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Il dubbio in ogni sua forma è un omaggio alla speranza Isidore Ducasse

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 15 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La Camera vota la fiducia mentre fuori i Cobas organizzano una «guerriglia» lanciando anche bombe-carta

La manovra e Lavitola Passa la “Quinta” di Berlusconi ma esplode il caso del latitante Casini: «Irresponsabili, l’Italia è sul baratro». Marcegaglia: «Non c’è crescita. Non siamo credibili». Agli atti la telefonata al direttore dell’Avanti. Il premier dice: «Resta all’estero, ti scagiono io» I BALLETTI DEL GOVERNO

OLTRE IL LIMITE

È vero, non siamo come la Grecia. Ancora per quanto?

Questo è un reato. Si chiama «istigazione a delinquere»

di Gianfranco Polillo

di Giancristiano Desiderio

na telefonata allunga la vita: diceva Tullio Solenghi in un vecchio spot. Qualcosa del genere dovrebbe succedere nella teleconferenza sulla Grecia tra Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e George Papandreou, anche se i risultati effettivi si avranno solo tra qualche giorno. Il compito più difficile spetta a Frau Merkel. Deve convincere una parte del suo partito che la politica economica è cosa diversa dalla semplice ragioneria e che l’attuale benessere della Mitteleuropa (Germania, Olanda, Austria e Lussemburgo) dipende da come si uscirà da questa crisi senza distruggere l’euro. Perché la moneta unica è cosa buona e giusta, ma per quei Paesi, ormai leader nel campo dell’esportazione di beni manufatti, è ancora migliore. E allora ci vuole un pizzico di pazienza, unita a un’esatta percezione del rischio implicito nelle eventuali soluzioni alternative. Conviene il default della Grecia o non è meglio sostenere il suo Governo nella difficile, anche se tentennante, opera di risanamento? a pagina 5

a che gente frequenta il presidente del Consiglio? Ce lo siamo sempre domandato ad alta voce e da subito, da quando venne fuori la storia delle feste di Arcore, dicemmo che per il capo del governo c’era un chiaro rischio-ricatto. Ora le nuove carte processuali depositate al tribunale del Riesame di Napoli ci rivelano un Silvio Berlusconi completamente in balia dei suoi interlocutori e in particolare di Valter Lavitola. La famosa telefonata del 24 agosto, quella fin qui negata da tutti, ci presenta un premier che consiglia al direttore dell’Avanti! di farsi indietro, cioè di non rientrare in Italia ma di restare all’estero, a Sofia dove in quel momento si trova e da dove ha telefonato al capo del governo italiano. Dice il giornalista: «Senta dottore, vabbè, io mo sono fuori… a ‘sto punto…». E Berlusconi, anche imbeccato da Lavitola che mostra di saperlo prendere bene, suggerisce: «...e resta lì e vediamo un o’…uhm…». Diciamolo subito con chiarezza: questo è un reato. a pagina 6

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La Corte dei Conti

Merkel-Sarkozy-Papandreou

È allarme L’Ue promuove corruzione: Atene per salvare «Ormai ci costa le proprie come l’evasione» banche «infette» Duro il presidente «Insieme faremo Giampaolino: qualunque cosa «Le tangenti sono arrivate per tenere i greci al terzo posto saldamente nella classifica dei danni dentro l’area euro», erariali al Paese» promettono i due leader Riccardo Paradisi • pagina 3

Enrico Singer • pagina 4

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La morte, a 81 anni, del protagonista di tante sfide alla montagna

Quell’eroe coi piedi sulle nuvole Addio a Bonatti, dalle polemiche sul K2 a mito dell’alpinismo di Marco Scotti a raggiunto la sua ultima vetta, Walter Bonatti. Dopo una vita passata a scalare montagne e affrontare fieramente le polemiche seguite alla “conquista” del K2, del 1954. È morto a 81 anni uno dei più grandi interpreti dell’alpinismo italiano, scalatore coraggioso e mai imprudente, che ha condotto una vita “altissima” aprendo molte vie inedite alla conquista delle montagne più impervie. Eppure un uomo che ha colpito per decenni l’opinione pubblica anche per la fermezza e la quiete inusuale con le quali ha affrontato per molti anni la tormenta delle polemiche, delle allusioni anche pesanti quando non alle vere e proprie accuse. Perché Walter Bonatti, per

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

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il quale il Monte Bianco e il K2 non avevano segreti, è stato uno di quelli italiani che volevano allargare i confini della conoscenza della natura da parte dell’uomo. Quelle figure mitiche, quasi ottocentesche, per i quali la vittoria era importante quasi quanto il rispetto per l’ignoto. Nel senso della montagna, ma in senso lato della natura. Ecco che cosa ha insegnato Walter Bonatti al Novecento: il rispetto. E lo ha fatto attraverso una vita che vale la pena ripercorrere per intero, tra il profumo di cuoio degli scarponi di una volta e il freddo pungente delle cime più alte del mondo. Quelle che nel corso di più di cinquant’anni ha conquistato e consegnato agli appassionati di roccia e di montagna. segue a pagina 14

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 15 settembre 2011

il fatto Oggi in piazza enti locali, consumatori e Cgil. Emma Marcegaglia contro il governo: dubito che farà le riforme

La manovra delle tasse

Via libera dalla Camera. Casini: «Una maggioranza irresponsabile» Ma fuori da Montecitorio i Cobas lanciano pietre e bombe-carta il retroscena di Franco Insardà

ROMA. Superato lo scoglio del

Parlamento (ma la fiducia è passata soltanto con 14 voti) ora c’è da affrontare la piazza. Fargli metabolizzare una manovra con tasse e tagli superiore ai cento miliardi. Operazione troppo ambiziosa per una maggioranza capace soltanto di stare assieme per convenienza, di tirare a campare fino alla fine della legislatura. Oggi scendono in piazza la Cgil, i sindaci, le Province e i consumatori, mentre Emma Marcegaglia dice pubblicamente di non credere alla possibilità che questo esecutivo possa imboccare la strada delle riforme. C’è il timore che salti la pace sociale che ha attutito il peso della crisi. Non a caso Pier Ferdinando Casini, nella sua dichiarazione di voto sulla manovra, ha richiamato la politica e gli attori sociali tutti a «più amore e rispetto per l’Italia». Il leader dell’Udc ha sottolineato la prova di responsabilità delle opposizioni in risposta a una «maggioranza che ha dato una grande prova di irresponsabilità, prevedendo meno tagli alla politica e più tasse per i cittadini. Mentre noi siamo per affrontare drasticamente i costi della politica». Non è mancato un richiamo a chi gioca con la piazza, perché «una cattiva manovra è meglio di una non fatta.Va ricordato che è stata modificata dal governo e non dal Parlamento. Il problema, però siamo noi, che a differenza di altri Paesi non ci stiamo muovendo». Bacchettate anche al Pd, che non è privo di responsabilità perché «il governo Prodi abolì lo scalone pensionistico». Tutti elementi, la chiosa di Casini, di «un Paese che aumenta le tasse e non la produzione e che è destinato a finire nel baratro».

Messaggi doverosi dopo l’ennesima giornata all’insegna della tensione, tra contestazioni, lanci di bombe carta da parte dei Cobas e sinistra radicale e cariche della polizia davanti Montecitorio, i mercati in subbuglio (lo spread tra Btp e Bund a 370 punti), una manovra passata con pochi voti e un Silvio Berlusconi sempre più commissariato e costretto a salire al Quirinale per riferire a Napolitano dell’esito delle sue trasferte a Bruxelles e Strasburgo. La manovra, che fissa il raggiungimento del pareggio di bilancio

Il premier cinese: «Nessun investimento diretto, puntiamo sul Vecchio Continente»

Wen Jiabao “gela” l’Italia ma guarda all’Europa di Vincenzo Faccioli Pintozzi utto dipende da come uno la vuole vedere, da quale sia il punto di vista preferito per il momento. Perché se è vero che ieri Wen Jiabao, primo ministro e “volto amico” del governo cinese, ha confermato l’interessamento per un continuo investimento cinese nel Vecchio Continente, è vero anche che ha smorzato le voci di chi lo voleva acquirente del debito pubblico italiano. L’Europa – ha detto Wen aprendo il World Economic Forum - «è in grado di risolvere i propri problemi. I Paesi del Vecchio Continente devono far fronte ai problemi del debito, ma sono sicuro che ce la possono fare». In ogni caso «la Cina continuerà ad aumentare i suoi investimenti in Europa - ha aggiunto il premier di Pechino -, sperando che i leader europei e i dirigenti dei principali Paesi europei delineino con coraggio le loro relazioni future con la Cina da un punto di vista strategico». In sostanza, Wen Jiabao ha chiesto che l’Unione Europea accordi alla Cina lo statuto di “economia di mercato”. Quanto a nuovi aiuti in favore dell’Eurozona, i Paesi del Brics (India, Brasile, Russia e Sudafrica, oltre alla Cina) “valuteranno la possibilità” nel corso di un vertice previsto questo mese a Washington a margine di un summit della Banca Mondiale e dell’Fmi. Lo ha comunicato R. Gopalan, segretario agli Affari economici del ministero delle Finanze indiano. In realtà stando a fonti brasiliane - i Paesi emergenti avrebbero già avviato negoziati per aumentare le loro riserve di obbligazioni in euro. Ma, mentre non è un problema pensare all’acquisto del debito pubblico dell’Eurozona da parte di nazioni straniere in piccole quantità, potrebbe diventare ostico immaginare un Paese in mano a un’altra capitale. Secondo Maurizio d’Orlando, economista e com-

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mentatore economico di AsiaNews, «non c’è da stupirsi di quanto avviene. Il pensiero del governo italiano, in questo campo, è semplice quanto travisato: in pratica l’Italia, facendo trapelare la notizia dell’interessamento cinese, chiede alla Banca centrale europea di impegnarsi per l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano. Se la Bce lo farà, l’Italia ha già trovato altri acquirenti che seguiranno. In questo caso, la Cina».

Pechino, prosegue d’Orlando, «sta cercando di fare con l’Europa quello che già ha fatto con gli Stati Uniti. Non potendosi sganciare da un’economia interna basata sulle esportazioni, e continuando a tenere sottostimato lo yuan, deve sostenere i mercati di arrivo delle proprie merci. Ma il Vecchio Continente, per ora, si difende con i parametri per l’ingresso di merci, con le barriere non tariffarie: e cioè con i parametri qualitativi per l’immissione al consumo». «Ma quello che sta facendo la Cina in realtà – conclude d’Orlando – è un’altra cosa: vuole portare l’euro sempre più verso il ruolo di valuta di riserva internazionale, in contrapposizione al dollaro. Ma questa è una politica pericolosa anche per l’Europa: si rischia l’aumenta del deficit commerciale dell’Ue con la Cina, che fino a poco tempo fa, era comunque ridotto. E questo perché il tasso di cambio cinese è comunque inferiore al tasso che si può dedurre in base alla parità di potere d’acquisto, cioè un vantaggio per l’esportatore cinese». Insomma, dietro alle manovre che avvicinano l’Europa alla Grande muraglia c’è l’antica e lunghissima battaglia per la supremazia valutaria. Una battaglia che Washington e Pechino non hanno intenzione di perdere, di cui forse farà le spese Bruxelles. E i suoi satelliti continentali.

Dietro l’interessamento del Dragone c’è la battaglia sulla valuta americana

nel 2013, prevede tagli ai redditi dei “paperoni” e manette per gli evasori. Misure per riordinare le spese delle pubbliche amministrazioni e incrementi delle imposte per imprese e consumatori. Nel mirino del provvedimento ci sono sia le spese di ministeri ed enti locali sia i politici e super-ricchi. Per i lavoratori saranno i contratti aziendali e territoriali a stabilire le nuove regole, mentre gli aspiranti pensionati e pensionate dovranno aspettare di più per lasciare il lavoro. E arrivano nuovi giochi d’azzardo e lotterie, da cui sono attesi 1,5 miliardi nel 2012. Ieri è arrivato il via libera, mai dai palazzi della politica filtra il timore che non basti a salvare la vita al governo. Con le parti che fanno a gara per scaricare il premier, c’è il timore che salti la pax sociale mantenuta in questi anni anche grazie all’apporto di Cisl, Uil e delle imprese. Che il binomio piazza-spread spazzi via ogni ricordo del berlusconismo.

A Piazza Montecitorio, infatti,questa mattina ci saranno rappresentate tutte le Province italiane, nella giornata di mobilitazione organizzata dall’Upi dalle 11,00 alle 14,00 nella sala delle Conferenze a Piazza Montecitorio 123/A contro i tagli imposti agli enti locali dalla manovra economica e contro un progetto di abolizione che le Province giudicano «confuso e che non prevede una riforma organica del Paese». Insieme a loro ci saranno i rappresentanti dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, della Conferenza delle Regioni e delle forze economiche e sociali del Paese. Nella stessa piazza si svolgerà la manifestazione “Tasche vuote”, organizzata dalle associazioni Adusbef, Assoconsum, Cittadinanzattiva, Lega Consumatori, Movimento Consumatori e Federconsumatori, per protestare contro una manovra economica che giudichiamo del tutto iniqua ed inadeguata alle esigenze del Paese. Alla manifestazione aderisce anche la Cgil che condivide l’analisi e il giudizio sulla manovra economica dal carattere «iniquo, ingiusto e depressivo con misure che gravano pesantemente sui consumi, come l’aumento dell’Iva». Ieri la presidente di Confindustria è andata giù molto dura davanti ai suoi associati riuniti a Perugia: «Questa manovra non risolve i


l’audizione La relazione del presidente della Corte dei Conti Giampaolino

«La corruzione ci costa come l’evasione fiscale» Intanto la giunta per le autorizzazioni a procedere respinge la richiesta di arresto per Milanese di Riccardo Paradisi opo l’evasione e la criminalità organizzata è la corruzione la principale fonte di danno erariale allo Stato. È questa in sintesi l’analisi del presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino nel corso dell’audizione alla commissione Affari costituzionali e Giustizia della Camera sul disegno di legge del Governo per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione.

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problemi dell’Italia, non ha nulla per tornare a crescere. Anche se va bene nei saldi è sbagliata in molte cose perché per il 65 per cento è fatta di tasse, non ha niente di strutturale, niente sulle privatizzazioni e le liberalizzazioni. Fino ai primi di agosto il governo italiano ha detto che noi non avevamo la crisi, sono stata attaccata per aver detto il contrario, ma finché sono qua dirò quello che penso. Io ho detto spesso a nome di Confindustria che l’Italia non va bene, non cresce, non fa riforme strutturali, la tesi del governo era che noi eravamo al riparo e questo non era vero».

La Marcegaglia ha definito un “balletto piuttosto imbarazzante” le «varie manovre che sono durate un giorno e questo ha fatto un grave danno al Paese a livello internazionale. C’è troppo pessimismo intorno all’Italia, non è accettabile essere percepiti con meno credibilità della Spagna: siamo un Paese più forte, ma sui mercati veniamo percepiti così. Dobbiamo recuperare credibilità. Dobbiamo fare tagli dove necessario, abbassare l’Irpef sui lavoratori e l’Irap sulle imprese perché se la pressio-

ne fiscale resta questa, noi non possiamo competere. Quello che so è che non c’è più tempo. Bisogna fare subito riforme profonde. Credo che se riuscissimo a fare quelle che agli occhi di tutti sono oggi chiaramente le cose da fare abbiamo la potenzialità di uscire da questa situazione, recuperare credibilità, produzione e produttività». La Marcegaglia si è detta possibilista su «partnership importanti come con la Cina e fare molto di più, in termini di interscambio e di investimenti reciproci. Dobbiamo fare attenzione che ci siano condizioni di reciprocità, che non ci sia solo una volontà di portare via tecnologia, ma di investire seriamente».

La presidente ha voluto puntualizzare anche il rapporto con la Cgil: «Più che proteste, più che atti dimostrativi, bisogna lavorare, ognuno per la sua parte, e riprendere a crescere. Noi abbiamo firmato un accordo molto importante il 28 giugno con la Cgil, a cui terremo totalmente fede, l’accordo è nella logica che nei momenti difficili bisogna lasciare da parte le cose che dividono e mettere sul campo le cose che uniscono».

Un fenomeno in crescita costante quello della corruzione che si è annidata e diffusa in modo sempre più capillare all’interno delle pubbliche amministrazioni e che rappresenta la terza fonte di danno erariale in ordine di importanza, stando ai dati riscontrati nelle citazioni emesse dalle procure regionali nell’anno 2010 (17,7%). I reati di corruzione sono però caratterizzati da una rilevante difficoltà di emersione ed esiste una scarsa propensione alla denuncia, «non solo perché si tratta di comportamenti che, spesso, nascono da un accordo fra corruttore e corrotto – spiega Giampaolino – ma anche perché, nell’ambiente in cui essi sorgono, anche le persone estranee al fatto, ma partecipi all’organizzazione, non dimostrano disponibilità a denunciare fenomeni di questo tipo». Giampaolino ha quindi definito rilevante, ai fini del contrasto dei fenomeni corruttivi, «l’azione del pubblico ministero contabile (la Procura generale e le Procure regionali presso la Corte dei conti) e del giudice contabile (le Sezioni giurisdizionali centrali e regionali), azione volta ad accertare la responsabilità per danno tutte le volte (ed è ciò che avviene più spesso) che, al reato corruttivo, si associa una condotta causativa di un danno al sistema di finanza pubblica (danno erariale)». Il presidente della magistratura contabile ha illustrato anche alcuni numeri sull’attività della Corte dei conti nel fronteggiare la corruzione. In particolare con 47 sentenze emesse nel 2010 dalle quattro Sezioni d’appello della Corte dei conti sono stati condannati per danni da reato contro la pubblica amministrazione 90 agenti pubblici per il complessivo importo di 32,19 milioni per danni patrimoniali e di 4,73 milioni per danni all’immagine. Sempre nel 2010 le Sezioni Giurisdizionali Regionali della Corte dei conti hanno emesso 350 sentenze con condanne al pagamento di complessivi 252,68 milioni per danni patrimoniali e di 3,57 milioni per danni all’immagine delle pubbliche ammi-

nistrazioni. Quanto alle citazioni in giudizio, nello stesso arco di tempo le Procure Regionali della Corte dei conti ne hanno depositate 227 riguardanti danni da reato: 40 da corruzione e concussione; 50 da peculato ed appropriazione indebita: 17 da abuso d’ufficio; 95 da truffa e falso: 25 da altri reati per complessivi importi di 225,9 milioni per danni patrimoniali e di 4,8 milioni per danni all’immagine. La delega al Governo prevista dal Ddl anticorruzione per la revisione delle norme sulla incandidabilità e i divieti a ricoprire cariche elettorali costituiscono comunque un «adeguamento agli standard internazionali in materia di prevenzione della corruzione e degli altri illeciti nelle pubbliche amministrazioni». Queste norme «possono consentire non solo di evitare crisi di fiducia dei cittadini nei confronti di chi riveste cariche pubbliche ma anche di migliorare l’immagine internazionale del nostro Paese nell’ambito dell’etica pubblica». Giampaolino suggerisce di “valorizzare” la norma sugli Enti locali «laddove tali divieti sono legati ad ipotesi di condanne per danno erariale». Intanto a proposito di fatti di presunta corruzione la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha respinto la richiesta di arresto del deputato del Pdl, Marco Milanese. La proposta del relatore Fabio Gava, contraria al provvedimento restrittivo, è stata approvata con 11 voti favorevoli (7 dal Pdl, 2 dalla Lega, 1 da Popolo e territorio e 1 Gruppo misto) e 10 contrari (5 dal Pd, 1 dal rappresentante dell’Italia dei valori, 2 dai commissari Udc e 2 dai due componenti finiani).

«Le norme sull’ineleggibilità possono consentire di evitare crisi di fiducia dei cittadini nei confronti di chi riveste cariche pubbliche»

La parola passa ora all’aula di Montecitorio che si riunirà il 22 settembre a mezzogiorno. Da quanto si apprende Pdl e Lega non chiederanno il voto segreto: «Devo ancora sentire il gruppo, ma i miei – ha dichiarato Bossi – mi dicono che è un po’ una forzatura. Contraria all’opzione del voto segreto si dichiara l’Udc: i gruppi devono assumersi la responsabilità del voto davanti agli italiani». Orientato per il voto palese anche il Pd: «La politica deve riprendere in mano le redini di una deriva pericolosa. È un problema di responsabilità davanti a fenomeni come la corruzione devastanti per la vita sociale e politica del paese». Per quanto riguarda l’incontro tra il premier e i pm che indagano sul caso Tarantini-Lavitola è in via di definizione una data concordata. Per Casini, «Se i magistrati lo chiamano, Berlusconi ha il dovere di andare. Lo avesse già fatto ci sarebbe stato meno clamore».


l’approfondimento

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Ieri pomeriggio in una «conference call», i leader di Berlino e Parigi hanno interrogato il premier greco sulla tenuta dei conti

Il Teorema Atene

L’Europa non può permettersi il lusso di mollare la Grecia perché il debito ellenico ha «infettato» le banche francesi e tedesche. È questo il senso dell’attivismo di Merkel e Sarkozy. Che ora temono anche il contagio italiano di Enrico Singer ome due primari che accorrono al capezzale del loro malato più grave per un ultimo consulto, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno visitato ieri – in teleconferenza – George Papandreou. Una conference call cominciata alle 18 in punto per sentire dalla bocca del premier greco come intende realizzare gli impegni che aveva preso già il 21 luglio, quando ad Atene era stata concessa un’altra tranche di aiuti, e che, finora, sono rimasti impantanati tra le incertezze del governo e le proteste di piazza. Papandreou ha squadernato il suo nuovo pacchetto di misure – dalla tassa sulle case al taglio di un mese di stipendio a tutti gli eletti – e ha assicurato che la Grecia non vuole rinunciare all’euro e che farà tutto il possibile per allontanarsi dal ciglio del baratro. La Merkel e Sarkozy sono stati molto fermi nei toni – «gli impegni vanno rispetti e trasformati in azione» – ma anche rassicuranti nella sostanza: Fran-

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cia e Germania faranno qualunque cosa per non lasciare soli i greci e per evitare un default incontrollato del Paese. Se da questo consulto telefonico doveva uscire un messaggio rassicurante per i mercati, bisogna ammettere che i tre protagonisti hanno cercato di interpretare al meglio la loro parte. Quale sarà il verdetto lo diranno soltanto i prossimi giorni che sono pieni di appuntamenti: domani in Polonia – presidente di turno della Ue – ci sarà un vertice Ecofin importante per mettere a punto le future regole dell’euro e la prossima settimana, a Washington, in margine alle riunioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, i nuovi ricchi del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – s’incontreranno per discutere l’ipotesi di un intervento per sostenere i titoli di Stato dei Paesi europei più in difficoltà. La crisi, insomma, va avanti in un’altalena di segnali contrastanti. Che non fermano le voci

di una possibile bancarotta di Atene, con la conseguente uscita della Grecia dall’euro, nonostante tutte le smentite.

Del resto, di mosse apparentemente contraddittorie ce ne sono già abbastanza. La speculazione internazionale, che passa anche attraverso i grandi fondi sovrani dei Paesi con più

Domani l’Ecofin dovrebbe varare finalmente le nuove regole dell’Unione

liquidità, che attacca gli anelli deboli di Eurolandia e le potenze economiche emergenti, Cina in testa, che lasciano capire di essere pronte a lanciare un salvagente all’euro. I tedeschi che sommergono il governo con email e lettere in cui chiedono di non cambiare la ragione sociale della Ue da unione europea in ufficio europrestiti e Angela Merkel che dichiara in ogni occasione che la fine dell’euro sarebbe la fine dell’Europa. E gli Stati Uniti che all’euro hanno fatto una guerra sotterranea sin dal primo giorno per difendere il primato del dollaro come moneta di riferimento degli scambi internazionali e Barack Obama che dice di essere preoccupato per quello che potrebbe accadere, dopo la Grecia, a Italia e Spagna. Con una battuta si potrebbe rispondere: è la globalizzazione, bellezza. Perché se la Cina vuole rimanere la fabbrica del mondo ha bisogno che il mondo sia capace di comprare i suoi prodotti. A costo di finanziarlo acquistan-

do – domani – i Btp italiani come ha già acquistato i T-bond americani. Se le banche tedesche si sono riempite di titoli di Stato greci, i soldi che la Ue spedisce ad Atene non vanno nelle tasche di Papandreou, ma tornano nella casse degli istituti di credito tedeschi sotto forma di pagamento degli interessi arrivati a livelli astronomici. La globalizzazione non è una formula inventata dagli economisti. È il sistema in cui viviamo. Ma non può essere una giustificazione per farsi trascinare dagli eventi come se nulla fosse possibile fare per stare da una parte o dall’altra.

La teleconferenza tra Angela Merkel, Sarkozy e Papandreou ha dimostrato che, anche nella globalizzazione a livello europeo, c’è chi detta le condizioni e chi tende la mano per essere salvato. Che la Ue – e soprattutto Eurolandia – fosse ormai diretta dalla diarchia Berlino-Parigi era noto e dimostrato dal fatto che qualsiasi


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Papandreou è sempre più in difficoltà perché continua a inseguire la crisi, invece di prevenirla

L’Italia non è come la Grecia (ma forse potrebbe diventarlo) Un ritorno alla dracma (con annessa svalutazione) non è possibile: ormai in gioco c’è l’euro. Per i paesi ricchi come per quelli poveri di Gianfranco Polillo na telefonata allunga la vita: diceva Tullio Solenghi in un vecchio spot televisivo. Qualcosa del genere dovrebbe succedere nella teleconferenza sulla Grecia tra Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e George Papandreou, anche se i risultati effettivi si avranno solo tra qualche giorno. Il compito più difficile spetta a Frau Merkel. Deve convincere una parte del suo partito che la politica economica è cosa diversa dalla semplice ragioneria e che l’attuale benessere della Mitteleuropa (non solo Germania, ma Olanda, Austria e Lussemburgo) dipende da come si uscirà da questa crisi senza distruggere l’euro. Perché la moneta unica è cosa buona e giusta, ma per quei Paesi, ormai leader nel campo dell’esportazione di beni manufatti, è ancora migliore. E allora ci vuole un pizzico di pazienza, unita a un’esatta percezione del rischio implicito nelle eventuali soluzioni alternative. Conviene il default della Grecia o non è meglio sostenere il suo Governo nella difficile, anche se tentennante, opera di risanamento?

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C’è un dato che non va sottovalutato. Le incertezze, non solo greche, nell’assunzione delle necessarie terapie di intervento, sono figlie di una confusa situazione politica, ma anche del carattere cangiante di questa crisi, che muta pelle al minimo stormir di fronde. Basti pensare alle ultime notizie: Moody’s che abbassa il rating su Crédit Agricole e Société generale, le due principali banche francesi, particolarmente esposte sul fronte greco. Di fronte a questi improvvisi rovesci, i tentativi di rendere più stringente la manovra – il Governo greco ha deciso un’ulteriore stretta di 2 miliardi di euro, ponendo una patrimoniale sulle abitazioni – rischiano sempre di essere tardivi e insufficienti. Un po’ quello che sta accadendo in Italia con un intervento a geometria variabile, che insegue il mercato invece di anticiparne e stopparne le tendenze. Ma le analogie tra le due situazioni, salvo che per gli aspetti politici, finiscono qui. Ma paragonare l’Italia alla Grecia è solo un esercizio retorico. Troppi diversi sono i fondamentali. Il Pil italiano, tanto per cominciare, è quasi sette volte più grande. La dimensione geopolitica della Grecia è paragonabile al peso di due medie regioni italiane. Regioni – aggiungiamo subito – più simili a quelle del Mezzogiorno che non a quelle del Centronord. E non solo per il livello di reddito e di consumo. La sua struttura industriale è debole, come risulta evidente dal peso eccessivo delle importazioni sulle esportazioni. In Italia il deficit della bilancia commerciale è stato pari all’1,3 per cento (2010) del Pil. In Grecia al 14,2: dieci volte tanto. Finora si è salvata grazie al contributo estero, sotto forma di finanziamenti dalle principali

banche europee. Anche l’Italia vi ha contribuito, ma in minima parte: nel complesso un miliardo di euro, contro i sette della Francia, i tre della Germania e i due dell’Inghilterra. Somme che, in Italia, sono distribuite tra quattro diversi istituti di credito, mentre altrove si

Il nostro deficit commerciale nel 2010 è stato pari all’1,3% del Pil. Il loro è al 14,2: dieci volte tanto concentrano su una platea molto più ristretta. Manca poi quasi del tutto il risparmio delle famiglie, che in Italia, invece, è pari al 18,6 per cento del reddito disponibile, senza considerare il volume dello stock di ricchezza finanziaria accumulata, che nel nostro Paese (circa otto volte il reddito disponibile) è superiore a quella di tutte le altre nazioni occidentali.

C’è quindi da star tranquilli? Solo fino ad un certo punto. L’eventuale default della Grecia, come dice Frau Merkel, potrebbe innescare un effetto domino e trascinare nelle sabbie mobili Paesi dall’apparenza più solida. Per questo bisogna mantenere alta la guardia e spegnere

ogni possibile focolaio d’incendio. Al momento le possibili alternative sono estremamente più costose. È stata ventilata la possibilità di un divorzio e il ritorno alla vecchia dracma. Casi di altri paesi – l’Argentina e l’Uruguay – in passato hanno sperimentato, con un certo successo, questa cura; ma erano altri tempi e altre situazioni. Comunque sia, l’ipotesi iniziale che fosse sufficiente una svalutazione del 20 per cento per aggiustare le cose è evaporata come neve al sole. Il calcolo teorico dell’Ubs, una delle principali banche svizzere, è ben più pesante. Si dovrebbe arrivare a una svalutazione del 60 per cento. Un vero e proprio bombardamento di dimensioni belliche. E allora non resta che ritessere con pazienza la tela di Penelope. Convincere i riottosi che non sono solo i politici meno lungimiranti del Parlamento tedesco.

Gran parte della partita la giocano le banche. Quelle che hanno in pancia titoli che nessuno vorrebbe comprare. Devono scambiarli con nuove emissioni a più lunga scadenza a un tasso d’interesse che riflette solo in parte la valutazione del mercato. La perdita stimata è di circa il 20 per cento del capitale investito. Ma essendo l’esposizione concentrata solo su alcuni istituti bancari, il problema è la sostenibilità. Hanno un patrimonio sufficiente per sopportarne il peso, in un momento in cui Basilea 3 richiede uno sforzo che va nella direzione opposta? Questo è il dilemma di fondo. Reso ancora più difficile dal fatto che i nuovi interventi europei scatteranno solo se alla richiesta aderirà il 90 per cento dei creditori. Situazione che sembra di stallo e s’incrudelisce nel dibattito politico sulle sponde del L’Italia, Reno. per fortuna, non è in questa situazione. Le sue banche sono ancora solide, nonostante i contraccolpi subiti nell’altalena della borsa. Un elemento in più che fa la differenza.

decisione rilevante è sempre preceduta da una mossa concordata tra la Merkel e Sarkozy, come è puntualmente accaduto ieri. Anche la debolezza strutturale della Grecia – la cui unica industria, una volta fiorente, era il turismo – era un dato ben conosciuto. Diverso è caso del nostro Paese che è la settima economia del mondo e la terza in Europa. Il posto dell’Italia nella Ue doveva essere accanto alla Germania e alla Francia e non tra i Paesi che, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, rischiano grosso. Addirittura la Spagna – che è in gravi difficoltà – è arrivata a polemizzare per il comportamento del nostro governo che, con le tante giravolte sulle misure correttive del bilancio, avrebbe «favorito le turbolenze sui mercati» di cui è rimasta vittima anche Madrid. Sulle ragioni politiche della debolezza dell’Italia, sulla scarsa considerazione che Silvio Berlusconi gode tra gli altri leader europei, in particolare presso Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, si è scritto molto. Anche sulla missione di martedì a Bruxelles e Strasburgo, nonostante i toni trionfalistici delle dichiarazioni sulla «comprensione europea» della manovra italiana, ha pesato il sospetto che la visita – per altro non richiesta – fosse stata organizzata per evitare la convocazione dei magistrati napoletani.

Ma il problema è ancora più grande. È la mancanza di iniziativa in un momento che, al contrario, richiederebbe il massimo impegno per trovare soluzioni strutturali a una crisi, come quella dell’euro, che è strutturale, che non si risolve con i prestiti e che rischia davvero di far saltare la moneta comune. Era stata lanciata, da parte del ministro Giulio Tremonti, l’idea di creare gli eurobond, dei titoli comuni europei per “collettivizzare” – l’espressione è di Angela Merkel – il debito dei Paesi di Eurolandia. Ieri da Bruxelles è arrivata la conferma che la Commissione presenterà le sue opzioni per l’introduzione di questi titoli, come annunciato dal presidente Josè Manuel Barroso, che ha però avvertito che questo strumento «non è una panacea». Barroso mette le mani avanti. Sa benissimo che Angela Merkel è contraria e si opporrà perché non vuole far pagare alla Germania una parte dei debiti accumulati da quelli che i tedeschi chiamano i “Paesi cicala”. La ricetta già concordata tra Berlino e Parigi va nella direzione opposta: ogni Paese deve essere responsabile dei suoi conti pubblici e se non mantiene gli impegni può perdere anche gli aiuti europei e perfino il diritto di voto nelle decisioni comuni. Allora sì che il peso dell’Italia in Europa sarebbe definitivamente sperperato.


politica

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I pubblici ministeri indagano sulla presunta estorsione ai danni del premier, ma anche sulla fuga di notizie e sullo scoop di Panorama

«Resta lì, ti scagiono io»

La Procura di Napoli deposita gli atti del caso-Tarantini: c’è anche la telefonata in cui Berlusconi invita Lavitola a non tornare in Italia di Massimo Fazzi a telefonata che il premier dovrebbe spiegare risale al 24 agosto. Anticipata dall’Espresso, è una conversazione in cui il capo del governo italiano parla con Valter Lavitola – direttore de L’Avanti, faccendiere, amico dell’America del Sud – di un’inchiesta in cui il premier risulta parte lesa e l’interlocutore, invece, un estortore. Insieme a Lavitola nell’inchiesta – che indaga su circa mezzo milione di euro che ha cambiato tasca – c’è anche Gianpaolo Tarantini, uomo di presunti affari di stanza a Bari. «Senta, dottore.Vabbè io mo sono fuori.... a sto punto...», dice Lavitola chiamando il premier intorno alle 21. E Berlusconi risponde: «E resta lì e vediamo un pò...uhm…». Il “fuori” si riferisce a Sofia, in Bulgaria, anche se molti danno – e qui a parlare è principalmente Dagospia – Lavitola sul territorio italiano. La conversazione avviene dopo che erano trapelate notizie sull’inchiesta a carico di Gianpaolo Tarantini e dello stesso Lavitola e prima che venissero eseguite le misure cautelari. Si sente anche il presidente del

L

«Senta, dottore... Vabbè io mo sono fuori.... a sto punto...». E Berlusconi risponde: «E resta lì e vediamo un po’...uhm… che fare»

Consiglio che rassicura il faccendiere sul presunto ricatto: «Sono cose che non esistono su cui io scagionerò naturalmente tutti». Lavitola chiede anche di non abbandonare Tarantini. E Silvio Berlusconi, forse per pietà, risponde: «D’accordo».

Tutto parte da uno scoop di Panorama, il settimanale edito dalla Mondadori, che rivela l’esistenza di un’inchiesta aperta contro Lavitola: i pubblici ministeri di Napoli lo accusano di estorsione nei confronti del presidente del Consiglio. Una questione da non sottovalutare, una questione che è penalmente e civilmente rilevante, è

Il capo del governo è andato oltre i limiti

Questo è un reato: istigazione a delinquere di Giancristiano Desiderio a che gente frequenta il presidente del Consiglio? Ce lo siamo sempre domandato ad alta voce e da subito, da quando venne fuori la storia delle feste di Arcore, dicemmo che per il capo del governo c’era un chiaro rischio-ricatto. Ora le nuove carte processuali depositate al tribunale del Riesame di Napoli ci rivelano un Silvio Berlusconi completamente in balia dei suoi interlocutori e in particolare di Valter Lavitola. La famosa telefonata del 24 agosto, quella fin qui negata da tutti, ci presenta un premier che consiglia al direttore dell’Avanti! di farsi indietro, cioè di non rientrare in Italia ma di restare all’estero, a Sofia dove in quel momento si trova e da dove ha telefonato al capo del governo italiano. Dice il giornalista: «Senta dottore, vabbè, io mo sono fuori… a ‘sto punto…». E Berlusconi, anche imbeccato da Lavitola che mostra di saperlo prendere bene, suggerisce: «...e resta lì e vediamo un o’…uhm…». Diciamolo subito con chiarezza. Invitare un inquisito a restare all’estero è un reato: si chiama istigazione a delinquere. E questo mostra la conversazione telefonica ferragostana che ha un oggetto preciso: Giampaolo Tarantini e l’estorsione al presidente del Consiglio.

M

Il capo del governo si sta dimostrando abilissimo a mettersi nei guai con le sue mani. L’idea di restare all’estero, suggerita in un qualche modo da Lavitola che nelle telefonate porta a spasso il premier dove dice lui, esula a tutti gli effetti dai compiti politici e civili del presidente del Consiglio che, nonostante sia parte lesa nel processo ai danni della coppia Tarantini & Lavitola, diventa un elemento di disturbo. Nelle telefonate Berlusconi si difende, si agita, quasi si confessa. La famosa telefonata del «Paese di merda» - ormai le telefonate sono quasi tutte tristemente famose è una conversazione sulle relazioni pericolose di Berlusconi, il quale di-

ce con insistenza a Lavitola che lo fa preoccupare ad arte: «Io sono assolutamente tranquillo… a me possono dire che scopo, è l’unica cosa che possono dire di me, è chiaro?». Noi non abbiamo l’opportunità che ha Lavitola - e non solo Lavitola, in verità - di alzare il telefono e parlare con il capo del governo italiano di barche, soldi, donne, sottosegretari e varia umanità, ma glielo diciamo comunque a mezzo stampa: caro presidente Berlusconi, non è chiaro un accidente, anzi, è tutto confuso o, se vuole, è tutto chiaro ma in un senso completamente diverso da quello che lei attribuisce alla cosa perché lei per farsi delle avventure di letto ha creato un putiferio in Italia e nel mondo. Altri capi di Stato e altri politici hanno avuto la loro vita privata turbolenta, ma non si sono esposti né al ricatto in qualità di capo di governo, né al senso del ridicolo. “Paese di merda” lo dobbiamo dire noi. È chiaro, presidente?

Ad ogni buon conto, come si usa dire in questi casi unici al mondo, la magistratura vedrà e valuterà. Ma e qui siamo d’accordo con il premier - ci sono cose nelle quali la magistratura non dovrebbe entrare perché un minuto prima dovrebbe essere la politica, con il partito di maggioranza relativa, a risolvere la questione togliendo dai guai non un solo uomo, ma una nazione intera. Il problema italiano oggi è quello di risanare debito, deficit e bilancio e innescare il movimento della crescita economica. Ma al fondo di tutto ciò c’è la credibilità del governo nel mondo. Sapete, invece, come stanno le cose? Ormai qui di politica non c’è più. C’è solo un italiano esagerato che pensa che la sua figura di sciupafemmine sia un vanto da ostentare. Persino il conflitto berlusconismo-antiberlusconismo è ormai superato e Palazzo Chigi sembra uscire direttamente dalla pellicola di un film di Boldi e De Sica. Dalla crisi ci salveremo, ma dal ridicolo chi ci salverà?

che l’articolo è pieno di dettagli giudiziari: ci sono particolari sulle intercettazioni dei dialoghi tra lui e Giampaolo Tarantini, il Giampi che nel 2008 portava prostitute e amiche a casa del Cavaliere. Nell’indagine è coinvolta anche la moglie di Giampi, Angela Devenuto, che gli amici più intimi – fra cui Lavitola, che si scoprirà essere divenuto nel tempo anche amante della signora chiamano “Ninni” o “Nicla”. La donna ha una relazione con Lavitola nata tra i fornelli di casa del faccendiere, mentre lui le cucinava il coniglio. Lasciato da parte il co-

Sono cose (le accuse rivolte dai pm di Napoli ai coniugi Tarantini) che non esistono su cui io scagionerò naturalmente tutti

niglio, Lavitola decide per la latitanza: una fuga che è cominciata dopo aver parlato al telefono proprio il 24 agosto scorso con Silvio Berlusconi, che già in quel momento sembra essere a conoscenza - come lo erano i giornalisti del settimanale mondadoriano - del lavoro riservato dei pm napoletani e della richiesta di arresto che avevano presentato al gip Amelia Primavera.

La Bulgaria è scelta perché è qui, a Sofia, che il direttore de L’Avanti deve concludere affari per conto di Finmeccanica: un altro affare, un’altra partecipazione agli eventi che si dovrà prima o poi chiarire. Quello che stupisce – o che forse non stupisce più – è che il faccendiere ha un rapporto estremamente intimo con il premier e con il suo staff. Evidentemente innervosito dalle notizie di stampa che rimbalzano ovunque, evidenziano le carte depositate ieri, inizia a comporre in maniera ripetuta il numero di quella Marinella Brambilla “anima” della segreteria personale di Berlusconi. Da parte sua, la storica segretaria non invita Lavitola a smettere di telefonare ma spiega che “lui”è impegnatissimo tra crisi economica e turbolenze politiche e non può rispondere. Do-


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g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i

Buoni “borse di studio” non più validi per i libri Quest’anno molti genitori non hanno potuto usare i buoni erogati dal comune di Roma per comprare i libri per gli alunni delle scuole secondarie di primo e secondo grado. Il Dipartimento servizi educativi e scolastici, infatti, l’8 settembre ha diramato una circolare nella quale si rende noto che, a causa di un «errore materiale», i buoni “borse di studio”potranno essere utilizzati solo per l’acquisto della cancelleria, non più per i libri. Il Comune stanzia ogni anno anche un altro tipo di buono, il “buono libro”ed in genere i genitori erano soliti cumulare gli sconti e usarli entrambi per i libri. Ora, molte famiglie che avevano già ordinato i libri di testo presso le librerie convenzionate, avranno quindi una risorsa in meno su cui contare per affrontare la spesa. I disagi alle famiglie sono stati notevoli, vista la tardività del provvedimento. L’8 settembre, infatti, in molti avevano già provveduto a prenotare i libri, facendo legittimo affidamento sull’utilizzo dei due buoni in loro possesso. Tutto ciò ha comportato teoricamente anche una ingiusta disparità di trattamento rispetto a quanti hanno provveduto al pagamento dei libri stessi, tramite buoni, in data anteriore all’8 settembre. Non contesto la circolare in sé perché è una circolare “interpretativa” e conforme a legge, contesto la tardività della circolare che, a giochi fatti, ha messo in difficoltà molte famiglie.

Valentina Coppola

UN APPELLO ALLE AUTORITÀ PER GLI INVALIDI Vorrei semplicemente ricordare che un invalido civile usufruisce di un assegno di 270 euro. Facciamo in modo che i veri invalidi abbiano anche loro diritto alla sopravvivenza.

Francesco Sarli

L’IMMAGINE

da su questi punti. Appare però sconfortato e in qualche modo anche dispiaciuto per le intercettazioni. È rammaricato per essere stato registrato mentre parlava con il premier. Lavitola, a quanto sembra, aveva assicurato a Berlusconi che le utenze panamensi usate per i loro dialoghi telefonici erano a prova di intercettazione e quindi sicure. Ma così con è stato. I pubblici ministeri, alla fine di tutto questo, hanno aperto un fascicolo di indagine sulla fuga di notizie, in cui viene ipotizzato il favoreggiamento: la pubblicazione di ampi stralci della richiesta di custodia cautelare può aver agevolato gli indagati.

po vari tentativi, però, gli passano finalmente al telefono Silvio Berlusconi.

Il premier, come mostrano le carte, si mostra calmo: rassicura Lavitola, spiega che tutto sarà chiarito e gli dice di “stare tranquillo”. A quel punto - come se fosse un’anticipazione della sua autodifesa - gli espone quella che sarà la linea: Berlusconi ricorda a Lavitola che attraverso lui ha «aiutato una persona e una famiglia con bambini che si trovava e si trova in gravissime difficoltà economiche». E sottolinea: «Non ho nulla di cui pentirmi, non ho fatto nulla di illecito». Le ironie dei giorni successivi, provenienti da praticamente tutto il Paese, sono oramai leggenda: persone che, disoccu-

Ho soltanto voluto aiutare una famiglia in difficoltà, vessata dalla magistratura e in grave situazione economica

pate, chiedono lo stesso “aiuto” al premier. Che aggiungerà poi al telefono con Maurizio Belpietro, direttore di Libero e conduttore di un programma mattutino di approfondimento politico su una rete Mediaset, che i Tarantini «sono una famiglia vessata dalla magistratura». Da Sofia Lavitola sembra comprendere: capisce quale è la linea difensiva e concor-

Lavitola ha evitato l’arresto

In alto il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Sopra Gianpaolo Tarantini, uomo d’affari barese indagato per estorsione. Nella pagina a fianco Lavitola e l’avvocato Niccolò Ghedini

ed è latitante. Tarantini e sua moglie hanno avuto il tempo di concordare una linea difensiva, tanto da stilare una memoria poi consegnata in carcere al giudice. Insomma, tutti i protagonisti al momento della retata sapevano cosa dire; compreso Berlusconi, indicato come vittima di un’estorsione che lo ha portato a sborsare in un anno 850 mila euro. Soldi diretti ai coniugi Tarantini ma deviati in buona parte nelle casse di Lavitola, che ne ha intascati ben 400 mila. Per il faccendiere - ritenuto dagli inquirenti la mente del ricatto - la coppia rappresentava la gallina dalle uova d’oro che avrebbe permesso di mettere ”con le spalle al muro” Berlusconi. E costringerlo a pagare per far tacere Tarantini su quelle serate nelle residenze romane e milanesi del premier. Ora la giustizia farà il suo corso. E speriamo che sia un corso pulito e non deviato.

Kung fu per pendolari Mentre attendono la metropolitana, i pendolari stressati di Pechino hanno la possibilità di prendere a calci due grandi e morbidi sacchi e scaricare così la tensione: li invidiate un po’? GOVERNO INCAPACE DI RIFORME EQUE L’aumento dell’Iva dal 20 al 21%, con il suo carattere recessivo e di contrazione dei consumi, e l’aumento dell’età pensionabile delle donne nel privato, dimostrano l’incapacità assoluta del governo e della sua maggioranza ad affrontare la crisi finanziaria, negata per troppo tempo, e ad elaborare misure efficaci, ispirate ad un principio di equità. Ciò che ne viene fuori nel complesso, quindi, è l’assenza nel Paese di una classe dirigente degna di questo nome, capace di costruire un piano credibile per aggredire le ragioni della crisi e pensare allo sviluppo e alla crescita.

Lettera firmata

ESPLODE OLEODOTTO A NAIROBI MA SI PARLA SOLO DI MARCOULE L’ambientalismo estremista e fondamentalista, quello contrario al nucleare, monopolizza i mass-media italiani: il 12 settembre si sono registrate purtroppo due disgrazie, a Nairobi e Marcoule, ma sui giornali la seconda è spettacolarizzata mentre la prima, quando si cerca di essere almeno lontanamente obiettivi, viene a stento citata. Il problema non viene affrontato con la dovuta attenzione dalle Autorità garanti: siamo pronti ancora una volta a forme di protesta civile perché non riteniamo più tollerabile che l’informazione italiana sia sottomessa ad una sinistra ambientalista che, per colpa dei suoi “no”a prescindere, ha causato le più grandi catastrofi ambientali della nostra penisola. Speculare sui decessi è odioso, ma è necessario condurre un’analisi statistica e scientifica: a Nairobi è esploso un oleodotto che trasportava petrolio ed ha causato oltre cento morti; dall’incidente del sito di Marcoule è derivata una vittima. Certo, un solo decesso è già oltre il consentito ed il tollerabile, ma mettendo sul piatto della bilancia i due episodi è evidente quale fonte energetica è più sicura. Purtroppo, sulla bilancia dell’audience cento morti per il petrolio fanno meno notizia di un morto per il nucleare.

Alfonso Fimiani, presidente dei circoli dell’ambiente


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il paginone

Libri, bollettini e giornali: è in atto una sfida senza quartiere per ridefinire il metodo di analisi dell’iden l mondo della critica letteraria è a soqquadro: questione di metodo, questione di stile e questione di ricambio generazionale. Un caos che colpisce antiche baronie ai massimi livelli: al centro c’è niente meno che il vecchio Alberto Asor Rosa. Oggetto della contesa: un nuovo approccio critico all’identità letteraria italiana. Sono volate contumelie e appassionate omelie e arringhe. In mezzo, vittima e carnefice (in senso figurato, naturalmente) la casa editrice Einaudi la quale, oltre ad essere l’unica a investire sull’esegesi critica, sa anche pubblicizzare a dovere questa scelta. Nuova scuola Mondadori, probabilmente.

I

Bene. Riassunto per i lettori di liberal che non avessero seguito la faccenda. Einaudi, appunto, da un po’ di tempo ha mandato in libreria la prima parte di un lungo progetto critico Atlante della letteratura italiana a cura di Sergio Luzzatto, valido storico già al centro di varie e spinose polemiche culturali, e Gabriele Pedullà, astro nascente dell’italianistica per meriti propri, anche se il fatto d’essere figlio di un antico e celebrato docente di letteratura (Walter Pedullà) non deve avergli nuociuto. Si tratta di un volume dedicato alla letteratura italiana delle origini, mentre è in uscita – a giorni – il secondo volume dedicato a quella moderna. I tomi in questione, programmaticamente, organizzando unabella messe di saggi tematici (arricchiti da mappe e carte) si sono posti l’obiettivo di identificare un nuovo metodo di analisi: motore della ricerca non è più l’unità storica dei fenomeni analizzati ma quella geografica. Come dire: un’identità minima produce un’identità più grande in un gioco di rimandi che non sono più legati allo sviluppo frastagliato della grande storia ma a quello più lineare delle terre e delle tradizioni popolari. Una scelta importante per due ragioni. La prima: il secondo Novecento, dopo aver portato alle estreme conseguenze lo storicismo critico, s’è arrotolato in decadenti arti minimali tipo strutturalismo, semiotica e via smontando i canoni. Questo Atlante ora si propone di azzerare il passato recente e ricominciare da capo con la consapevolezza che i padri, i «venerati maestri» possono essere anche considerati «ingrati maestri» (per citare il titolo di un saggio di Massimo Onofri che per primo si pose il problema di superare la deriva finale dei novecentismi). La seconda ragione è politica: il localismo ha buona stampa, qui da noi. Ma pessimi effetti sul sentire comune perché finisce per titillare il peggio di noi, razzismo e violenza compresi. La chiave di lettura geografica dell’identità italiana propugnata da Luzzatto e Pedullà dimostra che leggere la storia e la realtà a partire dai luoghi e dalle loro tradizioni (dalla loro letteratura, nello specifico) non è un atto di retroguardia. Segno che il leghismo non ha sostanza culturale ma vive solo di modesta strategia politica (naturale, dunque, che si sia ridotto alla sola ostensione del dito medio di Bossi).

La guerra della le

Cronache da una rivoluzione generazionale nella critica: il decano Asor Rosa contro l’“Atlante” di Luzzatto e Pedullà di Nicola Fano Tutti questi buoni propositi hanno sconvolto il vecchio professore palindromo (Asor Rosa) il quale dalle colonne del suo proprio Bollettino di italianistica ha compilato una stroncatura col botto all’Atlante. Chi non avesse letto il testo originale (non è semplice entrare in possesso di tale prestigiosa pubblicazione) ha potuto avvalersi di un ampio sunto fatto da Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera dell’8 settembre. Non pareva ci fossero argomenti in campo, ma solo sprezzo, come di chi, piazzista al mercato, apostrofi uno scocciatore con il proverbiale: «Ragazzo lasciami lavorare». Ecco: Luzzatto e Pedullà per il professore palindromo sono due scocciatori. In senso proprio. Perché (lo ha fatto notare lo stesso Di Stefano) c’è anche una questione tutta interna da tenere in considerazione. Il vecchio Asor firmò per Einaudi una (contestata) Letteratura italiana

e una (molto discussa) Storia europea della letteratura italiana. I maligni dissero che il decano universitario aveva colto le occasioni per dare spazio e tribuna a tutti i suoi più stretti allievi, segugi e collaboratori. Anche forzando la mano all’importazione critica dei due studi. Com’è come non è, la Storia europea è del 2009 e quindi praticamente coeva dell’avvio, da parte della medesima casa editrice, del nuovo progetto critico che con l’altro assai contrastava. Là dove il professore palindromo andava a cercare una (un po’ forzata) radice europea nel dissesto geo-culturale dell’Italia (come è noto, per secoli e secoli un’astrazione ideologica e un semplice toponimo, più che una realtà statuale unitaria), i due critici d’oggi concentrano lo sguardo sul «piccolo», sul particolare. Chi conosce Asor sa che è uomo straordinariamente, vitalisticamente permaloso. Soprattutto

Tutto avviene sotto il segno della casa editrice Einaudi che pubblica (o ha in catalogo) le opere dei diversi contendenti perché ha un alto senso di sé: la scelta della casa editrice Einaudi di pubblicare l’Atlante deve essergli sembrata un affronto personale inconcepibile. «Chi è stato quel cretino che ha autorizzato questa scelta senza consultarmi…», deve essersi chiesto. Normale intemperanza del vecchio uomo di potere accademico, beninteso. Sono leggendarie, del resto, le sfide lanciate da quest’uomo…

I due bastonati non hanno porto l’altra guancia. E sul medesimo Corriere della Sera (12 settembre) hanno detto la loro senza peli sulla lingua. Che Asor Rosa tolleri chi non la pensi come lui! E che abbia più riguardo a distribuire voti e patenti di legittimità un uomo il quale non solo ha cambiato idea e accarezzato le più differenti mode novecentesche, ma vanta soprattutto il solo merito di aver cavalcato il marxismo e il Pci con l’esclusivo intento di spiegare al mondo quale fosse il vero orizzonte della rivoluzione proletaria. Non sol-


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ntità italiana. Ma anche per conservare (o conquistare) nuovi spazi di potere

etteratura italiana La nuova chiave di lettura ha un’impostazione «geografica» che supera i confini del vetero-storicismo degli anni Settanta culturale: i due vogliono «andare oltre» il presente, avrebbe detto un fedelissimo del professore palindromo qualche decina d’anni fa. E allora stavolta andiamo oltre sul serio: resta da capire se l’approdo sarà quello giusto.

tanto in letteratura. Insomma: musica per le orecchie di chi non ha in simpatia il povero professore palindromo. D’altra parte uno dei vizi peggiori dell’intellettualità radical-tardomarxista in Italia è quello di credere d’avere sempre la formula della saggezza. «Lasci parlare a me che la illumino», sintetizzava perfettamente Commedia da una parodia all’italiana. Ebbene, il tono della replica di Luzzatto e Pedullà è quello di chi non ci sta più a «farsi illuminare» dal doge e preferisce dire la sua. Giusta o sbagliata che sia. Una lunga citazione dall’articolo varrà a rendere chiara la faccenda: «Resta da sottolineare – scrivono Luzzatto e Pedullà – un carattere dell’Atlante che difficilmente avrebbe potuto incontrare le grazie del professor Asor Rosa: il fatto di muovere da una precisa scelta generazionale. Ecco una “Grande Opera” Einaudi curata da un quasi cinquantenne e da un quasi quarantenne (due “giovani” soltanto secondo gli standard della gerontocrazia italiana), ma scritta – oltre che da alcuni venerati maestri – da una vera e propria leva di studiosi di età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni. È questa la generazione più produttiva e più vitale della critica storico-letteraria in Italia. Ed è quella stessa generazione che le nostre Università, dominate per decenni da “baroni” alla

Asor Rosa, stanno condannando all’emigrazione forzata, o a una brillante carriera nei call center». Più chiari di così...

Eppure, apriti cielo! Nel mondo accademico in divertito subbuglio, è toccato a Pierluigi Battista, sulle stesIn alto, una pianta seicentesca dell’Italia. Qui sopra, Walter Pedullà e, in alto, Sergio Luzzatto: i due curatori dell’«Atlante della letturatura italiana» che ha scatenato le ire di Asor Rosa (nella pagina a fronte)

se colonne del quotidiano di via Solferino (martedì 13) elegantemente sparigliare e prendersela con i due «giovani» intemperanti: «Avete, nella vostra furiosa risposta, commesso un peccato capitale, attaccando quasi esclusivamente la persona anziché l’argomento». Ma il problema dell’italianistica è tutto qui e Luzzatto e Pedullà l’hanno capito bene: una certa confusione tra il magistero critico e il divismo. Quella che in gergo viene definita «baronia accademica» e che nei fatti ha bloccato e blocca ancora oggi l’afflusso di idee nuove nelle università e nelle pagine culturali dei giornali. Perché il critico-divo personalizza la propria esperienza di studio, accettando solo allievi-clone che non ne oscurino la visibilità (e il potere). Quindi, come dire?, in questa chiave «attaccare la persona» significa in modo specifico «attaccare l’argomento». Lo spiegava, ieri su Avvenire, il già citato Massimo Onofri intervenendo nella polemica e chiosando: «Asor Rosa parla dell’inanità metodologica di Luzzatto e Pedullà: ma non volendo disegna il ritratto di se stesso». D’altra parte, il sasso gettato da Luzzatto e Pedullà nello stagno della cultura letteraria italiana ha un suo precipuo rilievo non solo per il “metodo” d’analisi utilizzato ma anche e soprattutto per la sua espressa volontà di colpire un vecchio modello

Sicché, dunque, qui resta da dire solo poche parole conclusive sul «metodo» Luzzatto-Pedullà (per loro stessa ammissione in parte mutuato dagli studi di Carlo Dionisotti e dalla sua Geografia e storia della letteratura italiana). Ci permettiamo di segnalare che c’è un ambito dove particolare e generale, identità locale e progetto nazionale si fondono: ed è la Commedia dell’Arte, quel magazzino straordinario di sogni e avvilimenti quotidiani che dalla metà del Cinquecento ai primi del Seicento non solo ritrasse fedelmente la realtà dei popoli che fecero l’Italia, ma ne forgiò una lingua pluridialettale in grado di comunicare con tutti i pubblici e dunque con tutte le tradizioni locali. Non è un caso che coesistessero di fronte ai medesimi pubblici il bergamasco Arlecchino, il veneziano Pantalone e il napoletano Pulcinella: quei tre caratteri si esprimevano con lingue diverse e manifestavano tendenze sociali completamente differenti, ma erano intelligibili da tutti i pubblici. Questo fenomeno straordinario, per altro, nasceva da un’esigenza economica: i comici avevano bisogno di allargare quanto più possibile il loro mercato, varcando di fatto i confini ristretti delle sole Bergamo, Venezia o Napoli. Ecco: l’Atlante in questione sembra recuperare quell’essenza della cultura italiana delle origini, all’interno della quale non esiste unità se non nella relazione fra realtà particolari. Per inciso, il professore palindromo è tra coloro i quali hanno sempre negato con sprezzo la portata anche politico-sociale della Commedia dell’Arte, limitandosi a cercarne vane tracce di accademia poetica. Dimenticando che se l’identità tedesca ha prodotto Faust, se quella inglese ha prodotto Amleto, l’identità italiana ha prodotto Arlecchino e Pulcinella. Una ragione ci sarà pure.


mondo

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Il premier turco arriva in un Paese attraversato da numerosi conflitti e in piena crisi economica. Nonostante la Primavera

La speranza di Tunisi Alla vigilia delle elezioni si ripropone lo scontro ideologico tra secolaristi e islamisti di Pierre Chiartano a Primavera araba è cominciata in Tunisia. È stata chiamata dei «gelsomini» dai francesi, ma a molti tunisini non piace questa definizione. Le sommosse sono partite il 18 dicembre 2010 con la protesta estrema del giovane Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco, ucciso nell’anima e nello spirito dalle continue vessazioni della polizia. La narrazione della rivolta e della ricerca della costruzione di un Paese nuovo è quella giusta. Ci sono i simboli, le spinte emotive, i risultati – è stato cacciato il dittatore Ben Alì – ma c’è la crisi economica che potrebbe alimentare nuove

L

rivolte e la corruzione endemica. È il tempo che giocherà un ruolo determinante. La fase di transizione è stata studiata bene, assomiglia un po’ a quella italiana del secondo dopoguerra: elezione di un’assemblea costituente, nuova costituzione, poi di nuovo alle urne per scegliere finalmente un nuovo governo e un presidente.

In più c’è l’Alta commissione per la realizzazione degli obiettivi della Rivoluzione, ma i concetti e i passaggi istituzionali sono simili. Molti egiziani guardano con invidia al modello tunisino scelto per la transizione. E come per l’Italia di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti si è posto il problema della nomeklatura di regime. Un change toIn Tunisia c’è un polo democratico «modernista» di estrema sinistra. Poi c’è un Partito democratico progressista di centrosinistra e infine il Nahdha la formazione di ispirazione religiosa che ha il suo leader in Hamadi Jebali e che rappresenta l’islam moderato. Foto a sinistra, l’ex presidente Ben Alì; foto grande al centro manifestazione a Tunisi; nella pagina a fianco: a sinistra l’anchor woman tunisina della tv pubblica turca, Hajar Ben Hassine; a destra il premier turco Tayyip Recep Erdogan

tale rischia di sbriciolare delle istituzioni già deboli, un cambio insufficiente può alimentare ancora malcontento nella popolazione e la sensazione di una rivoluzione “tradita”. Come di fatto sta già avvenendo. C’è da augurarsi che si arriverà ad un equilibrio prima o poi. Sintomo del travaglio sono state le lunghe settimane di attesa e consultazioni, all’inizio dell’estate quando il governo tunisino, guidato dal primo ministro ad interim Beji Caid Essebsi, i partiti e la società civile avevano raggiunto un accordo sulla data dell’elezione dell’Assemblea costituente. Si era deciso di farle slittare al 23 ottobre, e non più il 24 luglio come previsto. La questione di fondo sulla nuova Tunisia che non è posta solo dai partiti islamici, ma da tutte le forze in campo è come e quanto attuare la ”defrancesizzazione” delle élite che hanno dominato il Paese dal giorno dell’indipendenza. Tenendo conto della reazione dell’Eliseo alla cacciata di Ben Alì e al successivo pasticcio libico organizzato da Parigi, non c’è da stare tranquilli sulla volontà dei transalpini di non ingerire ancora sul Paese, tentando di influenzare anche la fase di transizione.

Parliamo di una classe dirigente equamente distribuita nei partiti di governo e d’opposizione che ha sempre agito secondo logiche di potere, infischiandosene del bene comune. È questo uno dei passaggi chiave che determinerà la natura e il futuro della Rivoluzione tunisina. L’altra questione importante assomiglia in sedicesimi a ciò che vive la Turchia: il conflitto culturale e politico tra secolaristi e movimenti religiosi. Anche se occorre valutare quanto sia reale e quanto invece alimentato ad arte per polarizzare la politica alla vigilia delle elezioni. I secolaristi temono che il partito Nahdha d’ispirazione islamica (moderata) e i suoi alleati possano in-

La questione di fondo è come e quanto attuare la “defrancesizzazione” delle élite che hanno dominato il Paese dal giorno dell’indipendenza cidere nella nuova costituzione limitando le libertà personali, aprendo la strada all’introduzione della sharia. Anche i conservatori temono una restrizione delle libertà, ma non ad opera dei partiti islamici, ma fatta dai partiti laicisti di sinistra. Hanno paura che queste formazioni, appoggiate dalla Francia, verranno influenzate dal laicismo antireligioso transalpino, e possano limitare la libertà di espressione religiosa in privato e in pubblico. Insomma siamo nel regno dei sospetti incrociati.

La nuova legge elettorale favorisce la costruzione di coalizioni. Così stiamo assistendo alla nascita di tre grandi aggregazioni politiche che presumibilmente si sfideranno alle urne. Un polo democratico «modernista» costituito da formazioni dell’estrema sinistra. Poi c’è un Partito democratico progressista di centrosinistra e infine il Nahdha la formazione di ispirazione islamica che ha il

suo leader in Hamadi Jebali. Rappresenta l’islam moderato, tanto da essere stato invitato al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione.

E c’è chi ci tiene a distinguere tra realtà e narrazione della rivolta. Hajar Ben Hassine è un’affermata anchor woman tunisina che lavora per la tv pubblica turca, conduce un programma d’approfondimento politico e culturale in lingua araba, molto popolare nei 22 Paesi in cui viene trasmesso. «Innanzitutto non chiamiamola Rivoluzione dei gelsomini, come hanno fatto i francesi. È stata una rivolta di un popolo per riacquistare la propria dignità. I francesi non hanno alcun diritto di dare un nome a questa rivoluzione e il giovane Bouazizi si è dato fuoco perché aveva visto profondamente offesa la propria dignità». Non c’è alcun dubbio che ci sono tunisini che riescono a guardar oltre la versione ufficiale degli eventi, attenti sia alle influenze esterne che ai pericoli interni di una manipolazione della rivolta. «Il Paese è ancora attraversato da una serie innumerevole di conflitti. Entro i propri confini ci sono quelli tra i partiti, tra il governo di transizione e la gente. E fuori dai confini della Tunisia, ci sono le frizioni tra gli interessi di Francia, Stati Uniti e Algeria. Il problema principale è che l’obiettivo di rompere i legami col regime del passato non è stato rag-


mondo

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Accoglienza trionfale anche per questa seconda tappa. Ora tocca a Tripoli

Erdogan e la democrazia “in stile ottomano” Il “gran visir” arriva a Tunisi e cerca di accreditarsi come l’unico interprete del futuro della regione di Antonio Picasso

L’obiettivo di rompere i legami col regime del passato non è stato raggiunto. Ben Alì è fuggito, ma la struttura del suo regime e la corruzione sono rimaste

giunto. Il vecchio presidente Ben Alì è fuggito, ma la struttura del suo regime e la corruzione sono rimaste». Poi, sottolinea la giornalista, si sta costruendo un confronto funzionale a distrarre l’attenzione dalle elezioni. «È il conflitto ideologico tra socialisti, secolaristi e islamisti. È alimentato da molte parti in campo, sia interne che esterne alla Tunisia, per distogliere l’attenzione sulla

materia più importante: le elezioni». Un leit motiv sarà il pericolo islamico che verrà proposto anche con “forzature”mediatiche. Un pericolo che il Nahdha ha già denunciato. Ma i problemi non sono solo sul piano della natura del futuro Stato, ma anche legate alla cultura democratica della Tunisia. «A livello popolare c’è una forte crisi di fiducia – spiega la Ben Hassine – soprattutto nel comprendere bene il valore della democrazia. La gente ha vissuto per troppo tempo sotto un regime tirannico dominato dalla corruzione». Sulla legge elettorale e il percorso istituzionale scelto dalla Tunisia la anchor woman di Trt è fiduciosa.

«Sono convinta che le elezioni saranno improntate alla trasparenza». In queste ore quello che è stato definito dal Wall Street Journal come il nuovo Abdel Nasser del mondo arabo è in visita in Tunisia. Il premier Tayyip Recep Erdogan potrà incidere sulla politica tunisina imponendo un modello, ma senza forzature, «un’esperienza da condividere» come amano chiamarla nell’entourage del governo di Ankara. Ma è forse la stagnazione e la forte crisi economica il campo in cui l’onda turca potrà incidere in maniera più significativa. Visto anche il crollo verticale del turismo. Ne è convinta anche la Hassine: «Il ruolo della Turchia potrà essere molto utile per l’economia tunisina».

o chiamano“il gran visir Erdogan”. E come tale il primo ministro turco è stato trattato. Sia in Egitto, sia in Tunisia, dove è arrivato appena ieri pomeriggio. Le ali di folla che hanno incorniciato la strada percorsa dal premier anatomico dall’aeroporto al centro di Tunisi fanno pensare che anche la prossima tappa in Libia sarà altrettanto positiva. Erdogan si conferma il solo leader non arabo che abbia ricevuto un’accoglienza davvero popolare nei Paesi attraversati dal vento di primavera. Era dai tempi di Mustafa Kemal che Ankara non si sentiva così al centro dell’attenzione regionale. Del resto, la Turchia è riuscita sapientemente a cavalcare l’opportunità della rivolta dei gelsomini e assumere il ruolo di mediatore fra le spinte riformiste e di trasformazione, da una parte, e gli interessi economici mondiali che ruotano interno al Medioriente. Il timore che la rivolta araba possa recidere le relazioni con le grandi multinazionali occidentali é ancora acceso. Tuttavia, Ankara sta cercando di passare come garante del periodo di transizione. Vuole assicurare Europa e Stati Uniti che il Medioriente prossimo venturo resterà quella terra di risorse economiche e di investimento quale è stata finora. Erdogan, proprio con questa visita, desidera assicurarsi di persona che queste previsioni siano fondate. Fra i tre Paesi toccati dal viaggio, la Tunisia è quella che riscuote minore interesse. Sia in termini economici, sia da un punto di vista politico. Tuttavia, è proprio dalle sue coste che si è esteso il cambiamento, così come vi resta oggi la tensione. È qui, come in Egitto, che ristagnano le incognite sulla futura classe dirigente. E quel che più assillante è dalle sue spiagge, un tempo unicamente meta di turismo, che partono i convogli della speranza di migliaia di profughi scampati alla guerra in Libia e alla fame in tutto il resto del Nord Africa. La tattica di Erdogan è semplice: presentarsi in Egitto,Tunisia e Liba con l’obiettivo primario di ristabilire i rapporti commerciali bilaterali. E, successivamente, guadagnarsi una posizione privilegiata presso il corpo diplomatico di ciascuno dei rispettivi governi.

L

vi turchi. Prima è necessario riaccendere i motori economici. Perché è portando ricchezza che poi si può aprire un dialogo diplomatico. Non a caso, al seguito di Erdogan c’è uno stuolo di 280 imprenditori suoi connazionali.

«Gli ultimi sviluppi politici hanno ridotto l’attività economica della Regione, ma presto riprenderà, anche con maggiore vigore» ha riferito Erdal Bahçıvan, il presidente della Camera di Commercio di Istanbul. La dichiarazione suggerisce il realismo che anima i comparti produtti-

Il gruppo ha lasciato ieri Il Cairo con la promessa che, nel più breve tempo possibile, l’interscambio commerciale egitto-turco salirà dagli attuali 3 miliardi di dollari a 5 miliardi. Un trend di crescita che Ankara auspica di realizzare anche in Tunisia e in Libia. È sorprendente come la Turchia sia animata da un ottimismo che nessuno in Occidente al momento nutre nei confronti dei Paesi in questione. Erdogan poggia queste tattiche di accortezza sul desiderio di affermarsi come leader sì regionale, ma secondo gli schemi di una strategia multitasking. Perché la Turchia è un membro della Nato. Il che significa presentarsi in sede internazionale come governo filo-occidentale, pur restando un interlocutore autonomo e privilegiato della Russia e di tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Nero. Ma è anche il quarto Paese, per estensione e popolazione, che si affaccia sul Mediterraneo. Ed è inoltre una nazione a maggioranza islamica. Il tutto senza trascurare il fatto di avere ormai un piede dentro l’Unione europea. Ankara mostra i muscoli quindi. Lo fa nei confronti degli alleati occidentali. Sapendo che Washington non potrebbe riscuotere la stessa stima in seno alla popolazione egiziana o tunisina. E con l’idea maliziosa per cui, in un momento di così profonda crisi dell’Ue, sia proprio il suo giovane dinamismo a rappresentare l’ancora di salvezza per un euro economicamente esausto e un mondo unitario a Bruxelles privo di ispirazione. Il disegno politico di Erdogan, infine, trova ossigeno anche in quella persistente crisi aperta con Israele. La Turchia vuole dimostrare agli alleati di Netanyahu che il processo di pace si può riprendere solo a condizione che venga ridimensionata la prospettiva a senso unico che Usa e Ue hanno sempre espresso in appoggio al governo israeliano. L’impresa, nella sua interezza, non facile. Erdogan però si sente galvanizzato proprio da quelle folle plaudenti che lo omaggiano nel mondo arabo. Lui, che arabo non è! Tuttavia, la sua forza sta nel sapersi mostrare con gli abiti di quella unica democrazia che il mondo arabo sa comprendere. Per la serie: exporting democracy, ma solo alla maniera ottomana.

Ankara vuole approfittare della debolezza attuale dell’Ue per rilanciare non solo l’economia locale ma anche i propri valori


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Kabul, 9 morti nell’offensiva

Asia a rischio inflazione

KABUL. Le forze afghane hanno ucciso l’ultimo dei combattenti Talebani che ieri hanno attaccato l’ambasciata degli Stati Uniti, il quartier generale della Nato e alcuni edifici della polizia afghana a Kabul. I combattimenti sono proseguiti per 19 ore; un gruppo di cinque kamikaze si era asserragliato in uno stabile in costruzione, vicino all’ambasciata americana, e ha cominciato a sparare con armi leggere e probabilmente un piccolo mortaio. Nel frattempo altri gruppi di Talebani attaccavano uffici della polizia e una prigione, mentre un kamikaze è stato ucciso mentre cercava di penetrare nell’aeroporto. Almeno nove persone sono rimaste uccise e 23 ferite nell’offensiva.

HONG KONG. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’inflazione mettono a rischio la crescita e lo sviluppo dei Paesi asiatici. Se i governi dell’area non affronteranno presto questi due problemi, rischiano la recessione economica e l’aumento delle proteste sociali. Lo scrive oggi l’Asian Development Bank (Adb) nel suo aggiornamento al Rapporto annuale. Secondo i tecnici dell’Adb, vanno riviste al ribasso le previsioni per la crescita e al rialzo quelle inflattive. La Banca invita gli esecutivi a mettere in atto delle riforme strutturali “entro i prossimi anni”. Inoltre prevede per il 2011 una crescita dell’area pari al 7,5%, una riduzione rispetto alla proiezione del 7,8% prevista tre mesi fa.

Ny, i democrats perdono il seggio NEW YORK. Duro colpo al partito democratico a New York nell’elezione suppletiva per sostituire il deputato Anthony Weiner, costretto a dimettersi dopo lo scandalo delle avance sessuali a ragazze minorenni su Twitter. Il candidato repubblicano Bob Turner ha sconfitto quello democratico David Weprin con ben 6 punti di differenza (53% contro 47%), in quello che lo stesso Turner ha subito voluto caratterizzare come un voto di sfiducia verso Barack Obama. «La gente di questo distretto ci ha chiesto di mandare un messaggio a Washington - ha detto Turner festeggiando la vittoria - Siamo pronti a dire: signor presidente, siamo sul binario sbagliato». Il collegio è sempre stato vinto dai democratici in ogni tornata.

Los Zetas, il feroce cartello dello spaccio fra Messico e Guatemala, sempre più interessato al versante comunicazioni

La coca non ha più regine

L’arresto della “Flaca” chiude (per ora) un ciclo di donne al vertice di Maurizio Stefanini a eroina a Regina dei Narcos. Malgrado lo storico maschilismo della società messicana, molte donne sono riuscite a emergere in uno o nell’altro dei fronti di quella Guerra delle Droghe che in cinque anni ha fatto oltre 40mila morti.Veronica Mireya Moreno Correó la Flaca, “la secca”, non è nemmeno la prima che questa linea del fronte sia riuscita addirittura ad attraversarla. Come lei, era una ex-poliziotto passata ai narcos anche la Comandante Estrella dei Los Zetas di Cancún: nome di battaglia di Gabriela de Jesús Magaña Osorio, nome con cui l’ha riconosciuta il fratello, o Erica Gabriela Magaña, come invece era stata registrata nella polizia.Trovata cadavere lo scorso giugno con le mani legate, tre spari alla schiena e una “Zeta” in stile Zorro dipinta sulla parete vicina: firma inconfondibile degli stessi Los Zetas, presumibilmente dopo che aveva cercato di fare la furba, tenendo per sé i soldi pagati da pusher che avrebbe invece dovuto pagare all’organizzazione. A differenza di Estrella, però, la Flaca era stata addirittura encomiata, dopo un ferimento nel corso di un conflitto a fuoco con i narcos. E ora invece è stata arrestata, addirittura come comandante locale degli stessi Los Zetas. Tra le eroine della lotta contro i narcos, c’era stata ad esempio Erika Gándara. La 28enne che era rimasta l’unico poliziotto di Guadalupe, il paesino di 9000 abitanti su una rotta strategica per il traffico di droga tra Messico e Stati Uniti vicino a Ciudad Juárez, la città famigerata per la strage di donne che vi va avanti da un paio di decenni.

I 200 scagnozzi che hanno fondato gli Zeta erano in origine membri delle forze speciali messicane: in particolare del Grupo de Aeromóviles de Fuerzas Especiales del Ejército. Nel 1999 decisero di lasciare lo Stato per i più lucrosi stipendi del Cartello del Golfo, contro i Sinaloa

D

Entrata in polizia come addetta alla radio, era rimasta da sola quando i narcos avevano assassinato il sindaco, e sette suoi colleghi avevano trovato più igienico dare le dimissioni. Benché la sua esperienza di armi fosse nulla, lei aveva imbracciato invece un fucile R-15, e con questo si era messa a pattugliare ostentatamente le vie della cittadina. Fi-

no a quando un commando di 10 narcos non la è andata a prelevarla in casa e l’ha portata via, dopo aver dato fuoco all’abitazione e a due auto parcheggiate. Tra le eroine c’era stata Hermila García: la donna che nella vicina Meoqui era stata la prima donna a capo della polizia di un municipio a cadere.Tra le eroine c’era stata Marisol Valles García: la studentessa di criminologia che a vent’anni ha accettato un posto di capo della polizia di Praxedis Guerrero, sempre Stato di Chihuahua, che nessun altro aveva il coraggio di accettare. Anche se pure lei però quando è rimasta incinta se ne è poi andata, chiedendo negli Usa asilo politico. Il suo predecessore, tanto per chiarire il tipo di ambiente, era stato ritrovato con la testa tagliata. Tra le regine dei narcos, invece, c’era stata Gabriela Elizabeth Muñiz Tamez. Una 31enne dai tratti delicati e dallo

sguardo intenso, ribattezzata la pieliroja, e proveniente da una buona famiglia di noti commercianti di Linares, nello Stato del Nuevo León. Ma dopo un divorzio si era legata a uno dei Los Zetas, e poi aveva deciso di mettersi in proprio alla testa di una sua banda di ben 17 elementi. Alla testa dei suoi complici, assaltava commercianti per strada o nei loro negozi mitra alla mano, portandoli via a forza su un’auto. E poi minacciava i familiari di inviare loro pezzi del corpo del rapito, se non pagavano un riscatto. Perfino alcuni dei suoi stessi parenti furono vittime di queste azioni.

Arrestata nel luglio del 2009, il 27 dicembre del 2010 era scappata in modo spettacolare: trasportata in ospedale su una vettura della polizia, questa era stata assaltata da un gruppo di uomini armati che l‘avevano portata via. Ma quat-

tro giorni dopo il suo corpo seminudo è stato trovato impiccato a un ponte nella città di Monterrey, con scritto su una spalla e sul petto il nome “Yair”, e i capelli rossi diventati completamente bianchi.Tra le regine dei narcos c’è Sandra Avila Beltrán: “la Regina del Pacifico” di cui il complesso delle Tigres del Norte e Arturo Pérez Reverte hanno raccontato la storia in un libro e in un disco intitolati entrambi “La Regina del Sud”. Nipote del “Capo dei Capi”Miguel Ángel Félix Gallardo, vedova di due boss, incriminata per un carico da nove tonnellate di cocaina, è dal 2007 in carcere, dove riceve gli ospiti vestita come per una sfilata di moda.Tra le regine dei narcos c’è María Patricia Rodríguez Monsalve “La Signora” o “La Dottora”: arrestata come collegamento tra El Chapo Guzmán, il narco messicano nella lista miliardari Forbes, e i cartelli co-


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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Israele pensa ai beduini per riempire gli insediamenti GERUSALEMME. L’amministrazione civile israeliana sposterà in maniera coercitiva i beduini che vivono in Cisgiordania in una sede permanente, come parte di un piano che prevede la rimozione di tutti i beduini dalla cosiddetta “Area C”, che è sotto l’amministrazione civile israeliana e la sicurezza militare, cioè da terre in cui hanno vissuto da decenni. L’Area C è considerata dall’Onu e dalla Croce Rossa come territorio occupato, dove la potenza occupante non ha il diritto di insediare propri cittadini. Il piano prevede che 27mila beduini vengano spostati in altre zone della Cisgiordania. I primi a subire questa forma di deportazione saranno i circa 2400 beduini che vivono in una zona a est di Gerusalemme, il che renderà più facile a Israele di espandere la colonia di Ma’aleh Adumim e altri insediamenti, così da creare una contiguità edilizia ebraica fino a Gerusalemme. Secondo il quotidiano Haaretz, il piano è

e di cronach

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

stato deciso e sarà messo in opera dal gennaio 2012 senza consultare i beduini. Due settimane fa, funzionari dell’amministrazione civile hanno visitato il sito permanente dei beduini Jahalin a est di al-Azariya. Le visite si sono intensificate negli ultimi giorni; e nel frattempo l’amministrazione civile e l’esercito israeliano hanno cominciato a demolire baracche e accampamenti, e porre limitazioni alle zone di pastura per il bestiame dei beduini.

Da sinistra, la “Flaca” arrestata ieri, un fermo a Città del Messico e il presidente Felipe Calderon

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri)

lombiani.Tra le regine dei narcos è pure Ivonne Soto Vega ”la Pantera”: la specialista in lavaggio di denaro del Cartello di Tijuana. Tra le regine dei narcos è Blanca Cazares Salazar “l’Imperatrice”. Altra specialista messicana in riciclaggio: incominciò a cambiare dollari agli spacciatori di strada che aveva vent’anni, e continua a sessanta. Tra le regine dei narcos c’è Enedina Arellano Félix, che atttraverso il figlio Fernando Sanchez dirige il cartello dei fratelli Félix.

Tra le regine dei narcos c’è Laura Zúñiga: la Miss Sinaloa e favorita per diventare Miss Hispanoamérica, quando fu arrestata assieme al suo compagno, un capo del sanguinario Cartello di Juarez.Tra le regine dei narcos c’è Lucero González Peña la Burro, cioè “l’Asino”: responsabile di una linea di distribuzione della droga per il Cartello di Sinaloa, e spietata mandante di omicidi. Veronica la Flaca è stata eroina nel 2009. E adesso la hanno arrestata i marines messicani: addirittura come presunta leader degli Zetas di San Nicolás de los Garzas: la zona dell’area metropolitana di Monterrey, a 1000 km da Città del Messico, dove il 25 agosto un commando degli stessi Zetas aveva incendiato un casinò il cui proprietario si era rifiutato di pagare il pizzo, provocando la morte di 52 persone. Probabilmente aveva iniziato come semplice doppiogiochista, ma poi deve essersi imposta, è diventata addetta alle comunicazioni, e quando infine il mese scorso il leader locale dei Zetas Raúl García Rodríguez El su-

Un’altra ex leader della droga è stata trovata cadavere lo scorso giugno con le mani legate, tre colpi alla schiena e una “Z” addosso reño, è stato arrestato, lei aveva preso il suo posto. Fino a quando non l’hanno trovata a bordo di un’auto rubata. Con lei, “un revolver calibro 38 speciale, 100 buste con polvere bianca con le caratteristiche della cocaina, 50 dosi di piedra (derivato della cocaina), due pacchetti di marijuana e sei telefoni cellulari”. E anche José de Jesós Molina “Mister Chip”, arrestato assieme a lei: un altro esperto in informatica e comunicazioni. Los Zeta, va ricordato, non sono narcos come gli altri. I 200 scagnozzi che le

hanno fondate erano in effetti in origine membri delle forze speciali messicane: in particolare del Grupo de Aeromóviles de Fuerzas Especiales del Ejército, addestrati alla famosa Escuela de las Americas, in altre istituzioni Usa, in Francia, Israele e in Egitto. Nel 1999 decisero di lasciare lo Stato per i più lucrosi stipendi del Cartello del Golfo, che li utilizzò contro i rivali del Cartello di Sinaloa. Ma nel 2008 si misero in proprio, costringendo Sinaloa e Golfo addirittura a allearsi tra di loro per far fronte alla loro furia. Sono stati in particolare gli Zeta i responsabili dei due massacri dello stato Tamaulipas, in cui nell’agosto del 2010 furono massacrati 72 immigrati, e il 6 aprile scorso sono stati ritrovati altri 193 cadaveri.

Ma gli Zetas sono anche i responsabili della strage del 27 maggio 2011 in Guatemala, con l’uccisione decapitazione di 27 guatemaltechi in una fattoria. Un particolare, quest’ultimo, che indicherebbe la loro velleità di invadere il territorio del Guatemala: la ragione per cui il generale Otto Pérez Molina, l’exgenerale arrivato in testa al primo turno delle elezioni in Guatemala, parla ora di mandare loro contro i kaibiles: le forze speciali guatemalteche. Conseguenza di questa formazione militare, Los Zetas curano particolarmente il versante Trasmissioni. Addirittura, utilizzano stazioni mobili montate sui camion per tenere i contatti con i loro uomini. Insomma: il know-how della Flaca era da loro particolarmente apprezzato.

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La morte, a 81 anni, di una leggenda dell’alpinismo

Walter Bonatti, un uomo con i piedi (saldamente) nelle nuvole Dalla conquista in solitaria di molte cime impervie del Monte Bianco alle violentissime polemiche seguite alla scalata del K2 nel 1954 quando il rocciatore fu accusato di aver ostacolato Compagnoni e Lacedelli: ci sono voluti cinquant’anni per ristabilire la verità e consegnare al mito uno dei protagonisti più significativi dello sport italiano di Marco Scotti segue dalla prima Walter Bonatti era nato a Bergamo il 22 giugno del 1930. È poco più che bambino quando entra, come ginnasta, nello storico gruppo sportivo “Forti e Liberi” di Monza. Ma, evidentemente, cavallina e corsa non fanno per lui: a soli 18 anni decide di cimentarsi con le vette, scalando le Prealpi bergamasche. È l’inizio di una travolgente passione: Bonatti e la montagna si ameranno di un amore incondizionato che spingerà l’uno a cercare sempre più il cuore nascosto e impervio dell’alta quota e l’altra a concederglielo, mettendo di fronte il suo amante, di volta in volta, a prove sempre più difficili e pericolose.

L’anno dopo lo troviamo Bonatti sulle Dolomiti, a ricalcare le orme del celeberrimo Bruno Detassis; sul Monte Bianco, dove insieme all’amico Andrea Oggioni si lancia alla conquista delle Grandes Jorasses; infine, sempre nel 1949, al confine tra Italia e Svizzera dove riesce a domare anche la parete nord-

ovest del Pizzo Badile. Gli anni Cinqunata, decennio cruciale per la storia di Walter Bonatti, non iniziano nel migliore dei modi: il ventenne Walter decide di cimentarsi in un’impresa ardua, mai riuscita prima. Affronta, infatti, la parete est del Grand Capucin, ancora sul Monte Bianco. La peculiarità di questa cima, che si staglia nel massiccio del Bianco come un monumentale obelisco alto circa 400 metri, è rappresentata da un muro di roccia rossa di 40 m, completamente liscio e

privo di appigli. La scalata fallisce dopo poche ore a causa di una violenta tormenta di neve che si abbatte su Bonatti e sul suo compagno di scalata Camillo Barzaghi, costringendoli a bivaccare – così vuole la leggenda – vicino al Rifugio Torino non avendo i soldi necessari per dormire all’interno. Passano pochi mesi e Bonatti ci riprova: questa volta il compagno d’avventura è Luciano Ghigo ma il risultato è lo stesso. Una violenta tormenta costringe i due ad abbandonare l’impresa. Che è però soltanto rimandata. Nel 1951 l’accoppiata BonattiGhigo riesce finalmente a conquistare il Grand Capucin, aprendo una nuova via che porterà il nome di Bonatti. Questo nonostante l’ennesima tempesta che costringe i due a bivaccare sospesi in parete. Lo straordinario risultato è però guastato da un avvenimento drammatico: la madre di Bonatti muore durante i festeggiamenti per la conquista.

Tra il 1952 e il 1954 la vita del grande alpinista si lega ancora

di più alla montagna: la cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey, la parete nord in inverno della Cima Grande di Lavaredo, il canalone nord del Monte Bianco sono alcune delle imprese compiute dal giovanissimo scalatore. A questo punto Bonatti è uno dei più importanti alpinisti italiani, e decide (siamo nel 1954) di allargare i propri confini: è la volta della seconda vetta più alta del mon-

Una carrira cominciata prestissimo con tante scommesse vinte alla ricerca di nuove vie di salita sui pinnacoli più duri do, il K2. Nel suo libro Le mie montagne Walter Bonatti riassume così l’esperienza asiatica: «Quella notte sul K2, tra il 30 e il 31 luglio 1954, io dovevo morire. Il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me... ». E ancora, poche pagine dopo: «Quello che riportai dal K2 fu soprattutto un grosso fardello di esperienze personali negative, direi fin

troppo crude per i miei giovani anni». Che cosa sia davvero successo sul K2 è vicenda definitivamente chiarita solo più di cinquant’anni dopo; anni durante i quali Bonatti è stato dipinto come un mostro e un potenziale omicida. Ma che cosa successe?

Bonatti si aggrega alla spedizione italiana capitanata da Ardito Desio: con i suoi 23 anni, è il più giovane della spedizione. Non si tratta di un’avventura qualsiasi, poiché permette la conquista per la prima volta in assoluto della vetta del K2. Un evento straordinario che darà ulteriore lustro alla tradizione alpinistica italiana. Prendono parte alla spedizione, oltre a Desio e Bonatti, altre ventotto persone tra alpinisti italiani – tra i quali “svettano”Lacedelli e Compagnoni, che saranno coloro che materialmente toccheranno per primi la cima del K2 –, alpinisti di origine “hunza” (popolazione pakistana che vive ai piedi della montagna) e ricercatori. Il gruppo si ritrova in Pakistan all’inizio di giugno e perde il suo primo membro, Mario Puchoz, il primo giorno d’estate. Un edema polmonare fulminante lo stronca e il suo


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15 settembre 2011 • pagina 15

corpo viene seppellito vicino al campo base. Per la conquista degli 8611 metri verranno approntati in tutto undici campi, compreso quello base situato a quota 4970. Per consentire agli alpinisti di muoversi con la maggiore sicurezza possibile, si decide di dar loro modo di ambientarsi alla diversa ossigenazione attraverso cordate che salgono e scendono dalle diverse altezze, permettendo all’organismo di adattarsi al meglio. Alla fine di luglio, dopo oltre un mese di preparativi sempre più frenetici, la scalata al K2 entra davvero nel “vivo”. Il 28 luglio, al VII campo si trovano soltanto Achille Compagnoni, Erich Abram, Lino Lacedelli, Pino Gallotti, Ubaldo Rey oltre a Walter Bonatti che, in preda a malessere non può seguire i compagni nella creazione dell’VIII campo, che verrà collocato poco sopra la soglia dei 7650 metri. Compagnoni e Lacedelli vengono ufficialmente designati per raggiungere la vetta del K2.

Il 29 luglio i due partono per la costruzione del IX campo a quota 8100 ma le condizioni sono talmente impervie da costringere i due alpinisti a desistere e a tornare indietro. La sera al campo VIII viene deciso che Compagnoni e Lacedelli partiranno il giorno successivo con il materiale per allestire il campo IX, realizzandolo però più in basso di quanto previsto, di modo da consentire a Bonatti e Gallotti di scendere a recuperare le bombole d’ossigeno, fondamentali per la salita e rimaste nei pressi del campo VII, e di portarle poi al campo IX. Si decide quindi di installare il campo IX a 7.900 m. Il 30 luglio Bonatti e Mahdi, un Hunza che si rivelerà fondamentale nel prosieguo della nostra storia, si caricano sulle spalle le bombole fino al campo VIIII e da lì, dopo una pausa di un paio d’ore, si recano verso il campo IX. Giunti nel punto prestabilito però, non trovano Compagnoni e Lacedelli, riuscendo a comunicare con loro solo a voce. Sono le 17.30 circa e il buio inizia ad avvolgere la cima pakistana. Compagnoni e Lacedelli gridano ai due compagni di seguire le orme. Bonatti e Mahdi continuano quindi a salire verso il campo IX. Ma, essendo questo più in alto di quanto concorda-

to, non riescono a raggiungerlo prima del sopraggiungere dell’oscurità. Quando arriva il buio i due si trovano a circa 8100 m su un ripido pendio ghiacciato, senza potere scendere o salire. Riescono a vedere, nell’oscurità ormai totale, la torcia del campo alla loro sinistra, oltre un pericoloso canale, impossibile da attraversare al buio. Mahdi e Bonatti sono bloccati e trascorrono la notte tra il 30 e il 31 su di un terrazzino di pochi metri scavato nella neve, senza sacchi a pelo e con una tempesta di neve che si scatena nottetempo. Mahdi, che ha le dita di mani e piedi in avanzato stato di congelamento, è in stato confusionale e ri-

Walter Bonatti con le guide al campo base sul Monte Bianco, nel 1955, dopo aver scalato in solitaria la parete sud-ovest del Petit Dru nel massiccio del Monte Bianco stando sei giorni e sei notti in parete (nella pagina a fianco, la via d’ascesa). Sotto, a sinistra Bonatti sul K2 e, a destra, l’alpinista con Reinhold Messner, suo amico e seguace sportivo

schia più volte di cadere. Solo Bonatti riesce a impedire che avvenga il peggio. La mattina dopo, all’alba, l’alpinista bergamasco raggiunge il campo VIII dove trova ristoro. Nel frattempo, Lacedelli e Compagnoni, tornati al campo VIII per recuperare le bombole d’ossigeno, si incamminano verso la cima del K2, che raggiungeranno intorno alle 18 del 31 luglio 1954.

Sulla vetta i due piantano una piccozza con le bandiere italiana e pakistana. L’ascesa è tutt’altro che indolore, visto che Compagnoni riporterà un congelamento alla mano che lo costringerà all’amputazione di due dita. La spedizione si con-

clude quindi con il trionfo italiano. Ma nella coda è nascosta la polemica che si risolverà solo mezzo secolo più tardi. Nel resoconto che Desio – capo della spedizione ma che non si muoverà mai dal campo base – consegna al Cai (Club Alpino Italiano) Bonatti nota più di una discrepanza con quanto realmente accaduto. Il motivo? Il racconto di Desio si basa unicamente sulla testimonianza di Compagnoni che accusa Bonatti di avere disatteso le procedure di sicurezza – nello specifico, gli si imputa di aver risposto solo molto tempo dopo alle grida di Lacedelli e Compagnoni e di essersi accampato in un luogo diverso da quello pattuito – e, soprattutto, di aver cercato di sabotare la spedizione. Come? Utilizzando le bombole di ossigeno visto che, come testimoniato da Compagnoni, il gas si esaurisce prima che i due alpinisti raggiungano la vetta, costringendoli a salire per gli ultimi 200 metri in apnea. Bonatti non ci sta: considera ingiuste le accuse che gli vengono mosse e da quel momento si dedica a percorsi “solitari”, evitando cordate e spedizioni affollate. Ma il vero affondo nei confronti dell’alpinista bergamasco arriverà dieci anni dopo. Sulla Nuova Gazzetta del Popolo, il giornalista Nino Giglio formula tre pesanti accuse contro Bonatti: di aver tentato di raggiungere la vetta insieme a Mahdi offrendogli del denaro, sopravanzando Compagnoni e Lacedelli; di aver compromesso la riuscita dell’assalto finale di Compagnoni e Lacedelli servendosi per circa un’ora delle bombole d’ossigeno durante il bivacco; di aver abbandonato la mattina del 31 luglio l’Hunza Mahdi, in difficoltà per congelamenti ai piedi, nel bivacco di fortuna dove avevano passato la notte insieme. Bonatti denuncia per diffamazione il giornalista Nino Giglio e continua a sostenere la propria tesi. Che resta però inascoltata fino al 2008, quando il Cai riconoscerà la versione di Bonatti come l’unica attendibile.

Nella notte di due giorni fa, Walter Bonatti, ormai pienamente “riabilitato” presso l’opinione pubblica, ha intrapreso la sua ultima scalata. La cima che lo attende è la più alta e sconosciuta che ci sia.


ULTIMAPAGINA In lode dei nerboruti agenti della Grande Mela, che combattono con efficacia tutti i giorni contro l’estremismo

Se il terrore teme la polizia di Daniel Pipes e forze dell’ordine americane hanno reagito all’emergenza 11 settembre con una pseudo-politica antiterroristica. Esse insistono a voler attribuire un nome al nemico, individuando nell’islamismo la causa del terrorismo; continuano a pensare che la violenza islamista è solo uno degli innumerevoli problemi similari (insieme ai neo-nazisti, agli assertori della supremazia razziale, etc.) e che l’antiterrorismo riguarda fondamentalmente la necessità di prendere dei provvedimenti rassicuranti come migliorare i diritti civili, approvare delle leggi antidiscriminatorie e dimostrarsi benevoli verso gli islamisti.

L

E poi c’è il Dipartimento di Polizia di New York (NYPD), un’istituzione sollecitata dagli attentati dell’11 settembre ad abbandonare il suo precedente lassismo e ad agire con serietà. Il dipartimento che in passato ha gestito male degli episodi di terrorismo (vale a dire l’assassinio di Meir Kahane) si è rapidamente trasformato in una seria agenzia antiterrorismo sotto la ragguardevole leadership di Raymond Kelly. (Andrew McCarthy lo definisce un “dono del cielo”.) A differenza delle altre, la polizia newyorkese dà un nome al nemico, ammette la predominante minaccia della violenza islamista e ha creato una robusta attività di intelligence. L’opinione pubblica ha potuto vedere i primi indizi di questi cambiamenti nel 2006, nel corso del processo che ha visto imputato Shahawar Matin Siraj. Il governo condannò Siraj, un immigrato clandestino pakistano che voleva far saltare in aria una stazione della metropolitana, sulla base di informazioni fornite da spie musulmane del NYPD: Osama Eldawoody, un informatore pagato dalla polizia e un detective che operava sotto copertura con il nome di “Kamil Pasha”. Quest’ultimo testimoniò di essere stato inviato tra i musulmani residenti a Brooklyn, munito di una “videocamera”, “ad osservare e ascoltare ogni cosa accadesse” per conto del dipartimento di polizia

DI NEW YORK andare in cerca di validi motivi ben evidenti o di indagare sui comportamenti sospetti. Un arresto potrebbe essere la leva di cui la polizia ha bisogno per convincere qualcuno a diventare un informatore”. È stata istituita la Terrorist Interdiction Unit per gestire questi informatori, inclusi “i leccapiedi delle moschee”, “i lecchini dei caffè”, i negozianti e i vicini ficcanaso. È stata costituita la Special Services Unit per occuparsi delle operazioni fuori New York, malgrado questi luoghi esulino dalla competenza del NYPD, e questo in diversi Stati americani e in undici Paesi stranieri. Lo sforzo ha avuto la sua buona dose di successi; ad esempio, un agente egiziano del NYPD sotto copertura in New Jersey ha avuto un ruolo importante nell’Operazione Cavaliere arabo che nel giugno 2010 ha portato all’arresto di due musulmani in New Jersey che si sono dichiarati colpevoli di voler unirsi al gruppo terroristico somalo al-Shabab per uccidere le truppe americane. È stata creata la Demographics Unit per “rilevare le comunità residenziali etniche all’interno dell’area del Tri-State [New Jersey, Connecticut e lo Stato di New York]”e per inviare agenti di polizia sotto copertura, chiamati rakers, per monitorare i musulmani in questa regione. La squadra è composta da 16 agenti che tra di loro parlano in arabo, bengalese, hindi, punjabi e urdu, ed enumera 29 “origini d’interesse”, tutte a predominanza musulmana, inclusa quella descritta come “musulmana afroamericana”. Complessivamente, il NYPD ha identi-

Il Nypd utilizza ogni mezzo a propria disposizione per intercettare e tenere sotto controllo le attività sospette: dalle infrazioni di ogni tipo al codice della strada agli informatori sui marciapiedi newyorkese. Christopher Dickey ha fornito un quadro dettagliato dei successi conseguiti dal dipartimento in un libro pubblicato nel 2009 e intitolato Securing the City: Inside America’s Best Counterterror Force--The NYPD. Ora, proprio in occasione del decimo anniversario dell’11 settembre, l’Associated Press ha pubblicato una serie d’interessanti indagini condotte da Adam Goldman sui metodi del dipartimento, concentrando l’attenzione sull’attività di cooperazione tra il NYPD e la Central Intelligence Agency e analizzando a fondo il dipartimento di polizia. Goldman scrive che il NYPD ha inviato i suoi agenti nei quartieri pakistani e “ha ordinato loro di cercare delle motivazioni per fermare le automobili come l’eccesso di velocità, le luci posteriori bruciate, non fermarsi allo stop, e altro. La segnaletica stradale ha dato alla polizia l’opportunità di

ficato 263 “luoghi caldi etnici” nella città, più 53 “moschee che rivestono interesse”. Quotidianamente i rakers redigono e depositano dei rapporti sulla vita dei quartieri musulmani di New York. Goldman e il suo coautore Matt Apuzzo osservano che gli agenti «visitano le librerie islamiche e i caffè, le aziende e i club. La polizia va in cerca di attività commerciali che attirano certe minoranze etniche come le compagnie di taxi che assumono pakistani». Esse mettono degli annunci personali. Goldman continua: «Se un raker nota [in una libreria etnica] un cliente che guarda i testi di letteratura fondamentalista, può fare quattro chiacchiere con il proprietario per sapere dei contenuti di quei libri. La libreria, o anche il cliente, potrebbe essere sottoposta a una maggiore sorveglianza».

Goldman e l’Associated Press disprezzano apertamente le tattiche del NYPD e sperano di moderarle. Ma questi metodi hanno tutelato la città di New York da tredici complotti terroristici falliti o sventati, il capo della polizia Kelly li approva e godono altresì di un ampio sostegno politico. Il sindaco di New York Michael Bloomberg ha elogiato la polizia per “l’ottimo lavoro” e John Brennan, consigliere antiterrorismo di Obama, ha encomiato il suo “eroico lavoro”. Il deputato Usa Peter King (repubblicano di New York) ha plaudito i suoi metodi come modello da emulare da parte del governo federale. E King ha ragione: i metodi adottati dalla più efficace forza antiterrorismo del Paese dovrebbero essere diffusi in ogni altra agenzia delle forze dell’ordine occidentali.


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