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C’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo Charles Baudelaire

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 5 AGOSTO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Giornata di caos sui mercati europei. E da noi aumenta la pressione sul governo per fare più in fretta

Berlusconi fa l’indiano Trichet, forze sociali, opposizioni: «Agire subito». Ma lui rinvia Ennesimo tonfo di Piazza Affari ma il premier respinge tutte le richieste di non perdere altro tempo: «Ne parliamo a settembre». Marcegaglia,Angeletti e Casini: «Noi ci rivediamo la prossima settimana» LA PROPOSTA CENTRISTA

CRISI & PROPAGANDA

Ma il tavolo comune è l’unica vera strada

La Seconda Repubblica che non sa leggere i tempi

di Franco Insardà

di Gianfranco Polillo

di Errico Novi

he ci sia almeno una scintilla. Un’illuminazione, che guidi il percorso intrapreso con le parti (brutto termine) sociali. Non pensiamo a cambiamenti repentini, ma all’inizio di un percorso che avrà i tempi che dovrà avere. L’importante è che si manifesti un sussulto, capace di dare maggiore efficacia all’azione di governo. Ci viene in mente l’Italia degli anni ’50 e la voce flebile, ma non per questo meno potente, di Alcide De Gasperi quando esortava a non chiedere tutto allo Stato o al Governo; ma a interrogarsi su che cosa ognuno di noi può fare per il suo Paese.

a scena è triste. Solo triste? I commenti del giorno dopo – del giorno dopo la discussione in Parlamento sulla crisi economica – hanno rilevato in modo quasi unanime la povertà del dibattito. Lo scarso spessore degli interventi – di quasi tutti, con l’eccezione segnalata da molti di quello pronunciato da Casini – e l’inconcludenza rispetto alla tempesta finanziaria in corso. «Quanto avviene in questi giorni, sul piano economico globale, ha una portata storica. Io vedo l’incapacità di far prevalere l’interesse comune e di fare un passo indietro», dice Giovanni Vecchi, autore di In ricchezza e povertà.

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Il ministro accusa i giornali

ROMA. La crisi non va in

Tremonti ai Pm «Spiato? No, esagerazioni»

vacanza. Ormai ne sono convinti tutti, tranne uno: Silvio Berlusconi. Tutti invitano a fare presto e a dare dei segnali forti. «L’Italia ha chiaramente e urgentemente bisogno di riforme strutturali, e in particolare occorre anticipare i tempi del risanamento fiscale» sentenzia il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. a pagina 2

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Il documento presentato ieri all’esecutivo

Liberalizzazioni e investimenti: 6 punti per tornare a crescere La priorità sono sostegno alle famiglie e riforma del mercato del lavoro «Poi amministrazione più razionale e una politica che costi meno»

Venerdì scorso l’«inquilino di Milanese» è stato ascoltato in Procura e ha negato tutto. Ora l’inchiesta va verso l’archiviazione Gualtiero Lami • pagina 6

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Dal Consiglio di sicurezza arriva una nota di censura: Assad è salvo

Il «Quadriga» doveva andare allo Zar. Ma le proteste lo cancellano

Siria, dall’Onu solo una timida protesta

La Germania si spacca sul premio a Putin

di Pierre Chiartano

di Ubaldo Villani-Lubelli

eri si è consumata l’ennesima liturgia per assecondare la coscienza internazionale sulla vicenda siriana. Dopo un’altra strage del regime alawita le cancellerie occidentali spostano l’attenzione sul Palazzo di vetro. Tanto per mascherare l’impotenza del mondo di fronte alla violenza di un dittatore. Oggi i problemi sono le economie che non vanno, i debiti e l’incapacità d’intervenire di fronte a un nuovo contesto: un Medioriente che vorrebbe diventare democratico. Mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu si limita a condannare la violenza in Siria.

ermania e Russia. Due Paesi molto diversi, i cui destini si sono molto spesso incrociati nella storia recente. In passato avevano condiviso l’orrore degli stermini di massa, come ricordato recentemente da un libro uscito in Germania, Bloodlands, in cui vengono descritti gli “Stati del sangue” governati da Hitler e Stalin, ma negli ultimi due decenni Germania e Russia hanno svolto un ruolo di prim’ordine nello scacchiere internazionale. Il rapporto tra le due nazioni è, ancora oggi, difficile e controverso nonostante i numerosi passi fatti in avanti.

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

pagina 2 • 5 agosto 2011

Non bisogna far cadere la proposta di Casini

Il tavolo comune, l’unica strada di Gianfranco Polillo segue dalla prima Oggi è giunto il momento di ripensare a quelle parole, che tanto hanno segnato il destino degli anni seguenti. Non crediamo alla retorica dei sacrifici, da calibrare con il contagocce. Un po’ più di tasse a destra, qualche ristoro a sinistra. Rispetto all’aritmetica della ripartizione degli oneri – per altro inevitabile – la strada maestra è un’altra. Investire sul proprio futuro e su quello della Nazione. E quindi sopportare il peso che ogni investimento comporta, nella previsione di un possibile ritorno. Possibile: non certo. Ma se questa merce fosse esuberante sul mercato, oggi non saremmo nella situazione in cui siamo. Eppure, nonostante le incertezze, le differenze sono profonde: il semplice sacrificio è un vuoto a perdere. L’astinenza – dal consumo o sotto forma di maggiore impegno lavorativo – una pianta che può fruttificare.

Del resto sono anni che prevale la logica della semplice privazione. La pressione fiscale, in Italia, è la più alta d’Europa. Il disagio sociale è lievitato senza soste. Siamo stati più che rigorosi nella gestione della finanza pubblica, al punto che il nostro deficit è tra i più bassi. Secondo solo alla Germania. Eppure non c’è tregua. In borsa perdiamo (anche ieri) più di altri. Gli interessi sul debito sono alle stelle. C’è quindi qualcosa, nel fondo limaccioso di questa crisi, che non abbiamo capito. E quando la diagnosi è sbagliata, la terapia non funziona. Può addirittura peggiorare le condizioni del paziente. Il primo compito è quindi comprendere, per poi convincere. Momenti distinti, ma non distanti. Il confronto tra Governo e parti sociali deve servire per intervenire su entrambi i fronti. Mettere in comune esperienze e punti di vista. Mescolare tutto questo, per poi distillare una chiave di lettura della crisi italiana più aderente alla realtà su cui costruire le possibili risposte. Processo faticoso, ma l’unico che riusciamo a scorgere in un orizzonte che più buio non si può. Ci sono le condizioni? Riteniamo di sì, se mediteremo sulle parole del grande statista italiano. Deve prevalere il senso “del dare” su quello “dell’avere”. Poi il resto seguirà. Sarà compito dei tecnici e dei politici unire gli sforzi nella ricerca delle soluzioni concrete. Coniugando rigore ed equità. Pier Ferdinando Casini, intervenendo nel dibattito in Aula a Montecitorio, ha proposto l’istituzione di una commissione, che formuli proposte adeguate. Ci sembra una buona idea. Dopo un primo momento d’indifferenza, sta già camminando con le proprie gambe. Quali i compiti? Da un lato capire meglio ciò che sta avvenendo; dall’altro giungere a una comune diagnosi. Non solo nel campo della finanza pubblica, ma più in generale. Il “modello di sviluppo”dell’economia italiana sta cambiando rapidamente. Lo stesso Pierluigi Bersani ha mostrato di avvertire l’esistenza del fenomeno. Ma siamo ancora lontani da una visione sistemica che leghi i diversi elementi: a partire dal grande deficit della bilancia commerciale. Comunque un buon segno. La base di una possibile interpretazione. Il contributo delle forze del mercato – lavoratori e imprenditori – può fornire input di analisi importanti. Un database di esperienze vissute in grado di arricchire un panorama che i tecnici – per quanto preparati – non sono in grado di percepire nei freddi numeri della contabilità nazionale. Se l’incontro di Palazzo Chigi favorirà questo processo, forse sarà l’inizio di un cammino, non certo, facile, ma che vale la pena esplorare.

il fatto Un documento in sei punti presentato all’esecutivo da imprese, banche e sindacati

Un premier contro tutti

Parti sociali e opposizioni insieme chiedono al governo di anticipare la manovra. Trichet aggiunge: «Fate subito le riforme». Ma il premier rimanda tutto a settembre di Franco Insardà

ROMA. La crisi non va in vacanza. Ormai ne sono convinti tutti, tranne uno: Silvio Berlusconi. Tutti invitano a fare presto e a dare dei segnali forti. «L’Italia ha chiaramente e urgentemente bisogno di riforme strutturali, e in particolare occorre anticipare i tempi del risanamento fiscale» sentenzia il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. Proprio la Banca centrale europea chiamata in causa dal premier, durante la conferenza stampa, per «far fronte alla crisi», mentre Tremonti parlava di percorso con Ue, Ocse e Fmi, salvo poi, dopo la precisazione del ministro («è un organismo importante ma non coinvolgibile»), a correggere il tiro («però è informabile»).

Tra uno svarione di politica economica e qualche inciampo che non giova a Piazza Affari da parte del Cavaliere Emma Marcegaglia, più decisa che mai, non molla: «Non possiamo andare tutti in vacanza e parlare a settembre della crisi. Pensiamo che il governo e il Parlamento debbano continuano a lavorare, si è aperto un negoziato, l’agenda è stata condivisa». E dopo gli incontri di ieri, prima con il governo e poi con le opposizioni, le sigle sindacali e le associazioni di imprese che hanno firmato il documento comune consegnato al governo, si riuniranno la prossima settimana per rendere più concrete le proposte avanzate al tavolo di palazzo Chigi. Sarà anche avviato un primo tavolo tecnico sulla modernizzazione delle relazioni sindacali. Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, è stato molto esplicito: «L’opposizione c’è, le parti sociali ci sono, speriamo che ci sia anche il governo, si svegli e si dia

una mossa: non perdano tempo, assumano provvedimenti che vanno presi subito. Noi siamo pronti a concorrere ma nessuno del governo ci ha contattato. Se vogliono, hanno i nostri numeri telefonici. Siamo reperibili. Se il governo vuole disponibilità, contatti ognuno di noi indipendentemente dal luogo di vacanza. C’è una mancanza di credibilità in generale nei confronti dell’Italia e temo che tra qualche settimana peggioreranno le condizioni. Questo incontro dimostra che noi tutti ne abbiamo la consapevolezza e che il governo dovrebbe capire che c’è bisogno di coesione tra loro, opposizioni e parti sociali».

È arrivata un’apertura anche dal Pd, tanto che il segretario Pier Luigi Bersani ha dichiarato: «Se resta Berlusconi, sia chiaro che ad agosto siamo qui con le nostre proposte che siamo pronti a discutere anche con Berlusconi. Poi, a futura memoria, vorremmo chiarire questo punto: attenzione che qualsiasi cosa si faccia, dentro questo quadro politico che ha perso internazionalmente ogni credibilità sarà inutile. Se ci sbagliamo siamo contenti, ma temo che abbiamo ragione. Noi siamo pronti ad abbassare qualcosa della nostra bandiera in nome del Tricolore, perché qui c’è un problema nazionale». Stesso timore espresso da Casini che «il governo non ce la faccia, del resto per noi si dovrebbe dimettere, ma è inutile continuare con le litanie: chi è al governo deve governare». Una posizione condivisa dal numero uno di Confindustria: «Dal governo ci aspettiamo di essere convocati, ci aspettiamo riunioni già nei prossimi giorni per arri-


i mercati

Tonfo di Piazza Affari: interviene la Bce Indici sospesi a Milano: non basta l’intervento della banca europea che compra i nostri titoli di Marco Scotti no spettro si aggira per l’Europa. Ma, stavolta, Marx non c’entra niente. È in atto una lotta senza quartiere e senza esclusione di colpi nei mercati europei, con una particolare predilezione per il campo di battaglia della Borsa di Milano. Ieri pomeriggio Jean Claude Trichet, presidente Bce, ha tratteggiato un panorama della crisi tanto chiaro quanto impietoso. Intanto, ha sottolineato come l’incertezza sia particolarmente elevata e che la crisi, dalla periferia d’Europa sta rapidamente raggiungendo il centro. Ha invitato a investire nei titoli di Stato europei, che sono sicuri, ma ha anche rimarcato l’importanza, soprattutto per un paese in difficoltà come l’Italia, di prodursi in riforme strutturali, anticipando i tempi del risanamento fiscale come già hanno fatto o stanno facendo altri membri dell’Ue. E a supportare i giudizi di Trichet sono i numeri, inequivocabili.

U

Nel solo mese di luglio, il differenziale – o spread – tra il rendimento dei titoli di stato italiani a 10 anni (i btp, buoni del tesoro poliennali) e gli analoghi bund tedeschi è cresciuto di 170 punti di base, che corrispondono a 1,70%, toccando nella giornata di ieri il nuovo record a 390,2. E questo significa che gli interessi che lo Stato italiano dovrà corrispondere agli investitori che hanno acquistato i nostri buoni del Tesoro sarà superiore di quasi il 4% rispetto a quelli che saranno pagati a Berlino. Poiché ogni punto di base viene stimato intorno ai 160 milioni, il 4% di interessi corrisponde a circa 64 miliardi di euro in più che Roma pagherà rispetto alla Germania . Una cifra che è pari a quella stanziata dal Governo per arrivare al pareggio di bilancio nel 2014. Come mai questa differenza con Berlino? Perché l’acquisto di buoni di Stato

somiglia molto a una scommessa sportiva: se si punta sulla squadra più forte si avrà la quasi certezza di vincere, ma la somma che ci si mette in tasca sarà ben poca cosa. Se invece si sceglie la squadra con minori possibilità di successo, sarà più difficile portare a casa il risultato, ma se succede si incasserà una cifra importante. Lo stesso in borsa: acquistare bund tedeschi significa avere la quasi certezza che alla loro scadenza lo stato sarà in grado di pagare la quota, ma gli interessi, proprio per l’impossibilità del crollo, saranno

associata a una congiura contro il nostro Paese, non è altro che la capacità predittiva degli investitori, che scelgono su quali “cavalli” puntare e quali invece affossare. E in questo momento l’Italia, per la sua instabilità politica e per la difficoltà a migliorare le proprie prestazioni in termini di produzione di ricchezza, non dà grandi garanzie. La tesi è sensata quanto semplicistica: diamo la colpa agli speculatori brutti e cat-

Lo spread tra Btp a 10 anni e Bund tedeschi è cresciuto di 170 punti di base, che corrispondono a 1,70%: è di nuovo record a 390,2 abbastanza esigui. Maggiore è lo spread coi titoli tedeschi, maggiore è la possibilità invece che l’emettitore dei titoli non sia in grado di saldare.

E l’Italia, in questo momento, non convince del tutto gli investitori. Se alla situazione già difficile dei titoli di Stato aggiungiamo anche la volatilità della borsa, il quadro che si va a comporre diventa estremamente preoccupante. Dopo un inizio positivo, con apertura a +1,81%, ieri la Borsa di Milano ha progressivamente perso passando per -0,2%, -1,6%, - 2,7% verso le 15, con la sospensione per eccesso di volatilità di titoli come Fiat, Exor, Unicredit e Intesa. Arrivando alle 17 a 3,23%. Ma chi ci guadagna con un’Italia in crisi? Le ipotesi più accreditate sono quattro: la speculazione, gli Stati Uniti, la Germania e l’Inghilterra. La speculazione, che erroneamente viene

tivi, e non ci assumiamo le nostre (enormi) responsabilità. Il secondo “accusato” è Washington, che da un depauperamento del sistema euro potrebbe avere due grandi vantaggi. Il primo, ritornare ad essere l’unico interlocutore della Cina e degli altri Paesi emergenti; il secondo, dare ossigeno al dollaro riportandolo a moneta di riferimento sui mercati globali. È una tesi che convince ma non soddisfa del tutto. Immaginare un attacco portato dagli Stati Uniti in questo momento è un po’ azzardato, viste le incredibili difficoltà interne che hanno rischiato di condurre alla bancarotta la più grande economia mondiale. Il terzo imputato è l’Inghilterra, che pa-

vare a varare provvedimenti». La Marcegaglia ha manifestato l’intenzione di «continuare ad incalzare certamente prima il governo e poi anche le opposizioni. Aspettiamo di vedere atti concreti, non è più il momento in cui si fanno dichiarazioni».

ritengono utili e questa mi sembra una cosa non banale». E Susanna Camusso, segretario della Cgil, ha aggiunto: «Abbiamo riscontrato un’attenzione positiva anzi ci siamo lasciati l’impegno di risentirci per scambiarci le opinioni».

Concretamente le parti sociali ieri mattina, dopo una riunione, hanno consegnato al presidente Berlusconi un documento con sei punti: pareggio di bilancio nel 2014, costi della politica, liberalizzazioni e privatizzazioni, sblocco degli investimenti, semplificazioni della pubblica amministrazione e mercato del lavoro. «Ora siamo a un bivio - si legge nel testo -. Occorre un drastico programma per rilanciare la crescita. Un programma da attuare subito. Siamo pronti ad assumerci tutte le responsabilità ma il governo deve prendere in mano il timone della politica economica». Concetto ribadito dal segretario della Cisl Raffaele Bonanni: «Il governo deve fare molto presto e le opposizioni devono pronunciarsi con molta forza a sostegno delle opinioni che dicono di condividere.Spero che anche la politica sia attraversata dallo stesso processo di unificazione delle parti sociali». Anche il suo collega della Uil Luigi Angeletti ha riportato un’impressione positiva dall’incontro con le opposizioni: «La mia impressione è che ci sia condivisione al di là delle normali contrapposizioni politiche. Tutti gli esponenti dell’opposizione hanno manifestato la disponibilità a varare tutti quei provvedimenti che si

L’appello delle parti sociali è stato prontamente accolto dal Terzo Polo che ha avanzato tre proposte al governo per «uscire dalla crisi». Le ha illustrate il leader dell’Api, Francesco Rutelli, in un conferenza stampa con Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa, Savino

Per rilanciare la sterlina e, soprattutto, per far convergere sui propri mercati gli investimenti più importanti, dando ossigeno a un sistema bancario che, diversamente da quello italiano, ha subito pesanti colpi durante la crisi fiTesi nanziaria. plausibile, vista la manovra da lacrime e sangue varata dal Governo per far quadrare i conti. Infine, la Germania. Che è in questo momento il principale indiziato. La grande locomotiva tedesca, uscita dalla crisi addirittura rafforzata, non tollera più le debolezze dei Paesi europei che arrancano. Non sembra più utopico allora immaginare un’uscita di Berlino dall’euro per tornare a un marco che sarebbe addirittura più solido del 2002. O, in alternativa, configurare un’Europa a due velocità con Germania, Francia e i paesi del Nord in “serie A”e Italia e i cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) a inseguire anelando una promozione. E visto che l’indice Ftse-Mib (indicatore degli scambi della Borsa di Milano) a mezz’ora dalla chiusura della seduta ha smesso di funzionare, chissà che lo spettro cui si faceva riferimento all’inizio non abbia voluto dare una mano all’Italia, stendendo un pietoso velo sull’ennesima giornata nerissima.

in termini di bilancio pubblico della manovra». Rutelli ha quindi rivolto un invito alle parti sociali: «Ci hanno chiesto di continuare a esercitare una pressione costruttiva, positiva, verso il governo. Noi abbiamo dato la nostra disponibilità e ci aspettiamo da loro che intensifichino la loro pressione costruttiva sul governo, perché ci sia discontinuità. Questo governo è all’origine della crisi da quando è stata varata la manovra abbiamo visto la condizione di fiducia dei mercati deteriorarsi, anziché migliorare e questa è un’indicazione della mancanza di fiducia non verso l’Italia o gli italiani ma verso questo governo».

Casini: «Se il governo vuole disponibilità ci contatti indipendentemente dal luogo di vacanza». E il Terzo Polo propone anche la modifica costituzionale per il pareggio dei bilanci e una commissione bipartisan per la crescita Pezzotta, Italo Bocchino e Mario Baldassarri, alla fine dell’incontro con le parti sociali. La prima proposta, ha detto Rutelli «di medio periodo è che l’Italia, come ha già fatto la Germania, approvi la modifica costituzionale per la disciplina dei pareggi dei bilanci pubblici: noi abbiamo già presentato un ddl al Senato. La seconda è l’istituzione di una commissione per la crescita che metta assieme maggioranza e opposizione per il taglio delle spese improduttive e per misure che favoriscano la crescita economica. Infine abbiamo dato disponibilità che alla ripresa dei lavori parlamentari possano adottarsi misure di anticipazione degli effetti

tisce non poco l’isolamento – in realtà che si è auto imposto quando ha deciso di non entrare nell’euro – e che vedrebbe di buon occhio un ridimensionamento della nostra moneta.

Berlusconi si è detto convinto comunque che «dopo la relazione al Parlamento solo la partecipazione di tutti gli attori economici e sociali può favorire un’uscita condivisa dalla crisi». E i ministri Tremonti e Sacconi hanno ripetuto l’uno di «non voler rinunciare alla riforma fiscale» e l’altro di voler attivare tavoli tecnici per «dare discontinuità rispetto al passato». Mentre il premier ha rassicurato che la crisi non peggiorerà, nonostante le altalene di Borsa e lo spread dei titoli italiani a livelli record, e ha rinviato a settembre il varo di quelle misure urgenti per rilanciare la crescita. «Il governo risponderà nei prossimi giorni alle parti sociali e non ci sarà soluzione di continuità nel prosieguo del confronto per arrivare a un Patto complessivo assolutamente entro settembre». Sperando che anche i mercati e, soprattutto gli speculatori, vadano in vacanza.


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l’approfondimento

Parla l’autore di “In ricchezza e in povertà”, la ricerca del Mulino che mostra come da vent’anni nel Paese non ci sia più spirito di coesione

La Gioconda Repubblica «Incapaci di capire le trasformazioni della globalizzazione. Bravi solo a correre alla ricerca di un riparo occasionale». Così l’economista Giovanni Vecchi giudica la maggior parte dei leader politici dopo lo «spettacolo» in Parlamento di Errico Novi

ROMA. Scena triste. Solo triste? I commenti del giorno dopo – del giorno dopo la discussione in Parlamento sulla crisi economica – hanno rilevato in modo quasi unanime la povertà del dibattito. Lo scarso spessore degli interventi – di quasi tutti, con l’eccezione segnalata da molti di quello pronunciato da Casini – e l’inconcludenza rispetto alla tempesta finanziaria in corso. Però prevale soprattutto la notazione estetica della sciatteria generale. Dell’esibizionismo anche un po’ volgare, comunque sgangherato, dei relatori sia di maggioranza che di opposizione. Si staglia insomma a simbolo di una giornata non memorabile la performance da cabarettista di Antonio Di Pietro. Colpisce quello. Ma pochi si sforzano di cogliere la logica di un simile degrado politico. Non per difetto di capacità di analisi, ma perché forse è lo stesso andazzo consolidato della politica a scoraggiare l’approfondimento. Perciò può essere utile il punto di vista di un economista dell’università Tor Vergata di Roma, Giovanni Vec-

chi, il quale si è occupato di un particolare aspetto del declino italiano, l’inasprirsi delle disuguaglianze dal ’92 in poi, secondo una prospettiva forse capace di spiegare perché la politica di oggi è così misera.

Vecchi parla di questa cesura nel suo In ricchezza e in povertà, pubblicato di recente dal Mulino. Dice che fino alla fine della Prima Repubblica, fino al 1992 appunto, in Italia c’è stata una progressiva e omogenea diffusione del benessere. E che dopo quella data gli indicatori statistici rivelano una netta inversione di tendenza, come mai si era vista dall’unità d’Italia in poi. Da allora la ricchezza ha cominciato a distribuirsi in modo sempre più diseguale. Sarà un caso, ma più o meno dallo stesso momento in poi si è verificata anche una contestuale perdita di spessore nel dibattito politico. Il professore di Economia di Tor Vergata non ha difficoltà a riconoscere il peggioramento osservabile anche sul versante della dialettica parla-

mentare: «È senz’altro visibile l’impoverimento della discussione. Rispetto agli interventi ascoltati mercoledì pomeriggio alla Camera sono rimasto sconcertato per il tono generale. Salvo rarissime eccezioni nessuno ha espresso ciò che sarebbe stato necessario, considerato il momento di passaggio epocale in cui viviamo. Teniamo ben presente che quanto avviene in questi giorni, sul piano economico globale, ha un a portata storica. Ecco, di fronte a questo io vedo l’incapacità di far pre-

«Non riescono a far prevalere l’interesse comune e a fare un passo indietro»

valere l’interesse comune e di fare un passo indietro».

Che sarebbe un passo indietro anche in termini di strumentalità del linguaggio. Perché «è chiaro che siamo di fronte alla mera ricerca dello slogan», dice il professor Vecchi. Cioè che la politica di questi anni ha prodotto una degenerazione mediatica. Una ricerca della frase, della battuta capace di rimbalzare sui media. Non di cogliere nel segno dei problemi (e delle possibili soluzioni). «È così, è proprio

questo il limite più chiaro.Va aggiunta, rispetto a quanto sentito mercoledì, l’incapacità di ascoltare i mercati. Che è impregnata di arroganza: “I mercati sbagliano”, è la risposta che è arrivata. È qualcosa di molto al di sotto delle attese domestiche e internazionali. Il riscontro in borsa lo dice in modo abbastanza esplicito». C’è inoltre, dice Vecchi, una irriducibile perseveranza di fronte al quadro che precipita: «Emerge sicuramente mancanza di coesione, inadeguatezza a percepire e assecondare la gravità del momento. Aspetto che si accompagna alla mancanza di concretezza. Degli slogan di cui si diceva si sono tutti un po’stancati. Eppure continuano. Peraltro c’era attesa di qualcosa di nuovo da parte di tutti: le parti sociali, le massime istituzioni, tutti avevano chiesto soprattutto discontinuità. E anche il format scelto nell’annunciare il dibattito, l’informativa urgente, aveva legittimato tali attese: ma non si è visto nulla». I mercati, aggiunge l’economista e autore di In ricchezza e in po-


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Tutti i commenti hanno sottolineato la modestia complessiva del dibattito sulla crisi

Quello spettacolo indecoroso del Parlamento di «nominati»

Polemiche sgangherate, difese d’ufficio non richieste, accuse fuori tema: la politica ha perso il senso della realtà e ha raggiunto il punto più basso di Giancristiano Desiderio a Camera dei deputati somiglia a una classe di ripetenti che non conoscono i libri di testo e faticano a parlare in italiano. Le cronache parlamentari ieri riferivano che solo quando ha preso la parola Pier Ferdinando Casini «molti deputati hanno spento l’Ipad» e si sono messi in ascolto perché «quando i deputati italiani spengono l’Ipad significa che il loro istinto gli ha segnalato che qualcosa di interessante sta per accadere». Il resto dello “spettacolo” - il dibattito è stato trasmesso in diretta almeno su due reti: RaiTre e Canale5 - è stato desolante perché i deputati che hanno parlato Bersani, Alfano, Reguzzoni, Di Pietro hanno dimostrato con “parole, opere e omissioni” di non essere altezza del compito. Spiace dirlo, ma il giudizio è qui una testimonianza.

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Diciamolo con una formula: la classe politica della Prima repubblica era più preparata. Perché? Perché erano altri tempi, perché c’erano i partiti, perché il papa non è re? Forse, semplicemente perché erano eletti - come si dice - dal popolo. Oggi, come è noto, i deputati sono “nominati”. Oggi più di ieri, molto più di ieri, i deputati devono dimostrare solo di essere fedeli al capo che li mette in lista e li nomina per farli eleggere in Parlamento e non piuttosto ai cittadini ai quali devono dimostrare di essere in grado di affrontare e risolvere i loro problemi per poi chiedere loro di nuovo il voto. Dunque, la qualità primaria del parlamentare - il saper parlare bene e con cognizione di causa in pubblico, vale a dire l’eloquenza - è andata perduta: il modo in cui il deputato diventa deputato non richiede più una buona formazione culturale. Anzi, averla potrebbe essere d’intoppo. Ma un Parlamento di non parlanti o di parlanti dalle idee confuse e indistinte è un Parlamento di non pensanti giacché il buon pensiero è figlio della chiarezza linguistica. Il Parlamento è stato riempito di portaborse, portavoce e portafogli, di signorine, di tailleur e di tacchi 12 ma è stato svuotato di cervelli, conoscenze e coscienze. Troppo duro? Ma lo spettacolo è stato visto e sentito da tutti e le prove abbondano. Il punto all’ordine del giorno era noto da parecchio tempo: il serio e concreto pericolo che l’Italia diventi la Grecia. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si era preoccupato di sottolineare la necessità di maturare uno spirito di coesione nazionale. Non solo: aveva anche dato il tema: ora bisogna puntare sulla crescita. E

invece niente. Antonio Di Pietro si alza ed esordisce come se fosse un attore del caro vecchio avanspettacolo: «Caro Silvio, ma lei ci fa o ci è? E fino a che punto pensa di prendere in giro gli italiani?». Poco prima il capogruppo della Lega, Reguzzoni, aveva inveito contro i falsi invalidi, non solo andando fuori te-

Secondo la maggior parte degli osservatori solo Casini si è salvato dal clima generale

ma ma dimenticando che la Lega è al governo da ben oltre dieci anni e invece di debellare il fenomeno dei falsi invalidi ha preferito far nascere il fenomeno dei falsi ministeri. Angelino Alfano è sempre più calato nella parte di angelino custode del capo del governo e del capo del suo partito e il massimo che riesce a dire è che i mercati non fanno i governi e non riesce a fare il passo successivo che gli dovrebbe suggerire l’idea che i governi a volte facciano la loro parte nei mercati. Ma il primo a parlare era stato quel Bersani lì che subito viene chiamato “Crozza” da una voce che alza lo sguardo dall’Ipad. Dopo aver espresso il massimo del concetto che le cose non vanno bene come il presidente del Consiglio vuol dare a bere utilizzando la metafora del cielo azzurro con qualche nuvoletta, Bersani cala l’asso: «Voi fate un passo indietro e noi facciamo un passo avanti». Signori elettori e telespettatori, come già sapete questo è il massimo del dibattito che è venuto fuori dalla Camera (del Senato non parlo visto che la minestra riscaldata del discorso del presidente Berlusconi è stata addirittura salutata da una standing ovation finale degna del Titanic).

Le due cose - il discorso del premier e il dibattito parlamentare - si tengono per mano e si guardano allo specchio. L’uno richiama l’altro. Sarà per questo che ci troviamo nel mezzo di una crisi economico-finanziaria e, nonostante conosciamo da tempo malattia e cura, non riusciamo a venirne fuori? È stato detto più volte e vale la pena ripeterlo: gli italiani, risparmiatori e gente avveduta, hanno fatto la loro parte e continuano a farla con lavoro, tasse, decoro. C’è, però, nell’azienda-Italia una rotella che non gira per il verso giusto: il governo e il ceto politico nel suo insieme. Il governo è al minimo storico di credibilità, mentre l’opposizione - con l’unica eccezione dei moderati e di Casini, bisogna ammetterlo - non si fa avanti per anticipare gli effetti della manovra economica che fissa il pareggio di bilancio (ormai solo astratto) al 2014. Il governo con il discorso tutto rose e fiori del premier e con i commenti primavera dei ministri e dei deputati della maggioranza - la Gelmini, ad esempio: «Berlusconi ha pronunciato un discorso alto e nobile» - non fa nulla per tendere la mano e l’opposizione con il livore che dice «prima te ne vai meglio è» non fa nulla per tendere l’altra mano. Risultato: una nazione intera nei momenti di pericolo sa di non poter contare sulla classe dirigente che è al governo e che siede a Montecitorio. È l’epilogo, senza nottola di Minerva, della Seconda repubblica.

vertà, si aspettano qualcosa che vada oltre i fondamentali dell’economia: «Guardano ai riscontri meta-politici. Attinenti cioè soprattutto alla capacità di un Paese di assecondare le esigenze di integrazione nell’economia globale. Mi riferisco all’innovazione, soprattutto a quella innovazione capace di favorire davvero la concorrenza, attraverso l’istruzione innanzitutto. Invece è abbastanza chiaro che in Italia prevale la protezione delle rendite acquisite. Da anni sentiamo ripetere che saranno realizzate liberalizzazioni, privatizzazioni, ma sono solo parole al vento. La nostra classe dirigente non solo non è in grado di incidere in maniera concreta, ma addirittura da due o tre decenni è impegnata a favorire la mera conservazione delle posizioni acquisite. Sia attraverso la finanza pubblica che con i protezionismi». Tradendo così, prosegue l’economista con riferimenti alla sua ricerca, «l’esempio positivo offerto dall’Italia all’epoca della globalizzazione di fine Ottocento, e nel secondo dopoguerra con i De Gasperi e gli Einaudi». E la Prima Repubblica? Mai si sarebbe visto un dibattito cosi povero. O no? «Senz’altro. Però i leader della Prima Repubblica hanno potuto parlare con pacatezza e nobiltà di tono anche perché hanno accontentato tutti scaricando il peso di un benessere diffuso sulle generazioni successive».

Detto questo, i limiti della classe dirigente attuale inducono in Giovanni Vecchi un particolare pessimismo soprattutto perché «riflettono purtroppo i limiti indotti nella società dalla crisi economica. La crisi introduce tensioni, sociali e morali, che potremmo tradurre così: c’è una mera corsa ad accaparrarsi la fetta della torta più ampia possibile, senza alcuna cura della crescita e del benessere generale. Ecco, la stessa legge elettorale con cui si forma quel Parlamento che dà così bassa prova di sé, corrisponde proprio a questo spirito. Allo spirito del si salvi chi può. E “chi può”, nella società, è colui che ha rendite certe o l’accesso a un livello di istruzione cha assicura maggiori possibilità. In Parlamento si avverte l’eco di tutto questo. Della rissosità in cui le persone sono spinte dal diffondersi delle disuguaglianze, dall’avanzare della povertà, dalla vulnerabilità sociale che si estende anche al ceto medio. In Parlamento non emerge quello sguardo lungo che ci vorrebbe. Se ci fosse, non saremmo l’ultimo dei Paesi industrializzati in quanto a scolarizzazione. Se ci fosse una classe dirigente all’altezza, darebbe il contributo in termini di lungimiranza e di affermazione della solidarietà di cui il Paese ha bisogno. E il Parlamento non si ridurrebbe esso stesso a luogo di rissa in cui ci si azzuffa per proteggere ciascuno le proprie rendite».


politica

pagina 6 • 5 agosto 2011

Giulio Tremonti, lontano dai clamori della stampa, venerdì scorso è andato a denunciare la stampa medesima alla Procura di Roma. Chiamato per spiegare come e perché si «sentisse spiato» dalla Guardia di Finanza (ragione per la quale avrebbe preferito dormire a casa di Marco Milanese piuttosto che non in caserma) Tremonti ha tagliato corto: «Sono solo forzature giornalistiche»

L’inchiesta, immediatamente avviata a Roma, va verso l’archiviazione: «Non mi sento nel mirino della Guardia di Finanza»

Tremonti spiato? Tutto falso

Il ministro sentito in Procura venerdì scorso: «Forzature giornalistiche» ROMA. Tutta colpa dei giornali e di giornalisti bricconi che pur di inventare una notizia ghiotta sono disposti a tutto. Lo stileBerlusconi (dire una cosa in pubblico, a microfoni e telecamere accesi e poi smentirla attribuendo ai giornali la responsabilità di aver travisato tutto) ha contagiato anche il suo più acerrimo nemico, in questo momento: Giulio Tremonti. Ricordate la storia del ministro dell’Economia che ha alle sue dipendenze la Guardi di Finanza e che decide di non dormire più nelle caserme della suddetta Guardia di Finanza perché da costei si sente spiato? Dimenticatela. È tutto falso. Anzi: «Una forzatura giornalistica». Liberal è stato tra i primi a denunciare l’enormità dell’affermazione del ministro (prima solo suggerita in una lettera al Corriere della Sera poi fatta espressamente in una conversazione con Repubblica), tra i primi a chiedere che il ministro riferisse in Parlamento e spiegasse i termini reali della sua percezione di «essere spiato». Non solo, la Procura di Roma non poteva fare altro che aprire un fascicolo d’inchiesta sulla vicenda: può un ministro essere spiato senza che nessuno muova un dito? No.

E ieri s’è scoperto che non solo la Procura aveva avviato l’indagine tempestivamente, ma che altrettanto tempestivamente probabilmente la chiuderà perché il ministro in questione, regolarmente ascoltato venerdì scorso,

era capitato di dormire nelle Caserme della Guardia di Finanza medesima. Ragione per la quale parlare di clima ostile, di spionaggio, di sospetti e simili era più che una forzaturà una bugia. A meno di non riferirsi a un periodo precedente al 2004. Mentre la questione del subaffitto di Tremonti in casa Milanese è molto più recente.

di Gualtiero Lami

Il Pm ha deciso di non convocare nemmeno il giornalista di “Repubblica” autore dell’intervista che aveva destato scandalo e violente polemiche contro il titolare dell’Economia non solo ha negato tutto (spiato io? Ma siamo matti!) ma ha attribuito la responsabilità di tutto questo caos appunto ai giornali. «È una forzatura giornalistica» ha detto Tremonti. Il colloquio in Procura è durato circa trenta minuti ed è avvenuto attorno alle 20,30 appunto di venerdì scorso. Il ministro avrebbe riferito al Procuratore di non avere mai detto quanto attribuitogli in un’intervista, ovvero «di essere spiato, controllato e a volte pedinato». Viceversa, Tremonti ha spiegato che le dichiarazioni rilasciate a Repubblica vertevano principalmente «su temi economici e in particolare sulla questione del pareggio di bilancio». Come dire: cinici e bari, questi giornalisti. Non solo dicono le bugie, ma omettono le cose serie e ponsose che il bravo ministro aveva detto loro nel rego-

lare esercizio della sue funzioni. Va da sé che a questo punto in procura a Roma si esclude che venga convocato il giornalista di Repubblica autore dell’articolo: qualunque cosa possa dire, la verità è quella del ministro. Il quale, nel corso del colloquio avrebbe spiegato al procuratore capo di Roma (la notizia è stata fatta circolare da ambienti vicini al ministero medesimo, evidentemente) di aver chiarito la questione del presunto pedinamento anche con i magistrati napoletani quando è stato ascoltato in qualità di teste. E punto: che non se ne parli più!

Certo qualche maligno potrebbe suggerire che nella serata di venerdì stesso era stata diffusa una nota della Guardia di Finanza, chiaramente messa in mora dalle dichiarazioni rese a Repubblica da Giulio Tremonti, affermava che da sette anni (dal 2004) al ministro non

Naturalmente è meglio così. Meglio che il ministro dell’Economia non si senta spiato dalla Guardia di Finanza. Meglio, molto meglio che le allusioni fatte in passato da Marco Milanese circa taluni modi di fare del generale Adinolfi della Guardia di Finanza siano in realtà solo gossip senza riscontro. E ci mancherebbe altro. Ma allora una domanda sorge naturale. Giulio Tremonti nel suo colloquio con Repubblica spiegava che aveva preferito subaffittare una stanza nella casa romana di Marco Milanese perché a dormire nella caserma della Guardia di Fiananza non si sentiva sicuro: in pratica, il ministro adduceva le sue paure come motivo di quella scelta da molti giudicata inopportuna e “fiscalmente” spregiudicata. Ebbene: se viene a cadere questa motivazione, ce ne deve essere un’altra. E qual è? In altre parole, se quell’affermazione forte serviva per tacitare una polemica aspra nei confronti dei comportamenti del ministro, è inevitabile che, venuta a cadere la precedente linea di difesa, le polemiche siano destinate a rinfocolarsi.


Una lettura al giorno L’avventura della Maillart e della Schwarzenbach dalla Svizzera all’Afghanistan

Ella & Annemarie due donne, un viaggio di Maurizio

Ciampa

Partirono il 6 giugno del 1939, lasciandosi alle spalle l’Europa in fiamme. Ginevra e Kabul, l’alfa e l’omega di una ricerca di sé tra deserti e montagne pagina I - liberal estate - 5 agosto 2011


una lettura al giorno l 6 giugno del 1939, di prima mattina, due giovani donne, Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach, lasciano la città di Ginevra per raggiungere Kabul, attraverso l’Italia del Nord, i Balcani, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan. Ogni viaggio ha un presupposto inafferrabile: può essere l’esito di un lento processo di maturazione - di mesi, di anni -, o può risultare da una decisione improvvisa, un precipitare di tensioni e di umori diversi, un salto, uno strappo. Ripensandolo oggi, il viaggio di Ella Maillart appare un salto azzardato; quello di Annemarie Schwarzenbach assomiglia piuttosto a uno strappo lacerante. Ma perché partono Ella e Annemarie? E perché insieme? Ella è solare; Annemarie ombrosa. Ella è limpida; Annemarie enigmatica. Ella sta «al centro di se stessa»; Annemarie vive in un gorgo d’instabilità e di irrequietezza.

I

sce: cuore e nervi, cuore e testa in un via vai sfibrante. Ha poco più di trent’anni ed è già sfinita. Nella debole luce del pomeriggio invernale, appare prosciugata, un essere che non ha più nutrimento, una pianta priva d’acqua. Non è soltanto magra, il suo corpo non ha più spessore. Si potrebbe rompere

rie ed è quasi un grido. La sua voce ha una improvvisa impennata, il suo corpo sembra una corda prossima a spezzarsi. Annemarie è una corda tesa prossima

Tutto comincia prima di cominciare. In una casa di Sils Baselgia, nell’Alta Engadina, non lontano dal confine fra la Svizzera e l’Italia, Ella e Annemarie sono in bilico sul crinale di un sogno. È la fine di febbraio del 1939, tre mesi prima della partenza. Nel pomeriggio ormai avanzato, il cielo invernale è una lastra grigia e compatta. Non c’è spazio per i sogni: il tempo s’avvita in una stretta spirale, i giorni sono taglienti come lame, mentre l’Europa scivola verso la catastrofe. Partendo da Est, il Terzo Reich ha cominciato a stendere la sua ombra al di fuori dei propri confini. A settembre scoppierà la guerra, ora vanno

sotto il peso della tensione, o svanire, dissolversi, evaporare o alzarsi da terra e volar via come una piccola massa inerte in balia dell’aria. «Sembra un’ombra», pensa Ella che la guarda con preoccupazione. E non solo per lo smunto profilo. Vede in lei slanci oscuri difficili da decifrare. «In questo Paese non ho più speranza, ho commesso troppi sbagli… il passato mi opprime», dice Annemarie con la voce che le si spegne in gola. Parlando si piega su di sé come se si volesse proteggere dagli effetti delle sue stesse parole e dall’acuto dolore d’essere al mondo che da sempre l’accompagna. Una morsa, una tena-

Annemarie Schwarzenbach fotografata da Ella Maillart (nella foto in basso, ormai anziana). Sopra una foto di Ella Maillart del 1932, fatta in uno dei suoi viaggi. Il diario del suo viaggio con Annemarie si può leggere in “La via crudele”, per i tipi di Edt. A destra, un altro suo scatto: il Kirghize sovietico, Karakul, Uzbekistan, 1932

Ella era solare, limpida, centrata, ponderata. Sapeva tenere l’animo in equilibrio. Viaggiatrice esperta, voleva studiare i “re pastori“ con l’ambizione di diventare etnologa

in scena le sue prove: la Cecoslovacchia alla metà di marzo, poi la Polonia. Ella e Annemarie vedono la lenta metamorfosi degli uomini e l’imminente collasso dei loro destini. Annemarie, più di Ella, sente e capisce con nervi sottilissimi e tesi. È questo il movimento che meglio cono-

glia. Solo la morfina attenua la sua presa. La morfina e l’amore: diradano il dolore, ma finiscono poi per moltiplicarlo. Annemarie non riesce a vedere davanti a sé: buio fitto e torpore, interrotto dall’acido rigurgito dell’angoscia, e impetuose folate d’annientamento che le si scagliano addosso. Questi veleni circolano nella sua testa. Ma c’è una parola che può farla ancora vivere. Questa parola è: «Partire!». «Devo partire», dice Annema-

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a spezzarsi. Il corpo di Annemarie è abisso, è vertigine, nodo di oscurità, groviglio di paure. Basta guardarla per toccare il tremore che, come un brivido, l’avvolge; percepisci il soffio del suo affanno, quasi un rantolo prolungato, il giro a vuoto di chi cerca l’aria che le manca e la cerca fino al fondo dei polmoni, e più giù, fino al fondo della vita.

Ella avverte che nel suono della parola partire, Annemarie conserva ogni sua residua speranza. Non ha altro che quella parola. Niente altro. Proviene da una ricchissima fami-

glia d’industriali della seta, ma quella parola - partire - ora è tutto quello che ha, è tutta la sua speranza. Pronunciarla equivale a una pratica magica, una specie di rito. Quando si decide a farlo, ogni cosa attorno a lei prende a muoversi staccandosi leggera da terra. Ella non prova neppure a scalfire le sue convinzioni, non ha replicato nulla quando Annemarie le ha detto che lì la sua vita è finita, quando le ha detto che non ha più speranza. Ha taciuto aspettando che i veleni fluissero via. Non è accaduto: i veleni si sono accumulati fino a formare un ammasso buio che ora

preme sulle pareti del cuore. Ma, per la prima volta, Ella vede in lei lo scatto vigoroso di una forza elementare. Dicendo: «Devo partire», Annemarie intende dire: «Voglio vivere!». «La partenza è liberazione» annoterà qualche tempo dopo il loro incontro. «È l’unica libertà che ci è rimasta, e richiede solo un coraggio indomito, che ogni giorno si rinnova». Ella sa bene che nel desiderio di partire si possono annidare sentimenti impropri e improprie aspettative. Ma non può ignorare l’irriducibile, ostinata volontà di vita che resiste nel cuore dell’amica. Ed è davvero miracoloso che questa volontà cerchi ancora una strada. «A Est del Mar Caspio visiteremo l’indimenticabile torre di Kunbad-i-Kabus, ci accamperemo fra i Turcomanni iranici: forse seguono ancora usanze ormai perdute.Vedremo la cupola d’oro della moschea dell’imam Reza, preziosa rotondità liscia e compatta che si slancia verso il cielo. Giungeremo al cospetto dei due giganteschi Buddha scolpiti nell’incontaminata val-


contrada dove mi sento a mio agio. Quei montanari non ancora contaminati dalla schiavitù dei bisogni artificiali sono esseri liberi». Questa dunque è la meta, il punto dove finirà la loro strada più di 6.000 chilometri a sud-est di Ginevra. Questo è il luogo del desiderio. In quella contrada ci si può

una lunga strada. Un po’ come i miti, ma meno pretenziosi dei miti. Per questo meritano attenzione. Si dice che le donne kafire, di vistosa bellezza, bionde, dalla carnagione chiarissima, con gli occhi dipinti di kajal nero e sugo di sambuco, ballino nude nelle feste che celebrano l’arri-

E c’è, fra i medici, chi procede deciso verso un punto terminale che non lascia più scampo: «Schizofrenia» è la parola che pronunciano, un verdetto. Servirà alla famiglia di Annemarie per giustificare gli eccessi della figlia e servirà ai medici per dichiarare la propria impotenza e mettersi tranquilli. Anche i provvisori ricoveri sono un pegno pagato alla tranquillità della famiglia. Un’interruzione, un

fiamme, sequenze di vita fremente fermate in cristalli d’immagini, centinaia di scatti, decine di resoconti, articoli, corrispondenze, lettere, diari, poesie, racconti, ondate impetuose di parole e sguardi lanciati nelle ferite del mondo per raccogliere il respiro strozzato della sua fatica, del suo dolore. Dal ’31 Annemarie fa uso di morfina. La prima volta a Berlino; ha 23 anni. Da allora, si troverà sempre più spesso nello spazio bianco di case di cura conficcate fra montagne e laghi. «A che cosa servono?», si chiede Annemarie. A sentire in forma più concentrata il proprio dolore o a produrre una nuova dipendenza? Ma Annemarie non conosce un’altra strada. Ha esperienza del buio, del nero, dello zero di sé, e, in stretta successione, del bianco in cui si ritira, il bianco che placa, il bianco che ripara. O dovrebbe. Fra il nero e il bianco, tempi sempre più stretti. Strettissimi nel ’38, l’anno prima della partenza per Kabul, quando Annemarie e Ella si conoscono. Nel ’38 Annema-

breve respiro, un po’ di riposo per tutti. Negli spazi bianchi e silenziosi la possono controllare, e lei, la piccola Annemarie, lì almeno non si farà del male. Fino alla fine la madre Renèe vedrà in lei una presenza da tenere a bada, una macchia da nascondere nell’album di una famiglia alto-borghese che usa nascondere le sue macchie. Annemarie è il nero da togliere. Un nero scarabocchio che sfregia l’album. E sempre di più nel corso degli anni. Finché la macchia non sarà cancellata e l’album tornerà bianco come quelle cliniche. Osserviamo Ella. Al tempo del viaggio ha trentasei anni, è una viaggiatrice conosciuta che ha già visto una buona parte dell’Oriente. Ma questo non le basta più. Vuole diventare etnologa. È il suo sogno. È per via di questo sogno che decide di partire? Ella è ponderata in tutti i suoi gesti, come se attingesse alle regole non scritte di una sapienza sperimentata: l’esatto contrario rispetto ad Annemarie. Ella è lì dove è, dove la si vede. E per intero.

Annemarie era ombrosa, enigmatica, instabile. Morfinomane, entrava e usciva dalle cliniche. Partire era la sua sola speranza sentire a proprio agio, le ha detto Ella. E agio è una parola che, per Annemarie, ha la sua importanza. Per lo più ha conosciuto uno stato di perenne affanno, di apprensione prolungata, di sofferti stenti mentali.

vo della primavera. Ballano una danza estatica che riproduce la rotazione dei pianeti, ripetono il movimento del cosmo, fino a restarne sfinite. Sono le donne a trattenere il segreto del suo ordine. Sono loro il per-

rie entra ed esce dagli spazi bianchi, cambia lago, cambia montagna, cambia anche la gradazione del bianco: più intenso, più tenue, quasi lattiginoso, avvolgente, oppure freddo e respingente. Non sono tutti uguali i bianchi clinici, e Annemarie ne va accumulando una discreta conoscenza. I medici, gli stregoni della disintossicazione la sequestrano per un po’, la mettono sotto osservazione, e, spesso ne escono disorientati. In qualche caso non sanno neppure se considerarla malata o meno, e non sanno se curarla oppure no.

una umanità che vaga disorientata, alla deriva nel tunnel della grande crisi. Annemarie pretende di vedere tutto a distanza ravvicinata, come se si volesse mettere dentro le cose. Le piace fissare i volti e i corpi a un palmo dai suoi occhi, le piace sentire il fermento delle voci. Si sono fatte roche le voci, roche e dure, e s’impennano in stridenti tonalità metalliche. Ma Annemarie continua ad amare quell’ebollizione dei suoni. Le piace toccare il mondo, poi arretrare appena di un passo o due e metterlo sotto il fuoco del suo obiettivo fotografico, lì davanti, e colpirlo con una sciabolata di luce, sorprendendo la vita che fluisce senza altri testimoni se non lei. Le piace raccontare il mondo mentre accade. Che cosa ha visto passare attraverso la piccola feritoia della sua macchina fotografica? Ha visto il mondo andare a fuoco con dentro gli uomini, lo ha visto accartocciarsi come un corpo attaccato e corroso dalle

IL VIAGGIO IN UN ROMANZO ualche notizia su Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach. Ella è un «mito» della letteratura di viaggio del Novecento. Oasi proibite,Vagabonda nel Turkestan, Crociere e carovane e La via crudele (tutti pubblicati da Edt), resoconto del viaggio in Afghanistan con Annemarie Schwarzenbach, sono i suoi libri più noti. Ma va anche ricordato che Ella Maillart è stata una grande sportiva: come velista ha partecipato alle Olimpiadi del ’24, ha allenato la squadra svizzera di hochey femminile e ha partecipato ai mondiali di sci del ’31 e del ’32. Annemarie Schwarzenbach, di una grande famiglia della borghesia zurighese, è figura di grande e misterioso fascino, scrittrice, fotografa, reporter, il cui valore è stato riconosciuto solo negli ultimi vent’anni. Melania Mazzucco ne ha fatto un bellissimo ritratto in Lei così amata (pubblicato da Rizzoli). Le sue corrispondenze dall’Europa Centrale, dagli Stati Uniti, dall’Africa e dal Medio Oriente sono raccolte in Dalla parte dell’ombra e La via per Kabul (Il Saggiatore con alcune delle sue fotografie). Annemarie Schwarzenbach muore in un incidente, nel 1942, a 34 anni. Ella Maillart si spegne a Chandolin, sulle Alpi svizzere, nel 1997, a 94 anni. Sul loro viaggio in Afghanistan del 1939 Maurizio Ciampa sta ultimando un romanzo.

Q

le del Bamiyan e, sempre in quella regione, c’incantermo a fissare l’incredibile blu dei laghi del Band-i-Amir».

Sono già incantate le due donne; il sogno le spinge in avanti, ed è Ella, che già conosce una buona parte dei luoghi, è lei a fomentarlo. Accanto alla stufa di maiolica, nel punto più caldo della casa di Sils, Annemarie l’ascolta come una bambina segue gli sviluppi di una favola. Con la stessa rapita attenzione; con la stessa trepidante aspettativa. E le sembra che sia il racconto dell’amica, e non quella grande stufa, a produrre il benefico tepore che le avvolge. Ne aveva proprio bisogno. Di quel caldo respiro aveva bisogno, di quella vastità, di quel paesaggio immaginato ancor prima di essere vissuto. «Più lontano ancora, ai piedi del versante nord dell’Hindukush, risalendo la valle dell’Amu Darja (l’antico Oxus), ci dilegueremo prima che un qualche divieto, inviato da Kabul, ci fermi. Gli uomini che vorrei studiare vivono lì, in una

Il nome della contrada è Kafiria, la terra dei re pastori. Per arrivarci occorre attraversare un bello spicchio di mondo. E scorticarsi il corpo e l’anima. Che poi esista davvero o che sia un parto della fantasia di Ella, ad Annemarie importa poco. Le basta immaginarlo questo stretto lembo di montagna fra le montagne. Isolato e chiuso in se stesso, forse perché in se stesso compiuto. La Kafiria è un’oasi omerica in terra asiatica, le racconta ancora Ella. Si dice che i Kafiri siano i discendenti di Alessandro Magno, l’ultima traccia lasciata passando da queste parti nella spedizione verso l’India. Una leggenda? Ad Annemarie non dispiacciono le leggende. In definitiva sono racconti che hanno fatto

no dell’armonia. E la loro bellezza ne è lo specchio. Ora Annemarie si guarda in quello specchio, non è più a Sils, ma fra le donne della Kafiria, nel loro angolo remoto, scossa dalla mistica frenesia che attraversa i corpi, li elettrizza.

Negli ultimi anni, Annemarie ha bruciato il tempo e lo spazio. Non si è mai fermata. Da poco è tornata dall’Austria, prima è passata da Londra e da Parigi, un’incursione nel mare di Maiorca con gli amici del cuore, Erika e Klaus Mann, e ancora via, dentro il disfacimento dell’Europa, Germania, la Polonia, Cecoslovacchia, la regione baltica. A settembre del ’38 gli Stati Uniti, per la seconda volta, il Sud degli Stati Uniti, con

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una lettura al giorno Nelle fotografie che la ritraggono ormai avanti negli anni ha l’aria di chi ha visto e provato, ma non dà peso a quello che ha visto e provato. I suoi occhi sono limpidi come quelli di chi non ha mai incrociato il male. Sa che c’è, ma non ne ha mai conosciuto l’infamia. Il pensiero che emerge dalla sua vita potrebbe essere questo: tutto quello che mi è accaduto è una piccolissima frazione di una vicenda mol-

di correre lungo un filo danzando sopra l’abisso. La sua forza misurata colpisce e dà tranquillità. È questo che ha provato Annemarie vedendo Ella per la prima volta: si è sentita subito tranquilla, e le si è affidata. E ora viaggeranno insieme, insieme lasceranno questo mondo perduto, insieme attraverseranno i grandi altopiani e le distese desertiche, varcheranno le montagne dove ha inizio l’Asia, in

to più ampia, e di questa vicenda sono soltanto la testimone. Così Ella guarda a sé e alla sua vita. Un po’ a distanza. Dal balcone della sua casa di Chandolin, sulle montagne fra Ginevra e il passo del Sempione, dove si ritirerà, Ella osserva il mondo steso sotto di lei senza rammarico né risentimento, ma con un distacco benevolo, per nulla altezzoso. Dal mondo non si è mai separata, si è solo messa ai lati.

un subbuglio di speranze e di pene, un caos di sogni, frenesia di verità e furore. Sole con il loro coraggio e la loro disperazione. E traendo un «respiro profondo», daranno il benvenuto alla vita. «Ho visto tutto», scriverà Annemarie del loro viaggio. «Ho vissuto tutto sulla pelle». E ancora:

La vela, il mare, sono le sue grandi passioni. Fin da ragazza si è mossa sull’acqua, inizialmente sul lago di Ginevra, vicino casa, sotto gli occhi del fratello e con l’amica Miette. Nei loro vent’anni, nel 1923, veleggeranno lungo le coste meridionali della Francia. Alternandosi al timone con l’amica, Ella scruta il mare, valuta la forza dei venti, elabora la rotta più opportuna. Tenere il timone è per lei una disciplina dell’anima. Regge la barra resistendo agli impeti del mare come a quelli della vita. Regge la barra sempre. Lo sport - la montagna, lo sci - è per lei, un esercizio d’equilibrio. In tutto quello che fa, Ella tiene l’anima in equilibrio. Ha una misteriosa, funambolica capacità

si, ritornare al punto di partenza, o anche fuggire per la paura di arrivare alla meta. Ognuno di questi movimenti, e la loro somma, è il suo viaggio. Ed è la sua vita: linee che si perdono piuttosto che perdersi in un punto.

«Non è possibile amare ciò che non si è mai visto con i propri occhi né stretto fra le braccia», dice Annemarie. Bisogna

I bagagli di Ella Maillart da lei fotografati a Sammarcanda nel ’32 e un’altra sua foto. Sopra, Annemarie Schwarzenbach appoggiata alla sua mitica Ford Roadster De Luxe regalatale dal padre per intraprendere il viaggio in Afghanistan

toccare la bellezza, i luoghi si attraversano calandoci dentro, come in un crepaccio di alta montagna. Li dobbiamo sentire e soffrire. E non solo i lo luoghi, stesso Annemarie fa con le persone che ama, le tocca, le mangia, le consuma, ci si cala dentro consumandosi con loro.Vive tutto sulla pelle. E attraverso la pelle conosce. Per brividi, per tremori. Tutto accade lì, su quella membrana diafana, che sembra non poter sostenere nulla tanto appare fragile. Ma quello è il suo centro, è il cuore, è la testa. Nel corso del viaggio, quando la Ford Roadster De Luxe (dono di Alfred Schwarzenbach, il padre di Annemarie) delle due donne è entrata nell’altopiano anatolico, il vento gonfio di colore ha

La meta, la Kafiria, non fu raggiunta. Le loro strade si divisero a Kabul. Ella resta in un ashram fino alla fine della guerra. Annemarie muore in Engadina nel ’42 «Affrontare di nuovo l’alba, il giorno, il mondo sempre estraneo, toccarlo e strappare al cuore sconvolto un’unica parola». Ogni parola di Annemarie, detta o scritta, come, d’altra parte, i suoi gesti, sembrano venire da una lunga e strana pressione, da un’urgenza che le pulsa dentro, un impeto che non arriva a governare. I gesti non sono netti, pieni, convinti, come quelli di Ella. Annemarie strappa l’aria, la ferisce, disegna linee spezzate, com’è poi la sua vita, e come sono i suoi viaggi, dove ci si può perdere a metà strada, smarrir-

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crepato la loro pelle; il gelo l’ha illividita. Anche questo è stato il loro viaggio: una spola fra estremi. La povera Ford, destinata ad altre latitudini, in perenne lotta con il fondo della strada, che spesso neppure c’era, arriverà a Bombay esausta, sfinita dal caldo e dal freddo, dal vento dal cuore di polvere.

Le due donne arrivano a Kabul tre mesi dopo la partenza da Ginevra, agli inizi di settembre del 1939, quando la guerra è ormai scoppiata. A Kabul decidono di separarsi. «Ho fallito», dice Ella. Non hanno raggiunto la Kafiria come era nei loro desideri (le autorità afgane non lo hanno consentito), non hanno conosciuto gli ultimi uomini liberi, gli eredi di Alessandro Magno, e non hanno visto danzare le donne che si muovono con il cosmo. E poi Annemarie è ancora impigliata nella morfina e nel suo dolore di vivere. Lì a consumare la sua vita sbattendo contro le pareti dei suoi dilemmi. Il viaggio è fallito. A gennaio del ’40 un ultimo incontro a Mandu, nell’India centrale, una sorta di riparazione dopo le difficoltà e i conflitti, la lacerazione e la distanza. Per molto tempo Ella ricorderà la corrente di luce sul volto di Annemarie. Si ricorderà di lei come l’ha vista a Mandu, aperta al mondo, tesa verso un nuovo inizio, nonostante tutto. «Sarete fiera di me», le dice An-

nemarie. Lo sguardo di Ella è benevolo, affettuoso. Le vuol far sapere che le crede. Pensa che le possa far bene. Ha ancora molta tenerezza verso Annemarie, si sta adattando all’idea di vederla andar via. La sua vicinanza, la loro amicizia, non l’hanno aiutata. Ella e Annemarie hanno perso. Cercavano la pace, tutto è guerra attorno a loro. Cercavano la libertà e Annemarie ha ritrovato intatta la sua dipendenza. Quando si troverà a ripensare al loro viaggio, Ella chiederà perdono. Ma a chi ormai? Annemarie muore su una strada dell’Engadina per un banale incidente di bicicletta. Nel novembre del ’42. Dopo aver attraversato il mondo una pietra aguzza, a lato della strada, a Sils, le trafigge la tempia. Ha 34 anni. La verità non appare mai per intero, e prende sempre alle spalle. A Mandu, Ella e Annemarie ne vedranno solo una parte. Penseranno di avere un’altra possibilità; penseranno che c’è ancora strada davanti a loro. «Sapevamo di essere legate da qualcosa di solido e di duraturo», scriverà Ella raccontando del loro incontro. Dopo Mandu, Ella e Annemarie non si vedranno più. Si scriveranno. Fino all’estate del ’42. Dal gennaio del ’40, Ella vive nell’ashram di un maestro indiano e lì resta per tutti gli anni della guerra. Annemarie s’imbarca a Bombay per rientrare in Europa con la sua gloriosa Ford Roadster De Luxe, o quello che ne è rimasto. Quando l’auto viene caricata sul Conte Biancamano, la nave italiana che fa rotta per l’Europa, sembra un cimelio, un malinconico monumento dedicato al loro viaggio e alla loro sconfitta.

Che cosa resta di quel viaggio e del sogno che lo ha alimentato? Una promessa e il suo fallimento, le domande lanciate dalle due donne come un’invocazione, l’amicizia che le ha legate, la vicinanza e la distanza fra le creature. Due punti distanti, Ginevra e Kabul, l’inizio e la fine. Nel mezzo, due giovani donne alla ricerca di sé fra deserti e montagne, dentro e appena oltre il caos del mondo. Ella e Annemarie si sono messe alle spalle l’Europa inoltrandosi nelle distese desertiche dei grandi altopiani, valicando le catene montuose dove ha inizio l’Asia. Esploreranno il mondo lungo vie mai percorse alla ricerca di un varco nel cuore degli uomini. È per questo che sono partite. Insieme, e da sole. Due donne. Ella e Annemarie.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g ACCADDE OGGI

La prima pietra della libertà 1884, inizia a New York la posa della “libertà che illumina il mondo”. Da Parigi con amore deata da Édouard René de Laboulaye, costruita a Parigi su progetto di Frédéric Auguste Bartholdi, la Statua della Libertà doveva ”rendere gloria alla libertà e alla Repubblica, nella speranza che questi valori non muoiano”. Realizzata ingegneristicamente da Gustave Eiffel, essa fu donata dai francesi agli Stati Uniti d’America in 1883 casse trasportate a New York per mezzo di una piccola nave (che dovette effettuare numerosi viaggi) e ivi assemblata, in segno di amicizia tra i due popoli e in commemorazione della dichiarazione d’Indipendenza di un secolo prima (1776). Ma a causa del protrarsi dei lavori fu completata solo nel 1884 e inaugurata il 28 ottobre 1886, dieci anni dopo la ricorrenza. Durante le celebrazioni per l’inaugurazione, si formò spontaneamente la prima ticker-tape parade, evento divenuto tipico della cultura statunitense e legato particolarmente alla città di New York. Nel 1924 la statua divenne monumento nazionale insieme all’isola sulla quale è posta. Sul piedistallo vi è inciso un sonetto intitolato The New Colossus, scritto dalla poetessa statunitense Emma Lazarus per raccogliere fondi per la costruzione: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata. »

I

Manovra economica, pensioni baby e vitalizi Acceso dibattito alla Camera dei deputati sui vitalizi ai parlamentari. Il problema posto, quello dell’abolizione dei vitalizi in corso, eventualmente sostituiti da pensioni erogate dall’Inps, ci porta alla memoria le famose pensioni baby, quelle avute con pochi anni di contribuzione. Vediamo un po’ di conti. Le pensioni baby sono più di mezzo milione e costano qualcosa come 9,4 miliardi (non milioni) l’anno. Le pensioni baby sono distribuite prevalentemente a Nord (che ne dice la Lega?) e nel pubblico impiego. Tanto per fare un esempio, i pensionati baby sono quelli che con 15 anni di servizio acquisivano il diritto alla pensione. Passiamo ai vitalizi degli ex-parlamentari che sono 2238 (più un migliaio di reversibilità) che costano 218 milioni e acquisiti con una o più legislature. Insomma, a fronte di 9,4 miliardi di pensioni baby, ci sono 218 milioni di vitalizi. Ovviamente, c’è sproporzione tra i costi singoli, il numero di beneficiati dell’una e dell’altra categoria e degli anni di contribuzione. Allora, insieme alla revisione o abolizione dei vitalizi parlamentari si dovrebbero revisionare o abolire le pensioni baby?

Primo Mastrantoni

RIFLESSIONI AD ALTA VOCE

LA “SUPERIORITÀ” MORALE DEL PD

Gentile direttore, vorrei condividere con i lettori queste mie brevi riflessioni. Chi ha la possibilità economica di permettersi il lusso di pagare ottomila euro mensili per l’affitto di un appartamento, come può capire quanto incidono nei bilanci di oltre cinque milioni di pensionati il mancato aumento di 40-50 euro mensili, i ticket sui medicinali e sulle analisi, gli aumenti di luce, gas, autostrade che trascinano al rialzo l’inflazione? Ciò che per il politico in questione sono centesimi, per gli oltre cinque milioni di pensionati sono problemi seri, gravi ed anche vitali. Lo stesso raffronto va fatto in relazione ai problemi che travagliano i giovani precari e la moltitudine dei disoccupati, per i quali (ed è peggio) non si intravede alcuna prospettiva di soluzione, ma solo immeritati insulti.

La dimostrazione che “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”la dà il Pd con gli scandali che si stanno susseguendo a catena e che hanno coinvolto nomi di spicco del partito… Altro che superiorità morale.

G.C.

PIÙ SORVEGLIANZA NEGLI ENTI ISTITUZIONALI Ho letto che il capogruppo del Partito democratico al XX Municipio di Roma è stato minacciato di morte, così come altri suoi colleghi appena un giorno prima. A questo punto mi chiedo come sia possibile che un malintenzionato qualsiasi possa entrare più volte nella sede di un ente istituzionale e depositare proiettili nella cassetta della posta di un rappresentante politico, senza essere minimamente visto, notato, fermato. C’è bisogno, senza ombra di dubbio, di più mezzi e più sorveglianza per poter mettere fine a queste pericolose intimidazioni.

Camillo Ricciardi

L’IMMAGINE

Chi ha il coraggio? Avreste il fegato di avventurarvi sulle montagne russe più ripide del mondo? Se la risposta è sì prenotate subito un volo per il Giappone e dirigetevi al Fuji-Q Highland Amusement Park, il parco dei divertimenti che giace ai piedi del Monte Fuji. Qui è stata inaugurata Takabisha, un’attrazione con discese lunghe anche 43 metri ciascuna, che raggiungono i 121 gradi di inclinazione (qualcosa di non molto lontano dalla caduta libera!). Per 112 interminabili secondi, gli intrepidi partecipanti sono sballottati sulle rotaie a 100 chilometri all’ora di velocità e sperimentano una sensazione molto simile a quella della totale assenza di peso

e di cronach

Gianni Pipolo

TAZZINE BOLLENTI: QUANTO COSTA IL CAFFÈ AL BAR Mi ha molto incuriosita una mappa stilata dall’osservatorio prezzi di Codici in riferimento ai costi di una tazzina di caffè nei bar delle città italiane. Ovviamente le realtà sono diverse a seconda dei quartieri delle diverse città: un bar in pieno centro, in genere, espone costi superiori rispetto ad un locale in periferia. Le città nelle quali la tazzina raggiunge l’euro sono Ravenna, Bolzano, Belluno, Piacenza, Bologna, Roma, Rimini, Rovigo, Cremona, Ferrara, Torino, Trento, Forlì e La Spezia. Molte città del sud Italia, invece, applicano prezzi più accettabili: si va, infatti, dai 0,72 centesimi della tazzina di caffè bevuta a Reggio Calabria ai 0,73 di Bari, 0,76 di Campobasso, 0,78 di Potenza, Caserta e l’Aquila, 0,81 di Ascoli Piceno e 0,82 di Palermo e Napoli. Benché i dati sui prezzi al consumo, diffusi a giugno 2011 dall’Istat, rilevano preoccupanti aumenti dello zucchero e del caffè, saliti dell’11,5 e del 9,4 per cento rispetto al 2010, i prezzi di una tazzina di caffè al bar sono comunque troppo alti. Considerando anche che al gestore di un bar un chilo di caffè costa circa 15 euro, e che per una tazzina di caffè occorrono circa 6 grammi di caffè macinato.

Susanna Ficara

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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mondo

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L’Occidente, in difficoltà economica, è impreparato di fronte alle richieste di democrazia presentate dal mondo arabo

Una guerra di parole Di fronte ai morti, l’Onu “biasima” la Siria E Damasco finge di aprire al multipartitismo di Pierre Chiartano eri si è consumata l’ennesima liturgia per assecondare la coscienza internazionale sulla vicenda siriana. Dopo un’altra strage del regime alawita le cancellerie occidentali spostano l’attenzione sul Palazzo di vetro. Tanto per mascherare l’impotenza del mondo di fronte alla violenza di un dittatore. Oggi i problemi sono le economie che non vanno, i debiti e l’incapacità d’intervenire di fronte a un nuovo contesto: un Medioriente che vorrebbe diventare democratico. Il Consiglio di sicurezza

I

muovere dalla dichiarazione la richiesta di avviare un’indagine del Consiglio Onu per i Diritti umani sulle violenze. Un pannicello caldo di fronte a tanti morti.

Il documento del Palazzo di vetro esprime «profondo rammarico per la morte di diverse centinaia di persone» e per «la mancanza di progressi» da parte delle autorità siriane per portare avanti riforme e chiede inoltre al governo di Damasco di mantenere le sue promesse. I diplomatici riferiscono che una

Il testo è frutto di un compromesso raggiunto dopo che i Paesi occidentali hanno accettato di rimuovere la richiesta di avviare un’indagine del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite ha condannato la violenza contro i dimostranti da parte del regime siriano, con una dichiarazione formale che chiede a Damasco di consentire gli assembramenti pacifici e l’entrata nel paese degli aiuti umanitari. Il testo è frutto di un compromesso raggiunto dopo che i Paesi occidentali hanno accettato di ri-

delle questioni chiave è stata il modo in cui trattare le violenze contro civili disarmati e gli attacchi alle forze di sicurezza. Secondo Europa e Stati Uniti non ci sarebbe dovuta essere una equiparazione perché i civili non possono essere condannati per essersi difesi. La dichiarazione «condanna le ampie violazioni dei diritti umani e l’uso della forza» e chiede alle autorità di Dama-

sco «di alleviare la situazione umanitaria nelle aree di crisi cessando l’uso della forza contro le città colpite, per permettere un accesso rapido e senza ostacoli alle agenzie umanitarie internazionali» e «di cooperare pienamente con l’Ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani». Insomma, di fronte a centinaia di morti ci si limita ai richiami. Nel testo della dichiarazione non ci sono

neanche riferimenti al possibile coinvolgimento del Tribunale penale internazionale, che invece avevano inizialmente chiesto alcuni Paesi occidentali. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha definito «oltremodo rivoltante» la violenza con cui il regime siriano reprime le proteste, aggiungendo che tenterà di parlare nuovamente con il presidente Bashar al Assad.

La Palestina conclude l’iter burocratico di adesione alle Nazioni Unite. Adesso si deve aspettare il voto, previsto per settembre

E intanto Ramallah si candida per l’Onu utte le formalità sono state sbrigate. Ora non resta che attendere settembre. Per i palestinesi l’appuntamento per essere riconosciuto a pieno titolo come Stato, da parte dell’Onu, ormai è questione di poche settimane. Sarà un appuntamento con la storia? Sono in molti a sostenere il contrario. Le critiche più maliziose vedono nell’iniziativa un inutile placebo. È evidente infatti che sarà impossibile smuovere il processo di pace solo attraverso un voto dell’Assemblea generale al Palazzo di vetro. Troppe volte, dal 1948 a oggi, le decisioni dell’Onu sono state accolte sulle coste del Mediterraneo come lettera morta. Perché dovrebbe adesso dovrebbe essere altrimenti? Certo, i membri dell’Arab Peace Commitee, riuniti mercoledì in Qatar,

T

di Antonio Picasso hanno ribadito l’intenzione di appoggiare pienamente la mossa dell’Autorità nazionale palestinese. Ma questo cosa cambia? I vicini dei palestinesi, tutti arabi e in buona parte fratelli nell’Islam, non hanno mai negato a parole

la Lega Araba, Nabil al-Arabi, dal negoziatore palestinese, Saeb Erekat, e dai ministri degli esteri di Giordania, Arabia Saudita ed Egitto, si è alzato nuovamente l’indice accusatorio nei confronti di Israele. L’intransigenza del

In Israele la matrice locale degli indignados ha lanciato un appello per una manifestazione di massa contro l’esecutivo e la sua irresponsabilità per la linea sterile nel processo di pace la legittimità di una Palestina libera, indipendente e rientrante nei confini precedenti al 1967. Tuttavia, la sostanza delle loro iniziative si è dimostrata sempre misera. Dall’ultimo incontro, presenziato dal segretario generale del-

governo Netanyahu sarebbe la causa del ricorso unilaterale alle Nazioni unite da parte del presidente dell’Anp, Abu Mazen. È una denuncia che difficilmente può essere obiettata. Proprio ieri, il ministero dell’interno israeliano

ha dato il via libera alla costruzione di novecento nuovi alloggi nell’insediamento ebraico di Har Homa, fra Gerusalemme Est e Betlemme, nei Territori palestinesi. Si tratta di un ulteriore progetto di espansione edilizia in favore dei coloni, deciso a dispetto della ripetuta contrarietà manifestata dagli Usa e dalla comunità internazionale. Per l’Anp è una nuova provocazione appunto, che allontana la ripresa del negoziato. Del resto, il clima che si sta vivendo in Israele è sconcertante. La matrice locale degli indignados ha lanciato un appello per una manifestazione di massa, che dovrebbe tenere domani a Tel Aviv. Una protesta contro l’esecutivo e la sua irresponsabilità nel seguire una linea sterile nel processo di pace. Il gioco delle parti, nella storia del Medio-


mondo

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libica. Londra ha un apparato militare stremato dalle guerre in Iraq e Afghanistan e una situazione economica piuttosto seria. Infatti ovviano con le dichiarazioni: è stato il ministro degli Esteri di Sua Maestà a vagheggiare un intervento militare contro Damasco, ben sapendo che non ci sono le condizioni. Infatti subito smentito dalla Nato. In più in Siria l’élite di governo, gli alatiti, lotteranno fino all’ultimo per non perdere il potere. Ciò rende la fine del regime di Assad – che tutti auspichiamo – un fatto non immediatamente realizzabile. Sul fronte dell’autocrazia di Damasco poi si sta tentando una manovra di facciata. Il presidente siriano Bashar al-Assad ha infatti emesso un decreto con cui si autorizza il multipartitismo in Siria. Lo ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale Sana. «Giovedì Assad ha proclamato un decreto di legge presidenziale sui partiti», riferisce la Sana.

Il 24 luglio scorso il governo di Damasco aveva approvato una legge che autorizza il multipartitismo in Siria, aprendo così alla possibilità di un cambio di poteri nel Paese arabo che dal 1963 è stato guidato dal partito

da metà marzo protestano per le strade della Siria praticamente quotidianamente chiedendo maggiori libertà e la fine del governo autoritario del presidente Bashar al-Assad.

«Il disegno di legge stabilisce gli obiettivi essenziali e i principi che disciplinano l’attività dei partiti, le condizioni per la loro creazione e le regole relative al loro finanziamento, i loro diritti e i loro doveri», riferisce ancora la Sana. Il testo vieta che i partiti vengano fondati sulle basi della «religione, della affiliazione tribale, regionale e di organizzazioni professionali, così come su principi discriminatori di razza, sesso o colore». Sono inoltre banditi i partiti non siriani. Assomiglia molto alla riforma attuata in Egitto qualche tempo fa che di fatto impediva a nuovi partiti al di fuori del controllo governativo di presentarsi alle urne. Nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata anche la presa di posizione del ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Il decreto adottato dal regime» per introdurre il multipartitismo «non basta», «le violenze devono cessare». Il ministro italiano lo ha sottolineato parlando a margine di un convegno sulla pena

L’impotenza dell’Occidente nella vicenda siriana è mitigata solo dalle dichiarazioni ufficiali. Il prossimo disimpegno americano dal Medioriente e la crisi economica latente ne sono il presupposto Si alzano i toni delle parole la dove si hanno le mani legate. Non solo, ma anche il veto della Russia a qualsiasi iniziativa sul campo è apparentemente criticata. Se venisse tolto il niet di Mosca, l’Occidente si troverebbe di fronte a scelte difficili e molto costose, sul piano politico e finanziario, come suggerito dal generale Carlo Jean. La rivolta siriana va aiutata, ma i mezzi tradi-

zionali della diplomazia andrebbero ripensati per essere efficaci. Visto che come ha affermato a liberal Edward Luttwak «l’America non interverrà in Siria» e sta già pensando a come fare le valigie dall’intera regione. L’unico Paese veramente determinante è la Turchia, ma sembra che anche Ankara non sappia andare oltre le dichiarazioni di pubblica condanna.

La parziale ritirata americana, resa palese dalla vicenda libica, ha messo allo scoperto un’altra realtà che inciderà sui futuri sviluppi della situazione in Siria. Il rientro nel gioco mediorientale di Francia e Inghilterra. La prima spinta da un velleitarismo da grandeur internazionale, assolutamente non supportato dalle minime capacità. Lo si è visto nella pessima gestione della vicenda

Baath. Il governo ha «adottato un disegno di legge che riguarda i partiti politici in Siria come parte del programma di riforma mirato ad arricchire la vita politica, la creazione di una nuova dinamica e consentendo un cambiamento nel potere politico», si legge in un dispaccio dell’agenzia di Damasco. Il multipartitismo è infatti una delle richieste principali dei manifestanti anti-regime che

di morte nella sede dei Radicali. Frattini ha osservato che un atto legislativo «non determina il venir meno delle condizioni di estrema preoccupazione, ne le ragioni che hanno ispirato la condanna da parte dell’Onu». Il ministro ha sottolineato che per un giudizio più adeguato sarà necessario verificare come saranno formati i partiti. Ma quanti morti dovremo ancora vedere?

riente, lascia a Israele il ruolo dell’inflessibile. Trattasi di congiuntura, però. Quante volte in passato sono stati i palestinesi a precludere il dialogo?

te, torna scomodo anche ad Hamas. Perché suggellerebbe il successo politico di un leader di Fatah, Abu Mazen, sostanzialmente mediocre.

Come contrappunto, va segnalato l’annuncio del premier della liberazione di 74 detenuti palestinesi. Ma alle indecisioni di Netanyahu come si può non contrapporre le altrettanto disomogenee scelte in sede palestinese? Dalla Striscia di Gaza sulle città prossime al Negev è tornata a farsi sentire la batteria dei razzi delle milizie palestinesi. Milizie vicine ad Hamas, ma di cui molti leader dello stesso farebbero volentieri a meno. In primis perché il movimento islamista da anni sta combattendo contro se stesso per cambiare identità politica. E passare quindi dall’essere un realtà prossima al terrorismo a soggetto politico a tutti gli effetti. Secondariamente sono proprio le milizie di Gaza il vero ostacolo per Abu Mazen. Ultimo elemento. Non è escluso che i razzi che volano sui cieli della Striscia vengano sparati come frutto di una moral sua-

Si ragioni, quindi, sul perché i raid israeliani su Gaza non abbiano causato vittime. Mentre i razzi sparati dalla Striscia stiano caduti in aree disabitate. È vero, i Grad hanno sorvolato ancora una volta Ashkelon e avrebbero potuto colpire le abitazioni dei civili. Com’è pure confermato che siano state prese alcune strutture delle Brigate Ezzedin Al Qassam, braccio armato di Hamas. Tuttavia, tra queste scaramucce e i precedenti ben più gravi la differenza è incolmabile.Tra i due non c’è nessuna alleanza, si sa. Solo il comune interesse di bloccare Fatah. Il che potrebbe indurre due nemici storici a rovinare i piani dell’avversario condiviso. Specie se questo cerca e trova il supporto della comunità internazionale. A settembre, la Palestina sarà forse uno Stato. Senza terra però, né istituzioni e con un riconoscimento siglato su una carta velina.

sion, del tutto implicita, tra i due versanti del fronte. Chi ci rimette infatti dal riconoscimento dell’Anp in sede Onu? Israele, in quanto si troverebbe una comunità internazionale formalmente contraria alle sue prospettive. Questo non ha mai recato timore a Netanyahu e

tanto meno ai suoi predecessori. Tuttavia, resta un ostacolo. E in una fase tanto critica, qual è quella odierna per il Medioriente, Israele non può permettersi di appesantire ulteriormente la propria immagine internazionale. Ma uno Stato palestinese, formalmente esisten-


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grandangolo I rapporti fra Russia e Germania aumentano ogni anno di più

Una Quadriga interrompe la scalata di Putin a Berlino

Il prestigioso premio, ispirato alla scultura che sovrasta la Porta di Brandeburgo, doveva essere assegnato quest’anno all’uomo forte del Cremlino. Ma le proteste della società tedesca e degli ex vincitori hanno costretto a un ripensamento dell’ultimo momento. E ora la Germania si interroga sull’ipocrisia di fare affari con lo Zar (mentre lo disprezza) di Ubaldo Villani-Lubelli ermania e Russia. Due Paesi molto diversi, i cui destini si sono molto spesso incrociati nella storia recente. In passato avevano condiviso l’orrore degli stermini di massa, come ricordato recentemente da un libro uscito in Germania, Bloodlands, in cui vengono descritti gli “Stati del sangue”governati da Hitler e Stalin, ma negli ultimi due decenni Germania e Russia hanno svolto un ruolo di prim’ordine nello scacchiere internazionale. Il rapporto tra le due nazioni è, ancora oggi, difficile e controverso nonostante i numerosi passi avanti fatti grazie al cosiddetto “Petersburger Dialog”, un progetto di cooperazione arrivato, ormai, all’undicesima edizione.

G

Da una parte Germania e Russia hanno grandi interessi economici convergenti, ma dall’altra è evidente un certo malessere riguardo la situazione, non sempre cristallina, dei diritti umani in Russia. Nell’occhio del ciclone c’è sempre lui: Vladimir Putin. Che si parli di energia, di diritti politici o di esportazione, il fattore-Russia, in Germania, non lascia mai indifferenti, anche perché nell’ultimo decennio Mosca è tornata ad avere una centralità politica ed economica non indifferente. L’asse geopolitico internazionale si è, infatti, spostato verso Est, ed anche, ovviamente, verso Mosca. A determinare questo cambiamento nell’assetto politico-economico internazionale

hanno contribuito diversi fattori che è impossibile riassumere qui ma che si possono sintetizzare nella politica energetica di Vladimir Putin.

Tuttavia negli ultimi mesi Mosca ha acquisito ancora più importanza grazie a due eventi che non hanno alcuna relazione tra loro e sono totalmente indipendenti l’uno dall’altro. Ci riferiamo all’incidente nucleare a Fukushima in

Václav Havel e l’artista Olafur Eliasson hanno minacciato entrambi di restituire il riconoscimento Giappone ed alla guerra in Libia. Due eventi che hanno fatto acquisire a Mosca un ruolo strategico fondamentale ed hanno portato dei vantaggi alla politica energetica russa. La Russia, infatti, come principale Paese esportatore di gas in Europa, ha beneficiato dell’aumento del prezzo dell’energia ed, inoltre, beneficerà dell’abbandono dell’energia nucleare da parte di Italia e Germania.

È proprio la Germania a vivere in modo a volte contraddittorio il rapporto con la Russia. La storia recente delle relazioni politiche ed economiche tra Berlino e Mosca, inizia con l’ex Cancelliere Gerhard Schröder che avviò un asse economico-politico con l’allora Presidente Vladimir Putin.

Con il gasdotto Nord-Stream (ricordiamo che l’ex Cancelliere è ancora oggi Presidente della società per azioni Nord Stream di Gazprom) si esporterà gas direttamente dalla Russia alla Germania tramite il Mar Baltico, scavalcando in questo modo Ucraina e Polonia. La Russia, con questo progetto, ha rafforzato il proprio ruolo nello scacchiere europeo. Alla luce degli eventi recenti a cui accennavamo prima, ovvero l’incidente di Fukushima e la guerra in Libia, il gasdotto assume ancor più valore. Nell’immediato, infatti, la Germania, con la sua nuova politica energetica che prevede il graduale abbandono del nucleare entro il 2022, avrà ancora più bisogno del gas russo, come è stato già ben spiegato nel giugno scorso sull’autorevole Stratfor Global Intelligence. Secondo Stratfor dietro la logica del Nord Stream non c’è però mai stata l’idea di incrementare l’importazione di gas russo, dato che proprio Berlino non ha intenzione di aumentare la sua dipendenza dalla Russia. Mosca,

infatti, non può più nascondersi dietro l’Ucraina e la Bielorussia come le cause dell’instabilità energetica, così come, tra l’altro, ha fatto Putin durante il recente incontro a So\\u010Di (in Russia) con Angela Merkel a proposito dell’“Oleodotto dell’amicizia” che dalla Russia porta petrolio in Europa attraverso la Bielorussia, l’Ucraina e la Polonia. Tuttavia ciò non toglie che la Russia resta una nazione strategicamente fondamentale per quella parte di Europa che guarda ad Est.

La Russia è, inoltre, un partner politico ed economico importante per la Germania non solo per quanto riguarda petrolio e gas, ma anche per le numerose imprese tedesche che esportano o che operano in Russia. Già nell’estate del 2010 Angela Merkel, durante un viaggio economico in Asia, accompagnata da numerosi imprenditori con interessi economici in Russia e dal suo vice di allora Guido Westerwelle, fece visita a Medvedev. Russia e Germania hanno stretto un accordo con il quale le imprese tedesche, attraverso un cospicuo investimento finanziario, contribuiscono a modernizzare la vecchia economia russa post-sovietica. Il Presidente Dimitri Medvedev, da parte sua, ha sempre manifestato particolare interesse alla crescita tecnologia delle imprese tedesche. In sintesi: La Germania ha bisogno dell’energia rus-


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sa e la Russia della tecnologia tedesca. Ma la cooperazione tra i due paesi non è finita certo qui ed è stata ulteriormente rafforzata durante le recenti consultazioni tra i governi di Mosca e Berlino, ad Hannover, in Germania. Nell’incontro sono stati stretti diversi accordi commerciali che riguardavano, tra le altre, la Siemens, la Continental, la banca KfW e la Förderbank russa. Le imprese tedesche sono, infatti, molto interessate alla costruzione di un settore industriale moderno, ma necessitano, al contempo, di condizioni di sicurezza non ancora garantite in Russia.

La Cancelliera si è espressa, inoltre, a favore dell’entrata della Russia nel WTO, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio. La Germania continua, dunque, ad avere buoni rapporti commerciali con la Russia (su cui incide anche la presenza ormai massiccia di comunità russe in Germania e soprattutto a Berlino), tanto che il volume di affari tra i due paesi, nel 2011, raggiungerà la cifra record di circa 70 miliardi di euro. Per i lavoratori russi in Germania, poi, Angela Merkel ha in mente, a partire dal 2012, un procedimento più veloce, una sorta percorso privilegiato, per ottenere il permesso di soggiorno.

Ma la complessità e difficoltà del rapporto tra Germania e Russia iniziano proprio qui. Non sono, infatti, mancati contrasti, come è avvenuto, l’autunno scorso a Berlino, in un incontro del Wirtschaftsforum della Süddeutsche Zeitung durante il quale tra Vladimir Putin e Angel Merkel c’è stata qualche divergenza sostanziale. Putin propose, forse anche provocatoriamente, una zona di libero scambio commerciale da Vladiwostock a Lisbona. Le reazioni della Cancelliera non furono certo positive, tanto che ricordò a Putin come una zona di libero scambio così vasta presuppone la collaborazione anche da parte della Russia che, al momento, aumenta i dazi doganali sulle importazioni dall’estero ostacolando la libertà commerciale.

Le polemiche più accese ci sono state recentemente per un premio prima annunciato ma poi annullato all’uomo della discordia: Vladimir Putin. Stiamo parlando del premio Quadriga, nome che viene dalla Quadriga che si trova sulla Porta di Brandeburgo a Berlino, il simbolo dell’unità tedesca. Dall’importanza simbolica e storica della Quadriga è nato, nel 2003, un premio alle menti illuminate, alle personalità che possano essere un esempio per la Germania del nuovo millennio. Il premio è un riconoscimento che viene assegnato ogni anno dall’associazione “Werkstatt Deutschland”in occasione dell’anniversario della riunificazione te-

Per evitare una crisi diplomatica la premiazione non è stata revocata. Semplicemente, l’evento è stato “cancellato” desca, il 3 ottobre di ogni anno. Tra le personalità premiate in passato ci sono, tra le altre, Jean-Claude Juncker (2003), Hamid Karzai e Tayyip Erdogan (2004), Helmuth Kohl (2005), Shimon Peres (2006), Gerhard Schröder (2007),Václav Havel e Michail Gorbasciov (2009), Giorgios Papandreu (2010), oltre a vari artisti e giornalisti che hanno vinto altre sezioni del premio.

Nel 2011 doveva essere il turno di Vladimir Putin per i meriti ottenuti nell’aver reso stabili, costanti ed affidabili i rapporti politici fra Russia e Germania. In un certo senso il Premio a Putin era l’inevitabile conseguenza dell’enorme volume di affari che il Governo e le imprese tedesche hanno contribuito a consolidare. Ma la

decisione di premiare Putin ha provocato numerose proteste in Russia e, soprattutto, in Germania. La Nesawissimaja Gaseta russa ha criticato questa scelta, interpretandola come una mossa politica in vista delle elezioni del 2012 nelle quali Putin dovrebbe ricandidarsi a riprendersi il posto momentaneamente lasciato a Medvedev.Anche parte della classe politica tedesca ha protestato, come, ad esempio, il leader dei Verdi ed anche membro del Comitato dell’Associazione che conferisce il Premio Cem Özdemir, che ha minacciato di abbandonare tale Comitato. Anche altri due componenti del Comitato hanno minacciato di dimettersi, lo storico Edgar Wolfrum e la mecenate Barbara-Maria Monheim. Anche Ruprecht Polenz della CDU ha criticato la scelta proponendo, ironicamente, di far tenere la laudatio a Gerhard Schröder.

Anche Erika Steinbach (CDU-CSU) ha giudicato inopportuna la scelta di premiare Vladimir Putin. Tutti hanno criticato fortemente questa decisione a causa della sistematica e continua violazione dello stato di diritto in Russia, di cui Putin sarebbe il principale responsabile. A complicare ancora di più la situazione sono intervenuti i premiati delle edizioni passate. Le proteste più eclatanti sono state sollevate da Václav Havel e dall’artista Olafur Eliasson. Entrambi hanno minacciato di restituire il proprio premio, se Putin dovesse ricevere il Quadriga. Anche la stampa tedesca non ha accettato passivamente la scelta di premiare Putin ed i due principali quotidiani berlinesi, il Tagesspiegel e la Berliner Zeitung, hanno protestato, più volte ed in modo eclatante, contro tale scelta. Le polemiche sono state tali che si è deciso, forse anche un po’ ipocritamente, non tanto di rivedere la decisione, ma di sospendere l’edizione 2011 del premio Quadriga. Tra le vittime sacrificali di questa decisione le altre personalità che dovevano essere premiate insieme a Putin: il ministro degli esteri messicano Patricia Espinosa, l’autrice di origine turca Betül Durmaz ed il Premier palestinese Salam Fayyad.

Vladimir Putin era, probabilmente, il “vincitore sbagliato”, come ha ironicamente affermato il leader dei Verdi Özdemir, ma non bisogna dimenticare che non è la prima volta che viene annullata un’onorificenza a Putin in Germania. Già nel 2004, infatti, l’Università di Amburgo voleva premiare il leader russo con la laurea doctoralis (il corrispettivo tedesco della nostra laurea honoris causa). Ma anche in quel caso l’indignazione nella società tedesca fu tale che l’Università e Putin decisero, concordemente, di rinunciare. Oggi non può dunque sorprendere lo scandalo suscitato dalla decisione del Comitato dell’Associazione del Premio Quadriga. È pur vero, però, che c’è un’evidente contraddizione tra le rumorose proteste per l’assegnazione di un premio ad una personalità sicuramente controversa e dai molti lati oscuri, come appunto Putin, e il consenso con cui, in gran parte del paese, vengono accolti i continui e sistematici accordi economici tra i due paesi. Non dimentichiamo che l’ultimo incontro del luglio scorso tra Medvedev e Merkel, ad Hannover, avveniva proprio nei giorni in cui infuriava la polemica sul premio dato-non datoannullato a Putin. Le polemiche non hanno però messo in crisi gli accordi commerciali che venivano siglati tra i leader dei due paesi. Medvedev, però, non ha rinunciato a qualche dichiarazione polemica, tanto da arrivare a definire vigliacca e codarda la decisione presa dal Comitato del premio Quadriga. Se dunque alla base degli accordi commerciali tra Russia e Germania ci sono, evidentemente, ragioni di realpolitik e di convenienza economica, d’altra parte è difficile non registrare una certa ipocrisia nell’atteggiamento di buona parte del mondo politico e culturale tedesco che accetta gli affari con la Russia di Putin, ma si scandalizza se gli viene assegnata una qualche onorificenza.


ULTIMAPAGINA Il regime di Kim Jong-il usa immagini e documenti falsi per ottenere risarcimenti milionari dalle assicurazioni

In Corea lo Stato diventa di Vincenzo Faccioli Pintozzi na truffa alle agenzie di assicurazione internazionali: è l’ultimo dei modi scelti dal governo nordcoreano per cercare di reperire denaro contante in modo da fermare la crisi economica in corso nel Paese. Tramite i canali internazionali, Pyongyang ha inviato fotografie ritoccate al computer per ottenere i risarcimenti previsti per i disastri naturali. Un trucco che, spiega un esperto, «gli ha permesso in passato di ottenere fino a 20 milioni di dollari». L’ultimo caso ha visto come protagonista involontaria l’Associated Press, la più grande agenzia di stampa del mondo. La Korean Central News Agency (l’agenzia di stampa ufficiale del governo di Kim Jong-il) ha infatti inviato all’ufficio di New York alcune fotografie di una recente alluvione che ha colpito la periferia della capitale. Una delle foto, in particolare, mostra 7 persone immerse nell’acqua (nella foto), ma con gli abiti asciutti. L’Ap ha inviato l’immagine nel proprio circuito interno e vi ha aggiunto una didascalia (fornita dalla Kcna) che recita: “Case distrutte durante l’ultima alluvione che ha colpito Pyongyang. Ci sono delle vittime”. In questo modo, il regime ha cercato di convincere le assicurazioni internazionali a pagare il premio previsto in caso di disastri naturali. Ma l’immagine è risultata fasulla, ritoccata al computer per esagerare i danni. L’Ap ha immediatamente ritirato la foto. Secondo Kim Kwang-jin, ricercatore presso l’Istituto sudcoreano per le strategie di sicurezza nazionale, «le compagnie assicurative del Nord hanno contratti con quelle internazionali, come ogni Stato, per i disastri naturali. Esagerano le cose per ottenere i risarcimenti: ogni anno, con queste truffe, arrivano a incassare circa 20 milioni di dollari».

U

Ma la truffa è un segno dell’estrema disperazione del regime. Come spiega una fonte cattolica all’agenzia AsiaNews, «la situazione in Corea del Nord peggiora di giorno in giorno. Noi sappiamo che non si deve aiutare il regime, ma come cattolici ed esseri umani non possiamo rimanere a guardare mentre i nostri fratelli al di là del confine muoiono di fame. Ecco perché abbiamo deciso l’invio di 100 tonnellate di farina, che distribuiremo direttamente nelle mani degli abitanti». Proprio per cercare di arginare la disgrazia, la Chiesa ha deciso l’invio di un carico di aiuti oltre confine. Dopo la ripresa degli esperimenti nucleari e i due attacchi contro postazioni sudcoreane da parte del regime di Pyongyang, il governo di Seoul ha fermato tutti i programmi di aiuto alla Corea del Nord. All’inizio dell’estate, tuttavia, la situazione è peggiorata talmente tanto che la “Casa Blu”- la residenza del presidente sudcoreano - ha autorizzato cinque Organizzazioni non governative a portare aiuti esclusivamente di tipo alimentare. E la Caritas ne ha approfittato per inviare la farina. Il carico è stato raccolto dalla Caritas Korea International, diretta da p. Francesco Saverio Ahn Myeong-ok. I fondi per l’acquisto della farina - consegnata via terra - sono stati raccolti durante la “Messa per la pace nella Penisola coreana”, la grande funzione che si è svolta il 17 luglio scorso a Imjingak. I pacchi saranno consegnati direttamente nelle mani dei cittadini della provincia setten-

TRUFFATORE

Protagonista involontaria dell’incidente è l’Associated Press, che ha mandato nel proprio circuito alcune immagine taroccate di una finta alluvione mai avvenuta trionale di Hwanghe. Il p. Simeone Lee Jongkeon, direttore esecutivo della Caritas Korea, ha visitato la parte nord della penisola nel giugno scorso. Secondo il sacerdote «la situazione è terribile. Visitando gli ospedali della provincia ci siamo resi conto che non hanno più assolutamente nulla». Secondo la fonte di AsiaNews, «neanche i soldati mangiano più. E questo è l’ultimo passo verso la fine del regime, ma anche di tantissime vite umane». Forse è per questo che il regime ha deciso di capitolaLa foto truffa con cui il governo nordcoreano ha cercato di ottenere il risarcimento. In alto il dittatore Kim Jong-il con i suoi generali

re su alcune questioni chiave, come il programma nucleare. È dei giorni scorsi la notizia che Pyongyang “non vede l’ora”di riprendere i Colloqui a sei sul disarmo nucleare, che potranno ripartire “il prima possibile”e soprattutto “senza alcuna condizione”. Lo ha dichiarato un portavoce del ministero degli Esteri nordcoreano, secondo cui il regime «non ha cambiato in alcun modo il proprio atteggiamento, da sempre desideroso di riprendere il confronto». I Colloqui a sei sono un gruppo di lavoro composto da Cina, Russia, Stati Uniti, Giappone e le due Coree che si propone di limitare la proliferazione nucleare nell’Asia orientale. I dialoghi sono stati interrotti nel 2009, dopo un doppio attacco militare e una serie di test atomici non autorizzati portati avanti dal regime dei Kim.

Pyongyang si è ritirata in maniera unilaterale la prima volta, per essere poi espulsa dopo un secondo test non autorizzato. Le dichiarazioni seguono l’apertura che il governo americano ha fatto nei confronti dei nordcoreani. Parlando a margine del vertice Asean che si è svolto a metà luglio in Indonesia, il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton aveva detto che la ripresa dei Colloqui “è necessaria”, ma aveva aggiunto: «Non abbiamo intenzioni di fare concessioni al regime». La dichiarazione del governo del Nord lascia pensare a una risposta positiva a questa apertura, ma nasconde anche l’impazienza di riprendere i rapporti diplomatici con Seoul. L’espulsione dai Colloqui ha infatti comportato anche il blocco degli aiuti umanitari, e la conseguente carestia nel Paese. Che le truffe non bastano a fermare.


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