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Ci sono due modi classici di morire: di fame oppure di indigestione
Enzo Ferrari
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 6 AGOSTO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Giornata di ordinaria follia per Milano che apre in rosso, si riprende e crolla di nuovo. E lo spread con il bund vola a 420
Forse li abbiamo svegliati Monito di Ue e Bce e il governo decide di anticipare la manovra In mattinata l’allarme di Rehn: «Fate in fretta». In serata Berlusconi e Tremonti in conferenza stampa: «Pareggio di bilancio entro il 2013». E il Parlamento la prossima settimana torna al lavoro OPPOSIZIONI Sarcinelli: «La politica Se Bersani finora ha balbettato. seguisse Ora segnali concreti»
Casini...
Secondo l’economista bisogna anticipare la manovra e procedere subito con le riforme strutturali come chiede Bruxelles e invocano i mercati internazionali
di Enrico Cisnetto rmai è chiaro: stiamo vivendo ben tre crisi contemporaneamente. C’è quella mondiale, o per meglio dire occidentale, come dimostra la vicenda americana. C’è quella europea, visto che l’attacco speculativo in atto sui mercati europei da settimane, che travolge le Borse e i titoli di Stato, è una messa in mora della moneta unica e dell’eurosistema, e dunque un terribile atto d’accusa nei confronti della classe dirigente. E c’è la crisi nelle crisi, e tocca l’Italia in modo così violenta da scuotere le fondamenta stesse della Repubblica. Il rischio – basta vedere i giornali – è che, per calcolo ma anche per ignoranza, si prenda in considerazione soltanto una parte del problema.
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Franco Insardà • pagina 3 di Gualtiero Lami
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Crosetto: «Subito la Commissione proposta da Casini»
ROMA. Alla fine l’emergenza fa saltare anche la rituale pausa estiva delle Camere. Prima un colloquio tra Fini e Tremonti per programmare la riapertura per la settimana prossima di almeno due commissioni di Montecitorio, Affari costituzionali e Bilancio. Quindi la conferenza stampa in cui Berlusconi e lo stesso ministro dell’Economia annunciano le nuove urgenti misure. Tra queste «l’inserimento in Costituzione del vincolo al pareggio di bilancio». Ipotesi già emersa dal dibattito di mercoledì alla Camera. Il governo era stato richiamato dall’Unione europea, con Rehn che ha invocato per Roma urgenti manovre. a pagina 2
Il sottosegretario alla Difesa: «L’idea del leader centrista è buona ed è giusto che venga messa in pratica nel minor tempo possibile, nell’interesse di tutti»
I generali bacchettano La Russa
«Caro ministro, in servizio metta almeno la cravatta» di Marco Palombi
di Pierre Chiartano
di Antonio Picasso
a narrazione di una guerra ha bisogno dei suoi feticci. In Libia non serve costruirli a tavolino, la realtà ne regala in abbondanza e anche sanguinari.Tra questi c’è il giovane rampollo di casa Gheddafi, Khamis. Ieri i ribelli di Bengasi l’hanno dato per morto, ma non è la prima volta, era già successo il 20 marzo. La Nato ha confermato soltanto di aver condotto la notte scorsa due incursioni aeree sulla località libica di Zliten.
ella visione manichea dello scacchiere internazionale, l’India occupa un posto tra i “buoni”. Ovvero tra quei Paesi amici dell’Occidente, ai quali quest’ultimo si affida nel gestire le crisi e nel definire nuove alleanze. Delhi, per questo, a differenza della Cina, ha saputo conquistarsi quella stima che può permetterle di aspirare a un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’India è una superpotenza emergente che non fa paura.
osì però si esagera. Va bene il rigore estetico, va bene la forma che è sostanza, ma come si può chiedere ad uno che ha chiamato i figli Geronimo, Cochis e Apache di stare sempre con la divisa tirata a lucido è un mistero. Ci si riferisce all’increscioso episodio che ha visto ieri protagonista l’ufficiale di complemento Nel mirino La Russa i vestiti Ignazio, indossati accidentalmente mi- durante nistro della lo scambio Difesa da di consegne ben tre anni, il cui abbigliamento in occasione di una cerimonia pubblica non è piaciuto al generale Giuseppe Lenzi, autorevole membro dell’Associazione nazionale ufficiali dell’Aeronautica militare. Il nostro, si sa, è un combattente: se qualcuno lo infastidisce gliele dà lì seduta stante, che sia uno che vuole disturbare Silvio Berlusconi oppure un incursore inviato da Santoro.
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Errico Novi • pagina 5
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Il sestogenito di Gheddafi sarebbe morto durante un raid
Delhi ignora le sanzioni e acquista greggio dagli ayatollah
Il giallo di Khamis, figlio macellaio
La sfida indiana: petrolio dall’Iran
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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
N
NUMERO
152 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 6 agosto 2011
prima pagina
il fatto Il presidente della Camera conferma: «Dalla prossima settimana i deputati riuniti nelle Commissioni di merito: Bilancio e Affari costituzionali
Finalmente il governo cede Dopo le pressioni di parti sociali e opposizioni (e quelle di Ue e Bce) la svolta: pareggio di bilancio entro il 2013 e le Camere tornano al lavoro di Gualtiero Lami
ROMA. Alla fine l’emergenza fa saltare anche la rituale pausa estiva delle Camere. Prima un colloquio tra Fini e Tremonti per programmare la riapertura per la settimana prossima di almeno due commissioni di Montecitorio, Affari costituzionali e Bilancio. Quindi la conferenza stampa in cui Berlusconi e lo stesso ministro dell’Economia, con Gianni Letta, annunciano le nuove urgenti misure.Tra queste «l’inserimento in Costituzione del vincolo al pareggio di bilancio». Ipotesi già emersa dal dibattito di mercoledì alla Camera. Clima tesissimo e pesante: lo confermano le grida dei contestatori che accolgono il presidente del Consiglio al suo arrivo a Palazzo Chigi. «Siamo entrati in una crisi che non tiene conto dei fondamentali economici», dice subito Berlusconi. Svela di aver trascorso il pomeriggio al telefono con Van Rompuy, Merkel, Sarkozy, Zapatero «per coordinare una nostra risposta a quanto sta succedendo». E poi: «Soffriamo per il peso del debito pubblico. C’è un’attenzione particolarissima della speculazione internazionale su di noi, a cui bisogna cercare di mettere un argine». Come? «Da subito lavoreremo per introdurre in Costituzione il principio dell’equilibrio di bilancio e quello della libertà economica: non stabilirà che tutto è consentito, ma che lo è tutto quanto non sia espressamente vietato». Infine «un’accelerazione delle misure introdotte in manovra», come aveva chiesto Casini, «con la possibilità di
Piazza Affari apre in rosso ma recupera. Il differenziale con il bund tocca il record
Ordinaria follia a Milano: esplode lo spread
raggiungere anticipatamente il pareggio di bilancio». Il disegno di legge su fisco e welfare, aggiunge Berlusconi, «potrà essere varato in via definitiva entro il mese di settembre». Così come saranno anticipati, dice il premier, «un G7 con i ministri delle Finanze e un G8 con i capi di governo, come concordato con Sarkozy».
di Massimo Fazzi
MILANO. Sembra non finire mai. La crisi che attanaglia le Borse planetarie insiste anche dopo annunci, progetti, rilanci. E il giorno dopo il crollo delle Borse mondiali, resta alta la tensione su tutti i mercati. E sul tentativo di rimbalzo di Piazza Affari che nel primo pomeriggio era arrivata a guadagnare l’1,7% è arrivata la doccia fredda dell’ennesimo ribasso di Wall Street che bene poco sembra aver beneficiato dei dati sul pur lieve aumento dell’ occupazione negli Stati Uniti che hanno allontanato un po’ lo spettro della recessione.
consigliere delegato Corrado Passera aprendo una conference call con gli analisti finanziari ha parlato di «risultati solidi in linea con gli obiettivi del piano, raggiunti malgrado un contesto di mercato non favorevole». Possibili acquisti di titoli italiani da parte della Bce avrebbero contribuito ad allentare le tensioni: i rendimenti sui Btp decennali pur restando sul livelli record sono rientrati al 6,10% da un picco del 6,40% toccato ai primi scambi in mattinata. Il differenziale tra Btp decennali e equivalenti tedeschi si è ridimensionato a 385 punti base dal record di 413 punti. Momenti drammatici anche per i mercati asiatici nella notte, sulla scia del giovedì nero delle borse europee ed americane.
Nervosismo praticamente in tutte le piazze, mentre il Mib va di nuovo in tilt per motivi tecnici
Il Mib, poi, è andato in tilt: nel finale di giornata, sulla falsariga di quanto visto due giorni fa sempre sullo stesso listino, l’ultima rilevazione indicava un calo dello 0,89%. La seduta si è conclusa sui minimi per quasi tutti i mercati europei con il Cac40 di Parigi in calo dell’1,26%, il Ftse100 di Londra del 2,71%, il Dax di Francoforte del 2,78%. ILa superbanca è stata la protagonista della seduta tra rialzi che hanno sfiorato il 10% (+5% in chiusura) nel giorno dei risultati semestrali. L’utile netto è sceso del 17% a 1,4 miliardi (il dato è in crescita del 6,7% al netto delle partite straordinarie) ma la superbanca ha confermato «eccellenti livelli di liquidità» e il suo
La Borsa di Tokyo ha testato i minimi degli ultimi 5 mesi chiudendo la seduta in profondo rosso -3,72%. Sydney ha perso il 3,93%, mai così male in due anni, Hong Kong ha perso il 4,02%, Seul il 2,91% e Shangai l’1,82%.Taiwan ha ceduto il 5,6%, picco peggiore dal settembre 2010. Occhi puntati in Italia per i titoli di Stato: il prossimo 10 agosto verranno messi in asta 6,5 miliardi di Bot annuali con scadenza 15 agosto 2012.
Fini informa immediatamente il capo dello Stato, dopo aver messo in allerta le commissioni interessate. Si aspetta naturalmente l’input del governo: il Consiglio dei ministri dovrebbe quanto meno varare il ddl costituzionale, da sottoporre subito al Parlamento. E nel pomeriggio, quando è stata appena diffusa la notizia della conferenza stampa Berlusconi-Tremonti, il sito del Financial Times già anticipa alcune mosse dell’esecutivo italiano. Oltre al piano per rendere obbligatorio il pareggio di bilancio, «una modifica costituzionale per costringere gli ordini professionali a liberalizzare i propri servizi». L’urgenza delle decisioni di Roma è dunque così avvertita a livello internazionale che uno dei più autorevoli media europei si attiva per darne conto a mercati ancora aperti. È proprio la fine delle contrattazioni la circostanza che invece premier e ministro dell’Economia attendono per proporre le nuove misure. Resta dunque forte nel governo il timore per le reazioni delle Borse.Anche rispetto agli altri provvedimenti, sempre anticipati dal Financial Times: dall’accelerazione sulle riforme del welfare al taglio dei costi della politica.
l’intervista
«Finora la politica ha balbettato» L’economista Sarcinelli: «Adesso servono segnali concreti e credibili per i mercati» di Franco Insardà
ROMA. «Con l’Unione europea si è concordato di raggiungere il pareggio entro il 2014, ma nessuno a Bruxelles ha detto che l’Italia deve fare un piccolo passo nel 2011, un altro l’anno prossimo e tutto il resto nei due anni finali. Quando fu annunciata evidenziai subito che non mi sembrava corretta la distribuzione, a parte la sottigliezza di scaricare sul prossimo Parlamento il peso più gravoso, che nel primo e nel secondo anno le misure fossero minime, per poi aumentarle nel 2013 e nel 2014. Il percorso, invece, dovrebbe essere inverso: fare subito sacrifici e tirare il fiato nei prossimi anni. Questo sarebbe un segnale serio e concreto e che potrebbe avere un qualche effetto sui mercati». Mario Sarcinelli, ex vice direttore generale di Bankitalia e ora numero uno di Dexia, sottolinea come ci sia bisogno subito di segnali positivi per invertire la tendenza pericolosa di questa crisi per il nostro Paese. Professore, si può morire ad agosto? Ovviamente parliamo di economia. Se fosse una persona fisica potrebbe morire in qualsiasi momento. Un Paese non muore, ma può degradarsi e noi, da un po’ di tempo, siamo su una china del genere. Da quindici anni, di fatto, non cresciamo, o cresciamo molto poco e, comunque, molto meno della media europea. Questo è un fatto incontrovertibile. Quali sono motivi che spingono i mercati a essere così turbolenti? Non credo, come si sostiene, che sia la mancanza della crescita. Non se ne preoccupano tanto, lo avrebbero fatto nei quindici anni passati, ma indubbiamente sono in una situazione di grandissima incertezza. La ragione è soltanto una: la mancanza di una leadership nel mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti per finire in Europa. Mentre i paesi dell’Est, che stanno cercando di esercitare un minimo di leadership, come la Cina, sono
Ma la giornata, come dicevamo, era iniziata nel modo peggiore. Dopo il tonfo - la parziale ripresa, il nuovo tonfo e una chiusura negativa ma di poco delle principali Borse europee e soprattutto di Piazza Affari era arrivato anche un monito molto particolare, uno di quelli che non si può fare finta di non capire. Se ancora qualcuno non l’avesse capito da Bruxelles era arrivato l’appello del commissario Ue all’Affari economici e monetari, Olli Rehn, al governo: «La priorità chiave per l’Italia è ora procedere a tutta velocità e accelerare le riforme strutturali necessarie per rilanciare la crescita economica». Secondo Rehn il nostro esecutivo dovrebbe lavorare strettamente con le parti sociali per adottare misure coraggiose ed attuarle senza ritardi. L’Italia ha preso misure per assicurare il pareggio di bilancio nel 2014, e una decisa implementazione di queste misure è ora di primaria importanza».
ancora in una fase “adolescenziale”. In sostanza il mondo è senza leadership? Direi proprio di sì. La chiusura all’ultimo minuto della vicenda del debito americano è una soluzione tampone che ha evitato il default, ma non ha risolto il problema e una Commissione dovrà ancora riunirsi e decidere entro la fine di agosto ulteriori tagli per 1500 miliardi di dollari. Una vicenda che fa segnare comunque una diminutio della leadership del presidente Obama. Anche la politica americana, da sempre stata caratterizzata dal pragmatismo e dal buon senso, è diventata ideologica, più simile a quella italiana. Quanto influisce l’assenza della politica? Questa crisi dell’Italia è stata determinata proprio dalla politica. Da un lato il governo sostiene di aver mantenuto gli impegni e dall’altra paragona le borse a orologi rotti che segnano l’ora corretta un paio di volte al giorno. I politici quotidianamente fanno degli annunci, ma il problema fondamentale è quello di stabilire quale credibilità hanno questi annunci, non per il futuro lontano, ma per l’indomani. Secondo Pier Ferdinando Casini ci vuole un armistizio. Una pausa. I partiti principali presenti in
Nel pomeriggio arriva la notizia: i membri delle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali torneranno a lavoro già dalla prossima settimana per mettere il pareggio di bilancio nella Carta costituzionale In questo contesto, suggerisce ancora il commissario Ue «l’apertura degli ordini professionali e ulteriori riforme del mercato del lavoro devono essere le priorità», ammonendo che «un tale programma di riforme deve essere sostenuto da tutte le forze politiche». Bruxelles invita insomma l’Italia ad accelerare sulla riforma del welfare, per poter be-
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Parlamento, Pdl e Pd, aprano canali di dialogo. Rendiamoci conto che siamo sulla stessa barca. Lavoriamo per unire, non per dividere. Chi cerca divisioni oggi è un irresponsabile perché l’Italia sta affondando. Il problema fondamentale è quello di trovare un terreno di accordo. Quando il governo propone al primo posto delle misure anticrisi l’introduzione nella Costituzione del principio del pareggio del bilancio mi sembra che resti nel campo delle buone intenzioni. Una cosa condivisibile, ma una modifica costituzionale ha tempi lunghi, mentre i mercati hanno bisogno di segnali rapidi e concreti. Non si può continuare a raccontare delle favole. Il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn, ha dichiarato che per l’Italia e la Spagna non saranno necessari piani di salvataggio. È questa la strada giusta e non ha minimamente senso immaginare soluzioni diverse. Ci sono le possibilità per riuscire da soli a uscire dalla crisi. Mentre i dati diffusi dall’Istat segnalano il calo della produzione industriale a giugno: -0,6% rispetto a maggio, mentre su base annua, rispetto al giugno 2010, la produzio-
ne è aumentata dello 0,2%. Fino a quando avremo un sistema produttivo così frammentato, con le grandi imprese che ormai non esistono più, non è cosa semplice realizzare innovazione e ottenere alti guadagni di produttività. Il problema esiste ed è necessario che si faccia qualcosa per invertire la tendenza. Secondo lei l’Italia è avviata al fallimento come dicono alcuni economisti? Queste enunciazioni vengono da quelli che definisco: terroristi agostani che, avendo mangiato troppo e pesante in trattoria, hanno degli incubi notturni.
Da quindici anni, di fatto, non cresciamo, o cresciamo molto poco e, comunque molto meno della media europea. Questo è un fatto incontrovertibile
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neficare degli effetti positivi sul bilancio già dall’anno prossimo.
«La riforma del welfare che è attualmente in discussione al Parlamento italiano è un passo in avanti importante verso la sostenibilità fiscale, ma la sua approvazione e messa in atto deve essere accelerata, cosa che avrà affetti positivi sul bilancio già nel 2012», ha sottolineato Rehn. La Ue, ha detto ancora il commissario, «sostiene anche l’intenzione di fissare un limite di bilancio nella Costituzione, in modo da rispettare pienamente e in modo permanente gli impegni presi con il Patto di stabilità». Rehn ha annunciato che, «per mettere fine all’incertezza» sui mercati, l’accordo sul rafforzamento del fondo salva-stati raggiunto al vertice di Bruxelles del 21 luglio scorso sarà operativo entro «settembre». Ribadendo la fi-
ducia «nella Bce, che continuerà ad agire a sostegno della stabilità finanziaria». Le tensioni di questi giorni, secondo Rehn «non sono giustificate per l’Italia e non sono giustificate per la Spagna. Questi cambiamenti drammatici sui mercati sono incomprensibili. I fondamentali dell’economia spagnola o di quella italiana non sono cam-
Il commissario Rehn è stato molto chiaro in mattinata: «La priorità chiave per l’Italia è ora procedere a tutta velocità e accelerare le riforme strutturali necessarie per rilanciare la crescita economica del Paese»
biati in una notte. Né l’Italia né la Spagna hanno bisogno di un piano di salvataggio». Insomma un messaggio di speranza, dopo però una lavata di capo di tutto rispetto per un governo che fino ad oggi ha brillato per la sostanziale ignavia del suo operato.
E se non fosse bastato il fiacchissimo discorso del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi alle Camere - un discorso che sostanzialmente non aveva detto nulla e che aveva quasi negato la portata della crisi in corso sul teatro europeo ed italiano in particolare - ieri mattina era arrivato il de profundis suonato dai maggiori quotidiani del Vecchio Continente. Secondo Le Monde, «il problema dell’Italia ha un nome e un cognome, Silvio Berlusconi». E dello stesso avviso anche le maggiori testate tedesche e inglesi. Insomma, coloro che dovrebbero darci una mano.
l’approfondimento
pagina 4 • 6 agosto 2011
Le crisi da affrontare sono almeno tre. Serve unità per creare una Terza Repubblica in grado di cambiare il Paese
Peccato, Bersani!
Se il leader del Pd si fosse messo sulla lunghezza d’onda di Casini, oggi la situazione dell’Italia sarebbe diversa. Perché oltre al fantasma rappresentato dalla maggioranza, pesa sul Paese la divisione tra le diverse opposizioni di Enrico Cisnetto
segue dalla prima O si parla solo delle crisi internazionali, per stabilire che il governo ha la coscienza pulita e non possiamo farci niente; oppure ci si sofferma solo su quella interna, facendo finta che persino Wall Street crolli per colpa del discorso evanescente (a dir poco) di Berlusconi alle Camere e per l’improduttiva ritualità dell’incontro con le parti sociali. In entrambi i casi si tratta di uno strabismo che non spiega la realtà e che induce, nell’uno come nell’altro caso, a commettere errori esiziali. Proviamo a mettere un po’ d’ordine. Che ci sia in atto una crisi delle economie occidentali, americana ed europea non senza dimenticare il Giappone, è ormai cosa chiara anche ai ciechi. Se non fosse bastata la portata della crisi finanziaria iniziata negli Usa nel 2007 con lo scoppio della bolla speculativa sugli immobili e sui mutui, poi allargatasi al sistema finanziario e bancario mondiale, e quindi diventata recessione (soprattutto in Europa), a testimoniarne l’esistenza c’è da un lato la crescente difficoltà europea, a partire dall’anno scorso, a sopportare e supportare i livelli di indebitamento pubblico dei Paesi membri del-
l’euroclub, e dall’altro c’è la recente venuta al pettine del problema del debito americano, che prima ancora che essere finanziario ha mostrato la sua essenza politica e giuridica.
Tutto questo significa tre cose precise. Primo: l’economia mondiale, che secondo l’Fmi crescerà nel complesso del 4,3% nel 2011 e del 4,5% nel 2012, è trainata dalle economie emergenti, asiatiche in primis. Dunque si conferma e si consolida lo spostamento del baricentro dell’economia planetaria, che evidenzia così tutte le difficoltà e le lentezze di un Occidente che non ha ancora smaltito la botta micidiale della crisi finanziaria e che ha mostrato al cospetto di essa di non saper prendere decisioni forti di cambiamento delle regole del sistema finanziario e bancario, nonostante i tanti vertici mondiali a ciò dedicati e le innumerevoli tavole dei sacri comandamenti evocate e annunciate. Secondo: gli Usa non solo hanno dovuto pronunciare per la prima volta nella loro storia la parola default riferita al proprio Stato federale, ma hanno mostrato al mondo intero tutti i limiti del loro sistema
politico – per una volta molto “italiano” – incapace di trovare un terreno comune tra i due partiti del suo bipartitismo (ex) perfetto su un tema così decisivo come l’adeguamento delle regole sul debito e così strategico come la politica della spesa pubblica. Dunque il sistema americano, dopo essere stato la causa della più grande crisi finanziaria mondiale da quella del 1929, ora si mostra fragile anche politicamente, e fa sapere al mondo che non è più capace di esserne la locomotiva.
Terzo: la speculazione ha preso il sopravvento in Europa soprattutto per la modestia di un ceto politico e amministrati-
Non basta dire che siamo in pericolo: serve senso dello Stato
vo incapace di capire che le contraddizioni insite nell’euro, che comunque prima o poi sarebbero venute a galla, non potevano che esplodere rumorosamente con la crisi mondiale, quando per fronteggiare un eccesso di debito privato (soprattutto americano) si è scelta la strada della sua trasformazione in debito pubblico. Come si poteva pensare di far fronte ad un’emergenza così violenta dotati di strumenti, dalla Commissione Ue alla Bce, tarati per ben altri tipi di situazioni e non avendo neppure previsto nei Trattati l’eventualità di una crisi e quindi le modalità per affrontarla e individuato le relative responsabilità? È evidente che soltanto un’istituzione comunitaria direttamente eletta dai cittadini e dotata di poteri sottratti alla sovranità dei Paesi membri può avere la forza necessaria per giocare un ruolo significativo in un frangente come questo. Non è stato così nei 16 mesi in cui si è trascinata la vicenda della Grecia – la cui soluzione definitiva ancora non sappiamo se sia arrivata – figuriamoci quando a finire nel tritacarne della speculazione sono Paesi della portata di Italia e Spagna. E questo non solo
per i limiti oggettivi della Commissione Ue e della stessa Bce, che pure nei marosi della crisi ha mostrato di sapersi muovere oltre i confini del suo statuto che di per sé la costringerebbe ad essere soltanto la guardiana della stabilità dei prezzi. Ma anche e soprattutto per i limiti della classe dirigente dei maggiori Paesi europei (duole dirlo, Germania compresa). Parlo di quella che ha raccolto il testimone da chi dieci anni fa ha battezzato la nascita materiale dell’euro e gestito il processo di conversione delle monete nazionali, e che non assomiglia neppure lontanamente a quel ceto politico che all’inizio degli anni Novanta decise di accelerare il processo d’integrazione europeo inventandosi Maastricht e dando l’avvio al processo di costruzione della moneta unica.
Insomma, non avendo fatto a suo tempo gli Stati Uniti d’Europa o li si fa adesso, nel pieno della tormenta finanziaria in cui siamo immersi, o siccome nulla potrà più essere come prima la bufera annienterà l’euro. Perché i mercati, profittando anche della limitata liquidità agostana, hanno deciso di attaccare direttamente il cuore dell’euro testando la reale vo-
Inevitabile per il sottosegretario alla Difesa un nuovo approccio con l’opposizione: «Basta chiusure»
«Subito in campo la commissione proposta da Casini alla Camera» Crosetto: deve avere tempi più rapidi rispetto alle procedure parlamentari Dal leader udc un intervento di valore, apprezzato da tutta la maggioranza di Errico Novi
ROMA. Il contributo di Casini? «Fondamentale. Un atto politico di rilevanza e di valore, che non si può far cadere nel vuoto». La commissione per la crescita? «Idea valida, a condizione che abbia tempi di attivazione e di risposta rapidissimi, diversi da quelli delle commissioni parlamentari». E l’autosufficienza fin qui tenacemente opposta dal governo? «Non è tempo di filosofie generali ma di concretezza. I contributi vanno accolti». Guido Crosetto è tra chi nella maggioranza non arriccia la fronte all’idea di un diverso rapporto con l’opposizione. Sottosegretario alla Difesa ma molto attivo quanto a proposte per l’economia, è convinto che «anche Berlusconi abbia molto apprezzato il discorso di Casini». Tutto questo non richiede un approccio completamente nuovo, da parte dell’esecutivo, verso gli interlocutori esterni? Non sono davvero i tempi della filosofia politica ma di risposte concrete. E dall’altra parte, chi dice no deve proporre un’alternativa. Non si affronta la crisi se non con gli strumenti disponibili, e se qualcuno ne ha di altri io non ho pregiudiziali. L’importante è che chi li ha li metta sul tavolo nel più breve tempo possibile. Poi li elaboriamo e li approviamo. Tremonti per esempio non sempre ha tenuto questa impostazione: anzi, la sua logica è seguire la propria visione di partenza, come scelta netta. In questo momento non c’è molto spazio per una visione, è il momento delle scelte. Chi è legittimato a proporle è il governo ma penso che quanto aggiunto dall’opposizione vada assolutamente colto. È una disponibilità che ci è servita nella prima manovra Tremonti anche solo dal punto di vista del tempo: adesso abbiamo la stessa necessità e se in più si riescono a fare cose condivise ancora meglio. Sarebbe un doppio segnale al Paese, anche se già quello della velocità basta. Il problema è calare delle proposte. Lo faccio anche io che mi occupo di Difesa. È il momento di ascoltare, insomma. Ripeto, il contributo di Casini è fondamentale. C’è una disponibilità, diversa dalla sua, che si è comunque intravista anche nelle parole di Bersani. La commissione proposta dal leader dell’Udc la condivido. Ma va attuata in tempi rapidissimi. E dev’essere un organismo che in due o tre settimane individua dei punti. È una risposta al problema di rimettere in moto l’economia. Che va data in modo veloce. Prima ancora però bisogna frenare
la speculazione, così da intervenire sulla massa del debito. Quindi è vero anche che la manovra già approvata non basta, bisogna giocare d’anticipo. Qualche ipotesi: da un mese mezzo suggerisco la privatizzazione mobiliare e immobiliare del patrimonio dello Stato. Su questo è chiaro che c’è da attendere perché non si può svendere. Però si ot-
Autosufficienza? Non servono filosofie ma atti concreti. Va colta la disponibilità degli altri partiti.
tiene un effetto immediato se si dice che tali privatizzazioni verranno concesse a chi presenta offerte non in denaro ma in titoli di Stato. Chiunque, anche il gestore della spiaggia, è costretto a investire in Bot per avere il bene. Così si genera una domanda di titoli che fa abbassare il tasso. A mali estremi estremi rimedi. Poi si deve ragionare sull’età pensionabile: non sono un appassionato della materia ma le circostanze lo richiedono. Anche qui in effetti si possono accelerare i tempi previsti dalla manovra di Tremonti.Terzo: non condivo la patrimoniale, ma con praticità si può chiedere una partecipazione dei cittadini in base al patrimonio attraverso l’acquisto di titoli di Stato. Anziché imporre tasse che deprimono l’economia si chiede di sottoscrivere centomila euro di Bot a un dato tasso. Così lo spread e, quindi, la spesa sul debito calano. Farei questo ma sono aperto a mille altre idee. E riprendere il tema dell’abolizione delle province? Casini ha parlato anche di questo. Come molti nella maggioranza, nonostante abbia dovuto votare contro, sono favorevole alla proposta. Che però ha un impatto più psicologico che reale: se pure procedi, non è che le abolisci domani mattina. Metterei la questione sullo stesso piano della riduzione del numero dei parlamentari: provvedimenti che hanno una tempistica differita, anche se ridanno dignità alla classe politica. Su questi temi si può procedere anche il 15 settembre o il 30, cambia poco. Le cose di cui sopra invece le farei domani. C’è la Lega che anche a settembre farebbe storie. Si fa una mediazione politica: anche sull’abolizione delle province, la Lega in realtà dice “sì, ma non tutte”. Comunque nessuna pregiudiziale al confronto. Assolutamente nessuna: la strada comune del Ppe, percorsa con Casini dal ’94 fino a tre anni fa, è ancora l’unica per assicurare nei decenni una coalizione e una maggioranza stabili con dei valori che rappresentino veramente l’Italia. D’altronde chi ha scelto di allontanarsi non siamo noi. Be’, è stato Berlusconi a rompere. E anzi le ribalto la questione: davvero è possibile ripristinare l’alleanza se il leader è ancora lo stesso che l’aveva cancellata? Tutti nella maggioranza, compreso il premier, hanno apprezzato il discorso di Casini: credo che abbia rimesso in moto un percorso. In tempi difficili si vede il bene che le persone vogliono al Paese. L’intervento di Casini, e in una piccola parte di quello di Bersani, sono positivi. Il passato? I tempi evolvono, secondo me nulla se si vuole è impossibile.
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lontà dell’eurozona di rimanere tale. Dunque saltano la Spagna – anche perché la situazione di Madrid é semplice: si vota a novembre, per via dello scioglimento anticipato, e vince la destra, quasi certamente con maggioranza assoluta – e attaccano direttamente l’Italia, più indebitata e nel pieno di un bordello politico senza precedenti. Ma se l’attacco è all’Italia per colpire al cuore l’euro, questo significa che possiamo stare tranquilli perché sarà l’Europa a salvarci per salvare la sua moneta? Neanche per idea. La dura Bundesbank è stata messa in minoranza nella Bce, ma Trichet – giustamente – non compra titoli italiani per evitare che, come ieri, lo spread con quelli tedeschi arrivi pericolosamente a sorpassare quota 400 punti base, senza avere in mano un accordo politico, visto che quello di fine luglio era solo per la Grecia e comunque del tutto insufficiente per l’Italia. Quindi, dobbiamo sbrigarcela da soli. Come? Chiudendo al più presto non solo l’esperienza fallimentare di questo governo, ma anche quella tragica della stagione politica chiamata (impropriamente) Seconda Repubblica.
Ai mercati possiamo solo far giungere un segnale, forte, di discontinuità. Che non è venuto non solo da Berlusconi e dal teatrino dell’incontro con le parti sociali tutto a base di futuribile, ma neppure dalle opposizioni. Ma come, volete che Berlusconi vada a casa (bene) e che ci sia in alternativa un governo politico con largo uso di tecnici (bene), e poi riuscite a partorire tre differenti posizioni – l’Udc che chiede, giustamente, un anticipo delle misure previste per il 2013 e 2014, il Pd che dice no perché la manovra è iniqua (ma non dice cosa ci vuole al suo posto) e l’Idv che propone una sua “contro-manovra” – che finiscono col rafforzare proprio il Cavaliere? Ma vista così, caro Bersani, non c’è alcuna base comune su cui poggiare un’eventuale alternativa a Berlusconi né ora né quando, prima o poi, ci saranno le elezioni. Il che contribuisce non meno della povertà dell’azione del governo a indurre gli speculatori a pensare che l’Italia sia attaccabile: hanno chiaro che siamo ad un passaggio epocale della nostra vicenda nazionale, che siamo alla fine della Seconda Repubblica ma che non abbiamo la minima idea di come si possa passare alla Terza. Non dico virtuosamente, cioè al contrario di quanto è stato nel 1994, ma almeno sapendo come materialmente traghettare il Paese da un sistema che si è mostrato fallimentare a qualcosa d’altro, quale che sia. Per favore, riempiamo questo vuoto prima che sia troppo tardi. (www.enricocisnetto.it)
politica
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Nel mirino ci sono poi le posizioni contrarie al Tricolore più volte espresse dagli esponenti (anche al governo) della Lega Nord
«Caro ministro, almeno la cravatta» Un generale scrive al titolare della Difesa: «Inadatti gli abiti casual» osì però si esagera. Va bene il rigore estetico, va bene la forma che è sostanza, ma come si può chiedere ad uno che ha chiamato i figli Geronimo, Cochis e Apache di stare sempre con la divisa tirata a lucido è un mistero. Ci si riferisce all’increscioso episodio che ha visto ieri protagonista l’ufficiale di complemento La Russa Ignazio, accidentalmente ministro della Difesa da ben tre anni, il cui abbigliamento in occasione di una cerimonia pubblica non è piaciuto al generale Giuseppe Lenzi, autorevole membro dell’Associazione nazionale ufficiali dell’Aeronautica militare. Il nostro, si sa, è un combattente: se qualcuno lo infastidisce gliele dà lì seduta stante, che sia uno che vuole disturbare Silvio Berlusconi mentre parla al Paese in una sala stampa (epica quella battaglia, d’altronde l’avversario si chiamava Carlomagno) oppure un incursore di Michele Santoro che voglia spiegazioni sulle faccende private del Cavaliere.
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Per questo Ignazio non sta tanto attento alla forma: l’importante è buttarsi nella mischia e fare il proprio dovere contro il nemico, mica come sei vestito. Il ministro è un sostanzialista, un guerriero, non un fighetto da cerimonie: forse è una reazione al fatto di aver dovuto passare gli anni dell’adolescenza in un Collegio svizzero, chissà. Comunque lo sanno anche i suoi colleghi che al nostro l’ardor militare infuoca il petto e i lombi, tanto che Roberto Calderoli lo ribattezzò
di Marco Palombi “ministro della Guerra” (pensava di dargli fastidio per l’eccessiva irruenza con cui si schierava per l’intervento in Libia, ma forse non lo conosce così bene).
Sentirsi giusto è tutto, per l’ufficiale di complemento La Russa Ignazio, e un certo peso ce l’hanno pure certe vecchie storie sull’onore ereditate nelle catacombe postfasciste: per questo probabilmente, anche se non capisce, questa faccen-
da delle critiche estetiche gli pesa assai. D’altronde quel generale Lenzi è pure paracadutista: e pensare che lui, il ministro, se li coccola appena può questi ingrati dei parà, ancora meglio se sono quelli in bianco e nero della Repubblica sociale.
Il fattaccio, cioè la violazione del dress code da parte di La Russa, è avvenuto il 4 aprile addirittura in Afghanistan, quan-
Giuseppe Lenzi, autorevole membro dell’Associazione nazionale ufficiali dell’Aeronautica militare, bacchetta La Russa: «Non ci si veste sportivi durante una cerimonia militare. Dovrebbe saperlo» do il ministro presso la base del Regional Command West – presenziava all’avvicendamento tra le Brigate Julia e Folgore. Ebbene, scrive il generale Lenzi nella inusuale veste di esperto di immagine, «ciò che mi permetto, qui, di rilevare è il Suo abbigliamento ‘casual’; e per ciò inidoneo all’importanza dell’evento che Ella ha presieduto quale massima autorità dello Stato Italiano». Mica è una critica fatta così per fare, il generale entra nel merito: «La
Sua camicia azzurrina, sportivamente slacciata, ed il Suo scuro maglioncino a ‘Vi’ (oltre ai pantaloni troppo abbondantemente ricadenti sui talloni), certamente appropriati per presenziare ad una cerimonia di scambio di gagliardetti fra bocciofile, non hanno conferito, all’evento in fieri, quell’importanza ch’esso si proponeva di raffigurare». Par di capire che La Russa abbia rovinato la giornata ai presenti: «Ritengo che tutti avrebbero certamente apprezzato se quel nostro glorioso Tricolore, nel passar di mano dalla nobiltà di una Divisione Militare all’altra, fosse stato preso in consegna da un’Autorità in sintonia – anche esteriore – con l’importanza dell’evento. Rammenterà, per averlo appreso durante la Sua formazione quale Uff.le di Complemento, che per noi militari la ‘forma è anche sostanza’. Comprenderà, quindi, signor Ministro, che i miei più giovani e molto più autorevoli colleghi generali a ‘tre stelle’, astretti ad un rigoroso rispetto del Regolamento di Disciplina Militare, che La colloca al vertice della gerarchia militare, mai oserebbero farLe rilevare l’inadeguatezza delle Sue mise».
Questo non vale per Lenzi, “libero da ogni vincolo gerarchico”: la avverto, caro Ignazio, affinché «il silente, e ben celato, dissenso delle attuali gerarchie militari, per la Sua sportività, non La induca a ritenere approvata, e men che mai condivisa, ogni Sua estemporanea,
e poco confacente, scelta esteriore». La fine della missiva è anche più dura visto che, avvicinandosi alle ultime righe, il generale Lenzi ha pensato bene di dare una mazzata anche ai leghisti: «Lo sventolio del nostro amato Tricolore, ai venti delle terre straniere, lontano dagli affetti e dal caldo tepore della Madre Patria, costituisce profondo motivo per indurre gli animi di ‘noi’ militari a patire ogni contingente asprezza e tener alto il senso del Dovere e dell’Onore. Ed è per onorare quel vessillo che il Caporal Magg. Capo Gaetano Tuccillo, da Lei accolto oggi al suo rientro in Patria avvolto in un identico Tricolore, ha donato la sua vita all’Italia. Ed è per onorare quel vessillo (che, purtroppo, elevati ed inqualificabili esponenti di fede politica contigua alla Sua userebbero per nettarsi…) che La prego di voler conferire, alle cerimonie militari cui parteciperà, quell’austerità, anche formale, che, nelle polveri afghane, Ella ha involontariamente offuscato».
Adesso che è “brutto, sporco e cattivo”come uno studente dell’Onda, al povero La Russa si ricorda volentieri un suggerimento che Mario Melloni, alias Fortebraccio, diede all’allora direttore de Il Giorno Gaetano Afeltra. S’era nel 1974 e il senatore missino (ed ex generale) Gino Birindelli sfidò a duello il giornalista per un pezzo che non gli era piaciuto: la scelta dell’arma spetta allo sfidato, scrisse l’amico, «e noi caldamente ti consigliamo il trombone».
Una lettura al giorno
Un racconto sull’educazione sentimentale di una donna perfetta, a cui spettava un futuro radioso
Gli amori di Jolanda di Pier
Mario Fasanotti
Era come una giardiniera: sradicava le male piante, le gettava nei terreni limitrofi e rassodava cosĂŹ bene la sua proprietĂ che non si notava una grinza... pagina I - liberal estate - 6 agosto 2011
una lettura al giorno l nonno di Jolanda morì sulla poltrona a fiori gialli dove faceva lunghe sieste pomeridiane. Una bava schiumosa e tendente al rosa sporco gli colò dalla bocca. Ogni giorno verso le due pomeridiane, dopo un lungo e filosofico sospiro, abbassava le palpebre, e non scostava mai la pipa che probabilmente s’incastrava alla meraviglia in uno spazio gengivale tra un dente finto e uno vero. Mocassini morbidi ai piedi, mai le pantofole. Si era ucciso con una mistura di barbiturici e tranquillanti. Quel giorno non aveva aperto il giornale, rimasto incastonato tra i cuscini e il bracciolo. Poteva sembrare, a prima vista, un elegante uomo di terza età in attesa che la hostess gli porgesse il whisky sul vassoietto di prima classe. Nessuno, nemmeno molti anni dopo, riferì a Jolanda il funebre scandalo. In famiglia tutti volevano la sua felicità. Tutti, ciascuno in maniera diversa, zampettavano attorno al suo futuro con affettuoso accanimento emotivo. Di lei parlavano di continuo, gettandola in una stagione che doveva essere serena, anzi radiosa. E così il suo tempo non ancora vissuto veniva tagliato a fettine, smembrato come carne fresca di bue. Il sorriso prematuramente ebete di Jolanda era la riconoscenza che ogni familiare si aspettava, a conferma. Il nonno però si staccava dal gruppetto degli adoratori della piccola con destino fulgido.Dava sempre la fastidiosa impressione di pensare cose diverse nello stesso momento. Prima di appisolarsi sullo scivolo che lo portò al sonno ultimo, immaginò la morte come il fattorino di un fioraio che sbaglia indirizzo, non ricorda più dove andare e rimane per strada stringendo tra le dita garofani inutili. In attesa del nulla, senza fiori e senza donne, fece un inventario. Della moglie ricordò le mani secche, poco adatte all’amore coniugale. Della figlia la schiena ossuta e le cosce piene e morbide: due morfologie emotive che mai erano riuscite ad accordarsi. Del genero ricordò i piedi lunghi e i suoi passi nervosi nella casa grande: quell’uomo, ingegnere, esplorava l’appartamento come se fosse in un cantiere edile e faceva perdere tempo a tutti. Della cameriera Teresa il sedere stretto e sodo: sua moglie l’aveva mandata via soltanto dopo due settimane, a lui era rimasto un corposo rimpianto. Gli era venuta l’idea della morte in mezzo a un sorriso. Si era preparato il caffè in cucina ed era caduto un cucchiaino. Un’altra Teresa l’aveva raccolto e, nel piegarsi, gli aveva offerto l’immagine più spudoratamente sincera della gio-
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ventù. Lui l’aveva accarezzata con molta delicatezza. Lei: «Stanotte l’aspetto». Fu in quel momento che aveva sorriso, stancamente, e aveva pensato: «Anche quando un bel culo ti fa ridere vuol dire che è proprio finita». Gli era parso, prima di morire, di sentire il profumo di Jolanda: ne lasciava sempre delle nuvole in giro quando s’apprestava a uscire, pronta agli applausi che tutti in casa, salvo lui, le pronosticavano. Ma forse era solo il profumo dei fiori che il fattorino con la faccia delusa teneva tra le mani. Il destino del nonno somigliò a quello della nipote. Questo malgrado padre, madre e nonna si fossero cimentati, senza mai vagare in un dubbio, nel gioco del rovescio. Il gioco era paragonabile al cerchio del ricamo sul quale si posavano le mani secche della nonna quando non era affacendata nell’impastare torte di mele. Consisteva nel tramutare i difetti di Jolanda in virtù esagerate.
dal profumo di torte. Ad ascoltare la versione di Jolanda c’erano la madre e la nonna. Il padre obbediva all’irrequietezza dei piedi, lungo il corridoio. Jolanda aveva sempre ragione, nessuno confutava i suoi racconti, minuziosi fino a diventare talvolta scabrosi: «Eh, tanto siamo in famiglia…». E così scattava il teorema: quell’amore non era finito per la sempli-
suno avrebbe notato alcuna grinza. Da questa operazione usciva come depurata da erbe esotiche. Partecipava ai pomeriggi col the e le torte, rideva col cuore leggero dei suoi amori. Amarezze? Mai: diventavano fantasie svagate, occasioni di battute, anche salaci. Le amiche, tutte bene educate, davano l’illusione di crederle. A parte alcuni giochi iniziali,
cui la nipote non poteva che emergere. Sospirò, preparando una torta, che l’amore doveva essere una cosa lunga e non «un pasticciare sotto le gonne, chissà poi in che posto». Il padre concluse che sarebbe stato «un buon investimento», senza specificare se per la figlia o in base al mercato immobiliare. La madre si limitò ad assentire, con un velo di personalissi-
petardi mai esplosi davvero, il primo candidato-uomo fu Luciano. Era di agiata famiglia napoletana e lavorava in banca come responsabile del servizio titoli. Aveva una caratteristica comune con gli altri che vennero dopo: pur avendo superato i quarant’anni viveva con la madre vedova. La presenza di Luciano provocò grande agitazione, anche finanziaria. I genitori di Jolanda le comprarono una mansarda, ovviamente poco distante da casa. Fece grandi pressioni la nonna, di vedute larghe in materia sessuale: altro settore in
mo rimpianto: l’ingegnere a letto russava e basta.
La giovane che talvolta socchiudeva la boccuccia come un idiota, quando terminò gli studi in Lettere classiche, si sentì come una statua di marmo: finalmente perfetta dopo tante levigature. Mancavano solo la corda e chi la tirasse, così che questo obelisco femmina dominasse dall’alto la piazza del mondo. Il futuro marito di Jolanda era disegnato come colui il cui compito principale era di tirare la fune. «Chances?» rideva la nonna che si vezzeggiava col francese e con frasette sabaude (era nata a Torino). «Ne hai da vendere, tu!». E con quel «tu» esprimeva il suo paziente disappunto per il genero che con le amiche più intime definiva «un bugianen», ossia un mollaccione. Alla nonna non dispiaceva invecchiare: più passava il tempo e più vedeva sbocciare la nipote, i cui
Quell’amore non era finito per la semplice ragione che non era mai nato. Gli uomini, cui si dava sempre torto, venivano però salvati come razza necessaria talenti brillavano come un risarcimento. Jolanda cominciò a cercare l’uomo della propria vita. Inevitabilmente si imbattè in tanti uomini: tutti magnifici all’inizio, e tanto meschini alla fine. Il tramonto di un amore, sempre in base alle regole del rovescio, veniva discusso nel tinello, impregnato giorno e notte
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ce ragione che non era mai nato. Gli uomini, cui si dava sempre torto, venivano però salvati come razza necessaria. Per la rinascita di Jolanda non occorrevano tempi lunghi. La ragazza si comportava come una giardiniera: sradicava le male piante, le gettava nei terreni limitrofi e rassodava così bene la sua proprietà che nes-
Luciano, dopo tre settimane di nervoso corteggiamento, si recò in mansarda. Salendo i gradini fino al settimo piano (l’ascensore arrivava fino al sesto), pensò a due cose. La prima: il sedere di Jolanda era un po’ troppo tondo e molliccio per i suoi ventiquattro anni. La seconda: dopo aver sentito con fastidio gli oltre dieci cinguettanti «grazie» di Jolanda rivolti al cameriere del ristorante, ebbe il sospetto che quella sera si sarebbe «fottuto ‘na scema». Il nido al settimo piano era stato pulito da cima a fondo dalla nonna, che aveva lasciato sul tavolo del cucinino una torta. Jolanda accavallò le gambe sul divano rosso e cominciò a parlare delle sue ricerche universitarie. Gorgheggiava. Luciano
apprezzò poco le chiose alle Enneadi di Plotino e dopo un quarto d’ora allungò le mani. Percorso facile, tuttavia quando aumentò l’intimità di corpi, Jolanda non dette un taglio ai suoi discorsi accademici. Un bacio più lungo del solito riportò il silenzio nella mansarda. Quando Luciano sperò che la sera si sarebbe forse salvata, lei si scostò bruscamente, si
alzò e disse: «Adesso facciamo una doccia». Il bancario ovviamente immaginò una variante erotica. Cominciò a sfilarsi la camicia ma venne bloccato. Jolanda, con tono perentorio, spiegò che «la doccia insieme è quanto di più volgare possa accadere». «E perché mai?» chiese allibito Luciano. Lei espose allora la sua versione igienica del mondo: ogni uomo doveva sottostare all’obbligo della doccia almeno quattrocinque volte al giorno. «Anche la donna, presumo» s’azzardò a dire lui. «Ovviamente».
I bottoni della camicia frettolosamente tornarono dentro le asole. Non se la sentì. Non tanto di fare quella sera almeno due docce, ma di frequentare una donna per la quale l’universo doveva assolutamente essere inodore. Si alzò, s’infilò la giacca e le disse: «Dovresti fare come me. Stare in compagnia dei computer: quelli non puzzano mai
e rispondono sempre ai tuoi comandi». Dopo Luciano fu la volta di un architetto. I genitori di Jolanda gli rimproveravano di guidare una macchina giallo-canarino, a due posti. E poi aveva un tic: si toccava frequentemente il naso. La madre, abile nello scovare informazioni, dette la botta fatale: «Non è architetto, bene che vada è geometra». La nonna alzò gli occhi dal ricamo: «Tuo nonno non aveva la laurea, però…». Poi s’abbuiò, pensando alla servetta Teresa. Altri uomini entrarono nei discorsi del tinello odoroso di cannella e di vaniglia, ma non sostarono che pochi giorni. Poi comparve Anselmo, che scatenò la voglia di fare progetti. Era ricchissimo, lavorava in Borsa, e possedeva una Mercedes nera. Fu Jolanda ad andare da lui, non viceversa: il suo «raffinatissimo appartamento privato» declassò all’istante la mansarda. Anche in quella occasione lei discettò su Plotino e lui, finanziere colto, ripiegò sia pure con qualche inciampo sui prosatori del Seicento italiano. Il nuovo fidanzato non mostrò mai alcuna fretta d’usare le mani, preferendo dedicarle alle sue pipe, tutte rigorosamente fredde visto che Jolanda aveva premesso che l’odore del tabacco le avrebbe ricordato troppo il nonno. Quindi la morte. Durante una di quelle sere senza sudore, parlarono inaspettatamente di matrimonio. Sorriso lontano di lui,
«Chi era? Gliel’hai chiesto, mamma?». «Non ce n’era bisogno: era giovanissima e puttana». «Il mondo è pieno di avventurieri» commentò il padre entrando e uscendo dal soggiorno. Nella vita di Jolanda, per un certo periodo, seguitarono ad avvicendarsi delle comparse. Nessuno dei candidati pareva avere la stoffa del primo attore. I the pomeridiani della nonna si riempirono di sospiri, tutti rivolti a un mondo «che una ragazza così non merita di certo».
Po i c o m e u n t e m p o r a l e arrivò Dario. Era psicoanalista, si era separato dalla moglie e pure dall’ex compagna. S’incontrarono in una gelateria del centro, lui guardò a lungo gli occhi di Jolanda, attratto dalla loro «liquidità» e tra sé arrivò alla diagnosi: «quella» aveva una prepotente carica di sensualità. Nascosta. A sorreggere la sua tesi fu anche il movimento della lingua che passeggiava come una lumaca sulle labbra sporche di pistacchio e di crema. Faceva tuttavia fatica a sopportare quei gorgheggi da sciocchina con laurea. Esperto di anime contorte e di fissazioni altrui e ritenendosi bravo nello scovare pertugi e scorciatoie, decise di andare per le spicce. L’ebbe nel suo letto in una camera d’albergo di Zurigo, tappezzata di nonti-scordar-di-me azzurri. Jolanda, che aveva sempre im-
congresso psicoanalitico che era stata l’occasione del viaggio zurighese, gustava di buon grado le zuccherose banalità della sua occasionale compagna. Faticava tuttavia a restare in silenzio, seduto sulla poltroncina accanto alla finestra della hall: un’abitudine cui non voleva rinunciare. «La Svizzera è proprio come un orologio» disse Jolanda prima di cena «e noi due siamo le lancette: tic-tac, tic-tac, tic-tac». Per l’intera serata non smise mai di pronunciare «tictac». Anche guardando le gote rosee della cameriera. Appena in camera, lui manovrò la cerniera della gonna. «Vuoi fare tic-tac? Ancora tic-tac?», e in modo lezioso mimò con le braccia il movimento delle lancette. Quando si accorse che la gonna s’era appallottolata sulle caviglie, esclamò un cinematografico «oh!», con la mano accostata alla bocca aperta. Poi aggiunse: «Per fare tic-tac ci vuole una bella doccia. Comincio io, poi tocca a te». E sparì nel bagno. Dario si addormentò vestito. Si svegliò alle quattro del mattino, si sedette sulla poltrona color topo e aspettò pacatamente l’alba. Sul treno diretto in Italia, Dario frugò nel suo armamentario dottrinale la spiegazione di un fallimento. Pensò che Jolanda non riusciva a offrirsi liberamente, né a se stessa né agli altri, perché la chiave che apriva le sue stanze ammuffite, simili a un magazzino tea-
Jolanda non riusciva a offrirsi liberamente perché la chiave che apriva le sue stanze ammuffite, non era la tenerezza. Era la violenza
cinguettio di lei. Un giorno Jolanda ebbe le chiavi dell’«appartamento privato». Un pomeriggio ci andarono i genitori. Per curiosare, anzi «per guardare da vicino» il futuro della figlia. E rivolsero molte domande al portinaio. Un giorno il finanziere annunciò un lungo viaggio all’estero e si fece consegnare le chiavi, senza dare alcuna spiegazione. Uno scacco per Jolanda. Un pomeriggio sua madre compose il numero telefonico di Anselmo. Rispose una voce di donna.
maginato l’amore come a una specie di tortura, rimase sorpresa della straordinaria leggerezza di un corpo maschile. In ogni caso fu più contenta di ciò che «perse» che di ciò che guadagnò, considerando la verginità simile a due pagine di testo classico non ancora liberate dal tagliacarte. Per una buona mezz’ora fissò con aria da beota i fiorellini dell’interno svizzero. Dario, le volte successive, tentò di accompagnarla nel mondo delle fantasie, non propriamente quelle letterarie. Ma lei recalcitrò, fraintese. Da una parte puntava l’indice verso cime e boschi della zona dove facevano lunghe passeggiate, dall’altra esigeva soavi dichiarazioni d’amore. Dario, dopo noiose ore passate al
trale, non era la tenerezza. Era la violenza. Prima di appisolarsi con un giornale tra le mani, si disse che non valeva la pena esplorare le potenzialità della ragazza. Dopo la gita svizzera tornò dalla sua ex compagna. Sulla quale i genitori di Jolanda, appena saputo tutto, riversarono le colpe più immonde. Quanto al battesimo sessuale della figlia, forse perché avvenuto nel Paese delle cliniche sterilizzate e a pagamento, venne considerato alla stregua di un’asportazione di cisti, necessaria per migliorare lo stato complessivo di salute. Il dieci di marzo tirava un vento fortissimo. «Sei così scarmigliata - le disse la madre - che sembri felice, come nei film». «Hai indovinato - ridacchiò lei - mi sposo».
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una lettura al giorno Nel tinello il profumo delle torte si mischiò a quello dei confetti. «Sulla lingua sento già il sapore di mandorle» commentò sorniona la nonna. Poi abbassò il mento, pensando che quel sapore era amaro. La famiglia fece qualche ritocco all’appartamento di quattro stanze che mesi prima dell’evento si aggiunse alla dote della mansarda. «Un investimento che era da idioti lasciarsi scappare»: il commento del padre. I genitori partirono per Pisa, dove Jolanda aveva da tempo a disposizione un bilocale, a causa universitario. dell’impegno «Dobbiamo disinfettare tutto» decise la madre. Ma l’operazione non fu fatta in loco. Tornarono con la macchina piena di lenzuola, coperte, piatti, tazzine, posate. Tre giorni dopo ripartirono per Pisa con lo stesso carico, «finalmente pulito».
Il matrimonio con Marzio fu celebrato a fine maggio. Lo sposo, ingegnere di 46 anni, aveva un’aria estremamente mite. Era sempre vissuto con la madre. La nonna di Jolanda: «Cocca, hai trovato un angelo». Poi, prima di addormentarsi, si domandò con stizza se anche le dita degli angeli scivolassero sui fianchi alle serve. Firenze fu la prima e unica tappa del viaggio di nozze. Si sistemarono in un vecchio palazzo a Borgo Santo Spirito, dalla cui loggiata si ammiravano i tetti e spicchi di cupole. A due passi il Ponte Vecchio. Occuparono le sere a parlare, dopo un’insoddisfacente - per entrambi - prova generale di intimità fisica. La voce di Jolanda suonava stridula al minimo accenno di riflessione: «Caro, abbiamo tutta la vita!». Marzio, che aveva sempre nutrito una subdola paura verso le donne, sorrideva storcendo le labbra. Quando la moglie era in bagno per le sue frequentissime e regolarissime docce, si sorprendeva a fissare un angolo della stanza dove gli pareva si annidassero tutte le domande su di sé e sul mondo. Chiusa la parentesi fiorentina, gite comprese nel circondario, andarono a occupare l’appartamento di quattro stanze. A poco a poco la loro vita in comune si collocò sui binari tracciati da Jolanda. Raggiunta la condizione di donna sposata, si sentiva autorizzata ad agire e a parlare come donna autoritaria. Nel farlo, però, avvertiva l’amaro delle mandorle in bocca. Il carattere remissivo di Marzio l’annoiava segretamente. Certe sere le sembrava di vedere i fiorellini azzurri della camera d’albergo a Zurigo. Cominciò ad avere timore dei propri ricordi. Fu comunque lei a dettare tutte le regole di quella che chiamava «la settimana felice». Si alzavano alle sei in punto, facevano a turno la doccia poi tornavano a letto ancora con l’accappatoio e Marzio portava il vassoio della
colazione. A lui era impedito parlare perché Jolanda era convinta che «la giornata si prepara in silenzio». Il marito usciva dopo aver lavato le tazze del caffè e averla aiutata a rifare il letto. Con le finestre completamente spalancate. Verso le sette di sera Marzio citofonava ai suoceri e aspettava la moglie davanti al portone. Rientrati a
Se lui si avvicinava al corpo della moglie, e lo faceva sfiorandole un piede o una gamba, con timidezza, lei alzava un braccio, come un arbitro di calcio: «No, no, per nessuna ragione al mondo si deve rinunciare alle otto ore di buon sonno». Marzio cominciò ad associare l’intimità coniugale all’odore del borotalco. Che poi era l’unico a disposizione della sua memoria. Quella polvere bianca e mentolata assurse a poco a poco a simbolo della diffidenza verso «le donne perbene». Dopo il divorzio riprese a frequentare le ragazze di strada. A tutte era solito dire «ma quanto ti voglio bene!». Le trattava con estrema gentilezza, loro apprezzavano un po’ stupite. Per un’ora, o addirittura una serata intera, si gustavano l’emozione di «fare le signore». Una di loro, già sulla quarantina, disse uscendo da un ristorante: «Tu sei come un vecchio sogno». Il matrimonio di Jolanda durò due mesi e dieci giorni. Durante quel periodo, Marzio ascoltò senza fiatare i rimproveri della madre: «Ogni volta che ti vedo, e mi capita ormai di rado, mi sembri un pugile che ha perso l’incontro». La rottura definitiva era arrivata senza emozione. Era andato ad aspettarla sotto
Faceva caldo, lei indossava sandali con cinghie e tacchi robusti, gonne strette e biancheria severa. Un operaio con occhi mediorientali cominciò a fissarla... casa era la volta dei «racconti importanti». Preparavano insieme la cena. Mangiavano sempre in cucina. Poi sparecchiavano urtandosi continuamente, lui lavava i piatti, lei fumava l’unica sigaretta della giornata e appena spento il mozzicone correva in bagno a lavarsi i denti. Mentre Marzio sfogliava il giornale, Jolanda si metteva sotto la doccia, poi si cospargeva il corpo con il borotalco e alla fine si coricavano a letto dopo aver acceso il televisore piazzato sul cassettone di noce. Ovviamente Marzio doveva fare «un’altra doccia lunga», all’incirca venti minuti «visto che sei stato in cantiere». Le mani di Jolanda strimpellavano sul telecomando. Cambiava canale in continuazione. Mai una volta un film o un telefilm fu visto per intero.
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la casa dei suoceri e le aveva detto: «Da questa sera ceni e dormi da sola perché io me ne vado. Il tempo di riempire le mie valigie».
« T u se i d i v e n t a t o m at t o ! » . «E tu sei una merda di donna» rispose lui con estrema calma. Nel tinello delle torte tutti, persino il padre con i piedi vaganti, cercarono una definizione adatta al caso. Alla fine fu trovata: «Jolanda ha sposato un pazzoide». Poi fecero grandi e inutili pulizie nella sua «cameretta da ragazza», ma lei li deluse annunciando che sarebbe andata a vivere in mansarda. «D’accordo - ingoiò il padre - ma bisogna fare dei miglioramenti. Sarà un buon investimento anche per te, mia cara». Fu un via vai di operai. Era fine luglio e Jolanda non aveva impegni accademici se non quello di completare una ricerca in attesa di incerte vacanze. Faceva caldo, ma indossava sempre sandali di pelle con cinghie e tacchi robusti, gonne strette e biancheria severa. Un operaio con occhi mediorientali cominciò a fissarla. Lei se ne accorse e avvertì il peso e lo sporco di una carezza sfrontata. Tuttavia non faceva nulla per evitare di sottrarsi a quelle sbirciate. Guardava anche lei, senza farsi accorgere: la nuca coperta di riccioli, la linea scura che bagnava la camicia a scacchi macchiata di calce. Un giorno il muratore si girò di scatto. Gli sguardi si incrociarono. Una se-
ra lui tornò dopo le sette, aveva dimenticato un utensile. «Guardi sotto quel calorifero» le disse con tono di comando. Jolanda non obiettò e docilmente si mise in ginocchio. I corpi si avvicinarono, a lei piacque la polvere del pavimento e l’odore dell’uomo ancora sudato. Per la prima volta aveva urlato gioiosamente senza fissare nulla in particolare. Non si mosse quando lui, sulla porta, promise: «Domani alla stessa ora». Con l’arrivo dell’autunno Jolanda tornò a Pisa, dove aveva ottenuto un incarico universitario. Aveva quasi smesso di fare la doccia e si lavava raramente le mani. Un pomeriggio di febbraio la portinaia cacciò un grido prima di portare le mani alle tempie. Sul collo bianchissimo e morbidissimo della «professoressa» c’erano segni bluastri. Il cadavere non aveva alcun indumento. Il commissario toscano comunicò al padre della vittima che Jolanda, come da testimonianze, «aveva iniziato a frequentare brutte compagnie». «A me non consta» rispose gelido. Nella casa che pareva ruotare attorno al tinello, il lutto durò due vecchiaie. La madre si chiuse in una solitudine muta e disperata. La nonna morì qualche settimana dopo la nipote, per un attacco di cuore. La trovarono nella stessa poltrona a fiori gialli in cui diversi anni prima suo marito aveva deciso di uscire di casa senza mettersi cappotto e cappello, per dispetto.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach
ACCADDE OGGI
L’Enola Gay bombarda Hiroshima 1945, gli Stati Uniti chiudono la II Guerra mondiale. E il Giappone si ritrova in ginocchio l mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16, l’Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica ”Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno ”Fat Man” su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100.000 a 200.000, quasi esclusivamente civili. Per la gravità dei danni diretti ed indiretti causati dagli ordigni, e per il fatto che si è trattato del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi, i due attacchi atomici vengono considerati fra gli episodi bellici più significativi dell’intera storia dell’umanità. Il ruolo dei bombardamenti nella resa dell’Impero giapponese, così come gli effetti e le giustificazioni, sono stati oggetto di innumerevoli dibattiti. Negli Stati Uniti prevale la convinzione che i bombardamenti atomici siano serviti ad accorciare la Seconda guerra mondiale di parecchi mesi, risparmiando le vite di milioni di soldati (sia alleati sia giapponesi) e di civili, destinati a perire nelle operazioni di terra e d’aria nella prevista invasione del Giappone. In Giappone, l’opinione pubblica, invece, tende a sostenere come i bombardamenti siano crimini di guerra perpetrati per accelerare il processo di resa del governo militare giapponese. Universalmente condivisa è comunque la presa di coscienza della gravità dell’evento, che non è più stato replicato.
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Europarlamentari italiani: stipendi da proporzionare all’assenteismo Caro direttore le scrivo per segnalare alla sua attenzione che – come italiani – abbiamo anche conquistato, non certo con fatica, il primato negativo, insieme agli storici scettici inglesi non “euro-dotati”, delle presenze dei nostri eletti alle sedute del Parlamento europeo. Chi ha dimestichezza con la Rete, può visitare il sito www.votewatch.eu, dove è possibile monitorare le frequentazioni alle sedute plenarie degli eurodeputati nell’Aula di Bruxelles, Paese per Paese e nome per nome. E le debbo dire, caro direttore, che c’è quasi da vergognarsi di essere italiani. Sui 736 eurodeputati, in rappresentanza dei 27 Paesi membri, dei nostri 72 solo 3 risultano essere sempre presenti ai lavori del Parlamento europeo, mentre gli altri… Neanche a dire, lo stipendio però a fine mese lo percepiscono tutti al 100 per cento (sempre soldi nostri, ovviamente), e non certo in funzione delle presenze, o meglio delle… non presenze o assenze. Onore invece va all’Austria, i cui rappresentanti risultano essere i primi della classifica dei presenti, con una percentuale del 92,71, seguiti da quelli del Lussemburgo, Finlandia, Estonia, Malta, Portogallo e Germania. Conclusione molto amara. Ma i nostri Eurodeputati – se si affannano tanto per essere eletti – perché poi non partecipano assiduamente, come si conviene a persone serie e oneste, ai lavori del Parlamento europeo, considerate anche le cose importanti e decisive che si discutono e si deliberano, spesse volte anche senza il nostro contributo? La prossima volta, prima di votare, sarà bene pensarci a modo su chi mandare a rappresentarci a Bruxelles.
Angelo Simonazzi
CRISI REALE O VIRTUALE? Siamo in un periodo storico in cui le economie sono sempre più interdipendenti l’una dall’altra, ma è realmente così? Se per economia intendiamo quelle materiali ed immateriali l’analisi non è corretta, ciò che allo stato è interdipendente sono le economie finanziarie legate alle speculazioni internazionali. Il dato che deve fare riflettere attiene al debito pubblico dei paesi come Italia,Grecia, Portogallo, ed in questi giorni anche gli Stati Uniti d’America. Tutti sembrano o sono sembrati a rischio default, ma è realmente così? Possono fallire gli Stati, o sono situazioni ad hoc create per fare cassa ed aumentare la liquidità per fare fronte alle crisi finanziarie basate su meri titoli cartacei? Tagliare i servizi e la cultura, è una scelta lungimirante? Credo di no. Costruire uno Stato non bloccato su rendite di posizione, è l’inizio dello svecchiamento di uno Stato apparato improduttivo e famelico, in una situazione di crisi economica reale o virtuale non si tagliano le spese sociali ma si aumentano le tassazioni a carico di quelle classi sociali più benestanti senza comprimere le spesa e le economie di mercato. La recente finanziaria non va in questa direzione, essa è una finanziaria tecnocratica e lontana dalle reali istanze
L’IMMAGINE
Surfista a quattro zampe “Ma chi me l’ha fatto fare”, starà pensando la gatta appollaiata sulla tavola del suo proprietario, il surfista peruviano Domingo Pianezzi. Qui cavalcano insieme le onde davanti alla spiaggia di San Bartolo, a Lima, in Perù. L’atleta è convinto che la micina abbia un’innata passione per il surf. Basta vedere come riesce a mantenere perfettamente l’equilibrio, senza mai cadere in acqua. Anche se un’altra spiegazione possibile potrebbe essere che abbia talmente paura di bagnarsi che si aggrappa con gli artigli alla tavola, unico posto asciutto nei dintorni
dei cittadini, non ha in sé elementi per rilanciare l’economia per creare nuova occupazione, per costruire nuove linee guida per lo sviluppo. La crisi delle economie occidentali prima che economica è etica e di carattere morale. Negli ultimi 30 anni, molti diritti conquistati dai lavoratori sono nei fatti stati smantellati con la scusa della flessibilità economica e del lavoro, slegandoli, dalla flessibilità introdotta, da ogni forma di tutele e garanzie per i lavoratori. Se essi venissero considerati non come merce ma elementi attivi di un’impresa viva, tali politiche non avrebbero preso piede; fino a quando il lavoratore non sarà considerato una risorsa da valorizzare e non un risorsa da sfruttare, le politiche internazionali non vedranno cambiamenti di rotta. Il limite delle politiche europee ed Italiane risiede nella cattiva gestione delle criticità sociali, nella corruzione, e mancata azione di investimenti nelle politiche familiari e dei giovani. Il sud in questo stato di cose non può che in una visione leghista del problema essere abbandonato a se stesso, senza un piano decennale per il rilancio delle infrastrutture, del turismo, della “tremontata” Banca del Sud ed il piano casa.
Luigi Ruberto P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
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mondo
Le forze di Bengasi assicurano che tra le vittime del raid Nato a Zliten ci sarebbe anche il giovane rampollo del Colonnello
La seconda ”morte” di Khamis Continua la strana guerra libica, senza un vero fronte e senza un reale schieramento sul campo. Tripoli punta sulla propaganda e gli oppositori continuano l’offensiva. La Nato fa quello può, ma non mancano le vittime tra i civili a narrazione di una guerra ha bisogno dei suoi feticci. In Libia non serve costruirli a tavolino, la realtà ne regala in abbondanza e anche sanguinari.Tra questi c’è il giovane rampollo di casa Gheddafi, Khamis. Ieri i ribelli di Bengasi l’hanno dato per morto, ma non è la prima volta, era già successo il 20 marzo. La Nato ha confermato di aver condotto la notte scorsa due incursioni aeree sulla località libica di Zliten, 150 chilometri a est di Tripoli, ma nega che fra gli obiettivi ci fosse il figlio del rais, detto anche «il massacratore». E anche Tripoli afferma che la morte del giovane ufficiale sia un’invenzione dei ribelli. «Tristi menzogne destinate a nascondere la morte di civili in una città pacifica», recita così infatti la smentita del portavoce del governo di Tripoli, Moussa Ibrahim. La notizia della morte del figlio di Gheddafi era stata annunciata ieri mattina dai ribelli, citando fonti dei propri servizi segreti. L’Alleanza nel proprio comunicato specificava di aver colpito un deposito munizioni dentro la città e un comando della polizia militare nei pressi della linea del fronte, ma non ha confermato la notizia della morte di Khamis: «Non prendiamo di mira degli individui in particolare e esaminiamo con attenzione ogni rapporto su eventuali vittime civili», ha riferito un portavoce militare della Na-
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di Pierre Chiartano to. Insomma, se è morto è stato per un accidenti e non perché diventato un obiettivo dell’Alleanza atlantica, che da quelle parti ha già abbastanza problemi di credibilità.
Secondo fonti ribelli il 28enne Khamis sarebbe fra le 32 vittime delle incursioni della Nato: ufficiale di carriera, diplomato all’accademia di guerra russa, Khamis Gheddafi comandava una delle brigate d’elite dell’esercito libico e dirigeva le operazioni sul fronte di Zliten. Giovedì Zliten è apparsa deserta, con i negozi chiusi, mentre risuonavano ogni pochi secondi i colpi di artiglieria, testi-
monianza del duello in corso a pochi chilometri di distanza: secondo i locali, la linea del fronte è a circa 10-15 chilometri ad est dal centro cittadino, sulla strada che porta verso Misurata. Se confermato, non sarebbe la prima volta che un attacco della Nato in Libia provoca vittime civili: nel mese di giugno, la Nato ha ammesso di aver distrutto una casa a Tripoli in cui gli uomini di Gheddafi hanno detto sono morte 9 persone; e poco dopo il governo libico ha denunciato la morte di altri 20 civili in un bombardamento mirato su un uomo vicinissimo a Gheddafi. Ma il regime non è assolutamente affidabile come fonte. Incidenti
I ribelli l’hanno dato per morto, ma il figlio più giovane del raìs era già stato spacciato per morto il 20 marzo
che ovviamente minano l’appoggio a una campagna di cui non si vede la fine. Al funerale dei bambini con la loro madre, c’era in lacrime anche il fratello della donna, Abubakr Ali. «Era una casa di civili: niente truppe, niente soldati, nessun uomo di Gheddafi. Era una famiglia che dormiva tranquilla a casa propria: questa è la protezione dei civili», ha detto Ali alla Cnn, in chiaro riferimento alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha autorizzato l’uso della forza in Libia per proteggere i civili.
Ma chi è il figlio più giovane della progenie del colonnello? Quando in Libia sono scattate le proteste, Khamis si trovava negli Stati Uniti per uno stage, esattamente a Los Angeles, all’interno di Aecom, società internazionale di ingegneria e design che tratta anche con la Libia. A metà febbraio però Khamis ha deciso di interrompere il suo stage e fare rientro in Libia per guidare la repressione nei confronti dei ribelli, a capo della 32esima Brigata, conosciuta anche come Brigata Khamis, una delle unità scelte dell’esercito libico e una delle più temute. A fine marzo la società Aecom aveva diffuso un comunicato per spiegare – e soprattutto prendere le distanze dal giovane rampollo libico – che «lo stage formativo era in linea con l’im-
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La coalizione spera nella ”minore attenzione” dei lealisti per il Ramadan a prima settimana di agosto, e del Ramadan, si conclude con altri dubbi per la guerra in Libia. La prima incognita riguarda la morte dei uno dei figli di Gheddafi, Khamis. Un attacco aereo dell’Alleanza atlantica avrebbe anche colpito un centro operativo del regime a Zliten – sul mare, a 60 chilometri da Misurata – uccidendo l’illustre parente del colonnello insieme ad altre 32 persone. Va detto subito che nemmeno il primo ministro del Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt), Mahmud Jibril, si è voluto esporre sulla questione. Poco chiari restano, però, anche i risultati degli ultimi bombardamenti e delle operazioni di terra.
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Proseguono senza sosta infatti i raid della Nato su Tripoli, dove nella notte si sono registrate dieci esplosioni nel quartiere a sud est della capitale. La televisione di Stato ha segnalato che alcune località civili e militari, a Khellat alFerjan, sobborgo sudorientale dellla città, sono state obiettivo di incursioni «dell’aggressore colonialista crociato». Le forze straniere starebbero approfittando del presunto livello di bassa attenzione, da parte dei lealisti a causa del Ramadan, per piegarne il morale e limitarne la capacità operativa. Sul terreno, intanto, continua l’offensiva dei ribelli che hanno sabotato un oleodotto nella regione del Djebel Nefussa, a est di Tripoli, il quale alimenta l’unica raffineria ancora in attività nel Paese. Secondo quanto riporta il sito locale al-Manara, vicino ai gruppi dell’opposizione la struttura era l’unica a rifornire di gas i fedelissimi del colonnello. Il fatto che, negli ultimi giorni, gli abitanti della periferia di Tripoli, abbiano denunciato continui blackout elettrici fa pensare che l’installazione sia rimasta effetti-
Gheddafi resiste e contrattacca Ancora missili contro le navi occidentali: ieri sparati “circa 20” contro i britannici di Antonio Picasso vamente colpita, almeno qualche giorno fa.Tuttavia, dall’entourage di Gheddafi non è giunta alcuna manifestazione che possa far pensare a una messa in stato d’assedio della capitale del Paese. Al-Manara, per giunta, è la stessa fonte che ha diramato la notizia della morte di Khamis Gheddafi.Viene da pensare, a questo punto, che uno dei due soggetti sia costantemente in malafede. O i lealisti, oppure i media ribelli.
Dal canto loro, le forze di Gheddafi hanno lanciato una ventina di missili contro una nave britannica. A darne notizia è stato il corrispondente del Sun, David Willett, che si trovava a bordo dell’Hms Liverpool. Lo scherzo delle coincidenze è che i vettori lanciati dai libici siano i SEa Dart della British Aerospace. Il reporter ha sottolineato, comunque, che tutti i missili sono finiti in mare, senza provocare danni all’imbarcazione. Subito dopo l’attacco, la base del-
l’artiglieria del regime, basata proprio a Zlitan, è stata distrutta da un bombardamento di Apache, che si sono alzati in volo dalla connazionale Ocean. Il comandante della Liverpool, Colin Williams, 41 anni, si era detto pronto, in un primo momento, a rispondere al fuoco per legittima difesa, con i suoi cannoni da 4,5 pollici. Ma poi ha dichiarato: «L’artiglieria che ci ha sparato contro ora non c’è più, quindi abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. La squadra è rimasta calma e professionale, sono orgoglioso di loro». La Royal Nay, in questo momento si trova al massimo dell’o-
pegno dell’azienda sul miglioramento della qualità della vita, soprattutto in Libia, dove si stavano progettando alcune infrastrutture». La società, inoltre, si era detta naturalmente offesa e indignata per il ruolo di Khamis Gheddafi nella repressione.
Formatosi nelle accademie militari russe, e con studi in diversi Paesi europei, Khamis aveva il grado di capitano ed era responsabile del reclutamento e dell’addestramento di mercenari provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana. Khamis, il più giovane tra i sette figli maschi del rais, è stato spesso presentato dal regime come l’icona militare della rivoluzione, «il Muammar giovane». Per i ribelli è semplicemente «il macellaio». A tre anni, nel 1986, Khamis rima-
peratività. La sua missione è fornire supporto dal mare per i ribelli che si stanno avvicinando a Zlitan. Da qui la reazione degli uomini di Gheddafi, i quali pare che mantengano saldamente le posizioni nei confronti delle truppe ribelli. Dalla corrispondenza della Bbc si evince non solo la saldezza delle forze del rais nel tenere la linea di fronte fuori da Zlitan, ma anche la fiacchezza dei ribelli a causa del digiuno imposto dal mese sacro. Il tutto a dispetto di quel che pensa la Nato. Il successo navale, inoltre, non nasconde come in appena 72 ore i libici abbiano sfiorato con i loro missili due imbarcazioni dell’Alleanza, la Liverpool, che si era già trovata sotto tiro a maggio, e l’italiana Bersagliere tra martedì e mercoledì. Il problema, infatti, non è sull’efficienza delle forze occidentali, bensì sulle possibilità che gli uomini del comitato di Bengasi riescano a isolare le sacche di resistenza del rais. Va ricordata infatti la morte, appena una settimana
ne ferito nel bombardamento americano su Tripoli, a cui suo padre sfuggì e in cui morì una delle sue sorelle adottive. Ma è stato soprattutto il comandante della 32ma Brigata corazzata, conosciuta anche come Brigata Khamis, la più importante e temuta unità di elite dell’apparato bellico libico, che contava circa 10mila uomini, tra i quali molti mercenari stranieri.
Nelle fotine, Gheddafi (sopra) e il figlio Khamis (a sinistra). In alto, navi della coalizione occidentale. Nell’altra pagina, lealisti libici
La 32ma, che ha il suo quartier generale vicino Bengasi, era stata inizialmente schierata da Gheddafi a difesa di Tripoli, ma alcuni dei suoi uomini sono stati in seguito inviati in diverse aree del Paese per sostenere le forze governative nella lotta contro i rivoltosi. «Sono le unità meglio armate e col migliore equipaggiamento, armi individuali di fabbri-
fa, del generale Abdul Fattah Younes, ritenuto la vera mens cogitans delle operazioni militari in parallelo con quelle politiche del comitato di Bengasi. La sua uccisione è stata accolta con rammarico anche dai governi dell’Alleanza atlantica. Al momento, gli osservatori più ottimisti tendono a minimizzare la scomparsa del generale Younes. È innegabile, d’altro canto, quanto fosse stato apprezzato il suo gesto di schierarsi contro Gheddafi fin dall’inizio. Oggi la perdita di un militare di tanto carisma rischia di lasciare un vuoto pesante nella conduzione della guerra.
Da un punto di vista italiano, le nostre forze aeree e navali continuano le missioni assegnate per l’imposizione della No fly zone e dell’embargo. Il dispositivo della Marina Militare impegnato nell’operazione di blocco navale è assicurato da Nave San Giusto e dalla già nominata Nave Bersagliere, che dal 30 luglio ha sostituito Nave Euro. Il 2 agosto un C 130J dell’Aeronautica Militare ha riportato a Bengasi, quattordici cittadini libici che sono stati curati presso strutture ospedaliere italiane. L’iniziativa rientrava nell’ambito della cooperazione con il Ministero degli Affari Esteri per le operazioni umanitarie in favore della popolazione libica. Drammatica, infine, resta la situazione umanitaria degli sfollati. Sia di coloro che tentano di fuggire in Tunisia e che si accalcano ai confini occidentali libici, sia delle masse di profughi che provano ad attraversare il Canale di Sicilia. La Farnesina, a questo proposito, ha inoltrato una richiesta alla Nato per avviare un’indagine sull’ultima tragedia, nella quale ha perso la vita un numero imprecisato di persone e per cui si teme che una nave dell’Alleanza abbia omesso di fornire il proprio soccorso.
cazione tedesca Heckler e Koch, come il fucile d’assalto G3», ci spiega un esperto militare che vuole restare anonimo. «Sono anche le unità con la migliore dotazione finanziaria», aggiunge. Equipaggiamento di primordine e casse piene, sono questi i due segreti di queste formazioni che danno filo datorcere ai ribelli, di per sè già scarsamente combattivi. Khamis e le sue unità speciali hanno fronteggiato l’insurrezione sui fronti più caldi: sono loro ad aver represso la rivolta a Zawia, la città a una manciata di chilometri a ovest di Tripoli, e nella stessa capitale. Poi, la 32ma ha guidato la controffensiva libica portando i carri armati sino alla periferia di Bengasi, capitale degli insorti. Solo l’intervento della Nato ha impedito il «bagno di sangue» evocato dal rais.
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grandangolo Delhi sempre più spregiudicata sullo scacchiere internazionale
“Petrolio non olet”. E l’India lo compra da Teheran
Con una sostanziale indifferenza rispetto alle sanzioni e alle politiche della comunità internazionale, la Tigre asiatica firma contratti energetici con gli ayatollah e versa nelle loro tasche circa cento milioni di dollari. Washington assiste in silenzio, mentre Islamabad teme l’avanzata dell’odiato vicino, sempre meno incline al basso profilo di Antonio Picasso ella visione manichea dello scacchiere internazionale, l’India occupa un posto tra i “buoni”. Ovvero tra quei Paesi amici dell’Occidente, ai quali quest’ultimo si affida nel gestire le crisi e nel definire nuove alleanze. New Delhi, per questo, a differenza della Cina, ha saputo conquistarsi quella stima che può permetterle di aspirare a un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’India è una superpotenza emergente che, a differenza della sua grande concorrente cinese, non suscita paura. Questo le permette di definire strategie geopolitiche e perseguire interessi economici che, se realizzati da altri governi, susciterebbero non poco scalpore.
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Ne è un esempio la conclusione di un contenzioso che, appunto, l’India ha avuto con l’Iran. La National Iranian Oil Company (Nioc) ha siglato positivamente l’accordo per la ripresa della fornitura di greggio al colosso industriale indiano. Entro i prossimi cinque mesi, Teheran dovrebbe ricevere il pagamento di una prima tranche di cento milioni di dollari da parte della Mangalore Refinery and Petrochemicals Ltd. La somma sarà bypassata dalla Turkiye Halk Bankasi (Halkbank). Si pone fine così a una diatriba durata oltre sette mesi, per cui New Delhi, nel rispetto delle sanzioni imposte dal Palazzo di vetro all’Iran, aveva chiuso sia i rubinetti di petrolio quanto quelli finanziari con il regime. In
passato i quattrocentomila barili di greggio iraniano esportati in India hanno soddisfatto il 12% della domanda giornaliera di greggio dell’economia di quest’ultima.
Si sa, del resto, che l’embargo verso il governo degli Ayatollah – dovuto alle sue ambizioni nucleari – resta un’arma a doppio taglio. Sottomette la produtti-
L’India è il sesto acquirente di olio nero. La sua produzione nazionale è inferiore al milione di barili al giorno vità iraniana, come pure è un ostacolo per le major del comparto idrocarburi. Inoltre, crea un vuoto nei consumi di energia a livello mondiale. Nel 2009, erano 4,1 i milioni di greggio potenzialmente estraibili dal sottosuolo iraniano. Una ricchezza alla quale è ben difficile rinunciare. L’India è il sesto acquirente mondiale di olio nero. La sua produzione nazionale è inferiore al milione di barili al giorno. Il subcontinente impor-
ta petrolio da tutti i Paesi del Golfo e la chiusura di un distributore così importante come quello iraniano doveva essere in qualche modo o sopperita da un’alternativa, oppure aggirata. Si è optato per la seconda scelta. A dispetto di tutte le regole della politica internazionale – a cui una superpotenza emergente dovrebbe sottostare – New Delhi ha preferito pagare e ricevere il petrolio. Senza farsi tante domande su dove potrebbero essere investiti quei cento milioni di dollari versati nelle tasche della Nioc.
La mossa, magistralmente spregiudicata – questo va riconosciuto – mette in luce un atteggiamento di palese indifferenza nei confronti dell’Iran e di altrettanta emancipazione dell’India. Washington non ha fiatato. Né la Casa Bianca né il Dipartimento di Stato si sono esposti in alcuna dichiarazione contro il loro partner preferito dell’Asia centro-meridionale. Indice, questo, che i rapporti tra i due governi sono talmente saldi che l’India dispone di uno spazio di manovra che gli Usa non si sentono di riconoscere ai lori alleati europei. Se la British Petroluem o la Total avessero accettato un assegno di provenienza iraniana, è difficile che a Washington la cosa sarebbe passata inosservata. E tanto meno sarebbe rimasta in silenzio Israele. Da notare che questa vanta con l’India un rapporto commerciale che si può calcolare intorno ai 4
miliardi di dollari. Sulla carta, un riavvio di rapporti India-Iran avrebbe dovuto suscitare qualche perplessità presso il governo Netanyahu. Al contrario: né polemiche né critiche. Solo silenzio. Sempre di indifferenza si può parlare per quel che riguarda le cancellerie dei Paesi arabi. L’Arabia saudita in testa avrebbe potuto mettersi di traverso nella conclusione dell’accordo. Tanto più che l’Aramco e le sue consociate vi avrebbero sicuramente guadagnato. Dal momento che l’India sarebbe andata a bussare alle loro porte. Riyadh, al contrario, ha assicurato la fornitura di tre milioni di barili di greggio all’industria indiana per tutto il mese di agosto. Lo stesso faranno gli Emirati arabi.
Certo, la primavera araba e la lunga scia di tensioni che animano il Medioriente inducono a pensare che, al momento, la questione iraniana sia passata a un secondo livello di priorità. Sia nel mondo arabo, sia in Israele, sia soprattutto a Washington. C’è da chiedersi, tuttavia, se così tanta distrazione non sia indotta. Se, due anni fa, il regime di Khamenei e Ahmadinejad fosse crollato, tutti ne sarebbero stati soddisfatti. Oggi, con i dossier aperti di Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Yemen, senza dimenticare l’Af-Pak war, un governo stabile a Teheran può solo tornare comodo. E questo è possibile mediante una boccata di ossigeno alle casse della teocrazia sciita. Per le ragioni sopra
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Il presidente si dice pronto per rapporti “amichevoli e rispettosi” con i Ventisette
Mentre Ahmadinejad tende la mano all’Europa continentale di Giovanni Radini l presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, si è detto pronto a espandere i rapporti «amichevoli e rispettosi» con l’Europa. Intervistato da Euronews Tv, ha sottolinea inoltre l’importanza di rafforzare la collaborazione tra le nazioni, per governare il mondo equamente, in modo che possano essere garantiti uguali diritti a tutti. Ahmadinejad ha spiegato che l’Iran e l’Europa possono cooperare sui piani della politica, della tecnica e della cultura. Il rischio, tuttavia, è che il Vecchio continente venga influenzato dagli Stati Uniti. È una mano insolitamente tesa, quella del leader iraniano. Fino a ieri, a oltre sei mesi dallo scoppio della rivoluzione araba, la stessa che avrebbe dovuto trascinare nel baratro anche gli ayatollah di Teheran – che, per inciso, non sono arabi – sembrava che l’Occidente si fosse dimenticato del suo peggior nemico. Da una veloce osservazione delle cronache più recenti e che va oltre le dichiarazioni odierne, emerge che l’Iran ha perso la sua importanza. Certo, se ne parla in merito alle difficoltà economiche incontrate a causa dell’embargo imposto dall’Onu. Si aspetta di seguire la strategia che verrà adottata dal nuovo ministro del petrolio, Rostan Qasemi. L’ex comandante dei Pasdaran ha ottenuto la fiducia dal parlamento nazionale, la Majlis, proprio in questi giorni. Adesso si è curiosi di capire come si muoverà, in sede Opec e con Qasemi in qualità di responsabile, uno dei primi produttori di oro nero al mondo, che, tuttavia, si trova con le mani legate. Le sanzioni internazionali stanno cominciando a pesare non tanto a livello energetico, bensì sulle casse dello Stato. Le transazioni bancarie precedenti all’embargo sono bloccate.Teheran lamenta una forte mancanza di liquidità monetaria, dovuta all’insolvenza dei Paesi clienti e delle banche straniere. Queste però non sono notizie. O meglio, nulla hanno a che fare con eventuali connessioni tra Teheran e quanto accade nel resto del Medioriente. Sembra lontanissima l’estate del 2009, quando l’Onda dei giovani iraniani era a un passo dal fare piazza pulita della teocrazia khomeinista. Eppure due anni non sono tanti. Soprattutto perché, molti dei disordini in Egitto o in Siria trovano una spiegazione ideologica proprio nella tentata rivoluzione di Teheran. Quel che è fallito laggiù nel 2009 pare che si stia concretizzan-
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indicate, nessuna compagnia petrolifera occidentale, o governo in sua vece, si sarebbe potuta comportare come ha fatto New Delhi, la quale si è mossa nel momento giusto. Come detto, la congiuntura geopolitica regionale non permette nuove vampate di rivolta. Washington e Bruxelles sono alla ricerca di una valida alternativa alla loro presenza, in prima persona, sul versante dell’Asia centro-meridionale. Ciò di cui hanno bisogno è di un alleato che sappia farsi garante dei condivisi interessi strategici ed economici. Al fine di evitare che questa parte del mondo cada nelle mani della Russia, o peggio ancora della Cina, l’India resta l’unica carta giocabile. Una carta, a onor del vero, dignitosa. Perché i rapporti tra la Nato e New Delhi non sono mai stati tanto floridi come oggi. E perché il governo Singh non poteva sperare in una situazione così favorevole.
L’ambizione indiana è ramificata. Significa consolidare il proprio ruolo di grande potenza significa mettersi di traverso alla Cina. Questo a New Delhi sta riuscendo in parte. Grazie all’appoggio degli Usa. Significa offrirsi con soluzioni riguardo alle crisi tuttora aperte nel contesto internazionale. Da qui il suo eventuale ingresso in Afghanistan. Anche se in realtà nel Paese degli aquiloni gli indiani ci sono sempre stati. Non a caso il corpo diplomatico straniero più consistente accreditato presso il governo di Kabul fa capo al ministero degli esteri indiano: 4mila uomini, tra funzionari civili e specialisti addetti alla sicurezza. Dal 2001 a oggi, l’India ha investito oltre 1,2 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese. Il denaro è stato accompagnato da una presenza di infrastrutture e risorse umane significativa. Il discorso è identico per quanto riguarda l’impegno nel contrastare la pirateria all’imbocco del Mar rosso. Negli ultimi tre anni, da quando si è assistito a un’impennata dei casi di abbor-
Nella visione del tutto manichea del pianeta, l’ex colonia inglese è considerata un Paese “buono” e un alleato fedele daggi e sequestri, le navi di scorta indiane hanno sventato circa 1.600 attacchi. Ad aprile, la rappresentanza diplomatica di New Delhi all’Onu ha chiesto che venga creato un fondo internazionale a sostegno delle famiglie delle vittime dei casi di pirateria. Infine, c’è la solita questione con il Pakistan. Fare un favore all’Iran, o all’Afghanistan – a seconda dei casi – per l’India vuole dire fare anche un dispetto a Islamabad. Se poi a New Delhi il colpo riesce doppio, ma con una sola mossa, la soddisfazione è anche maggiore. Si prenda il caso dell’autostrada Zaranj-Delaram, un’arteria di 218 chilometri che passa il confine afghano-iraniano. Nel biennio 2006-2008, l’India vi ha investito 140 milioni di dollari.
Indiano è anche il Salma Dam project, una delle più importanti dighe nella provincia di Herat, che dovrebbe sorgere una volta pacificato il Paese e per la quale al momento sono stati destinati 80 milioni di dollari. L’ambizione di New Delhi di fare dell’Afghanistan una bretella di congiunzione con l’Iran e che emargini il Pakistan. Questo favorirebbe, nel settore commerciale, il porto iraniano di Chabahar, ai danni di quello pakistano di Karachi. Mentre, nell’ambito energetico, si prevede il rimessa a punto della fornitura di idrocarburi da Teheran direttamente alla macchina industriale indiana. Come gli ultimi fatti dimostrano.
do sulle coste del Mediterraneo. È presto per dirlo. Come è altrettanto precoce cantar vittoria per l’affermazione di una democrazia liberale al Cairo (o Damasco).
Quel che però è evidente, al momento, è l’emarginazione dell’Iran dalla cronaca di tutti i giorni. Mesi fa, con il coinvolgimento del regime siriano nelle rivolte, era stata ipotizzato una potenziale chiamata in causa degli ayatollah; potenti e prepotenti alleati del presidente Assad. Si era parlato della presenza di Pasdaran a fianco delle truppe siriane scese in piazza per fronteggiare i manifestanti. D’altro canto, era corsa anche la voce di un appoggio – operativo e quindi non soltanto politico – dei ribelli contro Gheddafi in Libia. Notizie tutte più o meno confermate. E comunque plausibili. Nel rispetto dei bizantinismi che ispirano tutti i governi mediorientali, Teheran avrebbe scelto di osteggiare i suoi vecchi nemici – nella fattispecie il rais di Tripoli e Mubarak al Cairo – e, al tempo stesso, sostenere gli alleati in difficoltà. Appunto il Baath siriano. Che fine ha fatto questa strategia tanto disinvolta? A una prima lettura, si può pensare che l’Iran abbia scelto di estraniarsi dai giochi, proprio per evitare di essere ulteriormente coinvolta in situazioni critiche. Su questa linea troverebbero spiegazione anche le dichiarazioni espresse ieri da Ahmadinejad. Gli ayatollah e il presidente (laico e meno integralista di quel che si può sospettare) sono consapevoli dei rischi di un rigurgito rivoluzionario nel Paese. di conseguenza, tornerebbe utile un tentativo di conciliazione con l’Europa. Del resto, non si è più parlato nemmeno delle difficoltà di convivenza tra la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e il presidente Ahmadinejad. Le incomprensioni tra i due erano emerse già nell’autunno 2009. Una volta messa sotto pressione la massa e sotto controllo i relativi leader, si era fatto evidente che Teheran fosse nelle mani di due primedonne. In questi due anni, la tensione è rimasta elevata. Oggi non è da escludere che il presidente, per salvare se stesso e il regime, vada in cerca di consenso presso i suoi nemici. Garantendo loro eventuali aperture, ma al tempo stesso cauterizzando ogni possibilità rivoluzionaria.
ULTIMAPAGINA Nessuna celebrazione, nessuna rassegna per i cent’anni dalla nascita del grande attore: un’occasione persa
Perché l’Italia dimentica di Marco Ferrari a fatto ridere l’Italia intera, ma ora sono in pochi a ricordarselo. Cent’anni fa nasceva a Sanremo Carlo Dapporto, il re della rivista italiana, il dominatore del varietà con un personaggio unico e oramai raro: il dandy di riviera, il viveur squattrinato, l’elegantone pieno di fascino e di autoironia, di giochi di parole e di doppi sensi. Nell’anniversario, quale unico omaggio, la Mediateca di Sampierdarena, a Genova, gli ha dedicato una retrospettiva dei suoi film.
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Era nato il 26 giugno del 1911 nella Città dei Fiori cominciando a lavorare come cameriere e cabarettista nei locali pieni di turisti d’estate a Sanremo e Alassio. È lui stesso a raccontarci come cominciò l’avventura nel libro autobiografico Il maliardo edito da Rusconi nel 1977: «Un giorno decisi che dovevo tagliare la corda da Sanremo, ma occorrevano parecchi quattrini. Il problema fu felicemente risolto quando due miei amici camionisti mi proposero di andare con loro a Milano. Non me lo feci ripetere. Qualche giorno dopo presi posto sul grande autotreno che trasportava i fiori da Sanremo alla metropoli lombarda». Il tempo di abituarsi a Milano e capire quali erano i luoghi in cui il mondo dello spettacolo si formava. «Non passava giorno – scrive Dapporto – che non mi recassi in Galleria. Era il ritrovo degli artisti. All’ora dell’aperitivo erano tutti lì, orchestrali, cantanti, ballerine, attori, impresari teatrali. Un giorno incontrai un vecchio amico, Lino Chierico, che avevo conosciuto al Casinò municipale di Sanremo, dove era maestro di ballo. Gli raccontai tutto. Un’ora dopo mi presentò Walter Giraud che si dedicava a piazzare le orchestre. Gli dissi che cantavo il tango. Mi fece un’audizione. Gli piacqui. Dopo un mese ero cantante del più famoso ritrovo della riviera adriatica». Poi si affermò anche a teatro in coppia con un altro mito di quell’epoca, Carlo Campanini. Il loro sketch prediletto era l’imitazione di Stanlio e Ollio. Terminato il secondo conflitto mondiale, Dapporto entrò nella compagnia di Wanda Osiris, affermandosi quale uno dei maggiori interpreti del teatro leggero italiano con quel suo modo particolare di recitare, ambivalente, ricco di comicità all’inglese con battute fredde, a doppio senso, acide, sarcastiche, ciniche, con un linguaggio ricco di calembours, allusioni, con una mimica precisa e inimitabile. Il critico Morando Morandini, ai tempi in cui recensiva gli spettacoli di rivista per La Notte di Milano, in un articolo del 1953, scriveva: «Dapporto diventa sempre più bravo, più duttile, più fine. Questo suo essere in bilico tra il tono sardonico, pochadistico, crasso della rivista e il ricorso a temi deamicisiani fa spesso scaturire impensati motivi, costituisce sempre una sorpresa».Tra i grandi della rivista italiana, Dapporto restò sempre fedele al palcoscenico, anche se la sua presenza si fece intensa sia nella nascente televisione degli anni cinquanta sia nel cinema, quando era al culmine del successo. Il figlio Massimo, che ne raccolto l’eredità artistica, diventando una star della fiction televisiva, lo racconta così: «Mio padre è sempre rimasto molto legato a Sanre-
DAPPORTO? Esordì giovanissimo e fece fortuna con Campanini imitando Stanlio e Ollio. Poi, dopo la guerra, la fama di Wanda Osiris e la Rivista. E tanto cinema, fino all’ultima, intensa interpretazione nella «Famiglia» di Ettore Scola
mo, dove aveva la mamma, gli amici e “a fameggia sanremasca”. Fino agli anni Settanta ci siamo tornati ogni estate. Poi sentiva Milano come la sua patria professionale, quella che lo aveva portato al successo.
Ma negli anni Cinquanta trasferì la famiglia a Roma perché gli era stato proposto un contratto dalla Ponti-De Laurentiis e il cinema si faceva a Cinecittà. Non erano ancora gli anni della commedia all’italiana vera e propria e andavano di moda i film ad episodi in bianco e nero, in cui famosi attori di rivista interpreta-
vano sullo schermo i loro sketch. Mio padre fece molti di questi film, anche se uno dei titoli a cui era rimasto legato e di cui mi parlava più spesso era Il vedovo allegro di Mario Mattoli del 1950 perché si svolgeva tra la sua Sanremo e Cannes». A conti fatti, Dapporto interpretò nella lunga carriera una quarantina di film, in gran parte ambientati nel mondo della rivista, del teatro e dello spettacolo, ma seppe recitare anche personaggi non comici. I suoi capolavori restano La Presidentessa del 1952 di Pietro Germi, coprotagonista nel ruolo del ministro francese che perde la testa per Silvana Pampanini; La signora è servita del 1945 di Nino Giannini, film tratto da un suo soggetto; Ci troviamo in galleria del 1953 di Mauro Bolognini, dove interpreta un comico di terz’ordine che sposa una cantante sconosciuta, Nilla Pizzi, e la conduce al successo; e poi ancora I pompieri di Viggiù sempre di Mattoli, Botta e risposta di Mario Soldati.
A mano a mano che il varietà scompariva, anche la sua presenza si diradò sino a quando Alberto Sordi non lo volle al suo fianco in Polvere di stelle del 1973 per rievocare quel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento. Ma il film più importante di Dapporto resta uno degli ultimi, La famiglia di Ettore Scola del 1987, in cui per la prima volta interpreta un personaggio a tutto tondo, estraneo ai suoi cliché abituali. È Giulio, il fratello di Vittorio Gassman, sempre alle prese con debiti e difficoltà finanziarie. Qui Dapporto esprime la sua vera maturità al punto che gli venne assegnato il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. Di lì a poco, nel 1989, Carlo Dapporto ci avrebbe lasciati per sempre. Suo figlio Massimo Dapporto confessa: «Me lo porto tanto dentro. In fondo, mi basta alzarmi alla mattina, guardarmi allo specchio, e mi sembra di averlo davanti.Vorrei solo essere ancora un po’ più lui e un po’ meno me».