ISSN 1827-8817 10907
he di cronac
Il coraggio è la prima
delle qualità umane, perché è quella che garantisce le altre Winston Churchill
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 7 SETTEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Lo spread fra Btp e Bund torna ai livelli drammatici di inizio agosto. Ma, salvo il Colle, la politica balbetta
Un governo allo sbando La manovra (con fiducia) cambia ancora. E rispuntano Iva e prelievo La maggioranza sembra seguire il vento, più che un progetto, mentre la sinistra riempie le piazze con l’anti-politica e l’odio sociale. Milano crolla ancora e la Spagna ci attacca. Serve una svolta PIEGARE LA LEGA
PARLA NICOLA ROSSI
Il ricordo di Casini
Riformate «Non attaccate le pensioni: Frau Merkel: è l’ultima chance ha ragione» di Gianfranco Polillo
di Franco Insardà
della e dichiarazioni Merkel non possono essere considerate “voci dal sen fuggite”. Certo il suo paragone - l’Italia può fare la fine della Grecia - è improprio, ma non va sottovalutato. L’accostamento è ingiusto sia sul piano storico che su quello prospettico. All’origine della crisi greca non è solo la difficoltà a far quadrare i conti, ma il peso delle pratiche truffaldine del passato nel taroccare i conti. Al tempo stesso diverse sono le prospettive. Basta scorrere i numerosi dossier comunitari. Le proiezioni del debito sovrano dei principali Paesi europei mostrano una forte accelerazione per tutti, salvo che per l’Italia.
e Atene piange Roma non ride. Per il senatore Nicola Rossi sono, purtroppo, molte le similitudini tra la situazione greca e quella italiana. «Anche lì hanno fatto una serie di manovre a ripetizione, senza molti elementi strutturali, ma centrate essenzialmente sulle entrate e alcuni sindacati, nel momento in cui bisognava mostrare coesione, hanno avuto comportamenti che andavano in direzione contraria». Per l’economista occorre «non solo un cambio di governo, ma anche delle decisioni, in molti casi dolorose, che andavano adottate da tempo e che colpevolmente non sono state assunte».
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I funerali di Martinazzoli «Un galantuomo della Repubblica»
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Duomo di Brescia stracolmo per l’ultimo saluto all’ex segretario della Dc
Ottima affluenza, pessima politica
Di Pietro, Bersani, Camusso e Vendola: con questa squadra non si cambia l’Italia Lo sciopero indetto ieri dalla Cgil ha visto la partecipazione della sinistra più massimalista. Sarebbe una disgrazia per il futuro del Paese averli al comando
Francesco Lo Dico • pagina 6
Osvaldo Baldacci • pagina 4
Continuano gli scontri in tutta la Libia. Si cercano il tesoro e gli archivi del regime
Dopo la visita di Biden in Cina
Se gli Usa smettono di lottare per i diritti...
Bani Walid si arrende ai ribelli La roccaforte del clan Gheddafi cede. Ma del Raìs nessuna notizia di Pierre Chiartano
Il Segretario generale oggi a Damasco
di Wei Jingsheng
Siria, Lega araba verso l’ultimatum?
ontinua la caccia alla volpe nel deserto libico. Anche se la Nato ha altro cui pensare che a Gheddafi. In viaggio verso il Niger, in un bunker sulla costa, forse già fuori dai confini. Il Raìs, ogni giorno, riserva qualche sorpresa. Intanto si sono concluse ieri con successo le trattative tra i ribelli libici e le tribù della città di Bani Walid che consentiranno ai ribelli di entrare nel centro senza combattere.
ine immediata delle violenze in Siria e libere elezioni nel 2014 (anno in cui scadrà il mandato di Assad alla presidenza). È questo il contenuto della proposta-ultimatum della Lega Araba che il Segretario generale al-Arabi presenterà oggi a Damasco. Che non gradisce.
a recente visita del vice presidente americano Joe Biden, a Pechino ha fatto più danni che altro. Eppure, la Casa Bianca lo ha definito un successo. Biden ha chiarito che, negli States, sta cambiando la percezione nei confronti dei diritti umani in Cina: e questa è una sconfitta per il mondo. Ma il Partito comunista non deve esagerare, perché gli americani sono ancora in grado di impartire molte lezioni dure.
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di Luisa Arezzo
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I QUADERNI)
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la proposta Le Borse crollano ancora e lo spread continua a salire. Ma la maggioranza sembra non capire che siamo arrivati alla frutta
Italia, ultima chiamata
Possiamo anche prendercela con la Merkel, e in effetti noi non siamo la Grecia. Ma il governo deve smetterla di dormire e modificare Iva e pensioni la polemica di Gianfranco Polillo
e dichiarazioni di Angela Merkel non possono essere considerate “voci dal sen fuggite”. Certo il suo paragone - l’Italia può fare la fine della Grecia - è improprio, ma non va sottovalutato. L’accostamento è ingiusto sia sul piano storico che su quello prospettico. All’origine della crisi greca non è solo la difficoltà a far quadrare i conti, ma il peso delle pratiche truffaldine del passato nel taroccare i conti. Al tempo stesso diverse sono le prospettive. Basta scorrere i numerosi dossier comunitari. Le proiezioni del debito sovrano dei principali Paesi europei mostrano una forte accelerazione per tutti, salvo che per l’Italia. Le politiche invariate, che sono alla base di quelle previsioni, indicano per il Bel Paese una stabilizzazione del debito, seppure ad un livello molto alto. Per gli altri - Francia ed Inghilterra comprese - una vera e propria esplosione.
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La Grecia, tanto per dare qualche cifra, è destinata - senza ulteriori interventi - a superare, nel giro di qualche anno, il 150 per cento del Pil. In Italia si resterebbe, invece, intorno al 100 per cento. Dato indubbiamente preoccupante, ma non certo allarmante come nel caso precedente. Eppure, nonostante ciò, l’Italia, nelle parole di Frau Merkel, soffre come la Grecia. Difficile darle torto. Un even-
E il ministro iberico delle Finanze smentisce il salvataggio della Bce
Ora perfino Madrid ci attacca Crisi dell’euro, la Spagna contro Roma e Atene a Spagna si allinea alle posizioni espresse due giorni fa dal Cancelliere tedesco Angela Merkel e punta il dito contro Grecia e Italia per aver fallito nei loro obiettivi di riduzione del deficit causando la reazione negativa dei mercati. Si potrebbe pensare, a voler essere cattivi, a un modo per distogliere l’attenzione dai problemi interni al Paese, uno dei Pigs confermati. «Viviamo in un periodo di turbolenza economica che è evidente ogni giorno», ha detto in un’intervista a Telecinco il portavoce del governo di Madrid, Josè Blanco. Che ha aggiunto subito dopo: «Siamo molto preoccupati perché alcuni Paesi, come la Grecia e l’Italia, stanno passando un brutto periodo e non hanno raggiunto gli obiettivi. Questo condiziona le decisioni dei mercati che devono acquistare il nostro debito ed è ciò che ci ha fatto finire in un periodo di instabilità». Nessun accenno al crollo della propria economia, all’instabilità della bolla immobiliare creata da una speculazione selvaggia nelle metropoli o dagli sprechi del governo socialista.
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Anzi, la Spagna è tanto tranquilla che può affermare, per bocca di un altro membro del suo esecutivo, che va tutto bene. Il ministro dell’economia spagnolo Elena Salgado ha affermato infatti sempre ieri che l’Europa «assolutamente non entrerà in una seconda recessione». La vicepremier di Madrid, in una dichiarazione alla radio pubbli-
ca Rne, si è detta d’accordo con il presidente della Commissione Ue manuel Barroso nel ritenere che ci sara una crescita «più modesta», ma ha escluso categoricamente l’ipotesi di una nuova recessione. Il vicepremier e ministro dell’ economia spagnolo Elena Salgado ha negato inoltre, sempre ieri mattina, che suo il Paese sia stato vicino a un ipotetico salvataggio europeo. «Non siamo mai arrivati al punto di richiedere un salvataggio - ha detto alla radio pubblica Rne - ne siamo rimasti molto lontani».
In diverse dichiarazioni alla tv pubblica Tve, invece, il leader del sindacato Ccoo Ignacio Tuxo aveva affermato che in colloqui con i dirigenti sindacali in agosto, cui chiedeva di accettare nuove misure antideficit. Secondo la ricostruzione di Tuxo, il premier Josè Luis Zapatero aveva detto che la situazione «era davvero preoccupante, sull’orlo dell’abisso, nel senso di un salvataggio». Eppure, di questo i ministri ispanici sembrano non tenere conto quando si tratta di puntare il dito contro qualcuno. Ed ecco che l’Italia, la cui posizione non è in alcun modo paragonabile a quella della Grecia, diventa il bersaglio perfetto. Come è evidente, Roma ha delle colpe non da poco nella gestione di questa crisi finanziaria. Ma farsi dare lezioni da chi proprio non ha coerenza non è corretto, almeno senza rispondere in maniera adeguata.
tuale default della Grecia sarebbe, in qualche modo, riassorbibile. Se il contagio superasse, invece, la linea difensiva delle Alpi, sarebbe inevitabile la crisi dell’euro: almeno della forma che abbiamo finora conosciuto. Ciò che fa la differenza è la diversa massa critica dei due Paesi. Da una parte un Pil che non supera il 3 per cento dell’Europa, dall’altro il terzo Paese, per reddito prodotto e numero di abitanti, dell’Eurozona. Ecco allora la differenze, tanto in positivo, quanto in negativo, che alimentano timori ed incertezze, amplificate da quanto accade sulle sponde del Reno. L’opposizione all’interno del suo partito che alza la testa, la sconfitta elettorale nella propria regione, la Corte Costituzionale tedesca che non fa mistero del suo malumore verso forme di intervento finanziario al di fuori dei confini nazionali: Angela Merkel si trova a vivere, tutte insieme, queste contraddizioni. Ed è allora che il disappunto per i bizantinismi della politica italiana diventa palese.
Si fosse trattato delle sue semplici dichiarazioni non saremmo così preoccupati. Ma qui il coro è unanime e solo chi non vuol sentire o non è capace di guardare oltre il proprio ombelico può rimanere indifferente. Mario Draghi aveva avvertito con tempestività: state attenti i mercati stanno reagendo male al funambolismo di questi giorni
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il fatto
Il governo mette la fiducia sul decreto Previdenza delle donne e tassa sui grandi capitali: l’esecutivo cambia (ancora) idea lla fine ha (quasi) vinto Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato aveva chiesto, oltre alla rapidità nell’approvarla, di inserire “misure più efficaci”nella manovra: nei colloqui di questi giorni, ultimo quello con Franco Frattini di ieri mattina, il presidente della Repubblica – e ormai capo di fatto del governo – aveva però indicato come necessario anche un aumento dell’età pensionabile già dal 2012. Niente da fare, Umberto Bossi e la Lega non hanno ceduto nemmeno ieri, com’era peraltro chiaro già dalle rispostacce riservate a Giulio Tremonti nel vertice di lunedì in via Bellerio. Almeno, però, il Cavaliere e la sua sconclusionata squadra hanno apportato qualche modifica di peso alla manovra per irrobustirne i saldi e, contestualmente, deciso di porre la questione di fiducia in Senato: un Consiglio dei ministri convocato ad hoc l’ha autorizzata ieri e l’aula di palazzo Madama dovrebbe votarla oggi per poi approvare definitivamente la manovra entro sera (giovedì mattina, sia detto en passant, si tiene un’importante riunione della Bce). La fiducia, recita un comunicato di palazzo Chigi, sarà“sul testo uscito dalla commissione Bilancio con qualche modifica”. Queste ultime sono state partorite durante due ore di vertice di maggioranza tenutesi all’ora di pranzo nella casa romana di Berlusconi: l’aliquota Iva del 20% aumenta di un punto percentuale (mentre rimangono intonse quelle agevolate al 4 e al 10%), viene introdotto un contributo di solidarietà del 3% per i redditi superiori ai 500mila euro fino al raggiungimento del pareggio di bilan-
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convulsi. Non ottenendo risposta, aveva rincarato la dose mettendo in chiaro: la Bce non può continuare ad acquistate titoli dei Paesi più esposti. È intervenuta in un momento di emergenza. Ora la palla deve passare ai Governi nazionali, che devono dimostrare, sul campo, la loro capacità di mettere ordine nelle proprie finanze. Poi, mentre gli spread schizzavano verso l’alto, fino a collocarsi al di sopra di quelli spagnoli - una barriera densa di implicazioni psicologiche doveva intervenire, con forza, Giorgio Napolitano, per reclamare una manovra più rigorosa: meno promesse e più risorse da mettere in campo, subito e non a babbo morto.
Infine la ciliegina sulla torta: le principali agenzie di rating che mettono in mora il Governo e lanciano il loro ultimatum. Che altro deve succedere perché il mondo politico
di Marco Palombi cio, l’aumento a 65 anni dell’età pensionabile anche per le donne del settore privato (quelle del pubblico sono già state “alzate”da una direttiva europea) partirà dal 2014 anziché due anni dopo com’era previsto dal decreto di ferragosto. Novità anche sul fronte delle riforme costituzionali. Il governo, domani mattina, approverà due disegni di legge: uno inserisce il pareggio di bilancio nella Carta, l’altro abolisce le province assegnandone le competenze alle regioni. I saldi
Lorenzo Cesa: «Noi questa manovra non la votiamo. Ma dato che l’hanno presentata, almeno facciano in fretta» complessivi, spiegano fonti della maggioranza, rispetto al testo della commissione dovrebbero essere migliorati complessivamente di circa 10 miliardi nel triennio, a cui andranno poi aggiunti i risparmi ottenuti da previdenza e abolizione delle province, che partiranno dopo. In quelle stesse ore a palazzo Madama prendeva il via il dibattito sulla vecchia manovra, mentre la conferenza dei capigruppo ratificava la decisione di licenziare il testo entro stasera: “Si è solo preso atto dell’intenzione del governo di mettere la fiducia – ha spiegato Maurizio Gasparri - Il testo è stato rafforzato e anche i tempi vengono confermati per far fronte alle scadenze interne e internazionali”. Le opposizioni, dal canto loro, pur nella diversità di
italiano rinsavisca? Non parliamo solo del Governo, che ha la responsabilità maggiore, ma di quell’opposizione che manifesta insieme alla Cgil sull’onda di uno sciopero generale, che non allontana certo, nell’immaginario collettivo, l’Italia dalla Grecia. Anche lì le misure adottate suscitarono moti di piazza e vere e proprie sommosse. In Italia, per fortuna, non siamo a questo. Resta,
toni restano critiche rispetto alle scelte dell’esecutivo: «Avevano promesso di non mettere la fiducia per consentire il dibattito e il contributo da parte di tutti – ha sostenuto Pierluigi Bersani – Ma ancora una volta hanno cambiato le carte in tavola. Questo è un governo che sa solo mentire. L’ennesima chiusura di ogni possibile discussione ci consegna una manovra che resta iniqua e inefficace: perché alzare l’Iva che colpisce tutti invece di inserire una patrimoniale sui grandi patrimoni immobiliari?». Contagiato forse dal clima della piazza cigiellina l’immaginifico NichiVendola: «Il voto di fiducia sulla manovra è un vero e proprio atto di violenza contro il Paese». Di più, «è anche figlio della paura ed espressione di una cultura autoritaria». Stessa musica per Italia dei Valori: «Alfano, Gasparri e Frattini hanno ripetuto che non sarebbe stata posta la fiducia e invece il governo la mette. È più facile parlare con una banda di cialtroni che con questo esecutivo», ha scandito il capogruppo in Senato Felice Belisario.
Il Terzo Polo, invece, per bocca del segretario dell’Udc Loranzo Cesa, ha continuato a sottolineare la mancanza di riforme strutturali e misure per la crescita: «Noi questa manovra non la votiamo. Ma dato che c’è, almeno facciano in fretta».Tra le norme previste, la più inspiegabile è il contributo di solidarietà per chi guadagna oltre mezzo milione. La formulazione del comunicato è effettivamente assai ambigua e il testo ufficiale non è ancora stato presentato, ma
definite, di comune accorto, tra imprenditori e sindacati. Anzi è tornato in auge un lessico che credevamo dimenticato - le organizzazioni più rappresentative sul piano nazionale - a maggior tutela del più forte sindacato italiano. Ed allora dov’è lo scandalo? Il fatto è che la Cgil rifiuta di essere protagonista del necessario cambiamento. Assunzione di responsabilità, trattativa dura,
bilità dei lavoratori. Da sfruttati a produttori - recitava un bel libro di Bruno Trentin, quando era alla testa di quel sindacato - peccato che quella lezione si sia persa nel tempo. Se queste sono le responsabilità di una parte dell’opposizione, cosa deve fare il Governo? Avere il coraggio di anticipare la delega fiscale ed intervenire sulle pensioni: le cose che la Grecia, pur con mille remore, è riuscita a fare. Dal primo provvedimento il Governo ha stimato di ottenere, in tre anni, circa 20 miliardi di euro. Per ora è solo una promessa o una minaccia: dipende dai punti di vista. Gli chiediamo di anticipare l’aumento dell’Iva, già prevista nella stessa delega. Una misura provvisoria, che eventualmente potrà essere soppressa, se le maggiori entrate fiscali - il riordino delle deduzioni e delle detrazioni - o
Dovrebbe essere Roberto Maroni a sollecitare di reintrodurre quella norma, il famoso “scalone”, da lui varata e poi, inopinatamente, abrogata dal governo Prodi tuttavia, lo sconcerto sulle motivazioni che lo hanno determinato. Attacco ai diritti dei lavoratori: come ha detto l’ala più massimalista. Ma la deroga al contratto nazionale, previsto dall’articolo 8 del decreto, non è un colpo di mano del Governo. Le clausole saranno
ma con la finalità di tornare a crescere tutti insieme. Obiettivo realistico solo se la maggior parte delle imprese italiane si converte e si ristruttura per competere sul piano internazionale. Questo è lo sforza da compiere con la partecipazione ed il senso di responsa-
secondo fonti del governo si tratta di una tassa che si applicherà al “reddito complessivo”. La platea di chi dichiara guadagni per oltre 500mila euro è assai bassa: si tratta di soli 4.437 contribuenti, ma per i tecnici dell’esecutivo con la formulazione del reddito complessivo gli interessati salgono a 11mila per un gettito di 88 milioni a regime. Comuni e regioni, invece, sono rimasti con un palmo di naso: il testo è blindato e quindi restano i 6 miliardi di tagli nel 2012 e i 3,5 dell’anno successivo (mitigati, se andrà bene, da 1,8 miliardi della tassa sulle società energetiche statali). «È il colpo di grazia alle istituzioni locali», s’è lamentato il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Nessun ripensamento del governo infine per l’asta sui nuovi canali del digitale terrestre: non ci sarà, nonostante possa portare allo Stato oltre due miliardi di euro quelle frequenze le daremo via gratis. Tra i concorrenti - peraltro in spregio di una raccomandazione della Ue che voleva escludere i big player - ci sono anche Rai e Mediaset.
le minori spese per l’assistenza lo renderanno possibile.
Quanto alle pensioni, dovrebbe essere Roberto Maroni a sollecitare di reintrodurre quella norma il famoso“scalone”- da lui varata quando era ministro del Lavoro - e poi, inopinatamente, abrogata dal Governo Prodi. Sono misure indispensabili per spegnere un incendio che rischia di dilagare ed assumere proporzioni incalcolabili. L’obiettivo è calmare i mercati, con misure sonanti. Certo la loro risposta non è il giudizio di Dio. Le loro logiche sono spesso emotive ed irrazionali. Esuberanti - com’era solito ripetere Greenspaan - quando il ciclo corre, cupe e depresse al primo accenno di crisi. Ma proprio questa consapevolezza dovrebbe spingere a fare presto e bene. Se si ha una pistola puntata alla testa, la reazione dovrebbe essere quella di evitare che parta il colpo, non certo l’interrogarsi sui motivi dell’aggressione.
l’approfondimento
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Durante la giornata di ieri tafferugli a Napoli - otto feriti - e discorsi massimalisti. Al posto di pacifismo e proposte concrete
Lo sciopero non governa
Ottima affluenza ma pessima strategia. La sinistra, intrappolata nell’autoreferenzialità, riempie le piazze. E ritorna anche all’anti-politica militante, alle sue parole d’ordine più logore e perdenti di Osvaldo Baldacci attuale governo non piace più praticamente a nessuno, e come potrebbe essere altrimenti? Le immagini di ieri ci mostrano il prossimo governo? Bersani, Camusso, Vendola e Di Pietro a braccetto sono il futuro? Allora mi sa che l’Italia è condannata, sempre che un tale schieramento non diventi l’unica via attraverso la quale l’attuale centrodestra, nella disaffezione generale, torni a vincere. Se c’è qualcuno che può rivitalizzare Berlusconi, quel qualcuno ieri era a manifestare per le strade. Lanciando petardi contro gli agenti di polizia a Napoli e bloccando i trasporti nell’intero Paese. La crisi economica e la gestione superficiale della manovra - di cui l’unica cosa che si capisce è che farà male – fanno venire il sangue agli occhi. Per questo è comprensibile la rabbia di tanta gente e anche la volontà di scendere in piazza, quando il senso di impotenza non ti fa vedere alternative. Non stupisce quindi la gente che ieri è andata a manifestare. Ma questo non ha nulla a che fare con i leader. La classe dirigente dovrebbe appunto dirigere, guidare, indicare la strada. Recepire le istanze della popolazione ma poi incanalarle su percorsi utili al bene comune. Che questo lo faccia
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l’attuale maggioranza abbiamo smesso di aspettarcelo. Ma – e anche qui per la verità non c’è molto da sorprendersi – ieri lo hanno fatto anche gli esponenti della sinistra che hanno lanciato e cavalcato lo sciopero generale della CGIL. Segno ancora una volta di opposte ma del tutto speculari demagogie che portano solo a vicoli ciechi. La CGIL e ancor più i suoi seguaci politici hanno scelto di cavalcare la paura, di alimentare la rabbia che rode la pancia degli italiani. Hanno fatto cioè lo stesso gioco pericoloso che fa spesso la Lega e a volte una parte non marginale del PDL. È più facile mettersi a gridare inseguendo i peggiori sentimenti dei cittadini, cercare consensi scaricando responsabilità. Ma facendo fare al Paese un altro passo avanti verso il baratro.
Lunedì sera in tv, durante la manifestazione a Piazza Affari, un signore che si dichiarava esponente del popolo viola ha affermato che la soluzione alla crisi economica è abolire il debito. Senza il minimo sforzo di comprensione elementare del fatto che il debito da una parte viene fatto per pagare gli stipendi, la sanità e tutto il resto, compresi auspicabilmente gli investimenti (e dove si prendono i
soldi se azzeri il debito?), e d’altra parte che il debito è un contratto fatto con gli investitori e l’azzeramento vorrebbe dire rifiutarsi di pagare: non restituire cioè i soldi a tanti italiani che mettono qualche risparmio nei Bot, e non restituirli ai grandi investitori internazionali azzerando ogni credibilità dell’Italia in tutti i campi, roba da dichiarazione di guerra.
La sinistra-sinistra, intrappolata nella sua solita autoreferenzialità, presa in ostaggio dalla spietata concorrenza per il consenso politico, spaventata da una rabbia crescente nel Paese che al contempo lei stessa alimenta, è tornata alle sue parole d’ordine più logore e perdenti, e riesce a rovinare anche quelle
Sono i partiti del no, a loro volta incalzati da grillini e antipolitici
poche cose in cui potrebbe avere ragione. Strepiti contro la mancanza di lavoro e gli stipendi bassi, e chi non è d’accordo? Ma quale è la soluzione? Per loro, solo difendere i privilegi di alcuni, senza pensare al rilancio del Paese e al bene comune. Senza rendersi conto che molti guai di oggi vengono dalla mentalità della sinistra assistenzialista che predica una finta giustizia sociale basata sull’illusione della ricchezza per tutti spartendo povertà a suon di no. È forse in parte comprensibile – ma non giustificabile – l’atteggiamento della CGIL, che essendo un movimento sindacale si mobilita, forse non per difendere davvero i lavoratori ma per far vedere agli iscritti che è attivo.
Ma di colpe la CGIL ne ha molte. Primo l’evidente uso strumentale dello sciopero di ieri, con l’ennesima grave rottura dell’unità sindacale. Perché il Paese chiede responsabilità, i sindacati riformisti rispondono (che non vuol dire farla passare liscia al governo, ma tirarsi su le maniche per vedere cosa si può fare), la manovra cambia ogni momento, e intanto scatta lo sciopero a priori. Credo che CISL e UIL sarebbero state disposte a forme di pressione per migliorare la manovra, ma alla
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Nicola Rossi condivide l’analisi della cancelliera tedesca sulla situazione dell’Italia
«La Merkel non ha tutti i torti. Rischiamo di farci davvero male» «Tanti i punti in comune con la Grecia: dalle manovre senza riforme strutturali ai sindacati in piazza. Non abbiamo più credibilità» di Franco Insardà
ROMA. «Chi guarda l’andamento della crisi greca e la paragona alla situazione italiana trova tantissimi punti di somiglianza». Il senatore Nicola Rossi, ex Pd ora nel gruppo misto, non si scandalizza più di tanto per la frase pronunciata dalla cancelliera Angela Merkel sulla fragilità dell’Italia e della Grecia. Senatore, quindi, le affermazioni della Merkel sono fondate? Direi proprio di sì. Anche Atene ha fatto una serie di manovre a ripetizione senza molti elementi strutturali, ma centrate sulle entrate. Anche lì alcuni sindacati, nel momento in cui bisognava essere coesi, hanno avuto comportamenti diversi. Allora siamo sulla stessa barca? Il governo prima, il sindacato e tutti gli altri dovrebbero comportarsi in maniera diversa, proprio per evitare che si possano fare questi paragoni. Fino ad oggi così non è stato. Ritiene che gli investitori temano la fine dell’euro? Gli investitori hanno notato da tempo le grandi esitazioni dei paesi europei nel difendere la costruzione dell’euro. Questi Stati, prima o poi, dovranno decidere quale assunzione di responsabilità vogliono prendersi. Ma questo non esime ogni singolo Paese dal mettere in ordine i propri conti. L’11 agosto siamo stati convocati d’urgenza, perché il governo doveva illustrarci l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Da quel giorno non è successo nulla, mentre la Spagna l’ha già fatto. Gli eurobond sono una soluzione? Sono una misura possibile a condizione che prima tutti i Paesi abbiano dato prova e garanzia per le loro economie. Le critiche della Merkel nascondono anche un tentativo di voler far saltare l’euro e l’Unione europea? Penso che ci sia soltanto una legittima preoccupazione della Germania e della Ue che ci avvertono: non potete risolvere ogni cosa accollandola alla Bce. Perché? Anche la Bce e i principali Paesi hanno i loro limiti. Da qui l’invito all’Italia, e agli Stati in difficoltà, a darsi da fare per risolvere da soli i problemi. La Bce in queste ultime quattro settimane è intervenuta e non ha fatto certamente poco. Ci ha dato un mese di tempo per consentirci di affrontare le questioni. Con quali risultati? Pessimi. È stata confezionata una manovra poco strutturale e tutta centrata sulle entrate. Un segnale non certamente positivo sia per i mercati sia per i nostri partner europei. E, come se non bastasse, il Pd ha pure annunciato che, nel caso dovesse governare, farebbe cose per certi versi simili: tasse e pochi tagli di spesa. Con queste premesse è il minimo che ci siano delle perplessità sul nostro Paese. Andrebbe, quindi, accolto l’invito
del presidente Napolitano di inserire nella manovra misure più efficaci e credibili? Nella maniera più assoluta. La domanda che siamo costretti a porre è un’altra. Quale? Questo governo ha comunque la credibilità per adottare misure credibili? Mi chiedo se non si corra il rischio che, qualunque cosa faccia, non venga ritenuto all’altezza di realizzarla, perché
Ci avviamo inevitabilmente verso un altro decreto. Sarà l’ultima possibilità per il nostro Paese ormai agli occhi del mondo ha perso qualsiasi credibilità. A questo punto la soluzione quale potrebbe essere: un governo tecnico, un governo di solidarietà nazionale, un governo del presidente o altro? Le formule credo che siano poco appassionanti ed, eventual-
mente, spetta al presidente della Repubblica individuare gli scenari possibili, quando sarà chiamato a farlo. Quale che sia la soluzione occorre, però dare, quanto prima, una guida a un Paese che oggi ha una leadership praticamente inesistente. Lo verifichiamo quotidianamente con soluzioni sempre più al ribasso, per riuscire a mediare tra veti contrapposti. L’Italia ha, invece, bisogno di? Un governo autorevole e credibile. Sarebbe questo l’unico segnale possibile per l’Europa e i mercati? Non basta, perché un cambio di governo deve essere accompagnato dall’assunzione di misure serie e drastiche. Sono necessarie tutte e due le cose: un governo credibile e delle decisioni, in molti casi dolorose, che andavano adottate da tempo e che colpevolmente non sono state assunte. Ieri in piazza con la Camusso c’erano Bersani, Di Pietro e Vendola: possono rappresentare un’alternativa credibile a Berlusconi? L’opposizione di sinistra ha perso un’altra occasione. Il luogo della politica oggi è il Parlamento, perché l’Italia è in una condizione tale da avere bisogno di soluzioni in tempi brevi. La forma di espressione della politica in questo momento non è la protesta, ma la proposta, la decisione e un’idea del Paese. Stesso discorso per il sindacato? Farei un distinguo. Il sindacato nella sua autonomia è libero di decidere se esistano le motivazioni per scioperare, anche se sono perplesso sull’opportunità di questo sciopero. La politica che è scesa in piazza credo che abbia purtroppo dato un segnale negativo. Non capire che il loro posto è altrove penso che sia un grosso errore. Di tutti i partiti scesi in piazza? Sì. Non distinguerei tra partiti riformisti e radicali. Non ci si rende conto che il problema non è più rappresentato dal rapporto tra maggioranza e opposizione, ma tra classe politica e Paese. Da tutti noi i cittadini attendono decisioni, proposte e assunzione di responsabilità. Si riparla di riforma delle pensioni e di aumento dell’Iva: due misure opportune? In questo momento c’è bisogno non solo delle riforme strutturali, ma anche di interventi seri sulla spesa. Di entrate ce ne sono già tante nella manovra e quando si continua a insistere su questo tasto si ottiene il risultato di comprimere la crescita. Senza, poi, poter riuscire a onorare i debiti. E per il futuro? Abbiamo intrapreso una china molto pericolosa, c’è ancora qualche chance di ripresa, ma occorre comprendere che i tempi e la qualità dei provvedimenti sono essenziali. Ci avviamo inevitabilmente verso un’altra manovra. Sarà l’ultima possibilità.
CGIL non sembrava interessare questo risultato, anzi: ha ritenuto più utile marcare la propria differenza per accreditarsi presso i più esagitati come l’unico sindacato oltranzista. E così ha finito per circondarsi di oltranzisti, e i pur numerosi manifestanti di ieri erano palesemente una circoscritta minoranza. Con il rischio di alimentare uno scenario greco, come ha detto Casini auspicando di evitarlo: crisi pesante, maggioranza incapace di assumersi responsabilità serie, frange oltranziste che vanno in piazza a spaccare tutto e certo non fanno del bene al Paese.
Peggio della CGIL hanno fatto i partiti politici. Vendoliani e dipietristi ormai pensano solo ad aizzare la piazza per guadagnare consensi personali, mangiando il consenso del PD. L’unico loro obiettivo è quello di spingere per una coalizione di potere a guida massimalista. Sono i partiti del no, a loro volta incalzati da grillini e antipolitici persino più estremi. Ma di soluzioni non ne fanno vedere, salvo i soliti slogan. Spesso viene il sospetto che o credono davvero di poter vincere (e francamente lo credono solo loro), o che tutto sommato si trovino bene nel mondo del berlusconismo, e preferiscono far tirare avanti il loro nemico perché in realtà gli devono la loro stessa sopravvivenza. Pensare che quelle forze, quei leader, quei militanti possano governare l’Italia in un momento difficile suscita solo preoccupazione. Purtroppo la propaganda fa presa facilmente, ed è più complicato far ragionare e costruire anche con sacrifici una prospettiva, piuttosto che inseguire illusioni che fanno da palliativo alla rabbia, ma fanno parte del problema invece che della soluzione. E Bersani? E il PD? È abbastanza chiaro che sono privi di una visione strategica, spaccati come e più che sempre tra diverse anime, riformisti e massimalisti, e sono storditi dalla possibile fine del berlusconismo (in fondo anche loro hanno la ragion d’essere fondativa nel bipolarismo berlusconiano): da una parte si illudono di poter essere gli eredi del crollo del governo (come pensava Occhetto), dall’altra sono terrorizzati dalla rabbia montante che mette il velo in poppa ai demagoghi alla loro sinistra costringendo i piddini a rincorrerli. In modo tale che essendo deboli nelle loro ragioni e nelle loro idee, ondeggiano nel cercare di marcare più territorio possibile, e abdicano alle loro responsabilità. Se inseguendo i concorrenti per le vie della CGIL e della FIOM Bersani e i suoi si faranno stringere nell’abbraccio mortale della sinistra-sinistra, e vedremo la banda dei quattro e annessi alla guida del quarto stato e poi velleitariamente al governo, povera Italia, ma poveri anche loro, intrappolati nei loro stessi logori dogmi.
diario
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Kerala, attaccata una chiesa
Escort al premier, il Csm contro Bari
DELHI. La polizia non è ancora riuscita a individuare gli estremisti che domenica sera hanno devastato la chiesa cattolica di Kottenkulangara, vicino Kollam, in Kerala. I vandali, probabilmente estremisti indù, una ventina a volto mascherato, hanno forzato le porte e rotto le finestre, distrutto altare e confessionali, luci e arredi sacri, dissacrando anche l’edificio sacro. I cattolici che, insospettiti dai rumori, sono accorsi, sono stati minacciati ed è stata anche strappata una catena d’oro a Susi Antony, la cui famiglia vive nelle vicinanze.«Siamo profondamente addolorati – dice ad AsiaNews Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (GCIC) – per questo attacco a una chiesa cattolica».
BARI. La prima commissione del Csm ascolterà nei prossimi giorni il capo della procura di Bari Antonio Laudati e il suo ex sostituto (ora alla procura generale del capoluogo) Giuseppe Scelsi. La decisione è stata presa questa mattina al termine di una riunione durata un’ora convocata a seguito del nuovo scandalo che ha coinvolto lo stesso procuratore barese, travolto dall’inchiesta sulle escort a Palazzo Grazioli per il quale poi l’ex imprenditore d’oro della Sanità è finito in carcere a Napoli con l’accusa di estorsione. Con lui, la moglie Angela Devenuto (ora ai domiciliari a Roma) e il direttore dell’Avanti,Valter Lavitola. Che dice: «Presto rientrerò a casa e mi farò arrestare. Contro di me accuse infondate».
Caso Scazzi, Michele prosciolto TARANTO. È arrivata in Cassazione, e a strettissimo giro verrà fissata l’udienza, la richiesta di trasferimento del processo sul caso dell’omicidio di Sarah Scazzi, per il quale lo zio Michele Misseri è stato prosciolto. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto Martino Rosati ha archiviato nei suoi confronti l’accusa di aver ucciso la nipote quindicenne ad Avetrana il 26 agosto 2010. Già nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, fatto notificare dalla Procura di Taranto il primo luglio scorso, a carico di Michele Misseri non compariva più l’accusa di omicidio. Del delitto, nonché di sequestro di persona, sono accusate la moglie e la figlia di Michele, Cosima Serrano e Sabrina Misseri.
Bersani, Bindi, Letta e Casini presenziano ai funerali del leader Dc in un clima di forte commozione: «Un politico onesto e coerente»
Un galantuomo della Repubblica Al Duomo di Brescia applausi scroscianti per l’ultimo saluto a Martinazzoli di Francesco Lo Dico
Accanto al feretro una corona di fiori inviata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ai funerali dell’ex leader Dc ci sono anche Rosy Bindi, Enrico Letta, Pier Ferdinando Casini, Marco Follini e Gherardo Bianco, che con il politico bresciano hanno condiviso parte del loro cammino umano e politico
BRESCIA. Che sia stato un galantuomo della Repubblica, come l’ha definito Pier Ferdinando Casini, lo si capisce già sul fare dell’alba, dalla scalinata che porta al piano nobile dell’appartamento di via Santa Orsola. La casa di Mino Martinazzoli è aperta a tutti.Tredici gradini di marmo rosa non sono stati abbastanza perché vivesse distante dalla sua gente. Non in vita, e neppure adesso che Mino non c’è più. Sono in molti, a Caionvico, a voler salutare per l’ultima volta Martinazzoli.
Ad accoglierli, vicina al feretro, ci sono gli occhi commossi di Giuseppina, sua compagna di vita, attorniati da cesti di rose bianche. Qualcuno indugia pochi istanti, qualche altro si raccoglie in preghiera. Non pochi lasciano a un quaderno bianco le ultime parole che non possono dire a Mino prima di fuggire a lavoro. Firme illustri, di parlamentari, di un ministro come Mariastella Gelmini, insieme a parole semplici, spontanee, di piccoli esercenti, anziani, operai. Le ultime ore di Martinazzoli nella casa che per anni ne ha accolto le abitudini quiete, trascorrono all’insegna di poche parole che mescolano la mestizia alla dolcezza del ricordo. Poi il feretro viene trasportato attorno alle dieci nell’aula consigliare di palazzo Loggia, dove amici, compagni di avventura, conoscenti e semplici concittadini sono in fila ordinata per rendere a Mino l’ultimo saluto. Accanto alla bara di Mino Martinazzoli, due corazzieri in alta uniforme e una corona di fiori inviata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale ha anche fatto arrivare in Loggia una corona a titolo personale. A cingere il feretro c’ anche il gonfalone della città di Brescia. E poi, naturalmente, la gente. Nella camera ardente allestita dal sindaco Adriano Paroli, si intravedono tra gli altri anche Rosy Bindi, Enrico Letta, Pier Ferdinando Casini, Marco Follini e Gherardo Bianco, che con Martinazzoli hanno condiviso parte del loro cammino umano e politico.
In Loggia arriva anche il giornalista Rai Giovanni Minoli, che definisce la morte di Martinazzoli «una perdita secca di qualità e contenuti». Il viavai assai composto prosegue sino alle 15, quando la bara viene condotta sotto il porticato della Loggia.
E non appena il sindaco Paroli prende la parola, presto i bisbiglii e le riflessioni private si sciolgono in momenti di comune commozione. Il primo cittadino dà l’addio a Martinazzoli citando le stesse parole che l’ultimo leader della Dc usò per salutare Papa Giovanni Paolo II quando visitò la città lombarda nel 1998: «...Così semplicemente, brescianamente, grazie. Brescia ti ringrazia, Brescia ti saluta». Ma Paroli, quasi a interpretare i volti contratti di Enrico Let-
ta, Pierferdinando Casini, Rosy Bindi, Marco Follini e molti altri ex esponenti della Democrazia Cristiana, aggiunge quello che forse molti di loro vorrebbero dire a Martinazzoli in un momento tanto funesto per il Paese: «Caro Mino avremmo bisogno di te anche in questo momento in cui dobbiamo parlare di te. Avremmo bisogno delle tue parole della tua compostezza umana del tuo modo di intendere il dolore e la rinascita». Parole sentite, che culminano in un applauso lungo, liberatorio. Poi torna il silenzio. Il corteo funebre si avvia da piazza Loggia lungo via X Giornate e piazza Paolo VI. Oggi non è la solita cittadina che brulica di voci. Tutte le insegne sono spente, le serrande calate. In onore dell’ex sindaco Brescia oggi è solo silenzio, o pianto discreto. Nel Duomo,
dove il vescovo Luciano Monari celebra le esequie insieme a don Armando Nolli che del leader Dc fu amico e confessore, arrivano da Roma, dopo una fugace apparizione allo sciopero generale, anche il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e Pierluigi Castagnetti, che fu fra i collaboratori dell’ultimo segretario della Democrazia Cristiana.
All’ingresso in chiesa, tornano a scrosciare gli applausi. Il feretro di Martinazzoli è coperto da un cuscino di fiori donato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. La moglie Giuseppina, il fratello Franco e il braccio destro Gianbattista Groli prendono posto vicino al feretro, mentre dietro di loro si riempiono le file in ogni ordine di posti. Una cerimonia semplice e toccante. Alle 17 e
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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Il gip conferma: «Papa e Bisignani a giudizio immediato»
Direttore da Washington Michael Novak
ROMA. Giudizio immediato per il parlamentare Alfonso Papa e per Luigi Bisignani, il consulente già condannato per la maxitangente Enimont e nonostante ciò - secondo i magistrati - «ascoltato consigliere dei vertici aziendali delle più importanti aziende controllate dallo Stato, di ministri della Repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali». Lo ha stabilito il giudice per le indagini preliminari Luigi Giordano, accogliendo la richiesta dei pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio del pool guidato dall’aggiunto Francesco Greco. Il processo è fissato per il prossimo 6 ottobre dinanzi alla prima sezione del tribunale di Napoli.
Per gli inquirenti, le prove raccolte sono sufficienti ad affrontare un procedimento saltando la fase dell’udienza preliminare. I reati per i quali i due indagati, entrambi detenuti, saranno processati sono quelli confermati dal tribu-
e di cronach
Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
nale del riesame. È esclusa dai capi di imputazione l’accusa di associazione a delinquere. Il parlamentare del Pdl Alfonso Papa e Luigi Bisignani, il consulente già condannato per la maxitangente Enimont e nonostante ciò, secondo i magistrati, «ascoltato consigliere dei vertici aziendali delle più importanti aziende controllate dallo Stato, di ministri della Repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali», saranno processati il 26 ottobre prossimo.
Da sinistra Pier Ferdinando Casini, Maria Stella Gelmini e Enrico Letta. Nella pagina a fianco, Martinazzoli
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747
30 la cerimonia di addio si conclude e i familiari accompagnano la salma di Mino Martinazzoli al cimitero di Caionvico.
C’è tempo però per un ultimo tributo: applaudono tutti l’amico di sempre, il politico generoso, l’uomo onesto, il leader che ha avuto in spregioin le stolide pagliacciate dell’infotainment contemporaneo. «Aveva un’idea bella e nobile della politica», commenta Pier Luigi Bersani, «che si può reinterpretare e riprodurre anche oggi. Credo sia giusto interpretare quest’uomo come esperienza indicativa della possibilità di una politica che abbia a che fare con la morale, con la cultura, con il pensiero. E quindi un’idea bella, nobile della politica, della vita amministrativa che è anche segno di speranza, di fiducia che si può reinterpretare e riprodurre». «Fu una delle persone più tormentate di questo nostro Paese», osserva Rosy Bindi a proposito del profilo politico di Martinazzoli, «per la chiarezza degli obiettivi
Il primo cittadino dà l’addio all’ex segretario citando le stesse parole che il leader rivolse al Papa: «Brescia ti ringrazia» che aveva e del percorso che intendeva far compiere a tutto il partito, nel rinnovamento e per dare continuità a quella storia politica che aveva avuto grandi meriti e ha tuttora grandi meriti nella storia del nostro Paese». «Ha attraversato delle difficoltà», ha aggiunto la Bindi, «nella bufera di Tangentopoli, con la quale doveva fare i conti. Non ha però
mai perso di vista l’obiettivo che voleva raggiungere. La fatica è stata tanta. È stato uno dei pochi politici che di fronte ai risultati elettorali ha rassegnato le dimissioni. Dimissioni che noi non capimmo in quel momento, ma che vanno lette anche queste come un gesto di grande coerenza».
«L’abbiamo fatto arrabbiare», ricorda il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, «sia io che Rosy Bindi, però gli abbiamo voluto bene e la nostra presenza qui è segno di una grande stima e il riconoscimento alla persona che è stata veramente un galantuomo della Repubblica». «Era un cattolico democratico, appassionato di etica civile e impegno sociale», annota il presidente delle Acli, Andrea Olivero, «ed è stato un grande della nostra storia repubblicana, non solo per aver avuto il coraggio di guidare la Democrazia Cristiana quando quasi più nessuno voleva farlo, per paura di restare con il cerino in mano; ma anche per l’umiltà personale e politica con cui è saputo tornare a dedicarsi con dedizione al suo territorio: testimonianza di una politica intesa fino all’ultimo come servizio ai cittadini, alle istituzioni e al bene comune» “Ricordate che, se non vi interessate di politica la politica si interesserà comunque a voi”, amava ripetere ai giovani Martinazzoli. Se molti di loro, giovani un tempo, oggi erano qui è perché Mino l’ha fatto. Fino all’ultimo.
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a recente visita del vice presidente americano Biden a Pechino ha fatto più danni che altro. Eppure, la Casa Bianca lo ha definito un successo. Biden ha chiarito che, negli States, sta cambiando la percezione nei confronti dei diritti umani in Cina: e questa è una sconfitta per il mondo. Ma il Partito comunista non deve esagerare, perché gli americani sono ancora in grado di impartire molte lezioni dure. Abbiamo già parlato della mancanza di tatto che caratterizza le relazioni sinoamericane. Dopo questo argomento, però, ho scoperto la mancanza di tatto del vice presidente Biden, che è il primo stratega di questa nuova azione diplomatica. I media americani lo criticano spesso per gli errori che commette durante i suoi discorsi ufficiali e i colloqui informale. Tuttavia mi piace il carattere di Biden, che è il carattere tipico degli americani: un carattere franco, che dice cosa pensa senza prendere in considerazioni le conseguenze dei suoi gesti. In altre parole, disdegna la menzogna.
L
La pagina delle opinioni del Washington Post ha già presentato una critica molto seria alla visita che ha compiuto il vice presidente in Cina, sostenendo che per evitare ogni errore ha rifiutato ogni richiesta di intervista. Eppure, nel suo discorso pubblico all’Università del Sichuan, ha fatto comunque due errori molto gravi. Uno è stato quello di dire che lui “comprende pienamente” la coercitiva politica di pianificazione familiare cinese (che prevede soltanto un figlio per famiglia); l’altro è stato quello di dire che “forse la maggiore differenza nei nostri rispettivi approcci alla questione dei diritti umani è proprio nell’approccio a ciò che consideriamo siano i diritti umani”. Non ha sottolineato invece che i diritti umani sono universali. E, dal mio punto di vista, ha compiuto almeno un altro errore: ha sostenuto pubblicamente i successori politici del Paese, interferendo così negli affari interni della Cina. Sono d’accordo con le prime due critiche mosse al vice presidente Biden, ma non credo che abbia pronunciato le parole sbagliate. Non le ha espresse male, ha detto la verità. Molti americani, infatti, considerato i diritti umani come i valori fondamentali delle loro vite e non tollerano che avvengano delle violazioni agli stessi. Il pubblico cinese può vedere quanto questo sia vero dai conosciutissimi film americani: coloro che violano i diritti umani – non importa quanto ricchi o potenti possano essere – sono sempre dipinti come i malvagi. E, di fatto, questo è un valore generale per gli americani. Così i politici statunitensi devono prestare attenzione alla questione, altrimenti verranno inseriti anche loro nella lista dei cattivi. Il vice presidente potrebbe stare invecchiando, e non intende correre per le prossime elezioni: forse per questo ha parlato in maniera talmente distratta da arrivare a dire la verità. E la verità è questa: mentre i grandi capitalisti americani continuano a ottenere profitti eccessivi, il punto di vista della popolazione Usa ha iniziato a cambiare in base alla classe sociale di appartenenza. Molte persone, la maggioranza della media borghesia, ancora la pensa come al solito. Ma il punto di vista dei capitalisti e dei burocrati è cambiato di
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Il vice presidente ha ceduto su molti fronti. Ma se vuole, Washington è ancora in g
L’altra faccia d
A Pechino, Biden ha sbagliato. Perché negli Usa sta diminuendo la sensibilità nei confronti dei diritti umani in Cina: e questa è una sconfitta per il mondo di Wei Jingsheng
Gli americani parlano di commercio “onesto” e chiedono al regime risposte concrete. Ma i cinesi proprio non capiscono questa lingua molto. Ora hanno uno due “standard doppi”. Il primo “standard doppio” di burocrati e capitalisti prevede una differenza nella gestione degli affari interni ed esteri. All’interno hanno ancora interesse per i diritti umani, perché vivono negli Stati Uniti. Come dicono i cinesi, quando i conigli vengono uccisi le volpi sono tristi. Non vogliono divenire loro stessi delle vittime delle violazioni ai diritti umani, e di conseguenza mantengono il pensiero abituale riguardo la questione.
Tuttavia, per quanto riguarda i diritti umani in Cina, la pensano in maniera completamente differente: per ottenere profitti, guardano con favore all’abbassamento dello standard dei diritti umani. Dal loro punto di vista, la questione dei diritti umani in Cina e gli attivisti che operano per questo sono dei “creatori di problemi”.Vedrebbero con piacere sradicata la questione e i suoi attivisti, o quanto meno non li sostengono.
Ed è esattamente questo ciò che ha detto il vice presidente Biden: standard diversi. L’altro “doppio standard”riguarda la diversa concezione dell’interno e dell’esterno. Anche se i burocrati e i capitalisti pensano che la popolazione cinese non dovrebbe avere accesso ai diritti umani, dicono di essere “molto preoccupati” dalla situazione.
Se però qualcuno fa un appello per i diritti umani in Cina, pur non volendolo eliminare fisicamente, ne bloccano la voce nei media. Iniziano a far circolare delle voci che lo descrivono come un creatore di problemi, e fanno di tutto per farlo evitare dalla comunità. Ne riducono insomma l’influenza, che diventa un’attività proficua. E se un politico sostiene questi attivisti, iniziano a eliminare i fondi per la sua campagna elettorale e – chi lo sa – possono persino arrivare a una sorta di persecuzione politica. Sono testimone diretto, ormai da anni, di questo modo di fare. Negli ultimi anni sia il vice presidente che molti altri politici hanno iniziato sempre di più a usare questi “doppi standard” nei confronti dei diritti umani in Cina. Sono sempre più spaventati dall’idea di interferire nella questione, e arrivano al punto di
annunciare pubblicamente che i diritti umani “non sono il focus” nelle relazioni sino-americane. Quando il Partito comunista cinese ha iniziato a tuonare contro le “interferenze negli affari interni”, il governo americano si è scusato fino a inchinarsi ai piedi di Pechino. Siamo arrivati al punto che un pianista cinese ha suonato musiche anti-americane e a favore della Corea del Nord alla Casa Bianca, e il presidente e i suoi assistenti sono arrivati a dire che “non lo sapevano”.
Ma qui arriviamo a un punto molto interessante. Parliamo di americani che hanno sostenuto pubblicamente il successore alla guida del Partito comunista, una successione che non arriverà prima di un anno. Si tratta di una interferenza seria in una questione interna alla Cina, ma gli americani non si sono spaventati e i comunisti non hanno protestato. Entrambi i lati hanno una tacita comprensione dell’altro, ed è proprio questa la mancanza di tatto, l’imbarazzo che caratterizza le relazioni sinoamericane. L’amministrazione americana stringe dei patti con il malvagio regime comunista in priva, dietro la schiena dell’elettorato americano, e tradisce gli interessi della popolazione statunitense e di quella cinese. Ovviamente la Casa Bianca dirà che
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grado di impartire una lezione al Partito. L’analisi del più grande dissidente cinese
della Muraglia
contri non era molto amichevole: apparentemente non ha raggiunto nessuno dei risultati che si era proposto. Come mai una visita così entusiasta e di così alto profilo ha raggiunto un risultato così anomalo? Come mai la sua faccia amichevole e calda è stata accolta dal pugno freddo del Partito? Perché i politici di entrambi i lati non comprendono come l’altro ragioni e da dove nascano le sue convinzioni. I burocrati del governo Obama pensavano che al Partito importasse qualcosa dell’amicizia e avrebbero risposto alle gentilezze che gli venivano offerte. Pensavano che sostenendo il successore in carica del Partito, che si occupa degli affari internazionali, avrebbero in cambio ottenuto un poco di aiuto.
Ma questi burocrati non sanno che all’interno del Partito la parola amicizia non esiste. Il Partito pensa tradizionalmente soltanto in maniera fredda e impersonale. In passato, si interessava soltanto ai propri interessi: ora si preoccupa soltanto degli interessi della cricca dominante. Sono lontani dagli americani molto più dei 60 gradi di separazione che dividono le due nazioni: e quindi da dove dovrebbe venire questa amicizia? Eppure, la Casa Bianca ha annunciato felicemente la creazione di una buona relazione di lavoro dopo questo unico incontro. Questo tipo di dichiarazione farà ridere tutta la Cina: sono all’asilo?
Sulla dissidenza, il numero 2 della Casa Bianca ha detto che “comprende” il Pcc: un’affermazione destinata a fare molto scalpore tutto è stato fatto in nome degli interessi americani, nello sforzo di ottenere l’apprezzamento dello yuan per aumentare il tasso di occupazione negli Stati Uniti. Ma perché il governo cinese non ha protestato come al solito? Perché entrambi i lati sanno che apprezzare la valuta cinese come richiesto dalla Casa Bianca è uno show elettorale, che si terrà all’interno dei confini posti dai capitalisti che non vogliono perdere i loro profitti esagerati. Poiché non è facile far comprendere questa cosa a un elettore che poi si deve esprimere, c’è bisogno di incontri segreti faccia a faccia.
Alcune immagini della recente visita del vice presidente americano, Joe Biden, in Cina. In alto durante la conferenza stampa, a destra con dei contadini. Nella pagina a fianco con il suo parigrado, e prossimo presidente cinese, Xi Jinping
Ovviamente la Cina è sempre stata riluttante all’idea di interferire negli affari interni degli Usa, per evitare di fare scommesse sbagliate che si potrebbero rivelare problemi per il futuro. Più importante di questa è la scommessa (vincente) che il regime ha fatto nei confronti del grande capitale che si trova negli Stati Uniti: grazie a questa, può permettersi di non dare importanza all’elezione del presidente degli Stati Uniti. A differenza delle politiche de-
mocratiche di Giappone e Taiwan, influenzate dagli Stati Uniti, la politica dittatoriale della Cina si interessa soltanto dell’influenza del capitale all’interno del Paese e nel Paese di provenienza, quindi gli Usa: non importa nulla l’opinione pubblica. Così, il vice presidente cinese Xi ha detto: “È meglio che non create problemi, preoccupati invece di voi stessi”. La visita di Biden è iniziata con rispetto ed è finita con arroganza. Il suo approccio dopo gli in-
Ma il regime comunista non comprende, dal suo lato, gli americani. Gli americani parlando di commercio onesto: quando c’è un debito, va saldato. Da quando hanno sostenuto il successore scelto dal Partito, non accetteranno una risposta come “pensate ai fatti vostri”. Obama ha ancora un anno di presidenza, abbastanza per insegnare (se vuole) una lezione al Partito. Come dicono in Cina “se non bevi quella tazza di alcool per ottenere rispetto, allora dovrai berla come punizione”. Gli americani sono sì gentili, ma possono essere anche duri: e salvare l’economia nazionale è interesse di tutti gli americani, non importa che punto di vista adottino. Se il Partito esagera in questo gioco, avrà la sua risposta. Ed è questo il problema più imbarazzante di tutti nei rapporti fra il vice presidente Biden e il vice presidente Xi Jinping.
la crisi libica
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Voci e smentite su un convoglio diretto in Niger con il tesoro di Gheddafi. La caccia al Colonnello non è però una priorità della Nato
Tutto l’oro del Raìs Dopo l’accordo, resa di Bani Walid in diretta tv su al Jazeera. Ma a Sirte si combatte ancora di Pierre Chiartano ontinua la caccia alla volpe nel deserto libico. Anche se la Nato ha altro cui pensare che alla cattura di Muammar Gheddafi. In viaggio verso il Niger, in un bunker sulla costa, forse è già fuori dai confini, il toto-Gheddafi, ogni giorno, riserva qualche sorpresa. Intanto si sono concluse ieri pomeriggio con
C
successo le trattative tra i ribelli libici e le tribù della città di Bani Walid che consentiranno alle truppe dei rivoltosi di entrare nel centro abitato senza dover combattere. Mentre invece si spara ancora a Sirte.
Le ultime fasi della lunga trattativa per Bani Walid sono state trasmesse in diretta dalla tv satellitare Al Jazeera ed hanno visto anche la partecipazione telefonica del presidente del Cnt libico, Mustafa Abdel Jalil, e del suo premier Mahmoud Jibril. I due esponenti del Cnt, così come gli altri capi dei rivoltosi, hanno garantito ai rappresentanti di Bani Walid che «non saranno attaccati i beni e le persone della città». «Il novanta per cento degli abitanti di Bani Walid vuole una soluzione pacifica. Bani Walid è con la maggioranza dei libici». È quanto affermavano i rappresentanti della città nella trattativa con una delegazione di ribelli. A dimostrazione che le critiche di Saadi Gheddafi verso il fratello Saif e i suoi
proclami «aggressivi» abbiano fatto centro. Al Jazeera, che fin dall’inizio del conflitto libico mena le danze della narrazione ufficiale della rivolta, ha trasmesso in diretta e in esclusiva la riunione che, sosteneva l’emittente, si svolgeva a Bani Walid. E mentre si intavolavano delle utilissime trattative per ridurre lo spargimento di sangue, specialmente tra i civili, la Primula rossa libica veniva dato in un convoglio diretto a sud. Un riedizione in sedicesimi della fuga di Benito Mussolini, corredata dell’immancabile “oro di Dongo” gheddafiano.
Si sarebbe trattato di un convoglio di 200-250 veicoli, scortato dall’esercito del Niger, ex colonia francese a sud della Libia, povera e senza sbocchi sul mare. Carico d’oro e denaro, probabilmente una parte del tesoro del rais. Stando a fonti locali, i camion avrebbero fatto espatriare anche numerosi militari di rango ed esponenti del passato regime libico. Secondo una fonte militare francese, il
convoglio potrebbe essere raggiunto da Gheddafi sulla strada per il vicino Burkina Faso, che ha offerto asilo all’ex leader libico che, ricordiamo, ha sempre promesso di morire combattendo in Libia. Anche il figlio di Gheddafi, Saif alIslam, starebbe – condizionale d’obbligo – considerando l’ipotesi di unirsi al convoglio, secondo quanto riferito dalla fonte francese. Parigi ha giocato un ruolo fondamentale – non sempre trasparente – nella guerra contro Gheddafi e diffi-
cilmente un convoglio di veicoli militari libici avrebbe potuto muoversi così liberamente senza il consenso delle forze Nato. Secondo una nota agenzia stampa europea l’Eliseo potrebbe aver fatto da mediatore per un accordo tra il nuovo governo libico e il rais. Ma un portavoce del ministro degli Esteri francese non ha confermato la notizia dell’arrivo del convoglio ad Agadez, città desertica del Niger, nè una possibile offerta a Gheddafi, che è ricercato insieme al figlio Saif
Il Segretario generale Nabil al-Arabi oggi a Damasco: «Fine immediata dello spargimento di sangue e libere elezioni nel 2014»
Siria, la proposta-ultimatum della Lega araba F
ine immediata dello spargimento di sangue in atto in Siria e libere elezioni nel 2014 (anno in cui scadrà il mandato di Assad alla presidenza) nel rispetto del pluralismo politico. È questo il contenuto dell’iniziativa della Lega Araba che il suo Segretario generale Nabil al-Arabi presenterà oggi a Damasco al presidente siriano Bashar al-Assad e al ministro degli Esteri Walid al-Muallem. L’iniziativa è stata messa a punto dai ministri degli Esteri della Lega Araba nel corso dell’incontro straordinario che si è tenuto al Cairo alla fine di agosto.
Tra le richieste, la formazione di un governo di unità nazionale, l’immediata fine delle violenze contro i civili, le compensazioni per le vittime e i danni provocati dall’esercito, il rilascio dei dete-
di Luisa Arezzo
nuti politici e degli attivisti arrestati nelle recenti manifestazioni e il ritiro dei militari dalle città siriane, come anticipa il quotidiano pan-arabo al-Hayat. «Chiederò al presidente siriano Bashar al-Assad di esaudire le richieste legitti-
ranzia e lo farò perché siamo preoccupati per la situazione che si è venuta a creare». Certo è che la proposta della Lega araba ha tutta l’aria di un ultimatum o quantomeno di un commissariamento
Tra le altre richieste: il risarcimento per le vittime e i danni provocati dall’esercito, il rilascio dei detenuti politici e degli attivisti arrestati nelle manifestazioni e il ritiro dei militari me del suo popolo», ha dichiarato il segretario generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, in un’intervista al giornale egiziano al-Shuruq. «Discuteremo in modo franco della situazione in cui versa il suo paese - ha spiegato al-Arabi andrò in Siria senza avere alcuna ga-
che difficilmente potrà essere digerito dal regime di Damasco. Che infatti si è gia premurato di smentire che il segretario della Lega stia arrivando nella capitale siriana come latore di un’iniziativa. E che comunque non ha affatto cessato le violenze sui civili: solo ieri le for-
ze di sicurezza hanno attaccato tre quartieri di Homs, a 165 chilometri a nord della capitale, uccidendo fra le sette e le undici persone. Non esattamente un segnale di dialogo. E in piena controtendenza con le linee della proposta: «Le violenze contro i civili devono cessare immediatamente - recita il testo anticipato sul quotidiano - per scongiurare il rischio di una guerra civile su base confessionale e per non fornire pretesti per un intervento straniero».
La proposta esorta inoltre al Assad ad annunciare pubblicamente e senza mezzi termini che intende avviare «la transizione verso un regime pluralistico» e che alla scadenza del suo attuale mandato, nel 2014, permetterà «elezioni presidenziali aperte a tutti coloro che rispetteranno le condizioni di candidatura».
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combattimenti sul fronte di Sirte, dove truppe governative e milizie ribelli si sono scambiate colpi di artiglieria. Le ostilità erano riprese in mattinata dopo una missione di ricognizione delle milizie verso le linee lealiste. Le forze in campo sono separate da una terra di nessuno larga circa otto chilometri; fonti del Cnt hanno sottolineato che l’azione di ieri mattina non rappresenta in alcun modo l’inizio dell’offensiva finale sulla città natale di Gheddafi.
Nelle more degli ultimi scampoli del conflitto libico divampano le polemiche sul ruolo dei servizi britannici a supporto dell’ex dittatura, che tanto assomigliano a una resa dei conti interna alla “banda” che ha rovesciato il rais. Il comandante degli insorti libici al centro della tempesta per la collusione di Londra con il regime libico ha accusato gli 007 britannici di aver ignorato le sue de-
Cia nel suo forzoso rimpatrio in Libia, dove è stato rinchiuso e torturato per sette anni dal regime. «La Gran Bretagna ha delle domande a cui rispondere», ha sottolineato, dopo che lunedì David Cameron aveva annunciato alla Camera dei Comuni che ci sarebbe stata un’indagine su queste accuse. «Deve essere istituita un’inchiesta completa, per vedere se MI-6 e MI-5 sono regolamentate oppure no dal diritto britannico», ha incalzato Belhadj. Tutte polemiche che segnalano una sola cosa: non c’è più un controllo totale sulle operazioni coperte. Un segnale di debolezza per gli Stati che da sempre hanno agito dietro le quinte, sicuri che la rete d’interessi e ricatti agisse da freno e monito a chi volesse scoprire le carte del gioco delle ombre, dall’altro è un segno di forza da parte dei media che dimostrano di essere talmente pervasivi da poter incidere sulla politica estera dei Paesi. Guardando lo
Il capo delle milizie di Bengasi, Belhadj: «Deve essere istituita un’inchiesta completa, per vedere se MI-6 e MI-5 sono regolamentate oppure no dal diritto britannico» al-Islam per crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale dell’Aia.
Poi la smentita, il rais non era sul convoglio di veicoli che ha attraversato il confine fra la Libia e il Niger. Lo affermava il ministro degli Esteri del Niger, Mohamed Bazoum, contattato telefonicamente dall’agenzia France Press ad Algeri. «Non è vero, non si tratta di Gheddafi e non credo che il convoglio fosse delle dimensioni che gli sono state attribuite», ha spie-
gato Bazoum. Altra illusione dissolta come acqua al sole nel deserto. Ma in apparenza sembra che ora siano i media a dare la caccia al colonnello. La Nato infatti ha preso le distanze: «l’Alleanza non ha il compito di seguire gli ex-leader in fuga dalla Libia». Lo ha detto il colonnello Roland Lavoie, portavoce militare dell’alleanza, dopo che era circolata la voce sul convoglio militare libico con a bordo Muammar Gheddafi che avrebbe attraversato il confine con il Niger. «Per esse-
re chiari, la nostra missione è quella di proteggere la popolazione civile in Libia, non individuare e inseguire ex leader del regime in fuga, mercenari, comandanti militari e sfollati», ha chiosato Lavoie. Una fonte militare in Niger aveva affermato invece che un «convoglio eccezionalmente grande», composto da diversi veicoli, fosse entrato nella città di Agadez, a nord del Niger, dirigendosi poi verso la capitale Niamey. Difficile capire dove stia la verità. Sono ripresi invece i
nunce sulle torture subite. «Non ho dubbi, nemmeno uno, che sapessero», ha dichiarato l’islamista che guidò l’assalto a Tripoli degli insorti lo scorso mese, al Times. Ha aggiunto di aver chiaramente segnalato la sua sofferenza e la sua angoscia durante gli interrogatori degli agenti britannici, mentre era recluso nel carcere, tristemente famoso, di Abu Salim. Belhadj, che ora guida il Consiglio militare di Tripoli, ha chiesto la verità sul coinvolgimento della Gran Bretagna, con la
Non solo: per la Lega araba bisogna «separare l’esercito dalla vita politica e civile, avviare contatti politici, seri e improntati all’uguaglianza tra le parti, con le forze dell’opposizione, inclusa la corrente islamista. Un dialogo basato su tre principi: «No alla violenza, no al confessionalismo, no all’intervento straniero».
E non poteva mancare una nota sul futuro del Baath, il partito al potere da quasi mezzo secolo, che dovrà tenere quanto prima una riunione straordinaria dei suoi vertici «in cui decida di accettare la transizione verso un regime democratico e basato sui risultati elettorali». In tal senso, la Lega Araba si autopropone per svolgere un ruolo di supervisione del dialogo tra autorità e opposizioni e monitorare il rispetto dell’iniziativa e dei suoi tempi di attuazione prefissati. Ciliegina sulla torta, con l’obiettivo di affrettare il processo di transizione, i rappresentanti della Lega chiedono ad al Assad di «formare un governo di unità nazionale, presieduto da un primo ministro accettato dalle opposizioni che partecipano al dialogo». Un governo che avrà il compito di «pre-
scandalo Murdoch, non sappiamo ancora se e quanto poterne essere felici.
Anche l’Italia si muove nella speranza che nulla sia cambiato con il regime change libico. E che i rubinetti dell’energia siano sempre a disposizione come prima. Infatti si è svolta ieri a palazzo Chigi una riunione dedicata alla riattivazione del gasdotto Greenstream tra la Libia e l’Italia, così da permettere l’operatività dell’impianto entro il 15 ottobre.
zione democratica da sottoporre poi al giudizio del popolo «tramite referendum». Diciamolo: la Lega Araba, più che con una proposta, sta andando da al-Assad con un ultimatum.
In alto: gli insorti festeggiano l’accordo con i lealisti di Bani Walid. Mentre continua il giallo sulla sorte del Raìs. In basso, il presidente siriano Bashir al-Assad parare le elezioni legislative trasparenti, pluralistiche, a cui parteciperanno i partiti ma anche i singoli, che saranno monitorate dalla giustizia siriana e che saranno aperte a osservatori». Dalle urne emergerà, questo l’auspicio ma anche
“l’ordine” «il nuovo governo, che avrà pieni poteri secondo la legge e sarà guidato dal leader della coalizione di maggioranza». Mentre il nuovo parlamento eleggerà i membri di una «commissione costituente» per redigere una Costitu-
Si aggrava intanto la situazione umanitaria dei profughi siriani fuggiti nel nord del Libano. Secondo quanto riferisce il quotidiano di Beirut an Nahar, i circa 3mila civili siriani da metà maggio ospitati in alloggi di fortuna e in edifici scolastici della regione settentrionale dell’Akkar, «non hanno finora ricevuto il sostegno del governo». In Libano la questione del soccorso ai civili siriani ha connotati politici: l’esecutivo di Beirut è da metà giugno in mano alla coalizione filoiraniana e filo-siriana capeggiata dal movimento sciita Hezbollah, che continua a ribadire il proprio sostegno al regime di Damasco e nega la presenza di civili uccisi dalle forze governative. I primi profughi siriani nel nord del Libano erano arrivati a partire dalla metà di maggio, quando l’allora governo uscente del premier Saad Hariri, vicino all’Arabia Saudita e ormai solidale con i manifestanti siriani anti-regime, inviò primi soccorsi.
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Mappa ragionata del Continente Nero, dove le rivolte stentano a decollare: o perché soffocate o per altri interessi
L’inverno africano Dall’Angola al Senegal, da Gibuti all’Uganda, i luoghi dove la “primavera” non è mai arrivata di Maurizio Stefanini on è stata poi così travolgente come sembrava all’inizio la Primavera Araba, peraltro deflagrata in Autunno. Ma neanche un fuoco di paglia. È vero che solo in Tunisia e in Egitto si è avuto il cambio di regime: peraltro non ancora concluso. Ma in Libia comunque alla fine i ribelli hanno preso il sopravvento, anche se Gheddafi non è ancora stato preso, in Siria la repressione e la promessa di pluralismo non sono venuti a capo della rivolta, lo Yemen è in continuo fermento, in Marocco il re è stato costretto a prevenire la protesta cambiando la Costituzione in senso più democratico, e anche in Giordania, Bahrein, Algeria e Oman il fermento non si placa. Col che, però, resta la grande incognita cui gli analisti non sono ancora riusciti a dare una risposta, su quale sarà l’esito finale. Un grande fallimento nell’immediato ma preparatore di decisivi sviluppi a medio termine come il 1848 europeo? Una grande svolta come il 1989 del mondo comunista? O qualcosa destinata a virare per percorsi sbagliati, come la Rivoluzione Iraniana del 1979? Ma queste domande principali hanno finito un po’ per distrarre rispetto a un’altra prospettiva che pure all’inizio sembrava imminente. Ovvero, la possibilità che le rivolte nel Nord Africa arabo si estendessero non solo al resto del mondo arabo, ma anche al resto dell’Africa. Quasi subito, in particolare, si erano accesi vari focolai di protesta: da Gibuti allo Zimbabwe. E l’intervento francese contro Gheddafi nella guerra civile libica era stato subito doppiato da un altro intervento francese contro Gbagbo nella guerra civile ivoriana, sfociato appunto nella vittoria del protetto da Sarkozy Ouattara.
N
Andando in ordine alfabetico, in Angola la polizia ha arrestato 3 giornalisti e 20 manifestanti collegati a una protesta convocata via Internet contro il presidente José Eduardo dos Santos, al potere da 32 anni: una minaccia in apparenza piccola, ma che ha indotto il governo ha convocare una manifestazione
di 20.000 sostenitori per controbatterla. Nel Burkina Faso decine di migliaia di persone sono scese in piazza contro il presidente Blaise Compaoré, che quando la protesta si è estesa ad alcuni militari si è visto costretto a nominare un nuovo primo ministro e un nuovo comandante dell’esercito. In Camerun oppositori, sindacati e gruppi della Diaspora hanno organizzato proteste “all’egiziana”che peraltro sono state subito disperse prima che potessero diventare di massa. Della Costa d’Avorio si è detto. In Gabon il 29 gennaio la polizia ha disperso con i gas una protesta di 5.000 oppositori, ferendone una ventina, dopo che il leader dell’opposizione André Mba Obame si era proclamato presidente ed aveva chiesto al popolo di fare una “insurrezione alla tunisina” contro il presidente Bongo.
A Gibuti le manifestazioni contro il presidente Ismail Omar Guelleh iniziate il 3 febbraio con 300 dimostranti erano arrivate il 18 febbraio a 30.000 persone, ma la polizia ha sparato facendo due morti e vari feriti, ed ha poi arrestato i leader dell’opposizione che avevano indetto una nuova protesta per il 4 marzo, fermando per il momento il movimento. Nel Malawi ci sono state il 21 luglio marce di protesta contro il presidente Bungu wa Mutharika, accusato di corruzione e della scarsità di carburante: le forze di sicurezza sono intervenute con gas lacrimogeni, e nei successivi scontri ci sono stati una decina di morti. Poi c’è stato il Mozambico: un intervento della polizia contro una protesta di lavoratori che il 6 aprile ha portato a vari arresti, diversi feriti e per lo meno un morto. Il Senegal: mobilitazioni continue contro il presidente Abdoulaye Wade, accusato di volersi perpetuare indefinitamente al potere col manipolare le date elettorali o di voler preparare una successione per il figlio. Lo Swaziland: centinaia di manifestanti contro le spese folli del monarca assoluto Mswati III, dispersi con gas lacrimogeni
e cannoni ad acqua. L’Uganda: il risultato delle elezioni dell’11 febbraio, con la proclamazione a vincitore del presidente Yoweri Museveni, hanno innescato l’ira del candidato dell’opposizione Kizza Besigye, che denunciando brogli ha chiamato a un’insurrezione “in stile egiziano”; ma il governo ha bloccato la protesta bloccando il sistema di inoltro dei messaggi Sms e arrestando centinaia di oppositori; anche se poi quando è finiragioni? Su questa “Estate Africana”mancata, ovvero «i fuochi della rivoluzione democratica che non si espandono a sud dopo la Primavera Araba», ha dedicato una recente analisi la rivista Foreign Policy.
Subito dopo le rivolte esplose in Tunisia ed Egitto, focolai di protesta si erano accesi un pò ovunuqe, dalla Costa d’Avorio al blindato Zimbabwe. Cosa è accaduto a quei movimenti? to dentro lo stesso Besigye, il 28 aprile, c’è stata effettivamente nella capitale Kampala una fiammata di rabbia popolare, innescata anche dal caro vita, che ha provocato due morti. Lo Zimbabwe: per aver convocato per il 21 febbraio un convegno sulle rivolte il Nord Africa l’exdeputato di opposizione Munyaradzi Gwisai è stato arrestato assieme a altre 44 persone, con conseguenti torture e accuse di tradimento passibili perfi-
no della pena di morte; un massiccio dispiegamento di polizia fin dal 26 febbraio e il coprifuoco decretato il 28 hanno poi impedito una marcia di protesta che era stata convocata nella capitale Harare per il primo marzo. Insomma, la repressione c’è stata, e anche pesante. Ma indubbiamente nella maggior parte dei casi le mobilitazioni sono sembrate incapaci di arrivare ai livelli della Primavera Araba. Le
E il responso è che in effetti una “Estate Africana”c’è, ma più sul piano delle riforme continue e poco appariscenti, che non delle soluzioni di continuità drammatiche. Quelle, va ricordato, c’erano state tra 1989 e 1991, a ruota delle rivoluzioni in Europa Orientale. Un po’ per il contraccolpo stesso di quelle immagini, che gli africani avevano visto in televisione. Un po’ perché il venir meno del blocco comunista aveva fatto venire meno l’appoggio concreto di molti regimi, screditato il modello cui anche regimi non filo-sovietici si erano ispirati, e d’altra parte al contempo fatto saltare lo spauracchio che altri regimi avevano agitato per giustificare il loro autoritarismo. Il principale risultato era stata la fine formale del monopartitismo: anche se la gran parte degli ex-partiti unici si è poi riciclata con successo al potere anche in ambiente pluralista, soprattutto attraverso tecniche di manipolazione elettorale rese possibili dal controllo del potere. È vero che molti eroi di opposizione protagonisti di storiche alternative democratiche si sono poi una volta al potere a loro turno trasformati in personaggi con tentazioni autoritarie. Primi fra tutti, i già citati Gbagbo e Wade. Con tutto ciò, in Africa comunque oggi si vota. Nel solo 2011 c’è stata la cifra record di ben 28 elezioni, e sebbene la qualità
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Dopo il boom dell’America Latina, anche l’Africa aspira a diventare un’economia emergente. Oltre a Paesi già assestati come Sudafrica e Botswana, anche Etiopia, Congo e Zambia
Sopra: il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré; in basso: il presidente del Gabon, Bongo e l’ugandese Yoweri Museveni alle urne l’11 febbraio scorso (votazioni finite in rissa per brogli). A sinistra: il monarca assoluto dello Swaziland, Mswati III; In alto, accanto alla foto di apertura: il presidente del Senegal, Wade
media di queste consultazioni lasci spesso molto a desiderare, non si è comunque quasi mai arrivati agli estremi di sfacciataggine di Egitto o Tunisia, dove il partito al potere arrivava a coprire oltre il 90% dei seggi alle Camere. D’altra parte, le liberalizzazioni che la gran parte di questi Paesi è stata costretta a fare per via delle ripetute crisi economiche ha anche fortemente ridotto la possibilità dei governi di manipolare il consenso attraverso il controllo dell’economia. Piuttosto che sull’autoritarismo in senso classico, che pure è presente, l’alterazione della democrazia africana continua a basarsi sulla strumentalizzazione delle identità di etnia, tribù e clan. Lo si vede nello stesso Sudafrica, locomotiva economica del Continente, dove l’African National Con-
gress al governo ha ormai da tempo fatto il suo tempo (scusate il bisticcio), e dove un’alternanza al potere sarebbe salutare, per risolvere il nodo della corruzione.
Ma fin quando la massa della popolazione nera continuerà a votare l’Anc per lealtà etnica al partito di Mandela che combatté l’apartheid, di alternanza al potere sarà difficile parlare. E tuttavia, se il progresso economico e l’urbanizzazione che lo accompagna vanno avanti, è fatale che questi sentimenti di appartenenza diventino via via sempre meno importanti, rispetto al gioco concreto degli interessi e delle opinioni. L’importante è evidentemente che il quadro pluralista possa mantenersi fino ad allora, e soprattutto che questo progresso economico vada avanti. E qui c’è l’altro elemento di questa Africana. Estate Che forse può sorprendere chi sa dai giornali dell’allarme per la carestia da siccità nel Corno d’Africa: ma il Corno d’Africa non è tutta l’Africa. Proprio al confine con la disastrata Somalia, invece, il Kenya è l’esempio di un Paese che dopo il collasso della normalità democratica sfociato nella breve guerra civile del 2008 è riuscito comunque a tornare a una normalità costituzionale accettabi-
le, accompagnandola a un boom economico di cui è stato un simbolo la diffusione a livello popolare di nuovi strumenti economici come il money transfer o il mobile banking. Ma non è solo il Kenya. Secondo l’African Economic Outlook 2011, il Continente dovrebbe crescere del 3,7% nel 2011 e addirittura del 5,8% nel 2012. Insomma, dopo il boom dell’America Latina del 2010 e 2011, anche l’Africa dovrebbe ora aggiungersi al panorama delle economie emergenti.
Non solo Paesi già assestati come Sudafrica, Botswana, Nigeria, Gabon, Angola o Mozambico, ma anche Etiopia, Congo e Zambia starebbero per prendere il volo. E come a suo tempo in Europa e ora in America Latina, anche in Africa un importante volano di sviluppo sta venendo rappresentato dalle aree di integrazione. Ultimo importante sviluppo in questo senso: la decisione di Mercato Comune per l’Africa Orientale e Meridionale, Comunità dell’Africa Orientale e Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale di costituire una Grande Area di Libero Scambio da Città del Capo al Cairo, con 27 Paesi che raccolgono una popolazione di 700 milioni di persone e un Pil complessivo da un miliardo di dollari. Certo, ci sarà da fare investimenti massicci: infrastrutture di energia, trasporto, acqua, telecomunicazioni. Una stima è che l’intera Africa potrebbe richiedere investimenti per almeno 50 miliardi di dollari all’anno, nel corso di tutto il prossimo decennio.
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Il più atteso, «Cose dell’altro mondo» di Patierno, aveva annunciato una feroce tirata anti Lega. Ma non meritava certe intemperanze a scatola chiusa
A Venezia arrivano i nostri... «Terraferma», «Ruggine», «La-bas» e gli altri. Ecco tutti i film italiani in concorso in Laguna di Alessandro Boschi
VENEZIA. Gli otto minuti di applausi con cui è stato salutato Terraferma, il film di Emanuele Crialese in concorso alla 68^ edizione della mostra di Venezia, notizia vera e soprattutto riportata da molti tg e quotidiani e quindi ancora più vera, potrebbero avere sancito la possibilità di un avversario di Polanski e del suo Carnage per la vittoria del Leone d’oro. A ben vedere ciò ci sembra piuttosto improbabile. E non perché noi quegli otto minuti non li abbiamo sentiti, perché quegli otto minuti, come certificano i tg ci sono stati. Ma è il motivo per cui non li abbiamo sentiti che forse va spiegato. Innanzitutto ascoltare un applauso così lungo ci farebbe un po’ sghignazzare, a meno che il celebrato non fosse John Ford o un altro gigante del genere, ammesso e non concesso che ce ne sia un altro di quella statura, che ci sia mai stato e che mai ci sarà. Lo spostamento delle proiezioni della stampa nella sala Darsena fa sì che alle stesse possano accedere anche gli accreditati industry. Spiegazione. Gli accrediti industry sono accrediti che si comprano, e dal momento che molti sono stati comprati da Rai cinema, che Terraferma produce e distribuisce insieme a Cattleya, qualche dubbio legittimo potrebbe
una unità persa in quel mare di consensi. Il cinema italiano è comunque ben presente in questa edizione della Mostra. Certo, non tutte le opere sono riuscite, anche quelle che hanno avuto consensi contro l’accanita resistenza dell’unità che scrive. Ruggine, di Daniele Gaglianone, ad esempio. Sembra che il simpatico Daniele, autore tra le altre cose del delizioso Nemmeno il destino, presentato sempre qui a Venezia alle Giornate degli autori nel 2004, abbia un po’ perso la bussola. Il suo film, che affronta il delicatissimo tema della pedofilia ed è tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron, ha come protagonisti Stefano Accorsi, che da qualche tempo non è esattamente garanzia di successo, Valerio Mastandrea, Valerio Solarino e Filippo Timi, nel ruolo più complicato e odioso del film.Timi, sempre bravissimo ancorché a volte un po’ sopra le righe in virtù di un temperamento generoso e volitivo, in questa occasione ha solo il problema di essere diretto in maniera sbagliata, e non vorremmo che questa, che non è una sua colpa, potesse pregiudicare il giudizio su quello che, lui sì, resta un ottimo attore. Piace molto La-bas, di Guido Lombardi, prodotto dalla Eskimo di Dario Formisano. Labas, che vuol dire “laggiù”, o più semplicemente “lontano”, è probabilmente una delle migliori pellicole della sempre interessante Settimana internazionale della critica. Il film racconta un episodio avvenuto nel settembre del 2008 a Castel Volturno. Dei camorristi irrompono in una sartoria di immigrati sudafricani e, sparando all’impazzata, uccidono sei ragazzi e ne feriscono gravemente un altro. Una storia, semplice, autentica e documentata.
In questa edizione della Mostra siamo ben presenti. Certo, non tutte le opere sono riuscite, anche quelle che hanno avuto consensi sorgere. Vale a dire che qualche applaudente avrebbe potuto essere un minimo addomesticato. Aggiungiamo però, ad onor del vero, che molta parte del pubblico ha calorosamente accolto l’opera di Crialese, e questo significa che forse il nostro giudizio su questo film, che riteniamo approssimativo e bolso, valga per uno, nel senso di 1,
Sopra, il cast e la locandina del film “Cose dell’altro mondo”. Nella pagina a fianco, in senso orario: la locandina del film «Ruggine” e il regista Daniele Gaglianone; il cineasta Guido Lombardi sul set del suo “La-bas”; Emanuele Crialese e un particolare della locandina della sua pellicola “Terraferma”. In basso, uno scatto del regista Jonathan Demme
Al centro del lavoro, l’uragano Katrina e la ricostruzione dell’area
«Vi racconto New Orleans» Parla Jonathan Demme, regista di “I’m Carolyne Parker” di Andrea D’Addio
VENEZIA. Sei anni fa, era la fine di agoCi si diverte invece, e mol-
to, con l’opera prima dello sceneggiatore Francesco Bruni. Anche qui un termine curioso come titolo, Scialla, che indica semplicemente un invito a stare più sereni, a rilassarsi (take it easy, direbbero gli americani). E in effetti il pubblico durante i 95 minuti della pellicola si rilassa e si diverte. Merito di una sceneggiatura agile ma non superficiale, e di un cast dal quale spicca Fabrizio Bentivoglio, un padre che viene definito dalle note di regia “bordeline” che scopre di avere un figlio. Una sorta di buddy movie, volendo scomodare un termine elegante, in quanto i due sono costretti a trascorrere insieme alcuni mesi di convivenza forzata. Il simpatico Filippo Sicchitano interpreta l’inaspettato erede, affidato a Bruno-Bentivoglio dalla ma-
dre Tina cui dà il volto Barbara Bobulova. Completa il cast, tra gli altri, Vinicio Marchioni nel ruolo del Poeta, il “freddo” di Romanzo criminale. Le tante sceneggiature scritte, per Paolo Virzì in particolare, hanno evidentemente dato a Bruni l’aggio di calibrare una storia che si cala alla perfezione nel mondo giovanile, un mondo il cui linguaggio e le cui dinamiche sono in continua evoluzione.
sto, l’uragano Katrina si abbatteva in Louisiana distruggendo New Orleans. Un anno dopo Jonathan Demme andò a filmare ciò che era rimasto di uno dei quartieri popolari più celebri della città, il Lower 9th Ward, per capire quanto quella forza di volontà e orgoglio che da sempre aveva caratterizzato gli abitanti, si era tramutato in uno strumento in più a favore della ricostruzione. Il risultato divenne un documentario, l’eponimo Right to Return: New Home Movies from Lower 9th Ward, presentato alla Festa del cinema di Roma del 2007.Tra le tante persone incontrate e intervistate allora, ce ne fu una che più di ogni altro emerse, una donna che si stava battendo per vedere riparati i danni della sua casa storica, una sessantenne conosciuta come “la vedetta”, capace di fare ri-
spettare le regole a chiunque grazie alla sua perseveranza, severa sì, ma prima di tutto coraggiosa e combattiva. È seguendo la sua storia nel corso degli anni che Demme ha realizzato un altro documentario a New Orleans, questo I’m Carolyne Parker, appena presentato al Festival di Venezia. È per parlare di questa sua ultima fatica, ma non solo, che incontriamo il regista premio Oscar per Il silenzio degli innocenti. Maglietta blu, bermuda e scarpe da ginnastica, dal vivo sembra molto più giovane dei suoi 66 anni. Sorride sempre, ha parole belle per tutti i suoi assistenti e quando gli si chiede se vorrà vedere la pubblicazione dell’intervista, ci dà direttamente il suo numero di telefono e l’email personale. Cosa l’ha spinta a firmare un secondo documentario sull’uragano Katrina?
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bastava a fare insorgere quanti da questa premessa si sentivano toccati. In verità le cose non sono mai come le si descrivono, e il film di Francesco Patierno non meritava certe intemperanze a scatola chiusa.
Patierno è un regista
Non poteva quindi essere che la scuola il teatro di questa vicenda. È qui che si sviluppa la storia di un insegnante mancato scrittore (Bentivoglio) che ha da tempo rinunciato a qualsiasi ambizione e si dedica conto terzi alla compilazione di biografie di porno star. Sarà l’incon-
La voglia di raccontare la straordinaria vita di una donna che potrebbe essere d’esempio per l’intera comunità, non solo quella di New Orleans. La vita di Carolyne Parker, il suo continuare a remare contro qualsiasi ostacolo e disgrazia si frapponga fra lei e il suo sogno, quello di lasciare finalmente il container in cui l’hanno sistemata e finire di invecchiare nella sua casa, una delle poche rimaste in piedi dopo l’uragano è qualcosa che mi ha coinvolto in prima persona. Sono andato decine di volte a New Orleans a trovare lei e sua figlia e non era solo per girare il film, ma perché mi piaceva passare del tempo con loro, sono modelli che mi hanno ispirato. Quando finalmente lei è riuscita a rientrare in casa è stata una tale emozione che non dimenticherà mai più. Girando questo lavoro ho realizzato il film a cui sarò per sempre legato di più in tutta la mia vita. Anche il suo prossimo progetto, seppur non sia un documentario ma un cartone animato, sarà ambientato a New Orleans. Si può
tro con questo giovane adolescente inquieto a dargli una scossa necessario. Evidente l’intento di raccontare due adolescenze, quella legittima del ragazzo e quella prolungata dell’adulto. Il film uscirà nel 2012, distribuito anche questo dalla 01, divisione di Rai Cinema che come dicevamo quest’anno (?) la fa da padrona con moltissimi prodotti. Cose
parlare di un vero e proprio amore tra lei e la capitale del jazz... Sono stato a New Orleans tante volte anche prima dell’uragano, sia per ragioni di piacere sia di lavoro. Katrina ha sconvolto tutto quanto, ma non le persone che sono sopravvissute. È per raccontare di loro che mi sono concentrato in questo progetto e ho deciso di portare sullo schermo una trasposizione di Zeitoun dall’omonimo libro di Dave Eggers. Farlo con l’animazione mi è sembrato il modo più semplice e forse anche più affascinante, per raccontare il nubifragio senza dovere ricorrere ad un budget straordinario. Sarà per lei il suo ritorno al cinema di finzione dopo tanti anni. E dopo? Sto lavorando a un horror tratto dal romanzo di prossima pubblicazione di Stephen King, il cui titolo è 11/22/63. Non mi dispiacerebbe comunque in futuro realizzare anche un qualche tipo di progetto con Bruce Springsteen. Ci sentiamo spesso per questo, ogni tanto but-
dell’altro mondo, interpretato da Diego Abatantuono, Valerio Mastandrea e Valentina Lodovini (e, ci piace aggiungerlo, da Sergio Bustric), era probabilmente il film più atteso della mostra. Per le solite polemiche di chi il film non l’ha visto ma comunque sa, conosce, come per volontà divina, come peraltro avviene anche per certi critici... si parlava di una accanita tirata anti Lega, e questo
tiamo giù qualche idea, ma ancora nessuna ha preso forma. Con Springsteen lavorò all’epoca di Philadelphia. Lui vinse l’Oscar, lei fu solo nominato. Ripensa mai a quella pellicola? Pensa che la percezione dell’Aids oggi sia cambiata rispetto al ’93, quando l’ignoranza e i pregiudizi sulla malattia finirono con il condannare alla morte sociale, ancor prima che naturale, molte delle sue vittime? Sono passati 18 anni da allora, e ogni tanto penso ancora a quel film, o meglio, a uno dei suoi personaggi, l’avvocato interpretato da Denzel Washington che accetta il lavoro controvoglia. Lui, che nonostante sia di successo, a causa del colore della sua pelle continua a essere vittima di pregiudizi, si rivela razzista nei confronti di un omosessuale malato palesemente maltrattato dai suoi superiori al lavoro. Ogni volta che penso a come sia cambiata la nostra società da allora, penso a come si comporterebbe Joe Miller oggi. Lei ha iniziato come giornalista, è poi passato al cinema di finzione e negli ultimi anni si è sempre più concentrato sui documentari. Non solo questi su New Orleans, ma
a scalare, nel senso che dopo l’ottimo esordio di Pater Familias la vena è lentamente andata scomparendo. Il voler fare di Cose dell’altro mondo una storia sospesa tra la dura realtà degli immigrati, che secondo il pensiero di Golfetto-Abatantuono dovrebbero scomparire dalla faccia della terra, e la situazione surreale di questo paesotto che di punto in bianco si ritrova davvero privato di tutti gli stranieri con prevedibili conseguenze sul piano pratico e sentimentale (Golfetto ama una negra?), non è davvero una cosa semplice. Il bravo Patierno era il regista più adatto? Mah. Qualcuno ha provocatoriamente scomodato Luis Buñuel Portolés per citare un mostro sacro, maestro nel mescolare piani reali e piani surreali. Certo, è ovvio che lui ci sarebbe riuscito. Ma probabilmente, senza tirare in ballo il grande messicano basterebbe pensare a Sandro Baldoni. Non vorrei che fosse presa come una provocazione ma è indubbio che negli ultimi anni, tra gli italiani, sia stato proprio Baldoni a dare prova di essere il più versato nel maneggiare una realtà pervasa da situazioni irreali: un titolo su tutti, Strane Storie. Racconti di fine secolo. Un’altra cosa, che va detta. Perché se Patierno non era il regista più adatto per un film come Cose dell’altro mondo, nemmeno Mastrandrea ci è sembrato così a suo agio. Ma forse è solo un’impressione di settembre.
anche lo splendido The Agronomist sulla situazione politica haitiana, due lavori su Neil Young e uno sull’ex presidente Jimmy Carter. Ciò che lega tutti i suoi lavori sembra essere la passione che mette, di qualsiasi genere di lavoro si parli. Partendo dalla sua esperienza, quale potrebbe essere un consiglio da dare a un giovane aspirante regista? Prendere la videocamera in mano e iniziare a girare. Non è importante che sia un film di finzione o un documentario, l’importante è fare, comporre, sbagliare, montare, smontare, in definitiva, provarci e cercare di accendere più luci possibili dentro di sé. Quando ti sei abituato ad avere la videocamera con te, fai attenzione a molti più dettagli della vita quotidiana e delle persone che incontri. Diventi più curioso, ti poni più domande, cresci. E fare il regista, significa questo prima di ogni altra cosa: interrogarsi.
ULTIMAPAGINA Il 7 settembre 1951, il primo ciak della serie “Don Camillo e Peppone” tratto dall’indimenticabile capolavoro di Guareschi
Auguri alla compagnia di di Marco Ferrari ra una giornata come tante nella Bassa emiliana, il sole titubante, l’aria fosca, voli improvvisi di piccioni, il rumore delle biciclette e quello assordante dei trattori, là in lontananza, oltre le stalle e le cascine. D’improvviso irruppe il cinema. La mattina del 7 settembre 1951 un intabarrato regista francese, Julien Duvivier, basco in testa e occhialini tondi, batté a Brescello il primo ciak di“Don Camillo” con Fernandel nelle vesti del parroco e Gino Cervi in quello del sindaco Giuseppe Bottazzi detto Peppone. Forse nessuno, tra i curiosi che affollavano sessant’anni fa il piccolo campo sportivo, sede del set, poteva intuire che stava per assistere ad un episodio importante nella storia del cinema e del costume. Ancora oggi le avventure del sindaco comunista e del prete divertono generazioni diverse, da grandi e piccini, tanto che i dvd vendono molte copie in tutto il mondo e che ogni passaggio televisivo fa il pieno d’ascolto. Alla fine quella pellicola batté ogni record d’incasso per l’epoca, un miliardo e mezzo di lire e dette origine a un ciclo di 5 lungometraggi.
E
Tutto cominciò per caso l’antivigilia di Natale del 1946: per riempire un vuoto in una pagina del settimanale Candido, il direttore Giovannino Guareschi prese un racconto già scritto per Oggi e lo inserì nel giornale. Ne scaturì una saga ventennale in 346 puntate e 5 film nei quali gli eventi planetari si riflettevano nell’ambiente agreste e paesano dell’Emilia-Romagna. Molti di quei racconti del “Mondo Piccolo”, pubblicati sia sul Candido sia su altri quotidiani e riviste, sono stati raccolti in seguito in 8 libri, dei quali solo i primi tre pubblicati quando l’autore era ancora in vita. Ma pochi sanno che ad interpretare Peppone doveva essere lo stesso Guareschi. Il regista francese gli fece indossare un bel paio di calzoni di fustagno, un fazzoletto rosso e una camicia a scacchi e lo mise alla prova. Fu un vero disastro. Duvivier gli fece ripetere la scena per cinque ore e alla fine si arrese. Andò in trattoria, si riempì la pancia di tortelli, bevve un buon lambrusco e nel pomeriggio ritentò facendogli ripetere la scena dell’incontro con la squadra di calcio locale per altre quattordici volte. Non c’era niente da fare, Guareschi come scrittore valeva una fortuna, come attore valeva una cicca. Si puntò allora sul bolognese Gino Cervi, accento perfetto, fisico tozzo, occhi aguzzi a cui venne aggiunto un bel paio di baffi alla Stalin. Era la copia esatta di Peppone ma anche di Guareschi. Ma Cervi preferiva Don Camillo, forse per le sue tendenze politiche (il padre era un redattore de Il Resto del Carlino), forse perché diceva di avere la faccia da prete. Duvivier però lo dissuase dandogli per sempre la patente di sindaco rosso di Ponteratto, anche se Cervi poi divenne per tutti il commissario Maigret. Fernandel, invece, fu fiero di mascherarsi da Don Camillo, soprattutto per le sue origini italiane, anche se era molto diverso dal personaggio disegnato da Guareschi. Il Don Camillo letterario, infatti, oltre che avere un rapporto diretto con Gesù, sapeva tirare di boxe, era gigantesco, aveva mani ruvide, piedi taglia 42 (abbondante per l’epoca) e ricorreva spesso alla forza fisica per risolvere i con-
BRESCELLO tenziosi con i paesani, quasi tutti comunisti, tanto da meritarsi il rimbrotto del Crocifisso della chiesa. Proprio questo filo diretto tra il Cristo raffigurato e il prete non piaceva neanche ai cattolici che la ritenevano una forzatura. Fernandel e Cervi erano tanto perfetti come sindaco e parroco che la popolazione di Brescello,
rono al lavoro intuendo, forse, che alla lunga quella location avrebbe fatto la fortuna del paese di Brescello e della frazione di Boretto in cui furono girate gran parte delle scene. E così è stato, anche dopo la fine della prima repubblica. Oggi Brescello è uguale a Don Camillo e Peppone. Tanto che anche le altre pellicole della fortunata coppia furono girate tutte nella cittadina reggiana. Ma come ci si attende da un cinema destinato alla storia, quello che accade a Brescello ha dell’incredibile. Infatti venti anni dopo, nel 1971, sul set delle riprese del sesto film della serie, intitolato, Don Camillo e i giovani d’oggi un ormai attempato Fernandel, al secolo Fernand Joseph Désiré Contandin, figlio di piemontesi emigrati in Francia, cadde a terra esanime proprio davanti al Cristo a cui rivolgeva le sue preghiere e fu costretto a interrompere il lavoro. Il regista Christian Jaque, che era a buon punto con il copione, pregò Gino Cervi di andare avanti con le riprese mettendo in scena una controfigura oppure ponendo Don Camillo di spalle alla cinepresa.
La deliziosa serie dedicata al sindaco comunista (Gino Cervi) e al prete della Bassa emiliana (Fernandel) ha incantato intere generazioni. Ancora oggi, ogni passaggio televisivo fa il pieno d’ascolti
Barsèl nel dialetto locale, Bersèl in quello reggiano, si ribellò ai produttori arrivando ad organizzare uno sciopero delle comparse. Troppo macchiettismo pareva un’esagerazione. Il Partito comunista organizzò anche una manifestazione pubblica nel teatro locale per protestare contro i nemici del popolo che volevano deridere i progressi dell’Emilia rossa. I produttori della Cineriz sembravano sul punto di mollare, ma poi le cose si ripianarono e le comparse torna-
Talmente colpito dalla sorte toccata al suo socio, Cervi desistette dall’impresa e si ritirò dal set. E quindi il sesto film rimase incompiuto nonostante alcune fonti dicano che mancassero poche riprese alla fine.Venne poi realizzato nel 1972 con Gastone Moschin nelle vesti di Don Camillo e Lionel Stander in quella di Poppone. Ma era tutta un’altra musica. Dopo mesi di sofferenze, Fernandel morì di tumore all’età di 68 anni e venne sepolto al cimitero di Passy a Parigi.