se esce, la Camera dovrà tornare a votare il suo arresto o no? Questioni economiche a parte, questi sono stati gli interrogativi che ieri ha tenuto con il fiato sospeso la politica prima di risolversi in una biolla di sapone. Anche perché, sull’onda delle polemiche, la Camera ha deciso di accorciare di un poco le ferie: tutti al lavoro dal 6 settembre, invece che il 12 come previsto in un primo momento («E se serve apriremo pure a ferragosto», ha aggiunto Gianfranco Fini. Comunque, tutto è cominciato ieri mattina quando l’agenzia Ansa ha fatto rimbalzare in rete una notizia anticipata dal sito del quotidiano Il Fatto secondo il quale, per un errore formale, il parlamentare Alfonso Papa sarebbe stato scarcerato in tempi brevi. Perché? Per un vizio di forma, appunto. Ossia: a uno dei due legali di Alfonso Papa non sarebbe stato notificato l’avviso di fissazione dell’udienza del Riesame in programma ieri al Tribunale di Napoli. L’avvocato Carlo di Casola, difensore di Papa, a metà mattina ha confermato: «Questa mattina ho eccepito il difetto di notifica nei confronti del mio collega D’Alise e ora gli uffici stanno procedendo alla verifica per comprendere che cosa sia accaduto». L’obiettivo era chiaro: consentire, entro sabato prossimo, la scarcerazione del deputato.

Come si ricorderà, Alfonso Papa, coinvolto nell’inchiesta sulla cosiddetta P4 è rinchiuso nel carcere di Poggioreale dal 20 luglio scorso con le accuse di concussione, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. Per di più il suo arresto aveva causato un piccolo grande terremoto politico nella maggioranza: era stata l’ala

Il giallo di Papa? Una bolla di sapone Lite tra avvocati e Procura di Napoli su un inesistente errore di procedura di Gualtiero Lami Sotto, il faccendiere Luigi Bisignani. In alto, il deputato del Pdl Alfonso Papa, ora agli arresti a Poggioreale

Intanto sono state aperte due cassette di sicurezza di Marco Milanese: non c’era nulla. Gli inquirenti: «Forse erano state già svuotate degli elementi più compromettenti»

maroniana della Lega a votare il sì all’arresto del parlamentare, creando una frattura significativa non solo tra il Carroccio e il Pdl ma anche tra Bossi e Maroni. E per questo a molti ieri è apparso naturale leggere nell’indiscrezione riportata da Fatto e rilanciata dall’Ansa la possibilità di una riconciliazione nella maggioranza. Perché una volta scarcerato Papa, con ogni probabilità la Camera – pensavano tutti – sarebbe stata chiamata a votare di nuovo per concedere il suo ulteriore arresto, una volta corretto il vizio di forma. All’ora di pranzo, poi, la prima doccia fredda per Papa e suoi sostenitori. «Fonti della procura, riferiscono all’Agi che la notifica sarebbe stata trovata e che quindi Papa non dovrebbe lasciare l’istituto penitenziario di Poggioreale, mentre prosegue la discussione davanti al Riesame sul ricorso dei pm contro la decisione del gip Luigi Giordano di non contestare l’associazione a delinquere allo stesso deputato, all’uomo d’affari Luigi Bisignani e al sottufficiale dei carabinieri Enrico La Monica, tuttora latitante». Questo lo scarno comunicato diffu-

so dall’Agi, l’agenzia di stampa direttamente concorrente dell’Ansa. Insomma: questa notifica è stata inviata o no? E l’originale era stato ritrovato o no nei meandri della Procura napoletana? Si sta controllando: entro sabato, appunto, si saprà se la notifica è stata fatta correttamente o no. E quindi se Papa uscirà o no.E quindi se la Camera dovrà rivoltare o no. Nel secondo pomeriggio la soluzione del giallo: la raccomandata di notifica è stata ritirata dal portiere dello stabile in cui ha sede lo studio dell’avvocato, portiere che ha una delega specifica. Insomma: una bolla di sapone: Alfonso Papa resta in carcere e i suoi avvoati non fanno una bella figura: l’unico problema reale è che non hanno buoni canali di comunicazione con il proprio portiere...

Nessuna novità rilevante, intanto, sul fronte Milanese; nel senso dell’ex finanziare consulente di Tremonti. Ieri sono state aperte a Milano (ovviamente alla presenza dell’interessato e dei suoi avvocati) due cassette di sicurezza del deputato Pdl, dopo l’autorizzazione concessa appunto martedì dalla Camera. Una è stata trovata vuota, mentre la seconda conteneva un orologio antico, un braccialetto della figlia, un orologio swatch di 20 anni fa e un certificato di garanzia per una fedina di brillantini da 1,48 carati datata maggio 2005. Magro responso, in attesa di aprire altre due cassette in una banca di Roma. Resta il fatto che gli inquirenti già da diversi giorni non escludevano che parte del contenuto (quello più compromettente, è ovvio) fosse stato già spostato dal deputato, quando è arrivata alla Camera la richiesta di apertura delle cassette.


Una lettura al giorno

La ricostruzione dell’incidente che provocò la morte di Italo Svevo

L’ultima sigaretta di Ettore Schmitz di Paolo

Malagodi

Nel 1927 le Om 665 avevano fatto faville alle Mille Miglia, ma l’impianto frenante lasciava a desiderare. Fatale fu la ghiaia del nuovo ponte sul Malgher

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una lettura al giorno er il mondo dei motori, il 1927 fu ricco di particolari eventi. Alle 22,23 del 21 maggio, ora di Parigi, lo Spirit of St. Louis si posò sul campo di Le Bourget. Il lungo viaggio di Charles Lindberg era iniziato a Long Island alle 8,05 del 20 maggio, ora di New York: volando a una media di oltre 160 chilometri all’ora, aveva percorso circa 5.500 chilometri. Con un viaggio di 33 ore e 31 minuti, l’impresa di attraversare l’Atlantico senza scalo aveva abbattuto, nel muoversi attraverso l’aria, un’altra barriera del tempo e dello spazio. Per un progresso dei trasporti che, prima di quello aereo, aveva fatto esclusivo riferimento alle vie di acqua e di terra. Con una forte accelerazione legata, dai primi dell’Ottocento, a una forza motrice artificiale che, come nel caso del vapore, permise non solo di migliorare velocità e portata dei natanti ma di realizzare una nuova moda-

P

lità di trasporto. Quella ferroviaria, capace di rivoluzionare i rapporti di spazio e di tempo negli spostamenti. Così un articolo della Quarterly Review nel 1839 parla del «graduale e infine totale annullamento - provocato dalla velocità ferroviaria - dello spazio e delle distanze, che finora si pensava fossero destinate a dividere per sempre le diverse nazioni del mondo». E ancora, in occasione nel 1843 dell’inaugurazione delle linee Parigi-Rouen e Parigi-Orléans, scrive Heinrich Heine «dell’intimo brivido che sempre ci percorre quando accade qualcosa di inaudito, di prodigioso, con effetti imprevedibili e incalcolabili», ritenendo la ferrovia «un evento provvidenziale che dà nuovo impulso all’umanità, che ritinge e trasforma la società».

Concetti che, alcuni decenni dopo, verranno parzialmente applicati a un ruolo dell’automobile che per la «bellezza della velocità» Filippo Tommaso Marinetti, autore nel febbraio 1909 del Manifesto del Futurismo, poneva al quarto posto tra gli undici punti fondamentali di quel movimento artistico e letterario. Ma, al di là delle poetiche declamazioni dei futuristi, nell’uso di tutti i giorni l’ancorché migliorata tecnica automobilistica trovava un insormon-

Svevo in un ritratto di Leonor Fini, il pilota Renato Balestrero, nella squadra dell’Om, il modello di una berlina Om 665, Claudia Cardinale in una scena di “Senilità”

tabile ostacolo nelle precarie condizioni di una rete viaria derivata da tracciati utilizzati da carriaggi trainati da muli o da cavalli e con il fondo ancora sterrato. Con andamenti sinuosi e caratteristiche certo non adatte alle peculiarità dei veicoli a motore e tali da ostacolare, in Italia come in altri Paesi, la diffusione dell’automobile e con la sola parziale eccezione della Francia, che sin dall’epoca napoleonica vantava una eccellente rete di strade nazionali, di norma rettilinee e progressivamente asfaltate. Al punto che, nel 1927, le auto circolanti nella nazione transalpina rasentavano ormai il milione, mentre nell’intera Italia non raggiungevano le 145 mila e con la presenza media di una vettura ogni 212 abitanti. In un mercato dell’auto di dimensioni così limitate da assorbire, con la domanda interna, nemmeno la metà di una produzione nazionale che nel 1927

L’entusiasmo degli spettatori fu inoltre esaltato dall’intero podio conquistato da tre Om 665, costruite proprio a Brescia. Infatti la società anonima Officine Meccaniche, creata a Milano nel 1899 per la produzione di macchine utensili, dal 1917 si era trasferita nella zona nord del capoluogo bresciano rilevando la Züst che già produceva vetture. Con la presentazione, alla fine del 1918, della prima vettura della nuova marca e denominata Tipo 465, secondo un sistema di identificazione poi utilizzato su tutti i successivi modelli Om: dove la prima cifra stava a indicare il numero dei cilindri e le ultime due il loro alesaggio, ovvero il diametro in millimetri del cilindro. Nel 1923 apparve così la prima 6 cilindri della

Dopo un’esistenza inutilmente impiegata a combattere il vizio del fumo, negare a Svevo sul letto di morte l’ultima sigaretta fu un’altrettanto inutile crudeltà

fu di 50.700 unità. Con una industria automobilistica italiana in affannosa ricerca di sbocchi commerciali e che, come annotava lucidamente Giovanni Canestrini nell’aprile 1927, «da una parte si è trovata di fronte a nuovi ostacoli sui mercati esteri, dall’altra di fronte alle diminuite richieste sul mercato interno, che non è in grado di assorbire più di 25 mila vetture, almeno stando ai dati degli anni precedenti». Osservando poi lo stesso Canestrini che «la nostra industria come tecnica mantiene il suo posto di preminenza e le doti di resistenza e di rendimento delle nostre vetture si sono in modo clamoroso affermate nella recente Coppa delle Mille Miglia, corsa che ha avuto una enorme risonanza». Annotazione riferita, in quel 1927 di grandi eventi motoristici, alla nascita di una gara automobilistica che, tra quelle disputate su strada, divenne certamente la più famosa al mondo e con un nome ispirato, più che alla terminologia anglosassone, alla misurazione fatta dagli antichi romani in miglia. Un’idea

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nando Minoja e dal copilota Giuseppe Morandi, in poco più di 21 ore e a oltre 77 chilometri orari.

che prese corpo dall’iniziativa di tre appassionati, allora nei ruoli di presidente, vicepresidente e segretario dell’Automobil Club di Brescia, per una lunga corsa stradale in grado di dimostrare l’affidabilità ormai raggiunta dall’automobile. Nell’idea di toccare Roma con arrivo e partenza su Brescia, prese così corpo la prima edizione che su 1.628 chilometri, il 26-27 marzo del 1927, con equipaggi

di due persone vide in gara settantasette auto non solo di tipo sport, ma anche da turismo e di normale produzione di serie. Delle vetture partite, cinquantaquattro tagliarono il traguardo e la vittoria andò alla macchina condotta da Ferdi-

casa bresciana e denominata 665 Superba, capostipite di una serie durata sino al 1932 e cessata alla vigilia dell’assorbimento, nel 1933, della Om da parte della torinese Fiat. Per propagandarne le qualità nella vetrina delle competizioni sportive, la 665 raccolse non po-


chi trofei, che ribadivano l’affidabilità del propulsore di 1.991 centimetri cubici, con 55 cavalli di potenza e una velocità massima nell’ordine dei 120 chilometri, corredato di cambio meccanico a 4 marce e con carrozzeria sia in sportiva versione torpedo sia quale più confortevole berlina a quattro porte. Fu così che, in quella prima Mille Miglia del 1927, le tre Om 665 partecipanti arrivarono vittoriose a Brescia e la forte risonanza di quell’impresa contribuì certo a fare entrare una berlina Om nelle preferenze del facoltoso signor Ettore Schmitz, nato a Trieste il 19 dicembre 1861 da una famiglia di origine ungherese e industriale di professione.

Dopo un precedente impiego presso la filiale triestina della Union Bank di Vienna, il signor Schmitz aveva infatti sposato nell’estate 1896 una sua seconda cugina: Livia Veneziani, il cui padre era depositario della formula segreta, trasmessagli dal suocero, di una vernice antivegetativa per imbarcazioni conosciuta come «intonaco per la protezione dei navigli» e sin dal

1888 applicata a caldo sulla flotta del Lloyd austriaco. Mentre nel 1900 verranno ideate le prime pitture antivegetative a freddo, portando la fiorente azienda triestina a fondare nel 1903 anche una filiale all’estero, a Charlton in Inghilterra, i cui lavori verranno inizialmente diretti dal genero Ettore Schmitz. Che si occuperà, dal 1918, anche della produzione di vernici avviata a Murano, nella laguna veneziana. Luoghi dai quali la ve-

na letteraria del marito di Lidia Veneziani darà libero corso a una serie di appassionate lettere alla moglie che, con ripetuta insistenza, richiamano il tema del fumo e la promessa, sempre mancata, di stare fumando l’ultima sigaretta. Come ben documenta una serie di pagine raccolte sotto l’emblematico titolo Del piacere e del vizio di fumare (Passigli editore, 1999) dove capita di leggere amene arguzie quali: «sto fumando l’ultima sigaretta in premio di essere stato sinora senza fumare», o ancora del tipo: «non fumo più, per poter salvare il piacere del fumo quando mi saranno interdetti tutti gli altri vizi». Una passione per la scrittura che il signor Schmitz aveva coltivato collaborando, con regolarità dal 1883, al quotidiano triestino L’Indipendente per testi critici su narrativa e teatro, come su poetica e letteratura. Una vena che, con data di pubblicazione 1893, porterà alla stampa a spese dell’autore - che si firma come Italo Svevo - di Una vita, romanzo in parte autobiografico recensito dalla stampa locale, ma ignorato in Italia. Così capiterà, nel 1898, per Senilità uscito a puntate su L’Indipendente e subito dopo, sempre a spese dell’autore, raccolto in volume. Ma il secondo romanzo resta ancor più negletto del primo, come inizialmente avvenne per quello che è considerato il

capolavoro del narratore: La coscienza di Zeno, uscito nel 1923 presso l’editore Cappelli di Bologna. Tuttavia, nel 1925 l’autorevole segnalazione di James Joyce e nel 1926 quella di un giovane Eugenio Montale permisero all’ormai sessantacinquenne Ettore Schmitz di approdare alla fama letteraria con lo pseudonimo di Italo Svevo, tanto che nel 1928 La coscienza di Zeno viene tradotto in francese e si riedita Senilità, dopo un’attenta revisione critica. Intanto l’autore triestino, del quale ricorre

quest’anno il centocinquantenario dalla nascita nel 1861, scrive pagine destinate con ogni probabilità al cosiddetto «quarto romanzo di Svevo», poi catalogate come le «continuazioni» e come fa, ad esempio l’edizione critica della Coscienza di Zeno curata da Mario Lavagetto (Einaudi, 1987).

Con un’ultima parte, dal titolo Il vecchione, nella quale l’automobile assume per la prima volta rilievo nell’opera di un autore che, si noti bene, pubblica nel 1923 il suo ponderoso capolavoro ma senza fare alcun cenno all’automobile, invece da anni presente nel panorama lette-

de spunto dall’ignaro acquisto per strada di alcune sigarette ritenute di tipo normale, quando la soprascritta Fusée - ovvero «razzo» - le qualificava piuttosto come oggetti da scherzo. Tanto che, come annota lo stesso Ettore Schmitz, «ne accesi una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur (sic), però, rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata».

Il punto debole della berlina erano i tamburi dei freni che agivano solo sulle ruote posteriori. L’assenza di attrito fece il resto... rario italiano (e si pensi, per tutti, a un Gabriele D’Annunzio che con Forse che sì forse che no del 1910 renderà la nuova ebbrezza della velocità e una rombante automobile testimoni del crescendo amoroso tra i protagonisti Paolo e Isabella). Anche se, a onor del vero, in una lettera alla moglie Livia del 1° giugno 1901 da Tolone vi è una fugace citazione, che pren-

Ma salve queste incidentali occasioni è nella quinta e ultima parte delle «continuazioni» che la storia fa iniziale perno sull’automobile: «Rincasavo di sera con Augusta dopo una breve gita a Capodistria (…) Vidi allora avanzarsi verso di noi e, per evitare altri veicoli, accostarsi al nostro fino a rasentarlo, una fanciulla giovanissima vestita di bianco (…) La salutai piegan-

domi verso la lastra per essere visto, e accompagnai il mio saluto con un sorriso che doveva significare la mia ammirazione per il suo coraggio e la sua giovinezza». Tuttavia e quasi a dispetto di queste tarde attenzioni, l’automobile irromperà tragicamente nella vita del signor Schmitz; coinvolto con la sua Om, insieme alla moglie e al nipote oltre che all’autista, in un incidente avvenuto il 12 settembre 1928 nei pressi di Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Una materia attentamente ricostruita, per il periodico Rotosei del 19 settembre 1958, dalla fluente penna di un Giuseppe Berto alla cui stesura val qui la pena di riferirsi ampiamente. Ricordando che l’11 settembre del 1928 «ci furono dei grossi temporali in tutta l’Alta Italia. Pioveva dirottamente anche a Bormio, stazione climatica e termale posta sotto il massiccio dell’Ortles, in provincia di Sondrio. Ma il signor Ettore Schmitz, avendo finito il suo periodo di cure e di riposo, decise che pioggia o non pioggia, egli sarebbe partito per Trieste dove lo attendeva il lavoro in fabbrica (…) Partì dunque da Bormio, nonostante la pioggia, con la berlina Om, insieme alla moglie e al nipotino Paolo. Guidava la macchina l’autista Giovanni Colleoni e prima di sera la famiglia era a Trento, dove pernottò in albergo. Il giorno dopo pioveva ancora. Tuttavia gli Schmitz ripartirono e poco dopo mezzogiorno erano a Treviso per la colazione. Da Treviso a Trieste ci sono poco più di centocinquanta chilometri e benché la strada non fosse asfaltata il signor Schmitz sarebbe arrivato con comodo a Trieste in serata».

Effettuata la ripartenza, l’attraversamento del canale Malgher dopo Motta di Livenza avvenne sul nuovo ponte in cemento armato che «era stato appena ultimato e lo avevano aperto al traffico anche se la sede stradale era ancora in disordine. Non essendoci segnali che avvertissero dei lavori in corso, l’autista Colleoni lo prese ad andatura normale. Quando si trovò sopra, le ruote cominciarono a slittare. Il ponte, lungo una ventina di metri, fu subito passato ma la macchina sbandò a destra. Il signor Schmitz che sedeva dietro insieme alla moglie, ebbe il tempo di sorprendersi e forse di indignarsi che le cose non andassero per il loro verso. Gridò in buon triestino: Giovanni, cossa la fa? Giovanni tentò di evitare l’uscita di strada a destra sterzando verso sinistra, ma sulla sinistra egli non riuscì a controllare la macchina che andò a sbattere contro uno dei grossi pioppi che allora fiancheggiavano la strada».

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una lettura al giorno Rimandando a successiva ripresa il testo di Giuseppe Berto, può essere ora utile rifarsi alla cronaca locale che, in data giovedì 13 settembre 1928, riferiva i particolari dell’incidente stradale accaduto il giorno prima: «Verso le 15, in località Tre Ponti presso l’esercizio Furegòn, proveniente da Trento filava verso Trieste un’auto nella quale, oltre allo chauffeur, avevano preso posto il signor Ettore Schmitz, la signora Veneziani Livia e un nipotino di 7 anni, Fonda Savio Paolo. La macchina filava ad andatura normale, quando in seguito all’abbon-

dante pioggia caduta in giornata, in un certo punto le ruote slittando privarono l’autista del controllo del veicolo che, sbandatosi, andò a cozzare violentemente contro un albero laterale, il quale fortunatamente impedì il rovesciamento della macchina nel fosso sottostante molto basso. Tutti i viaggiatori dall’urto fortissimo rimasero più o meno feriti o doloranti. All’ospedale ai feriti furono prontamente prestate le cure del caso dal dr. cav. Giovanni Cardazzo coll’assistenza del dr. Federico Gasparini, i quali constatarono al signor Ettore Schmitz la frattura del femore sinistro ed escoriazioni alla faccia, per cui fu giudicato guaribile in 40 giorni; alla signora Veneziani Livia escoriazioni ed ecchimosi alle ossa del capo e contusioni all’addome, per le quali fu giudicata guaribile in 15 giorni; e al fanciullo ferite lacero contuse al parietale sinistro e alla regione sottomascellare guaribili in 20

giorni. Lo chauffeur riportò lievi ferite alla faccia e alle mani per cui, dopo una sommaria medicazione, potè attendere a mettere al sicuro la macchina e i bagagli, mentre i primi tre venivano trattenuti all’ospedale». Alla medesima data, Il Piccolo di Trieste riportava la notizia in analoghi termini e sotto il titolo «Italo Svevo ferito in un incidente automobilistico presso Motta», concludendo il pezzo con le parole: «Ad Ettore Schmitz e ai suoi famigliari gli auguri più fervidi di rapida e completa guarigione». Eppure alle 14,30 del 13 settembre 1928,

plicò: «Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta». E, come annota Giuseppe Berto, «la cosa più crudele e la più assurda, dopo un’esistenza inutilmente impiegata a combattere l’abitudine del fumo è proprio questa sigaretta rifiutata». Il successivo 14 settembre, Il Gazzettino annunciava il decesso e tentava di chiarire le cause dell’incidente con il sottotitolo: «Sul luogo della sciagura»; avvenuta nelle vicinanze di Motta di Livenza, «presso il ponte recentemente ultimato in cemento armato attraverso il canale Malgher. I lavori relativi sono

Ettore Schmitz, di professione industriale ma ormai famoso in letteratura come Italo Svevo, morì nell’ospedale di Motta di Livenza il 13 settembre 1928 quando ancora non aveva compiuto i 67 anni, Ettore Schmitz moriva nel reparto dozzinanti dell’ospedale di Motta di Livenza e con una scheda clinica che ne attribuiva il decesso a «uremia e insufficienza cardiaca». Assistito, dalla notte precedente, anche dalla figlia Letizia insieme al marito Antonio Fonda, genitori del piccolo Paolo, giunti da Trieste con Aurelio Finzi, medico e nipote degli Schmitz. Proprio a questi, già con la lingua grossa e il respiro affannoso, Ettore Schmitz chiese di accendergli una sigaretta, ma il nipote dottor Finzi seccamente gliela vietava. Allora il moribondo, con voce impacciata re-

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stati ultimati da poco e sebbene vi fosse stata cosparsa la terra e un po’ di ghiaia, sopravvenuta la pioggia dell’altro ieri, l’acqua scorrendo sull’argilla del ponte l’aveva resa levigatissima costituendo un evidente pericolo per gli automobilisti.

Infatti, nell’attraversare il ponte le ruote della macchina dei signori Schmitz non avendo trovato sufficiente attrito slittarono privando lo chauffeur del dominio della vettura, che cominciò a sbandare a sinistra per forza d’inerzia, finché andò a cozzare violentemente contro un grosso e vecchissimo pioppo». Descrizione che parrebbe togliere ogni dubbio sulla dinamica dell’incidente, a seguito del quale morirà Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, per cause quindi unicamente ricondu-

cibili secondo il cronista locale alle precarie condizioni di un fondo stradale in terra e ghiaia, non ancora assestato e reso scivoloso dalla pioggia. Nondimeno, se pur questo avvenne, si può anche supporre che l’incontrollabile sbandata della vettura sia da imputarsi a una particolare carenza tecnica di quella berlina Om, pur di classe superiore come del resto testimoniava l’intero podio occupato dalle vetture brescia-

ne nella Mille Miglia del 26-27 marzo 1927. Tuttavia, a una più accorta indagine non può sfuggire che le buone doti velocistiche e di affidabilità motoristica non erano, nell’auto sulla quale viaggiavano i signori Schmitz, corredate da un’equivalente eccellenza dell’impianto frenante: ancora a tamburi agenti, come peraltro in non poche vetture di quel periodo, soltanto sulle ruote posteriori. Un sistema, cioè, che oltre a una minor capacità complessiva di rallentamento rispetto alla frenatura sulle quattro ruote, rende facile il bloccaggio delle ruote posteriori in condizioni di ridotta aderenza e con tendenza della vettura a sbandare. Situazione perfettamente spiegata in un testo tecnico proprio del 1928, edito a Torino con il titolo L’arte di guidare l’automobile e scritto

dall’ingegner Ernesto Tron; il quale osserva che «sui tamburi dei freni durante lo slittamento non si produce attrito perché i ceppi sono immobili rispetto ai tamburi, e il rallentamento della macchina dipende esclusivamente dal coefficiente di attrito fra pneumatici e superficie stradale, che può essere piccolissimo in caso per esempio di strada bagnata. Ma il bloccaggio delle ruote è soprattutto da evitarsi perché porta in genere a slittamenti laterali che possono terminare in un tête à queue (sic, testacoda) ed eventualmente anche in un ribaltamento (…) Nel caso poi di bloccaggio delle ruote la probabilità di incidenti è ancora maggiore perché la vettura prosegue slittando nella direzione di marcia che aveva al momento del colpo di freno e non obbedisce più affatto allo sterzo». Analitici dettagli che sembrano essere fatti su misura per suggerire che, durante il primo slittamento causato quel 12 ottobre 1928 dal terriccio bagnato sul ponte del canale Malgher, l’allarmato chauffeur potrebbe aver istintivamente pigiato sul pedale di un impianto frenante agente sui soli tamburi delle ruote posteriori, accentuando con il loro immediato bloccaggio lo slittamento della vettura e provocando la drammatica sbandata.

Con un non lieve concorso di colpa - quindi e secondo l’ipotesi da noi oggi ricostruita - imputabile a quella pur prestigiosa berlina Om nell’accentuare la gravità dell’incidente a seguito del quale moriva, alle 14,30 del 13 settembre 1928, il signor Ettore Schmitz. Di professione industriale, ma ormai famoso in letteratura come Italo Svevo: un incallito fumatore, cui la beffarda ironia della sorte e la premurosa cura dei familiari negarono quella che, dopo le infinite promesse mai mantenute, per lui sarebbe davvero stata «l’ultima sigaretta».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach

ACCADDE OGGI

Dom Pérignon stappa il primo champagne! 1693: l’abate francese smette di combattere le bollicine nel suo vino. E nasce una leggenda ato nella cittadina di SaintMenehould, nella regione francese di Champagne (e non poteva essere altrimenti), Pierre Pérignon entra a 19 anni nell’ordine benedettino. Figlio del cancelliere di un giudice della città di Sainte-Menehould, nella regione francese della Champagne-Ardenne, crebbe nella sua città natale prima di diventare voce bianca nel coro dell’abbazia benedettina di Moiremont. Ammesso all’età di tredici anni nel collegio gesuita di Châlons, entrò nel 1656 nell’abbazia benedettina di Saint-Vanne, nelle vicinanze di Verdun, nel nord della Francia. Lì, fedele alla regola di San Benedetto, alternò lavoro manuale, lettura e preghiera, acquisendo col tempo solide conoscenze filosofiche e teologiche. Nel 1668, all’età di trent’anni, si sposta presso l’abbazia di Saint-Pierre d’ Hautvillers, a nord di Épernay, dove ricoprì l’incarico di cellario fino alla sua morte, nel 1715. Nell’abbazia si occupa delle proprietà terriere, dei prodotti lì coltivati e lavorati ed in particolar modo delle vigne, dei torchi e delle cantine. Al momento di compiere quarant’anni, smette di combattere contro le bollicine che gli si annidano nel vino bianco. Mette in fresco una bottiglia, la apre e grida ai confratelli: «Correte, sto bevendo le stelle». Era nato il primo champagne, un mito e una leggenda che durano ancora oggi. Per questo, viene sepolto fra gli abati.

N

Legge elettorale: uninominale o proporzionale? La necessità di una nuova legge elettorale per l’elezione del Parlamento nazionale è sentita non solo da tutte le forze politiche di opposizione ma anche da larga parte della opinione pubblica e, forse, anche da parte della stessa maggioranza, di quella che non vede di buon occhio gli “yes man” che con la loro acquiescenza offuscano i più meritevoli. È stato anticipato che verrà presentato un progetto di riforma studiato dal Pd nel quale si prevede l’elezione del 70 per cento dei parlamentari in collegi uninominali a doppio turno. Il rimedio ipotizzato a me pare peggiore del male prodotto dal “porcellum”. A parte il fatto che l’uninominale - anche se a doppio turno - sacrifica le minoranze, i programmi e quel che resta delle ideologie privilegiando il culto della personalità, non va trascurato che vi è il rischio concreto di incentivare, accrescere a dismisura i campanilismi facendo perdere agli eletti la visione di insieme dei problemi. Visione di insieme che oggi è più necessaria di prima, perché i problemi creati dalla globalizzazione non si possono affrontare con visioni limitate. Per non essere travolti occorre unità di intenti. Evidentemente i democratici hanno dimenticato che l’uninominale ha prodotto in Sicilia, in un passato non molto lontano, un clamoroso 61 a zero, che ha privato una grossa fetta di elettori di rappresentanti che col proporzionale avrebbero ottenuto oltre 21 seggi. Non è meglio tornare al proporzionale per dar voce a tutte le minoranze?

Luigi Celebre

SCIACALLAGGIO ANTICATTOLICO All’indomani della strage di Oslo, non pochi commentatori hanno deliberatamente fatto passare il messaggio che l’attentatore fosse cristiano e addirittura cattolico. Tesi davvero ridicola dal momento in cui lo stesso omicida ha ammesso di essere massone e di simpatizzare per gli ebrei. Ma non solo. Gli investigatori, setacciando i siti web dove Anders Breivik postava i deliranti messaggi, hanno scoperto che i suoi interlocutori preferiti erano satanisti ed atei. Nei suoi post è saltato fuori che tra i nemici dichiarati, oltre ai comunisti e agli islamici, figuravano anche il Papa e il Pdl. Eppure, è bastato che il folle si dichiarasse “cristiano culturale” per dare la stura ai professionisti dello sciacallaggio anticattolico. Profittatori a parte, con l’espressione “cristiano culturale”, Breivik ha espresso il medesimo concetto di “cattolico adulto” coniato da Romano Prodi, qualche anno addietro. Entrambi, seppur con sfumature diverse, hanno voluto sottolineare l’aspetto che ci si può autodefinire cattolici o cristiani a prescindere dalla piena adesione dottrinale a questa o a quella confessione. In parole semplici, Breivik ha voluto far credere che si riesce ad essere bravi cristiani anche nutrendosi di elementi non cristiani, mentre l’ex capo della sinistra italiana ha voluto far passare l’idea che si

riesce ad essere bravi cattolici anche snobbando il Papa e finanche appoggiando partiti politici lontani anni luce dal magistero della Chiesa. Il primo dei sette vizi capitali, ricorda il catechismo, è la superbia. Quando l’uomo decide di fare di testa sua, prescindendo dalle autorità umane, religiose e divine, è “naturale”che la superbia umana generi mostri, morte ed immoralità.

Gianni Toffali - Verona

OMOFOBIA E CRISTIANOFOBIA La legge sull’omofobia è stata opportunamente respinta per significare l’uguaglianza tra tutti i cittadini, per non creare ghetti di tipo sessuale e per archiviare gli insensati e insultanti gaypride. Ma sta prendendo piede in Europa, non solo in Asia, un altro tipo di fobia, reale e molto pericolosa: la cristianofobia. Faccio solo due casi. L’obbligo, secondo me insensato, fissato dal governo irlandese per i preti di denunciare i penitenti che confessano peccati di pedofilia. Oppure quello della consigliera emiliana, alla quale è stato precluso un incarico istituzionale in quanto cattolica. Auspico che si tratti di situazioni rimediabili, perché l’Europa di problemi ne ha già abbastanza.

A. C.

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L’IMMAGINE

Una criniera di tentacoli A colpo d’occhio, nelle profondità blu scure dei mari più settentrionali, colpisce per il suo colore arancione acceso. Ma è il groviglio di tentacoli a dare il nome a questa medusa, della specie Cyanea capillata. La massa confusa e aggrovigliata di braccia, che sembra aumentare insieme all’età della ”proprietaria”, le ha fatto guadagnare l’appellativo di medusa criniera di leone. La campana, o ombrello, di questa creatura ”in gelatina” oscilla tra i 30 e gli 80 centimetri di diametro, ma alcuni individui raggiungono le dimensioni record di 180 centimetri. Il contatto con uno di questi esemplari può rivelarsi pericoloso per l’uomo i tentacoli sono fortemente urticanti ma fortunatamente, alle calde acque mediterranee la nuotatrice preferisce le regioni più fredde degli oceani, il Mar Baltico e il Mare del Nord

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Il lunghissimo regno dell’ex raìs del Cairo ha portato al Paese prosperità e repressione. La furia omicida contro di lui è corretta?

Il Faraone in gabbia Hosni Mubarak va a processo su una barella E da dietro le sbarre si dichiara innocente di Vincenzo Faccioli Pintozzi uale che sia il suo destino, il Faraone rimarrà nella memoria collettiva seduto su una sedia a rotelle mentre – da dietro una gabbia decisamente esagerata – si proclama innocente. Come di Saddam Hussein il mondo ricorda principalmente un’immagine segnata, con una barba fitta e un abbassalingua in bocca subito dopo il suo arresto, in Occidente pochissimi terranno la mente sul potente in doppiopetto. Il vecchietto patetico resisterà di più. Ieri si è aperto al Cairo, fra tumulti e scontri di piazza di portata limitata, il processo contro Hosni Mubarak, i due figli Gamal e Alaa, l’ex ministro degli Interni Habib alAdly e Hussein Salem.

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Quest’ultimo, tycoon di portata internazionale e confidente dell’ex presidente, è processato in absentia. Probabilmente si trova in Svizzera, ma è talmente potente che potrebbe tranquillamente non apparire più sulla scena internazionale. Le accuse sono variegate ed estremamente pesanti. Contro il Faraone, la procura della Re-

pubblica egiziana ha spiccato due mandati: cospirazione per l’uccisione dei manifestanti e abuso di potere. Secondo il codice penale locale rischia dai 20 ai 35 anni di galera: ma se venisse riconosciuto colpevole del primo capo di accusa potrebbe anche finire sul patibolo. Per i suoi pargoli, invece, si parla soltanto di abuso di potere: dai 5 ai 15 anni. Per il suo ex ministro la situazione è più grave: l’omicidio di coloro che morirono durante i moti di piazza Tahrir potrebbe essere – secon-

sassinato da militari ostili alla pace con Israele, la successione al trono dell’Alto e del Basso Egitto non è automatica.

Per otto giorni, anzi, capo dello Stato diventa il Presidente del Parlamento Sufi Abu Taleb. Ma poi gli alti gradi militari si accordano attorno alla successione di un loro collega – Mubarak, per l’appunto – che si è guadagnato l’ammirazione di tutti per la sua capacità in aria: secondo alcuni, perché il suo scarso carisma, al di là dell’im-

Dopo l’assassinio di Sadat sono i militari a dargli il potere. Lontano dalla democrazia, è stato comunque un alleato fedele dell’Occidente. E non ha imposto stermini alla popolazione locale do il codice militare e penale – totalmente imputabile a lui dal punto di vista decisionale. Quindi, nessun ostacolo sulla strada per il patibolo.

Ma chi è Hosni Mubarak? O meglio, chi era? E cosa ha fatto per l’Egitto? Il 6 ottobre del 1981, quando Sadat viene as-

magine di eroe e competente, accontenta tutti, evitando pericolosi bracci di ferro tra altri pretendenti. Se così è davvero, come spesso accade proprio l’apparente debolezza si è poi trasformata nella forza che ha permesso a Mubarak di restare al potere per una durata record. Il 13 ottobre si tiene dun-

que un referendum, e il 14 ottobre si insedia. La legge egiziana sostituisce le presidenziali con un semplice referendum se i due terzi dei parlamentari votano per un candidato, e il Partito Nazionale Democratico al potere con Mubarak non scende mai sotto i 318 seggi su 454: nel 2010, quando i deputati so-

no stati aumentati a 518, ne ha avuti 420. Con referendum Mubarak si fa quindi rieleggere nel 1987: 97,1% di voti favorevoli. E nel 1993: 96,3. E nel 1999: 93,8. Solo nel 2005, con le pressioni che arrivano dagli Stati Uniti impegnati nella campagna per l’esportazione della democrazia, Mubarak ac-

Il presidente della Tunisia è stato processato in contumacia: quello del Cairo è il primo procedimento contro un dittatore

E la piazza torna a tuonare contro il raìs i riaccende la tensione nelle piazze egiziane con il vecchio raiì alla sbarra. Ma sarà la Norimberga egiziana o un processo farsa, con maxischermo in piazza per seguire la diretta tv? Ieri al Cairo nella sede dell’Accademia di polizia è cominciato il processo a Hosni Mubarak, deposto dopo la rivolta della scorsa primavera. Mentre all’esterno i sostenitori delle due fazioni pro e anti Mubarak si affrontavano. L’ex presidente 83enne, ricoverato a Sharm el-Sheikh dallo scorso aprile, è entrato in barella nella gabbia per gli imputati, dove si trovano anche i suoi figli Alaa e Gamal con le tute bianche da carcerati. Rispettato dunque il copione da caduta dei potenti. Sullo sfondo di questo avvenimento mediatico-giudiziario si muovono i protagonisti del nuovo potere i Fratelli musulmani e del vecchio, i militari, per disegnare la mappa dell’Egitto che verrà. Il giudice Ahmed Refaat ha

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di Pierre Chiartano chiesto all’aula di mantenere la calma all’ingresso di Mubarak, partito all’alba dall’ospedale del resort sul Mar Rosso. Le accuse sono di aver autorizzato la violenta reazione delle forze di sicurezza che portò a numerose vittime tra i

reale identità dell’imputato dietro le sbarre in aula. Probabilmente una strategia legale per fugare ogni dubbio, viste le voci che erano circolate sulla morte dell’ex presidente. Sei mesi dopo la rivolta che lo ha disarcionato, il faraone

È cominciata ieri ciò che vorrebbe essere la Norimberga egiziana, con maxischermo in pazza per seguire la diretta tv. Mentre fuori dalla sede del processo si scatenavano gli scontri manifestanti, al tradimento della Costituzione e non ultima, sottolineata soprattutto dal canale di al Jazeera in lingua araba, di aver venduto a Israele gas a prezzi fuori mercato, più altri addebiti come corruzione e malversazione. È stato persino chiesto da uno dei tanti avvocati presenti in aula un test del sangue del rais, per verificare, tramite dna, la

che per 30 anni ha governato l’Egitto con pugno di ferro si è trovato dall’altra parte della barricata: da imputato. Ma ancora molti degli uomini che hanno condiviso il potere col rais siedono ancora al loro posto. Una situazione che peserà sul processo, che dovrà mediare tra le esigenze della “piazza” e quelle di un regime che cerca disperatamente una

transizione di velluto. «Respingo completamente tutte le accuse», ha affermato con un filo di voce l’ex rais.

Pallido ma vigile, l’anziano politico ha seguito la requisitoria del procuratore, Moustafa Soliman, che lo accusava di omicidio premeditato dei manifestanti durante la rivolta contro il regime, chiedendo che rispondesse di «tutte le violenze» commesse tra il Duemila e il 2011, ed enumerando gli altri capi di incriminazione, corruzione e distrazione di fondi pubblici. «Mubarak ordinò intenzionalmente di uccidere» i pacifici dimostranti, ha tuonato il procuratore. Se riconosciuto colpevole, l’ex presidente potrebbe rischiare la condanna a morte, che è stata esplicitamente richiesta da un avvocato delle vittime nei confronti dell’ex ministro dell’Interno, Habib Al Adly, già condannato a 12 anni per corruzione e anch’egli sotto proces-


mondo

l’Organizzazione dell’Unità Africana in Etiopia. E nel 1999 sarà ferito da una coltellata.

Per gran parte del lunghissimo “regno” di Mubarak, però, il pluralismo fasullo dell’Egitto è comunque meno pesante dell’autoritarismo dichiarato del resto del mondo arabo, a contestare il regime sono soprattutto integralisti fanatici spesso responsabili di atti di terrorismo sanguinosi, e il presidente ottiene comunque buoni risultati sia in campo internazionale che economico. Per tutto questo pe-

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gitto alla Lega Araba, da dove era stato sospeso all’epoca della pace con Israele: anzi, la sede dell’organizzazione torna al Cairo. Nel 1991 la partecipazione dell’esercito egiziano alla guerra per la liberazione del Kuwait è pagata con sussidi e condoni di debito che l’Economist calcola in mezzo milione di dollari a soldato. L’apertura economica, il boom del turismo, la scoperta di nuove riserve di petrolio e gas, il boom della New Economy con la Orascom di Sawiris propizia un boom economico con una crescita a

Allergico all’opposizione, ha messo in galera almeno 20mila dissidenti in 30 anni. Ma l’accusa di “cospirazione per l’uccisione dei dimostranti” di piazza Tahrir sarà molto difficile da provare cetta per la prima volta di correre contro due avversari. Ayman Nour, del partito liberale nuovo al-Ghad, parrecipa al suffragio che sta già in carcere, e prende il 7,3%; Numan Gomaa, del partito liberale storico Wafd, ha il 2,8%; e Mubarak, l’88,6. Lo stato d’emergenza proclamato dopo l’omicidio di

Sadat non è stato mai revocato, ben 20.000 integralisti islamici sono stati arrestati a partire dal 1999, e d’altronde Mubarak scampa a ben sei tentativi di omicidio. In particolare, nel 1995 fu l’insistenza di Suleiman per far blindare una limousine a salvarlo da un attentato approntato al vertice del-

riodo, gli oltre 2 miliardi di dollari di aiuto Usa che arrivano ogni anno sono una fonte di valuta inferiore solo a idrocarburi, rimesse degli emigranti e turismo ma pari al Canale di Suez, e gli Usa forniscono inoltre metà del fabbisogno di cereali egiziano. Nel 1989 Mubarak riesce a far riammettere l’E-

ritmi del 5% all’anno, e tra 2007 e 2008 anche del 7-8%. Un dittatore, insomma, ma pragmatico. Un uomo cui l’Occidente si è sempre rivolto per avere aiuto e sostegno nell’area, un uomo che ha aperto (suo malgrado, certo, ma l’ha fatto) ai rapporti con Israele. Un militare che ha bloccato la nascita e la diffusio-

so insieme ai due figli dell’ex rais, Gamal e Alaa. Alla sbarra anche sei alti ufficiali di polizia, mentre l’uomo d’affari Hussein Salem viene giudicato in contumacia. Anche i due rampolli del faraone si sono dichiarati non colpevoli e per tutto il tempo dell’udienza, Corano in mano e divisa bianca da detenuti, si sono piazzati in piedi davanti alla barella del padre, forse per sottrarlo agli occhi Il processo a Mubarak, deposto a febbraio dopo 18 giorni di proteste popolari, è sicuramente senza precedenti.

Il presidente tunisino Zine al-Abidine Ben Ali, il primo leader a essere destituito nella Primavera araba, è stato processato in contumacia e si trova in Arabia Saudita. Se condannato, Mubarak rischia la pena di morte. Fuori dalla corte alla periferia della capitale egiziana manifestanti pro e contro Mubarak si sono affrontati, alcuni con lancio di pietre, mentre centinaia di poliziotti sono intervenuti per mantenere la calma. Alfiere del mondo arabo moderato ma anche rais dal pugno di ferro, Hosni Mubarak - il faraone dalle dieci vite scampato ad altrettanti attentati - ha lasciato le redini del potere l’11 febbraio

ne in Africa settentrionale del terrorismo islamico e che si è presentato al mondo senza divisa e senza turbante: con il doppiopetto. Inoltre, l’ex presidente non ha creato campi di sterminio, non ha promosso processi pubblici o sommari, non ha operato stragi settarie contro la popolazione.

Il processo in corso dovrebbe tenere conto di tutto questo. Non si vuole certo sostenere che Mubarak sia stato un democratico “western-style”, ma forse non lo è neanche la furia popolare che circonda il palazzo di giustizia dove si svolge il processo. Una madre, fuori dall’aula, ha dichiarato: «Sono felice di vederli finalmente dentro una gabbia. È il posto dove devono stare fino a che non verranno uccisi in nome del popolo. Soltanto così mio figlio, morto negli scontri di piazza, potrà riposare in pace». Salvaguardando la memoria del figlio e cercando di comprendere la furia della madre, è auspicabile che questo non sia il sentimento che anima anche giudici e giurati. Altrimenti sarebbe una farsa, non un processo.

trova accanto al rais Anwar Sadat, l’uomo della pace con Israele, mentre quest’ultimo, durante una parata militare, cade a terra sotto i colpi di un estremista islamico.

scorso, chiudendo una parabola durata 30 anni. Nato nel 1928, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia, pilota militare addestrato nelle scuole sovietiche,

durante la guerra del Kippur del 1973 si distingue tanto da guadagnarsi i galloni di Maresciallo dell’Aria. Il 6 ottobre 1981 Mubarak è già vicepresidente e si

Un membro della Muslim brotherhood, movimento che oggi sembra aver fatto un patto con i militare per gestire il potere in quella che appare come una lunga transizione. Anche se ora la Fratellanza è spaccata al suo interno e rischia di presentarsi alle prossime elezioni politiche con diverse sigle, suddivise tra coservatori, radicali, modernisti e riformatori. Il processo a Mubarak probabilmente deve ottemperare a due esigenze. La prima quella di dare soddisfazione mediatica e simbolica al popolo di piazza Tahrir e alle centinaia di morti della rivolta. La seconda è quella di metter in mostra dietro le sbarre l’ex faraone, ma senza infierire troppo nella sentenza. La famiglia Mubarak conosce troppi segreti ed è in grado di ricattare molti uomini ancora al potere. Il rischio di una condanna eccessivamente pesante è quello che potrebbe essere solo la prima di molte. Il processo è stato aggiornato al 15 agosto.


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grandangolo Oltre la religione, i tre Paesi si preparano a sfidare l’Occidente

Damasco, Beirut e Teheran: ecco l’asse da sconfiggere

Le previsioni del Fondo Monetario Internazionale parlano chiaro: entro il 2030, le economie orientali varranno più di quelle (unite) di Stati Uniti ed Unione europea. Ecco perché bisogna prepararsi a una battaglia non ideologica ma economica, per l’egemonia sul nuovo quadrante di sviluppo (non solo energetico) del mondo di Giancarlo Elia Valori l sistema politico siriano è ben più complesso di quanto non appaia. La storia del regime baathista degli Assad, poi, risulta in un processo di trasformazione interna della geoeconomia siriana che non può essere spiegato né con il modello di Gunder-Frank, né con la polarizzazione politologica tra “tiranno”e “vittime”caratteristica di certa politologia anglosassone. Il golpe del Baath “arabo socialista”del 1963 è un colpo di Stato che predispone l’arrivo al potere, nel 1970, di Hafez El Assad, un ufficiale dell’aeronautica addestrato in Urss di fede alawita. E il primo vero organizzatore del Baath è appunto un alawita, Zaki Al Arzusi. È Zaki Al Arzusi che genera il “cerchio interno” alawita del Baath, la sua vera cabina di comando. L’élite postcoloniale è la responsabile della prima grande sconfitta della Siria nella Prima Guerra AraboIsraeliana, una sconfitta che destabilizza Damasco nella fase in cui l’Occidente tenta di organizzare il Patto di Baghdad, la proiezione dei nuovi interessi transatlantici nell’area. La crisi viene risolta con una frettolosa unificazione con l’Egitto degli “Ufficiali Liberi” di Nasser, nel 1961, che nazionalizza spesso a favore del Cairo le poche strutture produttive della Siria. Il golpe del Baath arriva, a questo punto, a unire la sovranità nazionale siriana e la socializzazione delle terre, mentre il nesso tra militari alawiti e baath si definisce con una sommatoria di jamaa’t, di “fazioni” interne su linee clientelari, etniche e geografiche, oltre che ideologiche, dentro

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le quali è facile per l’Urss proporsi come l’unico “protettore”del giovane socialismo nazionale siriano. Oggi, le “fazioni”giocano un ruolo egualmente importante. Il secondo golpe nel 1970 porta al potere appunto Hafez El Assad, legato alla ideologia del “movimento correzionista”, il socialismo. Scoppia la spesa pubblica, si espande il settore dell’impiego statale, la selezione delle classi dirigenti viene ese-

L’acqua svolge un ruolo sempre più importante. Il bacino idrico del Giordano è di fondamentale importanza guita tenendo conto soprattutto della fedeltà clanica ai vari capi del nuovo golpe alawita di Assad. La presidenza costringe il Baath a costituire con altri piccoli partiti il Fronte Progressivo Nazionale nel 1972, in modo da controllare autonomamente la propria base originaria del potere, il partito fondato da Michel Aflak. Gli scontri tra sunniti legati alla Fratellanza Musulmana e il regime di Assad sono caratterizzati da molte motivazioni, che so-

no ancora all’opera nel regime attuale di Bashar El Assad: la crisi delle politiche regionali del governo di Damasco, l’impegno militare in Libano, che inizia nel 1976, asse anche strategico,oltre che ideologico, del sistema di Assad che mira alla “Grande Siria”, il forte tasso di corruzione e di nepotismo nelle strutture pubbliche, l’inizio di una forte differenziazione sociale e reddituale. Tutti elementi che operano ancora nel meccanismo politico e economico siriano. Dal nazionalismo sociale al neoimperialismo regionale, un passaggio che compie, nei nostri anni, anche l’Iran, e per un complesso di motivi strategici, economici, religiosi e culturali molto simili a quelli presenti nelle menti dei Decisori di Damasco. La repressione di Hama del 1982 è il punto di non ritorno del regime alawita in rapporto alle sue loyalties interne.

Dopo Hama, nel 1982-’83, quando Hafez El Assad si allontana dal potere per motivi di salute, scoppia, e ciò accade proprio in relazione ai fatti di Hama e alla crisi economica di un welfare state clientelare ormai insostenibile, la lotta tra i “baroni”del regime, che un tratto costante della Siria, anche oggi, e che viene temporaneamente sedata dal ritorno ai suoi uffici di Assad. La pace del 1979, pochi anni prima, tra Egitto e Israele aveva riportato la Siria in un ruolo egemonico tra i vari “Paesi del Rifiuto”, e questa era, ed è, una carta strategica determinante nella geopolitica di Damasco. Il Trattato

sirio-sovietico del 1980 è il contrappasso dantesco di questa egemonia regionale: la dipendenza da Mosca blocca, nel Nord del paese, i progetti della Siria come leader dell’islam “radicale” antisraeliano e crea una supervisione, di fatto, da parte della Marina sovietica, delle coste mediterranee di Damasco. Troppo per non creare un isolamento occidentale verso la Siria, troppo poco per diventare indispensabili per Mosca. I sovietici, intanto, guardano con scetticismo al fallimento delle Forze Armate siriane in Libano contro Israele, nel 1982, una guerra per procura che Damasco aveva disperatamente tentato di evitare. Altre guerre per procura caratterizzeranno la logica strategica siriana attuale: una sorta di “vendita” di un braccio militare in cambio di un sostegno geostrategico e economico che si incentra sul finanziamento delle spese in deficit del regime alawita. La partecipazione del sistema Assad alla prima guerra del Golfo nella coalizione antirachena è il segno che Damasco vuole riaprire un contatto con l’Occidente, intende spartirsi le spoglie dell’Iraq postSaddam Hussein, anche e soprattutto in termini petroliferi, e che vuole giocare una partita a due con il nuovo protettore della Sira, l’Arabia Saudita. Anche in Siria, le scelte strategiche del“Nuovo Mediterraneo” sono opzioni da compiere in modo rapidissimo, come accade anche in Iran: la demografia è simile a quella di tanti Paesi arabi, con il 54% della popolazione che ha meno di venti anni, l’80%


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di disoccupazione nella fascia di età tra i 19 e i 30 anni, l’esaurimento di fatto delle risorse petrolifere a breve, sempre negato dal regime ma noto a tutti gli operatori del settore, la presenza di monopoli nell’economia sia oil che non oil, che finanziano le varie jamaa’t al potere.

È probabile, quindi, che la nuova Siria svilupperà la sua economia, con il minimo di riforme interne possibili, come Stato di Passaggio, come intermediario delle reti energetiche tra Asia Centrale (le cui aziende petrolifere stanno entrando pesantemente nel mercato siriano) e come asse strategico di linee di trasferimento protette dall’Iran verso la Turchia e il Mediterraneo, il che spiegherebbe la motivazione geoeconomica della presenza di Damasco in Libano e della pressione su Israele, l’unico player strategico che possa contrastare questa nuova ipotesi di sopravvivenza del regime degli Assad. Dal 1986, anno della transizione economica ufficiale della Siria da Stato socialista, la transizione al neoliberismo, che oggi è cessata, almeno nel Mediterraneo, si scontra con la caduta dei prezzi del petrolio e la corrispettiva riduzione dei finanziamenti a fondo perduto dei Paesi OPEC alla Siria, creando una inflazione del 70% nel 1989. La Siria, fin dall’inizio, perde la guerra della globalizzazione. Le fonti di reddito divengono il contrabbando di idrocarburi, stimolato dalle differenze di prezzo tra le varie regioni siriane, di alimentari e di prodotti di largo consumo, soprattutto verso il Libano, che diviene una sorta di area di compensazione delle asimmetrie economiche siriane, e questo giustifica ulteriormente l’occupazione da parte delle Forze Armate di Damasco. I capitali “grigi” e neri delle nuove élites corporativo-neoliberiste siriane vengono riciclati. Una economia dei piccoli consumi, gestita da oligopoli o cartelli, che è il tratto, in tutto il “nuovo Mediterraneo”, di quelle aree geopolitiche e di quelle classi dirigenti che hanno duramente perso la guerra della globalizzazione virtuosa e che cercano, in questo modo, di procurarsi i redditi aggiuntivi per mantenersi al potere. Una tendenza diffusa in tutto il Mare Nostrum meridionale. In Libano, questo assetto funzionale alla economia“grigia”diretta da Damasco genera gli stessi effetti che si notano in altre aree del Mediterraneo caratterizzate da questa pericolosa formula economica: disoccupazione giovanile oltre il 15%, un debito pubblico che è ormai il 170% del PIL, la polarizzazione delle classi sociali e la costituzione di una “borghesia paracriminale” che ricorda da vici-

no quella costituitasi, negli anni ’80, nel Meridione d’Italia. Le tensioni geoeconomiche per il mantenimento delle rendite aggiuntive fuori mercato, essenziali per la permanenza dell’élite del potere di Damasco, hanno anche un riflesso strettamente strategico: la questione delle alture del Golan e del Lago di Tiberiade. La questione, strettamente connessa alla gestione delle acque del Giordano e di Tiberiade, è quella delle alture del Golan: 1800 km quadrati di cui 1200 sono de jure appartenenti alla Siria ma amministrati di fatto da Israele, che li ha annessi al proprio territorio nel 1981. Dopo la guerra del 1973 Israele ha reso alla Siria la cittadina di Quneytra, ma la posizione delle Alture è davvero strategica. La dominance del Golan permette il controllo delle entrate a Damasco: chi lo controlla controlla il Medioriente terrestre, oltre a gestire il passaggio delle linee militari e economiche dall’area del Golfo Persico al Mediterraneo. Ecco perché lo Stato di Israele è così attento alla questione ed ecco soprattutto perché tutti i nemici dello Stato ebraico sostengono la posizione siriana nella zona. Le trattative, palesi e segrete, tra Israele e Siria, mediate dagli USA, non sono arrivate, finora, ad un ri-

La dominance del Golan è fondamentale: chi lo controlla può dominare tutto il Medioriente terrestre sultato rilevante. Ma, dal punto di vista del “Nuovo Mediterraneo”, se si arrivasse ad una buffer zone efficace controllata dall’Onu in gran parte del Golan si potrebbe immaginare una nuova trattativa che ponga in correlazione anche la mainmise siriana in Libano, gli accordi con la Turchia e un processo di smilitarizzazione progressiva che veda, in particolare, il prosciugamento delle fonti finanziarie che arrivano ad Hezbollah e agli altri gruppi che compiono una “guerra per procura”contro lo Stato ebraico e gli altri interessi Usa e Ue nell’area. Se la Nato e l’Onu saranno credibili nella gestione di una “buffer zone”e di un progressivo disarmo dei gruppi paramilitari, allora il passaggio tra Golfo Persico e la stessa tensione tra Arabia Saudita e Iran si potranno declinare in modo ben diverso dall’attuale. Nel caso invece del-

la gestione controversa e a tre del bacino del Tigri e dell’Eufrate, l’arma di ricatto di Damasco è stato il sostegno al Pkk curdo contro Ankara. Il terrorismo mediorientale si nutre di acqua e olio, o petrolio. E, sempre per vedere il quadrante delle acque nella zona e soprattutto in funzione della Siria, un altro tema importante è quello del bacino del Giordano. Il 53% dell’area drenabile appartiene alla Giordania, il 29,6% alla Siria, il 10,4% a Israele e il 6,1% al Libano. Sarà l’acqua, alla fine, a determinare i nuovi equilibri geopolitici del Medioriente, salvo la possibilità di costruire il noto Canale della Pace, dalla Turchia fino ad Israele attraverso il Libano e la Siria. Se verrà realizzato, Ankara sarà capace di definire una sua politica verso l’asse tra Turchia e Egitto, chiudendo la strada all’Iran, regionalizzando Israele e divenendo la potenza di riferimento terrestre per Giordania e Siria, che avranno un contraltare alla potenza iraniana nella regione.

Per l’Iran, la questione è ormai nota: quale è il punto di rottura tra la prosecuzione del programma nucleare civile-militare, la permanenza del regime sanzionistico internazionale e la sostenibilità economica della ricerca per “l’immensità nucleare” iniziata dal Grande Ayatollah Ali Khamenei? Nel 2005 la massa di liquidità della repubblica sciita era di 70mila miliardi di toman, la nuova valuta iraniana, mentre oggi si è ridotta a 35 mila milioni di toman, e la crescita economica di Teheran si è ridotta fortemente. La scelta atomica di Teheran è l’unica possibilità per compensare sul piano della minaccia strategica la caduta economica del sistema sciita e la sua progressiva debolezza sul piano petrolifero, dove la oil depletion è sempre più rilevante e dove la pressione militare sul Medioriente e sull’area centro-asiatica sarà per Teheran l’unico modo di pesare nel sistema Opec e nella gestione del suo corridoio strategico dalla Siria verso il Mediterraneo. Certamente, i costi della guerra coperta contro quella che i dirigenti iraniani chiamano “l’entità sionista”sono rilevanti per l’equilibrio economico interno, e saranno, con ogni probabilità, difficilmente sostenibili in futuro. Se quindi gli Usa sono allontanati dal quadrante centroasiatico, anche sul

piano petrolifero, l’Iran riesce a definire una collaborazione strategica con la Federazione Russa, che serve a Teheran come contraltare nei confronti dell’Opec sunnita e come garanzia, ad Est, della sua partecipazione, ad ovest, ad una nuova lotta contro lo Stato ebraico. Tanto maggiore la capacità di unire, in Asia Centrale, Russia, Turkmenistan, Kazakhistan e Uzbekistan in una nuova alleanza degli idrocarburi per controllare Georgia e Ucraina, tanto maggiore anche, per l’Iran, la sua dominance nel Medioriente e la sua pressione politica verso Arabia Saudita e Emirati del Golfo. La difficile partecipazione di Turkmenistan e Iran al progetto “Nabucco”è l’asse della questione, dato che i Paesi del Golfo Persico che si lanciano nell’Asia Centrale, come l’Iran e le vecchie repubbliche di origine sovietica, vogliono crearsi una fonte stabile di proventi per il mantenimento della loro “élite del potere”.

La partita del regime sciita si mostra ad Occidente ma si decide ad Oriente, con il successo progressivo, secondo le speranze di Teheran, di una nuova mainmise militare e nucleare iraniana sulle risorse dell’Asia Centrale per compensare o per minacciare gli assetti definiti dall’Opec sunnita nel Golfo Persico e nel Vecchio Medio Oriente. Ma anche la crisi del 2008-2009, che ha accelerato lo shift economico dall’Ovest verso l’Asia, ha posto nuove carte in mano alle potenze sunnite del Golfo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale le economie dell’Asia, entro il 2030, saranno più grandi di quelle di Usa e Ue messe insieme, e questo pone alle potenze del Golfo la sfida, del tutto nuova, di riunire, anche per contrappeso all’Occidente, tutto l’islam e trasformarlo. Quindi lotta contro il jihad della spada così come si è realizzato con al Qaeda, egemonia in Asia orientale e nel Pacifico islamico, dove gli Usa e a maggior ragione la Nato sono potenze secondarie, nascita di un nuovo ordine coranico che unifichi le nuove potenze emergenti e penetri meglio nei gangli economici dell’Ovest in crisi. Si pensi, in questo caso, alla acquisizione di buona parte della Barclays bank da parte di un fondo sovrano del Qatar, la Qatar Holding LLC, nel 2008 e dell’acquisto del 10%, sempre da parte dello stesso fondo, della Porsche AG nel 2009 e, ancora, della acquisizione della Harrod’s nel Maggio 2010. E non dobbiamo dimenticare, in questo contesto, il sostegno - sempre del Qatar - alle iniziative politiche e petrolifere del National Transitional Council libico dei ribelli di Bengàzi. Insomma, qui si tratta di una battaglia per l’egemonia nel nuovo quadrante di sviluppo del globo, che ha per corollari: la securizzazione, anche contro lo Stato ebraico, delle linee di trasferimento e di controllo politico dal Golfo Persico e dall’Asia Centrale verso il Mediterraneo, in funzione di emarginazione degli Usa e della Ue nell’area, economie che potrebbero aumentare il loro carattere di dipendenza dall’asse centro-asiatico e cinese; la gestione autonoma delle aree petrolifere e gaziere del Patto di Shanghai, con la partecipazione della Federazione Russa che rientrerebbe come partner commerciale e strategico nei Paesi che ha abbandonato come Urss; l’egemonia, sempre a partire da questo “nuovo Mediterraneo” incentrato sulla Via della Seta, dei nuovi Paesi emergenti nel sistema africano e in quello maghrebino.


ULTIMAPAGINA Nasser Jason Abdo, caporale, ottiene l’esenzione dalla leva Usa per il suo credo islamico. E poi pianifica un agguato

Lo strano caso del terrorista di Daniel Pipes asser Jason Abdo, 21 anni, caporale dell’esercito americano, aveva già fatto parlare di sé nell’agosto 2011 quando, sostenendo che la sua fede islamica fosse in contraddizione col fatto di essere nell’esercito Usa, presenta istanza per esercitare il diritto di obiezione di coscienza. Riferendosi alle attuali guerre americane in Iraq e in Afghanistan, Abdo asserisce che a un musulmano «non è permesso di partecipare a una guerra islamicamente ingiusta. Ogni musulmano che conosce la sua religione (…) non dovrebbe far parte dell’esercito americano». Inoltre, ha manifestato la sua intenzione di lasciare l’esercito, combattere “l’islamofobia” e «mostrare ai musulmani come possiamo condurre la nostra vita, cercando di dare un’interpretazione positiva del fatto che l’Islam è una religione buona e di pace. Non siamo tutti terroristi, sapete?». Il 13 maggio scorso, ad Abdo è stato riconosciuto lo status di obiettore di coscienza. Ma quello stesso giorno, a causa di un’indagine avviata per le sue dichiarazioni antiamericane, si è trovato di fronte a un Article 32 hearing (l’equivalente militare di un gran giurì) per aver scaricato 34 immagini pedopornografiche sul computer datogli in dotazione dall’esercito. Abdo ha giurato di voler contrastare quest’accusa e di impugnare le motivazioni dell’esercito. («Sono trascorsi quasi dieci mesi da quando l’indagine è stata avviata e solo ora vengo accusato di essere in possesso di materiale pedopornografico proprio quando la mia istanza di esercitare il diritto di obiezione è stata accolta. Tutto questo mi puzza!»).

N

Il 15 giugno l’Article 32 hearing ha chiesto che Abdo sia processato da una corte marziale per pornografia illegale. Il 4 luglio, il giovane si è assentato senza permesso dalla 101a Divisione Aviotrasportata di Fort Campbell, nel Kentucky. Il 27 luglio, Abdo è riapparso a Guns Galore, un negozio di munizioni di Killeen, in Texas, nei pressi di Fort Hood, dove ha acquistato armi, munizioni e del materiale per fabbricare bombe, come pure ha provveduto all’acquisto di un’uniforme con i distintivi di panno di Fort Hood in un negozio di rimanenze militari. Al suo arresto effettuato dalla polizia quello stesso giorno, ha fatto seguito un comunicato stampa dell’Fbi che diceva: «Abdo era in possesso di una pistola calibro 40, di munizioni, di un articolo [pubblicato da Inspire, un magazine in lingua inglese di al-Qaeda] titolato “Come fabbricare una bomba nella cucina di tua madre”, e anche di componenti per fabbricare bombe, tra cui sei bottiglie di polvere da sparo senza fumo, bossoli e pallottole per fucili, due orologi, due bobine di cavo auto, un trapano elettrico e due pentole a pressione». Il materiale in possesso di Abdo corrisponde esattamente agli “ingredienti”elencati dall’articolo della rivista Inspire sulla fabbricazione delle bombe. Il giovane ha ammesso all’Fbi di aver «pianificato di assemblare due bombe nella sua camera d’albergo utilizzando polvere da sparo e frammenti di proiettili esplosi dentro delle pentole a pressione da far esplodere in un imprecisato ristorante frequentato dai militari di Fort Hood». Quali

OBIETTORE erano le sue motivazioni? Ne spiccano due: Abdo ha confessato di voler uccidere i militari per “prendersi la rivincita” sull’esercito, presumibilmente a causa della corte marziale. Ma l’obiettivo più importante era islamista. Ha parlato a getto continuo di “islamofobia”, ha elogiato il Cair, ha reso delle dichiarazioni antiamericane e ha dichiarato che non poteva uccidere i fratelli musulmani. Il suo zaino conteneva quello che un funzionario delle forze dell’ordine ha definito “lettera-

tura estremista islamica”. Guns Galore è lo stesso negozio dove il maggiore Nidal Hasan acquistò le armi utilizzate per uccidere 14 persone a Fort Hood nel novembre 2009. Davanti alla corte, Abdo ha gridato a gran voce “Nidal Hasan – Fort Hood 2009” e “Anwar alAwlaki” (la guida spirituale di al-Qaeda di Hasan). Il giovane ha inoltre urlato “Abeer alJanabi – Iraq 2006”, il nome di una ragazza violentata e uccisa quell’anno da dei soldati americani. Questo caso evidenzia una questione profonda: l’Islam è incompatibile con la possibilità di prestare servizio per il governo americano? La richiesta di esercitare il diritto di obiezione di coscienza e il sedicente terrorismo di Abdo in modo opposto ma complementare argomentano a favore della loro incompatibilità. L’esercito Usa ha tacitamente accettato la sua opinione concedendogli lo status di obiettore di coscienza, forse influenzato dai ripetuti attacchi musulmani ai militari Usa, tra cui l’attacco con bombe a mano perpetrato in Kuwait dal sergente Hasan Akbar, la furia omicida di Hasan a Fort Hood e l’attacco di Abdulhakim Mujahid Muhammad al centro di reclutamento militare in Arkansas.

I musulmani possono essere degli americani patriottici e dei soldati esemplari. Ma bisogna sottoporli a delle indagini accurate sia che prestino servizio per il governo sia quando salgono in aereo

Nidal Malik Hasan, attentatore della caserma texana di Fort Hood: era un militare che ha ucciso i suoi commilitoni. In alto, soldati Usa

Questa sorta di placet dato ad Abdo dall’esercito ha delle grosse implicazione per l’islam in America, lasciando intendere che i musulmani non possono essere dei cittadini leali né possono costituire la quinta colonna. Non sono d’accordo: i musulmani possono essere degli americani patriottici e dei soldati esemplari. Detto questo, ancora una volta il caso di Abdo mette in evidenza la necessità di sottoporre i musulmani a delle indagini accurate sia che prestino servizio per il governo sia quando si espletano le procedure per l’imbarco aereo. Sarà inopportuno e offensivo, ma la sicurezza comune esige di più.


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