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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 10 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

A Palermo il presidente della Repubblica interviene in maniera appassionata sulla crisi politica

La carica di Napolitano «Ora l’Italia deve crescere. Ma serve un clima di unità nazionale» Severo allarme del capo dello Stato: «La situazione è drammatica per il Paese». Milano crolla di nuovo, peggiore in Europa. Si dimette il tedesco della Bce: «Basta aiuti a Roma e Madrid» L’ANALISI

Dal Meeting di Chianciano

Ci sono quattro macigni da superare

Emma Marcegaglia: «Meno credibili della Spagna. Silvio imiti Zapatero»

di Enrico Cisnetto

«Siamo in una situazione molto difficile, c’è un problema di affidabilità. Il Paese è in pericolo e il governo deve decidere: se non interviene, se ne vada» servizio a pagina 3

er favore, copiamo la Spagna: mettiamo fine a questo strazio e, dopo aver rapidamente approvato una nuova legge elettorale, andiamo alle elezioni anticipate. Subito, visto che se a Madrid si vota il 20 novembre non si vede perché a Roma debba essere un tabù andare alle urne in inverno. Anche perché adesso è certificato pure dai mercati finanziari: è più apprezzata – o se si vuole, deprezzano di meno – la Spagna delle elezioni anticipate, piuttosto che l’Italia del tirare a campare e del caos permanente. Basta guardare gli spread: dalla caccia speculativa, gli iberici sono sempre stati peggio di noi. a pagina 8

P

Non si può rimandare ancora

Parla il leader dell’Api

Apriamo gli occhi, il baratro è qui

«Caro Casini, uniamoci davvero»

di Savino Pezzotta

di Errico Novi

CHIANCIANO. Sulla manovra abbiamo già dato il nostro giudizio negativo, che confermeremo con il prossimo voto previsto alla Camera lunedì. a pagina 4

ROMA. «Provvederà il contesto generale a innescare la svolta». Francesco Rutelli, leader dell’Api oggi a Chianciano, indica la strada per il futuro. a pagina 6

11/9/2011: dieci anni dopo

Un giorno lungo un secolo Un’altra Storia La mossa di Powell di Michael Novak

di John R. Bolton

Un passo indietro da pagina 24 a pagina 31 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

di di Daniel Daniel Pipes Pipes • ANNO XVI •

NUMERO

176 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Il presidente della Repubblica lancia un nuovo appello all’unità nazionale per riuscire a superare la crisi economica

Ascoltate Napolitano

Mai così chiaro: «La mancata crescita è un dramma per il futuro. Uniamoci per farcela». Che altro deve dire alla maggioranza arroccata? di Franco Insardà

ROMA. Ringalluzzito da una manovra che non dà spazio alla crescita e non convince i mercati, preoccupato dalle beghe giudiziarie, Silvio Berlusconi è convinto di arrivare a fine legislatura e respinge con sdegno gli inviti a creare un governo di unità nazionale. Un atteggiamento che non è piaciuto a Giorgio Napolitano, ultimo garante della stabilità italiana agli occhi di Bruxelles e Francoforte, dove si stanno vivendo giorni di grande tensione proprio per gli interventi della Bce a favore dei Paesi in difficoltà. Al punto che Juergen Stark, membro tedesco del comitato esecutivo della Banca centrale europea e capo economista, ha annunciato le dimissioni, in disaccordo su questa politica di riacquisto dei titoli di Stato di alcuni Paesi, tra cui l’Italia e la Spagna.

Ieri, da Palermo, in occasione delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, il presidente della Repubblica ha lanciato un nuovo monito, indirizzato soprattutto a Palazzo Chigi, per superare questo periodo di crisi: «Se oggi, dopo

l’indispensabile e urgente manovra di finanza pubblica che sta per concludersi in Parlamento, sono i temi della crescita che si pongono in modo stringente, per non dire drammatico all’ordine del giorno». Una manovra per la quale Na-

Ora puntare sullo sviluppo: tema stringente e drammatico

politano ha sottolineato l’importanza dell’apprezzamento europeo: «Si tratta di una manovra necessaria, urgente, che sta ricevendo un apprezzamento in sede europea molto importante». Un discorso preciso e di grande

equilibrio che fa apprezzare ancora di più la definizione che Massimo Cacciari ha dato, qualche giorno fa, a liberal del presidente della Repubblica: «Napolitano è l’unico segno che la provvidenza ci guarda ancora con occhi benevoli». Proseguendo nella sua analisi secondo il presidente della Repubblica «la crisi finanziaria globale esplosa a cavallo tra il 2007 e il 2008 e, quindi, passata attraverso diverse fasi e manifestazioni, culminando nel corso del 2011 nella crisi dell’Eurozona per la crescente insostenibilità del debito sovrano di alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, ci ha condotto a decisioni molto pesanti nel nostro Parlamento, in funzione di risanamento e riequilibrio della nostra finanza pubblica».

Non si è fatto attendere il commento al monito di Napolitano del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, presente a Chianciano alla festa dell’Udc: «Credo sia doveroso guardare alla crescita: organizzato il pavimento della stabilità, la crescita deve essere realizzata, ma

non utilizzando la spesa in disavanzo, per i vincoli che abbiamo a questo proposito. Dob-

L’Italia deve tornare a crescere insieme nel Nord e nel Sud

biamo promuovere la ripresa della crescita attraverso la ripresa del dialogo sociale, coinvolgendo le organizzazioni rappresentative del lavoro e dell’impresa, per verificare con loro la fluidità degli investimenti e la possibilità di investimenti realizzati non sul bilancio dello Stato, ma attraverso ad esempio l’attività dei concessionari e dei licenziatari». Ma le cifre che arrivano dall’I-

stat non fanno stare certo allegri. Secondo l’Istituto di statistica, infatti, l’Italia archivia il secondo trimestre con una crescita del Pil pari a +0,3 per cento su base trimestrale e +0,8 per cento su base annuale, confermando la precedente stima preliminare. La crescita acquisita per il 2011, in caso di variazioni nulle nei prossimi due trimestri, risulta pari a +0,7 per cento. Le prospettive sono poco rassicuranti, anche a causa del rallentamento dell’economia mondiale, dell’intensificarsi della crisi del debito sovrano e degli effetti restrittivi della manovra-bis da 55,4 miliardi sbilanciata per il 75 per cento sul lato delle entrate. Tra i numeri del Pil del secondo trimestre si registra il calo delle importazioni (-2,3 per cento) che potrebbe segnalare una decelerazione del ciclo.

Ieri, dopo l’invito lanciato nel suo primo giorno palermitano a «un esame di coscienza collettivo», il capo dello Stato ha ribadito l’importanza di una «revisione complessiva di assetti istituzionali, di realtà eco-


la crisi italiana

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«Berlusconi faccia come Zapatero» La Marcegaglia a Chianciano: «Manovra giusta ma recessiva, ormai siamo meno credibili della Spagna» CHIANCIANO TERME. «È una giornata pressiva, non ci sono riduzioni suffi- nisse, servirebbe sempre un governo medio termine, o dovrebbe trarre le brutta per il nostro Paese, i mercati parlano chiaro». Il vicedirettore del Sole-24Ore Alberto Orioli introduce il dibattito clou della seconda giornata di Chianciano con una headline inevitabile. Di fronte alla quale è altrettanto inevitabile l’ultimatum di due protagonisti della tavola rotonda, Emma Marcegaglia e Corrado Passera: o il governo e il suo leader si mostrano capaci di trovare misure per la crescita oppure è meglio cambiare. L’allarme, e l’avvertimento, risuonano unanimi dal palco della festa Udc, sul quale dopo l’introduzione di Savino Pezzotta interviene anche Raffaele Bonanni. Ma è subito la Marcegaglia a riconoscere che «le polemiche dimissioni dalla Bce del consigliere tedesco Stark rappresentano un’altra terribile notizia», proprio perché enfatizzano drammaticamente la sfiducia non solo dei mercati ma degli stessi partner europei nei confronti dell’Italia. Ecco perché, aggiunge la presidente di Confindustria, «l’Italia è in pericolo: siamo meno credibili della Spagna, come attesta l’andamento dei rispettivi spread». Poi ricorda gli attacchi subiti quando cercava di suscitare allarme prima che lo facessero i crolli di borsa: «Mi è stato dato del corvo, eppure io semplicemente dicevo che l’Italia ha problemi seri. Fino a che sono arrivate le due manovre, grazie anche alle sollecitazioni delle banche centrali. Ometto di parlare dei cambiamenti che duravano una notte», incalza la Marcegaglia, «ma è grazie all’appello fondamentale di Napolitano che è arrivato quell’altro pezzo di manovra necessario a dare più garanzie sui saldi». Dopodiché la leader degli industriali non si sottrae alla vera questione: «Manca la crescita. Le entrate fiscali passano al 50% rispetto ai nuovi tagli. È chiaro che questa è una manovra de-

nomiche e di certi comportamenti diffusi che sono ormai di ostacolo ostruttivo a una sana gestione dei mezzi finanziari disponibili e a una ripresa su nuove basi della nostra crescita economica, sociale e civile». Un impegno al quale, ha aggiunto Napolitano «nessuno si può sottrarre, nessuna componente sociale o politica, nessuna parte del Paese. Non c’è un territorio da premiare come concentrato di virtù né un territorio concentrato di vizi da punire. L’esame di coscienza collettivo, che ho più volte sollecitato, non può non coinvolgere tutto il Paese».

Dalla tribuna siciliana Giorgio Napolitano ha ribadito che «l’Italia può tornare a crescere intensamente e stabilmente, solo crescendo insieme nel Nord e nel Sud, e solo mettendo a frutto le riserve del Mezzogiorno, le risorse potenziali della Sicilia e del Mezzogiorno che sono la maggiore carta di cui

cienti alla spesa pubblica». Quindi il richiamo della numero uno di viale dell’Astronomia al nodo delle pensioni, ma anche all’assenza di misure sulle liberalizzazioni. «Si sono volute salvare alcune categorie, ma qui si tratta di dare opportunità ai giovani. Poi servono anche privatizzazioni: voi sapete che il Tesoro ha stimato in 250 miliardi il patrimonio dello Stato. Ci sono tantissimi immobili che costano il doppio di quello che rendono». Nessuna demagogia sui costi della politica: «Non voglio accendere le micce dell’antipolitica, co-

capace di farne la sintesi politica. Perciò le chiedo: questo esecutivo è capace o serve un nuovo Ciampi?». La Marcegaglia non si esibisce in dribbling e dà una risposta semplice che definisce il senso della giornata: «Non spetta a me dirlo, c’è però un problema di credibilità: e allora o questo governo si mostra in grado di saper fare degli sforzi innovativi, con un lavoro di equità a

La leader degli industriali attacca: «Il nostro Paese è in pericolo e il governo sembra incapace di reagire. Meglio se lasciano» me ho detto un attimo fa a Casini, però è assurdo che mentre si chiedono sacrifici a tutti, i tagli sulle indennità parlamentari spariscono. D’altronde per riuscire a tornare a crescere c’è bisogno che ognuno faccia la parte e ognuno sappia se necessario fare un passo indietro». Passaggio chiave.

In pratica, «si dovrebbero abbassare le tasse su chi tiene in piedi questo Paese, imprese e lavoratori. Se non riusciamo a essere competitivi sul mercato globale non ci sono prospettive. Anche per questo, sul tema del lavoro bisogna andare avanti con l’accordo del 28 giugno ». Ma a Orioli non sfugge quel passaggio sul passo indietro, e subito “costringe” la leader degli industriali a tornarci: «Lei dice, tutti facciano un passo indietro: ma se pure avve-

disponiamo per guardare con fiducia al futuro. È questa la sfida da raccogliere per dare tempo nuovo e compiuto a quel patto nazionale di cui abbiamo con grande partecipazione in

Esistono atteggiamenti che ostacolano una sana gestione delle risorse disponibili

Italia celebrato il centocinquantenario». Inevitabile il riferimento del

capo dello Stato alla presenza della mafia: «L’inquinamento più devastante è stato rappresentato dal peso, dalla presenza invasiva e sconvolgente della criminalità organizzata che ha prodotto tante vittime e tanti eroi ai quali rendiamo omaggio». Secondo Napolitano, serve un «forte ancoraggio all’unità nazionale da opporre a ogni rimbalzo non dirò di vecchie tentazioni separatiste, ma anche alla tendenza a una certa separatezza di riflessione della Sicilia su stessa invece che sull’Italia unita. Mi fa piacere che all’assemblea regionale siciliana sia stata annunciata la volontà di determinare una nuova partenza dell’autonomia e si stiano elaborando progetti per farlo».

Nel corso della lectio magistralis tenuta dal professor Lucio Villari all’istituto Storia Patria, Giorgio Napolitano si è soffermato anche sulle critiche e gli aspri confronti di questi

conseguenze perché il Paese rischia molto e noi non possiamo rimanere in una situazione di incertezza».

L’affermazione iniziale di Savino Pezzotta secondo cui «non possiamo nasconderci dietro l’alibi dei mercati» viene raccolto innanzitutto dall’altro attore economico intervenuto al dibattito pomeridiano, Corrado Passera: «È ora di finirla col pensare che l’Europa ci debba salvare, abbiamo tutti i numeri per tenerci su, per ristrutturarci e per salvarci, ma se vogliamo essere parte della sala di regia e non essere la Grecia due come lentamente stiamo diventando, possiamo farlo, ma solo se riusciamo per esempio ad aumentare gli investimenti e superare il deficit accumulato rispetto ai 2-300 miliardi di infrastrutture non realizzate». Neppure Passera può sfuggire alla domanda di Orioli sull’adeguatezza di Berlusconi. «Molte delle cose che servono per la crescita possono arrivare dalle parti sociali, sono loro che possono dare l’esempio. Se poi il governo saprà raccoglierlo, bene, altrimenti è meglio cambiare». E due. Anche Raffaele Bonanni parla a sua volta di discontinuità, ma a proposito di «quelle realtà sindacali che non vogliono cambiare registro», con riferimento alla Cgil e ai suoi no. Inoltre, si chiede Bonanni, «è possibile che anche in queste ore la politica riesca a litigare? Proprio mentre bisognerebbe mettere insieme tutte le forze?». E così anche il segretario della Cisl si accorda al coro di disappunto nei confronti del governo. Che da Chianciano proprio non ottiene sconti.

ultimi tempi sulla politica economica in Italia: «Non significa rinunciare all’analisi critica de-

L’esame di coscienza collettivo non può non coinvolgere tutti

gli indirizzi della politica nazionale per scarsa sensibilità o scarse aderenze ancora oggi ai bisogni della Sicilia e del Mezzogiorno. Tale analisi critica non può essere accompagnata da reticenze e silenzi su quel che va corretto anche profondamente qui nel Mezzogiorno e

dunque in Sicilia sia nella gestione dei poteri regionali e locali sia nell’atteggiamento del settore privato. Finalità e potenzialità dell’autonomia siciliana in misura rilevante non si sono realizzate. Molte aspirazioni sono state eluse e deluse sia in responsabilità dello stato centrale, sia per distorsioni e inquinamenti, che hanno gravemente pesato sulla gestione degli istituti dell’autonomia regionale siciliana».

P a r o le d i a p pr e z z a me n t o per il capo dello Stato sono giunte dal governatore siciliano Raffaele Lombardo, al termine di un incontro privato: «La profonda stima che quest’uomo non solo si è guadagnato, ma ha sempre avuto è cresciuta enormemente per la saggezza, per l’equilibrio e per la capacità di tenere alto il valore e la considerazione, lui certamente ci riesce, degli italiani nei confronti delle istituzioni dello Stato».


la crisi italiana

pagina 4 • 10 settembre 2011

L’intervento del presidente della Costituente di Centro su “L’agenda per la crescita”

Lettera a Emma & Co. «È un momento drammatico da molti punti di vista. Ecco perché chiediamo l’aiuto di tutti coloro che possono darlo. Da parte nostra, ci impegniamo a cambiare una politica sempre meno etica per tornare ai valori» di Savino Pezzotta ulla manovra abbiamo già dato il nostro giudizio negativo, che confermeremo con il prossimo voto previsto alla Camera lunedì. Lo scopo di questo incontro di Chianciano è un altro: è quello di vedere con voi, esponenti dell’industria, della finanza e dei sindacati, se è possibile guarda un poco oltre la contingenza. La manovra era inevitabile, la si doveva fare e poteva essere l’occasione per iniziare ad affrontare alcuni nodi di fondo del nostro Paese. Serviva per iniziare a delineare l’Italia che vogliamo, per dire che vogliamo l’Italia in Europa e nel Mediterraneo - cogliendo l’opportunità che può emergere dai cambiamenti locali, politici e culturali che stanno emergendo nei Paesi arabi con i quali condividiamo lo stesso mare e lo stesso spazio geografico - e per vedere come stare dentro la “grande trasformazione” che sta cambiando il mondo, i suoi equilibri economici e politici. Nulla, o poco di tutto questo, si è fatto; e a mio parere si è persa una occasione. Ci siamo trovati di fronte a un intervento cucito di giorno e più volte disfatto la notte, a secon-

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da degli interessi dei vari gruppi, personaggi e gente varia che compone questa maggioranza. Una manovra abbozzata sulla base di valutazioni il più delle volte approssimative, talora con numeri poco credibili o lontani dalla realtà vissuta dagli italiani, toccati dai vari provvedimenti. Un provvedimento che non si cura degli effetti generali e sociali derivanti dai tagli di voci fondamentali della spesa pubblica locale e più in generale delle conseguenze macroeconomiche della riduzione del debito imposta dall’Europa. È mancata la

«Il Paese cresce dello zero virgola, serve una svolta nell’economia»

visione strategica, ma essa è più importante anche delle più elementari nozioni di economia. Certo, bisognava far quadrare i conti finali: ma a questo risultato si poteva arrivare anche attraverso vie e azioni più razionali, di buon senso, di equilibrio sociale. Affidare quasi tutto il futuro alla lotta al-

l’evasione fiscale è suadente ma è un affidarsi a una sorta di Provvidenza laica, se non si spiega perché ora questa lotta dovrebbe avere risultati migliori di quelli del passato. Avevamo presentato emendamenti correttivi per renderla meno iniquia, avevamo proposto un intervento sul sistema previdenziale che avesse una attenzione alla maternità e al riequilibrio generazionale, un’attenzione alla famiglia alle donne, ai giovani e al Mezzogiorno. Ma invece di aprire una rilfessione aperta ad ogni contributo, il governo ha messo il voto di fiducia. Comunque la si voglia interpretare, la manovra non farà altro che mantenerci sulla china recessiva. Credo che sia ora anche di smetterla con lo scaricare responsabilità proprie sui mercati e nascondersi dietro i mostri della speculazione e nei videogame che ci presenta il ministro Tremonti. Non nego l’esistenza della speculazione, ma la verità è che i risparmiatori italiani, che prestando allo Stato e alle imprese i soldi consentono di reggere lo stato sociale e tante altre cose, non si fidano. La fiducia nell’Italia è venuta meno e un


la crisi italiana governo responsabile ne dovrebbe prendere atto.In tempi di eccessiva personalizzazione della politica, le leadership che non danno fiducia si tirano da parte: elementare, direbbe un certo personaggio di romanzi gialli.

Quando si fanno discorsi di questo genere ci viene subito detto «non c’è un’alternativa». Questo è solo un alibi, l’alternativa c’è ed è un governo di unità nazionale o di larghe intese. Lo si chiami come si vuole ma questa è la soluzione. Non credo nei governi tecnici, la soluzione deve essere politica. Il governo Amato era tutto meno che tecnico, anche se di fronte alla situazione ha assunto una dimensione istituzionale di responsabilità nazionale. Oggi la politica soffre così tanto di credibilità che un governo “tecnico” ne accentuerebbe la crisi. Un Paese, che ne dicano i populisti vari, non può fare a meno di una risorsa fondamentale come la politica. Poi tocca tutti, anche a noi politici, ridare senso alla politica e alla sua dimensione etica, e su questo i ritardi da recuperare sono molti. I costi della politica non sono altro che il risultato di un declino etico del fare politica: servono norme e regole nuove, sempre più rigore, ma soprattutto serve più etica e moralità, più senso pubblico, più attenzione al bene comune. La questione di una nuova etica pubblica non riguarda solo la politica ma tutta la società italiana. Non si esce dalla situazione in cui siamo precipitati se non si torna a dare peso, ruolo e apprezzamento alle virtù repubblicane. Se, come sono convinto, un’alternatvia c’è, ora la si deve riempire di contenuti. In questo, nella vostra libertà e autonomia, ci dovete aiutare nella ricerca di questi contenuti da proporre al Paese. Non chiedo soluzioni politiche, sarei scortese e contradditorio: vorrei solo conoscere fino in fondo il vostro pensiero su come ricostruire l’Italia. Due giorni fa il senatore Pisanu e l’amico Buttiglione hanno giustamente ricordato qualche cosa di importante per la nostra tradizione di cattolici democratici popolari: il codice di Camaldoli. La peculiarietà di quel documento stava nella consapevolezza che una fase della storia d’Italia, dell’europa e del mondo era finita e che era necessario un nuovo inizio. Anche noi oggi viviamo in un momento in cui una fase della storia del mondo sta terminando: quello che mi preoccupa è che forse non se ne ha la consapevolezza. Continuiamo ad usare il termine “crisi” ma esso è diventato ambiguo, perché inconsciamente continuiamo a pensare che superata la crisi tutto tornerà come prima. Possiamo iniziare a dire che non sara così, che siamo immersi non in una crisi ma in una grande tarsformazione e che i nostri parametri concettuali sono alquanto obsoleti. Continuiamo a pensare con schemi vecchi e fatichiamo a pensarne dei nuovi. Ma ci alcuni esempi. Sulla crisi del lavoro dovremmo dire crisi del lavoro in Occidente, perché nel mondo l’area del lavoro tutelato sta crescendo. La crescitaè un buon concetto, ma cosa intendiamo per crescita? L’unica misura è il Pil oppure, come io penso, servono altri indicatori? Cos’è l’economia di mercato: basta il riferimento all’economia anglosassone oppure va recuperata la tradizione italiana dell’economia civile? Sono convinto che sia

Il rappresentante tedesco sbatte la porta: «Basta acquisti di debito»

Terremoto nella Bce: Stark si dimette contro gli aiuti all’Italia di Antonino Ulizi

ROMA. La Bce ha annunciato le dimissioni di Juergen Stark dal board dell’istituto. «Oggi Juergen Stark, membro del consiglio esecutivo della Bce ha informato il Presidente Jean Claude Trichet che per motivi personali si dimetterà dal board prima della scadenza del suo mandato prevista per il 31 maggio 2014». Più che parole, sono pietre, quelle che piovono sui mercati all’annuncio delle dimissioni dell’economista.

E sebbene Stark «rimarrà nel board fino a quando non sarà nominato un suo successore, ossia, secondo la procedura, fino alla fine dell’anno», informa la Bce, è facilmente intuibile come le divisioni interne ampiamente filtrate nei giorni scorsi, renderanno assai difficile l’operazione salvataggio dell’Italia. L’Eurotower adduce infatti dietro le dimissioni di Stark “motivi personali”, ma l’economista era già da tempo in rotta di collisione con quanti caldeggiavano l’acquisto dei titoli di Stato di singoli Paesi. Il mandato di Stark, membro del consiglio esecutivo e del consiglio dei governatori sin dal 1 giugno 2006, sarebbe scaduto il 31 maggio 2014. E se il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, ha ringraziato il capoeconomista per il suo contributo all’unità europea per molti anni e ha espresso la sua personale gratitudine al banchiere centrale tedesco ricordando il lavoro comune per quasi 20 anni, la forma non ha ingentilito il terremoto annunciato qualche giorno fa dallo stesso Stark. «Considerate soltanto quale livello di debito stiamo trasferendo alle future generazioni», aveva tuonato il capoeconomista della Bce, «è una cosa irresponsabile dal punto di vista politico, morale ed etico. «Non ci sono alternative al consolidamento dei conti perché i modelli di crescita basata su un continuo aumento dell’indebitamento hanno fallito». Stark dev’essersi dunque dimesso perché fortemente critico nei confronti di Grecia e Irlanda, colpevoli nell’aver cercato aiuti dai partner europei dopo «decenni di malagestione economica». E la prospettiva di aiutare anche la scriteriata Italia, deve averlo convinto al grande passo in polemica con le colombe dell’Eurotower. Già l’altro ieri il presidente della Bce, JeanClaude Trichet, aveva rifiutato commenti alla domanda se l’istituto avesse intenzione di sostenere ulteriormente lo sforzo di paesi come Italia e Spagna alle prese con manovre e misure per la riduzione dei deficit e il riequilibrio dei bilanci. Un no comment che aveva accelarato l’andamento al ribasso delle borse dopo una mattinata già segnata ovunque dalle vendite.

L’economista non aveva mai mandato giù il salvataggio di Grecia e Irlanda

Così che, prim’ancora che il congedo di Stark diventasse ufficiale, i soli rumors avevano prodotto ulteriori scossoni sulla borsa. In un clima particolarmente volatile, a poco più di un’ora dalla chiusura di tutte le Borse europee lo scivolone di Piazza Affari era piuttosto consistente con l’indice Ftse Mib in perdita del 3,32% e l’Ftse All Share in ribasso del 3,23%. Tra i titoli principali, Unicredit ha ceduto inoltre il 6,04%, Banco popolare il 4,90%, Fiat il 4,81%, Intesa SanPaolo il 4,60%. Molto male anche Enel (4,01%) e Telecom Italia (-3,97%) mentre ha tenuto Bpm (-0,75%). Ma le brutte notizie hanno riguardato l’intera Europa. L’euro è scivolato per la prima volta sotto quota 1,37 dollari per la prima volta dal 23 febbraio, arrivando a segnare un minimo di 1,3695. L’indice Stxe 600, che fotografa l’andamento dei principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente, ha ceduto oltre due punti percentuali, con diverse piazze azionarie che hanno fanno molto peggio: Londra -2,27%, - Parigi -3,65%, Francoforte -2,89%, - Madrid 3,18%, Milano -3,42%, Amsterdam -2,24%, Stoccolma -2,57%, - Zurigo 1,80%. Dulcis in fundo, ha superato poi la soglia dei 370 punti lo spread tra i Btp e i Bund, con il differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi ancora al di sopra quello dei Bonos spagnoli che la momento segnano quota 341.

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arrivato il momento di una profonda riflessione sui paradigmi su cui in Occidente abbiamo costruito i nostri modelli economici. Questi appunti non servono per dimenticare i problemi immediati, ma solo per ricordare che vi è la necessità di uscire da un pensiero politico che ragiona e decide sui sondaggi o sulle scadenze elettorali (cioè sui tempi corti). Abbiamo bisogno di un pensiero politico che ragioni sui tempi lunghi e sfidi le impopolarità del presente. L’Italia è in zona di pericolo, è appesa sui mercati al sostegno supplente della Bce che acquista i nostri titoli e che, in cambio, ci chiede il pareggio di bilancio nel 2013, i governi europei che ci guardano con sospetto. Non ci sono segnali che la tempesta stia per finire e che questa manovra plachi la situazione.

Occorre sempre tenere a mente che abbiamo un debito di 1900 miliardi di euro e che da qui a fine 2011 oltre al fabbisogno dobbiamo finanziare titoli in scadenza per 130 miliardi. Il Paese cresce dello zero virgola, siamo 5 punti di Pil sotto il livello precedente la crisi. Se non si cresce, il pareggio di bilancio diventa un pio desiderio e si allontana la riduzione del debito pubblico. Abbiamo bisogno anzitutto dell’Europa. Abbiamo bisogno di una maggiore coesione interna, sul piano politico e sociale. In questa situazione, un governo di larghe intese che coinvolga le parti sociali un una azione di risanamento e di rilancio dell’economia diventa una necessità. Lo devono sapere per prime le opposizioni e quelle parti della maggioranza che hanno a cuore il Paese: non ci sono concesse deroghe. Questa classe politica sarà giudicata se sarà in grado di assumersi questa reasponsabilità: se invece seglie il galleggiamento, il cincischiare, politicamente sarà condannata. E con essa l’Italia. Bisogna avere il coraggio di andare oltre l’indignazione, la protesta, il mugugno, per assumersi delle responsabilità. La settimana prossima la manovra sarà approvata: a noi non piace, ma questa è la realtà. Ma oltre quel voto diventa indispensabile che si avvii una nuova fase che ponga al centro una nuova politica economica.

Ci sono diverse questioni aperte: affrontare la questione del reperimento delle risorse per la crescita; la vendita del patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti locali; la privatizzazione dei servizi pubblici locali; la riduzione dei costi della politica, attraverso una rimodulazione istituzionale complessiva; superare privilegi e sprechi e combattere la corruzione; trasparenza nella pubblica amministrazione rendendo più responsabili i dirigenti; meno tasse sul lavoro, sull’impresa e sulla famiglia; questione previdenziale in relazione alla cura familiare, alla questione demografica e generazionale; agevolare la ricerca e l’occupazione nel Mezzogiorno; puntare sull’innovazione e l’evoluzione del paradigma tecnologico; formazione e scuola; puntare sulle infrastutture per sostenere la domanda; la liberalizzazione del mercati e la tutela dei consumatori; un piano di contrasto alla povertà. Sono questi i temi fondamentali per la ripresa del nostro Paese, sono questi i temi su cui saremo giudicati e di cui dovremo rispondere. Dobbiamo fare presto.


la crisi italiana

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Intervista al leader dell’Api che oggi interverrà a Chianciano. «Il Cavaliere è strutturalmente incompatibile con la responsabilità necessaria»

«Caro Pier, uniamoci davvero» Francesco Rutelli: «Dobbiamo allargare il Terzo Polo, servono tutte le forze a disposizione e rafforzare il nostro patto» di Errico Novi

ROMA. «Provvederà il contesto generale a innescare la svolta. Se, come sembra, nel centrodestra non ci sarà la presa di coscienza necessaria per voltare pagina, sarà l’ulteriore drammatico aggravarsi della crisi economica e finanziaria a imporre una nuova fase politica». Francesco Rutelli non immagina un colpo di reni della maggioranza, nonostante il coraggioso passo compiuto da Pisanu e i tanti che, nascosti, ne condividono le parole. E il leader dell’Api, atteso oggi a Chianciano, rivendica sì per il Terzo polo il merito di aver «previsto l’evoluzione del quadro e di aver fissato alcuni punti chiave per una fase nuova, dal superamento dell’eterno conflitto bipolare alla demitizzazione del federalismo». Poi però richiama il suo movimento e l’intera alleanza alla necessità di «aprirsi a nuovi contributi e nuovi apporti: dobbiamo riconoscere che non possono bastare i partiti fondativi del Terzo polo, che dobbiamo andare oltre e soprattutto accelerare il processo di integrazione.Va fatto nel più breve tempo possibile. In politica i tempi sono tutto». L’ansia di cambiare c’è anche nel centrodestra: Pisanu è il solo che ha il coraggio di esprimerla, altri non ce la fanno. Così però non si rischia di perdere il treno giusto per dare un nuovo governo all’Italia prima che la situazione precipiti definitivamente? La politica è sicuramente in ritardo. Ma a un certo punto sarà costretta ad inseguire un’accelerazione della crisi economica. Della crisi oggi forse non riusciamo a vedere tutti i contorni, eppure sta scavando sotto i piedi un destino molto difficile per l’Italia. Da tutti i Pae-

si europei arrivano dati sull’aggravamento del disavanzo commerciale, sulla crescita della disoccupazione, che definiscono un quadro preoccupante oltre le aspettative peggiori. In questo contesto l’Italia si trova ad essere purtroppo al punto più avanzato della crisi: per la crescita negativa pronosticata dall’Ocse, per l’effetto indiscutibilmente recessivo della manovra, che nelle sue versioni successive lascia irrisolto proprio il nodo della mancata crescita. È la preoccupazione di tutti gli osservatori internazionali, della stessa Bce. Le dimissioni di Stark suonano come campane a morto per il governo Berlusconi. Non riavviare la crescita significa innescare un effetto a spirale, con ulte-

Al Senato ho ricordato che la forbice dell’impatto della manovra da qui al 2014 indicherebbe il prevalere di nuove tasse, rispetto ai tagli, tra il 65 e l’80 per cento. Una nemesi per Berlusconi, appunto, che aveva promesso meno tasse per tutti, la semplificazione delle aliquote e così via. Una nemesi con conseguenze dirompenti per l’economia italiana. Stiamo entrando in una delle fasi più difficili nella vita della Repubblica. E questo condizionerà in modo diretto le relazioni politiche. Di Berlusconi potremmo dire che un profeta dell’ottimismo a tutti i costi come lui, in questa fase, è irrimediabilmente fuori dal tempo. È vero. Come è vero che Berlusconi è strutturalmente incompatibile con dei

Il Terzo polo ha indicato i punti chiave su cui intervenire: via dal bipolarismo, superare l’immobilismo in economia e il mito della devolution. Ma dobbiamo aprirci a nuovi apporti riori necessità di manovre e di restrizioni. C’è una drammatica nemesi dietro questa scelta del governo, terribile per Berlusconi: rispetto a riduzioni della spesa pubblica sì severe ma certo sostenibili, si preferisce ricorrere alla maggiore tassazione. Ma le tasse sono legate al reddito e alla creazione di ricchezza: ed è chiaro come proprio per questo, in un momento di recessione, la crescita della pressione fiscale diventi un vero e proprio cappio al collo. Un cappio che è stato stretto già due volte in poche settimane, in effetti, proprio con la doppia manovra.

messaggi di serietà e di responsabilità. Lui è obbligato a dare dei messaggi di ottimismo per lo stesso tipo di vicenda imprenditoriale che ha avuto. Berlusconi è anche colui che ha concorso ad aggravare la situazione italiana: quando lui ha preso il governo il debito pubblico non era al 120 per cento e la pressione fiscale non era al 45. E con lui la spesa corrente è cresciuta in modo drammatico in tutti i capitoli, a dispetto di tutte le linee liberali e antistataliste. Se conteggiamo la crescita dell’economia, ci accorgiamo che il bilancio di 10 anni complessivi di governo Berlusconi è pa-

ri a zero. Certo, se c’è uno inadeguato a questa fase è lui. Anche per una ragione strettamente politica: Berlusconi ha vissuto di radicalizzazione del conflitto tra i due poli, mentre la crisi esige oggi un superamento di questa polarizzazione e l’apertura in una stagione di responsabilità larga, condivisa. Su questo il Terzo polo è in una posizione di vantaggio. Noi abbiamo indicato la strada di un governo di larga responsabilità per far fronte alla crisi e per rimuoverne i fattori aggravanti. Che sono appunto la polarizzazione estrema, distruttiva nelle situazioni drammatiche. E poi l’atteggiamento della destra presunta liberale che di fronte alla crisi è stata in realtà immobilista, e quello della sinistra democratico-riformatrice purtroppo braccata e condizionata dalle componenti radicali e da un sindacalismo nettamente conservatore. Il terzo fattore negativo da noi individuato con grande anticipo è stato il fiasco del federalismo. Tema un po’ rimosso dal dibattito di questi ultimi tempi. Dieci anni dopo l’approvazione del Titolo V, e a quarant’anni dall’istituzione delle regioni, è il momento di tirare le somme. Tutto il sistema del decentramento dei poteri va rivisto. La crisi di alcuni Grecia e Spagna è stata enormemente aggravata dai conti fuori controllo degli enti territoriali. Nella nostra sanità è cresciuta del 50 per cento la spesa per il solo acquisto di beni e servizi. È in crisi il modello della devolution leghista: mentre discutiamo di province da eliminare e comuni da aggregare, facciamo una verifica anche sulle regioni. Ecco, su bipolarismo selvaggio, supe-


la crisi italiana

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Il capo dei vescovi italiani lancia ad Ancona un appello ai moderati ROMA. «La Dottrina Sociale della Chiesa è un patrimonio provvidenziale, insuperabile per i cattolici che vogliono continuare o che si affacciano al servizio della citta. È insieme che si percorrono le vie del servizio se non si vuole essere velleitari ancorché generosi. Insieme senza avventure solitarie, per essere significativi ed efficaci». Il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, chiama a raccolta i cattolici nell’omelia tenuta ieri nella Cattedrale di Ancona a chiusura della settima giornata del Congresso eucaristico nazionale. Un appello assai esplicito, sentito, affinché sia ricostituita l’unità dei cattolici in politica. E di conseguenza la bocciatura di quella che dopo la fine della Dc, si configurò come una diaspora che portò i cattolici in rami opposti del Parlamento.

«I cattolici sono storicamente una forza sociale capace di visione e di rete», ha rilanciato il presidente della Cei, «che ha sempre contribuito con lealtà e impegno al bene di tutti: sono consapevoli delle difficoltà dell’ora, ma anche delle responsabilità storiche di fronte alle quali mai sono arretrati, tanto meno nei momenti più difficili». «La condensazione di ideali comuni, che nascono dall’ispirazione cristiana e dalla sapienza umana, è una ricchezza per tutti», ha ricordato ai partecipanti al Congresso Eucaristico Nazionale, in quanto i cattolici sono «presenti nella società civile come il lievito e il sale, consapevoli che la fede è utile anche alla Citta». Bagnasco affida dunque ai cristiani il compito delicato di tenere insieme le maglie sempre più tese di questa spirale economica che sembra non avere fine per il Paese. Il cardinale ha ricordato come i cattolici «hanno sempre co-

Bagnasco: «I cattolici tutti insieme in politica» «Basta divisioni e avventure solitarie, di nuovo uniti per essere efficaci» di Francesco Lo Dico stituito una presenza di coagulo per ogni contributo compatibile con l’antropologia relazionale e trascendente, e con il progetto di società aperta e solidale che ne consegue». Il presidente dei vescovi italiani, ha poi tenuto a precisare nel corso dell’omelia. Ma il capo dei vescovi è voluto ritornare anche sulla difesa della vita. «Difendere il valore della persona», ha ricordato Bagnasco, «e i suoi

dal lavoro alla cultura, dalla solidarietà sociale alla giustizia, dalla salute alla pace, all’ambiente». Per Bagnasco, ovviamente, tale visione è «trascendente», ma soprattutto «è come un tesoro: la perla preziosa che misura il valore e riordina tutti gli altri pur necessari tesori. Si tratta dell’uomo, l’uomo è la bussola». Ma «perdendo la bussola», ha ammonito il cardinale, «ci si disorienta, e il risultato sarà

«I cattolici», ha ricordato il presidente della Cei, «hanno sempre costituito una presenza di coagulo per ogni contributo compatibile con il progetto di società solidale che ne consegue» diritti non è monopolio dei cristiani», anche se essi «abitano la storia consapevoli di avere qualcosa di proprio da dire, qualcosa che è dato dalla fede, ma che, in misura, è avvicinabile anche dalla ragione aperta e pensante: è qualcosa, infatti, che sta alla base di ogni aspetto che dà forma alla vita sociale». «Senza una visione antropologica integrale», ha aggiunto il presidente della Cei, «non si va lontano nei vasti e molteplici campi della società: dall’economia alla finanza,

ramento dell’immobilismo e modernizzazione del sistema delle autonomie, il Terzo polo è la forza più attrezzata: per la proposta economica di responsabilità che ha messo in campo, per la riflessione sulla crisi di questo bipolarismo e per la difesa della coesione nazionale contro il modello di devolution leghista. Ma il Terzo polo riuscirà anche nell’impresa di riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica? La crisi può incoraggiare le persone a occuparsi della vita pubblica piuttosto che a disprezzarla? La situazione è ambivalente: ad oggi prevale ancora la faccia buia. La crisi spinge parte dell’opinione pubblica a ritenere la politica responsabile di tutto. Ci sono sì dei barlumi positivi, lo stesso Casini ha notato con molto interesse i duecento ragazzi venuti a Labro per la festa dell’Api. È un indizio in controtendenza, senz’altro. Dopodiché però il Ter-

che ogni aspetto del bene comune andrà per conto proprio, cercando soluzioni anche con impegno, ma senza misurarsi col criterio dell’umano, cioè l’uomo».

ricordato il cardinale che li rappresenta pubblicamente, «i vescovi italiani da circa quindici anni, hanno avviato una riflessione sulla questione antropologica. E anche per questo hanno posto al centro dell’impegno pastorale del decennio la sfida educativa.

«Essi sono consapevoli», ha rassicurato il presidente della Cei, «che il Vangelo rivela il vero volto di Dio e dell’uomo e sono convinti, con tutta la tradizione della Chiesa, che la ragione scevra da pregiudizi giunge a riconoscere i tratti universali del tesoro-uomo».

irrinunciabili e irriducibili» che costituiscono «il codice genetico imprescindibile dell’impegno cristiano nella società complessa», definendoli oggi «cardini costitutivi dell’uomo e fondativi della nostra civiltà umanistica: la vita senza alcuna decurtazione, il matrimonio e la famiglia, la libertà religiosa ed educativa. Sono essi l’architrave dell’umano, e sorgente del bene comune in tutte le sue forme». Per Bagnasco, «senza un riferimento a questi valori fondativo nessun altro valore germoglia. E finisce anzi con essere distorto da ideologie e da interessi mercantili». «Per questo», ha

«Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita», ha continuato Angelo Bagnasco, «finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo». Il cardinale ha elencato perciò anche gli altri «valori

zo polo non può pensare di andare avanti solo con la somma dei suoi partiti e movimenti: ci vuole una maggiore integrazione, ovviamente politica e non nel senso del superamento dei partiti che sarebbe prematuro. Ci vuole anche maggiore investimento su nuove figure, nuove personalità, gente nuova che ven-

mo, rischiamo di essere rapidamente bypassati dagli eventi. E il sistema politico nel suo insieme, a partire dai moderati del Pdl nascosti dietro Pisanu, cosa aspetta per compiere la svolta ed evitare di farsela imporre dall’aggravarsi della crisi?

Siamo di fronte a uno dei momenti più difficili nella nostra storia. Se ne uscirà con un governo del presidente guidato da una personalità di prestigio internazionale. Ma niente nomi ga a fare politica. L’appuntamento di Chianciano e quello parallelo di Mirabello per Fli spero diano segnali molto forti in questa direzione: rafforzare i partiti esistenti, ma rafforzare altrettanto e di più il progetto politico che abbiamo messo in campo. Se non lo faccia-

Vede, l’altra nemesi per Berlusconi è quella di assumere per sé lo slogan di Francesco Saverio Borrelli: resistere, resistere, resistere. So che la sua determinazione in questo senso è radicale. Resto convinto che sarà l’evidenza, l’ineluttabilità della crisi e dell’inadeguatez-

za della maggioranza nell’affrontarla, a determinare il cambiamento. Inutile attendere sussulti di vitalità. È anche vero che non c’è un’alternativa di sinistra. E il Terzo polo non ha i numeri per determinare da solo questo cambiamento. Perciò solo un fattore esterno dirompente, che certo il passare dei giorni non rende improbabile, può creare le condizioni per arrivare a un governo di larga responsabilità, politico e non tecnico, con personalità di varia estrazione. Un nome, prego... ...un nome che lei ha probabilmente in mente, ce n’è più d’uno, ma che io non farò neanche sotto tortura. Anche perché è probabile che il governo di cui parliamo sarà un governo del presidente. Queste sono anche le cinque righe conclusive del libro che ho scritto due anni fa, ma non voglio assumere il ruolo di profeta. Ora è tempo degli artigiani, non certo dei profeti.


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la crisi italiana

La svolta può arrivare dai moderati, che hanno dimostrato responsabilità e possono lanciare una nuova fase

I quattro macigni

L’atteggiamento di Berlusconi, gli errori strategici del Pd, la mancata coesione delle opposizioni e la legge elettorale: ecco cosa sta bloccando il Paese di Enrico Cisnetto er favore, copiamo la Spagna: mettiamo fine a questo strazio e, dopo aver rapidamente approvato una nuova legge elettorale, andiamo alle elezioni anticipate. Subito, visto che se a Madrid si vota il 20 novembre non si vede perché a Roma debba essere un tabù andare alle urne in inverno. Anche perché adesso è certificato pure dai mercati finanziari: è più apprezzata – o se si vuole, deprezzano di meno – la Spagna delle elezioni anticipate, piuttosto che l’Italia del tirare a campare e del caos permanente. Basta guardare gli spread: fin da quando si è aperta con la crisi greca la caccia speculativa all’euro gli iberici sono sempre stati peggio di noi, tanto che la “s”del famoso acronimo “pigs” stava appunto per Spagna e la “i”per Irlanda e non per Italia. E soltanto due mesi fa il differenziale tra i Bonos spagnoli e i Bund tedeschi era di circa 50 punti superiore a quello che separava i nostri Btp dagli analoghi titoli del debito della Germania.

P

Quando il 4 agosto il nostro spread ha toccato il massimo di 400 punti, eravamo pari. In questa settimana, per la prima volta, i due spread hanno invertito la tendenza: l’Italia sta peggio per oltre un quarto di punto percentuale. Sancendo così, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’attacco della speculazione finanziaria in questo momento è mirato proprio al debito italiano, e che se l’obiettivo finale è la caduta dell’euro, il cavallo di Troia per arrivarci sono i nostri titoli di Stato. Ma smentendo anche – e questo non era per nulla scontato, anzi – che il guaio peggiore per un Paese sotto attacco sui mercati sia quello di interrompere la continuità di governo. Già, ora sappiamo che le elezioni anticipate – che Zapatero ha convocato senza ricandidarsi e pur sapendo quanto siano alte le probabilità che i socialisti le perdano – non sono per nulla un tabù. Infatti, tra un Paese, come l’Italia, che è guidato da un governo che rimane in piedi nonostante manifesti una sconcertante incapacità di decidere per clamo-

A Chianciano, l’Italia di ieri messa a confronto con quella di oggi

Ritrovare il coraggio di “fare l’impresa” CHIANCIANO TERME. De Mita lo ricorda con il piglio di chi sa quanto le cose elementari siano le più fuggevoli: «La ricostruzione della storia non è nostalgia ma la premessa per sapere come continuare». Non è inutile in effetti ribadirlo. Così com’è tutt’altro che oziosa la scelta di Casini e Cesa: intitolare la festa di Chianciano alla capacità degli italiani di «compiere grandi imprese» quando si mettono insieme davvero. E quale tesoro sia possibile rinvenire nella storia della Repubblica lo si capisce dalle prime battute del dibattito che apre la giornata: il tema è proprio quello che accompagna l’intera manifestazione, ed è illustrato dal bellissimo lavoro di immagini con cui Enzo Carra racconta i passaggi cruciali della vicenda repubblicana fino alla stagione di Moro. Con De Mita, provvedono anche Piero Craveri, Antonio Polito, Miguel Gotor e il direttore della sede Rai di Napoli Francesco Pinto a offrire ogni genere di esempi per dimostrare come l’Italia abbia saputo venir fuori da difficoltà anche più gravi di quelle presenti. Davvero prezioso in un tempo come questo, in cui il flusso indefinito e inarrestabile della globalizzazione vorrebbe cancellare ogni passato, ogni identità, oltre al modello sociale costruito in Occidente nel dopoguerra.

come. Inevitabilmente impietoso. Proprio Polito che con la storia dei cattolici democratici non ha vincoli di sangue richiama il Berlusconi che «si definì erede di De Gasperi e fece un po’ridere». Ma lo stesso Craveri entra nel merito dell’impresa compiuta dallo statista di Trento, «dare unità al sistema politico, passare alla democrazia nella convinzione che quello fosse il sistema per dare un futuro alla nazione. Cavour», ricorda lo storico, «ha fatto l’Italia, ma De Gasperi l’ha rimessa in piedi». Riappropriarsi della storia per uscire dal buio tunnel in cui la crisi pare aver scaraventato il Paese vuol dire anche essere all’altezza di quelle leadership, di quelle imprese.

Da dove cominciare? Francesco Pinto non lo dice, ma la sua commovente perifrasi sulla costruzione dell’Autostrada del Sole, vicenda al centro di un suo recente libro, dà la risposta con grande semplicità: «Quando il governo affidò i vari appalti alle imprese, queste chiesero quali standard tecnologici dovessero essere preferiti. Il governo rispose: realizzate l’opera, punto. Scegliete voi gli standard, non ve lo indichiamo noi». Le grandi realizzazioni sono sempre possibili se solo si vuole. Sono possibili come «quella siepe lunga 750 chilometri fatta nascere per risolvere lungo tutta la strada tra Milano e Napoli il problema degli abbaglianti». Altra metafora: unire il Paese, da Nord a Sud. Ecco un’altra chiave che la Prima Repubblica ha saputo adoperare e che oggi viene messa in discussione. Gotor ne ricorda ancora una nella capacità di rompere l’egemonia imperiale di Francia e Inghilterra nel Mediterraneo. Ma forse è ancora De Mita a indicare l’esempio decisivo: «Chi manovra per la conservazione si prepara alla morte». Forse macabro, ma vero. (e.n.)

Ciriaco De Mita: «La ricostruzione della storia non è nostalgia ma la premessa per sapere come continuare». Pietro Craveri: «Cavour ha fatto l’Italia, De Gasperi l’ha rimessa in piedi»

Aggrapparsi al proprio passato dunque è uno scatto d’orgoglio per nulla patetico. Eppure tale riappropriazione bisogna pure meritarsela. Deve meritarsela una classe dirigente, un ceto politico, diciamo pure un governo. Quasi mai, nelle due ore di elevata discussione, i sei interlocutori affondano davvero il coltello nella piaga di una politica inadeguata. Però nelle battute il paragone - tra la politica di oggi e quella che nel dopoguerra ha ricostruito il Paese - emerge ec-

Nella pagina a fianco, da sinistra: il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani; il leader dell’Italia dei Valori Antonio di Pietro; il governatore della Puglia e “anima” di Sinistra e Libertà Nichi Vendola rose fratture interne alla sua maggioranza – come ha dimostrato l’inverecondo balletto intorno al decreto d’emergenza – e uno, come la Spagna, il cui esecutivo alza spontaneamente le mani richiamando gli elettori alle urne, gli speculatori ritengono sia più vulnerabile il primo. Perché? La verità è che in Spagna la continuità di governo non è messa in discussione dalle elezioni anticipate perché è assicurata dal buon funzionamento del sistema politico, come dimostra il fatto che governo e opposizione hanno votato insieme un emendamento costituzionale per introdurre nella carta fondante, come suggerito dal duo Merkel-Sarkozy, vincoli di equilibrio di bilancio e limiti all’indebitamento pubblico. Una riforma di “larghe intese” approvata con l’attuale esecutivo ancora in carica, ma che fa scattare la legge di attuazione l’anno prossimo, dopo che i socialisti di Zapatero avranno con tutta probabilità lasciato il posto al Partido Popular di Mariano Rajoy, cui i sondaggi assegnano una vittoria pressoché certa.

Di fatto, un vero e proprio piano economico ultra-decennale consacrato da un forte spi-


la crisi italiana

Oggi Casini e Adornato Oggi a Chianciano è il turno di Ferdinando Adornato, Benedetto Della Vedova, Gianni Alemanno e Gianpiero D’Alia, che discuteranno di “La Terza Repubblica... Una nuova via”. L’apertura è affidata ad Adornato, che inizierà a parlare alle 11.00 nell’Area Bruco. Prima di lui Francesco Rutelli, leader dell’Alleanza per l’Italia. Alle 9.30, invece, si svolgerà nell’Area Bianca il dibattito su “Donna: crescita dell’Italia” Grande attesa, alle 17.00 nell’Area Bruco, per l’intervento del leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Domani, la chiusura dei lavori affidata invece al Segretario del Partito Lorenzo Cesa.

rito bipartisan e basato su saldi legami europei. Insomma, una cosa del tutto impensabile per l’Italia. E che invece sarebbe l’unico modo per riuscire a fare tre cose indispensabili, che la manovra in via di approvazione non assicura affatto: trasformare gli interventi correttivi finalizzati ad azzerare il deficit da congiunturali, quali sono ora, a strutturali; impostare una massiccia riduzione del debito tramite dismissioni di patrimonio, unico modo per sistemare una volta per tutte il bilancio dello Stato; rendere accettabili interventi dal profilo repressivo e punitivo – dalla lotta contro l’evasione all’allungamento dell’età pensionabile fino ad una tassa patrimoniale – cosa possibile solo se inseriti in un contesto di progetto-paese di lungo periodo nato in un clima politico caratterizzato da comuni assunzioni di responsabilità.

Purtroppo, invece, la confusione che c’è stata intorno alla manovra è lì a testimoniare che

il combinato disposto tra l’incertezza del governo e la certezza che un cambio di esecutivo comporterebbe la messa in discussione delle (poche) decisioni assunte, produce l’immagine di un paese lacerato, poco serio, incapace di scegliere e privo di peso negoziale in sede comunitaria. Cosa che, pur-

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a comprare i Btp per calmierare la speculazione e ridurre lo spread, ma anzi ha ricordando che in tutti i casi quel sostegno, finora decisivo, non può essere considerato “per sempre”. Ma torniamo da dove siamo partiti: una volta approvata la manovra, è così difficile copiare Madrid? Gli ostacoli sono

L’esempio di Zapatero in Spagna ha dimostrato due cose: che un governo in crisi deve mollare per il bene del Paese e che le elezioni anticipate - anche in inverno - non sono un tabù troppo, apre inevitabilmente la strada a nuovi attacchi speculativi. Anche perché Trichet ha sì dato la sufficienza all’ultima versione del decreto d’emergenza, ma specificando che quei provvedimenti sono solo un primo passo, perché ci vogliono misure strutturali, e che comunque la Bce starà col fucile puntato perché sono ancora tutti da applicare. E, viceversa, Trichet non ha detto se la banca centrale continuerà o meno

fondamentalmente quattro. Primo: la resistenza di Berlusconi, e la conseguente difficoltà che all’interno del Pdl nasca una spinta al superamento dello statu quo, come dimostrano sia il deludente approccio di Alfano alla segreteria – un’occasione che rischia di sprecare se non marca subito una forte autonomia dal premier – sia la scarsa reazione pubblica (al contrario di quelle private) alla proposta di Pisanu. Eppure, as-

sodata l’indisponibilità del Cavaliere a farsi da parte spontaneamente (nonostante i consigli del fidato Confalonieri), questa del coagularsi di un gruppo di ex Forza Italia e di ex An che tagli il cordone ombelicale con il premier, è la via maestra per dare al Paese la chance di voltar pagina. Secondo ostacolo: la dabbenaggine del Pd, che avrebbe dovuto lanciare un progetto alternativo e raccogliere intorno ad esso le forze del centro e quelle potenzialmente aperturiste del Pdl, e invece ha saputo solo accodarsi all’inutile stanco rito dello sciopero generale (unilaterale, per giunta) della Cgil e si è perfino spaccato sulla riforma della legge elettorale e degli eventuali referendum per promuoverla.Terzo ostacolo: la mancata convergenza di tutte le forze di opposizione su un tipo di legge elettorale da promuovere. Bisognava chiudersi in una stanza – come mi ero permesso di suggerire proprio dalle colonne di Liberal in tempi non sospetti – e venirne fuori solo a decisione presa. Piuttosto si tirasse a sorte tra le due modalità più consolidate in Europa, il doppio turno alla francese o il proporzionale con sbarramento al 5% alla tedesca, ma si decidesse, perché la peggior scelta era e rimane quella di non avere una proposta comune. Si è ancora in tempo, e voglio sperare che nel corso della festa dell’Udc a Chianciano si lanci un accorato appello in questa direzione. Il quarto ed ultimo ostacolo sulla via delle elezioni anticipate è rappresentato dalla mancanza di idee chiare sul “dopo”. Ma qui, visto che il voto rappresenterebbe il momento di passaggio dalla Seconda alla nascente e tutta da definire Terza Repubblica – per chi non ci ha lavorato in questi anni, perché da Società Aperta invece sono venute tante proposte, tutte recuperabili – è inevitabile che la partita si giochi senza rete e senza copione. Anche se, per tornare agli spread e al rischio mortale che stiamo correndo, è del tutto evidente che la prima cosa da fare “dopo” è mettere mano a quelle riforme strutturali e di modernizzazione della nostra economia e del nostro welfare che il bipolarismo straccione della Seconda Repubblica non è stato in grado di realizzare, neppure di fronte al pericolo di un default in salsa ellenica. Si possono superare questi ostacoli? Certo che sì, ed è proprio su questo che si stabilirà chi potrà essere protagonista della Terza Repubblica e chi morirà (politicamente parlando) con la Seconda. (www.enricocisnetto.it)



mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

CIÒ CHE NON SIAMO

CIÒ CHE NON VOGLIAMO Montale trent’anni dopo

di Francesco Napoli eriggiare pallido e assorto»; o, ancora, «Esterina, i vent’anbetti nel 1925, e poi, sempre a Torino nel 1939 con Einaudi, Le occasioni. ni ti minacciano» e «Spesso il male di vivere ho inconoggi ci appare lontana, vissuta come venne vissuta tra i Scostante Quell’epoca trato», ma anche «Non recidere, forbice, quel voltavolini dei caffè e le riviste, tra versi e prose, e discussioni accae un po’ misantropo, to». Per lettura o per passato scolastico chi nite sui temi dell’arte e della politica, o tutte queste cose innon ha avuto a che fare con questi versi? Pochi, se non sieme. L’epoca della Firenze delle Giubbe Rosse e dei ammantato da una bibliografia nessuno, così ognuno può vantare un trascorso Guf, delle prime riflessioni critiche sulla cultura di sterminata, il poeta ligure moriva montaliano. E di certo è stato così per tutta la regime e dell’editoria che muoveva i suoi pascultura italiana sorta e cresciuta tra gli ansi verso Milano. E Montale in Mondadori a Milano il 12 settembre del 1981. La sua voce, ni Venti e Trenta, in un’Italia che cercava la con una prima edizione di un’opera poetica tra pensiero, impressioni, scarti sua strada al Novecento, all’epoca in cui lo si vi approderà solo nel 1971, con Satura, e sarà e innovazioni linguistiche è il simbolo anche questa un’uscita determinante. Ma chi era leggeva, con Ungaretti e Quasimodo, tanto per condire a posteriori una rivalità esistita e giocata sempre in davvero questo scostante e un po’ misantropo letterato di di un ’900 in piena punta di penna. È il momento dell’uscita dei primi fondamennome Eugenio? Una bibliografia sterminata ormai lo ammancombustione tali libri di Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 - Milano, 12 ta, tra interviste, epistolari, memorie, biografie variamente riuscisettembre 1981): gli Ossi di seppia, a Torino con il Baretti di Pietro Gote, in un’aura dai contorni non sempre certi.

«M

Parola chiave Depressione di Gennaro Malgieri Coup de foudre per Ivan ritrovato di Stefano Bianchi

IL PAGINONE

Napoleone, una vita all’attacco di Gabriella Mecucci

Ecco perché Arbasino vince il “Boccaccio” di Marta Morazzoni Sigmund, Carl Gustav e la “cura parlante” di Anselma Dell’Olio

Sculture senza progetto di Marco Vallora


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ciò che non siamo ciò che non

vogliamo

Montale spiega Montale di Leone Piccioni Nel 1966 Leone Piccioni fece una lunga intervista a Montale che fu trasmessa in televisone. Successivamente, il testo di quel dialogo fu pubblicato nel volume “Proposte di lettura” (Rusconi, 1985).Vi proponiamo due brevi passaggi in cui il poeta commenta due sue poesie della raccolta “Ossi di seppia”. Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi; fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. Anche perché, come ogni artista che si rispetti, lui stesso ha provveduto, da consumato campione della comunicazione letteraria, ad alimentare il mito di se stesso arrivando a «depistare» fino all’ultimo i critici con quella sorta di autoparodia postuma affidata in distillate poesie, sei per anno, ad Annalisa Cima, una delle ultime sue vaghezze femminili, riunite in un «diario» dal bizzarro meccanismo di lascito: undici buste sigillate da far uscire a scadenza annuale per 11 anni, dal 1986 e cinque anni dopo la sua morte, fino al centenario della nascita nel 1996. Vero o falso? Quando il suo Diario postumo venne pubblicato non poche furono le polemiche tra chi ci credeva e chi pensava a una montatura. Lo scherzo dall’oltretomba, comunque la si pensi, riuscì perfettamente: il rovello resta, ma a mio avviso son proprio suoi quei versi.

Così come gli appartiene appieno il ritratto del tutto imprevedibile, e inedito, dipinto dall’amorevole amica Maria Luisa Spaziani appena uscito per Mondadori: Montale e la Volpe. I due si conobbero nel 1949, a Torino: «se t’hanno assomigliato/ alla volpe sarà per la falcata/ prodigiosa, pel volo del tuo passo», scriverà di lei nella Bufera. Quel «personaggio diverso da Clizia, un personaggio molto terrestre», come ebbe a dire, ci ha regalato tratti non convenzionali di un futuro Nobel, teneri e affascinanti perché molto umani. Come quando balla imitando una baiadera a cena a casa Spaziani, forse perché appena un po’ebbro; o ritraendolo ingobbito e goffo dietro un tandem a pedali e spaventato grida all’amica «pedala, angelo mio!»; o quando, inatteso, su una imprecisata darsena tra Cervia e Milano Marittima aspetta il ritorno della Volpe «fuggita in mare con venti pescatori» per scampare la noia di una villeggiatura con una battuta di pesca. La giovane amica ne esce con brillantezza dall’imbarazzante situazione, raccontando «quanto gli ossi di seppia siano malvisti dalla popolazione marinara del luogo». E cos’è la poesia di Eugenio Montale? «Il mondo di Ossi di seppia - dice bene il fedelissimo Gianfranco Contini - è un mondo negativo: secondo luoghi divenuti proverbiali».Vi descrive il «male di vivere», senza alcuna connotazione politica ma solo esistenziale, e sa di non avere in tasca alcuna certezza. Riesce appena a dire al suo lettore «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Montale arriva anche a essere descrittivo, connotan-

anno IV - numero 30 - pagina II

do la sua terra ligure, con le «inutili macerie» del suo paesaggio marino arso e scabro. Dietro tanto allegorismo c’è Dante, di sicuro, ma mediato da Eliot e, perché no, forse anche dall’amato Pound. Il primo Montale non sarebbe poi Montale se, in un linguaggio dove alto e basso, nella realtà del suo mesto diario esistenziale, teso tra pensiero e impressioni, non si fossero trasposte, in una vorticosa carica di innovazioni metrico-ritmiche, di scarti dalla norma linguistica, di consonanze e dissonanze altamente formalizzate, la vita stessa e il suo fluire nella storia, facendosi così simbolo di una realtà in piena combustione. Le successive Occasioni palesano il potenziamento della visione poetica montaliana nel senso dell’alto colloquio e, insieme, della suggestione cosmica. Se, infatti, negli Ossi prevaleva la ricerca di un discorso lirico destinato a mettere in luce i momenti privilegiati dell’intuizione poetica, della ricerca conoscitiva da cui veniva formata la materia verbale del discorso, a partire dalle Occasioni - ben venga oggi la sua ripubblicazione negli Oscar Mondadori curata da Tiziana de Rogatis, con saggi di Luigi Blasucci e Vittorio Sereni, per una miniserie posta sotto l’egida di Guido Mazzoni con edizioni brillantemente annotate e commentate delle singole raccolte montaliane - Montale ottiene una rinnovata calibratura della propria voce, spostandosi verso l’emblematizzazione dell’accaduto, l’«occasione» per l’appunto. Dall’io e dalle proiezioni simboliche degli Ossi, Montale dà ora vita ad altre presenze umane o naturali o paesistiche che divengono attori della ricerca di un salvacondotto. Spiccano allora le salvifiche donne della raccolta: l’azione di Gerti nel Carnevale di Gerti o la Liuba di A Liuba che parte o la Dora Markus (curiosamente conosciuta solo in una foto parziale che l’amico triestino Bobi Bazlen gli ha inviato e che ne ritrae le gambe) delle due poesie che la riguardano e, in particolare, della pseudo dantesca Clizia, al secolo Irma Brandeis, intrepida messaggera fra il poeta ammutolito e attonito nel suo infernale attendere la morte e un Dio invisibile e impietoso nella cui assenza si specchia il dramma dell’uomo.

Illuminerà ancora Montale, con la dovuta parsimonia, il Novecento, con La bufera e altro nel 1956 ma, soprattutto, con Satura, nel 1971, l’opera che ruppe il cristallo della teca nella quale la critica lo aveva riposto. I Settanta sono anni decisivi per la storia della poesia italiana: verrà allora la cesura tra Novecento e un modo di far poesia che Novecento non è più. E a quel 1971 bisogna guardare con curiosa attenzione: Viaggio d’inverno di Bertolucci e Su fondamenta invisibili di Luzi appaiono, insieme alla raccolta di Montale, la risposta alternativa alla temperie della Neoavanguardia. E come negli anni Trenta Montale rappresentò una guida, i giovani poeti del Settanta - i Cucchi e i De Angelis, Giancarlo Pontiggia, Conte e Roberto Mussapi, per intendersi - nella loro riuscita ricerca di rifondare la poesia italiana, dovevano fare ancora i conti con lui, con questo suo scardinare la concezione della storia e dello stile. Un rovesciamento che si inoltra in un territorio che relega la liricità nel tempo della memoria per far emergere l’osservazione del mondo contemporaneo - massificato, grottesco, cinico, spento nei suoi barbagli di una realtà illusoria, allora meno di ora purtroppo - sepolto in «quella nuova palta» con il fibrillante «vorticare sopra zattere/ di sterco» chiedendosi se «erano uomini forse, veri uomini vivi/ i formiconi degli approdi?».

PICCIONI - [In una scuola romana] è venuto fuori il problema del significato che certe affermazioni, certe sentenze degli Ossi di seppia potevano avere o hanno nei confronti del fascismo… Spesso il male di vivere è del ’21… MONTALE - Nel ’21 «il male di vivere» non era ancora certamente il fascismo; era un male di vivere, diciamo così, esistenziale, una condizione di vita. Un aspetto negativo, sia pure momentaneo, perché naturalmente uno scrittore non è sempre dello stesso umore. Quindi c’è questa esemplicazione dei fatti, che dovrebbero avere un valore negativo. Appunto «il cavallo stramazzato» e tutto il resto. PICCIONI - In rapporto con altre cose che sono diventate, appunto, proverbiali e importantissime, come «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti…» o «Codesto solo oggi possiamo dirti»… MONTALE - Condizione di ignoranza, esistenziale… Che del resto persiste ancora; mi pare che la filosofia sia tutt’altro che sicura dei suoi risultati; anzi, esclude che si possano avere dei risultati, la filosofia d’oggi. PICCIONI - … Ma nei confronti del periodo che si cominciava a vivere, queste cose potevano anche avere un senso, come dire?, profetico… MONTALE - Forse sì… ma certo io non le ho scritte come profeta. Forse sentivo che l’aria cambiava, un mutamento d’aria. *** Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. MONTALE - Qui naturalmente c’è l’idea che la nostra visione delle cose esterne, sensibili, sia puramente illusoria; e se noi ci volgessimo indietro, e questo scenario tarda per un secondo a ripresentarsi, noi ci accorgeremmo del vuoto, ecco. PICCIONI - E ci può essere nello spunto un’idea anche biblica, tipo Lot, la statua di sale… MONTALE - Eh sì, ci potrebbe essere. Sì, è un’idea che ho avuto spesso. PICCIONI - Gli uomini che non si voltano chi rappresenterebbero? MONTALE - Non si voltano gli uomini positivi, che non hanno dubbi, naturalmente. Ai quali io mi rifiuto di comunicare la mia scioperta che poi, dopo, se si voltassero, vedrebbero che cosa succede, questo spavento di trovarsi il niente, dietro… PICCIONI - E lei si sente tra quelli che volterebbero? O che hanno paura? MONTALE - Mi sono voltato, molte volte, ma non è successo nulla di simile::: Purtroppo, non sono stato degno di veder compiersi questo disastroso miracolo.


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10 settembre 2011 • pagina 13

DEPRESSIONE iamo tutti depressi. Non tutti lo ammettiamo. Di fronte alle aspettative utopistiche o irrealizzabili ci deprimiamo. Davanti alle delusioni personali e collettive cadiamo in depressione. Assediati dalla sfiducia ci lasciamo travolgere dai pensieri più neri. La nostra vita privata, per quanto possa essere brillante e soddisfacente sotto il profilo affettivo o professionale non è immune dall’aggressione della depressione. Basta infatti che ci affacciamo dalla finestra del nostro «privato» per scorgere un universo, vasto o limitato non ha importanza, che ispira depressione. La politica, l’economia, i costumi la acuiscono. Chiediamo a chi ci capita a tiro come si senta: il più delle volte la risposta è una smorfia accompagnata da una considerazione che assomiglia a un referto clinico dell’anima. Ci sentiamo dire, e noi stessi diciamo a chi pone la medesima domanda: «Tutto bene, considerando il contesto, questi tempi che viviamo, le incertezze che ci tengono in apprensione». È l’ammissione della depressione spacciata per normalità. Ma sappiamo bene che normale non è la condizione nella quale ci trasciniamo. Beninteso, c’è anche chi per carattere tende a nascondere questa patologia divenuta collettiva, ma non può, tuttavia, fare a meno di scorgerla negli occhi degli altri e chiedersi, magari senza rivelarlo neppure a stesso, quasi per proteggersi, se anche lui non si trovi nello stato che pubblicamente nega.

S

La depressione è una forma di malattia, gravissima oltretutto, che contagia le società più che i singoli. Questi, anzi, interiorizzano le contraddizioni e i conflitti al punto di sentirsene parte. E, dunque, soggetti attivi della depressione che assume connotazioni talmente gravi da portare alla disgregazione delle comunità umane. Se ne parla poco di questo risvolto della crisi economico-finanziaria che sta piegando l’Occidente fino alla sua più che probabile distruzione, come se il silenzio dovesse esorcizzare la gravità della decadenza. Invece sarebbe bene premunirsi, psicologicamente e culturalmente, in vista di un lungo e precario attraversamento del deserto. Non ingannino i lustrini che infiocchettano la tragedia che si sta dispiegando attorno a noi: come occidentali stiamo subendo, consapevolmente per giunta, gli effetti di una catastrofe ampiamente da noi stessi approntata. Non siamo davanti a una congiuntura economica sfavorevole come tante altre che si sono succedute nell’éra moderna. Ma innegabilmente immersi in quel tramonto nel quale spariscono, poco alla volta, stili di vita e comportamenti, certezze esistenziali e credenze culturali che ritenevamo stupidamente non usurabili. E avendo ritenuto di condizionare un tale patrimonio di civiltà alle esigenze determinate dalle logiche economiche, dunque essenzialmente dal profitto e dall’avidità, ci troviamo adesso immersi in acque paludose dalle quali appare impossibile uscire. Da qui la depressione sociale e individuale. La percezione della fine di un modello di vita che non regge all’ur-

Non è solo questione di spread. Siamo noi i primi artefici della crisi che sta piegando l’Occidente, immersi in un tramonto nichilista dopo aver dilapidato il patrimonio della nostra civiltà

I clochard della modernità di Gennaro Malgieri

Non siamo attrezzati ad attraversare il deserto. Invece sarebbe bene premunirsi. Perché non saranno i beni voluttuari da cui tanto dipendiamo a uscire dal nostro irreale universo, bensì quelli primari. Un segno distintivo della perdita di senso e della gaia apocalisse che si sta addensando sui nostri destini... to del depauperamento delle risorse e all’attacco indiscriminato alle ragioni vitali degli esseri umani, invadendo le loro esistenze di bisogni fittizi e innaturali sui quali lucrare, è inevitabile che generi depressione. Nel passato grandi civiltà si sono estinte per l’impossibilità di fronteggiare i meccanismi infernali che il potere politico-

economico aveva messo in campo. Divorate dall’apparente benessere coltivato sfrenatamente, sono state soppiantate da altre civiltà, spiritualmente meglio corazzate. Che cosa dobbiamo attenderci, noi spettatori impotenti di un mondo globalizzato? Diventare cinesi o indiani o brasiliani non vuol dire molto. Quelli che si profilano come i nuovi padroni

del mondo non sono portatori di modelli culturali diversi da nostri. Mentre l’islamismo che avrebbe potuto cambiare i connotati all’Occidente segna il passo, non tanto per il fallimento religioso che ha tentato e tenta di esportare, quanto per la mancanza di una coerente e aggressiva strategia economica accompagnata alla prospettiva demografica che avrebbe dovuto supportare l’ambiziosa operazione.

L’omologazione che ha reso uniforme il Pianeta ha ormai un’unica fede: il nichilismo. E da questa profondità non si esce con le ricette economiche. Il secolo che ha compiuto il primo decennio ricordando l’attacco spettacolare e criminale all’Occidente, ma sarebbe meglio dire all’umanità, non sarà «americano», come si dice sia stato quello passato, ma avrà altre caratteristiche geo-politiche e strategiche. Non cambierà comunque la sostanza. A Pechino, a Singapore e a Mumbai si ragiona come a Wall Street. Durerà un secolo l’egemonia orientale? Che differenza fa? È l’impotenza degli assoggettati che dovrebbe preoccupare. Invece la depressione cresce immaginando le rinunce alle quali ci si dovrà adattare. E, possiamo purtroppo starne certi, non saranno quelle voluttuarie, da cui lo spirito del tempo ci ha reso dipendenti, a uscire dal nostro irreale universo, bensì quelle primarie. Un segno distintivo della perdita di senso e della gaia apocalisse che si sta addensando sui nostri destini. Cosa volete che significhi per un cittadino comune l’aumento del differenziale tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, il famoso e famigerato spread? Ci si domanda con inquietudine nelle famiglie non tanto se si riuscirà a mettere in futuro le stesse pietanze in tavola, ma se ci si potranno permettere le decine di gadget dei quali sembra non si possa prescindere. Si crescerà di meno, insomma? E l’interrogativo, pur piuttosto oscuro, fa tremare dopo il telegiornale padri e madri, mentre i figli colgono nell’inquietudine dei genitori i segni di qualche possibile disadattamento prossimo venturo, pur non comprendendone la portata. Depressi anche loro che immaginavano di regalarsi l’ultimo telefonino alla moda o l’immancabile iPod indispensabile per stemperare la loro solitudine. Depressione? Bisognerebbe studiare una scienza nuova: la depressione derivante dal primato dell’economia. Si scoprirebbe forse, una volta per tutte, che i mali del nostro tempo ce li siamo inventati noi. Esattamente come la depressione propriamente detta, quella che comunque talvolta illuminava i poeti e faceva piangere gli innamorati. Altro che spread. Il tramonto dell’Occidente o la crisi della civiltà non erano iscritti, un tempo, nelle incomprensibili tabelle borsistiche, ma nelle menti e nei cuori di uomini che immaginavano il tracollo di un mondo, ma almeno accompagnato da un’aura di nobiltà. Si finisce, invece, da schiavi del denaro. Miseramente. Clochard della modernità indecente davanti alla quale ho l’impressione che perfino Dio si sia voltato da un’altra parte.


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Pop

pagina 14 • 10 settembre 2011

musica

di Bruno Giurato

CELEBRIAMO “NEVERMIND” con una camicia di flanella

di Stefano Bianchi iascoltarlo è una goduria. Ricontattare la sua voce polisex, fatta di discese ardite e di risalite, è un rinnovato coup de foudre. Ce ne sono due, di Ivan Cattaneo: quello più (pop)olare, che negli anni Ottanta zigzaga fra Il Geghegè di Rita Pavone, Una zebra a pois di Mina e Bang Bang dell’Equipe 84 inanellando 2060 Italian Graffiati e Bandiera Gialla per poi tornare sul luogo delle covers, nel 2010, con 80 e basta!; e quello più acrobatico e avanguardista, che nel 1975 debutta con UOAEI, nel ’77 scandisce le ricette di Primo secondo e frutta (IVAn compreso) e nel ’79 sfodera i bicipiti di SuperIvan. Fra glam rock alla David Bowie, demenzialità e sperimentazione, i tre dischi più accattivanti del bergamasco (classe 1953) incisi per l’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi sono racchiusi nel cofanetto A qualcuno piace Ivan!. UOAEI è il più tosto e provocatorio: voce in avanscoperta che si fa strumento per poi scandire testi (di Vergini & Serpenti, Spezzi & Spazi, Grappoli di cocco o urla di farfalla e altre dieci canzoni) che equivalgono a vere e proprie poesie futuriste, chitarra a tracolla e uno straordinario pool di musicisti accanto: Mauro Pagani della PFM (violino), Massimo Villa (tastiere), Gianni Bedori (sax), Riccardo Giagni (chitarra), Paolo Donnarumma (basso), Walter Calloni (batteria) e Lorenzo Vassallo (percussioni). È al Parco Lambro di Milano che Ivan Cattaneo decide di proporre l’acido canzoniere. Pecora nera fra gli invitati al Re Nudo, il Festival del Proletariato Giovanile, digrigna denti e canto raccogliendo un mare d’insulti. Ai centomila, sbatte in faccia la propria diversità. Primo secondo e frutta (IVAn compreso), arrangiato da Roberto Colombo mentre in Inghilterra scoppia il punk e arricchito da strumentisti quali Stefano Cerri (bas-

R

Jazz

zapping

l 24 settembre farà già abbastanza freddo per indossare una camicia di flanella come quella di Kurt Cobain? La tentazione di entrare in un negozio vintage e comprarsene una c’è, perché attenzione: ogni celebrazione va festeggiata con un piccolo regalo, a se stessi o agli altri. E il 24 settembre appunto, si celebrano i vent’anni di Nevermind, il disco dei Nirvana che ha stabilito i canoni rock per vari lustri. È stato, quel disco col bimbo nudo e circonciso in piscina sulla cover, uno strappo rispetto all’opprimente ambiente rock degli anni Ottanta. Sguaiato, potente à la Pixies, con grandi canzoni (da Smells like teen spirit a Come as you are) Nevermind ha fatto giustizia di certo metal ormai stanchissimo e di certo punk alle cozze, per non parlare della vena plasticosa della new wave (italiana o meno). E, oltre alla voce e alla chitarra rozza ma con classe di Cobain ha riportato al rock un elemento per molto tempo trascurato. L’armonia, intesa in senso tecnico. Non è un caso se grandi jazzisti usano le canzoni dei Nirvana come giri armonici per improvvisare. Le composizioni dei Nirvana, con i loro ritornelli in maggiore che esplodono su accordi in minore, con i loro scarti di semitono (perfetti scampoli punk perfettamente leggibili in chiave jazzistica) sono caroselli armonici finalmente inediti, freschi e classicamente belli, nonostante la sovrastruttura di rumore e disperazione. E quindi, in omaggio alla gioia punk ricordiamo: 1) la mostra di scatti inediti a Brick Lane, Londra; 2) la riedizione di Nevermind con vari extra, tra cui un dvd che conterrà un’esibizione della band al Paramount Theatre di Seattle del 1991, realizzata per la Bbc. Da non dimenticare la camicia di flanella. E speriamo nel freddo.

I

Coup de foudre per Ivan ritrovato so), Claudio Pascoli (sax) e Flaviano Cuffari (batteria), è il più dadaista: nel pezzo intitolato La segretaria ha colpito ancora, c’è addirittura Milva alle prese coi trilli telefonici d’un nevrotico ufficio; Dadadidattico e U.F.O., danno il via libera ai primi effetti elettronici; la T.U.V.O.G. Art (TattoUditoVistaOlfattoGusto), collega i cinque sensi a ogni traccia del disco anticipando di almeno vent’anni il concetto di multimedialità. Ivan, più che mai Canta-Pittore, somatizza immagini e suoni in modo totale. SuperIvan, griffato da Colombo e dalla PFM al completo, è il più pop. E disco, nel senso di ritmo discotecaro. La voce, non più giocata solo in falsetto, si mette al servizio di un’elettronica che in Boys & Boys, Bimbo assassino e Sexo! lascia intravedere le prime tracce della new wave tricolore. E sul

palco, stavolta, a imporsi è soprattutto il performer: accompagnato dalla band dei Neohomo e «raccontato» da un muro di televisori accesi che sprigionano effetti di «neve catodica». È l’apoteosi dell’Ivan Cattaneo (per scelta) fuori dal coro. Ben documentato anche nelle tre bonus tracks che rendono ancor più imperdibile il box: L’elefante è capovolto e Farfalle, succo del 45 giri uscito nel ’76; Tabù, sigla dell’omonima trasmissione tv della Rai, pubblicata nel ’78. Funkeggiante e cabarettistica, L’elefante è capovolto ricalca un po’la Baby’s On Fire incisa da Brian Eno nell’album Here Come The Warm Jets. E se Farfalle è un incrocio di fusion, pop a presa rapida e un pizzico d’esotismo, Tabù è un umorale rhythm & blues condito da fiati assassini e coretti in bilico tra Frank Zappa e un jingle pubblicitario. Ivan Cattaneo, A qualcuno piace Ivan!, Sony Music, 12,99 euro

Le canzoni di Sinatra secondo Oscar Peterson el mondo del jazz di oggi ricco, forse troppo, di nomi nuovi a volte assai lontani dal jazz, i cui dischi più che nei negozi si vendono durante i concerti o via internet, è con piacere che si è visto apparire negli scaffali, in questi giorni di fine estate, che non è stata certo prodiga di momenti musicali memorabili, la copertina di un disco con la fotografia del volto ispirato di Oscar Peterson. È un Peterson relativamente giovane quello che si ascolta in questo disco di mezzo secolo fa. È la riedizione di un long playing, a suo tempo pubblicato daVerve, e registrato a Parigi il 18 maggio 1959, con l’accompagnamento insuperabile di Ray Brown ed Ed Thigpen. Al disco originale sono stati aggiunti, per completare la durata del cd, altri nove brani, di cui due inediti, registrati in precedenza negli Stati Uniti, ma è stato mantenuto lo stesso titolo di

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di Adriano Mazzoletti quell’antico vinile per certi versi ancora così attuale, A Jazz portrait of Frank Sinatra, perché in quell’occasione il trio interpretò, come forse solo Peterson sapeva fare, le più belle melodie del repertorio di Sinatra. Anche gli altri brani, che non facevano parte dell’album originale, fra cui Night and Day, That Old Black Magic, I Love Paris, li ricordiamo per le versioni inconfondibili e indimenticabili del vecchio old blue eyes. L’ascolto di questo disco è entusia-

smante, non solo per la bellezza dei temi scelti, da You Make me Feel so Young a Come Dance with Me, Just in Time, How About You, A Foggy Day e tanti altri, ma anche e soprattutto per lo stile così affascinante e personale del pianista canadese, del quale la prossima vigilia di Natale ricorrerà il quarto anniversario della scomparsa. Quando parlo di entusiasmo mi riferisco al modo in cui Peterson costruisce le sue improvvisazioni utilizzando linee musi-

cali di rara grazia nelle variazioni armoniche e velocità, senza mai trascurare le sfumature. Proprio in questi giorni la rivista francese Jazz Magazine, nel ricordare i quaranta migliori album registrati dal vivo nel corso dei più importanti festival mondiali, Montreux, Newport, Monterey, Comblain-La-Tour, AntibesJuan les Pins (assente l’Italia, ma c’era da aspettarselo), ha riservato a Peterson un posto d’onore per il disco Nigerian Market Place registrato al festival di Montreux nel 1981 e pubblicato da Pablo, la casa discografica di Norman Granz. Quel disco è splendido, ma l’attrazione e la seduzione delle interpretazioni di Peterson delle canzoni di Sinatra, sono uniche. The Oscar Peterson Trio, A Jazz Portrait of Frank Sinatra, Essential Jazz Classics, Distribuzione Egea


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arti Mostre

10 settembre 2011 • pagina 15

di Marco Vallora

orrei proprio fare uno sforzo per non essere prevalentemente (o preventivamente) polemico, in questo pezzo che però mi pare comunque doveroso, oltre che emotivamente liberatorio ed esorcistico, per affrontare un complessivo ragionamento (preoccupato) intorno al fare artistico d’oggi e soprattutto ai malvezzi dilaganti d’una curatorialità italiana, selvaggia e arbitraria, che non pare mostrare alcun principio o riserbo o metodo. Il ressentiment, per dirla con Nietzsche e Max Nordau, nasce e convoglia (e si converte, si spera, in una riflessione di razionalità più distillata) le mille confuse reazioni (insofferenti), sorte e fiorite (male) nel cuore d’un’estate sufficientemente ricca (o meglio ancora satura, sino alla nausea) di visite a mostre inutili, punitive, sconcertanti. Per cui alla fine, ogni volta, sgomenti e spazientiti, ci si chiede: ma sarà davvero utile, e a chi, e degna mai di mostrarsi ufficialmente, quest’arte nata già abortita, insulsa, inessenziale, pretenziosa, demoralizzante, sconfortante, ecc.? Paralizzante quasi, nella sua pochezza spocchiosa e indifendibile. Forse chi scrive dovrebbe anche fare un poco di debita autocritica, visto che molta di questa sotto-arte insensata la si incontra anche (ahimé, a josa) in alcune delle sezioni regionali meno azzeccate della Biennale-spalmata di Sgarbi, di cui per certi versi dovrei dirmi corresponsabile, se molti dei miei suggerimenti fossero stati almeno accolti, anche se difendo ancora, in questo caso, la necessità di una sorta di censimento, che andava meglio controllato e selezionato. Però vorrei uscire da questa trappola secondaria, in fondo, della Biennale veneziana per passare ad altre Biennali, con questi titoli araldico-nobiliari pretenziosi, e in fondo ridicoli (miseria e nobiltà), che

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Architettura

Sculture senza progetto furoreggiano dovunque. Ma quante ce ne saranno in Italia, una per assessore, una per istituto bancario? Ne prenderò una esemplare, per la problematica: la mostra che si tiene al Castel Sismondo di Rimini, già sede di ben altre illustri rassegne. Non citerò il nome del curatore (non soltanto perché avendo già proposto le mie riserve a una analoga sua curatela biennalica veneziana, guarda caso, ho ottenuto il risultato di non esser più salutato) perché non è importante personalizzare il discorso, ed è più utile assumere semmai la mostra quale reagente, ed esempio da laboratorio, d’una situazione, che è assai comune e dilagante. Certo, la stessa mostra, che vuol essere anche sperimentale, fregiandosi del titolo Progetto scultura, è poi molto personalizzata, quasi firmata (sul catalogo, sui comunicati stampa, su ogni dove, sottolineando dunque e capitalizzando la personalità di chi ha scelto) e parrebbe un paradosso, dunque, evitare di nominarla o non discutere il responsabile di certi (veniali) delitti. Ma ci interessa il discorso più in generale: che senso

ha «firmare» una scelta, se l’effetto-censimento e appello (certi nomi d’obbligo che non possono mancare) riverbera anche qui, ed è difficile individuare quale logica mai abbia prodotto e sotteso certi accoppiamenti davvero aberranti? Con una premessa: io posso benissimo idolatrare insieme Bill Viola e Music, Giacometti e Warhol, Wurm e Kiefer, Duchamp e Freud, per carità! Nessuno pretende una linearità o una chiusura dogmatica di tendenza univoca, partigiana, che noia!, sia detto più che chiaramente, ma esistono anche dei criteri di qualità, di coerenza, vogliamo dirlo pomposamente: di decenza motivazionale. E così quando qui ci si trova di fronte, con choc, all’inaugurale e inqualifibile serraturona-neon, nemmeno più camp, di Lodola, o all’indigeribile cattivo gusto, stile supermercato, del roseto in plastica di Bonomi (non mi si dica che è ironico, perché è difficile dire che sia qualcosa), oppure il divanetto brianzolo di Marsiglia, con la ripresa video, che ti rococoizza e t’incornicia, mentre passi davanti perplesso, e poi lo sciocchino ca-

scame dada dell’inevitabile Favelli, che impila arrendevole un mannello di ceste d’acqua minerale, e poi ne fa tavolino, con su un po’di finto-marmo di plastica!, allora ti domandi: che senso abbia poi mescolarli con i magnifici randagi mogi, e lo credo, di Velasco, le atmosfere rarefatte e clorizzate di Bergomi, le eleganze acrobatiche di Francesca Tulli e Mirta Carroli, o quelle più catafratte di Zanni, o ancora le intelligenti sculture finto-gotiche di Gilmour, a dimostrazione che si può anche demistificare, ma se si ha almeno un briciolo di genio? Questioni di gusto, direte? Ma io provo a fingermi lo sconcerto di un artista come Velasco, scodellato sul pianerottolo dell’ascensore, per lasciare spazio ai giochini di Leonardo Pivi, che blocca la pagina di Google e realizza, in micro-mosaico, il volto di Sarkozy o della Montalcini. Ma, cari «firmatori», stiamo giocherellando o ci ricordiamo che cosa può e dovrebbe essere l’arte?

Progetto scultura 2011, Rimini, Castel Sismondo, fino al 2 ottobre

Lo stile italiano che spopola a San Pietroburgo e terre che affacciano sul mar Baltico sono suddivise in nazioni diverse: scandinave, anseatiche, finniche e russe. Esse condividono tuttavia condizioni climatiche, problemi ecologici, flussi commerciali, che influenzano le matrici culturali e figurative istituendo affinità e vicinanze che possono tradursi in opportunità. Queste comunanze hanno spinto un giovane e appassionato critico di architettura di San Pietroburgo, Vladimir Frolov, a fondare circa tre anni fa una rivista trimestrale di architettura e design, intitolata significativamente Project Baltia, cioè «Progetto Baltico». Essa dà conto del panorama architettonico, inteso in senso lato, di Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Russia nordorientale. La rivista, ormai consolidata e diffusa in tremila copie, è redatta in russo e in inglese, proprio in funzione della sua leggibilità tra i diversi Paesi interessati. Ideata per temi

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di Marzia Marandola monografici, si attesta come uno strumento davvero utile di conoscenza e di costante aggiornamento dell’architettura e del dibattito in corso nei Paesi del Nord estremo dell’Europa e del loro intreccio con la cultura progettuale ormai planetaria. L’ultimo numero, uscito nel luglio 2011, per esempio, è dedicato al concetto di corte nella formalizzazione degli spazi architettonici. Tra gli esempi di edifici che meglio esemplificano funzione e senso dei vuoti ricavati nel corpo spaziale dell’edificio spicca un elegante progetto italiano, il Quattro Corti business centre, firmato dal gruppo Piuarch, uno studio milanese fondato nel 1996 e risultato vincitore del concorso di riqualificazione e ricostruzione di un’area. Il nuovo edificio è inserito nel cuore di San Pietroburgo, a pochi passi dalla casa natale dello scrittore Vladimir Nabokov, dall’austera ambasciata tedesca di Peter Behrens, quasi di fronte alla Casa dell’Architettura e sulla visuale prospettica della grandiosa basilica di San Isacco, la cui cupola trascrive, in versione aerea, il romano tempietto di San

Pietro in Montorio di Bramante. Il complesso edilizio, completamente rielaborato nelle forme volumetriche e spaziali, mantiene intatta solo l’immagine di facciata del precedente prospetto in stile neorinascimentale fiorentino con superficie a bugnato, seppur interamente ricostruito. Il complesso occupa un lotto rettangolare di 60 x 70 metri e si sviluppa su sette piani destinati a spazi per uffici e commerciali, albergo, ristorante e una caffetteria. Un intervento edilizio di 26.000 mq sviluppato intorno a quattro corti interne, ognuna contraddistinta da una diversa immagine e funzione: dall’austera corte di ingresso in elegante pavimento di travertino italiano con pareti in schegge vitree incorniciate in metallo, rielaborazione del salone degli Specchi nel palazzo di Peterhof; alla corte rossa che ravviva cromaticamente lo spazio privato, fino all’alberata corte verde, un frammento di paesaggio naturale nel centro città. In copertura, sotto lignee falde inclinate e trasparenti ambienti vetrati, dove i séparé tra i tavoli sono divertenti catene di cucchiai, si trova l’accogliente ristorante Ginza project, da dove si gode una vista sulla città da togliere il fiato. Il ristorante, gestito dall’italiano Massimiliano Atzori, completa un progetto interamente italiano a San Pietroburgo, dove la cucina, la moda e il design di casa nostra sono sinonimi di eccellenza e massima qualità.


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pagina 16 • 10 settembre 2011

di Gabriella Mecucci apoleone Bonaparte è come una matrioska: ci sono tanti Napoleoni e ciascuno di questi contiene gli altri. Raccontarlo tutto è impossibile, ne resta fuori sempre un pezzo. Tutto di lui è leggendario: la vita pubblica come quella privata. Per conoscerlo un po’ meglio prima che dai libri di storia conviene partire dalla letteratura: da Julien Sorel, protagonista stendhaliano, che lo idolatrava e che teneva il suo ritratto sotto il materasso, a Guerra e pace, dove Tolstoj lo rimpiccioliva perché ciò che accade non è frutto della sua soggettività, perché l’uomo non sovrasta ma è sovrastato. Oppure dalla musica: dall’Eroica che Beethoven gli dedicò con entusiastica ammirazione, poi ritirata quando sceglierà la strada dell’Impero.

N

Gli storici, come i letterati, si sono divisi. Stessa sorte è toccata ai cineasti. Chi è davvero Napoleone? E la sua fu vera gloria? L’interrogativo manzoniano serpeggia ovunque: nei romanzi,

come non considerare che ne è uscito in modo rovinoso e che ha trascinato la Francia alla più cocente delle sconfitte? E che la Grande Armata è sparita nel fango della Beresina? Il rivoluzionario è diventato un tiranno. Il modernizzatore dei Codici napoleonici si è trasformato in imperatore autoincoronatosi. E allora anziché alzare i toni, conviene placarli. Invece delle iperboli, meglio un racconto più freddo. Per indagare alcune parti della personalità di Bonaparte senza pretendere di restituirlo tutto. È la scelta che ha fatto Sergio Valzania col suo Napoleone, edito da Sellerio (192 pagine, 12,00 euro).Valzania è uno storico della guerra e possiede però uno strumento di analisi molto penetrante per comprendere il personaggio. Il suo modo di combattere, la sua capacità di far sentire al nemico che è già sconfitto quando ancora avrebbe in mano più di una carta per ribaltare le sorti della battaglia, sono indice di una personalità fortissima, capace di imporsi anche nel bluff. E capace di sca-

Al quesito manzoniano - fu vera gloria? - ancora non si dà risposta certa. Perché l’imperatore dei francesi è come una matrioska, viene sempre fuori un aspetto diverso che ne contiene un altro. Così, senza pretendere di restituirlo tutto, Sergio Valzania indaga in un libro la personalità di Bonaparte attraverso il suo modo di combattere la paura della morte. Su tutto trionfa quella visione mitica che attraversa la pianura e promette un giorno di trionfi.

Ad Austerlitz come nella sua prima battaglia, l’assedio di Tolone, Napoleone mette in pratica intuizioni semplici ma vincenti. A Tolone aveva solo 24 anni - era il 1793 - e venne mandato lì per espugnare la città in mano ai legittimisti, protetti da-

Dall’assedio di Tolone ad Austerlitz, con la rapidità felina del soldato e l’arroganza del politico, la sua genialità fu mettere in pratica intuizioni semplici ma vincenti. Come le famose “maneuvres sur les derrières” nei saggi, nei film sull’uomo di cui si è più scritto negli ultimi due secoli. Ma quella domanda non ha mai avuto una risposta definitiva. È stato il più grande genio politico-militare dopo Alessandro Magno e Giulio Cesare? Il personaggio certo è straordinario, ma come dimenticare che il ventennio del suo splendore è stato un concentrato di guerre e di carneficine? E

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tenare ammirazione e dedizione sino al sacrificio. È il caso del suo esercito. La notte prima della battaglia di Austerlitz - la più grande vittoria militare di Napoleone - il grande comandante è insonne e attraversa il campo su un cavallo bianco. I soldati lo vedono e dall’accampamento sale il grido appassionato: Vive l’empereur. La fede nel capo è fortissima tanto da far vincere

il paginone

gli inglesi. Il giovane ufficiale di artiglieria individua in uno dei fortini in mano ai britannici la chiave di difesa della città. Capisce che se il suo esercito lo conquisterà, allora la battaglia di Tolone sarà vinta. Si lancia all’attacco che guida personalmente. Rimane leggermente ferito, ma prende la postazione. Intelligenza, coraggio, padronanza di sé, carisma regalano a

Napoleone il primo trionfo e con esso il grado di generale. Queste caratteristiche nel combattere non lo abbandoneranno mai nell’arco della sua vita vissuta «all’attacco», con la stessa propensione con cui conduceva la battaglia. Eppure la natura non l’aveva dotato fisicamente: piccolo, bruttino, decisamente poco dotato fisicamente da tutti i punti di vista all’epoca in cui «spopolavano» gli ufficiali dell’esercito alti biondi e con grandi baffi. Eppure, conquistò il cuore dei soldati e delle donne. Solo Josephine da lui amata e fortemente voluta - gli resisterà. E lo tradirà più volte sino a scatenare la rivalsa e l’odio. Dopo Tolone si apre per Napoleone una «scalata» durata più di vent’anni: passa di trionfo in trionfo. Sino al tragico gelo della Beresina.

La campagna d’Italia rivela nuove intuizioni. La prima è quel mettere davanti a tutto la capacità di «motivare» i suoi uomini. Ecco un breve stralcio del suo proclama prima di varcare le Alpi: «Soldati, voi siete nudi e malnutriti; la Francia vi

Napol una all’att deve molto ma non può darvi nulla... Io vi condurrò nelle più fertili pianure della terra, province ricche, città opulente cadranno in vostro potere; vi troverete ricchezze, onori e gloria». Un bel discorso e alle promesse corrisposero i fatti. La seconda intuizione è quella che applicherà poi sempre: la divisione del nemico. I piemontesi e gli austriaci, nel 1996 alleati,


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leone, vita tacco erano, se si consentiva loro di sommarsi, di gran lunga più forti dei francesi. Napoleone come prima cosa li divise, attaccando verso il Nord, nel punto di saldatura fra le due armate. Prima riuscì a sconfiggere i piemontesi, poi si lanciò contro gli austriaci, comandati dal generale Beaulieu, e li costrinse ad arretrare. A questo punto scattò la seconda grande trovata tattica:

anziché inseguire l’esercito imperiale di Vienna iniziò le famose maneuvres sur les derrières. Si trattava di manovre aggiranti, tese a tagliare la strada, mai di attacchi frontali. Con queste continue punzecchiature fece sì che Beaulieu si spingesse a oriente, tanto da lasciare completamente indifesa tutta la pianura padana. A quel punto, entrare a Milano fu un gioco da ragazzi. Subito dopo il successo, il generale mise in pratica la conquista del consenso dei francesi. Spedì in patria tutto ciò che riuscì a rubare agli italiani: oro, denaro, opere d’arte. Dulcis in fundo, un terzo comportamento che mise bene in luce sin da allora la personalità del trionfatore. Si tratta dell’arroganza con cui, pur non avendone l’autorità, trattò e accettò le condizioni di pace: fra queste la cessione di Venezia all’Austria, gesto considerato infamante. Il puzzle della personalità si va componendo: c’è l’intelligenza rapida, felina del soldato, la strumentalità e l’arroganza del politico. Tutto questo si ripeterà più volte. Il personaggio ha però anche i suoi lati di calda umanità: quel suo scrivere lettere d’amore appassionate a Josephine e quel suo essere un lettore instancabile di libri piccoli e molto maneggevoli, da finire mentre attraversa in lettiga l’accampamento. Per poi buttarli dal finestrino. Un vero «consumatore» di cultura ante litteram. Nella campagna d’Italia nasce un mito e, anche se in Egitto le cose non vanno troppo bene, Napoleone nel 1999 viene scelto come Primo Console. È il periodo dei Codici napoleonici, della «grande modernizzazione» che verrà esportata in Europa. Poi una strada tutta in discesa, sino alle grandi vittorie su Inghilterra e Austria. Sino all’autoincoronazione a Notre

Dame come imperatore dei francesi per «volontà del popolo» e a quella di re d’Italia. Nel 1805 c’è la conquista di Vienna e l’inseguimento dell’esercito austro-russo. Per Napoleone è tempo della vittoria più grande: quella di Austerlitz. La sera prima dello scontro, mentre mangia il suo piatto preferito, patate fritte con cipolle, gli arriva la migliore notizia che potesse attendere. Il generale Davout entra nella sua tenda e lo informa che, dopo cinquanta ore di marce forzate, è riuscito a raggiungerlo portando con sé il terzo corpo della Grande Armata che conta ben 130 mila uomini.

Inizia all’alba lo scontro con le truppe austro-russe che cercano di stringere in una grande tenaglia i francesi. Per farlo però lo schieramento si allarga e si assottiglia al centro. È lì che bisogna attaccare. Alle 10 di mattina la nebbia ancora nasconde l’esercito napoleonico. In quel momento l’imperatore dà l’ordine di attaccare: i suoi piombano sul nemico che non li aveva visti e che quindi viene preso alla sprovvista. L’Armeé rompe subi-

no». Per lui è un trionfo. L’anno dopo è a Varsavia dove trova l’amore della donna che lo ha amato di più: Maria Walewska che gli darà anche un figlio. Aveva temuto di essere sterile - nessun discendente dall’adorata Desirée, passione giovanile, nessuno da Josephine - ma quando l’appassionata nobildonna polacca che lo ha seguito a Vienna e in giro per mezza Europa, partorì un bel bambino sano e robusto nel maggio del 1810, realizzò di poter avere una discendenza. Decise allora di divorziare dalla bella e fedifraga creola, troppo poco aristocratica per il ruolo di regina madre, e sposò Maria Luisa d’Austria in gran fretta. La separazione da Josephine avvenne fra urla, lacrime, ceffoni e cazzotti. La lascerà alla Malmaison, il luogo dei loro incontri, e lì l’imperatore tornerà per ricordare la vita trascorsa subito dopo la sconfitta di Waterloo. Maria Luisa partorirà l’erede. Un anno dopo Napoleone inizierà la disastrosa campagna di Russia. Valzania ripercorre le ragioni di una sconfitta già largamente indagate. In cui la chiave di volta sta nell’aver con-

del generale di manovrare la battaglia come lui solo sa fare. L’Elba e Waterloo sono conseguenze del colpo mortale datogli dalla Russia.

A Waterloo tutto si mette contro di lui a partire dalle condizioni climatiche: piove, c’è la nebbia. Si comincia a combattere verso mezzogiorno e la «guerra d’attacco» di Napoleone è resa impossibile dal terreno allentato, pieno di pozzanghere. L’Armata è imprigionata dal fango. Gli alleati stravincono su un esercito che non ha più i suoi migliori ufficiali: non c’è Davout, non c’è Lassalle, non c’è Lannes. Tutti morti. Murat tratta col nemico fino all’ultimo. Il grande sconfitto è lui: l’imperatore ha condotto la Francia alla disfatta e ha insanguinato l’Europa più di qualsiasi altro sino ad allora. Il genio militare è stato battuto da Wellington, il cui livello si elevava di poco al di sopra della mediocrità. Con Napoleone la rivoluzione finisce nell’assolutismo in nome del popolo, e la tragedia assume proporzioni gigantesche. Che cosa resta allora di lui? Ha ra-

Il suo esercito lo venerava con una fede tanto forte da superare la paura della morte. Solo la sua capacità di scatenare ammirazione fino al sacrificio, spiega le perdite disastrose ascrivibili alle sue campagne to il fronte al centro e avanza in modo incontenibile. A mezzogiorno il sole è alto e splendente. Saluta la vittoria di Napoleone. I russi fanno l’ultimo disperato tentativo di rovesciare le sorti ormai segnate della battaglia: lanciano contro i francesi la loro cavalleria. Uno scontro terribile che Bonaparte commenta a caldo cinicamente: «Stasera a Mosca molte signore piangeran-

quistato Mosca senza aver vinto la guerra. La ritirata fu una tragedia senza pari. Il cerchio si sta per chiudere. La guerra napoleonica è stata lunghissima, 22 anni (dal 1792 al 1814) e ha coinvolto tutte le grandi potenze europee. Gli eserciti di queste ultime hanno imparato da Kutozov a non arrivare allo scontro frontale, a colpire e ad andarsene. A non consentire al genio

Da sinistra in senso orario: Napoleone console, la battaglia di Waterloo, nel celebre ritratto di David, la battaglia di Trafalgar e Orazio Nelson, Bonaparte a Wagram, la battaglia di Marengo, la copertina del libro di Valzania, ad Austerlitz, nella battaglia di Rivoli, in Egitto

gione Raimondo Luraghi a scrivere nella prefazione al libro di Valzania: «Rimane la grandezza del suo genio, rimane la sua opera di modernizzazione dell’Europa (e di modernizzazione della guerra), rimane l’attonita ammirazione che desta ancora in noi l’immenso dramma del quale nessun essere umano eccetto lui seppe essere protagonista». Fu vera gloria?


Narrativa

MobyDICK

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libri

Donald Ray Pollock LE STRADE DEL MALE Elliot, 253 pagine, 16,50 euro

differenza di alcuni narratori italiani, quelli statunitensi hanno il pregio di essere meno evanescenti, di non giocare con lievi battiti d’ala, di descrivere sapientemente ciò che li circonda. Insomma, la vita vera (meglio ancora se sperimentata) fa da sfondo alla trama. Donald Ray Pollock, sempre con l’editore Elliot, si è fatto conoscere in Italia con la raccolta di racconti intitolata Knockemstiff, nome difficile di un paese dell’Ohio. Il romanzo sul quale stavolta ci soffermiamo si distanzia poco dall’ossatura del racconto, essendo un intreccio di vicende che potrebbero, ciascuna di esse, stare in piedi da sole. Insieme formano un affresco. Il lettore europeo, leggendo Pollock, ha buone ragioni per rafforzare la diffidenza dinanzi a una nazione così sciatta, volgare, sbracata, popolata da individui che pare non abbiano radici culturali autentiche come appare in queste pagine quella della provincia americana. Tanto è vero che il loro continuo movimento, lo spostarsi in modo quasi parossistico, denota un disancoraggio dell’anima, singola e collettiva. Sacche di miseria esistono in varie zone dell’Europa. Basti pensare al nostro meridione. Ma in questi luoghi, se mettiamo da parte la piovra mafiosa, regge bene la struttura portante, quella che dà un senso alla vita, al tramandarsi di storie e tradizioni. Nell’Ohio i personaggi di Le strade del male sono come appesi al niente, si trascinano o inseguono sogni fiacchi o ridicoli, come un cheeseburger, una birra, una donna disponibile anche se scheletrica o col sedere enorme, una corsa in macchina, una rissa al bar. L’autore fa iniziare la sua storia collettiva nell’immediato dopoguerra. Arvin Russel è un ragazzino costretto ad assecondare le superstizioni religiose del padre Willard. Questi passa ore e ore a pregare su un terreno intriso del sangue sacrificale di animali scorticati nel tentativo di allontanare la morte, inevitabile, della moglie. Accanto a questa deviazione, che nulla ha a che vedere con l’autentica religione, convive con la propria violenza, resa ancora più acuta e quasi giustificabile da ciò che ha visto nel Pacifico durante la guerra. Siamo nelle vicinanze di Knockemstiff, depressione rocciosa del sud dell’Ohio: «A meno che non avesse le vene piene di whisky, Willard si recava nella radura ogni giorno, mattina e sera, per parlare con Dio. Arvin non sapeva co-

A

Autostorie

America

senza redenzione Affresco impietoso della provincia statunitense, sciatta, volgare e priva di radici culturali, in un romanzo che ha l’ossatura del racconto di Pier Mario Fasanotti sa fosse peggio, se quando beveva o quando pregava. Per quanto riuscisse a ricordare, suo padre combatteva il Diavolo da sempre». È un Satana che rosicchia l’anima, grumo di orrore e depressione. Che

inciderà nella formazione adolescenziale del ragazzo destinato a rimanere orfano. Poi ci sono le armi: per difendersi e per aggredire. Le armi come protesi dell’uomo americano che ha un’impalcatura spirituale di un’impressionante fragilità. Poi c’è una coppia che ricorda Bonny e Clyde, lei ex cameriera ed ex bruttina timida, lui sedicente fotografo. Insieme, ovviamente in auto, caricano autostoppisti per poi accopparli. Il rituale è macabro, da ascrivere alla psicopatologia: lei che si concede sessualmente e lui a scattare foto fissando così attimi di piacere e di morte. Le immagini serviranno da cocaina per un uomo che non riesce più ad avere emozioni, sentimenti e pulsioni normali. Un uomo che usa la compagna come esca, che vagabonda per l’intero giorno, come se procedesse ubriaco in mezzo a suggestioni di poco conto e con in testa il vago quanto lontano «sogno» di far fortuna in California. Fa da cornice l’intolleranza verso i neri, i benestanti, coloro che magari leggono poesie, gli onesti rabbiosi e pignoli. Ma dentro il quadro dell’America «interna» non mancano i predicatori folli, quelli che aggrappano le proprie sfortune e le proprie nevrosi a pseudo riti religiosi. Il viaggio di questi burattini della miseria ha soste obbligate in motel di quart’ordine. Lerciume, insetti, puzza, cattivo gusto, frasi monotonamente volgari. Pollock è spietato nel descrivere la provincia dove è nato (nel 1954), lo fa con una prosa secca, con puntigliosa attenzione al particolare, scavando febbrilmente su un terreno dove nascono e vivono i poveri per sempre. Formidabile nell’evitare la tentazione di uscire dalla realtà. Negli sconfinati orizzonti dell’America che non è quella delle megalopoli c’è foschia, proiezioni sbiadite di desideri ossessionanti. Mai l’indizio di una redenzione, di svolte radicali. Si vive e si muore in un inferno dantesco in stile McDonald (quando va bene), una superficie piatta in tutti i sensi.

Multopoli: cento consigli per avere giustizia arà capitato a molti, se non a tutti quelli che guidano l’auto, di ricevere una busta dal caratteristico colore verdolino, per una contravvenzione stradale risalente a qualche tempo addietro. Dato il termine per notificare il verbale al trasgressore, se conosciuto, oppure al proprietario del veicolo; ora di 90 giorni dall’infrazione, mentre era di ben 150 giorni per le multe comminate prima del 13 agosto 2010. E anche se il termine attuale è meno irragionevole del precedente, può diventare problematico mettere in relazione la propria condotta di guida, o di chi abbia allora utilizzato il veicolo, con rilevazioni per di più effettuate da un’apparecchiatura di controllo automatico della circolazione. Spesso dai micidiali Autovelox, piazzati «più per risanare le finanze dei Comuni, che per regolare effettivamente la disciplina della strada». Come osservano Claudio Fiori e Andrea Papagni, avvocati del foro di Roma e attivi nell’ambito della tutela dei consumatori, in un loro lavoro (101 modi per non pagare le multe, Newton Compton editori, 202 pagine, 9,90 euro) che si attribuisce il non trascurabile merito di essere «un manuale facile e veloce per rispar-

S

di Paolo Malagodi miare tempo e soldi». Affermazione più facile a dirsi che non a essere messa in pratica, anche se i due autori impegnano a fondo le proprie competenze nel tentativo di offrire conforto, morale e giuridico, a quanti si ritengono ingiustamente sanzionati. Spiegando, passo dopo passo, cosa fare dopo aver ricevuto una multa e quali possano essere i motivi per impugnarla, infine come redigere un atto di opposizione. Riuscendo a operare da soli, senza perdersi tra i meandri della burocrazia italiana e nella fondata speranza di riuscire ad averla vinta. Specie nel caso di notifiche fatte per infrazioni rilevate da enti locali, «i quali si preoccupano solo di incassare gli introiti delle sanzioni, senza provvedere in alcun modo a gestire al meglio la fruizione della strada. Per fare qualche esempio, si immagini che le entrate delle multe relative alla sosta, compresa quella a pagamento, dovrebbero essere utilizzate per la costruzione di parcheggi. Ugualmente può dirsi dell’utilizzo degli Autovelox, che non è finalizzato alla vera repressione dei rea-

Due avvocati esperti della materia guidano i consumatori nella giungla delle sanzioni

ti conseguenti il superamento dei limiti di velocità ma costituisce un semplice e portentoso strumento finanziario. Il nostro intento è, comunque, quello di incoraggiare il rispetto delle regole». Premettono gli autori di un agile testo che si fa carico di specificare i tipi di infrazione e con l’utile risultato di rammentare, specie a coloro che hanno conseguito la patente anni fa, i limiti tra una guida corretta e una invece sanzionabile. Parimenti, ampia trattazione è dedicata agli eventuali motivi di opposizione e in allegato vengono, inoltre, forniti i diversi modelli utilizzabili per i ricorsi, insieme a chiare istruzioni per presentarli. Sia nel caso di quelli rivolti al Prefetto, con la fornitura del relativo indirizzario per ogni provincia, redigibili in carta semplice e senza il pagamento di alcuna tassa o bollo. Procedura che, ancor prima di quella poi spiegata per il Giudice di Pace, secondi gli autori del manuale «è consigliabile, in quanto l’autorità ha il preciso obbligo di dare risposta al ricorso proposto entro 210 giorni e, in difetto, l’opposizione si considera accolta.Vista la mole di lavoro che intasa gli uffici amministrativi, soprattutto nei capoluoghi più popolosi, il mancato rispetto del termine non costituisce un’ipotesi infrequente».


MobyDICK

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Alberto Arbasino, Enrico Mentana e Kamila Shamsie sono i vincitori della trentesima edizione del Premio Boccaccio, che si assegna oggi a Certaldo. Per gentile concessione dell’autrice, pubblichiamo la motivazione per Arbasino, scritta da Marta Morazzoni, membro della giuria composta da Sergio Zavoli, Leone Piccioni, Aldo Forbice, Paolo Ermini, Giuseppe Mascambruno, Luigi Testaferrata e Mauro Pampaloni. ndare oltre Chiasso è stato un importante, non so quanto raccolto, incitamento per gli scrittori italiani: veniva da Alberto Arbasino, e ben oltre Chiasso è andato proprio lui, non solo per aver dedicato tempo e metodo all’America del suo ultimo lavoro, ma anche e soprattutto per un modo di essere scrittore, che per altro mi conferma nell’idea che scrittori si nasca e non si diventi. La misura e il temperamento del suo stile si compongono sull’onda di una affascinante ambiguità, fatta di svagata leggerezza, di un chiacchiericcio a volte saputo a volte divertito. Sotto mentite spoglie passa così la profondità di lettura di un tempo, di un

A

Fenomenologie di Diana Del Monte uando nella primavera del 1955 Vasilij Grossman incontra La Madonna Sistina al Museo Puskin di Mosca, lo scrittore e giornalista aveva già vissuto molto: aveva assistito alla carestia in Ucraina provocata dalla collettivizzazione; aveva servito per più di mille giorni come inviato del quotidiano Krasnaja zvezda durante la guerra tedesco-sovietica del 1941-1945; aveva saputo di sua madre, uccisa durante le stragi naziste nei villaggi ucraini e seppellita in una delle tante fosse comuni; aveva varcato i cancelli di Treblinka e aveva anche conosciuto l’antisemismo sovietico, quell’antisemitismo di Stato che aveva prima sequestrato e poi distrutto il suo Libro nero sui crimini nazisti e lo aveva costretto a firmare una lettera di condanna contro i medici ebrei. Quando Grossman incontra Maria col suo bambino stava già scrivendo la seconda parte della sua dialogia, Vita e Destino, mentre la prima, Per una giusta causa, era già stata pubblicata, suscitando numerose polemiche di chiara inflessione antisemita.

Q

Così, nel dipinto di Raffaello, Grossman vede principalmente due esseri umani, ovvero una madre e il suo bambino. In esso ritrova la donna che aveva incontrato alla stazione di Konotop nel 1930, all’apice dell’Holodomor, con in braccio il figlio denutrito; nelle fattezze della giovane rivede le madri di Treblinka e le tante donne vittime della campagna contro il «cosmopolitismo» del 1946: «Il ricordo di Treblinka aveva invaso la mia anima, e in principio non riuscii a capire… Era lei [la Madonna] che camminava scalza con passo leggero sul suolo pulsante di Treblinka, dal punto di scarico dei convogli alla camera a gas. La riconobbi dall’espressione del viso e dagli occhi.Vidi suo figlio, e lo riconobbi dall’espressione straordinaria, non infantile. Così erano le madri e i bambini di Treblinka. […] lei è parte della nostra vita, è una nostra contemporanea. Conosce tutto: la nostra neve, il fango gelato dell’autunno, la gavetta ammaccata dei soldati piena di sbobba scura. […] Si, è proprio lei. […] La incontrammo nella sua camera, teneva in braccio il figlio per l’ultima volta, gli diceva addio, lo guardava attentamente in volto, poi scendeva le scale deserte di un palazzone muto […] sulla soglia della camera

Il “Boccaccio” all’America di Arbasino di Marta Morazzoni contesto sociale e di una cultura visti alla luce di un una intelligenza analitica e colta. Quante cose sa e conosce l’Arbasino giovane di Fratelli d’Italia!, in quante diverse direzioni si muove il suo sguardo, che saggia,commenta, valuta arte, letteratura, musica, e usa di tale patrimonio di conoscenze come l’equilibrista usa l’asta per passare ad altezze vorticose sul filo. È il filo del tempo quello su

cui cammina elegante la prosa di Arbasino, consapevole di una appartenenza che si fa trasparente via via che il lettore entra nel cuore della sua opera: è la cultura illuminista lombarda da Parini in poi, che approda all’intesa profonda e, direi, all’affetto per il pensiero e lo stile di Gadda, maestro nascosto e però leggibile in certo uso della congruenza incongruenza narrativa: là dove il discorso sembra andare a ruota libera e perdersi, svincolato da logiche riconosciute, si muove invece una fermezza sui generis dall’ampio orizzonte e dai fermi punti cardinali. E per venire a questa America amore (Adelphi), quanta acuta curiosità nel cogliere a volo e poi da vicino la cultura americana dalla fine degli anni Cinquanta, raccontata come di passaggio, ma misurata poi dall’interno, commisurata in un gioco di liberi confronti con quell’oltreoceano che siamo noi, visti dall’America. Oltre e dentro il livello dello sperimentalismo stilistico, c’è un metodo, ci sono conoscenze e passioni e libertà di giudizio che dicono di una partecipazione attiva alla cultura del nostro tempo e svelano soprattutto la consapevolezza delle radici in cui questo tempo affonda.

Le Madonne di Treblinka

L’impatto del dipinto di Raffaello su Vasilij Grossman, spiegato nella raccolta di racconti “Il bene sia con voi!” e nello studio critico di Pietro Tosco. Un’idea di maternità, ateisticamente interpretata, che riportò lo scrittore sovietico alla riscoperta delle sue radici ebraiche

era stato posto un sigillo di ceralacca, giù l’aspettava un’automobile di Stato». Scoprire Vassilij Grossman è un dono intellettuale ed emotivo che ci è stato concesso solo recentemente. La strada che ha portato Vita e Destino alle stampe, come si sa, è stata lunga e travagliata - la pubblicazione in territorio europeo del 1983 passò quasi completamente inosservata. Dopo la riscoperta spagnola del 2007, però, anche l’Italia ha iniziato a muoversi verso una rivitalizzazione di quello che è stato definito il Guerra e Pace della grande guerra patriottica del 1941-‘45 e, conseguentemente, tutta l’opera dell’autore sta vivendo la sua prima meritata primavera. E se il progetto di un film su Vita e Destino è ancora, appunto, solo un progetto, di recente pubblicazione sono Il bene sia con voi! (Adelphi, 253 pagine, 16,00 euro) e la seconda raccolta di studi L’umano nell’uomo.Vasilij Grossman tra ideologie e domande eterne (Rubbettino, 25,00 euro), curato dal direttore del Centro Studi Vita e Destino, Pietro Tosco. Lo scritto di poco meno di dieci pagine sulla Madonna Sistina è proprio parte di Il bene sia con voi!, una raccolta di racconti scritti durante gli stessi anni in cui Grossman lavorava a Vita e Destino, mentre

nelle pagine del secondo volume si spiega, tra le altre cose, quale impatto ebbe il dipinto di Raffaello sugli intellettuali sovietici - arrivando a suscitare in alcuni il desiderio di conversione. Ovviamente, non fu questo il caso di Grossman che, tuttavia, sopraffatto dalla bellezza di questo capolavoro, proclamò La Madonna Sistina un’opera d’arte eterna, superiore a qualunque altra cosa creata dagli artisti di ogni tempo. Il nucleo simbolico dell’immagine mariana, ovviamente nella lettura «atea» data da Grossman, si rivela così improvvisamente agli occhi dello scrittore come un crocevia di tutti quei sentimenti che egli visse durante la seconda parte della sua vita; al contempo, il lettore può trovare in queste poche pagine un efficace strumento esplicativo del Grossman dissidente. La Madonna Sistina è la maternità, è la radice ebraica, è l’umano nell’uomo, è l’energia che si materializza: «Conosciamo le reazioni termonucleari, durante le quali la materia si trasforma in una straordinaria quantità di energia - scrive Grossman - ma per il momento non possiamo immaginare il processo inverso, la materializzazione dell’energia; qui invece è proprio la forza spirituale della maternità a cristallizarsi, trasformandosi nella mite Madonna». Nel disegnare l’immagine di Sof’ja Levinton in Vita e Destino, stimato medico nubile e senza figli, Grossman si dedida alla costruzione di un personaggio femminile speculare alla figura rimasta incisa nella mente dello scrittore. Questo, tuttavia, non significa affatto che il nucleo materno di Sof’ja sia negato dalla sua condizione, ma piuttosto che si esprime altrimenti, in una decisione opposta, ovvero quella di seguire David nelle camere a gas.

La generosità materna di questa donna si manifesta, dunque, nel donare il suo ultimo abbraccio al bambino, nel continuare a stringerlo, poggiandoselo sul petto, nel trattenerlo un ultimo istante che prosegue in un altro momento, e ancora in un altro attimo, in un altro palpito… fino alla morte. L’ultimo pensiero di Sof’ja Levinton è «sono madre». Così, proprio nel tratteggiare una personalità e una morte come quella di Sof’ja, una non-madre che oppone il suo abbraccio indissolubile al sofferto e momentaneo gesto della madre di Gesù pronta a sciogliere il suo abbraccio per donare suo figlio all’umanità, Grossman esalta quella materializzazione dell’energia, quella forza spirituale originaria che è indissolubile, inestinguibile e sostanzialmente «atea».

Nell’opera di Grossman la riscoperta delle radici ebraiche è strettamente legata alla figura materna. Nella maternità lo scrittore trova un sentimento omnicomprensivo che, partendo dal singolo, arriva ad abbracciare l’intero popolo ebraico. Tuttavia, sebbene la questione ebraica sia uno dei temi centrali di Vita e Destino, è bene ricordare come Grossman e la sua famiglia fossero da considerarsi, fino allo scoppio della guerra, degli ebrei assimilati; nessuna parte della vita del giovane Vasilij era infatti mai stata toccata dalla questione della sua religione. In questo contesto, dunque, la riscoperta delle radici ha un sapore molto amaro, frutto sofferto di una matura elaborazione individuale che si relaziona a una nuova collettività e, soprattutto, a una nuova (imposta) identità. Nel ritrovare la sua religione durante la guerra tedesco-sovietica, Grossman dimostra un grande intuito e un’estrema elasticità. Con una congiunzione sconvolgente e meravigliosa, lo scrittore ricorda come il fanciullo raffigurato da Raffaello e sua madre fossero in realtà nati ebrei e, di conseguenza, non sarebbe affatto azzardato supporre che, se i due fossero stati vivi tra il 1941 e il 1945, sarebbero quasi certamente finiti nella lunga lista delle vittime delle camere a gas.


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di Jacopo Pellegrini ra sì, Giovanni Morelli, uno storico della musica, cattedratico all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Soprattutto, però, era un «movimentista» nato, sempre pronto a trarre dal suo inesauribile cilindro suggerimenti e idee, spesso e volentieri elargite a terzi, senza nulla a pretendere. Una malattia troppo a lungo trascurata ce l’ha sottratto lo scorso luglio. Come responsabile dell’Istituto per la musica della veneziana Fondazione Cini, Morelli aveva saputo far convergere sull’Isola di S. Giorgio i lasciti artistici di vari compositori italiani del Novecento, Casella e Malipiero, Respighi e Camillo Togni. Tra costoro ha a lungo primeggiato, per numero e qualità delle iniziative ispirate dal materiale d’archivio, Nino Rota, il cui fondo è affidato alle cure amorose d’un suo discendente, Francesco Lombardi. La maggiore visibilità di Rota rispetto agli altri colleghi «ospiti» della Cini, qualcuno potrebbe attribuirla alla fama acquisita colle musiche per i film di Fellini,Visconti, Zeffirelli, Coppola. Al contrario, gli allestimenti operistici, i cicli di concerti, le pubblicazioni scientifiche promosse dalla Cini erano e sono dettate dalla volontà di rimettere in circolazione, di Rota, il repertorio d’arte, salvo rare eccezioni (Il cappello di paglia di Firenze, qualche pezzo strumentale) finito nell’ombra a causa del successo arriso alla sua musica d’uso. Oltre che, si capisce, a causa dell’intrinseca «inattualità» del lessico impiegato, senza dubbi o ripensamenti, per un buon mezzo secolo. Estraneo alla foga dissolutrice dei nessi linguistici tradizionali perseguita dalla Nuova Musica, strettamente ancorato alla tonalità, con semmai qualche sbirciatina (specialmente in ambito strumentale) al neoclassicismo più scanzonato, Rota, tenuto anche conto del suo dono per la melodia gustosa e facilmente memorizzabile (benché spesso di costruzione meno regolare di quanto non paia all’ascolto), sembra un candidato ideale alla qualifica di compositore postmoderno. A conclusioni non molto dissimili rischiano di condurre le proposte di

E

Televisione

Personaggi L’arte di Nino Rota ancora da scoprire MobyDICK

sistemazione critica più diffuse, appoggiate principalmente a categorie di ordine psicologico: l’«angelicità» invocata da Fellini e da altri innumerevoli; la sua variante sotto forma di «candore», scelta da Morelli come chiave ermeneutica in occasione di un convegno di studi veneziano. La conoscenza del catalogo rotiano da parte di critici e studiosi appare ancora troppo limitata (chi ha dimestichezza coi tanti lavori sacri, chi coi titoli teatrali più ambiziosi, ivi incluso il vertice di tutta la produzione sua, La visita

spettacoli

meravigliosa?) per acconsentire senza se e senza ma all’ipotesi dell’artista immacolato, in pace con sé e col mondo, privo di ombre e doppi fondi. Non bastasse un ascolto attento della sua musica, a mettere in dubbio quest’immagine liliale contribuisce grandemente l’attenzione rivolta da un lato al mondo dell’infanzia (l’amore per le fiabe e per le voci bianche, l’innocenza e la purezza quali elementi perturbanti), dall’altro all’alchimia, all’ermetismo, al pensiero iniziatico (Rota era massone). Purtroppo questo 2011, che coincide coi cent’anni dalla nascita di Rota, ci ha recato soltanto riprese del Cappello di paglia a Firenze e di Napoli milionaria (dalla commedia e su libretto di Eduardo) a Cagliari, oltre a una serie di concerti organizzata dalla benemerita Orchestra Verdi di Milano insieme alla Cini. Restano, di qui a dicembre, alcuni incontri di studio, a Roma, a Milano, a Napoli. È auspicabile che da questi consessi (come dall’annunciata monografia stesa da Dinko Fabris) emerga un quadro più sfaccettato e problematico di una personalità sfuggente al massimo grado.

DVD

LA CORSA MOZZAFIATO DI AYRTON SENNA re volte campione del mondo. Fino a quell’ultima curva che l’ha fatto campione per sempre. Sono ormai trascorsi diciassette anni dalla tragica scomparsa di Ayrton Senna, ma da quel maledetto primo maggio del 1994, gli appassionati di Formula Uno, di allora e di oggi, non ne dimenticano il mito. Senna- Il miglior pilota di tutti i tempi, è lo splendido documentario che Asif Kapadia ha tributato al grande pilota carioca. Dopo una fugace apparizione nelle sale riecco quindi in dvd l’uomo e il campione, fianco a fianco, in una corsa mozzafiato che viaggia a ventiquattro fotogrammi al secondo.

T

ANNIVERSARI

MOGOL IN CAMPIDOGLIO, CENTO DI QUESTI GIORNI ra le impressioni di settembre, di cui già scrisse a suo tempo, Giulio Rapetti in arte Mogol dovrà di certo aggiungere la serata del ventiquattro di questo mese. In piazza del Campidoglio, l’autore più importante della musica leggera italiana festeggerà a Roma i cinquant’anni di carriera con un grande evento a ingresso gratuito. Mogol si racconterà al pubblico rivelando storie e aneddoti sulle sue canzoni, che saranno interpretate durante la serata da artisti come Mario Lavezzi, i giovani Btwins, il pianista Gioni Barbera, il cantautore Giuseppe Anastasi, Carlotta e Paula, giovane rivelazione di X Factor. Per dirla con Giulio, cento (di questi) giorni.

T

di Francesco Lo Dico

Sopravvivere al vuoto estivo con i demolitori di miti ome di consueto questo giornale ha sospeso la rubrica televisiva nel mese di agosto. Mettiamo il caso che liberal mi avesse chiesto di fare un’eccezione: mi sarei trovato in forte imbarazzo e avrei rilanciato con la seguente proposta: un breve articolo di indignazione contro il «chiuso per ferie» che stavolta ha battuto tutti i record. Mai come quest’anno Rai e Mediaset hanno mostrato un’abissale mancanza di idee. Hanno alzato le mani dopo averle fatte frugare nel magazzino più scadente. Come se davvero la scatola delle immagini l’avessero tutti spenta, anzi sigillata. Non ci vuole un genio per recuperare pellicole a tema o di importanti registi, italiani e stranieri. Un mese scandaloso, insomma. Si sono viste sciocchezze a non finire. E nemmeno, questa estate, il trito e ritrito Peppone e Don Camillo, ormai un classico galleggiante nel vuoto di domeniche senza calcio. Qualche ottimista scommetteva nel recupero settembrino. Elenchiamo i film

C

di Pier Mario Fasanotti dal 2 settembre in poi: Alexander, CarsMotori ruggenti, The others, Sister act, La bestia nel cuore, Face/off. Lungometraggi visti e stravisti. Poi il programma quiz di Bonolis (Avanti un altro!, 18,30 su Canale 5), idea del conduttore che fa pubblicità a una marca di caffè e non un format acquistato all’estero, è stato detto con molto orgoglio dando un segnale di parsimonia in tempo di crisi. Più inquietante l’annuncio di un futuro programma con Teo Mammuccari, il mattatore che ridacchia senza ridere e prende in giro tutto e tutti, lo spilungone che induce a odiare l’inflessione romanesca riducendola a sbeffeggio, a scadente spezzone (o scarto di spezzone) di un cine-panettone firmato Vanzina. I canali Sky hanno vissuto di rendita, riproponendo a mitraglia vecchi serial polizieschi. Ha vinto l’Anthology, poi si vedrà.Tra i più giovani ha destato interesse il programma, su Discovery Channel,

intitolato Mythbusters. È una serie di spettacolari imprese di due mattacchioni che hanno l’ambizione di sfatare (to buster, appunto) certi luoghi comuni, o miti, scientifici. È il consumatissimo ro-

deo americano in versione motori. Nel Texas si divertono come matti. C’è il rischio che si prepari il terreno italiano, e ciò sarebbe la prova che noi europei siamo sempre più in fase di cotta verso i costumi villani, rozzi e forzatamente spettacolari d’oltreoceano. I due buontemponi americani hanno dimostrato come far piombare un Suv dentro una superficie gelata: piazzando candelotti di dinamite tutt’intorno. Bum, e il macchinone è stato inghiottito dall’acqua. E allora? A mio figlio dodicenne ho sussurrato che quel Suv sarebbe servito alla polizia del Ghana o a una missione cattolica in Somalia o a un ospedale di un Paese asiatico povero. Mi ha risposto come un economista: la distruzione degli oggetti fa parte dello spettacolo e lo spettacolo è seguito da centinaia di migliaia di persone. Quindi un’operazione in sintonia con le regole del mercato. Ovviamente ho discusso a lungo. Sta di fatto che degli onnipresenti «mercati finanziari» io ne ho piene le tasche.


MobyDICK

Cinema

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di Anselma Dell’Olio

a 68esima Mostra dell’arte cinematografica di Venezia che chiude oggi i battenti ha cominciato sotto i migliori auspici, con un programma molto promettente che non ha deluso. Qui un piccolo assaggio di alcuni dei film visti. A Dangerous Method (Venezia 68) è un film controverso di un autore che solitamente entusiasma all’unisono o quasi critici e cinefili, lo stimato canadese David Cronenberg. Suoi sono La mosca, Crash, eXistenZ, Il pasto nudo, La promessa dell’assassino, The History of Violence, e un’altra trentina di film, nessuno dei quali trascurabile. Perciò pensare che Cronenberg abbia «toppato» è sottovalutare un artista sanguigno e intellettuale raffinato con il dono della semplicità. Noto ai tifosi come The Baron of Blood, ci si aspettava un altro film con la nota violenza viscerale che esplode all’improvviso, pugni allo stomaco e alla psiche, ma mai fine a se stessi. Invece Cronenberg ha spiazzato con un film biografico (il temuto biopic, considerato un sottogenere) che tratta un nodo cruciale nello sviluppo della psicoanalisi, tratto dalla commedia di Christopher Hampton, sceneggiatore e commediografo carico di premi. Anche se il film fosse meno geniale, andrebbe visto per la precisione, l’equilibrio e la chiarezza con cui rende alcune correnti di pensiero che hanno influenzato «la cura parlante». Al centro del racconto è il rapporto tra Carl Gustav Jung e Sigmund Freud, prima caloroso, poi turbato, e in seguito interrotto per dissensi profondi sul futuro del delicato meccanismo che regola il rapporto, di rara intimità clinica (sembra un ossimoro e non lo è) tra paziente e analista. È di rara forza calzante il cast.Viggo Mortenson (History of Violence) è un Freud perfetto, Michael Fassbender non è da meno come Jung, e Keira Knightley è come sempre di rara guardabilità come la paziente isterica Sabine Spielrein. Film e testo hanno la rara qualità di restituire alla donna, guarita dall’analisi da severe turbe psicocomportamentali, e diventata in seguito stimata analista lei stessa, l’onore di riconoscere il sostanziale contributo che ha dato a punti chiave della teoria psicanalitica. Spielrein è stata la prima delle amanti-pazienti del protestante svizzero Jung, con il profondo dissenso e rammarico da parte dell’ebreo Freud per il grave tradimento della deontologia professionale. Da non perdere.

L

Terraferma (Venezia 68) è il terzo film di Emanuele Crialese, che dopo l’interessante debutto di Respiro, è cresciuto molto con Nuovomondo, uno delle opere migliori sull’emigrazione italiana d’inizio secolo in America. Il nuovo film torna sul tema dell’immigrazione, questa volta clandestina, e il suo impatto su una piccola isola siciliana. Evoca, o sarebbe meglio dire illustra, una società in transizione dalla vita dura del mare, a quella di operatori a servizio del turismo estivo. I pescherecci o vengono rottamati per un bel gruzzolo, o sono trasformati in imbarcazioni che portano i vacanzieri a fare le gite in mare. Si racconta come la vita di una delle ultime famiglie ancora dedita alla pesca, venga travolta per aver salvato dalle acque alcuni naufraghi e una donna africana incinta e suo figlio. Come sempre Crialese offre immagini di grande qualità, ma non si può dire che il tema sia trattato con la stessa freschezza di sguardo del film precedente. C’è la cattiveria burocratica di polizia e carabinieri, il buon cuore dei poveri pescatori che a mano a mano che vengono puniti dalle autorità per la loro compassione, s’induriscono verso gli stranieri disperati, e c’è l’ex pesca-

Sigmund,

Carl Gustav e la “cura parlante”

Notizie dalla mostra di Venezia che chiude oggi: geniale il film di Cronenberg dedicato a Freud e Jung, rende con chiarezza le diverse influenze sulla psicoanalisi. “Terraferma”e “Cose dell’altro mondo”affrontano, con registri diversi e convincenti, il tema dell’immigrazione. Il difetto di “Ruggine”? Poca suspense

tore (il bravo Giuseppe Fiorello) felice di trasformarsi in volgaruccio organizzatore di giochi e divertimenti degli ospiti stagionali del Nord. Dura solo 90 minuti ma sembra più lungo, grazie a un ritmo non proprio calzante e nulla di nuovo da dire. Nuovomondo aveva pochi dialoghi ma la sua magia catturava lo spettatore, che entrava nell’incanto delle immagini. Forse perché per la prima volta il regista non ha avuto la collaborazione del suo attore feticcio Vincenzo Amato? Sono ottimi Donatella Finocchiaro come Giulietta, la nuora vedova; il giovane Filippo Pucillo è suo figlio, e Mimmo Cuticchio è nonno Ernesto, tutti credibili e memorabili.

Nella sezione Giornate degli Autori c’era Ruggine di Daniele Gaglianone, tratto dal romanzo di Stefano Massaron. È un noir ambientato in una città del Nord d’Italia alla fine degli anni Settanta. In un quartiere di periferia, una banda di ragazzini, figli d’immigrati meridionali, passa le lunghe giornate estive nel luogo preferito, il Castello. È una costruzione industriale abbandonata, composta di due silos arrugginiti, usati nel corso del tempo come discarica per rottami e ferraglie d’ogni sorta. Un nuovo medico arriva da fuori, il dottor Boldrini (Filippo Timi, mai deludente), altero, aristocratico e gravemente depravato. La storia del gruppo di bambini è interrotta da flash su tre di loro, vent’anni dopo. Carmine (Valerio Mastrandrea) che era il «comandante» della banda, ora passa il suo tempo a bere, fumare e scroccare soldi al bar. Sandro (Stefano Accorsi) invece di lavorare se ne sta rintanato nella sua casa in gran disordine a giocare con il figlioletto di 5 anni al «Drago Nero». Cinzia partecipa a un consiglio di classe di scuola media, caratterizzato dalla solita noia, la solita routine e i soliti automatismi nel giudicare gli studenti. Solo verso la fine del film cominciamo a capire che sono tre della banda originale, diventati adulti. Il riflesso, l’eco di quell’estate agghiacciante, continua a influenzare le loro vite mature, anche quelle più apparentemente inserite, produttive e normali. Il film è girato bene con un’ottima direzione degli attori; pecca un po’ d’autorismo nelle lunghe sequenze della prima parte in cui, se non ci siamo informati prima, si sente un po’ di smarrimento. Anche perché manca sufficiente suspense, la paura, l’angoscia che ci dovrebbe attanagliare quando Boldrini avvicina le sue piccole vittime. Non è certo per colpa di Timi, un mostro la cui calma apparente gela il sangue, ma non è coadiuvato da una regia che amplifica la paura. Della sezione Controcampo Italiano è molto apprezzabile Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno, una commedia che immagina una città del Nord (qui Bassano del Grappa ha preso il posto di Treviso, che si è negata come location). Diego Abbatantuono è Golfetto, un imprenditore capopopolo che tutti i giorni inveisce contro gli immigrati sulla tv locale, invitandoli a tornarsene «sui cammelli da dove sono arrivati» e altre amenità da basso leghismo. Naturalmente ha una moglie che lo sopporta poco e un’amante africana.Valerio Mastrandrea è Ariele, un poliziotto ritornato in città da Roma. La sua ragazza Laura, (Valentina Ludovini) stufa dei suoi tradimenti, è incinta di un nero extracomunitario. Un giorno la cittadina si sveglia e sono spariti gli immigrati: africani, albanesi, ucraini, tutti. Non ci sono più badanti, camerieri, gran parte degli operai, braccianti, inservienti e così via. Gli italiani non possono recarsi al lavoro perché con c’è nessuno per badare ad anziani e infanti soli a casa. È un’idea geniale rubata in parte da un film messicano. Funziona, si ride, e la lezione o la pillola va giù senza sentirsi il gomito politicamente corretto nelle costole.


Camera con vista

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e donne che odiano gli uomini, le donne di questo libro, sono, in realtà, le donne che amano più profondamente l’essere umano», così scriveva Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile e persona saggia, scomparso in febbraio, in una prefazione autobiografica (una delle ultime cose che ha scritto) a un libro di Francesca Pansa, uscito in maggio negli Oscar Mondadori, dal titolo Donne che odiano gli uomini. Un suggerimento, quello di Bollea, che va accolto anche se leggere le storie ragionate e proposte da Francesca Pansa fa male. Storie vere, storie tremende, che ricordiamo di aver letto sui giornali oppure ritroviamo nelle ricostruzioni dei familiari delle vittime (la mamma di Elisa Claps, le figlie di carnefici come il mostro di Firenze abusate dal padre) e riassunte con dolente minimalismo, con commovente asetticità perché risaltino ancora più inaccettabili nel loro orrore. Una galleria di sopraffazioni sessuali e sociali, ricatti, sequestri, omicidi, dove la brutalità dei maschi ha, quasi sempre, la meglio sull’innocenza o il coraggio delle vittime.

MobyDICK

ai confini della realtà

«L

Fa impressione percorrere queste vicende tutte insieme, che acquistano, rispetto alla cronaca, una loro grandiosità mitologica. Quando poi l’autrice, alla fine del libro, si trova a Mosca sotto la scarna targa al numero 8/12 di Ulica Lesnaja, la «Via dei Boschi» che dice solo: «Qui abitava Anna Politkovskaja» non possiamo che constatare con lei e con identica (taciuta ma ben presente) costernazione: «non è una lapide di quelle che magnificano lo scomparso». No, queste donne violate, eliminate, messe a tacere non hanno nemmeno diritto a un monumento. Cancellate nel sangue, e questo è tutto. Donne che odiano gli uomini non è una lettura «estiva», mi si obietterà, soprattutto in un’estate già abbondantemente deprimente come quella in corso, lanciata verso l’incerto futuro delle nostre finanze. Ma è sempre il momento, invece, di stare in guardia, consapevoli e belligeranti contro il sopruso, privato e pubblico, sessista o generale. «L’inferno sono gli altri» diceva Sartre, l’inferno - per tante donne - sono obiettivamente gli uomini, spesso i più vicini: mariti o ex-mariti, fidanzati, padri. Ma ecco che, con l’inesorabilità degli eventi mondani siamo travolti dal Festival del cinema di Venezia. Grande agitazione per il nudo di una Monica Bellucci che nudi non ne ha mai lesinati, ma che fa parlare tanto perché… ha ben 47 anni suonati. Naturalmente tutti si affrettano a dire che «non li dimostra» (tanto per restare in tema di violenza e volgarità contro le donne). A mio parere sarebbe meglio se li dimostrasse e finalmente anche un’attrice italiana avesse la forza di apparire una donna vera, segnata dalla vita e dalle gravidanze, come Vanessa Redgrave o Charlotte RamIn alto, “Sogno” (1932) di Picasso. Sopra, la copertina del libro “Donne che odiano gli uomini” di Francesca Pansa. A destra, il regista Roman Polanski, la scrittrice Yasmina Reza e l’attrice Isabelle Huppert

Massacri in rosa

di Sandra Petrignani pling, per citarne due non a caso grandissime. Una, invece, che si ostina a digiunare per avere la fisicità di un’eterna adolescente è la molto anoressica e scostante Isabelle Huppert, che incon-

do di dieci minuti in dieci minuti l’appuntamento) quando, nel 2006, portò in teatro Le dieu du carnage, pièce molto lodata della francese Yasmina Reza, altro significativo caso di suc-

Donne vittime di uomini brutali, ma anche della loro stessa vanità. Dal libro di Francesca Pansa, che ricostruisce dolorosi fatti di cronaca, alle performance “dietro le quinte” di Isabelle Hupper e Yasmina Reza, autrice della pièce da cui è tratto il nuovo film di Polanski trai per un’intervista (risultata quasi impubblicabile per le banalità che riuscì a sciorinare nel suo chiaro salotto parigino, dopo avermi fatto aspettare sotto la pioggia per due ore, rimandan-

cesso che dà alla testa e che, da esseri umani normali, trasforma in ispide creature respingenti. Cito quest’operina, ora pubblicata da Adelphi col titolo Il dio del massacro, perché è diven-

tata un film di Roman Polanski presentato a Venezia che vanta nel cast Jodie Foster e Kate Winslet. Non avendo ancora visto il film di questo regista diseguale, ma spesso entusiasmante, mi chiedo come gli sia venuto in mente di trasporre per il cinema una commedia a quattro personaggi molto statica e basata su uno small talk che nasconde a quasi ogni battuta la staffilata di un doppio messaggio. Già a teatro la ricordo appesantita da un eccesso caricatural-grottesco che Huppert governava da mattatrice, oscurando gli altri attori e imponendo su tutto la sua nevrosi motoria, alternata a momenti di astrazione depressa. Due coppie s’incontrano per dirimere civilmente un increscioso incidente: i figli hanno litigato ai giardinetti e uno ha malmenato l’altro spaccandogli i denti. Si considerano persone morali e corrette, che ascoltano le motivazioni dell’altro e desiderano venire a capo della questione nel modo più onesto. Salvo che sono tutti sottoposti al dio della carneficina e dell’aggressività, e alla malcelata convinzione di essere ognuno il migliore del gruppo (le donne in particolare). Così l’incontro rischia il disastro. Una piccola idea, insomma, dove grandi attori e grandi registi si sbracciano per apparire superiori al tutto, mentre forse sarebbero bastati Ciccio e Ingrassia a svolgere un lavoro egregio. Ma vedremo cosa ne ha fatto Polanski, molto amico della scrittrice, la quale lo difese a spada tratta nel recente ri-inciampo nella giustizia americana. Reza, per parte sua, ha saputo fare di meglio in passato (ricordiamo il bel monologo Una desolazione, tradotto da Bompiani, o le commedie Art e L’uomo del caso, di cui mi capitò di vedere una deliziosa messinscena di Catherine Spaak, finita malamente per le intemperanze dell’autrice che si rivoltò con ragioni poco sostenibili contro l’attrice).

Yasmina Reza è quel tipo di autore che concede rare interviste (e questo va a suo onore), molto nevrotica e viziata dal consenso internazionale, e che (come successe nel caso mio) se la prende con l’intervistatore se poi l’articolo esce corredato da una foto impietosa sul suo precoce doppio mento. Per questo peccato di lesa maestà, che non poteva dipendere da me, non essendo l’inviato la stessa persona che confeziona materialmente le pagine del giornale in cui scrive, mi beccai da lei una porta sbattuta in faccia nel retro del teatro parigino (Parigi, di nuovo)! Ne fui tanto più sorpresa perché avevamo molto simpatizzato durante l’intervista e mai prima, in tanti anni di onorata carriera e di incontri con scrittori italiani e stranieri di primo piano, mi era successo di ricevere un simile indecoroso trattamento dopo la pubblicazione di un’intervista lunga, intelligente (per merito suo e mio), documentata e che - oltretutto - avevo lottato per imporre non essendo allora la Reza minimamente nota in Italia. Tant’è, incerti del mestiere. E delle donne, che - purtroppo - quanto a vanità, risultano spesso molto più fragili degli uomini, amati o odiati che siano.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t e

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

La “non” rivoluzione ha tradito una generazione CERCHIAMO IL BENE DELL’ITALIA, NON ALTRO Vorrei provare con tutti voi, da questo spazio su liberal, in occasione del nostro incontro di Chianciano, a fare un piccolo ragionamento. Una considerazione ad alta voce, una delle tante che affollano i nostri luoghi comuni, e danno forma e sostanza al Paese reale e non al Palazzo del governo, che rimane lontano dalla realtà, mentre niente è come sembra. Berlusconi & C. di fatto tengono in ostaggio l’Italia e gli italiani, ovviamente sempre più insofferenti. Nonostante tutto ciò, il nostro presidente del Consiglio non molla, trascinando giù con sé una intera generazione di uomini e donne parimenti impegnati in politica ma, in parte e nel nostro caso, con idee, convinzioni e soprattutto posizioni diverse dalle sue. Sarà questa la sua ultima follia-strategia? Historia magistra vitae. Più giorni passano e più nella gente comune cresce la voglia di nuovo e di cambiamento senza esclusioni di sorta.Via il berlusconismo e l’antiberlusconismo, via una intera classe dirigente, via i suoi leader… quasi come se, oltre il baratro, il salto nel “vuoto” fosse utile, Inevitabile e necessario al mito del cambiamento e alla “sete” di giustizia. Questo è quello che mi preoccupa. Buttare via il bambino con l’acqua sporca non è mai stata la soluzione, così come non si può non dare fiducia a chi con umiltà, spirito di servizio e forte senso dello Stato non vuole sostituirsi a nessun governo democraticamente eletto, ma tentare di mettere insieme le energie migliori per condividere un governo di responsabilità nazionale in un momento di straordinaria difficoltà sociale, politica ed economica per il nostro Paese e per i cittadini. L’Unione di centro, il Terzo Polo, Pier Ferdinando Casini sono impegnati su questo fronte, senza ma e senza se, nell’estremo tentativo di salvare oggi, tutti insieme, l’Italia, per poter dare domani agli italiani quella giusta e necessaria serenità indispensabile per il confronto e per la scelta del proprio futuro e della propria classe dirigente. Fare oggi un grande gesto d’amore verso il nostro Paese e le sue Istituzioni, per ricondurre tutto e tutti nella normale contrapposizione dialettica tra le parti in campo, in un Paese definitivamente salvo che guarda con fiducia al domani e al futuro delle nuove generazioni. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L

Parlare a nome di 42mila persone è un grande onore ma, al tempo stesso, è anche una grande responsabilità. Sì, perché quest’anno più di quarantaduemila ragazzi hanno deciso di iscriversi al nostro partito e di diventare Giovani Udc. In questa spazio, scegliamo di parlare a chi ci governa, riconoscendo nelle Istituzioni di questo meraviglioso e difficile Paese gli interlocutori principali per ciò che accade oggi in Italia. Siamo, per la gran parte, ragazzi impegnati nel mondo dello studio, del lavoro, e facciamo politica con grande passione. Abbiamo valori solidi, basati su un liberalismo che, negli anni passati, ci aveva fatto riporre nel vecchio centro-destra delle reali speranze di cambiamento e di riforme in un Paese che necessitava e, oggi ancor di più necessita, di una svolta. A questo Governo vogliamo chiedere conto delle scelte che ha operato o che, in taluni casi, ha deciso di non operare e che hanno pesantemente danneggiato tutti i giovani italiani, tradendo le attese e le speranze di una generazione sempre più afflitta dalla precarietà e dall’incertezza. Questa maggioranza ha fallito soprattutto in quello che era il suo obiettivo programmatico da sempre dichiarato: la cosiddetta “rivoluzione liberale”. La cruda verità è che quasi nulla è cambiato rispetto a 17 anni fa. Sono rimasti inalterati quei privilegi, quel corporativismo che hanno frenato un reale sviluppo dell’Italia, impedendo un effettivo ricambio generazionale e limitando la partecipazione alla vita civile e politica dei più giovani. Siamo una generazione tradita, soprattutto da coloro che avevano auspicato un colpo di reni, promettendo la creazione di migliaia di posti di lavoro. Mentre, invece, è stato come voler gettare le basi per una reale istituzionalizzazione del precariato, contribuendo in maniera evidente a condizionare le nostre prospettive. Purtroppo, anche l’ultima versione della manovra economica (speriamo almeno che sia quella definitiva) non contiene elementi significativi che lasciano spazio alla crescita e al sostegno di politiche destinate ai più giovani. Al Governo diciamo che urge un intervento immediato, perché ogni giorno che passa senza provvedimenti concreti è un giorno sottratto alle speranze e ai progetti dei giovani italiani, che, ne sono convinto, restano la parte migliore di questo Paese.

Gianpiero Zinzi Coordinatore Nazionale Giovani Udc

LE SOLUZIONI ALTALENANTI DEL GOVERNO “Avanti e indrè che bel divertimento”, era il ritornello di una vecchia canzone di successo. Mi è tornato alla mente assistendo all’altalena di notizie di questi giorni relativi alla manovra finanziaria. Prima, l’abolizione dei piccoli comuni e delle province con meno di 300mila abitanti. Subito dopo un passo indietro, e si pensa ad un contributo straordinario di solidarietà a carico degli alti redditi. Anche questo viene depennato, e si pensa alle pensioni, depennando il riscatto della laurea e degli anni di naia, poi fortunatamente cancellati perché avrebbero prodotto un enorme contenzioso. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Non mi pare che i continui cambiamenti siano un buon segno. Sembrano più il frutto di soluzioni improvvisate, di chi non sa quale decisione prendere. Per i tagli agli sprechi della “casta” c’è tutta una letteratura di successo, alla quale forse era bene attingere un po’ per dare l’esempio. Nella situazione attuale di crisi, con l’alta percentuale di disoccupati, con una inflazione che non accenna a fermarsi, dal-

la classe politica di governo dovrebbero provenire indicazioni certe, tendenti a raggiungere obiettivi mirati. Bisognerebbe provocare una inversione di tendenza al corso negativo dei mercati, che ha prodotto e produce danni ingenti alle economie delle famiglie che si vedono giornalmente sempre più povere. I proclami trovano sempre meno credito. Ci vogliono fatti concreti in grado di ridare fiducia ai cittadini. In mancanza la soluzione naturale è quella di seguire l’esempio del Presidente giapponese, e cioè ricorrere all’istituto della dimissioni.

Luigi Celebre

EVASORI NON SOLO FISCALI Gli evasori si sottraggono ai doveri. Oltre a quelli fiscali (opportunamente biasimati), vi sono evasori dal dovere di lavorare: oziosi, assenteisti, falsi malati e imboscati. Inoltre esistono evasori dai doveri di responsabilità, buona amministrazione, risparmio, lungimiranza e cura della salute: parassiti, dissipatori, giocatori d’azzardo, drogati, alcolisti, tabagisti.

Gianfranco Nìbale

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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Uno strano tatuaggio Quello che vedete è una sorta di “chip”, un dispositivo elettronico supersottile che si fissa sull’epidermide con un po’ d’acqua, come un trasferello, e vi rimane per più di 24 ore. A differenza dei normali tatuaggi temporanei, però, questo “cervello” ultraflessibile è in grado di monitorare i parametri vitali - battito cardiaco, attività muscolare e cerebrale - di chi lo indossa

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


11 settembre 2011 DIECI ANNI DOPO

I CAMBIAMENTI DEL MONDO

Un’altra Storia di Michael Novak

ieci anni dopo l’11 settembre 2001 il mondo appare diverso, con una serie di problemi completamente nuovi (anche se piuttosto antichi), e soprattutto, con una nuova promessa. L’ex Unione Sovietica sembra essere scivolata in un’oscurità storica per lo più senza rimpianti. I Paesi arabi sono in uno stato di grande, e forse anche promettente, agitazione - la “primavera araba”come molti la chiamano, di cui fra dieci anni potremmo trovarci ad ammirare i meravigliosi frutti. Oppure potremmo renderci conto che si è trattato di una falsa primavera. Anche i critici più taglienti devono tuttavia riconoscere che una simi-

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le promettente emergenza di primavera in Medioriente corrisponde a ciò che il presidente Bush aveva previsto quando, nonostante le forti critiche, in Afghanistan e in Iraq incoraggiò l’autogoverno, il rinnovamento delle società civili, nuove libertà di comunicazione con il mondo esterno, democrazia e “diritti naturali”.

Il severo test sul duraturo successo di queste primavere ancora non è stato superato. Ho sostenuto il presidente Bush per dare un’opportunità alla libertà, questo era il mio desiderio primario; un’opportunità, non una garanzia. Per come vedo le cose, la chiesa cattolica, e con essa l’Occidente, nel corso degli ulti-

Il vento che ha sospinto la primavera araba è uno dei frutti di quel giorno

mi 150 anni ha resistito al peggio che il potere totalitario ateo potesse lanciarle addosso. Decine di milioni di persone sono state brutalmente punite, esiliate, torturate, affamate per lunghi anni in migliaia di campi di concentramento e di gulag; milioni di queste sono state orribilmente e vergognosamente uccise. Migliaia di chiese sono state messe a fuoco, rase al suolo, appositamente profanate. Centinaia di migliaia di monaci e suore sono stati condotti a logoranti esili e alla morte, mentre i loro monasteri e i loro conventi venivano trasformati in accademie per l’addestramento di torturatori e interrogatori. La più grande lotta epocale dopo Marx e Lenin, Hitler e Mussolini, è sci-

volata nel passato. Tuttavia l’11 settembre 2001 si è risvegliata una lotta epocale ancora più antica, che risale a 1500 anni fa.

Nel 632, alla nascita dell’islam, tutto il bacino del Mediterraneo, da Gerusalemme a Efeso e Costantinopoli a nord, e da Alessandria d’Egitto a Ippona e Toledo fino ai confini con la Francia a sud est, era la gloria della Cristianità. Quel confine di fede fu anche la prova che la Chiesa di Gesù si installò così velocemente nell’“intero mondo conosciuto” che venne poi chiamata “cattolica”. Inoltre, prima dell’epoca di Costantino (e anche per molto tempo dopo), vi si installò senza la forza degli eserciti, ma so-


il giorno dell’Apocalisse prattutto si stabilì fra i poveri (e gli intellettuali) in maniera pacifica attraverso la sua testimonianza sulla caritas di Dio e i suoi acuti argomenti contro i classici pagani. In 600 anni, la Cristianità ha definito i confini del Mediterraneo con chiese, cattedrali, monasteri, luoghi di apprendimento e di liturgia. Nel corso di 100 sorprendenti anni, gli eserciti dell’islam avanzarono verso il Mediterraneo sia da Occidente fino a raggiungere Poitiers in Francia, che attraverso i confini dell’attuale Turchia.

Ne derivò quindi che da allora la terra porta in grembo due religioni straordinariamente popolose (ed interetniche), la cui missione è mondiale. Gli esordi della loro interazione furono macchiati dal sangue e centinaia di anni di guerre li macchiarono ulteriormente. Allora in uno spasmo di grandi battaglie - Malta nel 1565, Lepanto nel 1571 e Vienna l’11 settembre del 1681 - si raggiunse un situazione di stallo militare. Lasciamo da parte la lunga storia intermedia, ricordando però che l’Occidente si è rivelato tri-

settembre 2001, in un giorno già infausto, il sipario si chiudeva sulla lotta contro i totalitarismi atei, segnando di conseguenza l’inizio di una lotta molto più antica, ma questa volta su termini piuttosto diversi. Molti dei miei amici ferventi sostenitori della laicizzazione credettero che il mondo, che secondo loro stava serenamente procedendo verso un’automatica secolarizzazione, stesse improvvisamente eruttando di energia religiosa. Jurgen Habermas insistette su questo tema. In tutto il mondo, dopo tutto Dio non è morto - solo in qualche isola sperduta. E se Dio non è morto, non sono morti nemmeno gli imperituri modelli di verità. I diritti naturali (ora elencati per nome nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), lungi dal morire, si stavano piuttosto risvegliando ovunque come non mai. Si stavano risvegliando nei cuori musulmani così come in tutti gli altri. Questi diritti non appartengono a una sola religione, o tribù, o visione laica, ma ad ogni uomo e donna sulla terra. Inoltre, questa rinnovata fase di antica lotta non è principalmente religiosa. Non solo è universal-

I tempi non sono ancora maturi per un dialogo teologico, ma per uno scambio culturale sì stemente ignorante delle culture, delle tensioni e delle sofferenze islamiche. Inoltre, il numero dei libri che vengono tradotti in lingua araba è sempre inferiore rispetto alla maggior parte delle altre culture al mondo. Per 500 anni l’islam si è rivolto esclusivamente al proprio interno. A questo ha fatto seguito la separazione culturale tra Paesi occidentali, cristiani, secolari e le nazioni dell’Arabia (comprese quelle asiatiche musulmane). Poi, come un fulmine a ciel sereno, lo shock e l’orrore: quattro aerei americani sono stati sapientemente trasformati in immense bombe distruttive. Uno ad uno sono stati sequestrati, guidati e barbaramente fatti esplodere contro le Torri Gemelle di Manhattan e contro il Pentagono, mentre uno di questi era ancora in volo verso un altro obiettivo sconosciuto a Washington D.C. (su questo quarto aereo, l’America, con i suoi passeggeri, cominciò a rispondere all’attacco costringendolo a volteggiare contro l’impietoso suolo, nella umile Shanksville, in Pennsylvania, non distante dal più sacro dei campi di battaglia americani, Gettysburg, dove Lincoln tenne il più grande di tutti i discorsi politici dopo Pericle). Così improvvisamente quell’11

mente umana, ma è in primo luogo politica. Gli esseri umani in ogni parte del mondo sono animati da lunghe discussioni circa i principi morali con cui scegliere di essere governati. Nessuno al di fuori di me ha notato che in Afghanistan e in Iraq i nemici della democrazia hanno fatto tutto quanto in loro potere per distruggere la società civile, il governo civile, lo sviluppo di una costituzione e di una democrazia? Il loro principale motivo non era religioso: hanno bombardato moschee, assassinato imam, fatto fuoco su interi templi di fedeli. I loro motivi erano politici, non religiosi.

Hanno in tutta evidenza dato prova di essere nichilisti con i loro metodi basati su massacri di massa attraverso bombe suicide attaccate a determinati individui, e con una gratuita distruzione di monumenti antichi dal valore inestimabile. Questi moderni “rivoluzionari” sono stati i primi in assoluto a non promettere alcun miglioramento nelle vite umane, o nelle istituzioni, o nelle pratiche. Hanno messo in campo valori di morte e distruzione. Gratuitamente, come i veri nichilisti fanno. seg u e a p a g i n a 2 6

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Per la prima volta, le due più vigorose religioni al mondo stanno imparando, insieme, a cogliere verità comuni continua da pagina 25

Così, improvvisamente ci ritroviamo in un mondo completamente nuovo. Un mondo in cui una predominante energia globale si libera da vitali, vive e crescenti religioni - le due religioni più dinamiche al giorno d’oggi, e le uniche due con affermazioni empiriche tali da poter essere considerate religioni mondiali: il Cristianesimo e l’Islam. Improvvisamente, immense energie storiche (a lungo messe da parte dall’ideologia di “secolarizzazione”irreversibile) sono state autorizzate dalla Cristianità (che oggi conta 2 miliardi di fedeli, di cui 1 miliardo Cattolici) e dall’Islam (più di 2 miliardi). Insieme, i membri di queste due religioni coprono la metà dell’intera popolazione mondiale, più di 3 miliardi di persone su 6 miliardi.

E oggi queste due vigorose culture di nuovo - e finalmente si guardano negli occhi in un modo completamente nuovo. Non si limitano più ad “affrontarsi”, ma interagiscono profondamente e spiritualmente fra loro. Interagiscono non proprio in un modo religioso, piuttosto lo fanno in un modo culturale. Come ha notato Benedetto XVI, i tempi non sono ancora maturi per un dialogo teologico - sarebbe chiedere troppo - ma un dialogo culturale dopo così tanti secoli è come una bevanda rinfrescante in un’oasi. Qual è il significato di così tanta sofferenza dovuta alle evidentemente folli politiche degli ultimi 200 anni, e non solo nei paesi arabi e musulmani? Qual è il significato di così tante crudeltà e torture e omicidi e guerre partigiane? Esi-

stono enormi forze del male e di sofferenza a livello mondiale. Tutte le persone insieme devono far fronte al male politico come mai prima d’ora. Prima di tutto, queste due vigorose culture stanno lentamente imparando insieme a cogliere verità comuni (solitamente verità negative). Si tratta di verità sull’immensità delle sofferenze umane sotto tirannie che governano con il pugno di ferro, per mezzo della spietata polizia segreta, delle intercettazioni telefoniche e informatiche, e per mezzo di miglioramenti scientifici squisitamente moderni - ma anche antichi delle torture corporali. I cadaveri che gli omicidi politici si lasciano dietro sono stati orribilmente disonorati, come una forma di guerra - guerra psicologica - contro gli altri. Le nostre positive ragioni umane circa il motivo per cui i tiranni devono essere rovesciati potrebbero tuttavia non essere le stesse. Siamo però tutti in grado di cogliere il negativo: a tutti noi è chiaro che la tirannia deve essere rinnegata, in quanto immeritevole della dignità degli esseri umani, e del loro diritto all’auto-protezione, per scegliere la propria forma di autogoverno. Le persone che hanno vissuto troppo a lungo sotto la tirannia non possono più sopportarne le sofferenze, e non solo il doloroso oltraggio.

Questa nuova era è creativa o distruttiva? Questo incontro fra grandi culture sarà creativo o distruttivo? Nel corso della Guerra Fredda che caratterizzò buona parte degli anni della mia vita, spesso mi sono chiesto chi avrebbe vinto. Ero solito scherzare sul fatto che di lunedì,

Ma il vero nodo da sciogliere oggi è: questo incontro fra grandi culture sarà creativo o distruttivo?

mercoledì e venerdì avrebbero trionfato i diritti e la dignità. Mentre di martedì, giovedì e sabato, temevo che l’Occidente, anche se la nostra causa era giusta, non avesse lo stomaco o la lucidità per vincere. La domenica pregavo. Comunque sia, è finita bene.

Inoltre, in tutti i momenti di maggiore crisi, i poteri laici dell’Occidente si appellavano alle persone di fede e alle chiese cristiane affinché accorressero in loro soccorso. Lo fece anche Stalin, nei suoi momenti più bui della Seconda Guerra Mondiale. Lo fecero anche Churchill e Roosevelt (anche sua moglie, la potente Eleanor cui molti liberali laici guardarono come eroina, e che fecero finta di niente quando rivelò di essere una devota cristiana protestante). Così fecero De Gasperi, don Luigi Sturzo ed il primo Fanfani - e De Gaulle, e gli eroi della Democrazia Cristiana in Germania e dell’Unione Cristiano Democratica in Bavaria. Gli occidentali, soprattutto gli intellettuali, nel corso della storia moderna hanno deriso la Chiesa e la cultura stessa della cristianità. Ciò nonostante i laicisti prendono in prestito le migliori idee, non da Platone o da Aristotele o dai maggiori saggi pagani della romanità, ma dalla rivelazione di Gesù Cristo. Ad esempio, gli ideali di libertà personale, fratellanza e uguaglianza. Non si tratta di ideali pagani, o ideali laici, come insiste Jurgen Habermas con ammirevole onestà. Piuttosto, si tratta di ideali riflessi dalla sorprendente brillantezza di Gesù, il Maestro della Dignità Umana. L’essere umano, non importa quanto è umile, è creato a immagine di Dio, proprio nel cuore del suo essere, ed è infinitamente amato da Dio. Nel cuore delle cose è insita la debolezza umana e anche la crudeltà e il male - ma anche la misericordia, e la consa-

pevolezza che il nostro Creatore vuole essere noto come il nostro Padre, e ci offre di essere attenti, gentili e generosi verso i poveri e i più deboli, soprattutto. Questo lo ha insegnato Gesù, non i pagani. Gesù come nessun altro ha stabilito la Misura dell’Uomo, sia nella nostra debolezza che nella nostra alta densità. Quello che è particolarmente nuovo circa questo momento, allora, è che nel nuovo e vigoroso dialogo tra cristiani e musulmani che si sta svolgendo attorno a noi, specialmente nei circoli religiosi, gli Imam e gli Ayatollah, e i saggi dell’islam oggi sollecitano proprio quegli aspetti dell’islam che sono più vicini alle gioie della cristianità: ovvero - insistono - che l’islam è una religione di pace, che alla base dell’islam c’è compassione, che l’islam rappresenta un grande, forse il più grande, maestro di umiltà umana - poiché Allah è così grande che anche suggerire un qualsiasi paragone (ad immagine) degli umani con Allah è blasfemo. Al di sotto di Allah, tutti sono niente.

Per non parlare dei contrasti tra patrimoni teologici, sembra che in questo momento la discussione intellettuale sia incline a presentare l’islam in una luce facilmente colta dai cristiani. Il che suggerisce qualcosa sullo stato attuale della discussione intellettuale. Ma questa discussione è ben lungi dall’essere pienamente portata a termine. Molto più importante è l’agenda pratica di questo decennio, un’inchiesta mondiale nelle fondamenta intellettuali della dignità umana, e del diritto umano di scegliere una forma di governo che rifletta la dignità umana. In questo compito pratico, un significativo numero di intellettuali e attivisti arabi sembrano unirsi al Partito Universale di Libertà. Alcuni scrittori arabi sostengono che è stato pubblicato più materiale sugli ideali di libertà e dignità nel mondo arabo


Quel giorno Colin Powell mi disse: «Vai a Mosca, ora» Assieme ai russi abbiamo fermato la proliferazione nucleare di John R. Bolton undici settembre, di prima mattina, arrivai al Dipartimento di Stato con la valigia, pronto a partire per Londra poche ore dopo, nel pomeriggio. Dovevo incontrare Georgi Mamedov, la mia controparte russa, per continuare i negoziati utili a far uscire gli Stati Uniti dall’ormai obsoleto Trattato sui missili anti-balistici datato 1972. Colin Powell avrebbe dovuto vedere il 19 settembre Igor Ivanov, il ministro degli Esteri russo ed a seguire, in Ottobre e Novembre, si sarebbero tenuti i vertici fra il presidente Bush e Putin a Shangai e Crawford, in Texas. Come sempre, sarei stato impegnato tutta la mattina in una serie di riunioni. Ne avevo appena terminata una utile a identificare la nomina di un ambasciatore - quando arrivò la notizia che due aerei si erano schiantati nelle twin towers del World Trade Center. Nessuno di noi aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Mi precipitai nel mio ufficio al settimo piano - il piano dove hanno gli uffici il Segretario di Stato e il personale più alto in grado - per capirci un pò di più.

L’

A un certo punto, pochi minuti dopo non saprei esattamente dire quanto tempo fosse passato - la mia segretaria corse ad avvisarmi che il Pentagono andava a fuoco. Mi affacciai alla finestra e vidi un fumo denso e nero alzarsi oltre il fiume Potomac. Stesso istante, un funzionario si precipita nella mia stanza esclamando di aver visto un aereo andarsi a

schiantare sul Pentagono. Eravamo sotto attacco. E non sapevamo cosa ancora dovessimo aspettarci. Corsi subito al Centro operativo del Dipartimento di Stato, nel cuore del settimo piano, dove potevamo comunicare in videoconferenza e in modo sicuro con i top officials e le altre agenzie governative. Con il presidente Bush in Florida, sapevamo già che il vicepresidemte e le altre figure chiave dell’Amministrazione erano state portate nel bunker della Casa Bianca. E questo mentre nella Situation room si cercavano di coordinare le informazioni che arrivavano da tutto il Paese per capire se dovessimo aspettarci altri attacchi o sequestri. Il caos regnò per tutto il giorno. Per ore, si temette il dirottamento di un velivolo partito da Dulles e scompraso dai monitor, fino a che si comprese che era quello caduto sul Pentagono.

Solo nel primo pomeriggio fu chiaro che i voli dirottati sul suolo Usa erano stati quattro, benché non fosse chiaro cosa stesse accadendo su quelli internazionali. Benché il Paese fosse ovviamente concentrato sugli attacchi e sulle tragedie umane in atto, la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e della Difesa, più tutti gli altri, si concentravano per prevenire altri attacchi e decidere il da farsi. Mentre tutte le procedure di emergenza erano state avviate in maniera, come dire, automatica e burocratica. Come la riattivazione del telefono rosso con Mosca, utile a confermare che la Russia fosse completamente estranea agli attentati. Quel giorno, Colin Powell era in Perù per presenziare a una serie di meeting, subito cancellati per permettergli di rientrare a Washington alle prime ore della sera. Il dodici settembre, dopo un ver-

tice fiume cominciato alle 7 di mattina nel suo ufficio, mi chiese di restare con lui.Voleva che ricalendarizzassi al più presto il meeting con Mamedov, in modo da ottenere l’incontro prima dell’arrivo a Washington del ministro degli Esteri russo Ivanov. Sapevo perfettamente quanto fosse urgente e vitale il vertice fra Powell e Ivanov, ma l’idea di Powell era anche un’altra: mandare alla Russia e agli altri Paesi un messaggio forte e chiaro: l’America non si era fermata, era completamente operativa e pronta al business. Con il traffico aereo commerciale ancora nel caos, riuscì ad organizzare un mio piano di volo con una versione del Gulfstream V dell’Air Force pronta a decollare dalla Andrews Air Force Base il 15 settembre con una delegazione ristretta. L’aereo sorvolò Manhattan e tutti noi vedemmo l’immensa nuvola di polvere e fumo alzarsi da dove, fino a una manciata di giorni pima, svettava il World Trade Center. Guardammo tutti in silenzio. Semplicemente non c’erano parole da dire.

L’intelligence americana non era stata in grado di scoprire le operazioni preparatorie di al Qaeda e nessuno di noi poteva in quel momento immaginare cosa altro si fosse persa per strada. E, per quanto devastante l’undici settembre fosse stato, fu subito chiaro che le conseguenze di un attacco terroristico condotto da uno Stato canaglia con armi nucleari, biologiche o chimiche, magari condotto via missile balistico, sarebbe stato peggiore. Gli Stati Uniti si ritirarono formalmente dal Trattato Abm il 13 dicembre. Dopo l’undici settembre, terrorismo e proliferazione non sono stati più un problema da “maneggiare”. Erano delle minacce mortali da fermare. E ancora lo sono.

dal 2003 che in tutte le diverse passate generazioni messe insieme.

Una testimonianza personale. Quando stavo seguendo gli studi universitari a Roma, ormai cinquantacinque anni fa, alla mia prima uscita fuori città andai a Orvieto. Il mio cuore rimase catturato da questa città, e lo è ancora. Anche mio fratello minore, il prete martirizzato dai musulmani nel 1964 a Dacca (allora Pakistan orientale), amava Orvieto e mia moglie Karen dipinse un suo ritratto mentre era di fronte alla cattedrale di Orvieto. Fu proprio lì (1261-1265) che il giovane maestro Tommaso d’Aquino rivolse la sua attenzio-

Parte dell’islam sollecita aspetti a noi vicini: pace e compassione ne alla nuova minaccia dottrinale alla Cristianità rappresentata dai nuovi filosofi del mondo musulmano. In quel tempo Federico II stava costruendo un’università nel sud dell’Italia per sostenere il lavoro dei filosofi islamici. Fu per mezzo delle loro prime traduzioni in arabo di Aristotele che questi grandi arabi presentavano Aristotele all’Occidente, mentre i grandi testi greci ancora non erano disponibili, se non addirittura sconosciuti. segue a pagina 28


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il giorno dell’Apocalisse

Islam e cristianesimo hanno iniziato a dialogare sull’immensità delle sofferenze umane. Ma le ragioni dei motivi per cui i tiranni devono essere rovesciati potrebbero tuttavia non essere le stesse c o n t i n u a d a p a g in a 2 7

Qualsiasi studente potrà ancora trovare una voluminosa documentazione di quell’incontro intellettuale tra d’Aquino e l’islam nella sua Summa Contra Gentiles, soprattutto nel Terzo Libro, sulla Provvidenza e sulla contingenza e libertà in questo mondo, e sulle due visioni contrastanti della relazione tra Dio e uomo, Dio e la libertà umana, Dio e la contingenza del mondo creato - quella musulmana e quella cristiana. Perché i musulmani - come sosteneva d’Aquino - appartengono tutti a Dio, alla sua iniziativa e alla sua azione, mentre niente appartiene all’uomo.

Anche le nostre intuizioni e i nostri giudizi erano considerati come intuizioni e giudizi di Dio, che l’uomo semplicemente riceve. Se le cose stanno così, d’Aquino obiettava: perché occorre studiare così tanto per conquistarle? Qualsiasi iniziativa e libertà da parte degli umani - argomentava d’Aquino - sembra trascurata e in un modo che andava contro un altro dogma fondamentale dell’islam. Il dogma è che dopo la morte ad ogni essere umano è riservato il paradiso o la dannazione, a seconda delle scelte e delle azioni compiute sulla terra. Gli esseri umani scelgono. Il Giudice ratifica le loro scelte con ricompense o punizioni. Questo dogma implica un immenso ruolo per la libertà e la responsabilità umane. Quali sono le implicazioni che questo profondo dogma assiale ha per una filosofia dell’uomo, una filosofia della libertà? E per una filosofia della politica? E comunque, tutto questo dialogo lungo due secoli tra musulmani, cristiani e ebrei venne condotto civilmente, sempre con cortesia filosofica e rispetto reciproco. L’apprendimento si verificò da entrambe le parti. In particolare, d’Aquino apprese diverse distinzioni-chiave su Dio dal suo studio dei filosofi arabi. In nessun posto la libertà occidentale fu così profondamente e vigorosamente difesa fino ad allora come in questo incontro di d’Aquino con la filosofia islamica a metà del XIII secolo. Questa è una delle ragioni, suppongo, per cui Lord Acton chiamava d’Aquino «il primo Whig». Il primo difensore intellettuale della persona umana e delle sue libertà e delle proprie responsabilità. Tuttavia, fu il contesto civile di quella conversazione intellettuale con i suoi interlocutori

musulmani che maggiormente incantò mio fratello e me. Infatti, Rich proseguì sulla sua strada per diventare prete, anche quando dopo molti anni di studio per me e per i miei direttori spirituali divenne chiaro che Dio mi chiamava in missioni diverse dal sacerdozio. Dal nostro incanto con d’Aquino e i musulmani (studiavamo nella stessa università), mio fratello sentì il richiamo di dedicare la sua vita alla civiltà e al riavvicinamento tra cristiani e musulmani. Per questo motivo accettò la decisione dei suoi superiori di andare a Dacca, per studiare l’arabo all’Università, e per iniziare il suo insegnamento al college di Notre Dame di Dacca, un istituto dal quale hanno ricevuto i primi rudimenti molti studenti del Bangladesh, oggi, e dove mio fratello è ancora venerato come «Padre Richard». Una sera di qualche anno fa, a Santa Maria in Trastevere, ci fu una cerimonia a lume di candela su richiesta di papa Giovanni Paolo II (il cui segretario mi informò che il papa diede Messa per mio fratello nel corso della sua visita in Bangladesh), in cui i superiori delle congregazioni missionarie di Roma camminavano uno per uno per leggere i nomi dei martiri missionari del XX secolo, il secolo che conta più martiri cristiani, fino ad ora, rispetto a qualsiasi secolo precedente. Senza che mi venisse preannunciato, sentii il nome di mio fratello rimbombare nel buio, mentre una candela in più veniva accesa su uno dei rami dei piccoli “alberi di candele” in quella meravigliosa antica basilica, sotto i gloriosi affreschi della sua sfavillante cupola. Mi piace pensare che «Padre Richard» un giorno sarà onorato nelle liste ufficiali dei Beati e dei Martiri della Chiesa come esempio vivente del desiderio di dare la propria vita - non nel modo che aveva previsto - per la comunione tra musulmani e cristiani.

Mio fratello non era un simulacro di pietà, era solo un ragazzo normale - a volte addirittura dall’umorismo irriverente e con un realismo che sembrava sgorgare direttamente dal candore dei Gospel. La fedeltà che nutro verso di lui, così come verso Cristo, spiega il motivo per cui credo che la causa per la quale è morto Padre Richard fosse, in maniera preveggente, la più vitale alla vita stessa della chiesa, della nostra civiltà, del nostro tempo.


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LA GUERRA AL TERRORE

Un passo indietro di Daniel Pipes on squilli di trombe e rulli di tamburi, la Casa Bianca all’inizio di agosto ha diffuso un documento su come prevenire il terrorismo che pare sia costato due anni di lavoro. Firmato personalmente da Barack Obama e ricco di retorica vanagloria, da «la forza delle comunità» a la necessità di «migliorare la nostra comprensione della minaccia posta dall’estremismo violento», il documento sembra solo un palliativo.

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Sotto la calma e la sicumera, tuttavia, si nasconde un approccio controproducente e pericoloso alla lotta al terrorismo. L’importanza di questo documento consiste nella sua ferma posizione in merito all’aspetto errato di tre distinte polemiche sull’antiterrorismo, con la destra responsabile (e alcuni progressisti sensibili) da una parte e gli islamisti, la sinistra e i multiculturalisti dall’altra. La prima polemica riguarda la natura del problema. La destra responsabile ravvisa una grossa minaccia nell’islamismo, un movimento ideologico globale che ha motivato circa 23 mila attacchi terroristici in tutto il mondo dall’11 settembre. Gli islamisti nega-

Natura dell’islam, radicale conoscenza del nemico e capacità di neutralizzarlo. Sono questi i temi che dividono repubblicani e democratici

no che la loro ideologia generi violenza e attribuiscono quei 23 mila attentati all’operato di criminali, di pazzi o di musulmani manipolati e fuorviati. E così la sinistra occidentale e i multiculturalisti, concorde, si batte per convogliare i suoi formidabili quadri, la creatività, i fondi e le sue istituzioni, a sostegno della causa che nega la responsabilità degli islamisti. Le audizioni tenute quest’anno dalla Camera dei Rappresentanti Usa spiegano bene questa differenza. Peter King (repubblicano di New York), a capo della Commissione per la Sicurezza nazionale, ha insistito sulla necessità di affrontare esclusivamente il problema della radicalizzazione dei musulmani.

Bennie Thompson, l’illustre democratico del Mississipi, si è risentito osservando che «c’è una varietà di gruppi estremisti domestici che sono più diffusi negli Usa rispetto agli estremisti islamici, e di questi gruppi fanno parte i neo-nazisti, gli estremisti ambientali, i gruppi antitasse e altri». Thompson ha chiesto che le audizioni siano «un esame a largo spettro dei gruppi estremisti domestici, a

prescindere dalle loro rispettive basi ideologiche». King ha respinto questa richiesta, controbattendo che «Se nel corso della nostra storia ci sono stati gruppi estremisti e atti di violenza fortuiti, gli attacchi di al-Qaeda dell’11 settembre e la minaccia in corso alla nostra nazione da parte del jihad islamico sono stati straordinariamente diabolici e minacciosi per la sicurezza dell’America».

La seconda polemica concerne le modalità per identificare il nemico. La destra e i partiti responsabili in genere parlano d’islamismo, di jihad e di terrorismo; pertanto, un documento del Dipartimento di Polizia di New York del 2007, Radicalization in the West: The Homegrown Threat (La radicalizzazione in Occidente: la minaccia interna, ndt.), fa riferimento nella prima riga alla «minaccia posta dal terrorismo islamico». Gli islamisti e i loro alleati parlano di tutto il resto – estremismo violento, al-Qaeda e le Associated Networks (soprannominato Aqan), operazioni di emergenza all’estero, disastri causati dall’uomo e (la mia favorita) una «lotta globale per la sicurezza e il pro-

gresso». Le forze del multiculturalismo si sono astutamente intromesse: il Dipartimento della Difesa Usa ha indagato sulla furia omicida scatenata a Fort Hood dal maggiore Nidal Hasan, che ha fatto 14 vittime, e il suo documento, Protecting the Force (Proteggere la forza pubblica), non ha mai menzionato il nome del terrorista né ha riconosciuto la sua palese motivazione islamista.

La terza polemica concerne la risposta appropriata da dare. La combriccola composta dai multiculturalisti, dalla sinistra e dagli islamisti trova la soluzione in un sodalizio con i musulmani, insieme all’enfasi da dare ai diritti civili, al giusto processo, alla mancanza di discriminazione, alla buona volontà e alla necessità di evitare delle reazioni violente. La destra responsabile è d’accordo con questi obiettivi, ma li vede come complementari alla faretra piena di strumenti utilizzati dall’esercito e dalle forze dell’ordine: come la raccolta d’informazioni, gli arresti, le lunghe detenzioni, le espulsioni, i procedimenti giudiziari e le incarcerazioni. seg u e a p a g i n a 3 0


Barack Obama interpreta la minaccia terroristica come un problema di sicurezza continua da pagina 29

Nelle acque agitate di queste tre polemiche si muove tentennando un documento della Casa Bianca di 4.600 parole, scritto male e disorganico, che sostiene con veemenza la posizione avallata unitamente dai multiculturalisti, dalla sinistra e dagli islamisti.

• La natura del problema? È rappresentata dai «neo-nazisti e altri gruppi fautori dell’odio anti-semita e della supremazia razziale, e dalle organizzazioni terroristiche interne e internazionali». • Dare un nome al nemico? Lo stesso documento non menziona mai la parola terrorismo. Il suo titolo, Empowering Local Partnesr to Prevent Violent Extremism in the United States (Conferire un maggior potere ai partner locali per prevenire l’estremismo violento negli Stati Uniti, ndt.), non menziona mai la parola terrorismo. • La risposta appropriata? «Proprio come ci mostriamo sensibili alle questioni legate alla sicurezza della comunità (come la violenza tra bande, le sparatorie a scuola, la droga e i crimini legati all’odio razziale) attraverso sodalizi e reti di funzionari governativi, gli uffici dei sindaci, le forze dell’ordine, le organizzazioni comunitarie e gli attori del settore

privato, così dobbiamo accostare la radicalizzazione alla violenza e al reclutamento di terroristi attraverso relazioni simili e andando a infuenzare quest’ultime con gli stessi mezzi e operazioni».

Sollevare delle questioni legate alla sicurezza della comunità rivela una grave carenza concettuale che il Los Angeles Times ha liquidato come “implausibile”. Il documento elogia il Comprehensive Gang Model elaborato dal Dipartimento di Giustizia, considerandolo una cornice flessibile che «ha ridotto i gravi crimini commessi dalle bande». Grandi novità nella battaglia contro le bande! Ma le bande sono delle imprese criminali e la violenza islamista è una guerra ideologica. I membri delle bande sono dei teppisti, gli islamisti sono fanatici. Compararli travisa il problema in questione. Sì, entrambi sfruttano la violenza, ma applicando le stesse tecniche a entrambi è come chiedere ai pasticcieri di avvisare i pompieri. L’unica frase presente in Empowering che riconosce il pericolo dell’islamismo riguarda un piccolo gruppo e così recita: «al-Qaeda e i suoi affiliati e adpti rappresentano la principale minaccia terroristica per il nostro Paese». Ciò ignora che il 99 per cento del movimento islamista non è collegato ad al-Qaeda, come ad esem-

pio il movimento wahhabita, i Fratelli musulmani, Hizb utTahrir, il governo iraniano, Hamas, Hezbollah, Jamaat ul-Fuqra, per non parlare poi dei cosiddetti lupi solitari. La repubblicana Sue Myrick (repubblicana del North Carolina) osserva giustamente che il documento politico «solleva più domande (…) che risposte». Le radici intellettuali di Empowered risalgono a un’iniziativa del 2004 finanziata da George Soros, la Promising Practices Guide: Developing Partnerships Between Law Enforcement and American Muslim, Arab and Sikh Communities redatta da Deborah A. Ramirez, Sasha Cohen O’Connel e Rabia Zafar.

Questi autori hanno spiegato la propria visione: «Le minacce più pericolose di questa guerra al terrorismo sono radicate nella riuscita diffusione della rabbia e della paura nei confronti di culture e popolazioni sconosciute». I tre hanno dichiarato che la minaccia più pericolosa non è il terrorismo islamista con le sue migliaia di vittime, ma un presunto pregiudizio diffuso nutrito dagli americani nei confronti delle minoranze. Come da me osservato nel 2004 «La guida potrebbe essere un aiuto per la lotta al terrorismo, ma il suo vero scopo è distogliere l’attenzione dalla sicurezza nazionale per privilegiare le comunità selezionate».


il giorno dell’Apocalisse

New York e Washington a rischio attentati Allerta intelligence e caccia all’autobomba L’AMERICA NON RIESCE proprio a dormire sonni tranquilli. Se non è presa dalle ansie per l’economia, viene tirata giù dal letto per gli allarmi terrorismo in questa vigilia del decennale dell’11 settembre. ll presidente degli Stati Uniti Barack Obama infatti ha disposto un potenziamento delle misure contro il terrorismo per affrontare una minaccia di attentati «credibile ma non confermata». Dove spesso l’unica conferma può essere data da un attentato andato a segno. Alla vigilia del decimo anniversario degli attacchi alle Torri gemelle dunque c’è ancora tensione. Fonti vicine al dipartimento di Stato e all’Fbi hanno affermato che la minaccia riguarda ancora una volta gli obiettivi prediletti dagli shahid del terrore: Washington e New York City. L’intelligence americana si sta concentrando su possibili attentati con auto-bomba e ha aggiunto che le informazioni su queste minacce provengono dal Pakistan. Intanto è in corso una caccia all’uomo nei confronti di due o tre soggetti, che sarebbero sospettati di avere legami con al Qaeda. Secondo indiscrezioni, nell’organizzazione di nuovi attacchi all’America sarebbero coinvolte almeno tre persone che sarebbero in precedenza entrate negli Stati Uniti e almeno uno di questi sarebbe un cittadino americano. Lo schema dell’attacco potrebbe prevedere un veicolo imbottito di esplosivo, ma i servizi segreti non avrebbero ancora un quadro completo della situazione. Sarebbe inoltre partita «una caccia su scala nazionale» ad almeno due veicoli presi a noleggio. Tuttavia le autorità statunitensi restano caute e un rappresentante della sicurezza nazionale ha affermato che secondo gli esperti la minaccia non si concretizzerà. Anche il sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha sottolineato che questa minaccia non ha trovato conferme pur annunciando un potenziamento delle misure di sicurezza. «Non c’è ragione perché qualcuno cambi qualcosa delle proprie abitudini quotidiane», ha dichiarato in conferenza stampa. Insomma dopo le polemiche per ciò che

alcuni hanno definito «allarmismo eccessivo» per l’uragano Irene, la politica diventa più cauta nelle dichiarazioni, ma la paura c’è. La Casa Bianca ha riferito che Obama ha ricevuto informazioni sulla minaccia ieri e ha sottolineato che il governo Usa ha già «potenziato l’assetto della sicurezza» alla vigilia dell’anniversario. E mentre le autorità prendono tutte le precauzioni del caso un sondaggio del think thank Brookings instituion ha rivelato che con la crisi economica non ancora alle spalle i cittadini americani ritengono che troppi soldi siano stati spesi nell’antiterrorismo dopo l’11 settembre 2001. Per il 59 per cento degli intervistati, la spese di Washington nella «guerra al terrorismo» hanno contribuito ad aggiungere instabilità alla congiuntura economica, mentre solo il 30 per cento è del parere opposto.

La Casa Bianca, prontamente informata dell’allarme, ha a sua volta aggiornato il Congresso sulla situazione e lo stesso hanno fatto le agenzie d’intelligence. «Sono state prese tutte le precauzioni del caso e il presidente ha chiesto di raddoppiare gli sforzi antiterrorismo», ha dichiarato il portavoce Jay Carney. Per il momento nessun cambio di programma per Obama: domenica sarà a Ground Zero, in Pennsylvania e a Washington per commemorare le vittime degli attentati. Secondo la Cnn, al Congresso circola «forte preoccupazione», nella convinzione che «nulla possa essere dato per scontato». Il dipartimento di Sicurezza nazionale «ha preso e continua a prendere tutte le decisioni necessarie per eliminare ogni tipo di minaccia qualora si presentasse» e «invita gli americani a rimanere vigili nel corso del fine settimana». Giovedì, il segretario alla sicurezza nazionale Janet Napolitano aveva affermato che l’intelligence Usa aveva rilevato «molto chiacchiericcio» su siti jihadisti all’avvicinarsi dell’anniversario degli attentati, ma ancora nulla che giustificasse un Pierre Chiartano) allarme terrorismo. (P

Ma la criminalità è fine a se stessa, la violenza islamista è una vera guerra ideologica Mentre il documento evidenzia in modo impeccabile i valori costituzionali americani e la necessità di lavorare con i musulmani, non dice però nulla circa il bisogno di fare una distinzione tra i musulmani islamisti e anti-islamisti. Empowering tratta con delicatezza il triste fatto che gli islamisti dominano la leadership delle organizzazioni dei musulmani d’America e i loro obiettivi sono maggiormente condivisi dai terroristi e non da chi è contrario al terrorismo. Il repubblicano King si preoccupa giustamente che il documento della Casa Bianca condanni «la legittima critica di certe organizzazioni radicali o di alcuni elementi della comunità dei musulmani d’America», qualcosa di urgentemente necessario per distinguere gli amici dai nemici.

10 settembre 2011 • pagina 31

Per meglio dire, la disponibilità dell’amministrazione Obama a collaborare con i musulmani che non accettano l’ordine costituzionale giustifica le positive reazioni mostrate dalle organizzazioni islamiste riguardo al documento. Il Council of American-Islamic Relations (Cair), un’organizzazione di copertura che appoggia i terroristi, l’ha elogiato dicendo che è «obiettivo e olistico», mentre il Muslim Public Affairs Council l’ha giudicato «molto utile». Al contrario, Melvin Bledsoe, padre di un convertito all’Islam, Carlos Bledsoe, che nel 2009 ha sparato e ucciso un soldato in un centro di reclutamento militare a Little Rock, in Arkansas, ha detto del documento: «Non si risolverà mai il problema, quando si continua solo a tergiversare intorno alle questioni». Ed Husain del Council of Foreign Relations lo boccia perché dice «poco e in modo preoccupante» e perché si prefigge in primo luogo di «non offendere i musulmani». In breve, un’organizzazione collegata ai terroristi va in brodo di giuggiole per l’affermazione di una pseudo-politica antiterrorismo, mentre il padre addolorato di un terrorista la ricusa in modo sprezzante. Questo è sintomatico.E adesso, con la consacrazione di uno studio marginale a politica nazionale? Non ci sono scorciatoie: chi vuole una vera politica antiterroristica dovrà lavorare per rimuovere la sinistra e i multiculturalisti dal governo.


ULTIMAPAGINA Si chiude oggi la 68esima edizione del Festival del cinema. A contendersi il Premio, Polanski, Clooney, Sokurov e...

L’ultimo duello a singolar di Alessandro Boschi a premiazione di Marco Bellocchio con il Leone d’oro alla carriera rappresenta una luce artistica di cui si sentiva la necessità a fronte di una Mostra piuttosto modesta come quella di quest’anno. Tanto più che a consegnare il riconoscimento al regista di Bobbio sarà un altro gigante del nostro cinema, Bernardo Bertolucci. Bellocchio ha sempre rappresentato con le sue opere la necessità di opporsi all’immanenza del potere e la difficoltà di sfuggire anche le sue più nascoste manifestazioni. Riteniamo che uno dei poteri più forti, in quanto non percepito come tale, sia quello detenuto dai cosiddetti operatori culturali. Da coloro cioè che dettano i parametri artistici che nelle loro intenzioni dovrebbero essere riconosciuti come punti di riferimento di un pubblico sempre più disorientato, facile preda di abbagli davvero grossolani. E questo spesso accade anche in circostanze che coinvolgono registi e autori seri e rigorosi come ad esempio Cristina Comencini. Il suo film, Quando la notte, non è piaciuto affatto. Ma questo fa parte delle regole del gioco. Però c’è altro. La sceneggiatura è tratta dal suo romanzo omonimo edito da Feltrinelli. Ora, con tutto il rispetto, è pur vero che Fabio Volo nel giro di pochi anni (pur essendo egli stesso il primo a stupirsene) è diventato un guru di imponenti masse di lettori, ma se vi capiterà di leggere il libro o vedere il film vi accorgerete di quanto fragile sia la trama e di quanto improbabili siano i dialoghi.

L

Tra le note positive di questa Mostra un po’ fiacca, il Leone d’oro alla carriera consegnato a Marco Bellocchio da Bernardo Bertolucci Cosa spinge quindi una prestigiosa casa editrice a pubblicare un libro e un produttore (Rai Cinema, Cattleya) a mettere in piedi un’operazione cinematografica così modesta? Non è dato dirlo, ma di fatto questo è ciò che accade, a fronte di cineasti e scrittori che magari meriterebbero almeno una possibilità. Intendiamoci, ognuno con i propri soldi fa ciò che vuole, anche perché Quando la notte non ha avuto contributi statali, ma è un fatto che quelli della Rai, i soldi, un po’nostri lo sono. È per questo che intraprese culturali di tale fatta ci fanno pensare, perché non possiamo accettare che un film del genere, e un libro del genere, diventino parametri culturali. Consoliamoci quindi con Bellocchio e Bertolucci, nella convinzione che la regista romana saprà presto riprendersi da questo infortunio. E godiamoci la nuova versione del film di Bellocchio Nel nome del padre. Film girato circa quarant’anni fa, Nel nome del padre è ricco di metafore e simboli, a cominciare dai nomi affibbiati ai personaggi. Si svolge in un istituto religioso nel 1958, anno della morte di Pio XII, uno che in quanto ad autorità non ci andava leggero. La curiosità dell’operazione è che non si tratta di una semplice riproposizione o di un restauro. È un vero e proprio director’s cut che, curiosamente, dura meno dell’originale. Si vede che maturando si è più portati all’essenzialità. Seguendo il precetto di Robert Louis Stevenson che, riferendosi alla scrittura,

VISIONE diceva che il segreto è «omettere, omettere, omettere». Encomiabile lo sforzo di Cinecittà Luce che subito dopo la chiusura della Mostra distribuirà la pellicola nelle principali sale cinematografiche italiane.

Manca davvero poco alla chiusura di questa 68^ edizione e inevitabile come ogni anno parte il toto Leone. È dal 1998 che l’Italia non si aggiudica il Leone d’oro. In quell’anno trionfò Gianni Amelio con Così ridevano. Da allora solo qualche Coppa Volpi, qualche premietto di seconda categoria e niente più (a proposito, occhio a Gipi e al suo L’ultimo terrestre, che potrebbe aggiudicarsi quello come migliore opera prima). Temiamo che questa edizione non invertirà la tendenza. Oltre ai due titoli citati completa il terzetto nostrano Terraferma di Emanule Crialese, sul quale ci siamo già pronunciati e il nostro

In alto, il regista Marco Bellocchio. Qui sopra, uno scatto di George Clooney. A fianco, un’immagine di Roman Polanski

giudizio era piuttosto vicino a quello appena espresso sul film di Cristina Comencini. Altro anno di transizione per il nostro cinema quindi (ma nelle altre sezioni c’è decisamente qualcosa di buono, magari meritevole di essere inserito in concorso). Secondo noi chi si giocherà il titolo, lo scudetto di celluloide, saranno Carnage di Roman Polanski, Le idi di Marzo di George Clooney, La talpa di Tomas Alfredson e naturalmente il bellissimo Faust del maestro Aleksandr Sokurov, vera e forse unica opera di una grandiosità tale che solo lui avrebbe potuto regalarci. Aggiungiamo anche Tao jie (A simple life) di Ann Hui, ma solo perché ci ha commossi con una misura e un rigore difficili da mantenere quando si tratta un tema come la vecchiaia, che come pochi altri sa «intingere le sue dita nel nostro cuore». Polanski, se ce la facesse, sarebbe uno dei pochissimi (Roberto Altman?) ad essersi aggiudicato tutti i festival europei più prestigiosi, quello di Berlino e quello di Cannes. Oltre naturalmente all’Oscar. Secondo noi ha un solo handicap, che è quello di essere“passato”troppo presto, non potendo quindi contare sull’attesa che con una collocazione diversa si sarebbe creata. E a proposito di collocazione andrebbe detto che forse i film in concorso sono stati davvero troppi, e gli addetti ai lavori hanno dovuto affrontare un vero e proprio tour de force per vederseli tutti. Il che è per lo meno strano, in quanto il nostro lavoro dovrebbe essere reso il più semplice possibile. Immaginiamo che la Mostra abbia bisogno di chi ne scrive, anche se sono solo piccoli operatori culturali. E magari avrebbe avuto anche bisogno di qualche bel film in più: ci domandiamo a cosa si riferisse il direttore Marco Müller quando durante la conferenza stampa di presentazione parlava di «ciambella riuscita col buco». Forse a quello del Palazzo del cinema, quello sì davvero notevole.


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