2011_08_10

Page 1

10810

he di cronac

L’infelice povertà nulla ha in sé

di più doloroso, che l’esser esposta ai motteggi degli uomini Decimo Giunio Giovenale

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 10 AGOSTO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Non si ferma la protesta: dalla capitale si allarga a Manchester e Liverpool

Il fuoco di Londra fa un morto

Terza notte di scontri. Cameron duro: «Solo bande criminali» di Vincenzo Faccioli Pintozzi uanto pesi, in tutto questo inferno, la recessione economica non è dato saperlo. Così come è difficile sapere se e quanto coloro che scendano in piazza siano veramente i figli in difficoltà di una working class sempre più ignorata, e meno tutelata, da un esecutivo che deve fare i conti con un bilancio dello Stato realmente in brutte condizioni. a pagina 12

Q

Il corrispondente della Bbc David Willey

L’analisi di uno dei leader di Brixton 1981

«Emergenza povertà, «La violenza perderà non razziale» come trent’anni fa» di Pierre Chiartano

di Alex Wheatle

ROMA. Partita come un’azione di bande sembra che nel corso delle ore la protesta in Gran Bretagna abbia cambiato connotati. Povertà? Integrazione? Disagio etnico? Abbiamo girato le domande a David Willey, decano della Bbc in Italia. a pagina 13

a notte di sabato scorso sono rimasto incollato al televisore per guardare la diretta di quanto stava avvenendo a Tottenham. Non sono stato in grado di aiutare a fermare questo dramma; ma mi ha riportato alla mente Brixton nel 1981. a pagina 14

L

Giornata di tregua in Borsa con i listini in sostanziale pareggio. Un po’ di respiro per Piazza Affari a +0,5

Manuale per Tremonti Quattro consigli al governo: è l’occasione per cambiare l’Italia La cura della Bce per i nostri titoli ha funzionato. Oggi l’esecutivo (ma senza Berlusconi) incontra di nuovo le parti sociali. Facciamo un elenco delle cose che si possono fare subito per la crescita Polillo: «Tassare le cose, Week-end nella dacia non solo le persone»

1

*****

Intanto Silvio prepara le vacanze con Putin

«Innnalzare l’età anche nel settore privato e passare al sistema contributivo: queste sono due cose da fare adesso»

di Enrico Singer

«I tagli alla spesa non bastano, serve un nuovo regime fiscale che punti ad allentare il peso crescente delle importazioni»

2 3

Fornero: «Cambiare le pensioni per le donne» *****

Paganetto: «Privatizzare, a cominciare dalle Poste»

«Si sa che fanno gola a molti: vendiamole e usiamo il ricavato come un tesoretto per sostenere lo sviluppo» *****

4

Tito Boeri: «Collegare il nuovo welfare al Pil»

«Il governo deve guardare al modello svedese: tutti devono essere coinvolti nei progetti che spingono per la crescita» Errico Novi e Riccardo Paradisi • pagine 4 e 5 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

di Marco Palombi

ROMA. Tremonti, Sacconi e Gianni Letta. Toccherà a loro gestire l’incontro tra governo e parti sociali di oggi pomeriggio. Dovranno insomma scoprire le carte: quali tagli e quali riforme sono davvero in cantiere? Il problema, manco a dirlo, sono i conti: l’esecutivo italiano con sede a Berlino e Francoforte ha imposto le linee guida e i tempi, adesso bisogna vedere se anche le categorie produttive si piegheranno ai diktat della tecnostruttura europea. Dal profondo Nord, assai più su della Padania, chiedono non solo l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, ma una riduzione significativa del deficit già l’anno prossimo: bisogna spostare una ventina di miliardi tra tagli e tasse al 2012. a pagina 2 NUMERO

154 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

veva detto che si sarebbe preso pochissimi giorni di vacanza. Solo una puntata in Sardegna per il compleanno della figlia Marina, domani. Ma alla visita all’amico Putin, nella dacia delle meraviglie sul lago Valdai, vicino San Pietroburgo, Berlusconi non vuole rinunciare, anche se qualcuno nel suo entourage comincia a insinuare qualche dubbio sul viaggio previsto per il 13 e il 14 agosto. Che cosa ci va a fare Berlusconi nella villa dell’uomo forte del Cremlino?

A

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 6

19.30


pagina 2 • 10 agosto 2011

prima pagina

Un’altra giornata in altalena

Le Borse europee tornano al 2009 MILANO. Era cominciata male: il crollo di Wall Street, le rassicurazioni di Obama andate a vuoto e la risposta impaurita delle Borse asiatiche. Il downgrade sul rating americano ha messo paura a tutti i mercati e il termometro, nella notte di ieri, è schizzato in alto per tutte le borse asiatiche in forte ribasso dopo un’apertura in rosso. Il comportamento degli investitori rispecchia il loro sospetto di inadeguatezza delle autorità e dei banchieri centrali davanti allo spettro di una nuova crisi globale. La Borsa di Tokyo è scivolata sui minimi degli ultimi cinque mesi: dall’inizio dell’anno ha accumulato una perdita di oltre il 15%. Ancora peggio il listino di Hong Kong, che è andato giù ai nuovi minimi degli ultimi 15 mesi (26 maggio 2010): l’indice di riferimento Hang Seng nella tarda mattinata di ieri era in ribasso di oltre il 7%. D’altra parte lo sanno tutti che l’economia dell’area asiatica è legata a doppio filo a quella statunitense e la crisi attraversata Oltreoceano la rende vulnerabile. Qualche speranza era riposta nell’Europa, insomma, alla ricerca di un possibile, auspicabile rimbalzo. E l’Europa, sia pure timidamente, ci ha provato. Ma sono bastati pochi minuti per trascinare tutti in basso, con Francoforte e Londra che a inizio mattina segnavano addirittura un -6. Nel pomeriggio, poi, anche con l’aiuto dell’apertura positiva di Wall Street, le Borse europee sono risalite fino quasi ad azzerare le perdite. Ma comunque, con l’ottavo giorno senza rimbalzi, siamo alla più lunga sequenza perdente dal 2003. Lo Stoxx Europe 600 Index cede l’1,6%, toccando il livello più basso da agosto 2009. Dal massimo toccato il 17 febbraio di quest’anno è un tuffo del 23 per cento. A Londra il FTSE 100 Index estende le perdite, da febbraio a oggi, al 20 per cento e anche il Dax entra nel cosiddetto «bear market», Orso sul mercato, unendosi a Francia, Svizzera, Austria, Spagna e Italia. In sei mesi Piazza Affari è arrivata a perdere oltre il 30%, Parigi il 24% e Madrid il 23 per cento, solo per fare alcuni esempi.

Tremonti e Sacconi incontreranno le forze sociali per «trovare» i 20 miliardi di euro chiesti dalla Ue

Pressing sul governo Basteranno i soli tagli alle detrazioni per placare l’Europa? Il vertice è un’occasione per ridisegnare insieme il welfare di Marco Palombi

ROMA. Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Gianni Letta. Toccherà a loro, salvo sorprese dell’ultimo minuto, gestire l’incontro tra governo e parti sociali di oggi pomeriggio (alle 17 a palazzo Chigi). Dovranno insomma scoprire le carte: quali tagli e quali riforme sono davvero in cantiere? Il problema, manco a dirlo, sono i conti: l’esecutivo italiano con sede a Berlino e Francoforte ha imposto le linee guida e i tempi, adesso bisogna vedere se anche le categorie produttive – sindacati in testa – si piegheranno ai diktat della tecnostruttura europea. Dal profondo Nord, assai più su della Padania, chiedono infatti non solo l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, ma una riduzione significativa del deficit (all’1% contro il 2,7 previsto dal governo) già l’anno prossimo: in soldi bisogna spostare una ventina di miliardi tra tagli e tasse al 2012. La situazione, insomma, è complessa e per questo non è considerata probabile l’idea di arrivare ad un decreto da approvare in uno scenografico Consiglio dei ministri a ferragosto: i tecnici del Teso-

ro dovranno sudare parecchio per studiare come rimodulare le misure già previste dal decreto di luglio che – giova ricordarlo – a loro volta modificano o si sommano a quelle contenute nella manovra dell’estate 2010. È il caso dei tagli a regioni ed enti locali: se la riduzione dei trasferimenti, già corposissima (la metà di tutte le ultime sforbiciate alla spesa pubblica) dovesse essere ampliata e accelerata il fallimento è dietro l’angolo per più di un sindaco.

C’è poi la questione del taglio a tutte le detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali contenuto nella manovra di luglio: a oggi è previsto che sia del 5% nel 2013 e del 20% l’anno successivo (in euro fa rispettivamente 8 e 32 miliardi), a meno che – dice la legge – entro due anni non venga approvata una riforma della materia che consenta un risparmio di 5 e 20 miliardi. Adesso bisognerà anticipare il tutto di un anno e quella maggiore pressione fiscale si tradurrà dunque in realtà già al momento delle dichiarazioni dei redditi dell’anno prossimo:

forse per evitarlo o forse per salvare la faccia, Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia chiedono adesso una rapida approvazione della delega fiscale, che dovrebbe anche servire a ridurre le tasse (ai più ricchi, se verrà confermata l’impostazione con sole tre aliquote), ma è assai improbabile che una riforma così complessa arrivi a compimento entro l’anno. Restano i tagli, dunque: agevolazioni per la prima casa, assegni per i figli e per il lavoro dipendente, ristrutturazioni, energie rinnovabili e tutto il resto delle circa 400 voci da 160 miliardi l’anno falciate orizzontalmente dal ministro. Su questo associazioni datoriali e dei lavoratori sono concordi: sarebbe un disastro visto che questa cosa somma in sé effetti regressivi (penalizzazione dei più poveri) e recessivi (diminuzione dei consumi). E allora? Intanto addio sogni di gloria sui tagli alle tasse. Si potrà usare un po’ la leva fiscale per recuperare risorse: una tassazione europea sulle rendite finanziarie che dovrebbe fruttare poco meno di un miliardo di euro (col contemporaneo abbassa-


prima pagina

10 agosto 2011 • pagina 3

GIANFRANCO POLILLO Qui accanto, da sinistra, il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari, la leader degli industriali Emma Mercegaglia e il ministro Giulio Tremonti: oggi saranno di nuovo di fronte per l’incontro che le parti sociali hanno chiesto al governo nella speranza di favorire interventi immediati a sostegno della crescita economica. L’incontro della scorsa settimana non aveva scosso l’immobilismo dell’esecutivo

mento dell’aliquota su conti correnti e affini), forse qualche aumento settoriale dell’Iva, il cui gettito ovviamente cambia molto a seconda della portata. Misura supercondivisa la prima, assai più contestata la seconda che non piace per niente a commercianti e sindacati (farebbe aumentare i prezzi).

I temi caldi dell’incontro però saranno altri: la previdenza, il mercato del lavoro e la mitica accoppiata liberalizzazioni e privatizzazioni, ovvero pareggio di bilancio e crescita secondo i tecnocrati europei. È lì che si incaglierà la discussione: se Raffaele Bonanni ha già detto il suo scontato «giù le mani dalle pensioni», resta il fatto che ci sono pochi modi di trovare subito risorse certe da mettere a bilancio. Allo studio c’è la possibilità di anticipare all’anno prossimo la cosiddetta quota 97 (62 anni più 35 di contributi o 61+36) oppure – più drastica – si potrebbe proporre di bloccare le uscite e basta. Alle viste anche l’anticipo di un anno, al 2012, dell’agganciamento tra peso degli assegni e durata della vita: in pratica i pensionati si ritroverebbero in tasca meno soldi perché il loro gruzzolo andrebbe ripartito secondo l’aumentata speranza di vita media. Poi c’è il tema dell’età di fine lavoro per le donne del settore privato: ad oggi è previsto che salga a 65 anni in maniera graduale dal 2020, ma si potrebbe anche partire prima (Bossi è contrario). Novità possibili anche per le pensioni di invalidità - si pensa a un innalzamento dei requisiti per l’accesso, oggi al 36% - e gli assegni di accompagnamento, per cui si ragiona attorno ad un tetto di reddito sopra al quale non se ne avrebbe più diritto. Se-

condo i rumors i sindacati potrebbero anche accettare qualche intervento sulle pensioni – anche se Istat e governo hanno da poco sostenuto che il sistema è in equilibrio – ma solo se sul tavolo ci saranno anche cospicui tagli alla politica: riduzione del numero degli eletti ad ogni livello, stretta sul costo delle istituzioni (ci starebbe lavorando Calderoli).

I fuochi d’artificio, però, arriveranno sul cosiddetto Statuto dei Lavori, una sorta di versione nazionale del modello contrattuale applicato da Sergio Marchionne in Fiat: fatti salvi alcuni diritti costituzionali (sciopero, rappresentanza, sicurezza e altri), tutto il resto è rimodulabile in base ai contratti collettivi e - soprattutto - aziendali. In programma come sempre - fortissimamente richieste dall’Europa - liberalizzazioni e privatizzazioni: togliere ogni ostacolo nell’accesso alle professioni e ai mercati e vendere per tempo - cioè subito - pezzi di patrimonio a partire dalla selva delle municipalizzate (ci sarebbe il referendum di giugno come ostacolo, ma a Francoforte se ne fregano). Questo è il comandamento del direttorio continentale. Infine c’è il balletto sulle modifiche alla Costituzione: se la prima (pareggio di bilancio nella Carta) sancisce un principio condiviso da tutte le forze politiche e sociali ma pericoloso in periodi di crisi, la seconda (tutto è consentito fuorché ciò che è espressamente vietato) rischia di sollevare una rivolta visto che più che un provvedimento per la libertà di impresa sembra una deregulation selvaggia. Questo e altro al tavolo di oggi, ma tanto il programma tecnoeuropeo non è trattabile.

Bonanni ha già fatto sapere che i sindacati non sono disponibili a interventi sulle pensioni

1

Tasse sulle cose, non sulle persone Ridurre subito il peso delle importazioni sui conti, cambiando il sistema fiscale di Gianfranco Polillo

i dice che la virtù si manifesti nei momenti di crisi. È allora che i valori di fondo – quando vi sono – emergono con la forza necessaria. Gli eroi dell’antica Grecia erano, soprattutto, stoici: capaci cioè di reagire con compostezza ed intelligenza al cattivo volere degli dei. Non sembra essere questa la situazione italiana. Nel nostro Paese prevale l’invettiva, se non l’insulto e una sarabanda di posizioni che rischia di far perdere il lume dell’intelletto. Uomini accecati dagli dei com’erano, appunto, i non eroi dell’antica Grecia. Il crollo delle borse sembra aver trascinato con sé non solo la voglia, ma la stessa capacità di capire. Eppure i dati sono sotto gli occhi di tutti in un rituale che si ripete giorno dopo giorno, ormai da una settimana. Il canovaccio è quasi sempre lo stesso. In apertura prevalgono gli acquisti – specie nella borsa di Milano – che fanno sperare al meglio, facendo, a volte, volare le quotazioni, poi, in tarda mattinata, le prime notizie dagli States. Futures che anticipano il successivo bagno di sangue. Fino al crollo di fine giornata che trasforma in rosso il bilancio finale. Bilancio italiano, ma soprattutto bilancio dell’intera Europa. Basta confrontare l’indice MIB (borsa di Milano) con quello di Eurostoxx (principali titoli europei): stesso tracciato, stessa tendenza, perdite finali più o meno identiche.

S

glia sul fronte delle esportazioni. Ma non abbiamo nemmeno sottovalutato il rosso della nostra bilancia commerciale, che non è solo figlia della dipendenza energetica.

Cosa ci dicono questi fatti? Sono l’indizio di una crisi che ci sovrasta. Non è solo italiana, non è solo europea, ma riguarda l’intero Occidente. Il cui declino, solo qualche anno fa, era stato annunciato da alcuni libri di successo. Cassandre inascoltate. Come lo fu il monito di Benedetto XVII, quando indicava il pericolo di “un congedo dalla storia”, da parte del Vecchio Continente. L’Italia è parte integrante del problema. Vi partecipa a pieno titolo e con le sue contraddizioni, che sono forse più acute rispetto a quelle degli altri Paesi. Lo sono per un vissuto – l’alto debito pubblico - che è la più drammatica eredità del passato - ma, anche, per la debolezza complessiva del suo tessuto produttivo, che ne amplifica il condizionamento. Abbiamo sempre guardato con un certo scetticismo coloro che si ingegnavano a tracciare percorsi virtuosi. Non abbiamo mai trascurato di considerare la solidità finanziaria delle famiglie italiane - ne abbiamo più volte scritto su queste stesse colonne - né l’ingegno dei nostri imprenditori e la loro batta-

Un’osservazione disincantata: libera dal pregiudizio dell’ottimismo ad ogni costo, ma anche del catastrofismo inutile e controproducente. Sono le risorse che ancora oggi ci consentono di vedere il chiaroscuro. E suggerire un metodo, più che formulare una proposta compiuta che spetterà a chi ha la legittimazione e la responsabilità politica per farlo. A Giulio Tremonti diciamo solo di guardare al tutto. Vedere gli aspetti finanziari, ma non trascurare l’economia reale ed i suoi squilibri sotterranei. Solo così potremo avere una politica economica coerente in un momento così difficile. Forse non sarà risolutiva, ma almeno non produrrà danni ulteriori. I nodi sono venuti al pettine solo recentemente. Nel 2010 tutto era mascherato dal “quantitative easing” voluto dalla Fed americana. Miliardi di dollari gettati sul mercato, nella speranza di allentare la stretta recessiva. L’Italia, seppure indirettamente, ne ha tratto un enorme beneficio. I capitali esteri, investiti in titoli di stato sono stati pari a quasi 90 miliardi di euro, impedendo agli spread di raggiungere i livelli attuali. Oggi quella corsa si è fermata, dando luogo a un deflusso, che nei primi quattro mesi del 2011, è stato pari a circa 26 miliardi. E il pendolo ha invertito la sua corsa. Il nostro problema non è solo quello di “fare cassa”. Trovare cioè le risorse per anticipare il pareggio di bilancio. Dobbiamo anche ridurre il peso delle importazioni. E allora? Va bene il contenimento della spesa pubblica, accelerare sul fronte previdenziale le necessarie riforme, riordinare il mercato del lavoro, per ridurre il privilegio dei padri e la disperazione dei figli, ma dobbiamo anche passare rapidamente – il più rapidamente possibile – dalla tassazione sulle persone a quella sulle cose.Vale a dire aumentare le imposte indirette e ridurre quelle dirette. Più intenso sarà questo passaggio, maggiori le possibilità di successo. È la via maestra seguita da Francia e Germania, paesi in cui il carico fiscale si concentra, da tempo, sui consumi più che sui fattori della produzione e le famiglie. Ci riusciremo? Non sarà facile. Vecchie posizioni ideologiche – specie a sinistra – ne rendono difficile l’operazione. Che gli dei si dimostrino clementi e diano solo un barlume di luce.


prima pagina

pagina 4 • 10 agosto 2011

ELSA FORNERO

2

«Alzare l’età per le donne» «Nuove pensioni applicando per tutti il regime contributivo» di Errico Novi

ROMA. «Deve cambiare un certo atteggiamento del governo, che poi è tipico di tutti i governi italiani: quello per cui le cose si fanno, ma con gradualismo. Ecco, bisognerebbe dire invece che le cose si fanno, punto. Con trasparenza. Non si può immaginare che sulle pensioni, per esempio, ogni anno ci sia un aggiustamento». Elsa Fornero parte da questa considerazione per arrivare alle due ipotesi, ai due “suggerimenti” da offrire al ministro dell’Economia. Che riguardano entrambi la previdenza, e in particolare «l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, che va introdotto subito anche per il settore privato, anziché nel 2020», e inoltre «l’immediato passaggio al sistema contributivo nel calcolo dell’assegno». Due correzioni che «non sono riforme, piuttosto costituirebbero l’effettiva attuazione di riforme già approvate». La seconda proposta, in particolare, consentirebbe «l’applicazione immediata della riforma Dini».

Elsa Fornero insegna Economia all’università di Torino. È analista del Sole-24Ore e contribuisce a vivacizzare quel fertile laboratorio di idee che è lavoce.info, dunque alcune delle considerazioni fatte con liberal erano state messe sul tavolo per tempo. «Ripeto, si tratta di superare l’ipocrisia del gradualismo. Emersa, devo dire, anche nel corso dell’elaborazione di quest’ultima manovra. Cosa evidente se si pensa appunto che l’incremento dell’età pensionabile per le donne si sarebbe compiuto nel 2030 e con un percorso da avviare nel 2020. Una cosa elettorale più che politica, e le cose elettorali sono sempre meno nobili di quelle politiche. Ci sono stati contrasti tra i ministri che hanno portato a questa scelta, ma anche Tremonti non ha insistito più di tan-

to». In ogni caso «credo si debba innanzitutto tornare su questo aspetto», dice la professoressa Fornero, «ce lo impongono l’entità del debito pubblico e le ragionevoli insistenze dell’Europa». Con l’equiparazione immediata dell’età pensionabile delle lavoratrici del privato a quella dei colleghi maschi «si risparmierebbero almeno 4 miliardi di euro», nota l’analista del Sole-24Ore.

Con l’altra misura “suggerita” dall’economista invece «le riduzioni di spesa sarebbero progressive, più lente, ma diverrebbero più cospicue col passare degli anni». Nel dettaglio si tratta di «eliminare le riserve nell’applicazione della riforma Dini. Nel ’95 fu stabilito che alcune generazioni di lavoratori sarebbero state, diciamo così, risparmiate dall’introduzione del criterio contributivo. In particolare quelli che all’epoca avevano già 18 anni di attività alle spalle. Ecco, io credo invece che una regola trasparente consisterebbe nel dire che il passaggio dal retributivo al contributivo avviene da subito per tutti. Indipendentemente dal fatto che uno maturi i requisiti tra un anno o tra 25 anni, non importa». Con una doverosa precisazione: «Naturalmente il passato si salva. Nel senso che per esempio chi ha 36 anni al-

le spalle e deve farne ancora 2 al lavoro, vede applicato il calcolo retributivo per quei 36 anni già lavorati, e il contributivo solo per i 2 ancora da fare».

Il vantaggio forse più importante, nell’ipotesi “suggerita” da Elsa Fornero a Tremonti, «è nel fatto che in tal modo si otterrebbe la piena accettazione della riforma: gli italiani comincerebbero ad abituarsi al nuovo regime, basato appunto sui contributi. Peraltro in modo attenuato, perché il nuovo sistema si applicherebbe, nei primi anni, a frazioni molto piccole della vita lavorativa totale, come detto. Però si capirebbe di cosa si tratta. E quindi si rafforzerebbe la consapevolezza che se si vuole un assegno più consistente conviene restare al lavoro più a lungo. Il che produrrebbe ulteriori risparmi. Certo, il metodo contributivo può produrre pensioni meno corpose e quindi bisogna tutelare quelle più basse in assoluto. Ma questo si può ottenere con la tassazione generale. E in particolare facendo pagare di più a chi è più ricco. Come dovrebbe avvenire in qualsiasi Paese civile».

LUIGI PAGANETTO

3

«Privatizzazioni, partiamo da qui» «Vendiamo le Poste: questo può essere un tesoretto per la crescita»

ROMA. Il segreto? Luigi Paganetto, tra gli analisti economici più ascoltati, lo sintetizza così: «Non bisogna dare l’impressione di una linea esclusivamente difensiva». Nonostante le richieste dell’Unione europea e della Bce siano particolarmente concentrate sulle riduzioni di budget, non bisogna trascurare l’altra attesa rivolta all’Italia, quella di un «segnale di movimento», come lo definisce Paganetto. Imprigionato dal complesso di una spesa pubblica troppo alta nonostante i dati sul fabbisogno, il governo rischia di agire solo con misure restrittive. «Serve invece qualcosa che dia un po’ di spinta al-

la crescita». Non perché sia decisivo rispetto ai fondamentali, spiega il professore di Economia internazionale dell’università Tor Vergata di Roma, ma perché sarebbe utile a diffondere fiducia. Ingrediente assolutamente necessario per non vedersi costretti a inseguire ancora, con misure sempre più dure, la spirale della crisi.

Servono insomma «misure emblematiche». Certo, gli interventi di riduzione della spesa, innanzitutto «l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne» sono necessari. «A condizione», precisa Paganetto, «che vengano attuati in tempi


prima pagina

10 agosto 2011 • pagina 5

TITO BOERI

4

Meglio legare le pensioni al Pil «Come in Svezia, tutti devono essere coinvolti nella crescita» di Riccardo Paradisi

arebbe più equo indicizzare le pensioni alla crescita economica, così come avviene in Svezia» dice Tito Boeri a proposito di riforma pensionistica. È la tesi esposta in un’analisi sul nostro sistema previdenziale condotta con Agar Brugiavini sulla Voce.info.

S

concretamente utili rispetto all’obiettivo di ridurre la spesa». Poi però ci vogliono «due o tre cose emblematiche, su diversi fronti». Primo: «La riduzione del perimetro dello Stato, a partire da un intervento di privatizzazione delle Poste, e del Banco Posta: si tratta di uno straordinario serbatoio finanziario, alimentato dai conti correnti dei depositanti. Una ricchezza a cui non si vuol rinunciare. Ma nei Paesi in cui la privatizzazione di questo asset c’è stata non è avvenuto nulla di grave». Di per sé questo «già sarebbe un segnale forte». Con il dimagrimento dello Stato poi «servirebbe un’azione mirata a favorire la concorrenza. Liberalizzazioni in diversi settori, dunque. Anche qui non si tratta di una voce decisiva per i conti pubblici ma la scelta servirebbe a indicare una direzione».

C’è ancora una strada percorribile, particolarmente orientata a incentivare la cre-

scita: «La riduzione del costo del lavoro, che si può realizzare con l’anticipazione della riforma fiscale relativamente ad alcune particolari voci. Si può da una parte tagliare le agevolazioni sull’Iva e dall’altra abbassare il carico fiscale su imprese e famiglie». È noto come sul tema abbia l’esecutivo pure effettuato qualche sondaggio, nelle scorse settimane. Ne ha ricevuto ferme resistenze da parte di Confcommercio e altre parti sociali. «Ma la riduzione del cuneo fiscale dev’essere pur bilanciata. Certo, intervenire sull’Iva può in teoria penalizzare i consumi. Consideriamo però», osserva Paganetto, «che in questo momento i consumi sono comunque in sofferenza, non è che si possa immaginare una fiammata complessiva dei consumi in tempi di recessione. Non è detto d’altronde che la riduzione del costo del lavoro non risulti efficace anche in questo senso».

Anche perché, ripete l’economista, «bisogna dare un segnale di movimento, non ci si può limitare a misure difensive. Farlo sarebbe un errore». Errore evidentemente già commesso dall’esecutivo, sollecitato da più parti ad assumere provvedimenti rivolti proprio a incoraggiare lo sviluppo. Il punto di vista di Paganetto rafforza dunque l’idea che questa crisi apparentemente imprevedibile si fronteggia soprattutto con scelte che influenzano psicologicamente i mercati. Che rispondono alle perplessità chiaramente manifestate dalle stesse istituzioni europee sul fatto che «l’Italia cresce al di sotto del proprio potenziale». Ecco perché «accanto ai necessari interventi sulla previdenza bisogna agire sulle tre macrocategorie ricordate», dice l’analista, «ossia la contrazione del perimetro dello Stato con la privatizzazione di alcuni asset, l’apertura alla concorrenza con le liberalizzazioni e, appunto, la scossa fiscale con benefici da offrire a imprese e famiglie». Servirebbe, per mettere in pratica tali “suggerimenti”, soprattutto calma, e di fiducia in se stessi. (e.n.)

Un intervento – dice Boeri – che permetterebbe di ottenere risparmi sostanziali sulla spesa pensionistica. «Ma ancor più importante determinerebbe una compartecipazione dei pensionati alle perdite o ai guadagni dell’economia. Perché sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita». Con questo sistema sarebbero circa 700.000 le prestazioni che subirebbero riduzioni rispetto al quadro vigente. «I risparmi lordi (senza tenere conto delle minori tasse incassate dall’erario) sarebbero di poco più di 370 milioni nel 2012 e leggermente inferiori a un miliardo nel 2014. Ci sono anche le stime dell’indicizzazione alla crescita dell’economia da noi proposta come riforma strutturale volta ad assicurare sostenibilità al sistema previdenziale, pur in presenza di bassa crescita. Le stime prendono per buone le previsioni dell’Ocse sulla crescita del Pil italiano nel 2011, 2012 e 2013. Ebbene i risparmi sarebbero superiori a quelli previsti nella manovra. Non ci sarebbe alcun taglio, invece, se l’economia crescesse al tasso dell’1,5 per cento (nella media dei cinque anni precedenti). Le quiescenze addirittura aumenterebbero rispetto alla legislazione vigente con tassi di crescita più sostenuti». La manovra del governo comporta invece comunque riduzioni delle pensioni che saranno persistenti indipendentemente dall’andamento dell’economia figuriamoci ora sotto la pressione della crisi e la minaccia di recessione. Dove l’urgenza sembra essere quella di fare cassa a tutti costi. «Addirittura, i tagli alle pensioni potrebbero essere più forti – continua Boe-

ri – nella manovra del governo, in caso di crescita più sostenuta dato che quest’ultima tipicamente si accompagna a tassi di inflazione più elevati. In altre parole, la scelta del Governo incoraggia una costituency contro la crescita, mentre nel nostro caso avviene esattamente il contrario». Il principio insomma è che le pensioni possano crescere rispetto all’inflazione solo in presenza di tassi di crescita sostenuti. «Questa formula contribuirebbe a costruire in Italia una forte constituency a favore di riforme che favoriscano la crescita. Sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la cui dinamica prescinde completamente dall’andamento dell’economia la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita. Quando l’economia va bene, i pensionati non partecipano ai guadagni di produttività e, dunque, le pensioni perdono valore rispetto ai salari, dando origine al fenomeno delle cosiddette “pensioni d’annata”. Quando le cose vanno male, invece, la spesa previdenziale aumenta ulteriormente la sua quota sul prodotto interno lordo, sottraendo risorse a politiche di contrasto alla povertà e alla disoccupazione. Nel 2009, ad esempio, la quota delle pensioni sul Pil è aumentata di quasi un punto percentuale».

Accanto a una riforma delle pensioni alla svedese per Boeri Tremonti dovrebbe mettere mano con radicalità ai costi della politica: «Accorpamento dei comuni, cancellazione della maggioranza delle Province piccole e poco utili, dimezzamento dei parlamentari, eleggendoli con una nuova legge elettorale». Un’altra riforma urgente è «lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alla rendita, così da poter permettere una crescita dell’occupazione». Per quanto riguarda la reversbilità delle pensioni l’economista della Bocconi ritiene sia molto difficile toccarla senza generare iniquità, meglio sarebbe fare trasparenza sui criteri dell’assegnazione delle pensioni di invalidità.


politica

pagina 6 • 10 agosto 2011

In piena crisi, il premier non rinuncia agli svaghi dell’amico Putin veva detto che si sarebbe preso pochissimi giorni di vacanza. Soltanto una puntata in Sardegna per il compleanno della figlia Marina, l’11 agosto. Ci aveva anche scherzato su parlando con i deputati del Pdl che lo salutavano dopo il discorso alla Camera: «Grazie a quel bonifico alla Cir ormai non ho più soldi». Poi la tempesta sul debito pubblico è diventata ancora più violenta e il riposo estivo è stato, almeno ufficialmente, sacrificato per seguire dalla sua residenza di Arcore gli sviluppi della crisi e trovare una ricetta per uscirne. Ma alla visita all’amico Putin, nella dacia delle meraviglie sul lago Valdai, vicino San Pietroburgo, Silvio Berlusconi non vuole proprio rinunciare, anche se qualcuno nel suo entourage comincia a insinuare qualche dubbio sul viaggiolampo che, per il momento, è previsto per il 13 e il 14 agosto. Ma, come sempre in queste occasioni, una dose di mistero non guasta. Anzi, aumenta la curiosità. Che cosa ci va a fare Berlusconi nella villa dell’uomo forte del Cremlino? È soltanto una parentesi di svago o è una missione per convincere la Russia ad acquistare i Bot e i Btp italiani? Come il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, si è già mosso per sondare la disponibilità della Cina a intervenire nelle prossime aste dei titoli di Stato, Berlusconi avrebbe intenzione di farlo con Putin sfruttando i suoi rapporti personali.

A

Del resto il Wall Street Journal ha appena scritto che Mosca, come Pechino, potrebbe rivelarsi il potenziale salvatore dei Paesi europei in difficoltà. I risultati dell’incontro in dacia si potranno giudicare soltanto dopo Ferragosto. Del tema dei colloqui non si parla nel programma: il

Silvio fugge in dacia Ma a fare che cosa? Il viaggio potrebbe servire per convincere il Cremlino a comprare il debito italiano di Enrico Singer

città e tutta la regione. A differenza del georgiano Stalin che, da uomo del Sud, preferiva Mosca – perché centro del potere – e soprattutto la sua dacia al caldo del Mar Nero. Si racconta che quando entrò per la prima volta nella villa sul lago Valdai ci rimase appena tre ore e prese a male parole i dirigenti del Pcus dell’allora

In agenda dovrebbero entrare anche alcuni affari privati fra i due. Il primo ministro russo, infatti, non ama perdere tempo e ci sono molte questioni che interessano Berlusconi piatto forte è una visita al monastero che il patriarca ortodosso Nikon fece costruire sulle rive del lago nel 1653 e che si può vedere anche dalla terrazza della villa di Putin che sorge a poca distanza nello stesso bosco in cui si trova ancora una delle residenze ufficiali di Stalin dove, per un intreccio degno di un romanzo di Dostojevskij, il nonno paterno di Putin, Spiridon, lavorò come cuoco. Putin a San Pietroburgo ci è nato e ama molto la sua

Leningrado: «Mi avete portato in una trappola per topi, qui non c’è niente da fare». Era il 1940, la dacia era stata costruita con tutto il lusso possi-

bile per quell’epoca, ma quello che non piaceva al dittatore era proprio la fredda regione della Russia settentriona-

Putin e Berlusconi insieme a pesca sul lago Valdai, dove sorge il “buen retiro” estivo del defunto dittatore sovietico Josip Stalin e un antico monastero le, nonostante le sue bellezze naturali e i 76 laghi tra le foreste dell’istmo della Carelia. Di sicuro Stalin non condivideva quello che quattro secoli prima aveva detto il patriarca Nikon – «In cielo c’è il paradiso, in terra c’è il lago Valdai» – quando, almeno secondo la tradizione, scelse il posto per abbinare a una povera stazione di posta fra Mosca e San Pietroburgo anche un monastero. Proprio quello che Putin e Berlusconi visiteranno assieme. Oggi la

villa di Stalin è stata trasformata in agriturismo di lusso per nomenklatura e nuovi ricchi. Ma gran parte degli ettari del parco sono stati inglobati nella tenuta sulla quale Putin, nel 1992, ha cominciato a costruire la sua nuova dacia che, in realtà, è un complesso di diversi edifici per un totale di settemila metri quadrati coperti. Nel 1996 Putin ha anche creato una società – la Ozero, che vuol dire il lago – con alcuni suoi amici, tra i quali lo scienziato diventato banchiere Yurij Kovalchuk, che ha avuto come effetto l’unione delle proprietà vicino al villaggio di Solovjovka, nel distretto Priozerskij, che compongono la dacia che Berlusconi ha già visitato altre quattro volte definendola una meraviglia che fa impallidire Villa Certosa.

È stato proprio Berlusconi a raccontare delle pareti fatte da vasche di acquari con pesci tropicali, delle indimenticabili terrazze affacciate sul lago Valdai e sull’antico monastero, degli sconfinati giardini tra i boschi e del ricco arredamento con seggiole e tavoli dai piedi ricoperti d’oro zecchino come i rubinetti di alcuni bagni. «È una casa da sogno, non ho mai visto tante cose belle in una volta», aveva detto dopo il suo primo soggiorno nella dacia, nell’agosto del 2005. Da allora l’incontro privato con Putin è diventato una specie di appuntamento fisso: si è ripetuto nel 2007, nel 2009 e anche l’anno scorso. Ogni volta a cavallo tra il relax e lo scambio d’inviti privati – Putin è stato due volte a Villa Certosa – e l’occasione per affrontare problemi d’attualità. Soprattutto affari: dal petrolio, al gas, al progetto della pipeline South Stream. Questa volta Berlusconi spera di ottenere dall’amico Putin una mano per finanziare il debito pubblico. Ma l’esperienza insegna che, al di là delle passeggiate nel parco e dei sorrisi, l’uomo forte del Cremlino bada per prima cosa ai suoi interessi. Come nel caso della difficile trattativa tra Eni e Gazprom. E l’eventuale investimento russo nei buoni del Tesoro italiani dipenderà più dalle garanzie del piano d’intervento europeo che dai rapporti personali. La priorità, insomma, rimane sempre quella di rispettare gli impegni presi in sede Ue, in particolare quelli del vertice straordinario del 21 luglio sul rafforzamento del Fondo di stabilità europeo che, per il momento, sono rimasti sulla carta. Altrimenti anche questa visita in dacia sarà soltanto una vacanza di piacere.


Una lettura al giorno

Fenomenologia della VeritĂ : viaggio filosofico nel significato della parola-chiave che ci rende uomini liberi

La domanda di Pilato Di fronte all’interrogativo che il procuratore romano rivolse a GesÚ,continuiamo a sentirci smarriti. Vademecum per una possibile risposta di Giancristiano

Desiderio

pagina I - liberal estate - 10 agosto 2011


una lettura al giorno iamo colti di sorpresa quando qualcuno ci rivolge la domanda: «Che cos’è la verità?». Anche se la domanda ce la ripetiamo spesso nel segreto del nostro spirito o, forse, proprio per questo, non consideriamo mai l’ipotesi che qualcuno ce la possa rivolgere in modo diretto e chiaro. Così, quando accade, rimaniamo smarriti perché non abbiamo la risposta giusta a portata di mano e, assaliti dai nostri dubbi, siamo portati a pensare che, in fondo, la verità non esiste. Tuttavia, quando ritorniamo sui nostri passi e suoi nostri dubbi ci sorprendiamo a pensare che la verità o una verità deve pur esistere, fosse pure il suo contrario, altrimenti da dove nascerebbe il senso o l’esigenza della domanda «Che cos’è la verità?». Il mondo umano sembra funzionare grazie alla verità. Come l’animale ha l’istinto, così l’uomo ha la verità o l’istinto della verità. Se l’uomo non vivesse nel mondo vero non riuscirebbe a muovere un passo fuori dall’uscio di casa e neanche tra le mura domestiche. Se ci orientiamo è perché conosciamo la verità che abita con noi a casa nostra: sappiamo dove mettere le mani, sappiamo se siamo soli o se c’è qualcu-

S

semplici hanno già qualcosa di metafisico. Se alla parola «metafisica» diamo il significato che le è proprio, ossia metà ta fisicà ciò che è oltre le cose fisiche - allora anche le nostre semplici verità quotidiane sono metafisiche. Con le parole e le azioni controlliamo le cose e continuamente le superiamo. L’uomo trascende gli oggetti semplicemente perché a sua volta non è un oggetto. Ma come trascende le cose che ha davanti a sé e tocca con le mani, così vuole trascendere anche la verità e trasformarla in un oggetto o una cosa Che cosa è la verità? - che può guardare con gli occhi e rigirare tra le mani. È a questo punto che si apre davanti a noi una strada alquanto confusa - la metafisica - che dovrebbe condurre in un luogo in cui c’è la verità proprio come nell’altra stanza c’è il televisore. Siccome questo strano oggetto del desiderio non è mai saltato fuori, ecco che ritorna a galla, neanche fosse la verità, la domanda iniziale di Pilato: «Che cos’è la verità?».

sariamente scaturire la libertà, anche se necessariamente significa mettere in conto l’eliminazione fisica e spirituale di milioni di uomini. Questa è stata la verità totalitaria del Novecento. Isaiah Berlin una volta disse - lo si legge nel suo testamento spirituale Il legno storto dell’umanità - che il Novecento è stato il secolo peggiore della storia umana: il secolo dei lager e dei gulag che uccisero e annichilirono una parte dell’umanità in nome della verità. Si può capire, dunque, il sospetto verso la Verità: perché la Verità con gli uomini che ritenevano di esserne gli unici interpreti veri ha ucciso e può uccidere. Ma il sospetto verso la verità è giustificato non solo con la «verità forte», ma anche con la «verità debole»: la verità come opinione. Oswald Spengler nel suo Il tramonto dell’Occidente sostiene che la verità o ciò che riteniamo sia la verità è il prodotto della stampa perché bastano tre settimane di una buona campagna stampa per dirci cosa sia la ve-

L’idea di verità è circondata da una coltre di sospetto. È comprensibile se si pensa a quante nefandezze sono state compiute in suo nome nel ’900

no in casa oltre noi, sappiamo che stiamo alla scrivania e cosa c’è nelle altre stanze, sappiamo cosa fare se avvertiamo fame o sete, ma dobbiamo ricordarci, quando usciremo, di comprare il caffè perché quello che c’era è finito.Tutti questi fatti sono verità semplici, ma la nostra vita - la vita degli uomini - è fatta di verità semplici. Eppure, queste verità

Il sospetto verso la verità L’idea di verità è circondata da una spessa coltre di sospetto. È comprensibile. Maria Antonietta mentre era condotta al patibolo disse: «Libertà, quante nefandezze si compiono in tuo nome». Si può ripetere la frase con una piccola variazione: «Verità, quante nefandezze si compiono in tuo nome». Dalla verità deve neces-

pagina II - liberal estate - 10 agosto 2011

rità. Quando Spengler scriveva, il «quarto potere» non era ancora così sviluppato com’è oggi, e ancora non c’era il «quinto potere» - la televisione, le televisioni - e non c’erano naturalmente neanche i poteri della Rete di internet e della pervasiva tecnologia. Il mondo di Spengler era ancora «solido», mentre il nostro mondo post-moderno è «liquido» e la

verità non si costruisce più in tre settimane ma in tre giorni o, forse, in tre ore. La verità - anche la verità della mutevole opinione è letteralmente andata in pezzi perché la moltiplicazione dei mezzi di produzione della verità - i mass-media - ha moltiplicato la verità stessa facendo saltare in aria il mito dell’etnocentrismo. Il concetto di Storia lascia il passo al concetto di storie: questo ha fatto parlare di «fine della storia», ma in realtà ne è solo l’inizio o la liberazione. Dopo la fine dell’Unione Sovietica e del comunismo storico Francis Fukuyama parlò hegelianamente di «fine della storia», ma Alexandre Kojève con la sua in-

terpretazione di Hegel aveva già fissato la data della fine della storia nel 1806 con la vittoria di Napoleone sulla Prussia nella battaglia di Jena quando Hegel scrisse di aver visto «lo spirito del mondo a cavallo». Sia come sia, fatto sta che il sospetto verso la Verità o assoluto da una parte e il sospetto verso la verità o opinione dall’altra crea il pericoloso mito della inesistenza del concetto di verità.

L’autoinganno Che cos’è l’inganno se non la capacità di fingere di non conoscere la verità? E che cos’è l’autoinganno se non il ritorno della verità/realtà che, ignorata delibera-


A sinistra, “Allegoria della Verità e del Tempo” di Annibale Carracci. Sopra, un disegno di Michelangelo Pace. A destra, dall’alto: Benedetto Croce, Hannah Arendt e Martin Heidegger

tamente dall’ingannatore, si vendica colpendolo e travolgendolo come il vulcano travolge le case costruite sul cratere? L’inganno e l’autoinganno, in particolare, sono la forma e la degenerazione del potere politico. Il governo che vuole e deve ingannare - non importa chi, i cittadini o i nemici interni o i nemici esterni - deve conoscere come stanno le cose ossia la verità, ma il governo che vuole ingannare e non sa come stanno le cose o ignora deliberatamente lo stato reale e vero del-

le cose, ossia non conosce la verità che gli riguarda, inganna se stesso. Il governo che inganna i cittadini è ancora un governo utile, mentre il governo che si autoinganna è un governo pericoloso per i cittadini. Un esempio di autoinganno è quello discusso da Hannah Arendt in La menzogna in politica. All’inizio degli anni Settanta il New York Times rese noti alcuni stralci dei Pentagon Papers: gli esperti del Pentagono in pratica ammettevano l’inutilità strategica dell’impegno militare statunitense in Vietnam. L’indignazione fu grande, ma al di là dell’indignazione per un’ammissione che giungeva con grande ritardo, Hannah Arendt prese spunto da quel concreto fatto della storia e della recente politica americana per riflettere sul rapporto tra politica e menzogna, inganno e autoinganno. Perché, come scriveva con concretezza e dimostrata conoscenza delle cose umane la Arendt, c’è sempre un punto oltre il quale mentire è semplicemente controproducente. A maggior ragione in politica dove la menzogna non è un elemento casuale o estraneo: piuttosto, è per molti versi l’essenza stessa della politica, ma a patto che si abbia in mente la verità dei fatti che sono l’elemento di stabilità e credibilità della stessa menzogna. Fu proprio questo, invece, che saltò per aria nella strategia americana nel Sud-est asiatico. Nel suo saggio la Arendt confronta la menzogna classica, ossia la necessità di mentire per la politica e per la tradizionale ragion di Stato, con una menzogna speciale che, in realtà, è la falsificazione dei fatti e la manipolazione delle menti per motivi che riguardano la «reputazione» e l’«immagine» del governo. Nel primo caso la menzogna si basa sui fatti, nel secondo caso invece i fatti vengono de-realizzati: ma in questo modo il soggetto ingannatore - un governo, un partito, un leader, una équipe di esperti - tocca il pericolo massimo per sé che è l’autoinganno, appunto. L’ingannatore che non inganna gli altri ma insieme gli altri e se stesso perde il contatto con il pubblico, con il mondo dei fatti e con il mondo reale o vero che, però - ecco il punto - può ancora toccarlo giacché l’ingannatore può astrarre dalla realtà/verità la mente, e così manipolare i fatti, ma non può astrarre il corpo, se stesso, la sua medesima realtà. In parole semplici: la realtà ignorata deliberatamente per un delirio di onnipotenza è una realtà che si vendica. Il pericolo dell’autoinganno è una chiara espressione della politica del tempo delle democrazia di massa. I governi inseguono l’immagine che del governo hanno i governati o, ancor meglio, che del governo danno i massmedia. Per avere una «buona reputazione» i governi sono disposti a tutto e prima di tutto sono di-

no di questo tipo elimina dal suo orizzonte la verità come elemento di stabilità esponendosi così al pericolo dell’autoinganno.Volendo passare dall’esempio ormai classico e importante della Arendt a uno più piccolo ma non meno significativo di casa nostra si può citare il caso napoletano della spazzatura: Antonio Bassolino aveva puntato tutto sull’immagine e sul cosiddetto Rinascimento, tanto esaltato quanto inesistente, ma la spazzatura deliberatamente ignorata e rimossa dai fatti della politica, eppur esistente e resistente, si è vendicata spazzando via Bassolino e il Rinascimento.

Il paradosso scettico La verità non si fa mettere da parte facilmente. Anzi, la verità, non dipendendo dalla nostra volontà, ed essendo quindi involontaria e spontanea, non è pienamente nel dominio del nostro controllo. È questa la radice del detto comune che dice «la verità viene sempre a galla». Lo sa bene lo scettico che da sempre deve fronteggiare una situazione paradossale: deve negare l’esistenza della verità o la capacità degli uomini di acciuffarla e, nello stesso tempo, non deve

gando l’esistenza o la possibilità della verità pur ne afferma una. Saltar fuori dal cerchio o circolo della verità non è facile neanche per lo scettico che proprio perché intende negare l’esistenza o possibilità della verità per l’uomo deve far uso del principio di non contraddizione che altro non è che la coerenza del pensiero in ciò che pensa. In fondo, è vero quanto notava Aristotele non solo in riferimento al principio di non contraddizione - ossia che anche chi lo nega è costretto ad affermarlo - ma anche in senso più ampio alla filosofia: o si filosofa o non si filosofa, ma anche se si sceglie di non filosofare occorre la filosofia, dunque, non c’è scampo: la filosofia è necessaria. La stessa cosa si può ripetere per la verità: o c’è la verità o non c’è la verità, ma anche se non c’è verità occorre la verità per dimostrarlo, dunque, la verità è necessaria.

Necessità della verità La verità è talmente necessaria che se non ci fosse andrebbe inventata. La verità è necessaria non per la metafisica, ma per la vita. Per vivere, e per vivere una vita umana, dobbiamo conoscere la verità. Il fine della conoscenza non è quello di fermarci a contemplare il mondo vero e il mondo naturale, ma è quello di vivere. La Metafisica di Aristotele inizia con una gran frase molto nota: «L’uomo tende per sua natura al sapere». Questa tendenza naturale al sapere diventa poi nella filosofia aristotelica - e in particolare nella versione scolastica che per secoli dominerà la scena del pensiero e non solo del pensiero - il primato della vita contemplativa o del bios teoretikos. Così concepita la conoscenza umana ha il suo fine nella contemplazione di un mondo naturale che si risolve nel sapere come pensiero di pensiero. È come se Aristotele fosse più platonico di Platone. Nell’amico più importante di Socrate, infatti, la conoscenza non ha come suo fine esclusivamente il sapere in quanto sapere, bensì la «vita buona», ossia la buona convivenza nella polis. In altre parole, la verità non va contemplata - se non in un altro mondo o luogo mitico che non è questo mondo perché è al di là del cielo: Iperuranio - ed è invece necessaria per vivere bene. Nel pensiero platonico non c’è un primato della scienza, ma un primato etico-politico o della libertà. Lo stesso primato che riguarda la nostra vita quotidiana. La verità indirizzata verso la «vita buona» ha una doppia funzione: prepara l’azione e libera dal passato. È questo il valore della verità come teoria o, in senso aristotelico, come sapere in quanto sapere.

Secondo Aristotele l’uomo tende per sua natura al sapere. La conoscenza è comprensione del modo in cui il vero è accaduto

sposti a farsi pubblicità, a incidere con la comunicazione sull’opinione pubblica. Il risultato è che il riferimento del governo non sarà più il governo delle cose e delle azioni, ossia l’agire politico che si basa sul giudizio e sulla critica e incontra sempre dei limiti, ma la retorica e la propaganda, ossia le tecniche di manipolazione del consenso che si basano sul calcolo che ignora per principio la realtà e tende all’onnipotenza senza limiti. Un gover-

affermare la sua verità. Un esercizio spericolato che, forse, una volta riuscì bene a Sesto Empirico quando sia negli Schizzi pirroniani sia in Contro matematici notò che ci sono molte cose che fanno a sé ciò che fanno alle altre cose: il fuoco, ad esempio, consuma la legna e distrugge anche se stesso; e i purganti purificano il corpo degli uomini espellendo il male e insieme se stessi. Allo stesso modo - dice Sesto - l’argomento scettico distrugge la dimostrazione della verità e contemporaneamente mette anche se stessa al bando. Un’immagine, in verità, molto bella, eppure bisogna ammettere che l’argomento scettico che si autodistrugge non sfugge al paradosso che Democrito mise in luce, sembra, per la prima volta: il peritropo o rovesciamento. Il peritropo è l’applicazione del criterio gnoseologico o di significanza dello scettico alle sue stesse parole e ai suoi enunciati. Lo scettico ripete, anche con una certa sicurezza che in lui un po’ stona, che la verità non esiste o che se esiste non è afferrabile, ma così ne-

pagina III - liberal estate - 10 agosto 2011


una lettura al giorno La parola «teoria» è associata a una elaborazione intellettualistica, ha cioè qualcosa di cervellotico. Teoria, invece, nel suo senso originario significa «partecipazione alla festa in onore del dio». Teo significa dio e orao vedere: si può quindi dire che significa «vedere dio» o inoltrare lo sguardo verso il divino. In modo più semplice possiamo dire che «teoria» significa partecipare e vedere: partecipare alla vita e vederla. Partecipare e vedere per agire. L’atteggiamento teoretico non è, dunque, astratto ma concreto perché è la partecipazione della mente alla vita. C’è indubbiamente nella vita un «primato del fare» che è reso possibile dalla stessa funzione teoretica del pensiero che prepara l’azione. Quella che noi chiamiamo «teoria», infatti, nasce da un atteggiamento pre-teoretico che Heidegger indica come esserenel-mondo ma che possiamo semplicemente definire come il nostro modo di comprendere le cose e la vita nella quale siamo. È la comprensione o apertura umana sul mondo che consente al pensiero di preparare l’azione. La verità, dunque, non è la visione di una cosa chiamata verità - come se fosse un film - ma l’interpretazione di ciò che già siamo. La preparazione, inoltre, evita conseguenze nefaste della verità metafisica o intellettualistica: il determinismo. Determinismo significa «essere determinati da»: come una pianta è determinata dalla sua natura. La verità metafisica, dunque, conoscendo la realtà inserisce e adegua l’uomo alla realtà di cui è parte come la pianta è parte del ciclo naturale. La verità metafisica annulla la libertà dell’uomo, mentre la funzione preparante del pensiero la conserva. La funzione preparante non annulla e tiene aperta la distinzione tra pensiero e azione: l’azione in questo modo non è la riproduzione pratica del pensiero - l’esecuzione necessaria - ma una nuova creazione che dipende dalla libera volontà. Ma se il pensiero ci prepara ad agire, che cosa significa che ci libera dal passato? La conoscenza altro non è che la comprensione del modo in cui la verità è accaduta. Propriamente comprendere significa smontare e rimontare dei fatti nel modo in cui sono venuti all’essere (o riteniamo che siano venuti all’essere).La verità, dunque, non è un’essenza o una qualità o una natura statica e stabile, ma un accadimento: la verità è evento o - se vogliamo usare la parola abusata da Heidegger - è Ereignis o - se vogliamo usare la parola più ordinaria di Croce - è storia. La storia, sia quella passata sia quella attuale, è da noi compresa quando siamo a essa spinti da un bisogno pratico e morale di chiarezza. Abbiamo cioè bisogno di vederci chiaro nel nostro passato - in quello storico come in quello biografico - per liberarcene e continuare a vivere.Abbiamo bisogno di conoscere il passato sia per la storiografia sia per l’esistenza perché noi stessi siamo storia. Se non fossimo storia - ossia verità ac-

caduta - non saremmo esseri linguisticamente orientati nel mondo. Non saremmo capaci di parola e di ascolto. La storia è il nostro modo di essere.

L’uomo e la verità La verità, pur essendo necessaria per vivere, ha una sua forma espressiva nella quale si svela o annuncia: il giudizio. Se esiste la verità, in fondo, è perché nell’essere c’è un essere in grado di dire che l’essere è o, meglio, in grado di dire l’essere: l’uomo. In questo esercizio allo stesso tempo verbale ed esistenziale, espressivo e concettuale, viene propriamente al mondo il mondo. Senza la copula mundi il mondo per noi umani non sarebbe. Non è il verbo che crea il mondo, ma per l’uomo è attraverso il verbo che il mondo - l’essere in generale, le cose, la natura, la storia - si rivela. In altre parole, senza è e senza non è l’uomo non avrebbe accesso al mondo o non avrebbe mondo. Invece, attraverso l’aiuto di questo verbo ausiliare l’uomo e l’essere si “La morte di Socrate” dipinta da Jacques-Louis David. Anche il filosofo greco, come Gesù, fu condannato a morte da una votazione

no un mondo ulteriore o superiore o soprannaturale rispetto alla realtà sensibile, al mondo di quaggiù, ma si limitano a rivelarci le stesse cose sensibili nella loro mondanità. I logoi, in altre parole, rendono mediato ciò che è immediato e che proprio per la sua immediatezza ci sfugge. La conoscenza deve passare attraverso il pensiero che è come se fosse un filtro o una lente attraverso la quale le cose si rendono manifeste o visibili. La verità si annuncia nel pensiero che è quello strano luogo umano in cui l’essere dice di essere se stesso e non altro. Ecco perché il pensiero è il «luogo» del contraddittorio perché lì, in quella che Croce chiama la «logica della filosofia», è in gioco la contraddizione che, nascendo dai contrari e dalla confusione delle idee che man mano si schiariscono come la luce del mattino, è la possibilità stessa che abbiamo di poter pensare la verità.

Viviamo nella verità Quando rivolgiamo il pensiero verso quell’idea strana che è la verità siamo soliti immaginarci, anche se non immaginiamo nulla, una cosa che è in qualche luogo. Ma la verità non è né una cosa né si trova in un

luogo perché è una dimensione storico-linguistica nella quale già siamo. Quando poniamo la «questione» della verità già siamo da un pezzo nella verità. La verità ci sorregge e contiene come ci sorregge e contiene la Terra sulla quale viviamo e abitiamo. Conviene qui citare due righe di Heidegger, e solo due righe, dal noto libro L’essenza della verità. Dunque, a pagina 101 leggiamo: «La verità non è né presente da qualche parte al di sopra dell’uomo (come validità in sé), né è nell’uomo come soggetto psichico, ma al contrario l’uomo è “nella” verità». Croce, con maggior semplicità, dice «l’uomo vive nella verità» (era questo il titolo della prima Conversazione che tenne con i giovani che frequentavano l’Istituto di studi storici che volle fondare in un’ala di Palazzo Filomarino dove abitava). Ora, dire che l’uomo vive nella verità significa affermare un legame

La democrazia, il potere dei più, non è in sé garanzia né di verità, né di libertà. Al contrario sono la verità e la libertà a garantirla vengono incontro reciprocamente e si corrispondono. Non possiamo avere accesso diretto alle cose. È solo il logos - il linguaggio e il pensiero - che ci permette di fare la conoscenza delle cose che sono. È questo il senso più autentico e concreto della «seconda navigazione» del Fedone. Non possiamo guardare direttamente il sole e per ammirare il sole durante un’eclissi - dice Socrate - lo si guarda riflesso in un’immagine. La medesima esperienza accade nella conoscenza delle cose: non le possiamo cogliere direttamente con i sensi e per farlo dobbiamo «rifugiarci nei discorsi» perché è nei logoi che la verità delle cose si potrà affermare o negare. I logoi, ossia i discorsi concettuali, non ci mostra-

pagina IV - liberal estate - 10 agosto 2011

non solo stretto, ma non scindibile del pensiero con l’essere e con l’azione. Perché delle due l’una: o il pensiero è legato all’essere e quindi i nostri discorsi hanno un senso e sono utili e buoni per condurci con un certo equilibrio nella vita o il pensiero è sciolto dall’essere e quindi i nostri discorsi non hanno senso alcuno e noi siamo nelle mani o del Caso o del Fato. Ma è la vita stessa che ci spinge a pensarla secondo verità per viverla. È la vita cioè che si prende la briga di mostrarci che altra strada non c’è se non concepire come legati e intrecciati tra loro il pensare e l’essere o, per usare parole più ordinarie, il pensare e il fare. Quanto abbiamo fatto lo possiamo rifare mentalmente e conoscerlo. La verità propriamente è la ri-costruzione di quanto è accaduto. È il motivo che ci fa dire che la verità è cosa troppo importante per lasciarla ai professori o agli scienziati o ai sacerdoti o ai politici: la verità riguarda la vita e la vera filosofia, come la vera e grande poesia, nasce dalla vita, non certo dalle scuole o dalle accademie. Concepire la verità come esistente in un luogo da noi separato o come il frutto di una teoria intellettuale è un modo per mortificare la nostra opera di vita, grande o piccola che sia. Concepire la verità come la nostra stessa storia nella quale agiamo e viviamo e senza la quale non saremmo noi stessi, come un albero non sarebbe un albero, equivale a pensarci come uomini liberi che si sforzano di vivere secondo coscienza. In quella Conversazione con i giovani Croce non esitava poi a trascrivere la parola Verità con la maiuscola perché voleva sottolineare che l’uomo ha in sé la forma della verità come unione dell’individuale e dell’universale ossia, con parole comuni, del soggetto e del predicato. E se, in una pausa ideale del nostro lavoro quotidiano, ci fermassimo a pensare ci accorgeremmo che per pensare le cose che ci circondano e che nominiamo secondo abitudine e per pensare i nostri stessi atti o quelli delle persone a noi care o dei nostri rivali altro non possiamo fare che unire e distinguere con il giudizio intuizione e categoria. Questa operazione di verità, quantunque irriflessiva, noi la facciamo a ogni nostro passo perché per vivere non possiamo di certo attendere che qualcuno ci insegni come fare. Ma quando passiamo dal fare il mondo a pensare il mondo ci immaginiamo mondi impossibili mentre la verità è proprio lì vicino a portata di mano. Chiudendo quella sua bella e umanissima Conversazione il filosofo diceva, per l’appunto, che non dobbiamo andare in cerca

della verità, né del bene e del bello, né della gioia in qualcosa che sia lontano e distaccato da noi e quindi inconseguibile, ma, al contrario, dobbiamo ricercare la verità, il bene, il bello, la gioia in quel che facciamo e faremo, nel nostro lavoro e nella nostra opera, perché è qui che c’è l’universale di cui gli uomini vivono. E aggiungeva «un motto bizzarro ma profondo» che ripeteva Warburg: tenere sempre presente che Dio è nel particolare, che Gott ist im Detail.

Risposta a Pilato Gesù non rispose alla domanda di Pilato. Sappiamo come finì la storia. Prevalse la verità dei più: «Barabba, Barabba». Ma Gesù che cosa avrebbe potuto rispondere? Perché tacque? Forse, avrebbe potuto ripetere le stesse parole che pronunciate poco prima, e fraintese, provocarono la domanda del procuratore romano: «Io sono la via, la verità, la vita». Che cosa stanno a significare ancora oggi queste parole? Significano, al di là delle intenzioni di Gesù che ci sono e saranno sempre ignote, che il corpo e l’anima dell’uomo - la verità - non coincidono mai con il potere.Verità e potere non sono la stessa cosa. La verità non è una cosa. Ma è Qualcuno e accade attraverso gli uomini. La verità è l’essere-umano: la verità, la via, la vita, l’essere, il sum e non coincide mai con il potere. Qualunque potere: politico, religioso, economico, militare, scientifico. La verità è la critica al potere di poter allungare le mani sul corpo umano, critica di ogni potere, fosse anche il potere della stessa verità. In questo senso, l’altra frase del Vangelo «la verità vi farà liberi» non può significare altro che l’indisponibilità della verità al volere del potere. La verità non è sottoponibile al dominio del potere: in tale senso la verità rende liberi perché verità e libertà si co-appartengono. Il corpo di Cristo in croce è per noi, che non possiamo non dirci cristiani, il primo e più vero habeas corpus. Ma questa non è una verità confessionale o di fede e può essere accolta anche da chi non è credente. Quando Gesù si rivolge a Ponzio Pilato e gli dice «io sono la via, la vita, la verità» sta pronunciando la verità della dignità umana che è il centro della nostra cultura umanistica: il corpoanima dell’uomo non si tocca e non c’è atto sacrificale che valga per ingraziarsi Dio e superare la violenza. È vero: Gesù non dice cos’è la verità perché, in fondo, il suo compito è più importante: distinguere potere temporale e potere spirituale per aprire la strada tanto alla verità quanto alla libertà. La sua critica del potere - tanto politico quanto religioso - non è diversa da quella di Socrate. Strano: come Gesù, anche Socrate fu condannato a morte da una votazione, dalla democrazia. La democrazia - il kratos del demos, il potere dei più non è garanzia né di verità, né di libertà. Al contrario, sono la verità e la libertà che sono garanzia di democrazia.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g ACCADDE OGGI

Bankitalia inizia la sua corsa 1893, per frenare la stampa di valuta incontrollata nasce la Banca centrale italiana l 10 agosto del 1893, con la legge n. 449, viene istituita la Banca d’Italia. Tre decenni dopo l’unificazione, infatti, il Bel Paese poteva contare su ben sei diverse banche con la facoltà di emettere biglietti intitolati al Regno. La grave crisi che toccò il sistema bancario italiano tra il 1888 e il 1893 e lo scandalo della Banca Romana resero indispensabile una riforma dello stesso.Alla radice dello scandalo, gli eccessivi investimenti immobiliari dell’istituto romano che, dopo il risanamento a seguito del colera del 1884, la depressione iniziata nel 1887 e il trasferimento della capitale, si rivelarono fallimentari. Per coprire le perdite, la Banca Romana iniziò ad emettere moneta senza autorizzazione e, per raddoppiarne la circolazione, arrivò a stampare due serie con gli stessi numeri. La scoperta e il conseguente caos finanziario portarono il capo del governo, Giolitti, a istituire delle commissioni di inchiesta che posero rapidamente mano al riordino del sistema creditizio. Dalla fusione della Banca Nazionale con due banche toscane nacque la nuova Banca d’Italia a cui fu affidata la liquidazione della Banca Romana. L’emissione di nuova moneta rimase, tuttavia, competenza di tre istituti fino al 1926. Nel 1928 l’istituto viene riorganizzato; al Direttore Generale è affiancato un Governatore e le viene assegnato il compito di vigilare sulle banche italiane. Nel 1943, le autorità tedesche pretesero la sua riserva aurea, 173 tonnellate d’oro di cui si perse, successivamente, ogni traccia.

I

Il premier si sente in… «trincea» e a noi tocca sperare solo nel voto Leggendo i giornali sono venuti spontanei questi pensieri: Lui dice: «…Anch’io in trincea…». Ma chi è più in trincea? Lui, titolare di tre imprese quotate in borsa, o il povero pensionato che vede sempre più impoverita la capacità di acquisto dello scarno contributo mensile. O il precario che senza l’aiuto della famiglia non può vivere? O la povera anziana che vede andare in fumo i suoi poveri risparmi, racimolati in una vita di privazioni, e accantonati ingenuamente? Chi è più in trincea? Penso che tra le tantissime domande che si stanno facendo i cittadini italiani ci siano anche queste, ingenue ma tipiche di chi si dibatte nelle difficoltà della vita quotidiana. Domande che non sembrano raggiungere il pensiero del “premier”, intento ad anteporre i propri interessi a quelli di chi lo ha sostenuto, come ha dimostrato in questi giorni lo squallido programma delle lunghe ferie. Questa frase «…Anch’io in trincea…» scoraggia i cittadini, che non possono più comprendere perché non si smetta di “adorare”il cosìddetto “libero mercato”che può forse esistere, ma non sul mercato del denaro o sulle transazioni delle materie prime, del cui abuso e sperpero può creare gravi problemi per l’ambiente, per il futuro dell’umanità stessa. Nell’insieme ci si trova di fronte a un quadro drammatico, cui il povero cittadino non può porre rimedio, perché a sua disposizione ha solo il “voto”. I cittadini si aspettano molto di più di quanto hanno ricevuto e stanno ricevendo dalla classe politica italiana, ma anche da quella europea. Cosa dire?

Alfonso Rotondo

TRENITALIA.COM E ACQUISTO DEI BIGLIETTI ON LINE Mi collego al sito, trovo la tariffa, inserisco i dati della carta di credito e al momento più bello il sistema di Trenitalia si interrompe. Dopo 30 secondi mi arriva sul cellulare un sms da Cartasì che mi avvisa che è stata richiesta da Trenitalia l’autorizzazione all’addebito del biglietto. Mi collego al sito Cartasì ed infatti il mio credito residuo è diminuito dell’importo del biglietto. Chiamo Trenitalia e mi dicono che il sistema centrale non sta funzionando come dovrebbe e che il biglietto quindi non è stato emesso. L’importo addebitato sulla mia carta di credito mi sarà stornato. Il costo della telefonata al call center Trenitalia: scatto alla risposta: 30 centesimi di euro (Iva inclusa); costo al minuto: 54 centesimi di euro (Iva inclusa) totale per 5 minuti: 3 euro. Risultato: non ho il biglietto, ma ho l’addebito sulla carta di credito. Ho speso 3 euro (che ha incassato Trenitalia) per avere informazioni su un loro malfunzionamento. Mi hanno fatto perdere un sacco di tempo e, peggio di tutto, mi hanno fatto incavolare come una bestia. Per finire, al posto del treno ho comprato un biglietto aereo, spendendo più del doppio. Mai più!

Enrico Sinopoli

MANOVRA ECONOMICA: IL FLOP DI GOVERNO E PARLAMENTO Le sedute del Parlamento dell’altro giorno si sono risolte in un flop. Nulla di nuovo da

L’IMMAGINE

Il paradiso perduto è nel Borneo Il “Lost World”, il mondo perduto, lo si può cercare nello stato malese di Sabah, nel Borneo settentrionale. Qui, all’interno di una scarpata di roccia semicircolare, che per secoli l’ha tenuto al riparo dall’uomo, si trova il Bacino di Maliau, un altopiano coperto dalla giungla e bagnato da una serie di fiumi sinuosi (nella foto) alimentati dalle frequenti piogge torrenziali. L’acqua si raccoglie in cascate e alimenta un ecosistema ricchissimo in biodiversità: enormi millepiedi, ragni coloratissimi e piante carnivore

parte del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e altrettanto dalle opposizioni. Se qualcuno si aspettava l’indicazione di un programma, o meglio di un proclama, che ci avviasse ad uscire dalle secche nelle quali il Paese è arenato, si è sbagliato. L’opposizione si è lasciata andare tra lo show e le proposte che lasciano il tempo che trovano (governo tecnico o di unità nazionale). Eppure di cose da fare ce ne sarebbero ad iniziare dalle riforme per lo snellimento della burocrazia che gravano sulle imprese per 10 miliardi o le liberalizzazioni dei servizi pubblici e delle professioni. Ma non si fa nulla perché la stragrande maggioranza dei parlamentari è legata a questo o quell’interesse, e così si impedisce al Paese di decollare.

Lettera firmata

AZZOPPARE L’EURO A FAVORE DI USA E GRAN BRETAGNA Chi muove la speculazione finanziaria contro l’Italia? E chi godrebbe di una crisi dell’euro? Semplice: Londra e Washington. L’euro debole (o dissolto) porterebbe i flussi di capitale sulla piazza finanziaria di Londra, con rilancio globale delle sue banche azzoppate. Con l’euro alla neuro, anche il dollaro tornerebbe moneta di riferimento mondiale, così da far ripartire la crescita Usa. Occhio anche alla Germania: tornare al marco forte (senza la zavorra dell’Europa da salvare) è una bella tentazione…

Stefano Carullo

e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


pagina 12 • 10 agosto 2011

Cameron accusa la “criminalità pura che devasta il Paese” e manda 17mila poliziotti a fermare le manifestazioni uanto pesi, in tutto questo inferno, la recessione economica internazionale non è dato saperlo. Così come è difficile sapere se e quanto coloro che scendano in piazza siano veramente i figli in difficoltà di una working class sempre più ignorata, e sempre meno tutelata, da un esecutivo che deve fare i conti con un bilancio dello Stato realmente in brutte condizioni. Quel che è certo è che le violenze che stanno devastando non più soltanto Londra, ma anche altre cittadine della media borghesia britannica, non sembrano in dirittura d’arrivo. E seppure gli analisti si stanno affannando per convincerci che non c’è nulla di scritto e che le analisi della prima ora sono sempre poco raccomandabili, lo smarrimento evidente nelle istituzioni inglesi non aiuta a capire. Quello che è certo è che la situazione non è bella.

Q

Le ferie di tutti i membri di Scotland Yard sono state annullate d’imperio per fronteggiare la situazione Di sicuro, spiega chi conosce bene la realtà di Londra e dei suoi sobborghi che hanno fornito una scenografia naturale a film e libri di prim’ordine - non c’entra molto la questione immigrazione. Non si tratta di “seconde generazioni”allo sbaraglio: piuttosto c’è forse una punta di rinfocolato razzismo nei confronti dei “piedi neri”, figli e nipoti degli schiavi liberati alcuni secoli fa, che sicu-

ramente il nuovo governo conservatore non ama. E che già hanno dato fuoco alle polveri 30 anni fa, quando l’uccisione di un uomo di colore accese la rivolta del quartiere popolare di Brixton poi conclusa con una spettacolare operazione di polizia. All’epoca, però, le rivendicazioni politiche erano evidenti e presentate in ogni modo possibile.

Al di là delle barricate c’erano lavoratori, non teppisti. Mentre oggi i negozi saccheggiati e ristoranti presi d’assalto e le auto e gli edifici incendiati fanno pensare a criminali comuni. Uno scenario da guerriglia che ha colpito in due giorni anche i quartieri di Croydon, Peckham, Ealing, Lewisham, Clapham Junction, Newham, Bethnal Green, East Dulwich e Clapham. A Enfield, nord di Londra, un intero magazzino della Sony (tre piani per 20 mila metri quadri totali) è avvolto dalle fiamme. La ribellione si è estesa da nord a sud grazie al tam tam via Twitter e Blackberry, tanto che le atuorità hanno annunciato un giro di vite: «Arresteremo chiunque cercherà di radunarsi usando i social network». Ma la rivolta sembra non placarsi. Gli agenti di polizia vengono affrontati con mazze da baseball e spranghe di ferro e nei quartieri di Ealing e Clapham sono stati schierati i mezzi blindati nelle strade dei quartieri sotto attacco. Il ministro dell’Interno britannico, Theresa May, ha però escluso l’ipotesi di fare scendere in strada l’esercito per sedare la guerriglia urbana: «L’ordine pubblico si basa sul consenso». Commentando la grave situazione della capitale i principali quotidiani britannici hanno esplicitamente parlato nei loro titoli di apertura di “anarchia”. La situazione a Londra è precipitata nelle ultime ore, costringendo David Cameron a

Non ce l’ha fatta il 26enne ferito negli scontri di Tottenham

Londra brucia ancora. E un ragazzo muore di Vincenzo Faccioli Pintozzi lasciare la villa in Toscana per tornare in fretta nella capitale: nella terza notte di disordini, oltre a diversi quartieri di Londra, le violenze hanno interessato anche altre città come tra cui Birmingham, Liverpool, Manchester, Nottingham e Bristol. E ieri a Londra è morto un giovane di 26 anni, la prima vittima degli scontri scoppiati tre giorni fa. «Faremo tutto il necessario per ristabilire l’ordine», ha promesso Cameron al termine di una riunione del ”Cobra”, l’unità di crisi del governo britannico, annunciando inoltre la convocazione di una seduta straordinaria del Parlamento fissata per giovedì. E questa notte vi saranno 16mila agenti di pattuglia, contro i 6mila dispiegati ieri: tutte le ferie In alto, da sinistra in senso orario: scene di devastazione e violenza che hanno colpito da tre giorni la capitale britannica. Questa notte saranno 16mila gli agenti di polizia che cercheranno di frenare la furia popolare a Londra

del personale di Scotland Yard sono state annullate. Dall’inizio dei disordini sono stati effettuati circa 450 arresti e nei prossimi giorni «occorrerà aspettarsene molti di più», ha continuato il premier, che ha avvertito: «Giustizia sarà fatta. Se siete abbastanza adulti da fare queste cose, lo siete anche per affrontarne le conseguenze», ha concluso Cameron rivolgendosi ai responsabili delle violenze. «Questa notte saremo lì»: anche il responsabile ad interim della Polizia Metropolitana di Londra, Tim Goodwin, ha avvertito i gruppi di vandali, invitando inoltre famiglie e genitori a tenere i figli in casa: «Non è un gioco o uno spettacolo, si tratta di attività criminali». Intanto si è registrata la prima vittima


violenza a Londra

dei disordini: si tratta di un 26enne rimasto gravemente ferito da un colpo d’arma da fuoco lunedì notte a Croydon: l’uomo, la cui identità non è stata resa nota, era stato ritrovato ieri sera all’interno di una macchina ed immediatamente ricoverato in ospedale in gravi condizioni; altri due giovani, fermati nelle immediate vicinanze con degli oggetti rubati, sono stati arrestati. Nel frattempo, le esigenze relative alla sicurezza hanno convinto le autorità ad annullare l’amichevole Inghilterra-Olanda previste per questa sera, risparmiando così gli agenti destinati al servizio d’ordine; altre quattro partite di Coppa di Lega in programma ieri sera sono state ufficialmente rinviate, su richiesta delle forze dell’ordine; in corso valutazioni anche sul cricket, visto che domani è previsto il terzo test match dell’Inghilterra contro l’India a Edgbaston, Birmingham, un’altra città interessata da rivolte e saccheggi. Ma nel paese infuriano le polemiche sull’efficacia della polizia, in particolare di Scotland Yard (già nell’occhio del ciclone dopo lo scandalo legato alle intercettazioni che ha portato alle dimissioni del Commissioner, Paul Stephenson): i principali tabloid hanno esplicitamente parlato nei loro titoli di apertura di anarchia.

Le prime violenze erano scoppiate nella notte fra sabato e domenica nel quartiere multietnico di Tottenham, dopo una manifestazione convocata per protestare contro la morte di Mark Duggan, pregiudicato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Le circostanze della sparatoria sono al momento oggetto di un’inchiesta: secondo alcune fonti di stampa britanniche infatti gli agenti dell’unità speciale armata avrebbero aperto il fuoco senza essere stati precedentemente attaccati. E la morte del ragazzo, ieri, potrebbe dare nuova benzina a queste fiamme. Che rischiano di mandare in cenere una delle capitali più antiche, e in proporzione iniqua, di tutta l’Europa continentale.

10 agosto 2011 • pagina 13

L’opinione dello storico corrispondente della Bbc in Italia sulle violenze urbane

«Da noi l’integrazione c’è, il vero problema è la povertà» «Chi mette a ferro e fuoco la città crea un danno alla comunità. Che prima o poi reagirà. E allora saranno guai»: parla David Willey di Pierre Chiartano

ROMA. La rivolta ha superato i confini di Londra. I tumulti e i saccheggi che hanno colpito la capitale del Regno Unito si sono estesi a molte altre città del Paese. Partita come un’azione di bande violente, sembra che nel corso delle ore abbia cambiato connotati. Sempre più sommossa sociale, anche se il sopracciglio alzato dei cittadini british non tollererà a lungo questo sipario d’anarchia. E si vedono anche segnali di collaborazione tra forze dell’ordine e comunità etniche, all’interno dei quartieri colpiti dalla sommossa. «Faremo tutto il necessario per ristabilire l’ordine», ha affermato David Cameron, rientrato d’urgenza dalle ferie in Toscana. Il premier ha annunciato una seduta straordinaria del Parlamento fissata per giovedì. E c’è da credergli, visto che uno dei capisaldi dello Stato britannico è la regola della legge e le libertà individuali. Liberal ha chiesto a David Willey, decano della Bbc in Italia, un parere sulla natura degli scontri e quanto possano essere un segnale d’allarme non solo per la Gran Bretagna ma per tutta l’Europa. Siamo di fronte a uno scontro di natura sociale? «Ho più domande che risposte in questo momento. Servirebbe sapere fino a che punto questa violenza è spontanea e fino a che punto è stata organizzata e coordinata. Non abbiamo ancora risposte. Ma arriveranno presto: in Gran Bretagna le strade delle città sono controllate capillarmente da una rete di telecamere. È quindi una questione di tempo per capire e sapere chi ha condotto le azioni vandaliche. La polizia è già al lavoro per l’identificazione di questi provocatori che hanno causato tanti danni. E c’è una buona probabilità che saranno individuati e isolati. Non è più possibile nella società contemporanea rimanere a lungo nell’anonimato. L’atteggiamento delle autorità è di rendere chiaro che i colpevoli verranno processati e puniti». Nessuna cattiva coscienza dunque che possa poi portare a una certa condiscendenza, a una mano leggera nei confronti della violenza organizzata. Come, ag-

giungiamo, è spesso avvenuto in Italia, specie negli Anni di piombo. «Ciò che è grave è che la Gran Bretagna è un Paese dove la legge viene rispettata. Queste violenze hanno violato la libertà di tante persone che ora sono arrabbiate e chiedono giustizia. Non una giustizia di piazza, ma l’applicazione canonica della legge». Ora la rivolta sta contagiando altri centri urbani e sull’onda dei Blackberry – difficilmente individuabili – e dei social network, rischia di incendiare l’intero Paese. C’è da chiedersi come mai il contagio sembri così rapido. «Si tratta di una gioventù senza lavoro, senza educazione e senza prospettive d’integrazione nella società civile. È gente marginalizzata. E non è casuale che le violenze si siano prodotte nel mese di agosto». Willey introduce una compo-

I nostri guai di oggi sono cominciati dal processo di deindustrializzazione. Serve un nuovo progetto

nente molto inglese nel discorso, l’ironia che cela preoccupazione. «Sembrerà ridicolo, ma fa caldo, è tempo di vacanze. Non è un dato irrilevante. Se stasera ci fosse un temporale, come spesso succede in Inghilterra, ci sarebbero sicuramente meno problemi. Se guardiamo al passato, manifestazioni di questo tipo sono già accadute, non solo in Inghilterra». Negli anni Cinquanta ci furono scontri simili, di natura etnica. «Ma sempre d’estate», insiste Willey novello Montesquieu dell’antropologia britannica. «C’è una componente etnica che conta molto. Queste fasce marginalizzate sono composte principalmente dalla seconda e terza generazione d’immigrati arrivati nel secondo dopoguerra». Sono dunque fasce di popolazione in piena crisi d’identità: non si sentono né accettati dalla comunità che li ospita e neanche di appartenere alla cultura d’origine. I processi identificativi sono così interrotti. Ian Buruma in Occidentalismo

aveva ben descritto questi fenomeni di alienazione culturale. «Abbiamo avuto varie ondate d’immigrazione dalle ex colonie. Potremmo anche affermare che il fenomeno sia legato al tramonto dell’Impero». E la scala sociale sembra essersi bloccata, con i figli che stanno peggio dei padri. Condizione che in Italia, ad esempio, colpisce non solo gli immigrati. «È stata un’esperienza che hanno vissuto anche i francesi con l’immigrazione dall’Algeria dopo l’indipendenza. E con i nordafricani nelle banlieue. Non sono integrati, hanno beneficiato del sistema di wellfare, ma con risultati deludenti, perché sono rimasti senza lavoro. Forse dobbiamo guardare più lontano per capire le ragioni del problema. Tutti i nostri guai cominciano dal processo di deindustrializzazione del Paese a cominciare dagli anni Sessanta e Settanta. Abbiamo prodotto la prima Rivoluzione industriale tra XVIII e XIX secolo. Ma dopo il secondo conflitto mondiale abbiamo pensato che si potesse vivere di servizi. Londra è diventata una piazza finanziaria importante. Ma non produciamo come una volta. È questa forse l’origine dei nostri guai».

Quindi alla base delle rivolte ci sarebbe una componente economica, una sociale e un’altra culturale. Una miscela esplosiva. E che il problema fosse ben presente nella testa dei governanti britannici è dimostrato dall’enfasi messa nei criteri di ammissione dei nuovi sudditi di Sua Maestà: una vera caccia ai talenti. «Le nuove regole incidono su di una percentuale molto bassa della popolazione d’immigrati. Stiamo puntando su di un’immigrazione meglio qualificata, ma ora il problema è integrare chi già c’è. Certo se dovessero continuare ad agire con la violenza saranno sempre meno accettati dalla gente normale». Però l’anchorman della Bbc vede qualche segnale di speranza. «Osservo oggi che la società multietnica sta funzionando. In molte comunità miste, fatte da immigrati e inglesi, c’ è una riposta positiva con la denuncia dei vandalismi. Stanno aiutando le autorità a ripulire le strade e a riportare l’ordine».


pagina 14 • 10 agosto 2011

Oggi Tottenham, ieri le banlieue o Rosarno: dal disagio etnico a quello sociale, l’Europa sembra quasi una polveriera ostretto a interrompere le vacanze in Italia per fronteggiare la rivolta che da Tottenham si è estesa a mezza Inghilterra, David Cameron liquida tutto come «criminalità pura e semplice». «Episodi di persone che saccheggiano, compiono atti vandalici, rubano e attaccano sia la polizia che gli stessi vigili del fuoco», secondo lui da «fronteggiare e sconfiggere con ogni mezzo»; secondo una linea muscolare abbastanza simile a quella con cui Sarkozy da ministro dell’Interno affrontò la rivolta delle banlieues parigine del 2005; la cui ostentazione lo avrebbe poi aiutato a diventare presidente; e cui appunto da presidente sarebbe di nuovo ricorso nel 2007, di fronte alla nuova sommossa di Villiers-le-Bel. E sembra non esservi in effetti dubbio sul fatto che Mark Duggan, il 29enne il cui ferimento e morte hanno scatenato i disordini, fos-

C

Se l’emarginazione brucia l’Occidente di Maurizio Stefanini se un dealer di cocaina. Così come era stato per nascondersi dalla polizia in una centralina di smistamento dell’elettricità che due ragazzini erano morti e un terzo era rimasto ferito, nell’evento che scatenò i moti francesi del 2005. Così come era stato per andare a tutta velocità sen-

za casco su un ciclomotore rubato che altri due ragazzini si erano ammazzati addosso a un veicolo della polizia, nell’evento scatenante dei moti francesi del 2007. Però è pure vero che la pistola scoperta vicino al cadavere di Duggan, allegata motivazione sulla necessità di spa-

rargli, suscita molti dubbi: in particolare per una pallottola che i poliziotti sostengono esplosa da lui, e che invece sarebbe dello stesso tipo di quelle usate dalla stessa Polizia. È vero che gli episodi francesi del 2005 e del 2007 erano stati comunque imputati al terrore che i ra-

«La polizia sbaglia e continua a sbagliare: ma i roghi non faranno altro che dare loro maggiore potere»

«Con la violenza non si avranno risposte» Parla uno dei leader di Brixton ’81: «Situazione simile, ma basta furia popolare» a notte di sabato scorso sono rimasto incollato al televisore per guardare su Sky News la diretta di quanto stava avvenendo a Tottenham. Non sono stato, e non sono oggi, in grado di aiutare in qualche modo per fermare questo dramma; ma mi ha riportato alla mente la sollevazione avvenuta a Brixton nel 1981. Contro le li-

L

di Alex Wheatle nee schierate dalla polizia sono state lanciate le stesse bottiglie Molotov e gli stessi missili rudimentali. E le stesse fiamme hanno illuminato il cielo notturno. A voler essere precisi ho notato soltanto una sostanziale differenza: i manifestanti di Tot-

poca, la mia generazione che scendeva sulle strade indossava cappelli di lana e sciarpe molto pelose. A quel tempo, dopo settimane di persecuzione da parte della polizia – che perlustrava in maniera ossessiva le strade di Brixton in cerca di centinaia di

precipitato sulla zona per dare assistenza agli agenti su strada venne rapidamente circondato, preso a sassate fino a farlo ribaltare su un fianco. Le sirene suonavano in ogni direzione possibile. Qualcuno urlava «dobbiamo rimanere uniti sulla

A quell’epoca combattevamo per far ascoltare la nostra voce, per portare un messaggio alle autorità che ci odiavano. Oggi non vedo una risoluzione simile: solo rabbia cieca tenham indossano giacchetta di pelle e sciarpe per coprirsi il volto; all’e-

giovani uomini di colore, fermate con le arcaiche leggi sus [un sistema legale che permetteva arresto e detenzione arbitrari ndt] – in un caldo pomeriggio di aprile la comunità decise di ribellarsi. All’epoca, era il 1981, la scintilla venne dall’arresto dell’autista di un mini-taxi. Un camion della polizia che si era

Front Line», una linea stretta su Railton Road e una delle arterie principali che portava fino al centro di Brixton. Era qui che i giovani del luogo socializzavano, giocavano d’azzardo, bevevano in locali senza autorizzazione, ascoltavano la musica, spacciavano marijuana, si innamoravano e facevano festa.

Dalla metà di quello stesso pomeriggio fino a tarda notte siamo riusciti a respingere tutte le cariche della polizia che sfidavano la Front Line. I bassi muretti che si trovavano davanti alle case della zona vennero demoliti per creare dei missili artigianali. Il filo spinato e le recinzioni che proteggevano i cantieri dell’area vennero demoliti per raggiungere gli altri mattoni che completavano il nostro arsenale. I più veloci fra di noi correvano fino alle linee della polizia per impegnare gli agenti in scontri rapidissimi. E questi, che per molto tempo ci avevano trattati come dei bersagli, divennero bersagli a loro volta. Altri ragazzi iniziarono a succhiare la benzina dalle macchine parcheggiate: utilizzavamo la nostra conoscenza della geografia locale per ottenere effetti devastanti. Era esaltante ve-


violenza a Londra

gazzi della polizia avrebbero per i poliziotti, che li terrebbero in caserma per ore e ore in attesa di identificazione se sorpresi in mancanza di documenti che in nessuna parte del mondo gli adolescenti hanno l’abitudine di portare. D’altra parte, quando 25 anni fa scoppiò pure a Tottenham la rivolta detta di Broadwater Farm, anche quella fu provocata dal modo in cui la polizia aveva ucciso, facendola cadere a terra, la madre di un giovane arrestato. Mentre i moti di Los Angeles del 1992 furono innescati dal caso Rodney King: un pregiudicato libero sulla parola che era stato fermato per eccesso di velocità, si era comportato in modo sospetto proprio perché timoroso di essere riportato dentro, ed era stato dunque pestato selvaggiamente. Insomma, un retroterra di delinquenza c’è; ma c’è anche un contesto di polizia che scade dalla pur necessaria fermezza al sopruso, innescando così l’ira popolare.

Ovvio, dunque, ripensare in Italia ai pur diversi casi Giuliani e Sandri. Diversi, perché Giuliani nella protesta contro il G8 di Genova stava effettivamente tirando un estintore suoi carabinieri; mentre il povero Sandri se ne stava tranquillo a dormire in macchina, ignaro della baruffa tra tifosi per indagare sui cui responsabili l’agente Spaccarotella gli avrebbe dere la polizia avanzare alla cieca, dentro vetture con i vetri blindati. Il cielo divenne nero per i fumogeni e pieno di oggetti volanti.

Avevamo i nostri leader: giovani sui venticinque, massimo trent’anni, ci dirigevano in azioni mirate a conquistare e mantenere il controllo di angoli di strada e incroci. In una prima fase, venne dato l’ordine di bruciare un pub che aveva la fama di essere gestito e frequentato da razzisti. Tutto quello che avevamo nella testa era il terrore di essere arrestati: subito dopo sarebbero avvenuti i pestaggi in cella. Molti di coloro che combattevano contro la polizia in prima fila non sapevano cosa

sparato il colpo fatale. Ma i black block e attivisti dei Centri Sociali che stavano comunque già sfasciando il capoluogo ligure, come gli Ultras che hanno dato l’assedio alle caserme di polizia a carabinieri, non sono i rivoltosi spontanei delle banlieues, di Tottenham o di Los Angeles. Corrispondono a un diverso profilo di agitatori quasi professionali, che magari vanno anche loro in certi ambienti

dalla Primavera Araba agli “indignati” spagnoli o cileni o israeliani, fino ai moti greci. Ma anche quelli, a ben guardare, sono casi diversi. Nel Regno Unito c’è la più antica democrazia del mondo, a differenza che in Egitto o in Tunisia. In Grecia la protesta è di tutti i lavoratori per le incognite della crisi; gli “indignati”di tipo spagnolo sono tipicamente studenti. Non giovano di quartieri marginali. D’altra

L’80% dei minorenni che vivono nel quartiere londinese è sotto il livello di povertà, c’è una sola offerta di lavoro per ogni 54 disoccupati, e nelle scuole ci sono agenti di polizia stabili per motivi di frustrazione personale, ma che poi lì sono in genere loro a cercare la lite. Quasi per vocazione esistenziale. D’altra parte anche in Inghilterra hanno personaggi del genere: li chiamano hooligans, e sono famosi per il noto slogan del Acab. All Cops Are Bastards, «Tutti i Piedipiatti sono Bastardi». Facile dunque evocare il quadro depresso di Tottenham. L’80% dei minorenni che vi vivono è sotto il livello di povertà, c’è una offerta di lavoro in media per ogni 54 disoccupati, e nelle scuole hanno dovuto mettere agenti di polizia stabili. C’è la crisi mondiale, perfino gli Stati Uniti sono stati declassati dalle agenzie di rating, e la preoccupazione per il futuro sta portando in piazza i giovani un po’dappertutto:

stava succedendo dietro di loro: mi hanno detto molte volte “mantieni il tuo territorio”. Stavamo combattendo per fare in modo che le nostre voci venissero finalmente ascoltate dalle istituzioni di una nazione, istituzioni che credevamo odiassero la nostra stessa esistenza.

A quei tempi non esistevano Commissioni incaricate in maniera indipendente di investigare sulle presunte brutalità della polizia, o sulla corruzione dilagante fra gli agenti: nessuno dei rappresentanti delle istituzioni credeva alle nostre denunce. I servizi pubblici vennero alla fine tagliati e i dati sulla disoccupazione toccarono vette che superavano i tre milioni di persone. A

parte, Los Angeles, Tottenham o le banlieues possono esplodere anche se nel mondo non c’è crisi. Nel senso che lì la crisi è permanente.

Più ancora della povertà, là il problema è la razza. Rodney King era un nero. A insorgere nelle banlieues sono stati giovani musulmani. E anche Duggan era un nero. Insomma, ci sono aree compatte di un Paese che sono abitante da una popolazione che considera il governo come straniero, e i poliziotti come un esercito di occupazione. Qualcosa del genere in Italia l’abbiamo vista nell’aprile del 2007, quando nella Chinatown di Milano a Via Sarpi è scoppiata una sommossa di circa 300 persone dopo la mul-

prima vista le circostanze della Brixton del 1981 e di Tottenham 2011 sembrano praticamente identiche: crisi economica, giovani senza lavoro e preparazione, tagli profondi ai servizi sociali e un deterioramento evidente nei rapporti gra la polizia e i giovani di colore.Tuttavia, da quanto ho visto a Tottenham, non ho percepito la volontà di confrontarsi con le autorità per trovare una soluzione. Non c’è la voglia di difendere il proprio territorio per fare una dichiarazione, non ci sono messaggi o motivazioni politiche da portare avanti.

Prima dello scorso fine settimana c’erano moltissimi ingredienti in grado di scatenare una In queste pagine, una serie di immagini degli scontri che ormai si ripetono da tre notti consecutive nelle strade di Tottenham e altri quartieri «difficili» di Londra

10 agosto 2011 • pagina 15

ta di una vigilessa a una commerciante cinese che stava scaricando in divieto di sosta fuori orario e con una macchina che non aveva fatto la revisione. Oppure, nel gennaio del 2010, quando a Rosarno il ferimento di tre immigrati africani a colpi di fucile ad aria compressa, roba presumibilmente di ‘ndrangheta, innescò una guerra triangolare: con i braccianti immigrati che oltre a sfilare assalirono negozi e auto, e si trovarono a loro volta assaliti dalle ronde di rappresaglia dei rosarnesi. Mentre la polizie le dava e le prendeva da due fronti.

Ma neanche qui è la stessa cosa. Rosarno era infatti un’area rurale, e gli immigrati coinvolti non giovani senza speranza, ma lavoratori esasperati dallo sfruttamento e con problemi di convivenza con la popolazione locale. Insomma, qualcosa di meno. Mentre a Milano è stato coinvolto un segmento di immigrati imprenditori. Insomma, qualcosa di più. Per ora, non abbiamo ancora in Italia quartieri dove la maggioranza della popolazione sia composta da una seconda o addirittura terza generazione di figli di immigrati ormai abbastanza integrati da rifiutare i lavori marginali dei loro padri e nonni, ma non ancora tanto da sentirsi dunque parte di una comunità nazionale. Forse ci arriveremo in futuro. Forse non ci arriveremo mai.

vera sfida alla polizia e una giustificata richiesta di risposte. Mark Duggan è l’ultimo di una lista molto lunga di decessi avvenuti sotto la custodia o la supervisione della polizia.

Poco tempo fa l’artista reggae Smiley Culture è morto: secondo gli agenti, che gli piantonavano casa, si è ucciso con un coltello da cucina per evitare l’arresto. Nessuno di coloro con cui ho parlato, nella comunità nera, crede a questa storia. E ancora molti ricordano la sparatoria che ha ucciso John Carlos de Menezes alla stazione della metropolitana di Stockwell. Ogni volta, nel corso degli anni, dopo incidenti del genere la polizia ha promesso indagini accurate e ha

giurato di voler andare “fino in fondo”. Ma, fino ad oggi, non si è mai visto un agente accusato della morte di un nero sotto la custodia della polizia. Questa statistica è nota a tutta la comunità nera e mina alle fondamenta tutto il lavoro fatto dalle comunità locali e dalla polizia per trovare un nuova fiducia reciproca.

Ma tutto questo è andato quasi del tutto bruciato nelle ingiustificate fiamme che hanno avvolto Londra la notte di sabato. La comunità deve tornare a chiedere delle risposte, ma lo deve fare in maniera pacifica e non violenta. Solo così potremo rimpiazzare le ingiustizie con la verità.


ULTIMAPAGINA Un libro illustrato riporta alla luce i menu serviti alla tavola della residenza più importante dell’Italia unita

Spaghetti, pollo e insalatina di Livia Belardelli

L’ingresso del Quirinale, piantonato dai granatieri di Sardegna. Il corpo scelto rappresenta sin dall’Unità la sicurezza della residenza di sovrani e presidenti. In basso Vittorio Emanuele II

imballo di tagliolini al ragù bianco, lombata di vitello al forno, sformatino di patate e funghi, pomodorini ripieni e finocchi farciti, torta al cioccolato e caramello. Da bere, Brunello di Montalcino, Flaccianello della Pieve e Marsala superiore. Non è un menu come gli altri né siamo in un ristorante qualsiasi. Siamo al centro di Roma ma non ci intrattiene un verace oste capitolino bensì un intero squadrone di camerieri in livrea che si muove impeccabile nonostante debba servire, contemporaneamente, almeno un centinaio di persone. D’altronde è normale così, siamo nel Salone delle Feste del Quirinale e questo è il primo pranzo di Stato del 2011, in onore della Repubblica di Slovenia. É soltanto l’ultimo tra i menu raccolti nel libro I Menu del Quirinale (a cura di Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi, Accademia italiana della cucina) che, curiosando sulle tavole di re e presidenti, racconta centocinquant’anni di storia italiana e quindici capi di Stato.

T

Se oggi, con Ciampi prima e Napolitano poi, i pranzi seguono una linea sobria, caratterizzata dalla tradizione culinaria nazionale, con vini rigorosamente italiani e di sole tre portate, basta fare un salto nel passato per ritrovarci su tavole imbandite al punto di far impallidire Lucullo. Basta sfogliare le pagine fitte di vecchi menu e d’un tratto siamo a Milano, nel 1875, tra i commensali di Vittorio Emanuele II. Spero che le signore siano vestite adeguatamente. Siamo appena in tempo per un aperitivo a base di ostriche e Chateau d’Yquem – curioso ma efficace abbinamento che oppone ad acidità e sapidità dell’ostrica la dolcezza avvolgente del Sauternes – da gustare ascoltando l’ouverture di Herold dell’opera Zampa. Probabilmente, una decina di portate dopo e un paio di bottoni slacciati in più, accompagnati da una polka di Rivetta – ultimo brano musicale del programma gentilmente proposto sulla pagina gemella del menu – preferiremo “sciacquarci” la bocca con fragole e ananas piuttosto che sfidare l’indigestione con un cannellone di crema al pistacchio. Magari senza rinunciare al Tokaji del 1760, vino da dessert vecchio di 115 anni. L’unico a non aver bisogno di un digestivo sarà proprio Sua Maestà che, poco incline ai piaceri della tavola, pare fosse solito «incrociare le mani sull’elsa della spada che te-

aspettare Saragat, piemontese e buongustaio, per veder fiorire di nuovo i menu con tante portate tra cui campeggiano spesso ravioli alla piemontese e trote valdostane, piatti molto amati dal Presidente. Per l’ottantaduenne Pertini una cucina leggera fatta di brodini e carni bianchi è all’ordine del giorno, magro menu al quale seguiva spesso un tocco di trasgressione del gusto incarnato da un proibitissimo babà allo zabaione, sua passione.

Meritano un accenno anche alcuni menu rappresentati nel volume ma che non entreranno nei pranzi di Vittorio Emanuele III né dei successivi capi di Stato.Vi figurano piatti dal contenuto criptico ma evocativo come sogno di vergine, scacciapensieri fulminante, chiglia di vascello infernale e rotaie alla paprika piccante. Segue, e non scherzo, disastro ferroviario. Si tratta, chiara-

AL QUIRINALE mente, di cucina futurista che, a ben pensare, al futuro guardava davvero preconizzando le più curiose tendenze attuali, dalla cucina molecolare a quella tecnoemozionale. Destrutturazione delle vivande a parte forse una cosa davvero non può essere perdonata al trattato di cucina futurista di Marinetti, un anatema lanciato a tutta velocità, in pieno stile del movimento, contro il piatto più tipico della nostra tradizione: «Crediamo innanzitutto necessaria l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana. (…) É un alimento che ci ingozza provocando disturbi organici da cui derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo». E poi ancora: «I difensori della pastasciutta ne portano nello stomaco la palla e il rudere come ergastolani o archeologi». Di certo a pensarla così non furono i tanti cuochi del Quirinale che, ergastolani con la palla di grano (meglio se duro) nel corso del tempo servirono nei loro menu ravioli, tagliolini, fettuccine e cappelletti, leitmotiv di una cucina italiana che non avrà tradotto consommé e purée con consumato e poltiglia – come suggerisce Marinetti – ma che a certe glorie nazionali non può rinunciare.

I monarchi italiani non furono grandissimi buongustai: Vittorio Emanuele III amava la carne arrosto, mentre Umberto si animava soltanto per dolci e sorbetti. Fortunatamente c’era Margherita... neva tra le gambe, aspettando annoiato» la fine del pranzo. Anche gli altri due re che lo seguirono non furono grandi gourmet, Vittorio Emanuele III di gusti molto semplici, amante del pollo arrosto, e Umberto I in grado di esaltarsi solo per gelati e sorbetti. Dietro quest’ultimo si nascondeva però una perfetta anfitriona, la regina Margherita, che rese la tavola dei Savoia una delle più celebri d’Europa e si vide dedicare un simbolo della cucina italiana, la pizza Margherita. Finiti i re cominciano i Presidenti della Repubblica e con loro un atteggiamento, almeno all’inizio, poco propenso ai piaceri della tavola. De Nicola non amava la convivialità mentre sotto la presidenza di Einaudi i libretti dei menu diventano essenziali e disadorni anche se al loro interno non mancano mai un Dolcetto o un Barolo provenienti dai vigneti langaroli dello stesso Presidente. Con Gronchi, toscano, il vino del Quirinale diventa il Chianti Classico mentre bisogna


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.