2011_09_13

Page 1

ISSN 1827-8817 10913

Fare facilmente ciò che gli altri

he di cronac

trovano difficile è talento; fare ciò che è impossibile al talento è genio

9 771827 881004

Henri Frédéric Amiel di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il premier è a Bruxelles. La manovra economica alla Camera: il voto di fiducia forse già domani

Berlusconi come Andropov Mezzo Pdl vuole la perestroijka. Ma lui ormai dice solo «niet» Sono sempre di più quelli che gli consigliano di lasciare. Ma il Cavaliere resiste. E respinge anche gli inviti centristi per un “patto di fine legislatura”. Gli amici rivelano: «Ha paura di finire in carcere» AUTOLESIONISMI

Un’altra giornata nera per le Borse

Chiudersi nel bunker è irresponsabile. Anche per lui

Pressing dell’Ue: «Italia, servono nuove misure» I timori del default della Grecia affossano i mercati. Milano perde 3,9%. Non bastano nemmeno le rassicurazioni di Trichet: «È vero, la crescita è lenta ma il mondo non è in recessione» Francesco Pacifico • pagina 6

La tesi dell’analista dell’American Enterprise Institute

Attenti, se l’Euro crolla travolgerà anche gli Usa di Desmond Lachlan urante le elezioni del 2008, la vittoria di Barack Obama venne agevolata in gran parte dalla crisi finanziaria. Nel 2012 il presidente potrebbe scoprire quanto è vero quel detto che recita che, in politica, ciò che arriva deve tornare in circolo. E la sua corsa per la rielezione rischia di essere caratterizzata, per la seconda volta, da un’altra crisi finanziaria. La differenza principale fra quella e questa, è che la seconda non è nata negli Stati Uniti ma in Europa. E si tratta di una crisi su cui il presidente Obama non ha alcun controllo. Se giudichiamo rispetto agli eventi più recenti, la fine dei giochi per l’Eurozona non sembra essere troppo lontana. Le riforme economiche e fiscali messe in atto dalla Grecia sembrano essere veramente fuori binario, e la crisi del debito si è propagata: da Atene è arrivata al Portogallo, all’Irlanda. Poi alla Spagna e all’Italia che sono troppo grandi sia per fallire sia per ottenere credito. a pagina 6

D

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

di Osvaldo Baldacci

Il parere di Capotosti

Lavori in corso

«Tranquillo, Anche se fa un passo la Chiesa cerca indietro una nuova non rischia frontiera la galera» politica di Franco Insardà

di Luigi Accattoli

Gli «intimi» dicono che il Cavaliere non vuole lasciare perché ha paura della galera. «Nessun rischio», lo rassicura Capotosti. a pagina 4

Che intende il cardinale Bagnasco quando per tre volte propone ai cattolici impegnati in politica di farlo “insieme”? a pagina 5

apire quando è arrivato il momento di uscire di scena e soprattutto saper uscire bene è molto importante. Quando la crisi diventa conclamata e ciononostante si cerca di resistere a oltranza in un bunker, questo pregiudica il presente, il futuro e anche i giudizi dei posteri. E per di più dà sempre più fiato ai nemici estremisti e giacobini mettendo in difficoltà i moderati sia tra gli amici sia tra gli avversari. È sempre successo così nella storia, e continua a succedere. Silvio Berlusconi dovrebbe prendere spunto dalle vicende storiche e ascoltare gli amici più fidati. Non lo ha fatto in questi ultimi anni e così ha perso un’occasione dopo un’altra.

C

a pagina 2

Scoppio in un impianto vicino ad Avignone: un uomo è morto

Francia, allarme nucleare Rogo nella centrale: «Nessuna fuga radioattiva» di Massimo Fazzi n’esplosione, e in Francia torna l’incubo del nucleare. A sei mesi esatti dalla tragedia di Fukushima, ieri uno scoppio ha scosso il reattore di Marcoule nel Gard (uno dei più vecchi del Paese), con conseguente rischio di fuga radioattiva. La centrale di Marcoule è sul fiume Rodano, a Nord di Avignone e Marsiglia, non troppo distante dall’Italia (242 km in linea d’aria da Ventimiglia). Poco dopo le 16, l’Agenzia francese per la sicurezza del nucleare (Asn), che vigila sul settore atomico e sulla protezione dei consumatori, ha comunicato che l’incidente di Marcoule era “chiuso”. a pagina 14

U

• ANNO XVI •

NUMERO

177 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

pagina 2 • 13 settembre 2011

Il vero errore: non aver mai accettato consigli

Chiudersi nel bunker è irresponsabile di Osvaldo Baldacci apire quando uscire di scena e saper uscire bene è molto importante. Quando la crisi diventa conclamata e ciononostante si cerca di resistere a oltranza in un bunker, questo pregiudica il presente, il futuro e anche i giudizi dei posteri. E per di più dà sempre più fiato ai nemici estremisti e giacobini mettendo in difficoltà i moderati sia tra gli amici sia tra gli avversari. È sempre successo così nella storia, e continua a succedere. Silvio Berlusconi dovrebbe prendere spunto dalle vicende storiche e ascoltare gli amici più fidati. Non lo ha fatto in questi ultimi anni e così ha perso un’occasione dopo un’altra.

C

Quando c’era Prodi al governo gli era stato consigliato, prima di tutto dall’Udc, di non tentare invano la spallata a oltranza ma di concentrarsi su un’opposizione responsabile, guadagnando credibilità in attesa dell’inevitabile. Rifiutò (ci fu persino il voto contro le missioni di pace italiane), e nacque la doppia opposizione. Inevitabilmente franato il governo Prodi, le porte erano spalancate per il trionfo della Casa delle Libertà, e gli consigliarono di evitare di arroccarsi su un predellino, di non temere Veltroni e il Pd ma piuttosto di cogliere la necessità di far maturare un vero partito dei moderati, senza fughe in avanti. Rifiutò, e il Pdl gli è esploso in mano, insieme al bipolarismo e alle relazioni con molti degli amici ed alleati di sempre. Gli è stato consigliato di tenere a bada i suoi fan più estremisti, e invece i suoi media hanno scatenato una caccia all’uomo contro ogni alleato. Quasi due anni fa l’Udc gli suggerì di rinunciare all’autosufficienza e di fare un appello alle forze responsabili dell’opposizione per costruire insieme un’agenda per l’Italia, lui è rimasto sordo e i risultati per l’Italia ma anche per il consenso politico del premier sono sotto gli occhi di tutti. Sempre l’Udc l’anno scorso gli chiese di fare un passo indietro in nome del bene comune italiano, e di aprire a un governo di larghe intese, al limite persino guidato da lui o comunque da una persona di sua fiducia, e invece di lì a poco Berlusconi ha preferito consegnarsi nelle mani dei responsabili. Più si arrocca su se stesso, più lascia passare i treni senza prenderli, e più si restringe il raggio delle possibilità. Ancora recente, di fronte alla crisi internazionale che sta devastando l’Italia, la pressante richiesta delle stesse forze politiche responsabili come l’Udc ma anche delle parti sociali affinché il governo governi o si faccia da parte, e in particolare il premier, in evidente crisi di credibilità e sempre più sulla linea di spaccare il Paese, faccia un passo indietro. Respinta al mittente anche questa offerta, e di settimana in settimana il prezzo lo paga l’Italia, e con lei gli italiani sempre più esacerbati, e prima di tutto nei suoi confronti. Possibile che non lo capisca? Davvero Berlusconi pensa di essere (politicamente) immortale? Non si rende conto che tirarsi indietro per il bene dell’Italia è per lui un credito? Che fare un gesto responsabile gli permette di avere una voce in capitolo o comunque di lasciarla in eredità a chi gli sta vicino? Non si accorge – proprio lui del giacobinismo che avanza inesorabile e guadagna strada giorno dopo giorno, rischiando di travolgere tutto e tutti, in politica e in economia, mentre sarebbe meglio lasciare spazio a un governo che si dedichi solo al bene dell’Italia e non perda tempo in vendette? Non si rende conto che un passo indietro ora, subito, è un bene per l’Italia e un’opportunità, forse l’ultima, per lui?

il retroscena Berlusconi appare come Andropov; ma non si sa chi sarà il nuovo Gorbaciov

Sembra il Pcus: sta per esplodere Lavorano al dopo Alemanno e Formigoni ma anche scajoliani e responsabili, più pezzi sparsi di partito. L’ora x della ”rivoluzione” potrebbe essere dopo la manovra di Riccardo Paradisi l richiamo all’ordine di Fabrizio Alfano – “Chi rema contro è fuori” – è il segnale che le fronde del Pdl hanno alzato il livello dello scontro interno. Che correnti e gruppi interni al partito stanno cioè passando dall’arma della critica sotterranea e allusiva alla polemica esplicita addirittura condotta con poco complimentosi inviti a Berlusconi di fare un passo indietro e lasciare il disturbo. Non sono solo autorevoli fonti interne al partito a confermare questa concreta possibilità, parlano le iniziative e le prese di posizione ormai sempre più spudorate di esponenti di primo piano del Pdl che ormai hanno rotto ogni indugio. Insieme all’outsider Beppe Pisanu infatti, che ormai da mesi parla dell’esigenza d’un governo di decantazione e di responsabilità nazionale favorito dalle dimissioni del premier, arrivano le parole del sindaco di Roma Alemanno, che chiede espressamente al premier di farsi da parte e quelle del governatore del Lazio Renata Polverini mobilitata anche lei contro i tagli agli enti locali: «Berlusconi ha perso credibilità e reputazione».

I

Quello del sindaco di Roma non è solo lo sfogo di uno dei capi della rivolta contro i tagli agli enti locali, c’è una strategia nelle prese di posizione dell’ex leader della destra sociale. Da anni Alemanno coltiva rapporti virtuosi con il governatore della Lombardia Formigoni, un asse che da almeno un lustro mira a contendersi la successione a Berlusconi. Ebbene ora questa intesa è destinata a saldarsi in un’escalation strategica che comprenda nella costruzio-

ne d’un fronte per l’alternativa del Pdl strette interlocuzioni anche con l’ex ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, forte di una quarantina di deputati e con il ministro degli Interni e aspirante leader leghista Roberto Maroni. «Così non si può andare avanti -chiosa Alemanno - non si può aspettare il 2013 inermi».

Lo stesso Formigoni parla ormai chiaramente. Non si spinge ad appelli per il lancio della spugna però invita Alfano a non giocare più sull’equivoco: «Il premier sta facendo capire in tutte le maniere che nel 2013 non si ricandida. È così chiaro che inviterei tutti gli amici a smetterla di fare balletti sul nulla...». Per non dire dell’atteggiamento di Formigoni sulla partita degli enti locali, non secondo al duo laziale Alemanno-Polverini in quanto a vis polemica: «La Manovra ha praticamente azzerato i trasferimenti dello Stato alle Regioni per il trasporto pubblico locale e altri servizi. È scomparso un miliardo e mezzo di euro. I treni non vanno ad aria compressa, purtroppo. Ci vogliono i soldi per farli funzionare e questi soldi ad ora sono scomparsi». Dalla sponda alleata è il sindaco di Verona Tosi, megafono del non detto leghista e in particolare del dissenso maroniano, a farsi latore della stessa tesi: «Un ciclo ormai è concluso e la cosa migliore sarebbe che Berlusconi si facesse da parte». Ultima ma non ultima il ministro della Gioventù Giorgia Meloni. Anche lei tiene la bocca cucita su Berlusconi ma ha una voglia matta di primarie. La sua posizione è allineata a quella della corrente ex An larussiana: il premier non è in discussione ma si spera arri-


l’intervista

«Non illudiamoci, è il partito della paura» Alessandro Campi: la maggior parte dei berlusconiani non vede alternative al leaderismo di Errico Novi

ROMA. Ma davvero è possibile la rivoluzione nel Pdl? A esprimersi con forte scetticismo sulla questione è un politologo come Alessandro Campi, da anni impegnato ad analizzare le vicende del centrodestra sia in ambito accademico che come editorialista sui giornali. «Credo che ci sia in molti un sussulto di coscienza: nel senso che i cosiddetti conservatori del Pdl comprendono quanto sia difficile proporre nel centrodestra un modello alternativo al berlusconismo. Temono che i tentativi di introdurre elementi di netta discontinuità, come le primarie, possano rompere quella coerenza interna comunque assicurata da questo schema. Gli esiti di un simile trauma, pensano, sarebbero imprevedibili e anzi potrebbero tradursi in una disgregazione». Chi non si muove, dunque, «ha paura di cambiare perché sta ormai da anni dentro a quel sistema, che è fortemente connotato in senso leaderistico e gerarchico. È un partito cesarista e chi ne fa parte spesso non immagina formule alternative». Altri che invece paiono muoversi per preparare la grande rivoluzione «sono a loro volta sollecitati dalla paura, temono cioè che tutto posa saltare per aria e quindi si affannano alla ricerca di una soluzione. Ma dietro le loro iniziative non mi pare di scorgere i presagi di un nuovo progetto politico che possa ricomporsi». Descritta così, e da un analista che ben la conosce, la realtà del Pdl non parerebbe lasciare grandi

margini agli “avanguardisti”. Nel senso che l’istinto di conservazione è abbastanza forte da esporre – tra un po’ di tempo, se non subito – chi vuole cambiare a forme di sostanziale rimozione del dissenso. La valutazione dell’editiorialista e professore dell’università di Perugia parte dalla storia stessa del partito berlusconiano: «Verrebbe da dire che per quanto la gratitudine non sia una virtù politica molto praticata, in tanti si rendono conto che la loro personale vicenda deve

Chi in privato ipotizza cambi di scenario è mosso solo dalla preoccupazione che tutto salti per aria, non ha un vero progetto

quasi tutto al Cavaliere. Quasi tutti sono stati beneficiati dalla sua azione, dai suoi successi, dalle sue scelte. Berlusconi ha pescato dal mazzo alcuni, schierandoli in prima linea, e condannato di fatto all’oblio altri. Le sue decisioni sono state decisive e ineluttabili per tutti, nel Pdl». Questo, secondo Campi, giustifica anche l’atteggiamento contraddittorio di chi «prefigura scenari diversi nei conciliaboli, nelle conversazioni private» e che però poi «ben si guarda dall’esprimere quelle stesse valutazioni su Berlusconi in pubblico». Anche chi pare esercitarsi nell’ordire trame e preparare avvicendamenti, dunque,

vi presto il suo annuncio ufficiale a non ricandidarsi. Intanto nel Pdl è tutto un incrociarsi di sguardi sospetti: ognuno vigila a che l’altro non parta per la fuga e si tiene d’occhio chi, magari sotto la pressione d’un ulteriore aggravarsi della crisi economico finanziaria non decida alla fine di staccare la spina alla maggioranza e al governo. Tra i principali sospettati: gli scajoliani, che potrebbero essere pronti ad agire d’intesa assieme ai Responsabili e in accordo con i centristi. Certo, per ora Berlusconi non dà segni di cedimento. Respinge ogni profferta di salvacondotto, chiede ai suoi fedelissimi, primi tra tutti Letta e Fedele Confalonieri, di non insistere con questa storia della exit strategy ma certo avverte anche lui la gran voglia di perestrojka che soffia dentro il partito, sente distintamente l’attività di faglia che sotto i suoi piedi scuote il partito che lui ha fondato dal predellino d’un auto.

alla fine non viene allo scoperto e non passa all’azione perché si rende conto che «ci vorrebbe davvero una rivoluzione, anche politicoculturale: una rottura capace di andare davvero oltre Berlusconi. Solo così si potrebbe mettere in discussione in modo non velleitario la sua leadership».

E qui interviene, secondo il politologo, anche un giudizio della vicenda berlusconiana che ne riconosca «la coerenza interna». Nel senso che «il berlusconismo non è solo un fenomeno personalistico, ma è un sistema di pensiero, uno stile politico, che ha appunto una sua coerenza, certo fondata sul cesarismo, per cui uno è il più simpatico e il più efficace e gli altri si mettono in fila dietro ordinatamente». E però proprio per questo risulta difficile introdurre novità come le primarie: «È davvero difficile immaginare una competizione interna normale. Anche perché si capisce facilmente che non potrebbero mai esserci primarie con Berlusconi. Sia perché se lui partecipasse non ci sarebbe storia, e anche perché il Cavaliere non accetterebbe mai un confronto che lo metta sullo stesso piano degli altri». Va aggiunta, sostiene l’editorialista di Mattino, Libero e Foglio, «l’assuefazione dell’elettorato, assolutamente abituato a quel modello carismatico, cesarista: al punto da additare come traditore chiunque metta in dubbio il leader. Da ultimo è capitato a Tremonti». E i ribelli più o meno riconoscibili? E quelli come Alemanno e Formigoni che già si preparano a scendere nell’agone delle prima-

alle polveri. L’ora x, se ci sarà, scatterà sicuramente dopo la manovra. È in quella fase che le variabili indipendenti della crisi e delle inchieste giudiziarie potrebbero indurre qualcuno a far saltare il tavolo.

Intanto prosegue il pressing da parte dell’opposizione. A cominciare dal presidente dell’Udc Rocco Bottiglione che la settimana scorsa, in un’intervista al quotidiano Avvenire, aveva proposto un salvacondotto per il premier in cambio d’un suo passo indietro: «Berlusconi non ha in Europa il credito necessario e non è

rie? «Mi pare che ci sia più che altro la legittima preoccupazione per come vano le cose. Ma tutti vedono come tale dissenso non riesca a tradursi in chiave politica. Come le prese di posizione vadano e vengano in modo confuso. E la confusione è un tratto caratteristico di questi stati di agitazione legati soprattutto alla paura». C’è anche una sindrome quasi brezneviana, forse, nel partito del Cavaliere. Che vede alcuni dare l’impressione di agire come se Berlusconi fosse effettivamente già fuori dai giochi, come se fosse proprio scomparso già dalla scena. E altri aggrapparsi tenacemente alla sua figura, quasi tenerla in ibernazione, anche per godere dei vantaggi previsti per gli eredi testamentari, per chi cioè si trova in linea diretta nella filiera di comando e dunque può rivendicare un primato fin tanto che sussiste il vertice. Campi non respinge tale interpretazione, almeno come chiave per spiegare i comportamenti dei singoli. È ancora tutta da dimostrare però, a suo giudizio, la possibilità di «trasformare nel profondo le strutture e lo schema del Pdl con Berlusconi ancora vivente. Altro è il tentativo intrapreso da Alfano per rinnovare il partito sul piano organizzativo. Ma per il resto, più che una grande preoccupazione che tutto salti per aria, non mi pare di vedere».

volevano fare la rivoluzione ma volevano il permesso dell’Imperatore. Non si fa la rivoluzione con il permesso dell’Imperatore, si va dall’Imperatore e gli si dice: ”Maestà, c’e’ la rivoluzione, deve andare via”». Parole di buon senso politico. Ma in Italia c’è anche un’altra opposizione, quella con cui il Pd s’ostina a voler intrattenere rapporti di presunta egemonia. S’esprime così il capo dell’Idv Di Pietro «È la fine del regime. È successo a Saddam con il suo portavoce che diceva che stava vincendo la guerra e invece c’erano i carri armati americani che gli stavano dietro. Sta succedendo a Berlusconi, che né più né meno è un piccolo rais».

Il governatore della Lombardia alza il tiro anche sulla partita degli enti locali: «La Manovra ha azzerato i trasferimenti dello Stato alle Regioni per il trasporto pubblico locale e altri servizi. Sono scomparsi 1,5 miliardi»

E ci vuole l’ottimismo della volontà del ministro Gelmini per diramare comunicati come quello che consegna alle agenzie il titolare del ministero dell’Istruzione: «Quelli che chiedono a Berlusconi di farsi da parte rappresentano “voci isolate”. Il Pdl è unito e compatto». Il Pdl naturalmente non è né l’una né l’altra cosa. Non si spiegherebbe sennò perché il sottosegretario alla Cultura Giro, bondiano di ferro, sulla scia di Alfano si affretti a infliggere reprimende a quelli che chiama ”i disfattisti” del Pdl. La realtà è che per ora nessuno ha convenienza di dare veramente fuoco

in grado neppure di tenere unita la sua coalizione. Se facesse un passo indietro non ci saranno vendette, non andrà al governo una maggioranza che vuole la morte di Berlusconi. Lui è un ostacolo che ci impedisce di affrontare la difficoltà». Buttiglione rivolge un appello alla maggioranza: «Abbiate il coraggio di fare ciò che è giusto per il Paese». Ma è nel Pdl che qualcuno deve agire se è convinto che la soluzione sia aprire a una fase di collaborazione nazionale. Solo che, dice Buttilgione, non si può fare la rivoluzione con il permesso dell’imperatore: «Il Pdl mi ricorda i socialdemocratici tedeschi nel 1918:

Con queste perle di moderatismo rischia d’eternarsi il permanere della vuota dialettica pro-contro Berlusconi che ha paralizzato l’Italia per quindici anni. E che ora rischia di gettarla nel baratro. Per questo Marco Follini, esponente moderato del Pd, interviene sul merito della questione indicando una via ragionevole per uscire dal buco nero dentro il quale s’è ficcato il Paese: «Penso che se il Partito democratico vuole regalare a Berlusconi i tempi supplementari deve solo stringere un’alleanza a sinistra sul modello del ’94.Vorrei ricordare che nel 2008 ci siamo caratterizzati diversamente e credo che una forza riformista debba avere anche una delimitazione alla sua sinistra. Bersani non può dimenticare che il destino del riformismo italiano si gioca sulla sua capacità di fare le proposte giuste e di sottrarsi alle alleanze sbagliate».


l’approfondimento

pagina 4 • 13 settembre 2011

Due giuristi si confrontano sulle conseguenze legali (e non solo quelle) legate all’eventuale addio di Berlusconi

Il salvacondotto

Gli intimi del Cavaliere ripetono che il premier teme di lasciare perché ha paura di andare in galera. Capotosti: «Se fa un passo indietro, non corre alcun rischio» Pecorella: «Il problema è politico, non è giuridico» di Franco Insardà

ROMA. L’uomo è da sempre quello delle esagerazioni e anche in questo caso non si smentisce. Al consiglio di due amici come Fedele Confalonieri e Gianni Letta ”di considerare un percorso che lo guidi fuori dalla presidenza del Consiglio senza scossoni e soprattutto con un iter concordato. In tutti i suoi aspetti”, avrebbe risposto perentoriamente: «Non mi dimetto, andrei in galera».

Secondo Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale si tratterebbe di «un’ipotesi, tra virgolette assurda. Le eventuali dimissioni di Berlusconi da presidente del Consiglio non lo metterebbero assolutamente nella condizione di essere arrestato. Al massimo si potrebbe prefigurare una richiesta da parte dei pm di misure cautelari, ma non sarebbero mai operative, se non dopo l’eventuale autorizzazione da parte della Camera di appartenenza.

La cosa mi sembra assolutamente inverosimile. E alla fine della legislatura sicuramente il presidente Berlusconi si ricandiderà ed avrà ancora la copertura dell’articolo 68 della Costituzione».

Gaetano Pecorella, avvocato e deputato del Pdl, concorda che le dimissioni da presidente del Consiglio «non cambiano nulla, perché la Camera deve comunque autorizzare l’eventuale richiesta di arresto. Sul piano giuridico non c’è alcun fondamento, quindi, sia l’ipotesi che con le dimissioni da premier non abbia garanzie, sia quella del salvacondotto. Sul piano politico il discorso è completamente diverso: un conto è emettere un provvedimento restrittivo nei confronti del presidente del Consiglio e provocare il crollo dell’immagine del Paese e della Borsa, cosa diversa, invece, sarebbe la stessa richiesta per un semplice parlamentare. Certamente la

carica di presidente del Consiglio è una forte garanzia, non sul piano giuridico, ma su quello più propriamente politicoistituzionale. Per quanto riguarda il cosiddetto salvacondotto non avrebbe motivo di essere, perché le leggi o sono buone o non lo sono. Ma può succedere che si preveda che possa passare una certa normativa, perché non sarebbe più “ad personam”, nel senso che non sarebbe più il presidente

«Si dovrebbe richiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere»

del Consiglio a ispirarla, ma sarebbe il risultato di una trattativa politica. Ritengo, però, che in un sistema in cui c’è una Corte costituzionale, un Parlamento, un presidente della Repubblica si possa fare un accordo per far passare una legge che porti alle dimissioni del premier. Non si capirebbe per quale motivo quello che non si poteva fare prima, perché c’era Berlusconi a Palazzo Chigi, si possa fare dopo le sue eventua-

li dimissioni, Mi sembrano delle fantasie della politica». Sulla stessa linea Capotosti: «Questo ventilato salvacondotto mi sembra una cosa assolutamente strana, anomala e non prevista dal nostro sistema costituzionale. Avrei, quindi, molti dubbi sulla costituzionalità di un’eventuale norma che sarebbe “ad personam”. Arrestare un parlamentare non è possibile se non c’è l’autorizzazione preventiva da parte della Camera di appartenenza. Si tratta, quindi, di una procedura complessa che passa attraverso la giunta per le autorizzazioni a procedere e per l’Aula. Anche nell’ipotesi di reati che possano essere configurati come ministeriali, cioè compiuti nell’esercizio delle funzioni di presidente del Consiglio, occorrerebbe pur sempre l’autorizzazione della Camera di appartenenza».

Ma esiste una sorta di exit strategy? Il presidente Capotosti propone: «Per sancire non


«Insieme» ha ripetuto per tre volte, ad Ancona, il presidente dei vescovi italiani

L’unità politica è finita, ma i cattolici lavorino insieme L’appello del cardinale Bagnasco (come quello del Papa) non mira a creare nuovi partiti, ma a riportare certi temi al centro della politica di Luigi Accattoli he intende il cardinale Bagnasco quando per tre volte propone ai cattolici impegnati in politica il logo o motto “insieme”come condizione per l’efficacia? Io credo che non miri a riproporre l’unità in un solo partito ma di sicuro mostra di non accontentarsi dell’attuale dispersione conflittuale. La sua è una chiamata a inventare forme nuove di convergenza, elastiche ma efficaci, a promozione dei valori “irrinunciabili”. L’appello del presidente della Cei ai cattolici che si pongono «al servizio della città», formulato giovedì scorso ad Ancona, in un momento alto del Congresso Eucaristico, ha una formulazione più chiara rispetto a precedenti “chiamate”di analogo tenore e merita di essere visto in dettaglio, almeno nel passaggio in cui figura tre volte l’avverbio “insieme”, che viene dopo il richiamo dei «principi irrinunciabili e irriducibili, che costituiscono come il codice genetico imprescindibile dell’impegno cristiano nella società complessa».

C

«È insieme – ha detto il cardinale durante un’omelia nella cattedrale di Ancona – che si percorrono le vie del servizio se non si vuole essere velleitari ancorché generosi: insieme, senza avventure solitarie, per essere significativi ed efficaci: insieme secondo le forme storicamente possibili, con realismo e senza ingenuità o illusioni, facendo tesoro degli insegnamenti della storia». Per una lettura avvertita, occorre una minima inquadratura storica di questo richiamo. Sono tre anni pieni che il Papa per primo e i nostri vescovi al suo seguito vengono sollecitando dalla comunità cattolica un massimo di sforzo per la formazione di una “nuova generazione” di cittadini impegnati nella società e nella politica. Il primo appello lo fece Benedetto in visita a Cagliari nel settembre del 2008, il più recente l’abbiamo udito il 7 maggio scorso, durante la visita ad Aquileia: «Raccomando anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico». Poco dopo – ma sempre in maggio – il cardinale Bagnasco rilanciava ancora una volta l’indicazione papale ad apertura dell’assemblea dei vescovi: «Affinché l’Italia goda di una nuova generazione di politici cattolici, la Chiesa si sta impegnando a formare

aree giovanili non estranee alla dimensione ideale ed etica, per essere presenza morale non condizionabile».

Lette in questa sequenza, le più incisive tra le parole dette da Bagnasco ad Ancona risultano quelle che fanno riferimento all’attuale contesto storico e politico: «Insieme secondo le forme storicamente possibili, con realismo e senza ingenuità o illusioni». Nel dibattito sul “disagio dei cattolici”, che ha occupato

La Chiesa vuole parlare a tutti, per questo non vuole più chiudersi in una sola formazione l’estate, sono state ventilate tre forme di convergenza: la ricostituzione della Dc, ovvero di un partito unico che miri a

porsi come rappresentanza globale e necessariamente centrista del laicato cattolico; una ridistribuzione dell’elettorato in modo che la grande maggioranza dei cattolici praticanti venga a collocarsi nella parte destra del panorama bipolare; la permanenza dei cattolici in ogni formazione e schieramento, quale già si verifica, ma preparati a consultarsi e coordinarsi quando si tratti di promuovere i “principi irrinunciabili”. Sono del parere che il cardinale – pur non dicendolo – sia favorevole a questa terza soluzione. Non è infatti «storicamente possibile» – per usare le sue parole – riproporre il partito unico dei cattolici e sarebbe «ingenuo o illusorio» adoperarsi per portare tutti i cattolici nel centro-destra. In ambedue i casi si andrebbe a una disastrosa potatura del frondoso albero della cattolicità politica quale si è venuto sviluppando lungo l’ultimo ventennio.

Perché possiamo escludere con sicurezza che Benedetto XVI e il cardinale Bagnasco non intendano richiamare i cattolici all’unità politica sperimentata con la Dc? Perché la Chiesa del Vaticano II ha scelto di non lasciarsi coinvolgere nelle scelte politiche e l’unità proposta dall’alto questo comporterebbe. La Chiesa ha compiuto quella scelta non contingente – ma duratura per l’oggi e il domani – per gelosia della propria libertà e al fine di poter parlare a tutti. Ciò non toglie che le forze di centro siano in una posizione fortunata rispetto alle indicazioni sugli “irrinunciabili” che vengono dalla Chiesa. Di tale posizione devono fare tesoro, cavandone tutti gli insegnamenti che ne possono venire per l’elaborazione della loro politica e per l’attrazione di altri, credenti e non credenti, ma ben sapendo che il nostro non è più il tempo di investiture gerarchiche. Può ben essere una funzione propria dei cattolici impegnati nelle forze moderate e di centro quella di prendere iniziative di consultazione e di convergenza invitando a un confronto aperto i cattolici di ogni altra formazione. Nella prolusione all’assemblea della Cei dello scorso maggio, già citata, il cardinale Bagnasco affermò tra l’altro che «il Paese sano è distribuito all’interno di ogni schieramento»: credo che il cardinale non avrebbe difficoltà a riconoscere che, analogamente, cattolici credibili si ritrovino in tutte le forze politiche che oggi si contendono il consenso dell’elettorato. Un obiettivo perseguibile non è di sradicarli dai contesti dove hanno trovato un ruolo, ma di aiutarli a svolgere quel ruolo tenendo conto della veduta valoriale di cui partecipano tutti gli appartenenti alla comunità cattolica. www.luigiaccattoli.it

13 settembre 2011 • pagina 5

solo una tregua in questa guerra tra Berlusconi e la magistratura, ma anche una forma di armistizio tra le toghe e la politica in generale sarebbe opportuno riprendere quell’autorizzazione a procedere che era prevista dalla Carta costituzionale del 1948 e che, in maniera molto improvvida, è stata eliminata nel 1993. Prevedere, cioè, per tutte quelle ipotesi in cui si debba iniziare un procedimento penale nei confronti di un membro del Parlamento la necessità della previa autorizzazione da parte delle Camere. Sia nel caso di misure cautelari che non. Si tratterebbe di una sorta di salvacondotto che riguarderebbe tutti i parlamentari».

L’immunità parlamentare secondo l’avvocato Pecorella «è un istituto sacrosanto e lo dice chi come me è in Parlamento da dodici anni. Il motivo è semplice: così come il magistrato deve avere l’autonomia nelle sue decisioni e non deve essere sottoposto al controllo del potere politico, questo deve valere, per la separazione dei poteri, anche per il parlamentare. Chi siede in Parlamento non può, per la sua posizione politica, essere oggetto di aggressione giudiziaria. Vorrei sottolineare che l’immunità non è a tutela del parlamentare, ma del Parlamento: sia della funzionalità, sia della libertà del singolo di appartenere a una certa area politica. Credo che sia questa la soluzione a prescindere da Berlusconi». E Piero Alberto Capotosti indica anche i criteri per poter adottare la misura: «Rispetto al testo del 1948 si potrebbero introdurre alcune modifiche per rendere più effettiva la garanzia per i parlamentari, magari alzando il quorum, prevedendo non soltanto la maggioranza assoluta, oggi garantita da un solo partito, ma quella dei tre quinti (il 60 per cento) per poter non autorizzare l’inizio del procedimento. Si potrebbe prevedere che la risposta della Camera interessata debba avvenire in tempi rapidi, per esempio entro 60 giorni dalla richiesta, trascorsi i quali il pubblico ministero può iniziare il procedimento. Un modo, in pratica, per costringere la Camera a dare una risposta. La modifica, ovviamente, dovrebbe essere approvata con legge costituzionale, ma siccome sul campo ci sono una serie di cambiamenti della Costituzione, non ci sarebbe nulla di straordinario se si inserisse anche l’autorizzazione a procedere. Sarebbe una sorta di salvacondotto non “ad personam”, ma riguarderebbe tutti i parlamentari. D’altro canto i cittadini non dovrebbero stupirsi, dal momento che il parlamentare svolge una funzione diversa per la quale, vista la sua carica politica, possa subire una forma di “persecuzione” giudiziaria rispetto a un normale cittadino».


economia

pagina 6 • 13 settembre 2011

Bruxelles teme che le entrate siano inferiori alle attese previste dalla manovra varata dalla Commissione

L’Europa chiede nuove misure all’Italia

Un’altra giornata nera per le Borse E Trichet: «Non siamo in recessione» di Francesco Pacifico

ROMA. Più di undici miliardi bruciati e l’ennesimo lunedì nero a Piazza Affari. Lo spread tra il Btp e il Bund tedesco saldamente sopra i 385 punti. Un warning a Roma dell’Unione europea che paventa un nuovo interno di finanza pubblica. Si apre nel modo peggiore la settimana che dovrebbe vedere il varo della manovra correttiva da 45,4 miliardi. Anche perché le sue misure non sembrano convincere i mercati sulla solidità dell’azienda Italia. Oggi Silvio Berlusconi volerà a Bruxelles e a Strasburgo per difendere gli sforzi del Belpaese. Intanto, ieri, leggendo il Rapporto 2011 sulle finanze pubbliche nell’Unione monetaria, si comprende cosa dirà la Commissione al nostro premier: «Dato il debito pubblico molto alto, intorno al 120 per cento del Pil nel 2011, il perseguimento di un consolidamento credibile e duraturo e l’adozione di misure strutturali a sostegno della crescita sono le priorità fondamentali per l’Italia».

I listini europei bruciano 118 miliardi di euro, 11,5 dei quali soltanto a Piazza Affari. Nel mirino i titoli delle banche detentrici del debito ellenico Di conseguenza riecco quanto raccomandato lo scorso 12 luglio ai Paesi più rischio come il nostro: «Misure aggiuntive sarebbero richieste se, per esempio, le entrate derivanti da una migliorata riscossione fiscale fossero più basse di quelle del previsto o se ci fossero difficoltà nel raggiungere il previsto contenimento della spesa». A dirla tutta non c’è soltanto il Belpaese nel mirino. Le dimissioni dalla Bce di Jürgen Starck (e poco importa che l’ex capoeconomista abbia smentito critiche all’acquisto di bond da parte dell’Eurotower) non sono state ancora metabolizzate. Si scommette che la Grecia non riuscirà a

rimborsare il suo debito. Aleggiano downgrade delle società di rating sulle banche francesi (le maggiori detentrici di bond ellenici). Risultato? Gli operatori sono tornati a vendere. Soprattutto il mercato fa scontare l’incertezza imperante. E sotto processo c’è in primo luogo Angela Merkel. La quale si è imposta di difendere l’euro, di costruire un governo dell’economia comunitaria basata su poche regole e chiare sanzioni, di tranquillizzare i propri elettori. Ma di fronte a un’impresa tanto complessa finisce come al solito per traccheggiare sulle misure da prendere, fossero gli eurobond o l’aumento della taglia del Fondo salvastati.

In questa logica – mentre il ministro dell’Economia tedesco Philipp Rösler e gli imprenditori spingono per un default ellenico – la Cancelliera ha promesso a José Manuel Barroso di chiudere il dossier Esf a fine mese, quindi ha richiamato la Grecia. «Attendiamo che Atene faccia di tutto per mantenere i suoi impegni», ha spiegato il suo portavoce Seibert, dopo che il premier George Papandreou aveva legato i nuovi sforzi all’erogazione di ulteriori aiuti. Ieri il Wall Street Journal ha fatto sapere che la trojka di funzionari Ue Bce e Fmi impegnata sul dossier ellenico sarebbe orientata a sbloccare la nuova tranche di fondi (e che è pari a circa 8 miliardi) del primo pacchetto di salvataggio da 110 miliardi. Da Basilea, dove si è concluso ieri il Global Economic Meeting organizzato dalla Bri, il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet si è mostrato «cautamente» ottimista sui progressi di Atene. «Ma chiediamo al Paese con grande fermezza di rispettare gli impegni per risanare i conti. È nel interesse della loro sostenibilità di lungo termine». Toni diversi sono usati nei confini tedeschi. Dopo l’uscita di 48 ore fa del ministro Rösler (peraltro costretto a una mezza rettifica) anche Hans Werner Sinn, presidente dell’Ifo, cioè il principale istituto di ricerca

L’analisi dell’economista dell’American Enterprise Institute

La crisi dell’euro? Colpirà Obama

Le presidenziali si giocheranno sull’economia, e il presidente (senza colpe) pagherà per l’Europa di Desmond Lachlan urante le elezioni del 2008, la vittoria di Barack Obama venne agevolata in gran parte dalla crisi finanziaria. Nel 2012 il presidente potrebbe scoprire quanto è vero quel detto che recita che, in politica, ciò che arriva deve tornare in circolo. E la sua corsa per la rielezione rischia di essere caratterizzata, per la seconda volta, da un’altra crisi finanziaria. La differenza principale fra quella e questa, è che la seconda non è nata negli Stati Uniti ma in Europa. E si tratta di una crisi su cui il presidente Obama non ha alcun controllo.

D

Se giudichiamo rispetto agli eventi più recenti, la fine dei giochi per l’Eurozona non sembra essere troppo lontana. Le riforme economiche e fiscali messe in atto dalla Grecia sembrano essere veramente fuori binario, e la crisi del debito si è propagata: da Atene è arrivata al

Portogallo, all’Irlanda, alla Spagna e all’Italia. Queste due ultime nazioni sono descritte, in maniera corretta, sia troppo grandi per fallire che troppo grandi per ottenere credito. Inoltre pesa un atteggiamento sempre meno propositivo da parte della Germania, che sembra essere contraria a nuovi pacchetti di aiuti alle nazioni in difficoltà. Questi passi indietro da parte delle nazioni a rischio hanno costretto il Cancelliere Angela Merkel a dover scegliere se aumentare le dimensioni del fondo “salva-Stati”all’interno dell’Eurozona o proporre l’emissione di eurobond, commisurati alle dimensioni dei problemi finanziari di questi Paesi. A peggiorare ancora di più le cose, si stanno verificando chiari segnali di recessione economica non soltanto in Francia e Germania, ma persino nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Questi rischi rendono praticamente impossibile per le na-


economia

13 settembre 2011 • pagina 7

economica che ha il pregio di esprimere il sentiment delle imprese locali, ha fatto sapere che «quella dell’uscita della Grecia dall’Eurozona è la soluzione meno dolorosa alla crisi in corso. Una mossa che non provocherebbe una reazione a catena, dal momento che la situazione di altri Paesi europei in difficoltà non è così grave».

Ma a ben guardare sono dichiarazioni di facciata, visto che la Merkel sta facendo non pochi sforzi per salvare la Grecia. «Vogliamo che rimanga nell’euro», ha detto un portavoce del governo. Perché tra ripercussioni sull’export e downgrade degli istituti detentori del debito ellenico, i tedeschi pagherebbero per un bailout ellenico una cifra dieci volte superiore a quella sborsata per un sostanzioso piano d’aiuti. «Pregate e aiutateci con la vostra preghiera a vincere la sfida dei debiti oggi in Europa», fa sapere durante Meeting di Sant’E-

La Bce conferma l’acquisto di bond di Roma e Madrid. Lo spread tra il nostro Btp e il Bund schizza a 385 punti. Berlino più morbido verso Atene

zioni periferiche dell’Eurozona uscire dai problemi economici “esportandoli”. Un fallimento europeo nel contenere la propria crisi del debito sarebbe un terribile passo indietro elettorale per Obama. E questo non soltanto perché le filosofie economiche e di governo di Obama sono strettamente collegate con il modello economico europeo. E nemmeno perché l’Europa è uno dei maggiori mercati per l’esportazione americana.

Ma anche perché un fallimento europeo è condannato a provocare enormi ramificazioni per i mercati americani e per quello finanziario globale. Se qualcuno avesse un qualunque dubbio a questo proposito, potrebbe semplicemente limitarsi a considerare la massiccia esposizione del sistema finanziario americano rispetto alle Banche europee. In un sondaggio recente Fitch ha scoperto che, alla fine di luglio, l’industria del mercato valutario americano ha un’esposizione diretta nei confronti delle banche europee per più di un trilione di dollari: si tratta all’incirca del 45 per cento del totale dell’assetto valutario americano. Secondo altre fonti, le banche americane sono esposte nei confronti delle banche tedesche e francesi per 1,2 trilioni di dollari. Questa ultra-esposizione nei confronti degli istituti di credito del Vecchio continente dovrebbe tenere Obama sveglio tutte le notte. Anche perché queste banche sono a loro volta esposte per un totale di 2 trilioni nei confronti del mercato

del debito sovrano di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna e devono ancora rendersi conto delle enormi perdite nel credito che stanno per affrontare rispetto a questi bond statali. La triste verità è che la Grecia arriverà, entro la fine dell’anno, a subire un default pari a 450 miliardi di dollari del proprio debito sovrano. E questo renderà il crollo greco un record rispetto ai fallimenti di altre nazioni. I colloqui intercorsi fra Atene e il Fondo monetario internazionale si sono arenati nel momento in cui il governo ha messo in chiaro che altre misure di austerità non faranno altro che peggiorare la propria recessione, già abbastanza dolorosa. Come fanno pensare le recenti pressioni dei mercati su Italia e Spagna, un disordinato default greco è destinato a portarsi con te Irlanda, Portogallo e Spagna. Alcuni rappresentanti della Banca centrale europea hanno ammesso in pubblico che il default greco potrebbe “molto probabilmente” coinvolgere anche la periferia europea: e questo porterebbe a una crisi delle banche – stile Lehman – nel cuore dell’Europa.

Come se volessero sottolineare queste preoccupazioni, le banche europee stanno iniziando a tagliare le loro politiche di acquisto del debito di Roma e Madrid, preoccupate per l’intensificarsi della crisi del debito. Stanno anche iniziando a mostrarsi molto riluttanti nel prestarsi denaro a vicenda. Avendo vissuto i propri primi passi durante la crisi dei mutui sub-prime, l’am-

ministrazione Obama dovrebbe essere molto preoccupata sugli effetti che una crisi del debito europeo potrebbe provocare alla crescita economica globale. Una crisi del debito continentale non sarebbe una buona notizia neanche per un’economia americana al massimo del proprio splendore. Tuttavia, come dimostrano anche i numeri più recenti sulla disoccupazione negli Stati Uniti, questi non sono neanche da lontano i giorni migliori per l’America. La prospettiva che un’economia già stagnante come la nostra possa essere colpita una volta di più da colpi di maglio monetari e finanziari, oltre a quelli che si sono accumulati negli ultimi due anni, e che uno shock economico dall’Europa possa arrivare fino a qui è l’ultima cosa di cui la nostra economia, e Obama, hanno bisogno. Le presidenziali del 2012 su concentreranno su un unico fattore: l’economia. Che Obama abbia o meno il controllo su quei fattori economici europei che mettono l’economia americana a rischio non importa molto: gli elettori potrebbero decidere di punirlo a prescindere.

gidio a Monaco di Baviera la cancelliera. Ma i mercati, si sa sono scettici, e chiedono qualcosa in più delle professioni di fede. E infatti ieri le Borse sono crollate – in Europa bruciati 138 miliardi – e l’euro è tornato ai minimi sul dollaro, a 1,3495. A Milano l’indice Ftse Mib ha fatto segnare nel finale un -3,89 per cento. Fra le piazze finanziarie, Parigi chiude con un -4,03 per cento, La Borsa Francoforte cede il 2,27, mentre di Francoforte: Londra arretra dell’1,63. Nel l’euro continua mirino soprattutto i bancari, ad essere dopo che Moody’s ha messo in debolissimo dubbio la solidità degli istituti sotto il peso transalpini, annunciando una del possibile stagione di aumenti di capitale. default greco. Al Cac il peso dei bond ellenici Sotto, in portafoglio fa scendere Bnp Barack Obama Paribas dell’11 per cento, SocGen e Credit Agricole del 9. Effetto domino a Piazza Affari, con il titolo Unicredit scivolato a 0,686 euro(-10,9 per cento), IntesaSanpaolo a 0,868 (-9,65). Va da sé che le tensioni si sono rivolte anche sulle emissioni. Lo spread tra il Btp decennale e il Bund schizzato a 385 punti, mentre ieri il Tesoro ha dovuto riconoscere un tasso più elevato (4,153 per cento dal 2,959) per collocare 11,5 miliardi di Bot a tre mesi e a un anno. Di fronte a questi marosi fanno fatica quelli che si prendono la briga di fare i pompieri. Come Jean-Claude Trichet, quando ha annunciato sia che «la crescita globale rallenta, ma non siamo in recessione» sia che l’acquisto di bond italiani e spagnoli «non mina affatto la credibilità di Francoforte». E infatti l’Eurotower ha aumentato nell’arco di una settimana il valore del suo shopping, portando la spesa complessiva da 13,305 a 13,96 miliardi.


il paginone

pagina 8 • 13 settembre 2011

Sesto San Giovanni, roccaforte degli affari recenti del Pd, è stato un luogo simbol

Così un mito è f

La «diversità» del Pci c’era davvero: lo dimostra il ’900 di Sesto, da centro agricolo a polo industriale. Ecco perché il caso-Penati è una ferita mortale di Giancarlo Galli esto San Giovanni, via Carlo Marx, mercatino del sabato. Un ambulante di frutta e verdura quasi urla: «Dovremo cambiare il nome di questa città… chiamarla Quinto San Giovani, quelli del Municipio se ne sono mangiata un pezzo». Massaie con la sporta della spesa, anziani pensionati, ex tute blu degli altiforni e dei laminatoi, a testa china passano oltre. Qualche sera fa, in Consiglio comunale è stata bagarre. Appena il sindaco Giorgio Oldrini, figlio di Abramo primo cittadino del Dopoguerra, ha preso la parola per illustrare lo schema del nuovo piano regolatore (altre case, uffici, supermercati, ennesima colata di cemento insomma), dagli spalti riservati al pubblico, contestatori leghisti del “movimento Giovani Padahanno ni” srotolato due megastriscioni: «Noi sestesi rapinati, voi amici di Penati» e «Foeura de ball». Al di là dello scandaloso contingente di milionarie bustarelle quel che la gente di Sesto rimprovera al suo ex assessore e sindaco Filippo Penati (che pur allontanato “precauzionalmente” dal Pd, protesta innocenza), è di avere infangato un mito, comunista ed operario, con un secolo di sbandierate nobili tradizioni politico-amministrative. Nella polvere, infatti, è finito il “parti-

S

to diverso” e dalle mani pulite. Al servizio del popolo, anziché del capitale e dei cosidetti pescicani dell’affarismo, che qui aveva il suo simbolo. Una lunga, a tratti gloriosa storia che va raccontata, per comprendere l’attuale costernazione, lo straziante disincanto. Per questo il dramma va ricostruito, partendo da lontano.

Sesto San Giovanni, 10 chilometri in linea d’aria dalla milanese Piazza Duomo, comune autonomo (oggi oltre 81 mila anime), era sino agli Anni Venti del Novecento un borgo agricolo, collegato alla vicina metropoli da un tram che aveva il capolinea ai caselli daziari di Porta Venezia. Fu il fascismo, per dirla con Mussolini, a trasformarla in «operosa, immensa officina» al servizio di una Patria che il Regime voleva «Imperiale, proletaria». E armata. I più bei nomi dell’industria accolsero con interessato slancio l’appello del Duce. Le ruspe invasero i campi dove s’allineavano i gelsi per nutrire i bachi da seta, tipica coltura dell’Alto milanese. Spuntarono come funghi le fumiganti ciminiere della Falck, della Breda, Ercole e Magneti Marelli. I contadini divennero operai ad alta specializzazione, ben pagati, cui imprenditori in orbace che si pretendevano illuminati e sensibili, assi-

Fu il fascismo, negli anni Venti, a creare l’«operosa, immensa officina» al servizio di una Patria che il Regime voleva imperiale e armata curarono confortevoli alloggi, dopolavoro, vacanze. Eppure, incredibilmente, gli attivisti del Regime faticarono a fare proseliti. Al contrario respingendo le lusinghe ed incuranti delle minacce, in molti aderirono al Partito Comunista clandestino. Anima della resistenza ante-litteram, il ferroviere Giuseppe Alberganti da Stradella, classe 1898. Approdato a Sesto, dopo aver patito galera e confino, arruola dozzine di sestesi per le Brigate internazionali che in terra di Spagna s’oppongono al Franchismo. Sul fronte dell’Ebro incontra Giuseppe di

Vittorio, futuro leader della Cgil. Sesto San Giovanni fu dunque un’oasi dell’antifascismo. In qualche misura tollerata dal Regime, poiché lì si producevano aerei, carri armati, mitragliatrici, motori per la marina, congegni meccanici d’avanguardia. Venne financo costruito il prototipo di un quadrimotore, mai decollato dal vicino campo di Bresso. Le cellule comuniste, in apparenza dormienti, vigilano. Nel marzo del 1944, col pretesto di razioni alimentari insufficienti, in sintonia col Comitato di Liberazione Nazionale (Cln Alta Italia) viene proclamato lo sciopero generale. Sui manifesti clandestini Sesto San Giovanni è ribattezzata “Stalingrado d’Italia”. Per il coraggio e l’indomabile spirito di resistenza. Nonostante le deportazioni ordinate dal generale tedesco Zimmerman. Alla Breda le Ss hanno radunato gli scioperanti negli immensi spiazzi. Il generale Zimmermann vuole dieci teste: Filippo Penati senior (nonno del nostro), sarà deportato nel lager di Mauthausen, dove morirà.

Sesto-Stalingrado è “rossa”sino al midollo. Alle elezion del 1946 il Pci straripa. Nelle officine l’epurazione dei collaborazionisti è dura ed implacabile.Tuttavia, per ordine di Palmiro Togliatti, i “padroni” non sono stati toccati. Giuseppe Alberganti, nominato segretario della Camera del Lavoro di Milano, obbedisce ma non demorde: città e fabbriche vengono presidiate da militanti armati. Per polizia e carabinieri, Sesto è off limits.


il paginone

lico della storia d’Italia. Ma si tratta di una vicenda che appartiene solo al passato

finito in polvere

Sesto-Stalingrado, non saranno né gli eventi internazionali né il miracolo economico e nemmeno le manovre dei “padroni delle ferriere”, ma un prelato. L’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini – futuro Paolo VI – che nel gennaio 1955, incurante delle perplessità (a dire poco) dell’Assolombarda e degli ambienti cattolici lombardi, decide un pellegrinaggio per consacrare a Santa Chiara le officine della Magneti Marelli. Santa Chiara è la patrona della neonata tv e la Magneti Marelli è all’avanguardia nel settore. Successo immenso, inatteso. L’ufficio stampa aziendale, frastornato, censura il discorso del prelato laddove dice che «la religione non è alleata del capitalismo (..) i primi a staccarsi dalla religione non furono i lavoratori ma i grandi impresari e i grandi economisti che sognavano di fondare un progresso, una civiltà senza Dio e senza Cristo, hanno miseramente fallito». Tre mesi dopo alle elezioni per le commissioni inerne, la Cgil perde la maggioranza. Ovunque, a vantaggio di Cisl e Uil. Casuale o meno, Armando Cossutta, assurto a leader sestese valicando Alberganti che chiuderà il suo cielo esistenziale nell’estremismo di sinistra, verrà ricevuto in udienza da Sua Eminenza.

Il futuro Paolo VI, qui, scomunicò il capitalismo nel 1955: «I primi a staccarsi dalla religione non furono i lavoratori ma gli imprenditori» Con le elezioni del 18 aprile 1948 e la piena affermazione della Dc degasperiana, consumatasi l’unità sindacale con la nascita di Cisl e Cgil, nella Stalingrado d’Italia il delirio rivoluzionario subisce un fiero colpo. Albergani persiste. Se ha accettato il diktat togliattiano con la nomina ai vertici locali di un giovane a nome Armando Cossutta, gioca la sua ultima carta puntando su Pietro Secchia, n. 2 del Pci, ritenuto l’interprete del pensiero del Cremlino. Con la scomparsa di Stalin, ogni ipotesi rivoluzionaria viene accantonata.

Nel frattempo le fabbriche hanno ripreso a produrre a pieno ritmo. Non più armi ma locomotive, vagoni ferroviari, impianti elettrici, colate d’acciaio che propiziano la Ricostruzione. Inesorabilmente si sgretolano i miti dell’operaismo dell’Unione Sovietica. Il gemellaggio con Stalingrado, poi Togliattigrad, poi Volvograd, assumerà col trascorrere dei lustri la tangibile traccia della parabola. Sebbene a Sesto resterà in molti il nostalgico amarcord di una rivoluzione leninista.Tuttavia, a infliggere il colpo decisivo alla caduta della leggenda di

Giorgio Falck, l’ultimo protagonista della dinastia di industriali dell’acciaio a Sesto San Giovanni. In alto, le vecchie acciaierie. A fianco, Filippo Penati

Intanto, nel 1952, alla maternità della vicina Monza è venuto alla luce un vispo maschietto: Filippo (Penati), ricordando il nonno. In calzoni corti, anziché l’oratorio, viene portato nella sezione del Pci, distinguendosi fra i “pionieri”. Spicca per serietà, impegno. Viaggio-premio a Mosca, con pellegrinaggio al mausoleo dei padri del socialismo. Matrimonio, due figli, e una carriera tutta falce e martello dopo una fugace esperienza da assicuratore. Negli anni Settanta è divenuto l’anima del partito. Duro e intransigente i compagni lo ribattezzano “Filippo lo stalinista”. Un merito, agli occhi della vecchia guardia. A Roma Armando Cossutta che nell’èra brezneviana cura i rapporti (anche finanziari) con la casa madre moscovita, il Cremlino, lo tiene in massima stima, fors’anche mettendolo al corrente delle “arti” che all’epoca presiedono al finanziamento del Pci. Da consigliere comunale ad assessore all’urbanistica a Sesto il passo è quasi obbligato. Domanda dal sapore retorico: può il compagno assessore non essere al centro delle manovre che accompagnano la trasformazione di Sesto? Una dopo l’altra le grandi fabbriche smobilitano e su quei terreni… Sesto San Giovanni da città operaia a città residenziale. Quasi una periferia di Milano, con la metropolitana che ha sostituito il tram d’antan. Filippo è il regista della metamorfosi, e nel 1994 è eletto sindaco, carica che manterrà sino all’inizio del nuovo secolo. Il Pci, ormai in soffitta, vive stagioni di camaleontica trasformazione: Pds, Ds, sino a costituire il nerbo del Partito Democratico.Tutto cambia, pare; Filippo continua. Con successo politico innegabile, quando nella

13 settembre 2011 • pagina 9

bianca Lombardia di Berlusconi & Formigoni, strappa la presidenza della Provincia alla bella e politicamente evanescente Ombretta Colli, vedova dell’indimenticabile Giorgio Gaber.

È il 2004, e Filippo è sulla cresta dell’onda. Sin troppo, poiché a questo punto Gloria fa rima con Guai. Determinato (per i supporters), arrogante (per gli avversari), Filippo-presidente rivolta la Provincia di Milano come un guanto. Le pubbliche amministrazioni, senza distinzione di colore, hanno spesso assunto i contorni di Comitati d’affari. («Per il Bene Comune», manco a dirlo, spiegano). Partecipazioni azionarie d’ogni sorta. Fra le altre, la Provincia di Milano decide di acquistare dal Gruppo Gavio una quota del 15 per cento dell’autostrada Milano-Serravalle. Pagandola a peso d’oro. Inspiegabile, finanziariamente, poiché la società è già controllata dal Comune di Milano. Nel capoluogo c’è un sindaco onesto e che sa fare di conto, Gabriele Albertini. Va in magistratura (dopo essersi consultato con Antonio Di Pietro!), ma non succede nulla. Apparentemente. D’altronde, i tempi dell’italica giustizia sono arcinoti. Comunque il sasso affonderà nello stagno. Altre tornate elettorali. Uscita di scena di Albertini dopo due mandati a favore di Letizia Moratti che a sua volta soccomberà nel confronto col candidato delle sinistre Giuliano Pisapia; lo stesso Penati che, persa la Provincia a vantaggio del berlusconiano Podestà, tenta inutilmente di contrastare la rielezione di Formigoni. Ciò nonostante “Filippo il Grande” per il compagni di Sesto, non è finito nell’angolo. Anzi! Pierluigi Bersani, leader dei democratici, gli affida la segreteria. Troppo facile criticare la magistratura. In quel di Monza, che ha giurisdizione su Sesto San Giovanni, si continua a scavare. In operosa riservatezza. Finché prendono ad esplodere bombe: mandati di cattura che a stento risparmiano Filippo il Grande, beneficiato da cavilli interpretativi sulla natura ed i tempi dei presunti reati. Da confessioni ed interrogatori, tutti da vagliare beninteso, emergono circostanze inquietanti su Penati ed il “modello sestese”. Scoperchiato il pentolone, pressoché impossibile dare conto di quel che ribolle. Penati nega, il Pd lo emargina (tardivamente); Pigi Bersani fraseggia boccheggiando. C’è sottotraccia, se provata, al di là degli eventuali arricchimenti personali, la questione delicatissima dei finanziamenti alla politica attraverso il “mercato” nero e fuori controllo degli immobiliaristi. Inoltre, fuori dai denti, chi per lustri ha portato in palmo di mano Filippo Penati, ex comunista doc, poteva davvero “non sapere”? Nel Dopoguerra e per decenni, gli amministratori comunisti avevano nella moralità un baluardo. “Siamo diversi”, proclamava Berlinguer!. Ricordo benissimo come a Sesto San Giovanni i funzionari del PCI ricevessero il salario da operaio specializzato, mentre gli eletti versavano la metà ed oltre dello stipendio al partito. Che non fosse più così, lo sapevamo. Ciò malgrado, a sinistra, la moralità continua ad essere una divisa. Sarebbe tragico per il paese se, spalancato il vaso di Pandora, emergesse l’immensa palude di un fariseismo rosso, con Filippo Penati da Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d’Italia, punta dell’iceberg.


mondo

pagina 10 • 13 settembre 2011

È cominciata ieri al Cairo la visita del capo di governo di Ankara al Cairo, Tunisi e Tripoli. Forse visiterà anche Gaza

Primavera ottomana Il premier turco stringe l’asse con l’Egitto per frenare l’Iran e regionalizzare Israele di Pierre Chiartano l viaggio del premier turco all’ombra delle piramidi sarà la prova del nove per le ambizioni neo-ottomane della nuova Turchia. Il primo passo sarà la firma di un’alleanza militare ed economica con gli egiziani del dopo Mubarak. Mentre il nuovo governo del Cairo deve gestire una delicatissima situazione con Israele a seguito dell’assalto all’ambasciata dello Stato ebraico avvenuta nella capitale nella notte tra venerdì e sabato. Egitto,Tunisia e Libia sono le tappe ufficiali della visita Tayyip Recep Erdogan nei Paesi protagonisti della Primavera araba che durerà quattro giorni. Si annuncia come un successo politico, visto il grande seguito che il leader turco ha guadagnato negli ultimi tempi in tutto il mondo arabo. La Turchia della democrazia islamica – anche se ai filogovernativi piace chiamarla democrazia e basta – dello sviluppo a tassi cinesi – anche se sta risentendo della crisi – del credito internazionale – nonostante la rottura con Gerusalemme – piace a tutto il mondo arabo. I turchi continuano ad affermare che più che un modello a loro piacerebbe condividere «un’esperienza», ma al di là dei sofismi lessicali Ankara si prepara a giocare un ruolo sempre più determinante a sud del Mediterraneo. La strategia di lungo periodo di Ankara è quella che tenterà di chiudere l’asse tra Turchia ed Egitto, tagliando di fatto la strada all’Iran, regionalizzando Israele e trasformandosi in potenza di riferimento per Giordania e Siria, che finalmente avranno un’alternativa rispetto alle lusinghe e alle minacce del regime sciita. Il pragmatismo americano di superpotenza di lungo corso vede però ancora i limiti della politica turca, e Hillary Clinton ha più volte cercato di portare il governo di Ankara sul terreno di una presa di responsabilità sul piano internazionale. Altri avrebbero voluto che Ahmet Davutoglu, il ministro degli Esteri, avesse avuto un comportamento più determinato nei confronti del dittatore siriano Bashar al Assad, ma forse occorre tempo per imparare a diventare una potenza regionale. Sopratutto se finirà il facile gioco di sponda rispetto al coinvolgimento Usa nella regione, fin troppo facile capro espiatorio per ogni genere di problema.

I

Oltre il programma ufficiale c’è la ventilata possibilità che il premier turco faccia una visita a Gaza. Luogo dove Tayyip è il nome più usato per i nuovi nati. Tanto per capire di che fama gode il leader turco da quelle parti. Un’eventualità la visita nella terra di Hamas dal valore politico dirompente, anche alla luce della recente rottura diplomatica con Israele. Da Ankara i segnali delle

ultime ore però non danno come sicura la digressione del premier nella Striscia. Domenica in un’intervista all’agenzia stampa Anadolu, Ismail Haniyeh, capo del governo di Gaza aveva sollecitato misure economiche contro Israele. Quindi Erdogan che non ha fatto inserire la visita nella Striscia in nessun comunicato ufficiale, probabilmente deciderà all’ultimo minuto sull’opportunità diplomatica della sua presenza nella terra di Hamas.

Ricordiamo che al Cairo sarà presente anche l’altra faccia palestinese, quella laica di Mahmoud Abbas presidente dell’Autorità palestinese in Cisgiordania che con la sua richiesta di ”riconoscimento” dello Stato palestinese all’Onu sta togliendo il sonno a molti. L’agenzia turca Anadolu ha fornito ieri una traduzione ufficiale in inglese dell’inter-

Il leader turco Recep Erdogan firmerà un patto per un’alleanza militare ed economica con l’Egitto del dopo Mubarak. Ancora alta la tensione tra i due Paesi sulla Striscia e Freedom Flotilla vista del premier Erdogan ad al Jazeera che ha buttato altra benzina sul fuoco, anche per la traduzione contestata. «Israele agisce come un bambino viziato... Il raid in acque internazionali del 31 maggio 2010 è contrario a qualsiasi norma di legge. In effetti è un casus belli. Siamo stati pazienti, finora... Vedremo navi turche nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale più spesso. Navi da guerra turche sono autorizzate a proteggere le nostre navi che portano aiuti umanitari a Gaza». Una serie di affermazioni che, se confermate, dimostrerebbero solo che Gerusalemme ora si trova di fronte un vero interlocutore che, a torto o a ragione, non è assimilabile a quella congerie di autocrati e dittatori di serie B che per mezzo secolo Israele ha dovuto affrontare. Avendo gioco fin troppo facile sul piano internazionale, nel convincere chiunque del pericolo che correva lo Stato ebraico. Anche se nell’Europa delle vecchie ideologie trovava sempre molti detrattori, con gli amici americani le porte erano sempre spalancate. Oggi dover affrontare la Turchia di Erdogan è altra faccenda che rintuzzare la retorica dell’Iran di Ahmadinejad o la finta aggressività siriana.

Come ha affermato alla tv satellitare al Jazeera il premier Erdogan: «d’ora in poi – secondo quanto riferiscono i media turchi – non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla», il convoglio umanitario vittima del raid israeliano dell’anno scorso che ha causato una crisi diplomatica fra Turchia e Israele. Nove cittadini turchi furono uccisi e Ankara aspetta ancora le scuse ufficiali e degli indennizzi adeguati dal governo di Gerusalemme. Il rapporto Palmer dell’Onu poi non ha fatto che acuire la crisi e irritare ulteriormente i turchi, dando una sorta di legittimità al blocco navale e alla reazione dei commando israeliani.Erdogan si muove insieme con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il ministro dell’Economia, Zafer Caglayan e decine di uomini d’affari fra i più potenti del Paese. Il viaggio per il primo ministro ha due finalità. La

prima è mostrarsi di persona a Paesi che durante i mesi scorsi hanno più volte invocato la Turchia, Stato musulmano ma laico, come un modello per tutto il Medioriente e lui come il premier ideale: forte, determinato, riformatore.

Il secondo è quello di consolidare o aumentare la presenza economica e commerciale in questi tre Paesi, dove gli equilibri politici sono cambiati radicalmente negli ultimi mesi e dove la Turchia si è costruita posizioni di tutto rispetto. Al Cairo il premier turco è atteso per un incontro con il capo del consiglio supremo delle forze armate egiziane, Mohamed Hussein Tantawi, e dal suo omologo, Essam Sharaf. Al termine del vertice, si legge sul sito web della tv al Jazeera, i due capi di governo dovrebbero annunciare la creazione di un consiglio strategico di cooperazione e siglare alcuni accordi nel settore economico e


mondo

13 settembre 2011 • pagina 11

Per ora si pensa a proporre un nuovo e più sostanziale piano economico

Vista da Israele, la crisi è proprio nera

I due ex alleati di Tel Aviv si sono rivoltati contro lo Stato ebraico. Che deve scegliere la linea da seguire di Antonio Picasso a visita del premier turco Erdogan al Cairo ha un che di paradossale. Soprattutto se la si osserva dall’ottica israeliana. Fosse avvenuta due anni fa, si sarebbe detto che i primi e più affidabili alleati di Israele si incontravano per incentivare il processo di pace con l’Autorità palestinese. Due anni fa, però, alla guida dell’Egitto Cairo c’era ancora Mubarak. Mentre la Turchia non aveva ancora appoggiato così esplicitamente le missioni corsare della flottiglia diretta a Gaza. Oggi, con la caduta del raìs e le frizioni che hanno fatto da corollario al sostegno di Ankara nei confronti dei palestinesi della Striscia, portano a vedere il summit egiziano – che inizia oggi – come l’incontro tra i due Paesi più avversi a Israele. Le posizioni politiche assunte dal governo Erdogan dal maggio 2010 – quando la flottiglia diretta a Gaza venne assaltata dalle teste di cuoio israeliane – e il recentissimo saccheggio dell’ambasciata d’Israele in Egitto hanno letteralmente ribaltato le schema delle alleanze in Medioriente. Nell’arco di nemmeno un anno e mezzo, Ankara ha avviato un dialogo costante con l’Iran, ha appoggiato Hamas e ha volutamente reso più tese le relazioni diplomatiche con il governo Netanyahu. Per quanto malizioso, è plausibile pensare che le scelte di Erdogan abbiano ricevuto un placet sottobanco da parte degli Usa. A Washington possono essersi fatti l’idea per cui, se si vuole riprendere davvero il processo di pace, è necessario isolare Israele. D’altro canto, è molto più realistico pensare che la Turchia stia attuando un piano di affermazione diplomatica del tutto individualistico. Il che significa comunque indebolire le alleanze locali. Se Ankara parla con Damasco e Teheran, il governo basato a Gerusalemme si arroga il diritto di indispettirsi. Nel frattempo, Mubarak è venuto politicamente a mancare. Anche in questo caso, è stato sottratto un appoggio non secondario a Israele.

L

degli investimenti. Nell’agenda di Erdogan c’è anche un atteso discorso all’Università, mentre oggi si rivolgerà ai ministri della Lega Araba nella sua veste di leader regionale. Sul fronte israeliano la tensione aumenta, specie dopo l’assalto all’ambasciata dello Stato ebraico al Cairo. Ma da Gerusalemme minimizzano le tensioni con la Turchia e più che Israele è il governo Netanyahu ad essere messo sul banco degli imputati. Nella tappa libica Erdogan incontrerà i rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione e tenterà di ricostruire la trama degli interessi di Ankara che ricordiamo avevano portato oltre 50mila tuirchi a lavorare in Libia. Non sarà facile visto l’attivismo in Libia di Parigi, grande nemico dell’ingresso della Turchia in Europa. Ma la Francia, fin dai tempi dai Francesco Primo, ci ha abituato a una politica dei due forni con l’Oriente musulmano.

Il premier turco Recep Tayyp Erdogan, che ieri ha iniziato un summit con le nuove autorità egiziane. La posizione di Turchia ed Egitto nei confronti di Israele sembra essere cambiata, tanto che diverse centinaia di manifestanti hanno assaltato nei giorni scorsi l’ambasciata di Tel Aviv al Cairo (foto sotto). Nella pagina a fianco Netanyahu

avviare un crollo improvviso di investimenti bi e trilaterali. L’Egitto è il primo partner commerciale di Israele. Il progetto di creare una Qualifying Industrial Zone – in sostanza un’area di libero scambio doganale – è ancora in fieri. Gli ultimi incontri in materia si sono avuti a marzo scorso.

Il piano dovrebbe agevolare gli scali marittimi di Alessandria e Porto Said e incrementare l’import-export reciproco per quanto riguarda turismo, energia e prodotti agroalimentari. Da questo potrebbe beneficiarne anche la Giordania, in maniera speculare. Se però l’accordo non raggiungesse la firma ultima, le relazioni economiche tra i due Paesi verrebbero spostate indietro di almeno una trentina d’anni. Stessa sorte per quanto riguarda la Turchia. Nel 1949, Ankara è stato il primo governo di un Paese a maggioranza musulmana a riconoscere Israele. In 62 anni, le due macchine industriali sono state in grado di tessere una tramatura di accordi senza precedenti, per cifre e qualità, nel bacino di tutta la Mezzaluna fertile. Oggi sono oltre quattro i miliardi di dollari che emergono dagli scambi commerciali tra i due. In essi è la difesa a tenere il passo. Netanyahu bisogna che tenga conto anche di tutto questo. Non solo per ragioni diplomatiche, ma anche per quel milione di indignatos che sono scesi in piazza quasi due settimane fa, lamentando il disinteresse del governo verso le reali difficoltà che incidono sull’economia di Israele. L’annullamento di un contratto prevede la crescita di disoccupati. A questo proposito, c’è da segnalare un’anomalia. In Israele, unico Paese del Medioriente che può sfoggiare un abito di genuina democraticità, la classe politica sembra non essere in grado di seguire le esigenze dell’opinione pubblica nazionale. Il governo turco, invece, che non riesce a scollarsi dal passato di autoritarismo, sembra aver imboccato la strada giusta. In Egitto, infine,Tantawi e la giunta militare – highlander di una rivoluzione che avrebbe dovuto annientarli – si sono visti costretti ad ascoltare una piazza che, mediante le violenze di venerdì notte, ha ben espresso come la pensa sull’alleanza con Israele. A questo punto però, proprio perché Netanyahu guida una nazione libera e democratica, nonché forte in termini di sicurezza e alleanze con l’Occidente, la palla spetta proprio a Israele. Il dilemma è se convenga mantenere il muso duro contro questi due (forse) ex alleati, conservando l’insufficiente e fragile rapporto con Giordania e Usa, oppure se adeguarsi ai cambiamenti sopraggiunti con la primavera araba.

A Washington possono essersi fatti l’idea per cui, se si vuole riprendere davvero il processo di pace, è necessario isolare i sionisti. E quindi potrebbero aver dato un placet in tal senso

In pochi mesi gli scenari sono stati rivoluzionati. Lecito chiedersi cosa cambi ora con un Erdogan che incontra il maresciallo Tantawi. Se la linea polemica di Egitto e Turchia dovesse continuare, le ripercussioni pagate da Israele sarebbero di natura politica ed economica. Per le prime, Netanyahu si troverebbe davvero orfano di due interlocutori irrinunciabili. Non si può sperare nella pace con l’Anp senza che venga interpellato Il Cairo – chiunque vi sia lì al potere. Così come non si possono chiudere le porte ad Ankara, partner della Nato e con un piede in Europa, sperando che non vi siano ricadute. Sul piano economico, quel che sta accadendo può


pagina 12 • 13 settembre 2011

mondo

Dagli attacchi alle Twin Towers, oltre 7mila attivisti del Turkestan orientale sono spariti nel nulla. Per il Partito sono “terroristi”

Le altre vittime dell’11/9

Pechino ha usato la guerra al terrorismo per schiacciare gli uighuri Un’etnia islamica che rivuole l’indipendenza che le venne rubata da Mao di Vincenzo Faccioli Pintozzi ome ogni guerra che si rispetti, anche la “Guerra al terrorismo internazionale” ha le sue vittime dimenticate. O forse sarebbe meglio dire nascoste. Parliamo di quelle persone che sono morte non soltanto sui campi di battaglia più noti – come Iraq e Afghanistan – ma anche di coloro che hanno pagato per la propria religione (e basta) con pene detentive, lavori forzati e spesso con la vita. È il caso degli uighuri, etnia turcofona e musulmana che vive nel Xinjiang, una regione della Cina settentrionale. In realtà loro preferiscono chiamare la propria patria Turkestan orientale, perché così si chiamava prima che le truppe di Mao Zedong la annettessero a forza alla Repubblica popolare. Nel corso della guerra al terrore, negli ultimi dieci anni, settemila di questi uighuri sono morti, spariti nel nulla o condannati a pesantissime pene detentive.

C

Secondo Rebiya Kadeer, leader del Congresso mondiale degli uighuri e dissidente di lungo corso, «le autorità cinesi hanno trovato nell’11 settembre la scusa perfetta per scagliarsi contro ogni forma di dissenza politico, sociale e culturale. Aiutati dagli attacchi alle Torri gemelle, hanno sostenuto che ogni forma di protesta nella nostra regione è imputabile all’estremismo religioso, al terrorismo o al separatismo». Secondo la dissidente, il Congresso mondiale degli uiguri - l’organizzazione da lei guidata – «vuole parlare con il governo cinese. Pechino deve accordarci una nostra autonomia, perché con il suo modo di agire distrugge la nostra nazione, la nostra educazione, la nostra religione e

la nostra libertà di espressione». La frase si riferisce al massiccio ingresso di cinesi di etnia han (maggioritaria in Cina) nella provincia dello Xinjiang.

Secondo gli autoctoni - che, ricordiamo, sono turcofoni di religione musulmana e quindi molto distanti dalla cultura tradizionale cinese - l’ingresso di questi “ospiti” è mirato a distruggere l’identità locale. Protetti dal governo centrale, gli han in effetti sono in posizione predominante in quasi tutti i campi: economico, universitario e gestionale. Gli uiguri - che identificano la loro terra con il Turkestan orientale - hanno chiesto più volte una sorta di autonomia (almeno culturale) dalla Cina. Proprio queste richieste sarebbero alla base delle

sanguinose proteste iniziate lo scorso 5 luglio, che secondo il bilancio ufficiale di Pechino sono costate la vita a 192 persone, per la maggior parte han. Ma secondo un rapporto presentato da Human Rights Watch (Hrw), e confermato dalle dichiarazioni della Kadeer, «migliaia di manifestanti sono spariti senza lasciare traccia subito dopo le proteste».

L’Organizzazione non governativa, con base a New York, sostiene di avere «prove di prima mano che riguardano più di 40 singoli casi di uccisioni mascherate da sparizioni. Ma queste sono soltanto la punta dell’iceberg». I dati sono contrastanti, ma quelli più accreditati parlano di almeno mille casi di uccisioni. Il rapporto di Hrw parla anche

Aiutati dagli attacchi qaedisti, i quadri comunisti hanno stilato una legislazione durissima per gli “estremisti islamici”. Prevista anche la pena di morte per chi, musulmano, protesta

delle «modalità con cui la polizia cinese ha cercato di fermare le proteste del luglio scorso. Le strade sono state blindate da agenti in tenuta anti-sommossa, che hanno preso parte alle violenze arrivando a sequestrare dei sospetti per interrogarli con la tortura. In alcuni casi la polizia è arrivata a dare fuoco a case e uffici, portando via le persone senza accuse o spiegazioni». Tutto questo è stato giustificato dalla lotta al terrorismo: le persone scese in piazza per protestare contro l’invasione han sono state definite “estremisti islamici”. E così Pechino è riuscita a evitare le critiche internazionali, moltiplicando la propria capacità di fare come vuole all’interno dei propri confini nazionali. All’inizio della guerra, gli States sembrarono dare ragione alla Cina: 22 uighuri finirono nel carcere internazionale di Guantanamo. In un secondo momento, però, l’intero gruppo venne dichiarato innocente e rilasciato: Pechino sbavava per riaverli in patria, e chiese di farli tornare nel Xinjiang. Washington, forse pentita di quanto avvenuto, decise invece per l’estradizione in nazioni terze. Tranne cinque, che tornarono in Cina e sparirono nel nulla.

Il Partito ha capito che in questo modo può permettersi la propria pulizia etnica, e ha lanciato una nuova accusa penale: “Messa a rischio della sicurezza dello Stato”. Le autorità hanno usato questa vaghissima norma per criminalizzare ogni esercizio pacifico da parte degli uighuri. Questo crimine è previsto dagli articoli 102 e 113 e include la “sovversione del potere statale”, il “separatismo” e la “cessione di segreti di Stato”.


mondo

13 settembre 2011 • pagina 13

C’è bisogno di creare una vera rete di intelligence, gli allarmi sono inutili ieci anni or sono, quando ancora stavamo ricondizionandoci per la caduta del Muro, ci trovavamo nuovamente di fronte alla necessità di un profondo ripensamento. Era già cambiato molto, ma tutti ci siamo subito resi conto che molto ancora si sarebbe dovuto cambiare. Di questo se ne accorgeva già nel 1878 Otto von Bismark, quando vedeva nel suo tempo un momento straordinario nel quale «il forte è ormai debole per via dei suoi scrupoli morali e il debole si è fatto forte per la sua spregiudicatezza». Questo tipo di valutazione sottrae per la prima volta il concetto di “guerra” al solo campo di battaglia per ricollocarlo in un più ampio contesto socio-politico, economico ed etico-culturale. Lo aveva intuito anche George Bush, il quale, dichiarando la Global War on Terror, implicitamente dimostrava quanto fossero ancora valide le proposizioni degli illustri prussiani. Per capire come sia cambiato il terrorismo in questi dieci anni sarebbe necessario prima darne una definizione semplice, che tuttora non esiste. L’impedimento sta in quella labile linea di demarcazione tra “combattenti” e “terroristi” che, come tale, viaggia sul filo dell’interpretazione ideologica. È evidente che, così, una definizione univoca ed universalmente accettata è impossibile. Non stupiamoci allora se questa ambiguità ormai costituisce uno degli elementi di forza del terrorismo internazionale.

D

Secondo gli Usa, se un gruppo terroristico coinvolge cittadini o proprietà di più di un Paese, allora si tratta di “terrorismo internazionale”. Definizione insufficiente, perchè non include le azioni spontanee dei cosiddetti “lupi solitari”, ormai così frequenti. È senza dubbio una variante attuale del terrorismo islamico post 11 settembre. L’Unione Europea propone una definizione propria, che non aggiunge nulla: “gruppo terroristico” è quello composto da due o più persone che agiscono di concorso a fini di terrorismo per un certo lasso di tempo. Non è affatto questione di lana caprina, se è vero che,

Dieci anni dopo, chi è cambiato? Dobbiamo eliminare la nostra paura, o vincerà un nemico che si può battere di Mario Arpino

per individuare le metodologie di contrasto, occorre prima definire e circoscrivere il fenomeno.“In principio era al Qaeda”, che aveva dimostrato la propria capacità operativa nell’attacco simultaneo all’America. Oggi non è più solo così, anche se Osama era poco più di un’icona già molto prima di essere ucciso. Ma aveva saputo lanciare una sorta di “messaggio all’aria” che era stato ben recepito, rendendo per il futuro poco utile, se non controindicata, una vera e propria struttura verticale. Riccardo Alcaro, ricercatore senior dell’Istituto Affari Internazionali, ha preparato una relazione dove si legge che i servizi del Congresso hanno cercato di studiare l’evoluzione del fenomeno, traendone cinque punti. Primo. Il terrorismo internazionale ormai è destrutturato, frantumato in una rete di cellule indipendenti. Ciascuna può unirsi ad altre, ma ciò non muta una sua

Per questi crimini sono previsti l’ergastolo e la pena di morte, anche se l’esperienza insegna che le autorità preferiscono 15 anni di galera, di cui 5 ai lavori forzati. Anche perché per la pena capitale servono prove, che molto spesso in questi processi politici non sono proprio prese in considerazione. In effetti si tratta di farse vere e proprie, e neanche troppo ben congegnate: agli imputati non è permesso incontrare l’avvocato per scegliere e preparare la linea difen-

Il jihad è molto mutato, ma di certo non ha qualità invincibili. Al contrario, si sta sgretolando sempre più natura poco afferrabile. Anzi, la esalta. Se alcuni gruppi sono più noti, come quelli legati al marchio di al-Qaeda in un presunto franchising, è solo perché godono di maggior prestigio. Non esiste subalternità. Secondo. I finanziamenti da fondazioni private, e solo in minima parte provenienti da Stati, rendono difficile estinguerne le fonti. Terzo. Si tratta di un fenomeno chiaramente trasnazionale, sia per campo d’azione che per l’origine degli agenti. Quarto. Esiste una forte caratterizzazione ideologica internazionale, dove quella religiosa del radicalismo islamico è decisamente

siva; non è permesso loro di esprimersi liberamente; non possono parlare con familiari o amici; non vengono ascoltati durante il procedimento.

E sempre più spesso, a guidare i tribunali ci sono funzionari anziani del Partito. È superfluo dire che sono praticamente tutti di etnia han. Ovviamente anche questa medaglia ha il suo rovescio. Alcune frange dell’etnia uighura lottano effettivamente per l’indipenden-

la più diffusa, ma non l’unica. Quinto. Elemento caratterizzante il nuovo terrorismo internazionale è la sua tendenza a sovrapporsi ad altri tipi di minaccia globale, e a divenire particolarmente virulento nei failed States (Stati falliti) o rogue States (stati canaglia), governati da regimi che ne tollerano o favoriscono la presenza. Con il termine “terrorismo internazionale”, ormai, non si indica più un soggetto unico e concreto, ma un particolare tipo di minaccia. Ciò significa che l’eliminazione fisica dell’”agente”può non coincidere con l’eliminazione della minaccia. E questa non è una bella notizia. L’ultima proposizione porta alcuni a chiedersi se bin Laden non abbia vinto, sia pure dopo la morte. Certo, se si pensa solamente a come l’attacco alle Twin Towers, e poi quelli di Londra e Madrid ci abbiano costretto a vivere in questi ultimi dieci anni, a quanto si sia abbassa-

za e usano le proteste sociali per scatenare scontri spesso mortali; predicano l’odio nei luoghi di culto e si comportano come delinquenti. Ma si tratta di una piccolissima parte, per la maggior parte tenuta a bada dai connazionali. E comunque la Cina ha dimostrato di non avere interesse a costruire un dialogo sincero con i leader uighuri moderati: il caso più eclatante riguarda un “incidente”aereo avvenuto 53 anni fa, in cui morirono praticamente tutti gli esponenti

ta la nostra qualità di vita, a quanti siano stati i morti nelle guerre successive, a quanto i costi enormi abbiano contribuito alla speculazione e ai dissesti economici, allora bin Laden ha vinto. Ma solo se l’obiettivo era questo. Se invece era quello ideologico-religioso del califfato globale, la umma, allora le forze dell’estremismo risultano sonoramente battute, tanto che non sono più state in grado di condurre azioni eclatanti. Sembrerebbe essere in atto, almeno per quanto riguarda l’Occidente, una specie di tregua. Bisogna però mantenere alta l’attenzione, cercando di non autocastigarci eccessivamente. Infatti se è vero, come è vero, che ogni attività si ispira - in modo distorto - alla legge coranica, allora si scopre che l’islam integralista, quando la sua azione di conquista risulta insufficiente, ammette un tipo di tregua che in arabo si chiama hudna. La durata è indeterminata, mentre la ripresa della lotta è prevista alla prima occasione. La tregua islamica, quindi, non è della stessa natura della pace.

È qui che sorge spontaneo un altro quesito: dopo l’11 settembre, è cambiato il terrorismo o siamo cambiati noi? Abbiamo già detto che il fenomeno ha subito delle mutazioni. Per quanto invece ci riguarda, il nostro atteggiamento vittimistico deve ancora cambiare, perché così, alla distanza, favoriamo un nemico che non è invincibile. Tra diversi miliardi di esseri umani, i terroristi sono una frazione infinitesimale che – lontano da ogni emotività – non può materialmente prevalere. Smettiamola allora con grida d’allarme istituzionali troppo rumorose e frequenti, che spesso hanno il sapore di auto-tutela. Non roviniamoci l’esistenza assumendo come ineluttabile o molto probabile tutto ciò che, dati alla mano, non si può escludere con assoluta certezza. Cerchiamo invece di essere più seri, di non cadere nelle trappole mediatiche e di indirizzare meglio lo sforzo internazionale verso un coordinamento operativo, economico, di intelligence e culturale che, ancora oggi, non appare affatto sufficiente.

dell’ex governo del Turkestan annesso da Mao. Erano stati invitati a Pechino per dei colloqui con il governo centrale, che dichiarava di voler trovare una soluzione alle proteste popolari contro la presenza dell’esercito di liberazione popolare. Con questi interlocutori, è facile capire la diffidenza e la difficoltà di dialogo che gli uighuri sentono oggi per la Cina. E la guerra al terrorismo si è rivoltata contro di loro, premiando i veri terroristi. Gli invasori di Mao.


mondo

pagina 14 • 13 settembre 2011

L’età avanzata della struttura desta preoccupazione, anche perché negli ultimi anni ha cercato più volte di ripulirsi. Per ora nessun rischio per l’Italia

Francia, incubo nucleare A sei mesi dal disastro di Fukushima un’esplosione scuote la centrale di Marcoule: 1 morto e 4 feriti, rischio fuoriuscite di Massimo Fazzi n’esplosione, e in Francia torna l’incubo del nucleare. A sei mesi esatti dalla tragedia di Fukushima, ieri uno scoppio ha scosso reattore di Marcoule nel Gard (uno dei più vecchi del Paese), con conseguente rischio di fuga radioattiva. La centrale di Marcoule è sul fiume Rodano, a Nord di Avignone e Marsiglia, non troppo distante dall’Italia (242 km in linea d’aria da Ventimiglia, 257 da Torino, 342 da Genova). Poco dopo le 16, l’Agenzia francese per la sicurezza del nucleare (Asn), che vigila sul settore atomico e sulla protezione dei consumatori, ha comunicato che l’incidente di Marcoule era “chiuso”: «Questo incidente non implica rischio radiologico, né necessità di protezione per la popolazione», ha assicurato ASN, specificando di aver disattivato la cellula di crisi a cui era stato affidato l’incidente nel sito nucleare del sudest della Francia. L’esplosione tuttavia è costata la vita a una persona, mentre altre 4 sarebbero rimaste ferite. L’incidente si è prodotto in una fornace di un centro di smaltimento di scorie radioattive. I pompieri hanno stabilito un perimetro di protezione per il rischio di fughe di materiale radioattivo attorno al sito nucleare. L’incidente è avvenuto

U

nel sito di Centraco della società Socodei, filiale dell’Edf, a Codolet, ha precisato un portavoce del Commissariato all’energia atomica (Cea). «Non c’è fuga radioattiva»: ha detto il governo francese. «Non è prevista nessuna evacuazione né isolamento di lavoratori della centrale dove è avvenuto l’incidente» annuncia il ministero dell’Interno. In

base alle notizie divulgate finora dalla Francia, l’incidente «non dovrebbe portare alcun rischio per il nostro Paese, malgrado il sito sia piuttosto vicino alle nostre frontiere». Lo ha riferito Valerio Rossi Albertini, fisico del Cnr, al sito del Sole 24Ore

: «Non sappiamo ancora - spiega - se i tecnici per il rilevamento di fughe radioattive sono sul posto, ma le autorità francesi dicono che per ora non risultano fughe. D’altra parte non è detto che un incidente vada necessariamente a coinvolgere componenti radioattive, anzi». In ogni caso, ricorda Albertini, «a Fukushima, che fu un incidente di certo molto più grave di questo, fu disposta l’evacuazione per un raggio di 20-30 chilometri, mentre Marcoule è a circa 300 chilometri dai confini italiani, che mi pare una distanza di sicurezza accettabile. Aspettiamo ulteriori dettagli dalle autorità francesi, ma per ora mi sembra non si possa parlare di rischi per l’Italia». «Ritengo che entro stasera portebbero già arrivare dati più certi sulle proporzioni dell’incidente - spiega Rossi Albertini -. Al momento sono molto poche le notizie ufficiali che arrivano dalle autorità francesi e serve infatti tempo e sopralluoghi tecnico-scientifici per avere un quadro concreto». Riguardo alla possibilità che possa arrivare una eventuale nube radioattiva sul nostro Paese, Rossi Albertini invita ancora alla calma.

In ogni caso, l’incidente ha destato preoccupazione soprat-

Una delle centrali gestite dalla Areva, la società privata a partecipazione statale che gestisce l’energia nucleare in Francia. Ieri i tecnici hanno escluso ogni fuga di materiale dalla centrale di Marcoule, nella foto a sinistra, ma rimane alta la paura dopo quanto accaduto in Giappone. Nella pagina a fianco, in basso, una mappa del nucleare francese tutto per l’età avanzata della centrale. Il sito nucleare di Marcoule è uno dei più antichi di tutta la Francia, e ha giocato un ruolo significativo nello sviluppo del nucleare d’Oltralpe e nello sviluppo di deterrenti termonucleari. Ha aperto nel 1956, parecchio dopo l’inizio della corsa atomica degli Stati Uniti: all’epoca, Parigi cercava di ottenere un proprio seggio al tavolo delle potenze nucleari. I reattori di prima generazione crearono prima le condizioni necessarie e poi il plutonio che rese possibile il primo test, avvenuto nel 1960. A questi seguirono altri reattori, costruiti sempre con scopi di difesa, e mentre il mondo assisteva alla nascita di ordigni potenzial-

mente sempre più distruttivi, il reattore di Marcoule venne alla luce per produrre il tritio: carburante fondamentale per gli ordigni all’idrogeno (o termonucleari). Dal punto di vista dell’uso “civile” del reattore, il sito venne usato anche per sperimentare il reattore Phenix e – dal 1995 – ha combinato uranio fissile e plutonio in un ossido mischiato (il Mox) che può essere usato nelle centrali per la produzione di energia nucleare. Tuttavia, come altri siti – fra cui quello britannico di Sellafiled – la sua principale attività è stata quella di ripulirsi. Negli anni Cinquanta, e poi nei Sessanta, del secolo scorso tuttavia l’imperativo era un altro: rispondere alla richiesta militare


mondo

13 settembre 2011 • pagina 15

1975. «È la prima volta che si verifica un incidente del genere - ha detto Gilles Salgas, responsabile della comunicazione della società Socatri -. Su una scala di incidenti nucleari che va da 0 a 7 dovrebbe essere classificato a livello 1».

U n a p r i m a r i c o s t r uz io n e della dinamica dell’incidente venne da una portavoce dell’Asn, Evangelia Petit: i circa trentamila litri di liquido contenente uranio - spiegò - si sono riversati durante alcune opera-

Il governo di Parigi e l’Agenzia che si occupa di sicurezza nucleare gettano acqua sul fuoco: «Nessun rischio per l’ambiente»

LE CENTRALI NUCLEARI FRANCESI

di produzione di carburante irradiando così tutto quello che c’era da irradiare, senza pensare molto a quanto – e come – si sarebbe poi potuto rendere il tutto sano. E Marcoule si trova oggi a combattere con l’eredità di quella “spazzatura nucleare” che lei stessa ha creato. Certo, il governo dice che non c’è traccia di fuoriuscite pericolose: ma il governo francese non ha mai brillato per trasparenza nella gestione delle emergenze nel programma nucleare. Vogliamo citare un ca-

so? Trenta metri cubi di acque usate contenenti 12 grammi di uranio per litro si sono riversate nel 2008, per cause accidentali, in due fiumi - La Gaffière e L’Auzon - nel sud della Francia. Le acque provenivano dal sito nucleare di Tricastin a Bollène, nel distretto di Vaucluse, a circa 40 chilometri da Avignone. L’allarme è rientrato quasi subito (l’’ncidente è avvenuto intorno alle 6,30 del mattino): l’Agenzia per la sicurezza nucleare francese (Asn) ha parlato di «rischio debole per la popolazio-

ne». Dello stesso parere i prefetti dei dipartimenti di Vaucluse e Drome. Le autorità locali presero misure di precauzione. Nei comuni di Bollèn e, Lapalud e Lamotte- du-Rhône vennero vietati la presa d’acqua dai pozzi e l’impiego dell’acqua dei fiumi per irrigare i campi. Vietati anche la pesca, il consumo di pesce e i bagni nelle acque inquinate. L’incidente avvenne durante un’operazione di pulizia di una cisterna nello stabilimento Socatri, azienda del gruppo Areva, in attività dal

zioni di pulitura, finendo al suolo e quindi in un canale adiacente, da dove poi sono finiti nei due fiumi. «Una parte della soluzione - ha precisato il direttore della sicurezza dell’Istituto di radioprotezione e sinazionale (Irsn), curezza Thierry Charles - è stata recuperata, un’altra si è diluita nei corsi d’acqua e la terza fortunatamente non ha raggiunto la falda freatica». Le dichiarazioni rassicuranti delle autorità non bastarono a evitare lo scoppio di polemiche. «È impossibile che una diffusione di uranio di tale entità non abbia conseguenze importanti sull’ambiente e forse anche sulla salute della popolazione» dissero dall’organizzazione ecologista “Sortir du Nucleaire”. In quei mesi in Francia il nucleare era un tema caldo, dopo l’annuncio del presidente Nicolas Sarkozy di voler aumentare il numero di centrali sul territorio nazionali (attualmente sono 53). Attualmente la Francia ricava circa l’ottanta per cento della sua elettricità dal nucleare. E Francia e Libia avevano ufficializzato l’accordo di cooperazione per lo sviluppo dell’energia nucleare a scopi pacifici concluso nel corso del 2007. Sarkozy aveva annunciato che entro fine anno in Giappone i Paesi del G8 si sarebbero riuniti per un forum su energia nucleare ed energie rinnovabili, per coordinarne lo sviluppo e far fronte all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas. «Vedo crescere il sostegno all’alternativa nucleare - diceva Sarkozy e per la Francia è una scelta molto vecchia. Il Regno Unito vuole rafforzarla, l’Italia è interessata e certamente anche gli Usa e la Cancelliera tedesca Angela Merkel, a titolo personale, è favorevole ». Poi arrivò Fukushima, esattamente 6 mesi fa, e oggi Marcoule. Forse le priorità e le scelte personali sono cambiate.

i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.