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he di cronac

Affari? È abbastanza semplice: si tratta di fare soldi con i soldi di altre persone

Alexandre Dumas

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 11 AGOSTO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Gianni Letta si giustifica: «Siamo pronti a qualunque soluzione, in cinque giorni la situazione è precipitata»

Tutto l’Occidente in tilt

Crollo generale delle Borse. Tremonti: «Ristrutturare la manovra» Sul governo (oggi in Parlamento) si abbatte il ciclone del -6,6% di Piazza Affari. Berlusconi dice: «Faremo presto e bene». Ma ogni ministro ha un’idea diversa. Tutto rinviato al cdm del 18 agosto di Riccardo Paradisi

ROMA. Bisogna ammettere

Un’immagine dei drammatici scontri di Londra

UN MODELLO IN CRISI

La lezione di Londra: quando la democrazia non può più «spendere» di Gianfranco Polillo urn baby, burn: “brucia ragazza, brucia” era il grido che echeggiava nei grandi ghetti neri dell’America di qualche anno fa. Ma sembra sia passato un secolo. Anche allora saccheggi, devastazioni e razzie. Le immagini di quel periodo, diffuse dalle televisioni di tutto il mondo, mostravano giovani – prevalentemente di colore – che uscivano dall’inferno dei negozi, dati alle fiamme, con grandi televisori, lavatrici e altri elettrodomestici caricati sulle spalle. a pagina 4

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che Berlusconi è davvero sfortunato. Peccato solo che poi ci vada di mezzo l’intero Paese. Ieri, s’era appena seduto davanti alle parti sociali, aveva appena promesso «faremmo presto e bene» che la Borsa di Milano ha chiuso le contrattazioni con un drammatico 6,6%: record europeo di rosso in una gionrata comunque drammatica su tutte le piazze occidentali. Il guaio è che nel governo le idee su come fare «presto e bene» non sono univoche, tanto che oggi in Parlamento difficilmente verranno presentate decisioni definite: tutto è rinviato a un cdm straordinario convocato per giovedì prossimo. A giustificare le incertezze, ci ha pensato Gianni Letta: Gianni Letta: «In questi cinque giorni tutto è cambiato, occorrono scelte rapide e coerenti. Stiamo valutando tutte le possibilità e tutte le ipotesi». Obiettivo: «Ristrutturare la manovra», come ha spiegato Tremonti. Anche se nessuno sa come. a pagina 2

Il premier, fra Tremonti e Letta, al centro del tavolo con le parti sociali

Parla Nicola Rossi

Le misure in discussione

«L’Europa Patrimoniale si salva solo o pensioni? se l’Italia ritorna Ecco l’elenco in pista» delle incertezze «Ciampi ha ragione Bossi non vuole toccare a lanciare l’allarme: l’Ue la previdenza, il premier è in pericolo se Paesi non vuole intaccare come il nostro non beni e finanze. Tutte si allineano ai virtuosi» le divisioni voce per voce Errico Novi • pagina 5

Gualtiero Lami • pagina 3

Ahmadinejad e Gheddafi chiedono una risoluzione contro Cameron

Tripoli e Teheran bloccano l’Onu I due regimi impediscono la discussione sulle violenze in Siria di Massimo Fazzi

Il Qatar a fianco dei ribelli in Libia

rottesco. Non ci sono altre parole per descrivere quello che è successo ieri nella riunione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza dell’Onu. I rappresentanti di Tripoli e Teheran hanno chiesto di votare una risoluzione contro Cameron e l’uso della polizia a Londra. Con ciò, di fatto, impedendo la discussione prevista sulle violenze in Siria. a pagina 15

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

La libertà si è affacciata tra i siriani

Se il mondo arabo Non basterà la forza scarica il Colonnello... a salvare Damasco di Mario Arpino

di Samir Khalil Samir

di qualche giorno fa la notizia che il Qatar ha fatto giungere a Misurata, con propri aerei da trasporto, armi e munizioni per i ribelli. Tutto ciò malgrado la risoluzione decisamente della Nato contro l’ingresso di armi in Libia. a pagina 13

lla fine, dopo tutto quello che è successo alcuni giorni fa ad Hama, la maggiore parte dei Paesi europei e gli Stati Uniti hanno avuto finalmente una reazione indignata. C’è voluto il massacro perché l’Occidente si risvegliasse. a pagina 14

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NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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il fatto Oggi l’esecutivo si presenta in Parlamento. Gianni Letta cerca di giustificare l’immobilismo: «In cinque giorni è cambiato tutto»

La Borsa non aspetta più

Tremonti vuole «ristrutturare la manovra» ma il governo si presenta diviso alle parti sociali. E intanto Piazza Affari perde il 6,6%

di Riccardo Paradisi entre la borsa di Milano crolla a – 6,65 l’accordo tra governo e parti sociali sulle misure da adottare per arginare la crisi e dare un segnale all’Europa sembra ancora una meta lontana. Anche per il permanere della fibrillazione finanziaria. Non sono ancora chiare le misure che dovrebbero garantire una manovra da 30-35 miliardi e che in questi giorni, mentre erano al vaglio, hanno diviso trasversalmente gli schieramenti.

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Fatto sta che dopo l’incontro con le parti sociali Berlusconi ha annunciato la convocazione di un consiglio dei ministri il 18 agosto per le misure anti-crisi. E ha dichiarato che il pareggio di bilancio verrà inserito in Costituzione e sarà anticipato al 2013. Verrà portato a fondo

il messaggio Il presidente della Cei rilancia il ruolo dell’associazionismo

Il richiamo di Bagnasco: «Più moralità in politica» GENOVA. Forte richiamo al recupero dei valori etici in politica da parte del Cardinale Angelo Bagnasco: «NelVangelo si esprime forte e chiaro anche il richiamo alla necessaria moralità di ogni azione personale e pubblica». Queste le parole pronunciate dal cardinale nell’omelia tenuta ieri a Genova in occasione della festa di San Lorenzo, pronuncia parole che suonano come un richiamo alla classe politica. Per il presidente della Cei, occorre riscoprire «le leggi morali che illuminano l’agire dei singoli, delle istituzioni e della società», senza le quali «resta solo la dinamica aleatoria dei numeri e delle opinioni, quando non addirittura delle pressioni e degli interessi più forti». «San Lorenzo – ha spiegato Bagnasco - rifiutando di consegnare i beni della Chiesa e presentando al-

l’Imperatore i poveri come i suoi veri tesori, ricordava alla società di allora, e ricorda alla società di oggi, la dignità intangibile di ogni uomo, dignità senza la quale non esiste società giusta. Anche per questo siamo qui ogni anno per pregare e riflettere». Per Bagnasco, inoltre, «la comunità politica e la Chiesa, anche se sono autonome nel proprio ambito, sono entrambe, seppure a titolo diverso, al servizio delle stesse persone e del loro bene». Infine una rivendicazione del ruolo delle «aggregazioni laicali cattoliche o ispirate cristianamente, le parrocchie e molte altre realtà». Che «sono un popolo sempre più attento alla vita sociale e politica, anche se nell’agone pubblico vengono a volte liquidate come minoranze sparute e smarrite. Ma così non è e non sarà».

l’impegno a riformare la Costituzione per inserire l’equilibrio dei conti nella Carta. Il ministro dell’Economia Tremonti parla della necessità di una ristrutturazione della manovra e durante l’incontro a Palazzo Chigi con le parti sociali dichiara: «Prevediamo che quest’anno il rapporto fra il deficit e il Pil si attesti al 3,8%, scenda in una seconda fase fra l’1,5% e l’1,7% e arrivi al pareggio al 2013».

Più preoccupato e meno sicuro di sé il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta: «In questi cinque giorni tutto è cambiato, occorrono scelte rapide e coerenti.Valutiamo tutte le possibilità e tutte le ipotesi. Addirittura anche durante questo tavolo le cose sono cambiate radicalmente: giungono notizie di un crollo della Borsa e dell’aumento dello spread». Tanto che il tavolo sulla crisi con le parti sociali re-


prima pagina sta aperto e il governo sta valutando di aprire due tavoli tematici e ristretti. Uno sulla modernizzazione delle relazioni sindacali nella pubblica amministrazione, presieduto da Brunetta, e uno su sviluppo e infrastrutture presieduto da Romani e Matteoli. D’altra parte sulle misure della manovra – dal blocco delle pensioni di anzianità all’aumento dell’età pensionabile per le lavoratrici del settore privato, dall’anticipo dei costi standard della sanità alla riduzione delle detrazioni fiscali, dalle nuove imposte municipali alla patrimoniale – non c’è uno di questi ipotetici provvedimenti che non innesti riflessi condizionati di polemica; per non parlare della riforma fiscale, con la prospettiva di riduzione delle aliquote e la tassazione immediata delle rendite finanziarie. O delle liberalizzazioni e di ulteriori dosi di flessibilità da inserire nel mercato del lavoro.

Ma all’interno del pacchetto è l’idea della patrimoniale – esclusa da Berlusconi – a generare le tensioni più acute. Un esponente del Pdl come Giorgio Stracquadanio, per dire, dichiara apertamente che se le misure per il pareggio di bilancio nel 2013 comprenderanno la patrimoniale e maggiori tasse sul risparmio lui non voterà a favore del governo nemmeno se verrà posta la questione di fiducia». Anche Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa ed esponente del PdL, aggredisce polemicamente ogni idea di una patrimoniale sostenendo che sarebbe una cura che “rischia di uccidere il malato”, puntando il dito contro quella che definisce una «dominanza di visione socialista che pervade le persone che attualmente stanno facendo le proposte economiche per il governo. C’è un limite a tutto. Colpire i patrimoni in questo momento storico significa togliere benzina a chi ha la possibilità di investire per far ripartire il Paese». Eppure sulla patrimoniale c’era anche chi nella maggioranza non chiudeva affatto come la Lega. Il sindaco di Verona Flavio Tosi ieri aveva fatto circolare questo ragionamento: «Bisogna colpire gli sprechi, andare avanti con il federalismo fiscale. Ma in una situazione drammatica come questa, dove rischiamo tutti di morire di debito pubblico è impensabile procedere solo con i tagli e la lotta agli sprechi. I soldi da qualche parte bisogna pure prenderli. E quindi bisogna chiedere un sacrificio straordinario, aggiuntivo e una tantum ai titolari di grandi patrimoni e di rendite, anche quelle finanziarie». È in serata che arriva il dietrofront da parte leghista: nessuna patrimoniale, il Carroccio ora si dichiara contrario. Ma la Lega è ancora più contraria a un provvedimento sulle pensioni. Una ritrosia presente anche nel

le misure L’idea di tassare le “grandi ricchezze” ha scatenato l’ira del Cavaliere

Patrimoniale o pensioni? L’elenco delle incertezze Bossi non vuole toccare la previdenza, il premier vuole salvare le rendite finanziarie: divisi alla meta di Gualtiero Lami

ROMA. Ci sarà nelle prossime ore un prevedibile sforzo di cosmetica della comunicazione. Nel senso che il governo proverà non solo a ridimensionare l’impatto della drammatica «ristrutturazione della manovra» (Tremonti dixit) che si accinge a presentare al Cdm del 18 agosto, ma si impegnerà anche a spostare l’enfasi sulle diverse voci a seconda delle personali vocazioni. Nel senso che, per esempio, il premier cercherà di minimizzare con ogni probabilità quegli interventi riconducibili complessivamente alla categoria“patrimoniale”. Non ci sarà in effetti una sola, specifica tassa di questo tipo, ma diverse voci che vanno comunque in quella direzione, seppure per “settori”. E questo è inevitabile anche perché, come è stato notato, in questo nuovo aggiustamento imposto dalla crisi e dall’Europa c’è veramente di tutto. Non può che essere così, viste le cifre in gioco: ci vorranno dai 30 ai 35 miliardi per anticipare al 2012 i provvedimenti già inseriti in manovra, e per raggiungere con un anno di anticipo (nel 2013) il pareggio di bilancio. Ieri il governo ha fatto larghe promesse alle parti sociali ma di concreto ha detto poco o nulla. Anche perché non sembra ci siano opinioni univoche al proprio interno. Ma vediamo qual è il capitolato della ristrutturazione. Naturalmente considerando che l’unità il governo deve trovarla prima del 18 agosto.

Prevista la rimodulazione del meccanismo delle quote. Da definire l’anticipazione dell’agganciamento, per l’età pensionabile, all’aspettativa di vita. Altro punto delicatissimo è quello dell’equiparazione, anche nel settore privato, dei limiti anagrafici per le donne: allo Stato l’assimilazione delle regole a quelle fissate per gli uomini dovrebbe avvenire molto in là, nel decennio 201202030; attuarla subito consentirebbe di risparmiare fino a 4 miliardi.

Liberalizzazioni. Dovrebbero riguardare un gran numero di serrvizi pubblici locali ma, ovviamente, non l’acqua e le altre voci “blindate” dal recente referendum. Il tema può entrare come merce di scambio nella più complessiva mediazione tra Pdl e Lega, considerati i forti interessi padano nelle utilities. Di liberalizzazioni si parla anche a proposito di un altro fronte, quello della modifica dell’articolo 41 della Costituzione sull’iniziativa economica priovata: «Tutto è consentito tranne quello che è espressamente vietato», dovrebbe recitare il principio nella sua riformulazione.

Attesa per le liberalizzazioni e la riformulazione dell’articolo 41 della Carta: «Tutto è permesso, tranne ciò che è vietato»

Assistenza. È un capitolo controverso, ma suscettibile di arricchirsi perché meno incompatibile, rispetto a quello previdenziale, con i diktat di Bossi. In particolare riguardo a provvedimenti come la revisione dei citeri di invalidità: è noto come proprio su tali assegni, soprattutto su quelli pagati nel Sud, il Carroccio sia particolarmente aggressivo. Lo stesso capogruppo lumbàrd Marco Reguzzoni ha citato la questione tra le primissime nel suo intervento alla Camera di una settimana fa. Ci sarebbe anche un tetto per gli assegni di accompagnamento commisurato al reddito dell’assistito e, in generale, una stretta sull’erogazione delle prestazioni Inps. Previdenza. Il tema più delicato. Perché, diversamente da quello delle prestazioni assistenziali, deve scontare l’ostilità di Lega, sindacati e gran parte delle opposizioni. Berlusconi è invece assai più attratto da questo versante che dalle varie “patrimoniali”. In ogni caso dovrebbe passare almeno un blocco di 4 anni delle pensioni di anzianità, capace di far risparmiare almeno 2 miliardi.

Anticipo del federalismo. Potrebbe avvenire attraverso una introduzione più rapida del criterio dei costi standard per la sanità delle regioni. Previsto anche lì’applicazione già dall’anno prossimo (anziché dal 2014) dell’Imu, la nuova tassa sugli immobili che dovrebbe servire a dfinanziare i comuni, e che però dovrebbe risoparmiare le prime case.

Patrimoniale e dintorni. È la vera bomba a orologeria della manovra. Perché il presidente del Consiglio già minaccia che «se la vogliono, dovranno farla approvare a un governo tecnico, mai riusciranno a farla passare con un governo guidato da me». Nei fatti però delle forme di patrimoniale dovranno per forza esserci. Dovrebbe esserci un’addizionale speciale sull’Ici per la seconda casa. E soprattutto un aumento sulla tassazione delle rendote finanziarioe, con l’aliquota portata al 20 per cento per tutto tranne che per i titoli di Stato, che resterebbero al 12,5 per cento attuale. E poi c’è il vero rebus, relativa alla “una tantum” che potrebbe colpire le “grandi” ricchezze, sia immobiliari che mobiliari. Finirebbero cioè sotto la scure del prelievo straordinario anche quei risparmi già colpiti con l’aumento del costo dei bolli previsti dalla manovra nella sua versione approvata il mese scorso.

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terzo polo: «Stringere sulle pensioni per fare cassa non va bene – dice l’esponente dell’Udc ed ex segretario della Cisl Pezzotta – Non è che si possono toccare ogni volta che si tratta di mettere in sicurezza i conti pubblici. Il nostro sistema previdenziale, dopo le importanti riforme che sono state fatte, ha raggiunto un suo equilibrio e non si può continuamente riaprire questo cantiere. D’accordo su una patrimoniale è invece il Pd che però parla dell’esigenza di aggiustare il tiro: «la cosa più saggia da fare –dice Nicola Latorre – è spostare il carico fiscale da impresa e lavoro alla rendita finanziaria. La patrimoniale, così come è immaginata dalla manovra economica, è profondamente iniqua, indiscriminata e ingiusta perché colpisce i soliti noti. È sulle grandi ricchezze e non sui piccoli risparmiatori che occorre agire». Una posizione non condivisa dall’area liberal del Pd, timorosa che Bersani ceda alla scorciatoia del no pregiudiziale a provvedimenti dolorosi ma necessari secondo l’ottica della minoranza interna ai democrat

C’è nervosismo si diceva negli schieramenti: soprattutto nella maggioranza. Il governatore della Lombardia Formigoni è polemico nei confronti del governo: «È sbagliato e miope non invitare le Regioni al Tavolo tra Governo e parti sociali per discutere sulle misure anti crisi». Formigoni pensa a una modifica del Patto di stabilità, che potrebbe permettere di sbloccare miliardi di euro di spese per investimenti e infrastrutture: «Oggi queste risorse sono congelate nelle casse di Regioni e Comuni virtuosi che li hanno risparmiati in questi anni e che non li possono utilizzare, mentre potrebbero invece rimettere in moto alcuni settori dell’economia». Un dibattito che si svolge sull’orlo di un immenso vulcano finanziario. Milano, si diceva, chiude a meno 6,5 ma sono tutte le piazze a fibrillare sull’onda del panico da vendita che comincia subito dopo l’apertura di Wall Street grazie alle voci incontrollate di un possibile downgrade della Francia da parte delle agenzie di rating. Voci smentite dalla Francia e dalle stesse agenzie di rating anche se le preoccupazioni hanno investito anche la solidità del sistema bancario. Alla chiusura degli scambi il bilancio degli indici borsistici è comunque disastroso. La peggiore è proprio Piazza Affari ma va malissimo anche Parigi (-5,45%), il DAX 30 di Francoforte (-5,13%) mentre il Ftse 100 di Londra limita le perdite a -3 per cento. Anche Wall Street però è in forte calo. Alla chiusura degli scambi in Europa l’indice Dow Jones perde il 3,77%, il Nasdaq il 3,12% mentre l’S&P500 cala del 3,45 per cento. Non c’è da scherzare.


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l’approfondimento

Dietro alle rivolte di Tottenham non c’è solo la criminalità, c’è anche un conflittto che rischia di mettere in ginocchio l’Europa

Londra, Occidente

Il dramma delle democrazie è che non possono più usare la «spesa» per favorire l’inclusione sociale: la crisi ha messo in gioco un intero modello. In Inghilterra, la contraddizione è esplosa. Ed è un campanello d’allarme per tutti di Gianfranco Polillo urn baby, burn: “brucia ragazza, brucia” era il grido che echeggiava nei grandi ghetti neri dell’America di qualche anno fa. Ma sembra sia passato un secolo. Anche allora saccheggi, devastazioni e razzie. Le immagini di quel periodo, diffuse dalle televisioni di tutto il mondo, mostravano giovani – prevalentemente di colore – che uscivano dall’inferno dei negozi, dati alle fiamme, con grandi televisori, lavatrici e altri elettrodomestici caricati sulle spalle. Una fatica enorme. I plasma ancora non esistevano. I video erano incastonati in pesanti mobili di plastica che era difficile anche sollevare. Eppure la rabbia era la stessa. Quella che assedia Londra e le grandi città inglesi. Noi europei assistevamo attoniti a quella che era una “storia americana”. Frutto dell’emarginazione, dell’odio razziale o di una rivoluzione (il black power) incompiuta. Da noi non sarebbe mai successo. I nostri morti – in quegli anni terribili quando la guerra del

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Vietnam aveva ferito le coscienze – erano diversi. Erano le vittime del terrorismo rosso o nero, di una violenza che trovava giustificazione nel grande deserto ideale, spodestato dalla cattiva coscienza dell’ideologia. In Germania, in Francia o in Italia erano i sogni deliranti della “rivoluzione proletaria”. In Inghilterra la bandiera dell’Ira, decisa a risolvere con la critica delle armi - e non con le armi della critica - il grande conflitto tra cattolici e protestanti che da secoli divideva il Paese. Non sarebbe mai successo perché le nostre istituzioni, il nostro welfare, il nostro modo caritatevole dello stare insieme smussava i conflitti, aumentava le gradazioni del grigio sociale, riduceva le abissali differenze di status che un capitalismo rampante, come quello americano, non poteva che acuire. Lì c’erano le grandi ricchezze e le grandi povertà. Da noi un livellamento sociale, un modo di consumare, un presidio familiare che sembrava reggere alla corrosione del tempo.

Poi un primo segnale dall’allarme. Le grandi rivolte parigine. Le banlieue che esplodevano con modalità simili a quelle dei ghetti neri americani. Un fenomeno circoscritto. Ancora una volta la disperazione dei pied noir esclusi dal luccichio dei grandi boulevard, che sono il vanto della borghesia francese. Lotta di classe ed emarginazione: una miscela controllata con durezza dalle forze dell’ordine. Una rabbia repressa, senza alcuna esitazione, ma pronta a riesplodere nel momento

La rabbia dei ghetti neri americani aveva delle ragioni meno complesse

in cui quegli argini dovessero dimostrarsi insufficienti. E invece è toccato anche alla “civile” Inghilterra. È bastata una scintilla - la morte di un giovane, colpito dalle forze dell’ordine in circostanze ancora misteriose - per far bruciare tutto. Un incendio che si è diffuso con il tam tam della rete: quella forza potente e misteriosa che trascina i giovani. Li motiva. Li spinge a gesti irreparabili. Blackberry, twitter, semplici sms che si trasformano in una logistica capace di trascinare e organiz-

zare le pattuglie dei rivoltosi che dilagano a gruppi, colpendo all’improvviso. L’intelligenza delle masse - si sarebbe detto una volta - contro la rigidità della repressione. Se i fini fossero diversi. Ma qui l’ideologia conta poco e nulla, se si esclude la disperazione di qualche hooligan. Conta invece un malessere individuale che ha raggiunto un punto di non ritorno. E la frustrazione di chi è costretto al ruolo di semplice spettatore, mentre gli altri sono in grado di ostentare consumi, a volte, inutili e opulenti. Non solo oggetti materiali, ma un modo di vivere, uno status symbol che è esclusivo appannaggio di segmenti ristretti della società civile. Qualcosa di simile a quanto accaduto, durante il 2008, quando manager e dirigenti erano assediati dai propri dipendenti e dalle colpe del proprio modo di vivere sfacciato.

La crisi ha alimentato ulteriormente queste fratture sociali. Ha colpito soprattutto l’immaginario collettivo, ali-


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Secondo l’economista, «anacronismi come le pensioni d’anzianità sono insostenibili»

«L’Europa si salva solo se l’Italia ritorna in pista»

Nicola Rossi commenta l’allarme di Ciampi sulla crisi dell’Occidente: «La Ue è in pericolo se Paesi come il nostro non si allineano ai virtuosi» di Errico Novi

ROMA. «Costretti ad agire sotto la spinta dell’Europa? Be’, il fatto non può che rallegrarmi, come cittadino». Nel suo sarcasmo Nicola Rossi è persino spietato. Non concede attenuanti al governo, a quello attuale, ma neppure ai precedenti. Così ha fatto, in un’intervista pubblicata ieri dalla Stampa, Carlo Azeglio Ciampi: il quale vede in pericolo lo stesso modello economico dell’Occidente. Secondo l’economista Nicola Rossi, tuttora senatore del Pd, il pericolo per l’Europa esiste soprattutto in un caso: «Se non si arriva con determinazione a una governance comune», che è in effetti la stessa direzione indicata dall’ex presidente della Repubblica, «e quindi se Paesi come il nostro non accettano di sottostare alle regole osservate in questi anni dai più virtuosi». È in capo ai governi dunque, soprattutto a quelli rimasti finora inerti, la possibilità di resistere al ciclo recessivo. E il senatore Rossi lo dice con quel misto di disillusione e sconcerto che lo ha spinto nei mesi scorsi alle dimissioni da Parlamentare, respinte due volte dai colleghi. Ciampi descrive un quadro pesantissimo, parla di crisi grave come nessun altra nel dopoguerra e di effetti incalcolabili sulle politiche sociali.Vede un sistema che rischia di finire al tappeto. Ci sono due aspetti. Non c’è dubbio che la crisi sia molto seria, che il ciclo negativo iniziato nel 2008-2009 sia grave per intensità e abbia qualche probabilità di riprodurre ancora fenomeni come quelli visti al suo principio. Ma sul fatto che possa comportare un abbattimento della modalità europea di welfare, ecco, su questo ho qualche dubbio. Dipende anche da cosa si pensa possa essere messo in discussione. Lei dice che non tutte le inevitabili conseguenze sono da accogliere come una catastrofe. Dico questo: il fatto che l’Europa intervenga e spinga l’Italia nella direzione che avremmo dovuto prendere da tempo va considerato positivamente. Lo dico da cittadino. È la politica italiana ad essere colpevole di non aver assunto decisioni che potevano essere prese con

molta maggiore tranquillità, se lo si fosse fatto per tempo. Esempi. Le pensioni di anzianità. Ricordiamoci che sono state istituite quarant’anni fa, quando c’era un avanzo nei conti dell’Inps. Dovevano essere eliminate già da vent’anni. Solo la pervicace volontà di preservare una determinata generazione ha impedito che avvenisse. Premesso che il discorso non può riguardare i lavori usuranti, non sarei spaventato dal-

«È ridicolo l’affanno con cui si parla di riforme urgenti: come se le si fosse scoperte ora anziché negli anni Novanta» l’idea che le pensioni di anzianità venissero eliminate. E ancora, il fatto di equiparare l’età pensionabile delle donne a quella degli uomini non mi pare scandaloso. Casomai la stranezza è pensare di farlo a partire dal 2020. Com’era scritto nella precedente manovra. Detto con franchezza, non possiamo ancora sapere esattamente cosa farà il governo, ma insomma,

se per esempio sparissero le province non credo ne verrebbero conseguenze drammatiche. In generale non ho motivo di preoccuparmi se si abbattono rendite e privilegi. Sono cose che ci siamo rifiutati di fare per troppo tempo. Ciampi dice anche: si paga la mancanza di coordinamento delle politiche economiche a livello europeo. A questo punto ci saranno scelte più unitarie? L’impressione è che con le decisioni delle ultime settimane l’Ue abbia capito di doversi dare una governance unitaria vera. E di doverlo fare con speditezza e determinazione. Naturalmente ciò richiede, da parte dei singoli stati membri, una precisa contropartita. Quale? Bisogna darsi regole di comportamento comuni. Impostazioni comuni delle politiche di bilancio, senza le quali una governance unitaria dell’economia europea sarebbe proibitiva. In altre parole, paesi come il nostro devono adeguarsi alle regole che quelli più virtuosi seguono da tempo. Attribuire rango costituzionale al principio del pareggio di bilancio va in questo senso, evidentemente. D’ora in poi basta manovre d’emergenza, dunque. Ma il governo rischia di essere costretto ad agire su leve ”sgradite”come la patrimoniale per gli eccessivi ritardi sulle riforme? E’ così, ma in un senso più generale. Il ritardo sulle riforme di sistema non riguarda l’oggi ma, purtroppo, gli ultimi vent’anni. E riguarda tutti i governi che in questi vent’anni si sono succeduti. Parliamo in queste ore di cose di cui si parlava con fervore nella seconda metà degli anni Novanta, capisce? E invece sembra quasi che si tratti di questioni emerse nelle ultime ore. Su tutti questi argomenti le proposte giacciono da anni nei cassetti. C’è un ritardo che tutto il Paese paga. La politica non ha voluto capire che i nodi sarebbero venuti al pettine. E le difficoltà di questa maggioranza? C’è da augurarsi che non producano l’esito peggiore e cioè che nel dubbio fra i tagli alla previdenza e la patrimoniale, si finisca per trovare soluzioni di basso profilo incapaci di dare un segnale chiaro ai mercati. Così è avvenuto con la manovra di luglio, giusto? È avvenuto a luglio ma anche in tanti altri casi, per la verità. Sarebbe però particolarmente grave se la cosa si ripetesse oggi e se si uscisse dall’alternativa con una non scelta. Dopo il messaggio dato ai mercati venerdì scorso, se non si mostra assoluta determinazione nel mantenere le promesse, si rischiano conseguenze molto gravi: potrebbe venir meno la fiducia dei mercati.

mentando un senso profondo d’insicurezza e la voglia di risolvere tutto subito, costi quel che costi, il proprio disagio individuale. Si spiega così l’assalto generalizzato contro i grandi templi del consumismo. Si saccheggiano i supermercati, si prodotti hi-tech e abiti firmati. Mentre l’alcool - un altro segno tangibile di una generazione che rischia di perdersi - scorre a fiumi. Cosa ci dicono questi atti? Esprimono una consapevolezza diffusa. La crisi in corso renderà più difficile quell’emancipazione sociale che era caratteristica del secolo passato. Forse non mancherà il necessario, ma al superfluo, l’ambito in cui si esprime la potenza della società postindustriale, occorrerà, quasi certamente, rinunciare. Per quanto tempo nessuno è in grado di dirlo, ma certo è che i meccanismi ascensionali, che per anni hanno governato il progressivo ricambio generazionale, si sono arrugginiti. Dobbiamo aver timore di questa prospettiva.

Siamo ormai società per vecchi. Vecchi troppo egoisti. Che vogliono continuare a esercitare il ruolo di grandi elemosinieri. Un ruolo di potere rispetto ai propri figli. Il mercato del lavoro è quello che è, anche al di là della Manica. Gli insider - i padri - che godono delle protezioni maturate in cento anni di storia. Gli outsider - i figli - che possono contare anche su un benessere relativo. Ma solo di riflesso: subordinato alla benevolenza, sempre un po’ pelosa, degli anziani. Per il resto scarsa autodeterminazione, mestieri precari e tanta rabbia dell’impotente. Questo spiega la diversità della sommossa inglese. Il meticciato dei rivoltosi: capelli neri e crespi degli arabi insieme al volto lattiginoso degli inglesi. Non conta tanto né la razza, né la religione; ma il fatto di essere le vittime di una società che da affluente, com’era quella del ‘900, si è trasformata nel suo contrario. Ed ha trovato nelle nuove generazioni il suo capro espiatorio. Giustificazione della violenza, con un sociologismo di maniera? No. Meditazione meno superficiale su un fenomeno che non è solo inglese. Ma la punta di un iceberg che deve far riflettere, specie se la crisi dovesse incrudelirsi. Dobbiamo, quindi, cogliere questi segnali. Deve farlo soprattutto la politica. È venuto il momento di mettere da parte il cinismo dell’autoprotezione. Non esiste una via di fuga individuale, ma solo scelte responsabili, capaci di recare in sé il segno della ragionevolezza e del coinvolgimento sociale. Misure giuste ed equilibrate. Bando alle furbizie sociali e di gruppo. Non siamo al “crollo” del sistema capitalistico, come temevamo o speravano i nostri padri. Ma possiamo determinare un incendio che sarà difficile domare.


mondo

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L’astensione dalla guerra in Libia e la vendita di armi all’Arabia Saudita hanno deluso (e allontanato) gli elettori cristiani

Il cielo (nero) sopra Berlino La forza mostrata dalla Merkel in Europa nasconde debolezze in patria di Ubaldo Villani-Lubelli ngela Merkel è un mistero. È questo il giudizio netto di Cicero, il principale mensile tedesco di politica. Dopo sette anni alla guida della Germania, non è ancora chiaro dove vuole andare e cosa vuole ottenere. Si tratta, forse, di una sentenza troppo impietosa che non tiene in debito conto le difficoltà che Angela Merkel ha dovuto affrontare a livello internazionale da quando, nel 2009, ha iniziato a governare con i suoi alleati naturali, i liberali. Ricordiamo, infatti, che il primo Governo Merkel fu quello della famosa Grande Coalizione con i socialdemocratici (SPD).

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L’analisi di Cicero è, in ogni caso, confermata dagli elettori che hanno bocciato la coalizione di centro-destra (cristiano democratici e liberali) in tutte le più significative elezioni regionali che si sono tenute negli ultimi due anni, tra le quali è bene ricordare quelle nel Nord Reno Westfalia, ad Amburgo e nel Baden-Württemberg. Più di recente, poi, l’autorevolissimo e seguitissimo DeutschlandTrend, il sondaggio della prima rete televisiva tedesca, ha ulteriormente confermato il calo di consensi per la coalizione di centro-destra. Stando all’ultimo aggiornamento del 2 agosto scorso, i cristiano democratici (CDU-CSU) resterebbero il primo partito con il 32 per cento, ma i socialdemocratici (SPD) ed i Verdi, rispettivamente con il 28 ed il 23 per cento dei con-

sensi, avrebbero la maggioranza con il 51 per cento dei voti. I liberali (FDP) si fermerebbero al 4 per cento e non avrebbero rappresentanza nel Bundestag. Per l’SPD ed i Verdi sarebbe il miglior risultato degli ultimi undici anni e garantirebbe una larga maggioranza in Parlamento. Ma dal DeutschlandTrend si evince anche un altro dato, a dire il vero ancor più preoccupante per la Cancelliera: Angela Merkel perderebbe con entrambi i due possibili candidati della SPD, ovvero Frank Walter Steinmeier e Peer Steinbrück. Considerato l’attivismo e l’autorevolezza della Cancelliera nel contesto internazionale e considerati gli straordinari dati sulla crescita

spetto più significativo, non si è potuto realizzare a causa della crisi internazionale e dell’instabilità dei mercati finanziari. Angela Merkel ha, dunque, dovuto fare i conti con una situazione internazionale che ha reso, di fatto, impossibile la realizzazione del programma di governo concordato con i liberali (FDP). Da qui viene anche la crisi, sicuramente più profonda e grave rispetto alla CDU, dei liberali stessi. In realtà la coalizione di centrodestra soffre della costante perdita di consenso dell’FDP.Tuttavia, ciò che viene maggiormente rimproverato alla Cancelliera, soprattutto dagli elettori cristiano-democratici, è l’ondivaga linea politica. Le ragioni del-

Secondo gli ultimi sondaggi, alle prossime politiche la Cancelliera perderebbe con entrambi i due possibili candidati della SPD, ovvero Frank Walter Steinmeier e Peer Steinbrück economica della Germania, potranno sembrare incomprensibili le sue attuali difficoltà. Ma in realtà la questione è più facile di quanto si possa immaginare. Nel settembre del 2009, quando la CDU-CSU e l’FDP vinsero largamente le elezioni, ci si aspettava soprattutto una riduzione delle tasse e la diminuzione della disoccupazione. Se la seconda si è realizzata (anche se era già iniziata durante il tempo della Grande Coalizione), la riduzione delle tasse, che era certamente l’a-

le difficoltà di Angela Merkel vanno proprio ricercate nella sua politica “zigzagante”, come la definiscono in Germania. Se consideriamo solo gli ultimi mesi sono almeno tre i casi che hanno dimostrano una certa incoerenza della strategia politica della Cancelliera. Prima di tutto l’abbandono improvviso (e fin troppo spettacolare) dell’energia nucleare. Dopo essere stata una nuclearista convinta, la coalizione ha abbandonato la strada precedentemente intrapresa per una vera e propria

svolta verde che non è stata considera molto credibile. Dietro le quinte di questa svolta, è stato fin troppo facile leggere un calcolo politico.

Erano, infatti, i giorni in cui si svolgeva la campagna elettorale del Baden-Württemberg dove la partita si giocava sulla costruzione o meno di una gigantesca Stazione ferroviaria, la cosiddetta “Stuttgart 21”, contro la quale si erano schierati i Verdi e, più timidamente, l’SPD. Con la sua svolta verde, l’intento della Merkel era quello di mettere in crisi i Verdi e conquistare una parte del loro elettorato, considerato anche il crollo costante ed irreversibile dei liberali. La strategia si è rivelata sbagliata ed i Verdi guidano ora, per la prima volta nella storia tedesca, un Land della Repubblica Federale. Tra gli analisti politici tedeschi c’è anche chi ha letto ed interpretato la svolta antinuclearista come un tentativo di abbozzare un’intesa più generale con i Verdi – al momento, in ogni caso, di difficile realizzazione, perchè a livello regionale l’alleanza tra CDU-CSU ed i Verdi ha già fallito, di recente, ad Amburgo. C’è, poi, un’altra vicenda che non ha giocato a favore di Angela Merkel, ovvero la scelta di astenersi sulla risoluzione ONU riguardo alla Libia e di schierarsi, in questo modo, con Russia e Cina, stati con i quali ci sono in gioco enormi interessi economici. Questa scelta, è stata molto criticata

dalla stampa tedesca che ha rimproverato al governo di volersi isolare rispetto ai suoi partners europei. La Germania, potrebbe pagare le conseguenze di questa scelta, nel momento in cui si eleggerà il membro permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La Germania è, attualmente, uno dei membri non permanenti. L’ultima vicenda che ha poi messo in crisi la Cancelliera è stata la vendita di 200 modernissimi carri armati all’Arabia Saudita. Si tratta di un affare di circa 2 miliardi di euro e che rappresenta un cambiamento rispetto alla politica di vendita delle armi adottata fino ad ora dalla Germania. Questa vicenda “minore” non è stata, però, apprezzata sia dalle opposizioni sia da numerosi esponenti della coalizione di maggioranza, che non sono stati tenuti all’oscuro dell’accordo. Le difficoltà della Merkel nascono, almeno nell’ultimo periodo, proprio da qui. Alla Cancelliera si rimprovera la mancanza di obiettivi politici chiari e di una linea politica coerente e convincente. Sono soprattutto gli elettori del centro-destra che si trovano spiazzati e hanno difficoltà a ritrovarsi nella politica del proprio governo. Non è un caso che da uno studio uscito sull’ultimo numero del mensile liberal-conservatore Cicero è emerso che tra gli elettori della CDU ben il 51 per cento ritiene che Angela Merkel non rappresenti più i valori tradizionali dei cristiano-democratici.


Una lettura al giorno

Ritratto di un italiano poco celebrato in patria che occupa un posto nell’empireo dei grandi

La dignità della persona negli scatti di Garrubba Goffredo Parise lo ha definito “fotografo della tenerezza”, capace di tenere insieme nel suo lavoro cultura classica e pietas cristiana di Diego

Mormorio

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una lettura al giorno gni epoca e ogni luogo hanno i loro miti. Non ci sono né luoghi né tempi senza mitologia. Ogni popolo esprime nei miti la propria visione dell’esistenza, una linea di condotta e una prospettiva futura. Avviene dunque che vi siano popoli con mitologie complesse, e tempi e luoghi con miti fragili. Quelli dell’Occidente dei nostri giorni mancano, ad esempio, della complessità che gli antichi davano ai loro. Destino, eroismo e bellezza hanno ceduto il passo al telegenico, al vincente, al potente - al tante volte visto - al visto fino alla nausea. Sicché piccoli scialbi figuranti, figure vuote, prendono ora il posto di Apollo e Afrodite, rendendo amaramente squallido il naufragio nella marea di figure che avanzano come un ciclone. Così, l’unica nostra possibile difesa resta forse quella di cercare un rifugio fra le parole divenute classiche e le poche immagini che vale la pena di salvare, seguendo un criterio in cui il risultato estetico respira con gli stessi polmoni con cui vive l’idea della dignità dell’uomo - in cui l’essere «mortale sulla terra» rifiuta di esaurirsi nell’essere acquirente di merci e consumatore di programmi televisivi - e non aspetta un dopo ultraterreno per essere quello che già può diventare come vivente: dignitosamente libero da vessazioni materiali, ideologiche e religiose. Le fotografie di Caio Mario Garrubba costituiscono uno di questi salvifici rifugi, uno dei momenti più alti della cultura fotografica degli ultimi cinquant’anni - tanto che restando nell’ambito del reportage, possiamo porre il nome di questo autore accanto a quelli di Eugene Smith, Edouard Boubat, Mica Bar-Am, Werner Bischof, Henri Cartier-Bresson: personaggi che a molti risultano più noti del fotografo italiano, ma solo per un fatto, diciamo così, puramente pubblicitario. Essi hanno infatti agito in una realtà culturale e, conseguentemente, distributiva molto più favorevole. Su Garrubba - e, più in generale, su tutta la realtà fotografica italiana - ha gravato il pregiudizio degli studiosi dell’arte nostrani, che, salvo qualche rara eccezione, hanno considerato la fotografia come un’attività creativa marginale. Ciò è in un certo modo dipeso dalla presenza di una grande tradizione pittorica, ma anche - e forse soprattutto - dal forte ritardo con cui, nonostante i Marconi e i Fermi, le questioni tecnologiche e scientifiche sono entrate nella scuola, nell’università e nell’ambiente giornalistico italiano. In questo contesto, fino a poco tem-

O

po fa la fotografia è stata considerata una cosa irrisoria. Fu proprio questo il termine che usò una persona colta che stimavo molto, un mio ex professore di italiano. Quando decisi di laurearmi con una tesi sulla nascita della fotografia mi disse: «Stai sprecando il tuo talento intorno a una cosa culturalmente irrisoria». Insomma, la fotografia è stata in Italia considerata quasi esclusivamente connessa a un lavoro di bassa documentazione. Come se ciò non bastasse, a penalizzare i fotografi italiani di talento contribuiva una certa provincialissima esterofilia, che portava alcuni locali cultori della fotografia a privilegiare gli autori stranieri, per fare sfoggio di conoscenze internazionali che, in realtà, si fermavano a quella decina di autori più frequentemente pubblicati in un paio di riviste francesi e americane. C’era poi, naturalmente, l’invidia dei mediocri fotografi che, piuttosto che riconoscere come maestri alcuni loro vicini di casa sarebbe-

ma in più c’è quell’aria al tempo stesso popolare e sentimentale, che vedremo poi susseguirsi anche nelle altre foto e il cui impasto è segno intimo e stilistico di Caio Garrubba. È la tenerezza. La tenerezza domina tutte le altre foto qui presenti, tanto che vorremmo battezzare Caio Garrubba come il fotografo della tenerezza. Solo un italiano, fotografo italiano, poteva mettere insieme uno stile così commisto, cultura fotografica classica, coincidenza con le speranze del mondo popolare e tenerezza o pietas cattolica». In realtà, lasciando da parte la questione dello stile commisto, che è stato realizzato da diversi dei maggiori fotografi del Novecento, più che sotto l’etichetta della tenerezza o della pietas, Garrubba, a una più attenta osservazione delle sue immagini, può essere propriamente collocato fra quanti si aggirano per il mondo col principale proposito di capire, e che, capendo, sono portati all’ironia, senza mai cadere nel cini-

Ha iniziato non sapendo quasi nulla della tecnica fotografica. Ma “Il Mondo” di Pannunzio comprò il suo primo reportage riconoscendo il suo talento ro stati disposti a fare il giro del mondo a piedi. Siamo così arrivati dove siamo. In un luogo in cui è mancata la modestia, la sensibilità e l’intelligenza di celebrare la grandezza di Caio Mario Garrubba, in qualcuno di quegli spazi pubblici dove si sono visti alcuni importanti fotografi stranieri, ma anche, e soprattutto, immagini forestiere che potrebbero (e dovrebbero) più propriamente essere poste in un sottoscala. All’estero, in Germana soprattutto, Garrubba è invece ben conosciuto dal pubblico dei cultori della fotografia, dai primi anni della sua attività. Nel 1957 il settimanale francese l’Express lo definì in copertina «grande fotografo italiano».

In una brano spesso citato quando si parla di Garrubba, lo scrittore Goffredo Parise ha detto: «C’è una foto che, secondo noi, è la più datata di tutte e proprio per questo la più rara e rappresentativa del mondo di cui parliamo e del mondo intimo e sentimentale di Caio Garrubba, ed è la coppia di ragazza algerina e soldato della legione straniera fotografati in intimo e scherzoso colloquio. Non sto qui a tessere le lodi della fotografia che è un capolavoro, ma la vorrei esaminare insieme ai lettori sotto l’aspetto appunto dello stile, della data e del sentimento. Che sia molto vicina all’atmosfera del Front populaire salta agli occhi,

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smo o nella notazione moralistica. Garrubba guarda al sentimento degli altri - qualunque esso sia con partecipazione, rifuggendo il sentimentalismo: con umano ragionamento. Nelle sue fotografie i personaggi rappresentati non cercano commiserazione: sono persone che dignitosamente fronteggiano la loro condizione. Per rendere più chiara questa qualità umana e fotografica di Garrubba, diciamo, sapendo di fare arricciare il naso a qualcuno, che Salgano è uno dei fotografi meno amati da Garrubba. Nelle immagini del brasiliano egli vede solo gente sconfitta, senza possibilità di riscatto - una sorta di categoria immutabile, senza nessuna apertura verso un futuro diverso e migliore. Fotografo invece amatissimo da Garrubba è Eugene Smith (19181978), nel quale egli vede espresso il senso della perfezione formale insieme al valore dell’esistenza: forma e contenuto che vicendevolmente si sostengono, sottolineando ognuno dei due elementi la necessità dell’altro. Nelle fotografie di Smith come in quelle di Garrubba non succede niente. Semplicemente, gli uomini dignitosamente sono; ciascuno a suo modo. Il referente di una bella fotografia, dice Garrubba, non è la pittura, è la letteratura. Un’immagine deve avere in sé la forza di portare chi guarda al di là di ciò che vede: nello sconfinato mondo


ca e s’iscrisse alla facoltà di medicina a Napoli. Ma dopo soli tre esami si trasferì a Roma, dove, invece di seguire le lezioni di medicina, frequentò quelle della facoltà di lettere e filosofia, e soprattutto il corso di Ungaretti su Leopardi. Alla fine dell’anno accademico tornò a Napoli senza aver fatto alcun esame. Tornò a Roma dopo la Liberazione e subito dopo, nel ’46, si iscrisse al Pci. A condurlo a questa scelta, insieme alle questioni strettamente politiche e teoriche, fu una spinta psicologica. «Per me, orfano di madre a otto anni e di padre a diciotto, il partito era un po’la famiglia. Non ero solo».

Alcune immagini di Caio Mario Garrubba, tratte dal volume “Fotografie” stampato da Industrie Poligrafiche Friulane nel 2000. Da sinistra, in senso orario: “Madrid 1953”, “Calabria 1955”, “Sevilla 1953”, “Beirut 1955”. In copertina, “Casablanca 1954”, secondo Goffredo Parise la foto più rappresentativa “del mondo intimo e sentimentale” di Garrubba

delle storie umane. Deve fare pensare, riflettere. Una concezione, dunque, che niente ha a che dividere con la fotografia praticata da grandissima parte dei fotoreporter dei giorni nostri, tutta volta a celebrare lo spettacolo del sangue e delle bombe, dei morti dilaniati e delle donne nude o vestite alla moda. La stessa figura del fotografo indipendente - del free lance come è sempre stato Garrubba - è oggi quasi del tutta tramontata. Il mercato fotogiornalistico è infatti quasi interamente controllato dalle grandi agenzie, che di fatto lasciano pochissimo spazio ai nuovi liberi talenti. L’esperienza fotografica di Garrubba nasceva in un contesto culturale del tutto diverso: nell’Italia del dopoguerra, dei grandi e utopistici ideali, nella convinzione di realizzare un mondo segnato dall’equità. Garrubba ha percorso migliaia e

migliaia di chilometri. Ma quando si parla di Napoli gli si illuminano gli occhi. È lì - in via Salvator Rosa - che egli è nato (il 19 dicembre 1923) e cresciuto fino a nove anni, facendovi le elementari. «Fino a una ventina d’anni fa - ricorda quando andavo a Napoli sentivo di tornare nel grembo materno. Mi sentivo a casa. Provavo una sensazione di sicurezza. Camminando fra i vicoli, sentivo un senso di grande apertura». La sua famiglia apparteneva alla buona borghesia. La madre calabrese, il padre napoletano, proprietario di una piccola clinica chirurgica a Strangoli, in provincia di Catanzaro, ma più vicina a Crotone e al mare. Alla morte prematura della moglie, il padre decise di portare la famiglia nella cittadina calabrese. Era il 1932 e, lontano dalle grandi città, il fascismo sembrava non dover finire mai. Ma nella testa di un ragazzino questo non era un problema. Quello che addolorava il piccolo Caio era piuttosto il fatto di aver dovuto lasciare i suoi compagni napoletani. L’unica cosa che in qualche modo lo ripagò fu la ricca biblioteca che trovò nella casa di Strangoli e che fu anch’essa determinante nella formazione della sua personalità. C’erano molte monografie dedicate agli artisti del Rinascimento e tanti romanzi, soprattutto di scrittori rus-

All’interno di quel partito nacquero molti dei legami di amicizia che portarono Garrubba a fare le scelte successive e che lo condussero alla fotografia. Nello stesso 1946 lasciò gli studi e andò a fare il redattore al settimanale della Cgil Il lavoro. Dopo due anni, però, l’irrequietezza lo riporta in Campania, dove insieme al coetaneo Nicola Sansone, che come lui apparteneva alla buona borghesia meridionale e che sarebbe diventato anch’egli fotografo, maturarono la stravagante idea di comprare una quota di una vecchia nave, col proposito di imbarcarsi e girare per i mari. Fallita quest’idea, i due pensarono di tentare la gestione di un locale notturno a Capri. Presero in affitto un locale, ma, completamente ignari di questo mestiere, dopo sette mesi abbandonarono tutto. Dopo questo secondo fallimento, Garrubba parte per il suo primo viaggio in Spagna, con in mente l’epopea repubblicana e le pagine di Hemingway. Ha con sé una macchina fotografica, ma non fa nessuna fotografia. Nel 1950, divenuto capoufficio stampa dell’Inca, l’organizzazione assistenziale della Cgil, cominciò a occuparsi delle due piccole riviste che questa pubblicava, scegliendo anche le fotografie. Conobbe così Plinio De Martiis, di cui pubblica il bel reportage sull’alluvione del Polesine. Uomo colto, raffinato e anticonformista, De Martiis viveva con una donna delle sue stesse qualità, Ninì Pirandello, nipote di Luigi, insieme alla quale avrebbe fondato a Roma un’importante galleria d’arte, «La tartaruga». Fu De Martiis a consigliare a Garrubba di diventare fotografo. Seguendo il consiglio del nuovo amico, nel 1953 Garrubba ripartì per la Spagna ed eseguì le sue prime fotografie, alcune delle quali già degne del futuro grande fotografo. Fotografo d’istinto, senza sapere quasi nulla della tecnica fotografica. «In realtà - dice - ancora oggi, io non so come funziona esattamente la macchina fotografica». Comunque sia, noi sappiamo che, in mano a lui, questo strumento ha funzionato benissimo. Che si è piegato docilmente a uno straordinario talento visivo.

Comunista convinto, l’impatto col “socialismo reale”, prima nella Ddr poi in Urss, fu la dimostrazione per lui di un fallimento

si, autori prediletti del padre, al punto che aveva cercato di imparare la loro lingua.

I rapporti di Caio con i suoi coetanei di Strangoli furono scarsi, e ciò soprattutto per il fatto che fino al quarto anno di ginnasio non frequentò la scuola pubblica, ma studiò a casa, dando gli esami alla fi-

ne dell’anno scolastico. A 14 anni, venne mandato a studiare al liceo Bianchi dei Barnabiti, a Napoli, presieduto da padre Vincenzo Cilento, cui si deve la prima traduzione completa delle Enneadi di Plotino. Nel 1940 la guerra lo fece tornare a Strangoli, dove, nel 1941, qualche mese dopo la morte del padre, conseguì la maturità classi-

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una lettura al giorno Tornato in Italia, Garrubba portò i rullini all’amico De Martiis, che, dopo aver stampato un buon numero di immagini, andò a farle vedere a Mario Pannunzio, direttore del Mondo, che ne comprò parecchie. «Beh, funziona», si disse Garrubba. E da qul momento divenne ufficialmente fotografo. Quello che invece non funzionò affatto fu la cooperativa di fotografi realizzata con Plinio De Martis, Franco Pinna e Nicola Sansone. «Credo - dice Garrubba - che non sia mai esistita un’altra cooperativa simile alla nostra, non solo in Italia, ma in nessuna parte del mondo. Bisogna fare uno sforzo storico per capire: eravamo tutti comunisti, iscritti al Pci, erano gli anni Cinquanta, c’era ancora Stalin. Questo comportava un’estrema politicizzazione del nostro lavoro fotografico. Noi, ad esempio, non concepivamo nemmeno lontanamente di poter dare una foto a L’Europeo, che pure era un giornale abbastanza democratico; proprio non potevamo entrarci: sarebbe stato come tradire la classe operaia. Solo Pannunzio si salvava. Allora facemmo questa cooperativa che doveva essere di tipo sovietista avanzato, cioè strutturata secondo il principio a ciascuno secondo i suoi bisogni, mentre ciascuno doveva dare secondo le proprie capacità. Quindi, praticamente, si lavorava e poi chi aveva più bisogno di soldi prendeva di più. È facile immaginare che cosa è capitato. La cosa è durata un anno, poi è fallito tutto».

Con l’aggiunta di qualche altro nome, il quartetto di questa cooperativa venne denominato «scuola romana». Definizione che lo stesso Garrubba ha più di un’occasione definito eccessiva. «Chiamarla così mi sembra un po’ buffo, un po’ esagerato. Comunque, tenendo presente la situazione della fotografia e dei fotografi in Italia, questo gruppo esisteva e aveva un modo di fotografare, o almeno dei contenuti, abbastanza unitari. Si può chiamare gruppo, ma non scuola, perché non abbiamo avuto allievi. Eravamo un gruppo, sì. Un gruppo che voleva portare la fotografia in Italia ai livelli raggiunti soprattutto negli Stati Uniti e in Francia. La nostra bibbia era Life, con i suoi bellissimi reportage». Nella primavera del 1957 Garrubba cominciò il suo lunghissimo viaggio attraverso il «socialismo reale». La stazione di partenza fu Berlino, ancora semidistrutta. Nella capitale tedesca non c’era ancora il Muro, che sarebbe stato costruito nel 1960, e si poteva andare da una parte all’altra con la metropolitana. Garrubba arrivò nella parte Est in questo modo, insieme all’amico Nicola Sansone. I due giunsero a Berlino grazie alla presentazione del Pci, ma capirono subito che per mantenere il più possibile la loro autono-

come in un lampo, viene circondato da tre uomini che «lo appallottolano e lo sbattono dentro un portone». Tutto torna perfettamente ordinato.

La sua opera è una delle più alte nella cultura fotografica degli ultimi 50 anni. Ma in Italia sono in pochi a riconoscerlo. Invece in Germania lo sapevano già dal ’57 mia era bene pagare di tasca propria alberghi e ristoranti. L’impatto con la realtà comunista fu olfattivamente terribile. C’era nell’aria, ricorda Garrubba, un «odore di petrolio guasto, una nauseante puzza di benzina raffinata male». Lo stesso odore che il fotografo dice di aver sen-

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tito in tutti i Paesi dell’Est al europeo tempo del comunismo. «Dappertutto negozi con vetrine desolatamente spoglie e con scaffali pieni solo di scatolame bulgaro e cinese. Per il resto tutto tendeva al grigio. Vestiario disegnato male, cucito peggio e con tessuti di pessima qualità. Tutto era di un grigio smorto.Tutti, anche i bambini, erano vestiti di grigio. Mi chiedevo: chi ha fatto queste

Altre due immagini di Caio Mario Garrubba, anche queste tratte dal volume “Fotografie” stampato da Industrie Poligrafiche Friulane nel 2000. Sopra, “Moskva 1957”, in basso, “Napoli 1954”. Fotografo d’istinto, ancora oggi Garrubba ammette di non sapere come funziona esattamente la macchina fotografica

scarpe? Quali macchine hanno tagliato questi tessuti? Chi ha disegnato questi vestiti? Ai miei occhi di italiano abituato al buon artigianato, tutto risultava inguardabile. Nei ristoranti - anch’essi pieni di niente - i camerieri se ne stavano a fumare, e solo una buona mancia poteva farli smuovere».

In questo modo, per Garrubba il «socialismo reale» costituì la chiara sensazione di un fallimento. Nel novembre del 1957, il fotografo si trovò a Mosca per la grande manifestazione del quarantesimo. Sembrava, dice, tutto spontaneo, ma in realtà era tutto organizzato. rigorosamente «Tutti facevano parte di un gruppo di fabbrica o di una delegazione». L’unico a essere lì senza una delegazione era Garrubba, che per questo, al suo arrivo a Mosca, stentò a trovare una camera. Il giorno della manifestazione esce dall’albergo con l’idea di arrivare sulla piazza Rossa, ma ben presto capisce che non è possibile, che ci arriveranno solo le delegazioni. Cerca di seguire la marea umana, ma viene fermato. In modo brusco, una guardia gli chiede dove vai? Senza ancora quell’immensa esperienza che si è fatta in tanti anni di «socialismo reale», Garrubba gli mostra la tessera del Pci. Per risposta quello gli fa un gesto come a dire chi se ne frega? Si ferma in un angolo e comincia a fare qualche fotografia. A un tratto spunta un ubriaco barcollante e,

Due anni dopo, Garrubba, grazie a Maria Antonietta Maciocchi, allora direttrice di Vie nuove, ottiene un visto per Pechino. Parte da Mosca con la Transiberiana, su uno di quegli eleganti vagoni internazionali, con belle comode poltrone, in compagnia di un corrispondente moscovita dell’Unità, che però scenderà prima del confine cinese. La prima idea del fotografo è quella di fare delle fotografie dal finestrino, ma si accorge che è avvitato e non si può abbassare. Ciò lo costringe ad allentare le viti con un coltellino, ma, l’indomani, tornato dalla carrozza barristorante ritrova il finestrino avvitato. Senza alcuna parola da parte del personale, capisce che non deve assolutamente abbassarlo. Il treno arrivò alla frontiera cinese cinque giorni dopo, a notte fonda. Dopo aver guardato il suo passaporto, le guardie cinesi chiesero a Garrubba di scendere dal treno e, attraverso una via polverosa, lo portarono in «un baracchino misero», a circa duecento metri di distanza. Una guardia si mette al telefono e parla con qualcuno che sta a Pechino. Dopo un’ora il treno può finalmente ripartire. Garrubba rimarrà in Cina per un mese e mezzo e, dopo quello di Henri Cartier-Bresson del 1954, il suo sarà il secondo reportage cinese di un fotografo occidentale. Nelle fotografie della Cina che festeggiava quell’anno il decimo anniversario della rivoluzione - non c’è la tristezza che si vede nelle immagini dell’Est europeo: per quanto i segni della dittatura fossero del tutto evidenti, c’è ancora un certo spazio per la speranza. «Non c’era ancora quella coltre che l’opera di falsificazione e di retorica comunista aveva prodotto in Urss». Quella falsificazione che Garrubba sperimentò al massimo grado nel 1968, durante il reportage su «la giornata di un metalmeccanico». In quell’occasione il fotografo venne ricevuto dall’operaio - scelto naturalmente dalle autorità sovietiche - in un appartamento di centocinquanta metri, quasi lussuosamente arredato, con bene in vista un pianoforte a coda». Ma c’è una cosa che Garrubba considera ancora più incancellabile dalla sua mente. «Ricordo - dice - i corridoi della Pravda.Tutte le porte avevano la chiave, chiunque usciva chiudeva a chiave. C’era un continuo rumore di porte che sbattevano e chiavi che aprivano e chiudevano». Kafka non avrebbe forse potuto trovare un’immagine più inquietante. La stessa inquietudine che respiriamo nelle tantissime fotografie che Garrubba ha fatto nell’Europa dell’Est al tempo del comunismo.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g ACCADDE OGGI

L’Italia è campione del mondo 1982: nonostante la presenza dei migliori giocatori del pianeta, gli azzuri dominano 11 agosto del 1982 l’Italia si aggiudica per la terza volta nella sua storia il titolo di campione del mondo, battendo 3-1 la Germania Ovest al Santiago Bernabéu di Madrid. La novità più grossa di Spagna ’82 fu l’aumento delle partecipanti europee, da 16 a 24, che permise di avere presenti tutte le migliori nazionali del mondo e gli interpreti migliori del calcio di quel tempo. La Francia schierava Michel Platini e Jean Tigana, la Germania Ovest Rummenigge, Hansi Müller e Pierre Littbarski. A fare da contraltare ai campioni europei, quelli sudamericani: il peruviano Uribe, i brasiliani Zico, Cerezo, Falcão e, su tutti, l’argentino Maradona. L’ossatura della nostra squadra era quella della Juventus di Giovanni Trapattoni, integrata da giocatori come Antognoni, Graziani, Oriali, Fulvio Collovati e Bruno Conti. Di quel mondiale rimangono impresse nella memoria l’enfasi della telecronaca di Nando Martellini; l’urlo di Tardelli; Zoff che alza la Coppa del Mondo dopo averla ricevuta dalle mani del re di Spagna; il Presidente della Repubblica Pertini che esulta con incontenibile entusiasmo a ogni rete degli Azzurri, lasciandosi scappare un “non ci prendono piu’” dopo il gol del 3-0, e lo stesso Presidente che gioca a scopone scientifico in coppia con Zoff contro Causio e Bearzot sull’aereo presidenziale durante il viaggio di ritorno, assieme alla Coppa.

L’

I cittadini vogliono gesti credibili: basta tagliare pochi benefit politici Un italiano su quattro non va più a votare: cortei di piazza, scioperi, contestazioni spontanee , formazione di movimenti civici, sfogo. Queste, rappresentano alcune delle innumerevoli situazioni che evidenziano grande malumore, un vivere ormai insostenibile, una politica fatua, che colpisce da sempre soltanto i lavoratori, le famiglie, gli anziani, le fasce più deboli. I «sapienti», dicono che la crisi economica non la si risolve tagliando i costi della politica. Beh, se è per questo nemmeno continuando a penalizzare e togliere agli stessi! I politici inizino a dare segnali forti e tangibili: dimezzino subito i parlamentari; uniformino immediatamente, e non dalla prossima legislatura, i loro stipendi alla media degli Stati europei; eliminino i 6 barbieri di Montecitorio, ognuno dei quali percepisce annualmente euro 108.000 lordi: più di un deputato americano! Dimezzino drasticamente le auto blu, i benefit, facciano scomparire gli enti inutili e parassitari. Trovino il modo di diminuire gli oltre 1,3 milioni di persone che vivono direttamente o indirettamente di politica. Questi sarebbero gesti credibili e apprezzati dai i cittadini, un bell’esempio di responsabilità sul ruolo pubblico del politico!

Giorgio Palazzi

ETEROSESSUALI DISCRIMINATI È di moda parlare di omofobia e di discriminazioni nei confronti dei gay, tanto è vero che vengono proposte leggi speciali a protezione di questa categoria di persone. Ma che dire degli etero? Non saranno anche loro discriminati? Nella Spagna di Zapatero, come in altri Paesi dove è stato legalizzato il matrimonio tra coppie dello stesso sesso, con possibilità di adottare bambini, dalle documentazioni ufficiali e spesso anche dai media, sono state abolite le parole “padre”e “madre” sostituite da “genitore a e b”, e le parole “marito”e “moglie”sostituite da “partner”. Tutto questo per non discriminare i gay. A questo punto i veri discriminati sono gli etero. Non saranno anche queste le ragioni per cui aumenta l’omofobia?

Silvia Forte

QUESTIONE DI INTERESSI PERSONALI Alla luce di fatti ed eventi di questo periodo, che ritengo purtroppo non ultimi, è imbarazzante parlare di politica italiana e dei loro rappresentanti. Gli esempi dei nostri parlamentari, i quali dovrebbero anteporre agli interessi personali quelli della collettività, continuano a perseguire solamente i propri! La dignità e l’intelligenza del popolo italiano sono sempre più ignorate e calpestate. Riformare, moralizzare, purificare e modernizzare la politica, richiederà il passaggio di almeno 3-4 generazioni. Smontare e scardinare un sistema consolidato nel tempo, fondato sull’imbroglio, sulle tan-

L’IMMAGINE

Amazzonia, indios accusati di cannibalismo Sette indios della tribù amazzonica dei Kulina, tra i quali una donna, sono accusati di cannibalismo. La vittima è un disabile bianco. Il delitto sarebbe avvenuto nel villaggio Cacau. Ocelio de Carvalho, 21 anni, venne ritrovato nei pressi del villaggio fatto a pezzi a colpi di machete e parti del corpo non furono ritrovate. Per l’accusa fu vittima di un rito satanico. Uno dei sette indios coinvolti nell’inchiesta è stato rilasciato da un tribunale di Manaus per insufficienza di prove, un altro è in carcere in attesa di giudizio, mentre quattro uomini e una donna sono latitanti e ricercati dalla polizia dello stato di Amazonas. Secondo gli antropologi, però i Kulina sono un popolo pacifico e nelle loro tradizioni non c’è traccia di cannibalismo

genti, sugli abusi, sulle leggi «ad personam», sul processo breve per passare poi alla norma sul processo lungo, sulla corruzione e peculato, sulla collusione con mafia e ‘ndrangheta, non sarà semplice.

Felice Mirabella

I FURBETTI DE L QUARTIERE Si sa che l’occasione fa l’uomo ladro e purtroppo per tanti onesti che tirano la carretta ce ne sono tanti altri che sono proprio su quella stessa carretta e sfruttano la fatica altrui. Come mai esistono tante occasioni e come mai tanti riescono ad approfittarne con tanta facilità? Chi abbiamo ai vertici di ogni sede e di ogni colore politico? È vero che ogni popolo ha i governanti che si merita, ma o ci impegniamo tutti per cambiare questo stato di cose, non solo votando per gli uni o per gli altri, ma proprio cercando di entrare nel nucleo della struttura attuale oppure, se non siamo in grado, dobbiamo soltanto imparare a sopportare in silenzio e con dignità continuando a lasciarci gabbare dai vari furbetti del quartiere.

Stefano Marazzi

UNA CRISI D’ALTRI TEMPI La situazione finanziaria europea, nonché italiana, non affrontava una crisi del genere da molto tempo. Ma come diceva Charles De Gaulle: «La politica è una faccenda troppo seria per essere lasciata (solo) ai politici». Ai posteri l’ardua sentenza.

Stefano Marazzi

e di cronach

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la primavera araba

La vicenda va letta sullo sfondo di un cambiamento epocale nell’area: la volontà di Washington di fare un passo indietro

Le sabbie mobili di Tripoli Tutte le magagne della gestione francese della guerra contro il Colonnello Gheddafi di Pierre Chiartano n Libia sta andando in scena una commedia tutta europea: anche quando, come è successo ieri, Bruxelles decide di rendere più stringenti le sanzioni contro Tripoli. Una commedia con le sue narrazioni e i suoi feticci: la seconda ”morte”di Khamis, la presunta fuga in Ciad del vecchio rais. Le manovre dietro le quinte di presidenti e sceicchi. Mentre gli Usa stanno seriamente pensando a un gran ritiro dalla regione. «Vogliono abbandonare la zona degli uomini con gli asciugamani in testa», come affermava durante un’intervista a liberal, con un colorito neologismo, il politologo americano Edward Luttwak, qualche tempo fa. Devono concentrarsi sul Pacifico e la Cina: la vera sfida per mantenere una certa egemonia globale, oggi messa seriamente a rischio, tentando di ripianare i debiti e far ripartire l’economia, non solo quella statunitense. Per questo motivo Washington ha accettato il rientro in scena di Parigi, con Londra c’è sempre stato un rapporto “privilegiato”.

I

La Francia invece ha vissuto con frustrazione l’impossibilità di soddisfare certe velleità in Medioriente e Nordafrica, specialmente dopo la crisi di Suez del 1956. Non ha mai mollato completamente la presa però. Improvvisamente si è aperta la finestra libica – preparata da tempo – dove ha operato la grandeur teorica di Parigi, applicata sul campo con una certa goffaggine che ha prodotto non pochi pasticci e quello che molti hanno deifinito «il pantano libico». Oggi, ci chiediamo quante volte ancora Khamis, il più giovane figlio del colonnello Gheddafi, dovrà essere dato per morto prima che succeda veramente. Oppure se la morte del generale Younis – l’unico veramente preparato militarmente tra le fila dei ribelli di Bengasi – sia il frutto di “tradimenti”e non invece di faide interne al Cnt, magari spinte da Parigi. Facciamo finta

che la Nato stia operando per il meglio, mentre sta affrontando un intervento in condizioni operative non ortodosse: non ci sono schieramenti di battaglia sul terreno. Il nemico va ricercato e colpito nei sottoscala. Con tutto ciò che ne consegue in ordine alla credibilità dell’Alleanza atlantica.

Khamis Gheddafi, dato per morto durante un raid aereo, è apparso in un video registrato martedì, secondo la tv libica Guardando al comportamento della Francia in Libia, visto dai giardini dell’Eliseo, torna alla mente la politica di Francesco I, quando veniva chiamato a combattere la stirpe selgiuchida che aveva conquistato Costantinopoli. Rispondeva al Papa di turno, perché la politica europea lo imponeva, ma trattava continuamente coi saraceni – per motivi prettamente economici – anche a danno degli alleati “ufficiali”. Così Parigi ha deciso di aiutare i bengasini con fatti concreti.

Una cabina di regia, soldi, uomini delle truppe speciali e dell’intelligence sul terreno. Purtroppo ci sarebbero andati di mezzo gli interessi dell’alleato italiano. Poco male, Parigi si sentiva forte degli oltre 400 miliardi di euro in titoli di debito nazionale, acquistati nel tempo. Gli italiani capiranno. Ora Khamis Gheddafi, il figlio minore del leader libico che l’opposizione ha dichiarato ucciso venerdì scorso in un raid della Nato, è apparso in un video registrato martedì, secondo la televisione libica. Il documento mostra il figlio del colonnello Gheddafi in visita in un ospedale. Se la data della registrazione dovesse essere confermata, questo video costituirebbe la prima prova visiva che Khamis Gheddafi è ancora in vita.

Un altro tassello da inserire nella strana guerra nordafricana, dove al Jazeera il canale all news del Qatar, nei primi giorni della ribellione, faceva la cronaca di inesistenti bombardamenti su Bengasi. E il Qatar con il suo principe regnante, Hamad Khalifa Al Thani, che oltre a inviare armi ha così pesantemente influenzato tutta la vicenda, con un utilizzo quantomeno

non ortodosso della rete satellitare da lui finanziata. Sempre Al Thani era seduto al tavolo del gruppo di contatto sulla Libia a Roma. E che Parigi, da qualche anno, sia molto attiva anche nel Golfo è un dato di fatto. Certo sono solo indizi e non prove di un grande progetto per rimodellare gli equilibri di un’area non solo molto vasta, ma anche così importante per gli interessi mondiali. Lo sceicco del Qatar comunque viaggia continuamente in Francia, sembra sia veramente scoccato un colpo di fulmine, non ultimi gli interessi verso il mondo del calcio transalpino. Intanto l’Unione Europea, rispettando la parte nel copione, ha ag-

giunto ieri alla lista nera dei soggetti colpiti da sanzioni un’impresa petrolifera libica e l’organizzazione amministrativa del governo. Lo ha affermato un diplomatico Ue, indicando una crescente pressione su Muammar Gheddafi, a cui si oppongono i ribelli appoggiati dalle potenze occidentali. Un risultato positivo della diplomazia internazionale che ha registrato la decisione approvata dai 27 Stati membri dell’Ue di congelare gli asset dell’Organizzazione per gli Affari amministrativi e della società al-Sharara nell’Unione Europea, proi-


la primavera araba

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Ricco di petrolio, parla con tutte le potenze dell’area. Senza dimenticare gli Usa

L’inverno del Qatar aiuta la primavera degli arabi L’emirato è potente e corteggiato, nonostante sia una dittatura. Che sta sostenendo i ribelli di Misurata di Mario Arpino di qualche giorno fa la notizia che il Qatar ha fatto giungere a Misurata, con propri aerei da trasporto, armi e munizioni per i ribelli. È un’interpretazione della risoluzione 1973 decisamente opposta a quella della Nato, le cui navi da guerra – lo ha di recente affermato una fonte autorizzata – hanno l’ordine di fermare e sequestrare qualsiasi carico di armi comunque diretto verso il territorio libico. Una lente di ingrandimento sul Qatar allora ci vuole. Non perché sia piccolo, poco più di 11mila kmq – in fondo il vicino Bahrein, che ne ha appena 718, ha davvero dimensioni minime – ma perché nel mediooriente rappresenta ormai un fenomeno che spicca per intraprendenza, peculiarità, originalità di comportamento e indipendenza di giudizio nel contesto internazionale. Secondo un’analisi condotta dell’Economist per valutare il grado di stabilità – o instabilità – dei Paesi arabi, il Qatar risulta essere l’ultimo nella scala del rischio. L’emiro Hamad bin Khalifa al-Tani detiene tutti i poteri, direttamente o, come è norma in quei Paesi, attraverso la famiglia. Quindi è un dittatore anche lui ma, siccome il suo popolo è ricco e sta bene, nessuno sembra accorgersene, né in Occidente, né in casa.

È

bendo alle aziende continentali di stipulare accordi commerciali con i due soggetti.

«È andata a buon fine», ha affermato il diplomatico, rimasto anonimo. Non si sa mai come potrebbe andare a finire col vecchio colonnello libico. L’Ue ha così portato a 49 il numero di soggetti libici colpiti dalle sanzioni. In precedenza, aveva imposto divieti di viaggio e congelamenti di beni per 39 persone, colpendo anche sei autorità portuali. Secondo le fonti al-Sharara è stata coinvolta nel tentativo di portare carburante nella Libia occidentale sulla nave cisterna governativa Cartagena, catturata dai ribelli e portata la settimana scorsa nel porto di Bengasi. L’Ue sta cercando di isolare Gheddafi, che rimane al potere nonostante la rivolta in corso da sei mesi, appoggiata dagli attacchi aerei della Nato. Ma anche sul vecchio rais fioriscono leggende e narrazioni che è quasi sempre impossibile poter verificare. Ieri un’altra. «Pensiamo che Muammar Gheddafi sia ferito e che si sia rifugiato in un Paese africano vicino, come il Ciad, per trovare altri mercenari da inviare in Libia». È quanto ha affermato il rappresentante del Consiglio nazionale transitorio libico presso la Lega Araba al Cairo, Abdel Muniam

al-Hawani, in un’intervista al giornale arabo Al-Sharq Al-Awsat. «In questi giorni deve essere successo qualcosa di terribile tra le fila dei soldati del regime di Tripoli che noi non sappiamo – spiega – martedì hanno annunciato tre giorni di lutto nazionale, cosa che non avevano fatto nemmeno in occasione della morte del figlio minore di Gheddafi, Seif al-Arab».

L’esponente dei ribelli ha fatto poi una riflessione sul fatto che «sono 10 giorni che Gheddafi non appare in pubblico. Le sue ultime uscite sono state solo tramite telefono, lanciando messaggi ripresi dalla tv di Stato». Insomma sfumata la notizia di Khamis ci riprovano col padre: il racconto del conflitto libico si nutre anche di questo. I ribelli annunciano poi di aver ricevuto «notizie ufficiose secondo le quali il colonnello si troverebbe in Ciad o in Niger per cercare personalmente di reclutare nuovi mercenari». A proposito della notizia della morte del figlio del rais, al-Hawani, non contento dell’avventatezza con cui era stata data per certa, rilancia tentando di mettere una pezza a colore: «noi siamo certi che nel raid aereo condotto dalla Nato la scorsa settimana a Zliten sono morti molti dei suoi generali». Insomma, non sottilizziamo, qualcuno è stato beccato.

ritto di famiglia vige la sharia – ma ciononostante è amico di tutti e tutti lo corteggiano. Specie gli Occidentali, i cui Governi – tra i primi quelli che si sono vistosamente spesi per elogiare i moti di piazza della “primavera”– inviano dall’Emiro pellegrini che tornano con succosi contratti per gas, edilizia e infrastrutture. Ottimi i rapporti con gli americani, che nel Paese hanno basi aeree e navali, e con gli iraniani, con i quali i commerci sono ragguardevoli e proficui.

Guarda caso, l’Emiro si era espresso in più occasioni in favore del loro diritto a sviluppare il nucleare. C’è un minimo di colloquio perfino con Israele, ma, a questo punto, la cosa non deve più sorprendere. Eppure, per molti altri aspetti – che sono quelli prevalenti – assieme all’Arabia Saudita il Qatar può essere considerato uno dei leader della “controrivoluzione”, ovvero della conservazione, e lo dimostra nei fatti. Come la mediazione tenuta a suo tempo tra le opposte fazioni yemenite per evitare la defenestrazione del dittatore Ali Saleh, o il prudente silenzio-assenso nell’ambito dei Paesi per la Cooperazione del Golfo quando, Arabia Saudita ed Emirati hanno deciso di “aiutare” il vicino Bahrein a reprimere i moti di piazza. A favore dell’Egitto, dopo piazza Tahrir bin Khalifa, assieme agli americani, è stato uno dei primi a mettere mano al portafoglio, mentre per la Libia, assieme agli Emirati, si è subito unito alla coalizione con l’invio di caccia-bombardieri, che ancora continuano a operare. Con tante contraddizioni, ma con grande realismo, il Qatar è davvero di grande interesse per gli analisti, e non solo per essi. Anche senza “primavere”, potrebbe divenire nell’area un punto di riferimento positivo, accettabile per tutti. Sta infatti dimostrando che, almeno per ora, per far contento il popolo ed essere amico sia dell’Occidente che dei suoi nemici, non ha bisogno della democrazia. Un dittatore illuminato può anche essere sufficiente.

Dopo piazza Tahrir, è stato fra i primi a mettere mano al portafoglio in favore dell’opposizione ora al governo del Cairo

I l v e nt o d e l la “primavera araba”, che non ha sfiorato i 300 mila cittadini, ha però lambito qualcuno degli 1,5 milioni di lavoratori stranieri, se è vero che oltre 1.600 avevano aderito a una manifestazione lanciata con Facebook, che poi non si è tenuta. Nessuno ne ha parlato, tanto meno la loro al-Jazeera, brava in politica estera, ma assai distratta in politica interna. Non senza rilievo è il fatto che ci sia in itinere un progetto di legge che prevede tre anni di detenzione preventiva per chi sia genericamente ritenuto “minaccia per la società”. Come si vede, il Qatar non è certo un distillato di democrazia – i suoi cittadini non si sono mai trovati di fronte alla seccatura di dover scegliere con il voto e nel di-


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la primavera araba L’analisi del consigliere del Papa per le questioni islamiche

La forza non fermerà i siriani, assetati di libertà

La “primavera di Damasco” non pretendeva un cambio di regime simile a quello egiziano. Ma dopo tutte le violenze di questi mesi, Assad e il suo governo (con l’esercito e i mukhabarat) sono ormai screditati. È tempo, anche per le Chiese cristiane timorose di un’islamizzazione radicale del Paese, di parlare e agire con coraggio di Samir Khalil Samir lla fine, dopo tutto quello che è successo alcuni giorni fa ad Hama, la maggiore parte dei Paesi europei e gli Stati Uniti hanno avuto finalmente una reazione indignata. C’è voluto il massacro di oltre 100 persone indifese perché l’Occidente si risvegliasse: meglio tardi che mai. Speriamo soprattutto che questo cambiamento di politica arresti la violenza del potere siriano contro il proprio popolo. Di per sé, il 20 giugno scorso, il presidente Bachar al-Assad aveva finito per riconoscere la legittimità di alcune rivendicazioni; ma in seguito non vi sono state che promesse senza effetti, mentre continua la morte degli innocenti, che ormai si stimano a oltre duemila, compresi quelli che hanno subito le torture.

A

Ma cosa succede in Siria, e perché è esplosa questa rivoluzione? Alcuni rispondono che tutto ciò sia fomentato dagli islamisti o dai Fratelli musulmani venuti dalla Giordania o da altrove, che approfittando del clima generale del mondo arabo, vogliono rovesciare il regime degli Assad e islamizzare il Paese. Questa lettura viene spesso sostenuta dai cristiani, che temono un cambiamento di regime, che potrebbe giocare contro di loro: la neutralità religiosa garantita dal presente regime li rassicura, anche se essi riconoscono che il regime non è per nulla rassicurante.

Ma questo sarebbe un male minore. Altri accusano Israele di fomentare i disordini. È la classica teoria del “complotto israelo- americano”, cara a molti perché comoda e semplicista. E si dimentica che la Siria è nemica di Israele solo a parole, e che nella realtà è il suo alleato più solido: da circa 40 anni, Damasco non ha mai fatto nulla per recuperare il Golan, requisito da Israele.

Il presidente aveva riconosciuto la legittimità di alcune rivendicazioni; ma per accoglierle non ha fatto nulla I due incidenti del 15 maggio (commemorazione della guerra del 1948) e del 6 giugno (commemorazione della guerra del 1967), due sconfitte cocenti dei palestinesi, dove alcuni palestinesi sono stati uccisi perché entravano nel Golan, non hanno suscitato alcuna reazione da parte dello Stato siriano! In realtà, la maggioranza del popolo si-

riano – eccetto quelli che approfittano del regime – non ne possono più. Sono stanchi di vedere messe da parte le loro rivendicazioni e oppressi i loro diritti più elementari, come la libertà di espressione.

Incoraggiati dagli avvenimenti in Tunisia ed Egitto, le folle siriane sono scese in strada per reclamare questi diritti. A differenza di quei due Paesi – dove i governanti erano in pratica degli approfittatori – esse si sono trovate di fronte a responsabili crudeli, malvagi e abili. L’esercito che in Egitto ha protetto i manifestanti, in Siria li ha attaccati. Nel Paese domina un solo partito, il Baath (in realtà un partito fantoccio perché chi domina è la famiglia Assad e i suoi alleati). Non vi è alcun a opposizione e alcuna stampa indipendente. In più, dal 1982 (massacro dei Fratelli musulmani ad Hama), il controllo del Paese è stato sottomesso ai servizi segreti. Nel luglio 2000, all’arrivo di Bachar elAssad, è sembrato spirare un vento nuovo sulla Siria, con il riformarsi di gruppi politici. Ma nel settembre 2001 tutto è ricaduto nel passato: i principali animatori di tali movimento sono stati condannati a 5 anni di prigione e uno di loro a 10 anni. Diversi tentativi di riorganizzare l’opposizione vengono abortiti. Nuova speranza nel 2005, quando l’opposizione propone una

riforma progressiva. Ma nel dicembre 2007 i capi del movimento sono arrestati e condannati a due anni e mezzo di prigione. Allo stesso tempo sono condannati tutti coloro che propongono una revisione delle relazioni con il Libano. E vengono incarcerati i difensori dei diritti umani, quali Anwar alBunni, Mohannad al-Hasani e Haythan al-Maleh

L’organizzazione dei Mukhbarat e la loro corruzione sono nel mirino. Dagli anni ’80 i Mukhbarat sono l’organizzazione più potente. Essi si legano ai ricchi e ai potenti per vivere a loro seguito. Minacciano piccoli e grandi per trarre profitto con piccoli e grandi benefici, terrorizzando la popolazione e vivendo come parassiti. Nessuna categoria viene risparmiata; nessun passo può essere fatto senza il loro accordo e senza il loro ritagliarsi un profitto. Hafez el-Assad li ha mantenuti la potere perché essi non lo minacciavano e gli obbedivano. Nel 2005, suo figlio Bachar, dato lo scontento crescente della popolazione, ha cercato di contenerli. Ma i Mukhbarat continuano nonostante tutto ad agire allo stesso modo, sfruttando e minacciando tutti. Ormai essi sono divenuti un gruppo di tipo mafioso, che non esita a utilizzare brutalità e violenze, per non parlare delle umiliazioni. Tutti rischiano la prigione, senza una reale possibilità di difendersi.


la primavera araba

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Damasco abbandona Hama

Tripoli e Teheran bloccano l’Onu di Massimo Fazzi

WASHINGTON. Mahmoud Ah-

Quanto praticato dai Mukhbarat è praticato anche dalla polizia e dall’esercito. I doganieri approfittano del loro potere – per quanto limitato – per ottenere piccoli vantaggi. Un esempio: tutte le volte che attraversavo i vari controlli al confine libano-siriano, i doganieri di servizio ci domandavano un pacco di pane, o un cespo di banane. I militari approfittano del loro potere per ottenere vantaggi, o fanno lavorare le truppe più giovani per i propri interessi personali o quelli della propria famiglia.

Anche i medici sfruttano la situazione per vendere le medicine costose sul mercato e dare ai pazienti delle medicine più scadenti. In pratica, ogni persona che abbia autorità, ogni funzionario anche di basso livello, abusa del suo potere per arrotondare il suo salario o migliorare le sue condizioni. Ed è così che la corruzione è divenuta una moneta corrente e generalizzata in Siria. Da decenni il popolo ha sete di dignità. Nel contesto generale di crescente malessere, la rivolta è scoppiata prima in Tunisia e poi in Egitto, portando alla caduta dei due presidenti. I siriani non domandavano tanto. A loro bastava un po’ più di giustizia, meno brutalità, più libertà, ma non mettevano in discussione il regime, né domandavano la caduta del presidente. Purtroppo, né Bachar el-Assad, né i suoi consiglieri hanno capito cosa stava succedendo. Essi hanno reagito come d’abitudine con la forza e la violenza. Ma questa volta il popolo non ha ceduto: era troppo quello che succedeva! A Daraa, nel sud, dove è partita la rivolta, alcuni adolescenti hanno scritto sui muri degli slogan contro il Baath. Sono stati imprigionati, battuti e torturati: bruciati con sigarette nelle parti intime, le unghie strappate. Uno di loro, Hamza Ali al-Khateeb, 13 anni, è stato rimandato morto ai genitori, col sesso mutilato (v. il video del 25 marzo 2011). Tamer Mohammed al-Sharey, un

I funerali di uno dei manifestanti antiAssad ha riaperto la carneficina di Hama. La città, già massacrata decenni fa dal padre del dittatore, è da sempre una delle roccaforti della resistenza contraria a Damasco. Proprio qui è ripartita la protesta contro il presidente, Bashar el Assad, che promette riforme

Penso che tutti, governanti e popolo, abbiano bisogno del nostro sostegno. E non del nostro silenzio altro ragazzo di 14 anni, è stato trovato dalla madre l’8 giugno scorso, morto dopo aver subito torture. Per il popolo questi sono dei “martiri” che non saranno mai dimenticati da nessuno di loro.

Altri sono stati arrestati anche se non avevano manifestato, rinchiusi in un ospedale militare, lasciati per giorni nudi e con gli occhi bendati, senza cibo e puniti con battiture. Un ex funzionario dei servizi segreti siriani, emigrato negli Usa, vedendo quel che succedeva, ha commentato: «Lo fanno per il piacere della tortura!». Si stima che finora più di 10mila persone sono state arrestate e brutalizzate. Ormai in Siria i casi di arresto e di tortura sono divenuti quasi una banalità. Il regime ha cercato di lavorare nella segretezza: ha proibito la presenza di giornalisti stranieri nel Paese; ha vietato ai diplomatici di allontanarsi da Damasco; ha bloccato telefono e altri mez-

zi di comunicazione. Nonostante ciò, ormai oggi è impossibile mantenere il segreto assoluto e prima o poi, grazie a internet e ad altri mezzi di comunicazione, tutto viene alla luce.

La rivolta non può essere bloccata nemmeno dalla violenza: molta gente è pronta a morire piuttosto che a mantenere questo regime. Lo scorso 25 luglio è stata approvata una legge che autorizza la reazione di nuovi partiti politici. Ma ciò non interessa più nessuno e nessuno ci crede. Secondo i manifestanti i partiti che nasceranno saranno solo dei partiti-fantoccio e tutto continuerà come prima. Il regime è ormai screditato e non si può più accontentare il popolo siriano con delle promesse o con delle nuove leggi. Il popolo vuole stabilire da sé le proprie leggi, ritrovando la dignità dell’essere cittadini. E reclama azioni concrete: anzitutto liberare le decine di migliaia di prigionieri politici; ritirare l’esercito; strappare ogni potere ai Mukhbarat; arrestare i franchi tiratori e altri malfattori. Ogni giorno che passa non fa che aggravare la situazione. Questo popolo non è rivoluzionario: esso reclama giustizia, libertà, dignità ancora prima del pane. Il governo e il suo presidente sapranno accordare loro questi diritti legittimi e fermare ogni repressione e violenza? Le Chiese e i cristiani sapranno essere artigiani di pace e di non violenza, di fare delle opzioni coraggiose e difficili, testimoniando diritto e giustizia? Penso che tutti, governanti e popolo, abbiano bisogno del nostro sostegno e non del nostro silenzio.

madinejad si scaglia contro le decisioni prese da Cameron per fermare i dimostranti di Tottenham, le Nazioni Unite sono costrette a dargli retta e così slitta la riunione del Consiglio di Sicurezza. Nel momento in cui scriviamo non è possibile sapere (ma ne dubitiamo fortemente) se e come i membri permanenti e temporanei dell’organismo che muove il Palazzo di Vetro abbiano deciso di muoversi contro la repressione feroce che il dittatore siriano, Bashar el Assad, sta portando avanti contro la sua gente. Quel che è certo è che ieri l’esercito lealista - proprio quei militari che il “Leoncino di Damasco” ha più volte ringraziato per la loro fedeltà - ha abbandonato la città ribelle di Hama. E che gli Stati Uniti hanno deciso di congelare - e questa è sempre un’arma che si fa sentire, almeno nelle casse delle dittature - i conti intestati al governo siriano all’interno di banche americane. Queste misure non basteranno: la comunità internazionale è totalmente divisa sulla questione siriana, e la condanna dei Paesi arabi non è bastata a frenare il dittatore. Che vuole, e questo l’ha reso chiaro più volte, non mollare il potere in alcun modo: anche a costo di massacrare tutti coloro che gli si oppongono senza alcuna pietà. L’Onu può fermarlo? Di certo le chiacchiere non bastano e le armi, come si vede dalla Libia, servono a poco. Forse è il caso di ripensare tutto.


ULTIMAPAGINA La portaerei Varyag è stata varata ieri nel porto di Dalian. Servirà a riaffermare il dominio cinese dei mari dell’Est

Pechino gioca a battaglia di Vincenzo Faccioli Pintozzi ole accecante, mare tranquillo e via: come uno di noi potrebbe mettere in acqua un gommoncino senza troppe pretese, la Cina ammara la sua prima portaerei. Forse non bellissima, forse non proprio nuova, ma comunque un giocattolino niente mare con cui – probabilmente – iniziare a giocare al gioco che Pechino sa fare meglio: il gioco della guerra. Ieri, per la prima volta, la Marina militare cinese ha ammarato una portaerei: uscita, per la precisione, dal porto di Dalian (nel nordest del Paese) per un test di navigazione. L’annuncio è arrivato dall’agenzia ufficiale Xinhua, voce del Partito comunista cinese. La portaerei – chiamata Varyag - è stata comprata dieci anni fa dall’Ucrania. Pechino ha affermato il mese scorso che sarà usata per la ricerca scientifica, l’esplorazione e l’addestramento. Ma la nave sarà attrezzata con radar e con missili terra-aria. La portaerei cinese è vista come una sfida alla forte presenza nel Pacifico della flotta degli Stati Uniti, alleati di alcuni dei Paesi rivali della Cina. Lan Ning-li, un ex ammiraglio della marina taiwanese, ha dichiarato che la messa a punto della portaerei permetterà alla Cina di «espandere le proprie attività nel Pacifico meridionale» e che renderà Taiwan «vulnerabile ad attacchi nemici». L’isola è di fatto indipendente dal 1949 ma è rivendicata dalla Cina come parte del suo territorio. Ma non c’è soltanto l’ex patria dei nazionalisti, nel mirino marittimo di Pechino. In effetti, il governo cinese sta litigando con tutti i suoi vicini per la sovranità su una serie quasi infinita di isolette e isolotti poveri di terra ma presumibilmente ricchi di risorse naturali. È della settimana scorsa l’annuncio che Cina e Vietnam avrebbero raggiunto un accordo, per dirimere “in modo pacifico”le divergenze sui confini nel Mar cinese meridionale, ma restano invece distanti le posizioni fra Pechino e Manila: secondo un recente rapporto, le Filippine hanno costruito una struttura militare in una delle isole Spratly al centro della contesa.

S

La Cina annuncia serie “conseguenze”per il futuro, mentre i giornali vicini al partito comunista accusano il governo filippino di “mancanza di sincerità”. Il fronte rimane aperto e la tensione è destinata ad aumentare, visto che non emergono spiragli di trattativa fra i due fronti. Nguyen Phuong Nga, portavoce del ministero vietnamita degli Esteri, ha sottolineato che “dopo sette round di negoziati”, Hanoi e Pechino hanno raggiunto un «consenso preliminare su una serie di questioni», fra cui la risoluzione delle dispute nel Mar cinese meridionale «in modo pacifico, secondo le leggi internazionali». Dunque Cina e Vietnam si atterranno alla Dichiarazione di condotta (Doc) del 2002 – che regola i confini delle nazioni coinvolte – e ribadiscono l’intenzione di non “complicare”la situazione o “usare la forza”per dirimere le controversie. Pechino e Hanoi hanno inoltre deciso – secondo un’opzione più volte proposta dalla Cina – di risolvere problematiche relative ai due Paesi attraverso colloqui bilaterali; elementi che riguardano tutte le nazioni dell’area, saranno invece trattate a livello collegiale. Intanto resta aperto il fronte di crisi fra Pechino e Manila. La Cina contesta alle Filippine la costruzione di una piccola struttura

NAVALE

La Cina cerca di affermare la propria sovranità su isole e isolotti dell’area del Pacifico, ricchi di risorse naturali. Ma il Giappone, il Vietnam e le Filippine non sono d’accordo. Il nuovo giocattolo cambia tutto militare su uno degli atolli che formano le isole Spratly, al centro della controversia internazionale insieme alle Paracel. I cinesi avvertono la controparte filippina di possibili “conseguenze”, per aver invaso una porzione di territorio “sulla quale è la Cina a vantare la sovranità”. Pechino accusa il governo di Manila di violare la Doc del 2002 e giudica la recente proposta delle Filippine al vertice Asean, di trasformare i territori al centro della controversia in una “zona di pace, libertà, amicizia e collaborazione”, solo un “trucco”

per ingannare le altre nazioni coinvolte. Di contro, le Filippine ribadiscono l’intenzione di voler rispettare le leggi internazionali e di cercare una soluzione pacifica, anche “in seno alle Nazioni Unite”. Fra le nazioni della regione Asia-Pacifico, la Cina è quella che avanza le maggiori rivendicazioni in materia di confini marittimi nel mar Cinese meridionale, che comprendono le isole Spratly e Paracel, disabitate, ma assai ricche di risorse e materie prime. L’egemonia nell’area riveste un carattere strategico per il commercio e lo sfruttamento delle materie prime, fra cui petrolio e gas naturale. A contrastare le mire espansionistiche di Pechino ci sono il Vietnam, le Filippine, la Malaysia, il Sultanato del Brunei e Taiwan, cui si uniscono la difesa degli interessi strategici degli Stati Uniti nell’area.

Senza dimenticare il nemico di una vita, il Giappone. Che proprio sul dominio dell’acqua da parte cinese ha voluto richiamare l’attenzione internazionale. Secondo l’annuale Rapporto della Marina giapponese, infatti, «la crescita economica e commerciale della Cina ha provocato un rafforzamento delle Forze armate nazionali che preoccupa non soltanto i Paesi asiatici ma anche gli Stati Uniti». Secondo il testo nipponico, «la crescita militare cinese cerca di aumentare la sua sfera di influenza nelle acque internazionali, comprese quelle che costeggiano il Giappone». “Biasimati”anche i rapporti militari con la Corea del Nord. Per il ministero cinese degli Esteri, però, «il rapporto non ha alcun fondamento». Eppure, con il varo della nuovissima (seppur usata dai vecchi tovarish sovietici) portaerei, questi allarmi non sembrano ingiustificati.


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