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Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune Alessandro Manzoni

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 16 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere si difende con un memoriale: «Tutte calunnie, io faccio solo del bene ad amici in difficoltà»

Piange il telefono Dai duetti Berlusconi-Tarantini il volto di un’Italia sporca e corrotta Un mondo di donne, soldi e ricatti. «Vai con lui e avrai Sanremo»: così il faccendiere alla Arcuri che rifiuta. Centomila intercettazioni: il premier sempre più nei guai. E si apre anche il fronte Unipol IL VERO SCANDALO

Nuovo allarme per i conti: il Pil del prossimo anno a +0,2%

Che tristezza, ormai siamo oltre il Satyricon

Confindustria e Ocse: crescita zero nel 2012 e boom disoccupati Sindaci in piazza contro la manovra. Alemanno: «Sono a rischio servizi essenziali». Le banche centrali promettono soldi agli istituti europei. E le Borse volano

di Osvaldo Baldacci

B

Una voce che circola nei palazzi romani: sarebbe questa l’offerta al presidente del Consiglio per lasciare

Che ne pensate di Silvio e Romano senatori a vita? Qualcuno sta valutando questa ipotesi, ma gli interessati rifiutano. «Impraticabile», dicono Feltrin, Pombeni e Sabbatucci

Francesco Pacifico e Riccardo Paradisi • pagine 10 e 11

Franco Insardà • pagina 4

I ribelli entrano a Sirte: ma di Gheddafi ancora nessun segno

The day after

Tre ipotesi su come cambierà il mondo dopo la crisi di Giancarlo Galli ebbene sia stato fatto l’impossibile per negare l’evidenza, alla fine politici ed economisti (entrambi afflitti da interessata miopia) hanno finito con l’ammetterlo: il modello capitalistico è entrato nel nero tunnel di una crisi generale. Che nessuno risparmia, dall’America di Obama all’Europa dell’euro al Giappone, cioè i tre pilastri del “sistema”. Non è certo la prima volta che si verifica, nella storia moderna. E sempre, almeno questo è motivo

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La spartizione di Tripoli Cameron, Sarkozy e Erdogan in visita in Libia di Pierre Chiartano

di speranza, il trauma è stato superato. Con quali tempi ed a che prezzo, però? Il pensiero corre quindi all’ultimo crac planetario, iniziato nell’ottobre del 1929 con un crollo a Wall Street, che praticamente si trascinò sino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Eccoci così di fronte a una serie di fatti, storicamente inconfutabili, e sui quali è opportuno riflettere. Anche per capire come «potrebbe» andare a finire. a pagina 12

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

asta, basta, basta. C’è una crisi che non si è mai vista. La crescita è azzerata. La disoccupazione corrode il Paese. Ai giovani è rubata ogni speranza di futuro. La malavita avanza. I nostri militari sono impegnati a rischio della vita in Afghanistan, in Libano e in mille altri posti del mondo. In Libia c’è la guerra. In Siria, in Iran e in altri Paesi una brutale repressione. L’euro è a rischio. Negli Stati Uniti, in Russia, a Bruxelles ci sono sfide che decideranno della vita di tutti noi, mentre l’emergere prorompente di Cina, India, Brasile & company cambia l’aspetto del pianeta. E da noi si parla solo delle escort di Berlusconi. a pagina 5

In missione anche Henry-Levy

n Libia si rischia l’affollamento da leader politici. Tra ieri e oggi sono atterrati Nicolas Sarkozy, David Cameron e Recep Tayyip Erdogan. Mercoledì era stata la volta della diplomazia americana, con Jeffrey Feltman, assistente segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente. Una full immersion diplomatica per i neo governanti del Cnt.

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• ANNO XVI •

La riscoperta dei filosofi di Antonio Picasso a guerra è il motore del mondo. Diceva Clemanceau. Ma è l’economia ad avviare la macchina. Le operazioni della Nato in Libia sono scaturite dalla necessità impellente di rivedere i contratti e gli appalti del sistema Gheddafi. a pagina 6

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a pagina 6

NUMERO

180 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto Centomila intercettazioni allegate agli atti dell’inchiesta barese. Tarantini e Sabina Began indagati per prostituzione

B. L’orgia del processo

Donne, favori, ricatti: oggi giorno un nuovo ritratto del mondo che circonda il capo del governo. E arriva anche il caso Unipol i precedenti di Errico Novi

ROMA. Una batteria terrificante. Da Milano una richiesta di rinvio a giudizio per la diffusione della telefonata Fassino-Consorte. Da Bari la chiusura dell’inchiesta sul giro di escort organizzato da Tarantini e C., con nuove clamorose rivelazioni sul tentativo di far prostituire anche Manuela Arcuri e il rifiuto dell’attrice. Il tutto mentre il povero Ghedini tenta di scongiurare l’interrogatorio chiesto dalla Procura di Napoli. Silvio Berlusconi è letteralmente travolto dalle disavventure giudiziarie. E proprio il suo legale di fiducia deve essere in seria difficoltà nel gestire un traffico così intenso. Difficile anche stabilire quale sia la vicenda più grave. Perché è vero che nell’inchiesta di Milano il presidente del Consiglio è di fatto già potenzialmente imputato (il giudice per l’udienza preliminare Stefania Donadeo ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm, invitandoli a riproporre l’istanza di rinvio a giudizio, che a questo punto sarà necessariamente accolta), mentre in quella di Bari è solo l’utilizzatore finale e in quella di Napoli risulta come parte lesa (ricattato, per la precisione). Ma in queste altre due indagini emergono ulteriori informazioni non proprio edificanti, rispetto ai comportamenti privati del premier. E

Tutti i procedimenti nei quali il premier è coinvolto direttamente

Da Mills a Mediatrade a Ruby: cinque fronti aperti per Ghedini ROMA. Non vorremmo essere in Ghedini. O forse sì. Dipende dai punti di vista. Nel senso che l’avvocato del premier ha un monte di lavoro, da un po’ di tempo a questa parte. Male perché è impegnatissimo ad allestire strategie processuali di qua e di là (senza contare il pressing dell’attività parlamentare, dove ogni voto di fiducia, compreso quello di Ghedini, è vitale per la maggioranza). Bene perché, insomma, son belle parcelle… Comunque, i processi nei quali il premier è coinvolto direttamente sono cinque. Eccoli. CASO MILLS. È il più grave, dal punto di vista giuridico. Il premier è accusato di aver pagato l’avvocato inglese David Mills per indurlo a rilasciare falsa testimonianza nel processo All Iberian (quello sull’accumulo di fondi neri da parte di società che fanno capo alla galassia Mediaset). Come è noto, Mills è stato condannato come pure i vertici di Mediaset. CASO MEDIATRADE. Anche in questo caso Berlusconi è inquisito in merito a un presunto accumulo di fondi neri ottenuto tramite operazioni di acquisto e vendita di dirittti televisivi. EVASIONE FISCALE. Nell’ottobre 2010 Silvio Berlusconi viene indagato con l’ipotesi di evasione fiscale e reati tributari, nell’ambito dell’inchiesta milanese (Mediatrade) sulla com-

pravendita dei diritti tv e cinematografici Mediaset in cui è coinvolto anche il figlio Piersilvio. CASO RUBY. È il più spinoso. Berlusconi è accusato di prostituzione minorile. Ci si riferisce alle festicciole di Arcore alle quali - secondo l’accusa - partecipano anche delle minorenni, a cominciare dall’allora diciassettenne Karima El Mahroug. Nel processo, sono coinvolti anche Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora per induzione alla prostituzione. CASO UNIPOL. è notizia di ieri la richiesta di rinvio a processo di Belrusconi per il suo ruolo nella pubblicazione - in periodo elettorale - di una intercettazione nella quale Piero Fassino al telefono si complimentava con Consorte per l’acquisizione di Unipol da parte della Coop. CASO TARANTINI. In questo caso, è bene ricordarlo, Berlusconi non è indagato ma parte lesa, poiché la magistratura ritiene che Tarantini - per tramite del faccendiere Lavitola - ricattava il premier chiedendo soldi in cambio del suo silenzio nell’ambito dell’inchiesta su un giro di prostituzione tra Bari e Palazzo Grazioli.

persino un tentativo compiuto da Tarantini e Sabina Began (a sua volta indagata) di far prostituire Manuela Arcuri con Berlusconi in cambio della conduzione di Sanremo. In generale si delinea un quadro animato da persone di notevole spessore criminale e propensione alla corruttela. Soprattutto la “cordata” allestita da Gianpaolo Tarantini si distingue per l’intreccio tra prostituzione e tentativi di infiltrarsi in gare d’appalto e commesse d’affari. Obiettivi coltivati velleitariamente attraverso il rapporto con il premier. A sua volta Valter Lavitola appare, nell’inchiesta di Napoli, come l’agente di una complessa rete di corruttori che farebbe capo a Finmeccanica. Un’organizzazione dedita al “compiacimento” di autorità civili e militari di Paesi stranieri al fine di ottenere ricche commesse per forniture militari. Vicende, queste ultime, che emergono dalle carte depositate al Riesame dai pm partenopei e relative all’indagine sui presunti ricatti sessuali a Berlusconi.

È impressionante il vortice di vicende squallide, inquietanti o In alto, Sabina Began, detta “ape regina” del premier, è indagata per prostituzione


prima pagina

16 settembre 2011 • pagina 3

la lettera

Un memoriale degno di un santo Il Cavaliere si presenta come un benefattore dell’umanità. Basta che si riesca a scrivergli... di Massimo Fazzi asso è basso, ma non si può dire che sia in sovrappeso. Tanto meno con barba e capelli imbiancati: anzi, la barba proprio non la ha. Stesso discorso per il look, che è lontano anni luce da quella palandrana rossa e un poco sdrucita che l’iconografia gli ha cucito addosso. Eppure, leggendo il memoriale depositato presso la Procura di Bari da parte dei legali di Silvio Berlusconi – premier della Repubblica italiana – si ha l’impressione di avere a che fare con Babbo Natale. Chi dovesse immaginare storie torbide dietro l’elargizione di denaro contante da parte del presidente del Consiglio, o peggio ancora dovesse presumere che dietro a queste ci sia addirittura un reato previsto e punito dal Codice penale attualmente in vigore nella nostra penisola, sarebbe un’anima brutta. Perché il memoriale depositato, che non vale quanto una testimonianza ma è comunque rilasciato firmato e quindi sotto giuramento, trasuda bontà. Da ogni singola parola. Certo, ci sono alcuni punti un poco particolari che sembrano stridere con la magnificenza espressa nelle intenzioni; ma si tratta di inezie di nessun conto. Che forse vale però la pena riassumere, non fosse altro per far brillare ancora di più con la luce che le compete l’azione intera.

B

GIANPI, OVVERO LA VERITÀ ASSOLUTA. Nel proprio testo, il presidente del Consiglio dei ministri scrive che «il Tarantini, in diverse missive accorate inviatemi presso la mia segreteria di Roma, protestava la propria estraneità dalle accuse che gli venivano mosse, si scusava per il disagio che mi aveva procurato, si lamentava per il trattamento mediatico e giudiziario che gli veniva riservato». Come ogni “buono”, Berlu-

più semplicemente penose. Su quelle riguardanti il procacciamento di escort da offrire al premier, i magistrati di Bari arrivano dunque a un punto, con l’avviso di conclusione delle indagini, depositato peraltro alla cancelleria della Procura già il cinque agosto, ma notificato solo ieri. Nell’inchiesta risultano indagate otto persone, con 28 capi di imputazione complessivi, tra i quali spiccano il favoreggiamento della prostituzione e l’associazione a delinquere. Ci sono i fratelli Tarantini (oltre a ”Gianpi” anche Claudio), l’avvocato brindisino Salvatore Castellaneta, il milanese Pierluigi Faraone e Massimiliano Verdoscia. A loro si aggiungono l’ape regina Began e altre due starlette, ovvero Francesca Lana e Vanessa Filippi.Tutti si sarebbero dati da fare per procacciare ragazze a Berlusconi. Finalità della ”organizzazione” era il compiacimento del premier e, in ultima analisi, il conseguente

sconi non pensa sia il caso di contattare chi indaga su Tarantini: gli crede e basta, e questo basta perché apra i cordoni della borsa. IL SOSTEGNO ALLE PICCOLE IMPRESE. Tarantini e la moglie, scrive ancora il premier, «mi fecero pervenire più volte lettere in cui mi presentavano la gravità

Fiducia assoluta, contanti pronti, consegna immediata. Leggendo come ha salvato Tarantini viene quasi da piangere della loro situazione economica, chiedendomi anche aiuto per finanziare la loro azienda e per evitare il fallimento». Anche in questo caso, la fiducia del nostro è assoluta: se potesse, probabilmente, aiuterebbe tutte le piccole e medie imprese che in Italia rischiano il fallimento per la crisi finanziaria e le mille manovre che il suo governo porta alla Camera. Ma è umanamente impossibile, quindi si limita a chi gli scrive.

del denaro, o consegnandolo direttamente al Lavitola [il direttore dell’Avanti, faccendiere del premier, che ignoriamo per motivi di compassione umana nda] o facendoglielo consegnare, in alcune rare occasioni, dalla mia segreteria. Si trattava di somme che variavano tra i 5.000 e i 10.000 euro, 5 per il Tarantini e 5 per la moglie. Non sono in grado di ricordare con quale frequenza ciò si avvenuto». RIPARTIRE DA ZERO. MA IN CONTANTI. Ebbro per tanta generosità, il Tarantini inizia a pensare che il premier possa aiutarlo anche a far rinascere la propria azienda. Ecco perché “in più occasioni” parla con Lavitola per chiedere un “finanziamento” al presidente del Consiglio a questo scopo. Detto, fatto: «Ritenni di accedere a tale richiesta e dissi a Lavitola che ero disponibile a erogare ciò che mi era stato richiesto. Lavitola mi disse che avrebbe depositato lui direttamente i fondi presso una banca in Sudamerica, dove erano già stati depositati i suoi fondi personali, e che avrebbe preferito ricevere la

“BANCOMAT B.”. Alla luce di tutto questo potremmo mai pensare che il nostro possa rimanere con le mani in mano? Ovviamente no: «Feci quindi avere al Tarantini

eventuale ottenimento di commesse d’affari.

Ma lo stesso obiettivo, rivela l’inchiesta, è stato perseguito da Tarantini e soci anche nel più limitato contesto pugliese: ed è qui che si sviluppa l’altro filone delle indagini, quello che arriva all’ex vicepresidente della Regione Puglia Sandro Frisullo e ai vantaggi e appalti nella Asl di Lecce, con incontri sessuali organizzati anche a Milano. Nel caso di Berlusconi invece tutto sarebbe avvenuto a Palazzo Grazioli. Si trattava di un giro organizzato nei dettagli: istruzioni alle ragazze persino sui vestito da indossare, selezione delle stesse sulla base di precise caratteristiche («giovani e di corporatura esile»), auto a disposizione per raggiungere la residenza romana del Cavaliere. E appunto, il tentativo di arrivare in alto, in quanto a fascino femminile: fu Manuela Arcuri, infatti,

a opporre il suo no. Ma la banda Tarantini ci provò eccome. Prima sventolando sotto il naso della bellissima attrice il sogno di una conduzione a Sanremo, riportandone appunto il rifiuto. Poi in due circostanze datate inizio 2009, come si legge nel capo di imputa-

somma da me in contanti. Gli ho consegnato tale somma [che secondo alcune indiscrezioni ammonta a 500.000 euro, che il premier definisce “una somma per me contenuta”nda] in molteplici tranches dalla primavera di quest’anno fino a prima dell’inizio dell’estate, personalmente, sempre in Roma». Ora, a parte il fatto che il Sudamerica è lontanuccio da quella Bari dove Tarantini lavora e dimora, perché tutto in contanti? E soprattutto, Tremonti lo sa? O forse è stato proprio lui a consigliare questa forma di pagamento, tanto comoda per gli affitti? GLI AVVOCATI, FIGURE DI SFONDO. Dopo aver comunicato a Ghedini, suo avvocato, e all’avvocato Perrone (che nel frattempo ha assunto la difesa del Tarantini) la decisione di sovvenzionarlo, questi due – evidentemente ingrate figure di sfondo – si oppongono: «L’avv. Perrsoni manifestò stupore per la notizia, dicendo di non saperne nulla e prospettando a suo dire la inopportunità di tale decisione. Anche l’avv. Ghedini si stupì e manifestò la propria perplessità». Ma uno come il nostro, secondo voi, poteva farsi frenare da tutto questo? Certamente no: «Io ribadii che si trattava di una somma per me contenuta, che destinavo volentieri a una persona in difficoltà che manifestava l’intenzione di volersi riscattare con un nuovo impegno imprenditoriale». E niente commenti, grazie. Ora, alla luce di tutto questo, come si può pensare male di questa persona? Caro Babbo Natale, quest’anno sono stato buono.Ti prego, portami il numero di cellulare di Silvio Berlusconi. O almeno il suo indirizzo esatto di posta.

ne di queste, da Sara Tommasi a Marystel Polanco, già coinvolte nell’inchiesta su Ruby. C’è anche sfruttamento della prostituzione in favore del dirigente di Finmeccanica Salvatore Metrangolo, con l’obiettivo di ottenere informazioni riservate dall’interno del grup-

gli imputati anche il presidente del Consiglio. Con Maurizio Belpietro, all’epoca direttore del quotidiano milanese, per il quale il giudice Donadeo ordina l’iscrizione al registro degli indagati. L’amministratore della ditta che eseguiva materialmente le intercettazioni sull’inchiesta Antonveneta-Unipol per conto della Procura, Roberto Raffaelli, aveva patteggiato 20 mesi di carcere. Dopo aver a lungo negato, l’estate scorsa ammise di aver trafugato un computer con il file audio della telefonata Fassino-Consorte e di averlo portato “in dono”a Berlusconi nella villa di Arcore, alle 7 di sera della vigilia di Natale del 2005. La posizione del premier era stata approfondita in un’apposita udienza preliminare, dopo la quale il gup Donadeo si era riservata la decisione.Arrivata ieri, a complicare un groviglio giudiziario a dir poco soffocante.

C’è persino un tentativo di “offrire” al presidente del Consiglio i favori sessuali di Manuela Arcuri. Ma l’attrice respinse la proposta di Gianpi e della showgirl Francesca Lana zione, quando Gianpi e Francesca Lana avrebbero prospettato «la possibilità di un personale interessamento» del premier«per consentire la partecipazione del fratello della Arcuri a una trasmissione televisiva. C’è dunque di tutto. Centomila intercettazioni allegate agli atti d’indagine. Ci sono almeno trenta ragazze portate nelle residenze del premier, buona parte delle quali si sono prostituite con Silvio Berlusconi. Alcu-

po ed entrare in contatto con i vertici aziendali.

Della vicenda di Milano, e dell’intercettazione in cui Fassino esclama «abbiamo una banca», si sa già tutto da tempo.Tre mesi fa era stato già rinviato a giudizio Paolo Berlusconi, editore del Giornale ,sul quale venne pubblicata la conversazione. Ora in questo particolare filone processuale del caso Unipol finisce tra


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l’approfondimento

Le opinioni dei tre politologi sull’ipotesi, circolata in questi giorni, di una nomina a Palazzo Madama per il premier e il Professore

Bipolari a vita

Uno scranno permanente al Senato per Berlusconi come salvacondotto e uno a Prodi per disinnescare il suo attivismo politico? Qualcuno ci sta pensando, ma secondo Feltrin, Pombeni e Sabbatucci è «impraticabile». Ecco perché di Franco Insardà

ROMA. L’idea è semplice e a ben guardare c’è anche un precedente illustre. Risale al 1992, quando Francesco Cossiga decise di garantire un buen retiro a Giulio Andreotti, appena scaricato da Craxi e Forlani e già sfiorato dalle accuse di mafia lanciategli dall’Antimafia di Violante. E infatti lo nominò senatore a vita. Allo stesso modo, nelle ultime ore, chi lavora per un’exit strategy, per far uscire il Paese, avrebbe proposto a Silvio Berlusconi uno scranno di senatore a vita, che gli possa servire anche da salvacondotto giudiziario. «La persona giusta è Letta», la replica del Cavaliere, sempre più arroccato sulle sue posizioni. Sull’altro versante il Pd deve fare i conti con l’attivismo di Romano Prodi. Il professore aveva promesso di ritirarsi a vita privata, di passare le sue giornata tra gli studi e gli incarichi di rappresentanza, invece non passa giorno che entri a

gamba tesa nel dibattito politico. Un giorno firma il referendum contro il Porcellum voluto da Artuto Parisi, l’altro si propone come mediatore verso la Cina (e incontra esponenti di Pechino), l’altro ancora spiega alla Ue come fare gli eurobond e mettere nell’angolo la Germania. Si dirà lavoro consono per un ex presidente, che campa sfruttando la sua immagine e il suo passato.

Eppure, con un Pd sempre più confuso, queste prese di posizione finiscono per dimostrare l’assenza di una linea politica dalle parti del Nazareno, sobillano revanchismi tra le anime laiche e cattoliche del partito, finiscono per incendiare i rapporti con l’altra gamba dell’opposizione, il Terzo Polo, più coeso e coerente in questa fase. I maggiorenti del Pd lo dicono a mezza bocca, ma l’attivismo di Prodi imbarazza i vertici del partito. Di conseguenza, qualcuno pensa e lavora per concedere all’ex premier uno scran-

no da senatore a vita, pur di disinnescare quella che è a tutti gli effetti una mina vagante. All’ipotesi che soprattutto Berlusconi possa diventare senatore a vita Paolo Pombeni, professore di Storia dei sistemi politici europei presso l’Università di Bologna, crede poco: «A che cosa potrebbe servirgli? Non sarebbe coperto sul piano giudiziario e, dal suo punto di vista dovrebbe ammettere una sconfitta. Si tratterebbe, cioè, di una soluzione dalla quale Berlusco-

ni non ne esce vittorioso e, siccome conosciamo il personaggio, non accetterebbe un’uscita di scena di questo tipo, organizzerebbe, invece, una resistenza a oltranza per costruirsi un’immagine finale di martire». Secondo Giovanni Sabbatucci, professore di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, il problema è «soltanto quello di risolvere la questione Berlusconi, creandogli una sorta di scivolo. Creerebbe, però, troppi imbarazzi a partire dal capo

Pombeni: «Non c’è bisogno di archiviare il bipolarismo. Nei fatti non esiste più»

dello Stato, visti gli scandali e le inchieste nei quali è coinvolto. In quest’ottica garantire un laticlavio a Prodi potrebbe, paradossalmente, facilitare i progetti per salvare il Cavaliere. Si nominerebbero, cioè, senatori a vita i due protagonisti della Seconda Repubblica».

L’idea della nomina a senatore a vita come pensionamento dalla politica attiva viene respinta da Pombeni: «Giorgio Napolitano fu nominato senatore a vita nel 2005 e si è rivelato una risorsa come presidente della Repubblica. Non sempre questa nomina, quindi, è sinonimo di imbalsamazione» Per Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’amministrazione dell’università di Trieste, la cosa interessante è «il precipitare degli eventi e il tentativo di trovare una soluzione tecnica ragionevole al passaggio di mano. Una situazione che ricorda la stagione 1992. È interessante notare che tutti gli attori politico-istituzionali si stanno met-


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Cercasi persone serie, che sappiano mettere al centro il bene e il futuro del nostro Paese

Che tristezza quest’Italia, ormai siamo ben oltre il satirico

Nel resto del mondo si parla di crisi, di sviluppo, di missioni, di guerre. E da noi? Solo e soltanto delle soubrette del nostro premier. Ora basta! di Osvaldo Baldacci asta, basta, basta. C’è una crisi che non si è mai vista. L’Italia è sotto attacco diretto. La crescita è azzerata. La disoccupazione corrode il Paese. Ai giovani è rubata ogni speranza di futuro. La malavita avanza. I nostri militari sono impegnati a rischio della vita in Afghanistan, in Libano e in mille altri posti del mondo. In Libia c’è la guerra. In Siria, in Iran e in altri Paesi una brutale repressione. Nel Nord Africa tutto ribolle e si deciderà del destino del nostro Mediterraneo, dove intanto la nostra sorella Grecia affonda. L’euro è a rischio. Negli Stati Uniti, in Russia, a Bruxelles ci sono sfide che decideranno della vita di tutti noi, mentre l’emergere prorompente di Cina, India, Brasile & company cambia l’aspetto del pianeta. E da noi si parla solo e soltanto delle escort di Berlusconi e cabaret vario. Ma non viene di ribellarsi? Non se ne può più.Ancora oggi le prima pagine di tutti i giornali nazionali saranno costrette ad aprire con Manuela Arcuri cui era promesso Sanremo se si fosse concessa, ma pare abbia rifiutato. Non se ne può più dell’immagine che viene data dell’Italia, a noi e all’estero. Non se ne può più di questa gara a chi produce più fango e a chi lo rimesta. Possibile che non ci sia un sussulto di indignazione collettiva, di orgoglio nazionale, che dica basta, basta, basta. Tutto questo non ci rappresenta. Vogliamo solo persone serie, capaci di visione, che mettano al primo posto l’Italia. Qui c’è da rimboccarsi le maniche per ripulire il Paese dal letame che è stato accumulato. Ma la prima pulizia va fatta in noi stessi, nei nostri cuori, nei nostri occhi. In modo che possiamo disintossicarci da questo clima cui ci siamo assuefatti, e possiamo guardare tutto con sguardo limpido. Per renderci conto che di letame ce n’è tanto, ma va spalato, non esaltato. Però per fare questo salto di qualità occorre una operazione di verità che ha almeno tre bersagli: l’elite, i media, la società.

B

È vero che i giornali parlano, sparlano e straparlano di scandali, tresche, e immondizia varia. Ma deve essere altrettanto chiaro che il punto di partenza è che questo è vero, è quello di cui davvero si occupa una bella fetta della elite che ci governa. Non solo il premier, inoltre, ma tanti altri tra i politici ma anche nel “bel mondo”, che secondo quello che ci hanno propinato per decenni è“bello”anche proprio per questo. No, non è bello, fa schifo. Sesso, droga, strumentalizzazione del potere non sono il bel mondo. E questa verità dev’essere sparata in faccia non solo a Berlusconi ma a tutta quella classe che ha voluto imporre questo punto di vista, tanti maestri di pensiero, pseudo intellettuali, sessantottini e libertini di ogni fazione. In questo senso in qualche modo il comportamento di Berlusconi è il frutto estremo, e forse la vittima, di questa mentalità che ha infettato l’Italia. Berlusconi e il berlusconismo sono il frutto maturo della cultura radicale di massa. Lui fa solo più in grande, come sempre, quello che troppi hanno

esaltato come un optimum, per poi oggi fare i moralisti per mera strumentalizzazione politica. Certo, non si può però nascondere che all’interno di questa elite marcia le vicende degli ultimi anni che avrebbero coinvolto il governo e il presidente del consiglio appaiono come una vetta di decadenza che supera ogni versione del Satyricon. Cosa che è infinitamen-

Dobbiamo disintossicarci il prima possibile da questo clima al quale, purtroppo, ci siamo assuefatti

te grave non solo e non tanto per i risvolti morali (soprattutto a livello di esempio), ma soprattutto perché si evidenzia sempre più come ci sia un importante realtà istituzionale che non rispetta il decoro delle istituzioni e ancor peggio si infila in giri infimi che sono in grado non solo di assorbire completamente le sue vittime ma anche di condizionarle e, forse (è l’ipotesi della procura), ricattarle. E di questo è costretta ad occuparsi di politica, ma anche la magistratura, mentre ben altro ci sarebbe da fare per evitare che il Paese affondi.

Ma il secondo elemento di questo triangolo della vergogna è il sistema mediatico. Perché diciamoci anche una cosa: tutta la massa di intercettazioni che oggi stanno nuovamente sommergendo il Paese, beh, c’è più di qualche dubbio sul fatto che siano da pubblicare. È già bizzarro che si possa intercettare un presidente del consiglio (certo la sua prudenza dopo tutto quello che si è fatto capitare non denota grande lucidità), ma è ancora più preoccupante che quelle intercettazioni possano finire in pasto a chiunque anche quando non hanno alcun rilievo penale. Non è certo questione di proteggere Berlusconi con qualche decretobavaglio o ferma-inchieste, ma non possiamo farci travolgere passivamente dall’ondata di strumentale indignazione (che colpisce sempre a fasi alterne secondo gli schieramenti, e che poi all’improvviso accende più di tutti quelli che poco prima stavano dall’altra parte, italico vizio) senza un barlume di ragionamento e di coscienza. Poi però ci siamo noi, cittadini, lettori, pubblico. Società. Io resto fermamente convinto che nel profondo gli italiani siano migliori di come vengono rappresentati, di come li crede e li descrive quell’elite marcia e autoreferenziale. Ma certo non si può negare che noi italiani, noi società, noi gente comune facciamo di tutto per nascondere questo nostro sperato essere migliori. Se nonostante fondamenti morali migliori poco facciamo per fermare il nostro stesso slittamento verso quei modelli che a comando ci indignano, non meritiamo molto. Se ogni giorno ci occupiamo solo delle nostre piccole cose a ogni costo, senza scrupoli, pronti a tutto, e ci accorgiamo di non essere così terribili come chi ci governa solo perché non siamo così potenti, ma se potessimo… beh allora questa società ha la politica, l’elite, i media che si merita. D’altro canto chi è che ha in mano il telecomando, che sceglie il giornale, che clicca il sito internet, e che vota? Chi è che crede che se prende le distanze è innocente, e non si accorge che l’indifferenza è diserzione, e se l’Italia va a fondo è anche responsabilità di chi non spala via il letame. È il momento di dire una sola cosa: prima l’Italia.

tendo nell’ottica di dover adottare misure immediatamente efficaci per chiudere la stagione di Berlusconi. Una cosa appare evidente: nessuno vuole andare al voto anticipato, non per il timore delle elezioni, ma per paura di governare. È ovvio che tutti cercano una soluzione di governo istituzionale, ma a secondo della forma si prefigurano vari scenari politici futuri. La prima ipotesi potrebbe essere definita neodemocristiana con parte del Pdl, il Terzo Polo e parte del Pd. L’altra possibilità ripercorre la stessa area governativa, ma facendo perno sulle classi imprenditoriali. Due soluzioni che hanno un precedente: Berlusconi. Il problema è capire quale schema di governo bisognerà adottare, poi sarà semplice risolvere sia l’uscita del Cavaliere, sia individuare il prossimo premier».

Dietro la nomina di Berlusconi e Prodi si potrebbe intravedere la rappresentazione plastica della fine del bipolarismo, ma secondo Pombeni si tratta «di costruzioni a tavolino poco credibili.Tra l’altro il bipolarismo in senso classico non tiene nella realtà. Non c’è quindi bisogno di archiviarlo: non esiste più. L’attuale legge spinge all’obbligo di una coalizione di governo, non al bipolarismo. Tanto è vero che, come si è dimostrato nel caso dell’Unione, se la coalizione non sta in piedi è peggio del vecchio sistema proporzionale. La coalizione, cioè, non deve essere negoziata sulla base: così andiamo al governo o sconfiggiamo l’avversario. La differenza tra le coalizioni elettorali e quelle della Prima Repubblica sta nel fatto che queste ultime, quando hanno funzionato, erano basate su programmi veri e negoziati. E l’attuale maggioranza non sta dando prove di grande coesione programmatica». Il professor Sabbatucci ritiene che legare la nomina del Cavaliere a senatore a vita alla fine del bipolarismo «può essere una lettura a posteriori. Se si pensa a una qualche soluzione a breve la cosa avverrà, sicuramente, fuori dagli schemi del bipolarismo. Se guardiamo al Paese e alle sue espressioni elettorali penso che ci sia ancora, non so per quanto tempo ancora, un’Italia divisa sostanzialmente tra berlusconiani e antiberlusconiani. Credo che la strada maestra sia quella delle elezioni e in subordine che, come è successo in altri casi in questa Seconda Repubblica, si metta la parola fine con un governo di larghe intese. E, sbilanciandomi, tra un governo politico e uno tecnico ritengo che la seconda ipotesi sia preferibile. Andando nello specifico la soluzione potrebbe essere quella di un governo di grande coalizione con alla testa un personaggio come Amato che avrebbe il vantaggio di aver già ricoperto questo ruolo».


mondo

pagina 6 • 16 settembre 2011

Nel pasticcio libico spunterebbe anche il coinvolgimento di Israele (tramite i buoni uffici di un pensatore francese)

La vera presa di Tripoli Sarkozy e Cameron nella capitale per firmare accordi con il Cnt e bruciare sul tempo Erdogan di Pierre Chiartano n Libia si rischia l’affollamento da leader politici.Tra ieri e oggi sono atterrati Nicolas Sarkozy, David Cameron e Recep Tayyip Erdogan. Mercoledì era stata la volta della diplomazia americana, con Jeffrey Feltman, assistente segretario di Stato per gli affari

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del Vicino Oriente. Una full immersion diplomatica per i neo governanti del Cnt. Quanto meno avranno fatto un corso accelerato di protocollo, mentre la stabilizzazione del Paese sembra ancora lontana.

E sullo sfondo si muoverebbe anche Israele. I due premier europei sono sbarcati nella capitale libica ieri in mattinata e hanno fatto visita all’ospedale di Tripoli. Il rappresentante del Consiglio nazionale di transizione ha subito chiarito cosa occorre: «servono Il leader del Consiglio nazionale di transizione libico Jibril. In apertura Nicolas Sarkozy e David Cameron: i due sono giunti ieri nella capitale libica per firmare accordi con il Cnt. Nella pagina a fianco il filosofo francese Bernard Henri-Levi, che ha accompagnato l’inquilino dell’Eliseo nella sua visita a Tripoli

armi, Gheddafi prepara una rappresaglia». Anche se alcuni esperti militari confessano che più che le armi servirebbero dei veri combattenti, ma Roma non si è fatta in un giorno. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron giungono quindi per raccogliere la messe politica della rivolta libica, bruciando di 24 ore il leader turco Erdogan. Onde evitare che ciò che hanno seminato – talvolta maldestramente – non venga raccolto da altri. Visto il bagno di folla continuo e le ovazioni delle moltitudini arabe tributati a quello che in America è già stata ribatezzato «il nuovo Nasser», sarebbe prudente chiudere i giochi libici assai velocemente, prima che altri arrivino sul tavolo a puntare numeri diversi.

E la Turchia di numeri ne ha parecchi, a cominciare dai 15 miliardi di dollari d’investimenti che Ankara non ha alcuna voglia di perdere. Anche l’Italia avrebbe qualcosa da perdere, ma per questo giro rimane a casa. Intanto, il ”premier”del Cnt libico, Mustafa Abdel Jalil, ha chiesto armi per riprendere le aree controllate dalle milizie del colonnello che, a suo parere, starebbe preparando una

rappresaglia. «Ci saranno violenti scontri a Sabha (città del sud controllata dai lealisti), chiediamo altro equipaggiamento per riprendere queste zone», ha affermato Jalil in un’intervista alla Bbc. Il leader del Cnt ha quindi sottolineato di ritenere che Gheddafi si nasconda nel sud del Paese e da lì stia preparando attacchi contro città, pozzi petroliferi e centrali elettriche. Tanta pervicacia nel ”non togliere”il disturbo può significare solo due cose. Primo che il colonnello conosce i suoi polli libici ed europei. Ha ancora carte in mano da giocare: soldi per comprare fedeltà e ar-

mi, documenti per ricattare.

Secondo, i giochi in Libia non sono ancora chiusi e c’è chi pensa di poter ancora sparigliare, aiutando il rais nella sua fuga infinita. Pezzi del clan Gheddafi sono stati individuati, come uno dei figli scappato in Niger. Ma le autorità nigerine hanno assicurato al governo americano che imporranno il divieto di viaggiare al figlio del rais, Saadi, giunto in quel Paese la scorsa settimana. Secondo quanto riferito dal primo ministro del Niger, Brigi Rafini, 32 persone che fanno parte dell’inner circle di Gheddafi, tra

La presenza di Bernard Henry Lévy nella delegazione ufficiale di Sarkò dimostra che le lobby intellettuali esistono ancora

Incredibile: a Parigi ascoltano i filosofi L

a guerra è il motore del mondo. Diceva George Clemanceau. Come avviamento della macchina infernale però, vi sono le ragioni economiche. Sappiamo che le operazioni della Nato in Libia sono scaturite dalla necessità impellente di rivedere i contratti, gli appalti e l’intero sistema degli interessi petroliferi, una volta che le cancellerie occidentali si sono rese conto della caduta di Gheddafi. In realtà questo è ancora in auge.Tuttavia, non si può negare che il forse affrettato intervento francese fosse giustificato dalle ambizioni di Sarkozy di fregiarsi, anche lui, di una guerra. Come ogni grande leader che si rispetti. L’iniziativa delle Eliseo, però, si è sviluppata secondo uno

di Antonio Picasso

schema anglosassone, invece che latino. O comunque dell’Europa occidentale. Londra e Washington non muovono guerra senza che vi sia una giustificazione morale. Per quanto debole possa

all’opinione pubblica. In pratica, Gran Bretagna e Stati Uniti, prima di attaccare, alzano un vento di pressione intellettuale sulla coscienza collettiva. Giornali, think tank e atenei fanno da avan-

È dalle colonne della “Regle de jeu” che si è mossa la moral suasion che ha fatto da benzina ideologica all’Eliseo. Sono loro che hanno provocato l’intervento della Nato essere. È stato il petrolio a dare il La alle operazioni in Iraq. Ma è stato il nobile fine di portare la democrazia e scalzare Saddam che ha permesso ai due governi di figurare immacolati di fronte

guardia politica alle Forze armate. Poi, a guerra più o meno conclusa, arriva la massa di investitori. La Francia sta cercando di seguire questo canovaccio. Poco prima che la Libia fosse inglobata

nel turbine della primavera araba, la sofisticata rappresentanza intellettuale parigina ha cominciato a chiedere un intervento per il mancato rispetto dei diritti umani da parte di Gheddafi. All’inizio si parlava di coinvolgimento delle Nazioni unite. Poi è stato fatto un diretto riferimento alle armi. Sarkozy, da questo punto di vista, ha saputo cogliere un’occasione. Ha approfittato della disponibilità della mens cogitans transalpina per salire su un carro armato forte di un giustificativo che esulasse dalle ragioni economiche. La mossa gli è riuscita solo parzialmente. Primo perché non si è avuto uno sviluppo temporale abbastanza lungo affinché gli intellettuali francesi elaborassero un vero


mondo

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comunità internazionale ha proceduto con lentezza a scongelare i fondi bloccati durante il conflitto.

Mercoledì alcuni diplomatici avevano riferito che la Gran Bretagna avesse fatto circolare una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per alleggerire le sanzioni contro La Società petrolifera nazionale (Noc) a la Banca centrale libica, e che spera che il voto si tenga in settimana. Anche l’Inghilterra si muove, con una certa flemma. L’ufficio di Cameron ha affermato in un comunicato che il premier britannico annuncerà un «ulteriore pacchetto di assistenza da parte del Regno Unito per sostenere il processo libico di transizione verso una Libia libera, democratica e inclusiva». Promesse. Il presidente della Noc, Nouri Berouin ha dichiarato alla Reuters che la Libia ricomincerà a esportare petrolio dal porto orientale di Tobruk entro 10 giorni e che potrebbe produrre 1 milione di barili al giorno entro sei mesi.

torni del coinvolgimento di Gerusalemme non appaiono ancora chiari e potrebbero portare a qualche sorpresa. Intanto l’ala degli islamici rappresentata dai due sheikh, Abdel Hakim Belhaj, comandante del consiglio militare di Tripoli, e Ismail Salabi, comandante del consiglio militare di Sirte e Bani Walid, ora batte cassa. Ricordiamo che qualche giorno fa Salabi, considerato il padre spirituale dei musulmani in Libia, ha attaccato duramente il premier Mahmoud Jibril, accusando il Cnt di voler «derubare» il popolo libico.

L’attacco è stato ripreso dal sito di al Jazeera. Di fondo c’è la lotta per il potere, dove però in molti vedono gli islamici vincenti. Dal loro punto di vista invece la parte laica e “liberale”del Cnt, formata prevalentemente da libici residenti all’estero e da fuoriusciti dal vecchio regime, vorrebbe occupare le poltrone più importanti nella gestione del dopo-Gheddafi. I laici del Cnt avrebbero trattato con arroganza i co-

Potrebbe esserci stato un corteggiamento di Israele, per entrare nella partita libica attraverso il pensatore d’Oltralpe, noto per la sua stretta amicizia con il premier Benjamin Netanyahu cui suo figlio Saadi, sono arrivate in Niger a partire dal 2 settembre.

Londra e Parigi sanno che devono approfittare del permesso di Washington a rientrare nei giochi nel sud Mediterraneo, non facendo troppi pasticci. Altrimenti la Casa Bianca potrebbe rimettere il veto alle vecchie potenze coloniali. In più la Francia è particolarmente invisa a tutto il mondo islamico, anche a quello moderato, per le sue posizioni di oltranzismo secolarista. Per il momento sia Nicolas che David raccolgono con-

sensi. Entrambi i leader sono molto popolari e gli slogan «Grazie Sarkozy» e «Grazie Gran Bretagna» sono tra i più presenti tra le scritte sui muri. Entrambi sperano di incassare in patria i frutti della loro scommessa vincente, ma già si tirano i calci sotto il tavolo. Hanno un problema che li accomuna, le casse quasi vuote. In più Londra ha un apparato militare logorato dalle guerre in Iraq e Afghanistan. In fondo anche avere il fantasma di Gheddafi che vaga sulle dune del deserto può far gioco. Rende il Cnt, già debole per natura, alla mercé delle poten-

ze europee o di chiunque possa fornire supporto economico e militare.

I Paesi occidentali e quelli confinanti sono ansiosi di accogliere la nuova Libia nella comunità internazionale, anche perché questo significherebbe la ripresa della produzione petrolifera dopo sei mesi di guerra. Ma la guerra delle ombre è in piena evoluzione. Il premier turco Tayyip Erdogan è atteso in Libia oggi, ed è prevista anche la visita del ministro degli Esteri egiziano, Mohammed Kamel Amr. I leader libici si sono lamentati affermando che la

Ma il fallimento, finora, nei tentativi di catturare Gheddafi, e i continui scontri intorno alle roccaforti del rais assediate, non tranquilizzano. Inoltre nel gioco libico interno alle forze ribelli si è delineata una divisione che ricalca il modello laici-islamici. Ma con una sorpresa. Si potrebbe essere inserito un altro attore nel gioco. Potrebbe esserci stato un corteggiamento di Israele, per entrare nella partita libica attraverso Bernard-Henri Lévy, il filosofo francese noto per la sua stretta amicizia con Benjamin Netanyahu e con il ministro della difesa Ehud Barak. Ma i con-

“manifesto per l’intervento”. Secondo perché tutti pensavano che Gheddafi sarebbe caduto in poche settimane.

Resta il fatto che politica e cultura, a Parigi, vadano ancora a braccetto. Ecco il motivo per cui ieri un filosofo come Bernard Henry Lévy sia comparso al seguito del presidente francese che, insieme al premier britannico Cameron, è giunto a Tripoli. Lévy si conferma essere una personalità capace di calcare la ribalta con grande disinvoltura. Il suo ruolo però non è individuale. Egli è il capocordata di una vera e propria lobby. Un gruppo di pressione, francese per terra di attività, ma non esclusivamente francese in termini identitari. La règle du jeu, rivista fondata dallo stesso Lévy, circa vent’anni fa, è un’iniziativa che spiega molte dinamiche culturali dei nostri cugini. È dalle sue colonne che si è mossa la moral suasion che ha fatto da benzina ideologica all’Eliseo. “Ultimo appello per un intervento urgente in Libia”, questo il titolo di un editoriale a sei

mani, firmato dallo stesso Lévy, insieme a Daniel Cohn-Bendit e André Glucksmann. Il testo è stato poi sottoscritto da almeno un’altra dozzina di firme note nel Pantheon parigino. È questa testata che promuove un dibattito aperto, an-

che polemico, con l’Islam. «Non contro l’Islam, bensì per evidenziare un distinguo, nel suo interno, tra il fondamentalismo e le spinte verso la democratizzazione». Così si legge nella presentazione della rivista. Per inciso: nel comitato

mandi islamici sul campo, una façon de faire che immaginiamo da dove venga. Comandi militari che nei passati sette mesi – nonostante la bassa qualità del rendimento bellico – qualche sacrificio l’hanno pur fatto e vorrebbero gli fosse riconosciuto.In un editoriale su Al Quds al Arabi (Gerusalemme araba) si faceva notare che l’Algeria, il Niger, il Mali e il Ciad, così come altri venti Stati africani con in testa il Sudafrica, sarebbero ancora riluttanti a riconoscere i Cnt per la non trasparente gestione del potere. Leggi: la façon française non piace.

editoriale figurano firme che giungono da tutto il mondo. C’è il nostro Claudio Magris, come pure Salman Rushdie. In questo senso, la règle du jeu oppone il metodo Le Pen, razzista e impostato sul pregiudizio anti-Corano, al terrorismo, colpevole dell’assassinio di Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir, assassinato il 9 settembre 2001 e la cui morte, a giudizio dei francesi va vista come l’inizio di questo intenso decennio di guerre. Lévy e soci non vogliono creare una repubblica dei filosofi. A loro giudizio la storia ha già annientato questa chimera.Tuttavia, La règle du jeu non manca di idealismi. Come dei nuovi Victor Hugo vogliono che la cultura torni a stimolare l’attività politica. Sia presso l’elettorato. Sia a livello di decision maker. In questo è netta la differenza dai colleghi britannici e statunitensi. Oltre la Manica e al di là dell’Atlantico, le iniziative culturali sono più analitiche e meno passionali. D’altra parte, i francesi restano pur sempre latini. Anche quando fanno i lobbysti.


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il paginone

Il tema di quest’anno è il concetto di Natura, attorno al quale dibatteranno illustri nomi del panorama ita nizia oggi e durerà fino a domenica l’undicesima edizione del Festival della filosofia, e certo in questa Italia così abbrutita e confusa dal clima politico che stiamo vivendo, e che tutti inevitabilmente respiriamo, l’appuntamento settembrino risulta oltremodo gradito: quasi un’oasi esistenziale in un momento di congestione che, tra Modena, Carpi e Sassuolo, ci potrà regalare una pausa di riflessione capace di infonderci nuova energia, nuovo ossigeno, analogamente a certi climi di ritiro dal mondo evocati dalle scene di grandi poeti. Bisogna inoltre riconoscere come quella terra emiliana sia particolarmente gentile e accogliente (lo è sempre stata), così è ulteriormente bello trovarsi verso metà settembre in quell’ambito, anche se qualche polemica non è mancata per le solite decurtazioni di fondi; ma in questi chiari di luna ben venga un festival forse meno ricco di mezzi ancorché, dobbiamo dirlo subito, ben impostato e organizzato.

I

Il tema di quest’anno è il concetto di Natura, attorno al quale dibatteranno illustri nomi della filosofia italiana e internazionale. Essendo toccato l’anno scorso al tema della Fortuna, verrebbe subito da pensare al rapporto filosofico tra Natura e Fortuna che si incontra nel Decameron, proprio in quell’ambito culturale fiorentino dovuto alla micidiale peste nera, e che richiama il buen retiro in oggetto. Ma il programma fa riferimento ad una nutrita serie di riflessioni sui classici che avranno luogo nella prima giornata, da Aristotele (di cui parlerà Marcello Zanatta) a Hobbes (lezione di Carlo Galli), poi Galilei (Paolo Galluzzi), Descartes (Jean-Robert Armogarthe) e Schopenhauer (lezione di Sossio Giametta), fino a Plotino (il più grande filosofo neoplatonico, di cui parlerà un grande interprete di Platone come Giovanni Reale). Fra le altre lezioni dei classici segnaliamo quella su Schelling (Manfred Frank), Merleau-Ponty (di Mauro Carbone), poi su Vico (Gianfrancesco Zanetti) e infine su Spinoza (tenuta dal direttore del comitato scientifico Remo Bodei, impegnato peraltro in altre due prolusioni). A tali riletture si affiancheranno le numerose lezioni magistrali, certamente ispirate al medesimo tema, ma che sembrano spaziare anche attraverso l’economia (Green economy, di Aldo Bonomi), la fisica (Fonosfera antica, incentrata sull’interpretazione dei versi animali, di Maurizio Bettini e Energia vitale di Roel Sterchx), le scienze zoologiche (Diritti degli animali,Tom Regan), la Bioetica (Biopotere, di Simona Forti e Biodiritto, di Stefano Rodotà) e in modo particolare all’ecologia (Ambiente, di Ottavio Marzocca; Paesaggio, di Marc Augé; Paesaggio come bene comune, di Salvatore Settis; Ecosistema, di Mauro Ceruti; Effetto serra, di Peter Sloterdijk; Campagne urbane, di Pierre Donadieu). Ma è evidente come tanti altri temi e discipline saranno implicati in questa intensa tre giorni, dove come al solito non mancheranno anche forum, divertissement, e appuntamenti più estemporanei, come gli ormai tradizionali menu filosofici, a cura dell’illustre medievalista Tullio Gregory; così sul fronte degli interventi pensiamo, tanto per fare alcuni nomi, a Roberta De Monticelli, che parlerà dell’Uomo come

Primum philoso

Da oggi a domenica prossima, tra Modena, Carpi e Sassuolo, l’undicesima edizione del «Festival della filosofia» di Franco Ricordi animale normativo; poi al Nuovo realismo di Maurizio Ferraris; a Massimo Cacciari, sulla Physis; a Jean-Luc Nancy, della Nudità; un titolo di particolare interesse, che ricorda Leopardi, è quello di Salvatore Natoli: Natura madre e matrigna; mentre Zygmunt Baumann ci proporrà: Cos’è accaduto alla Natura?, e Wolfgang Schluchter parlerà in parallelo di Natura e cultura. E se Umberto Galimberti tornerà sul tema del Corpo, già argomento di un suo celebre libro, Sergio Givone, forse ricordando anche la lezione di Luigi Pareyson, parlerà di Innocenza e colpa, in una ultima giornata che vedrà l’intervento di Carlo Sini (Pianeta) e infine di Emanuele Severino, sempre il più atteso fra i filosofi, che parlerà di Verità e natura umana. Nell’insieme un programma ricco e stimolante per una manifestazione che, se dieci anni fa ci lasciava per la verità un po’ perplessi nell’idea di voler fare anche della filosofia una ma-

teria da festival, in realtà si è andata evolvendo in un modo che possiamo considerare tutt’altro che spettacolare nel senso comune e superficiale del termine. E in questo modo l’esteriorità festivaliera si è limitata semplicemente alla diffusione dei contenuti che si è impo-

Cacciari, Vandana Shiva e gli altri: la rassegna fa il pieno di pensatori QUEST’ANNO IL FESTIVAL DELLA FILOSOFIA di Modena, con incontri anche a Carpi e Sassuolo, sarà dedicato alla Natura. Oltre duecento appuntamenti fra oggi, venerdì 16 e domenica 18 settembre 2011, in 40 luoghi diversi delle tre città: lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini,“cene filosofiche”. La rassegna, che lo scorso anno ha registrato oltre 170mila presenze, è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, i cui fondatori - i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena - sono i soci storici che hanno partecipato alla realizzazione del festival fin dalla prima edizione. Piazze, chiese e cortili ospiteranno le oltre 50 lezioni magistrali del Festival, che vede quest’anno tra i protagonisti, tra gli altri, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, il modenese Carlo Galli, Sergio Givone, Salvatore Natoli, Vincenzo Paglia, Giovanni Reale, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Emanuele Severino, Carlo Sini e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio. Molti anche i filosofi stranieri, circa un quarto del totale, a segnare un’edizione sempre più internazionale: tra loro i francesi Jean-Robert Armogathe, Pierre Donadieu, Jean-Luc Nancy e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; i tedeschi Gernot Böhme, Manfred Frank, Wolfgang Schluchter e Christoph Wulf; il belga professore in Gran Bretagna Roel Sterckx; gli spagnoli Felix Duque e Francisco Jarauta; il polacco Zygmunt Bauman, da quarant’anni esule in Inghilterra; l’olandese Rem Koolhaas; nonché l’americano Alva Noë e l’indiana Vandana Shiva. Il programma del festival propone anche la sezione “La lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema della Fortuna, da Aristotele a Plotino, da Galilei a Cartesio, da Hobbes a Spinoza, da Vico a Schelling e Schopenhauer, fino ad arrivare a Merleau-Ponty.

sta con una certa discrezione e sobrietà nel corso delle manifestazioni. Insomma, una bellissima agorà, un ritrovo in piazza - a volte in splendidi ambienti che determinano in questa maniera anche una occasione politico-culturale “non mediatica”, nel diretto riferimento spazio-temporale che non viene inficiato. Ciò premesso, con i complimenti del caso che vogliamo estendere alla direttrice del Festival Michelina Borsari, ci sia concesso di poter elencare fra i grandi poeti e pensatori della Natura anche un nome che non compare nella lista suddetta, un grande “filosofo”, come più volte l’abbiamo definito e insisteremo a volerlo concepire, che ci risulta il vero grande assente dell’occasione: William Shakespeare. Se infatti in Boccaccio, Leopardi e tutti i filosofi di cui sopra si analizzano fortemente le implicazioni


il paginone

aliano e internazionale, attraverso tavole rotonde, mostre, spettacoli e letture

ophari, deinde...

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«di naufragio», che sembrano anticipare anche la cifra di Jaspers, nella chiarificazione del «naufragio dell’esistenza»: e tutti costoro si ritrovano in qualche maniera «nudi», nel corpo come nell’anima, di fronte alla grande potenza dell’inesorabile madre Natura.

E al suo cospetto anche la Storia considerata in quanto storia degli esseri umani, quindi storia della politica in ogni tempo - sembra doversi inchinare ad una ragione superiore, che è proprio quella della geografia naturale: in Shakespeare la geografia è anzitutto «fisica», riferita quindi alla Natura e alle sue leggi, e in tal senso assolutamente superiore (similmente a Leopardi) nei confronti della storia umana, quindi della «geografia in senso politico»: da qui lo sconvolgimento angoscioso che avverrà in Re Lear, laddove il vecchio Re intende all’inizio proseguire il corso della sua storia attraverso un cambiamento delle mappe geografiche. Ma la Natura si rivela più forte della Storia, anche quando sembra volerla accompagnare di fronte a delitti e regicidi, come avviene in Giulio Cesare e Macbeth al cospetto dell’omicidio di Cesare e del Re Duncan, entrambi inseriti in una cornice di fortissimo sconvolgimento naturale. Così anche in tal caso potrebbe sembrare

Non mancheranno forum, divertissement, appuntamenti più estemporanei, come i tradizionali menu filosofici, curati da Tullio Gregory

Il programma propone anche la sezione “La lezione dei classici”: esperti rileggeranno testi di Aristotele, Plotino, Galilei, Cartesio, Hobbes,Vico, Spinoza umane con il concetto di Natura, è certo che la lezione di Shakespeare sul tema non possa non essere ricordata, per quanto grande, profonda e soprattutto fortemente attuale. I primi ad accorgersene furono Lessing ed Herder, che esaltarono Shakespeare proprio in riferimento alla sua concezione della Natura in epoca preromantica. Ma sarà bene riferirsi direttamente alla drammaturgia shakespeariana, laddove potrebbe essere definita come un grande “Teatro della Natura”in relativa contrapposizione alla Storia, anticipando in questo Nietzsche e Dilthey e la loro critica della ragione storica.

Il personaggio certamente più emblematico rimane in tal senso Edmund, il fratellastro Gloucester del Re Lear, che entra in scena al I atto perentoriamente e senza ombre di dubbio: «Natura, sei tu la mia unica dea, solo alle tue leggi io m’inchino». Edmund rivendica la propria identità di «bastardo» proprio perché figlio di una «natura più rigoglio-

sa», concepito in un momento di gioia e godimento assai superiore di tutti coloro che sono stati creati in maniera «legittima», vale a dire in un letto matrimoniale stanco e stantio.

Ecco dunque la ribellione della Natura in persona, Edmund, cui si affiancano tanti altri personaggi di Shakespeare che, senza azzardi, potremmo definire vicini al grande personaggio di Tarzan, l’eroe di E. R. Burroughs, che ha il merito di aver richiamato nel Novecento anche un significato fortemente rousseauiano della Natura: tali caratteri sono Edgar, il fratellastro di Edmund, poi Timone d’Atene nell’omonima tragedia, la bella Imogene nel Cimbelino, Pericle, il Principe di Tiro, e infine Prospero, l’ultimo eroe de La Tempesta. Tutti questi personaggi sono caratterizzati dal fatto che si ritrovano, in un modo o nell’altro, in un contatto che si può definire «assoluto» con la Natura, laddove riconoscono che essa è sempre «più forte»; e ciò avviene sempre in specifiche scene di «tempesta», ovvero In queste pagine: un’immagine del Festival della Filosofia di Modena, il pensatore italiano Emanuele Severino (tra gli illustri ospiti della rassegna), il busto di Aristotele e le illustrazioni di Galileo Galilei, Cartesio e Hobbes

che il Bardo ci consegni verso una Natura in senso leopardiano, «madre di parto e di voler matrigna». Ma non è esattamente così, e Shakespeare scende ancor più in profondità, implicando l’uomo - quasi in un senso esistenziale di tramite, Dasein per Heidegger, dramatis persona per Shakespeare - che viene coinvolto come «prodotto della Natura», analogamente al tanto citato Machiavelli che pervade i suoi primi drammi storici. Ma proprio in questa maniera l’uomo rischia di divenire «superiore alla Natura», arrivando a concepire dei mezzi - la sua “tecnica” per eccellenza che propriamente si identifica nelle “Armi”, il tema specifico di Amleto - attraverso le quali egli potrebbe estinguere la stessa Natura, o per lo meno quella del mondo, suo ambiente naturale. Ecco quindi che Shakespeare fa un passo avanti anche nei confronti di Leopardi, pensando in maniera diversa il problema che oggi viene definito della “tecnica”, risolvendolo nella corsa alla produzione di “armi”, (arms in inglese significa sia armi che braccia), e che finisce per qualificare l’uomo in quanto «animale armato». Proprio impugnando queste «armi contro un mare di guai», l’uomo shakespeariano si fa interprete insuperato del suo rapporto con la Natura, in una prospettiva che lo conduce direttamente verso il nichilismo della nostra epoca. Ecco insomma che Shakespeare ci lascia, fra le altre suggestioni, una grandissima, complessa e inedita riflessione sul tema della Natura, per molti versi a nostro avviso non ancora elaborata e di fatto insuperata, che non potevamo fare a meno di rilevare, e che ci permettiamo di far presente al nutrito Festival in questa bella occasione.


il commento

la crisi economica

pagina 10 • 4 maggio 2011

Il federalismo è stato letteralmente travolto da tagli e tasse

Una manovra senza un disegno istituzionale di Francesco D’Onofrio iamo in presenza di una straordinaria varietà di dichiarazioni e di iniziative concernenti il federalismo, spesso in radicale contrasto le une con le altre. Da un lato, infatti, vi è chi afferma che il federalismo fiscale è in marcia, e che sta per essere anticipato di un anno, contestualmente a quanto previsto dalla manovra finanziaria. Al contrario, vi è chi afferma che ormai il federalismo è morto, proprio in conseguenza della medesima manovra. Da un lato, vi è chi pone l’accento prevalentemente su questioni di spesa (come nel caso della aggregazione dei comuni più piccoli, e dei risparmi conseguenti alla soppressione delle province). Al contrario, vi è chi pone l’accento prevalentemente sulla identità, che evidentemente prescinde dalle dimensioni demografiche di comuni e province. Da un lato, vi è chi parla di federalismo inteso quale sostanziale riduzione quantitativa e qualitativa dei tradizionali ministeri romani. Al contrario, vi è chi propone il trasferimento da Roma di taluni di questi ministeri, in nome di una mitica Padania. Da un lato, vi è l’attuale testo dell’articolo 118 della Costituzione che afferma che tutte le funzioni amministrative spettano ai comuni, salvo quelle che sulla base della sussidiarietà (in questo caso istituzionale), sono attribuibili alle province, alle regioni o allo Stato. Al contrario, vi è chi vuole una sostanziale riduzione delle funzioni pubbliche a chiunque siano attribuite per aprire spazi crescenti alla sussidiarietà (in questo caso orizzontale), fino al punto di giungere ad una mitica “big society”.

S

La contraddittorietà tra tutte queste affermazioni non potrebbe essere maggiore, proprio perché si tratta di proposte di volta in volta considerate al di fuori di un unico grande disegno istituzionale e politico. Non vi è dubbio infatti che ogni volta che si tratta di enti locali, si è in presenza sempre e comunque della idea stessa che si ha dello Stato. Identità ed efficienza sono pertanto due questioni rigidamente intrecciate ogni volta che si intende discutere delle funzioni dei comuni; della loro consistenza demografica; delle province intese quali enti rappresentativi ed elettivi di comunità ritenute esistenti; delle regioni sia in riferimento alle funzioni loro proprie, sia alle dimensioni che ciascuna di esse deve avere per poter essere considerata parte costitutiva di un ordinamento che si afferma voler essere federalistico. Si tratta di questioni che richiedono una visione complessiva proprio di quel rapporto tra pubblico e privato, che ha rappresentato un punto fondamentale di riflessione della filosofia politica degli ultimi secoli, e che deve essere posto a fondamento delle scelte politiche, nel momento in cui si affrontano temi delicati e fondamentali quali sono i temi che concernono l’identità e l’efficienza degli enti locali medesimi. Si tratta ancora una volta di una visione complessiva della società e dello Stato che oggi deve essere necessariamente condotta nel contesto del processo di integrazione europea da un lato, e della nuova centralità mondiale del Mediterraneo dall’altro. Le questioni del cosiddetto federalismo fiscale finiscono pertanto con l’essere strettamente intrecciate con quelle del federalismo istituzionale: le prime, infatti, attengono alla ripartizione delle risorse finanziarie tra i diversi strati del potere pubblico, considerato proprio alla luce della cosiddetta “sussidiarietà istituzionale”; le seconde attengono al modo di concepire la ripartizione delle funzioni pubbliche medesime e ai suoi rapporti con l’autonoma organizzazione della società, alla luce della cosiddetta“sussidiarietà orizzontale”. Questo intreccio fa parte pertanto della necessità di affrontare le questioni del riordino istituzionale italiano in termini di visione complessiva dello Stato. Si possono certamente seguire itinerari parlamentari distinti per specifiche questioni, ma non si può contemporaneamente affermare da un lato – nel contesto di un perdurante e misterioso federalismo fiscale –, che si prevedono risorse finanziarie abbastanza casuali per le province, e, dall’altro, prevedere la soppressione stessa delle province a seconda delle loro dimensioni demografiche ed orografiche; non si può parlare costantemente di sussidiarietà, senza chiarire contestualmente se si tratta di “sussidiarietà istituzionale” o di “sussidiarietà orizzontale”. Federalismo fiscale e federalismo istituzionale possono pertanto essere oggetto di iniziative parlamentari distinte, ma devono essere comunque pensate insieme.

i dati Risalgono le Borse grazie al “salvataggio” delle banche europee

Nostro allarme quotidiano Ocse: così i giovani non hanno futuro Confindustria: un vero rischio povertà Ormai tutte le previsioni di sviluppo ci condannano a una crescita zero di Francesco Pacifico

ROMA. Investimenti, sgravi fiscali, liberalizzazioni e opere pubbliche. Il governo prova a invertire la rotta in un Paese sempre più alla prese con una disoccupazione giovanile dilagante (il 47 per cento secondo l’Ocse è precario), scarso potere d’acquisto (l’inflazione è al 2,8 per cento) e una crescita risicata (+0,2 nel 2012 secondo Confindustria). Soltanto i fondi garantiti da Fed e Bce alle banche della Ue hanno evitato un nuovo crollo in Borsa. Soprattutto l’esecutivo prova a rilanciarsi e a convincere le parti sociali che è in grado di gestire e superare l’ultima coda della crisi. Ieri mattina Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Roberto Castelli hanno presentato a Confindustria e all’Abi i primi provvedimenti di un pacchetto che dovrebbe essere incentrato sui fondi Fas sbloccati dall’ultimo Cipe e sulla costituzione di un fondo immobiliare, indispensabile per trovare le risorse necessarie per aggredire il debito, sull’apertura dei servi-

zi pubblici), sui sostegni all’internazionalizzazione delle imprese e sulla modernizzazione delle relazioni industriali. Ma i piani per la crescita dell’esecutivo non fanno proseliti in viale dell’Astronomia come a Palazzo Alfieri. Ufficialmente non ci sono stati commenti, ma è emblematico che ieri, intervenendo al seminario “Le sfide della politica economica” organizzato dal centro studi di Confindustria, Maurizio Sacconi sia stato contestato da alcuni imprenditori: «Ministro, questo non è un talk show».

Dalla stessa sede è arrivato un durissimo monito di Emma Marcegaglia: servono «decisioni chiare, tutti insieme, il tempo ormai è scaduto, bisogna mettersi a fare cose non piccole, non spot per accontentare un pezzo dell’elettorato, ma un grande disegno organico, riforme profonde già dai prossimi giorni. Altrimenti il governo avrà una responsabilità pesantissime, gravissime».

Anche perché l’ultima manovra non affronta le due grandi eredità della crisi: la difficoltà dei più giovani a entrare nel mondo del lavoro, l’incapacità di rinnovare le proprie produzioni per competere con gli altri Paesi esportatori. Concetti ben chiari leggendo in filigrana gli ultimi rapporti stilati dall’Ocse e da Confindustria. Dal rapporto annuale sull’occupazione dell’organizzazione di Parigi si evince che sono stati gli under 35 a pagare il prezzo più salato, in un contesto non facile come il mondo del lavoro italiano, contraddistinto da salari sotto la media Ue. Infatti un italiano guadagna in media 36.773 dollari contro una media Ocse di 48.488 dollari e quella dell’Eurozona di 44.904 dollari. Lontana dagli stipendi delle economie maggiori del Vecchio Continente: Francia (46.365 dollari), Germania (43.352 dollari) e Gran Bretagna (47.645 dollari), la metà dei Paesi dell’area con zero debito: Danimarca (68.280 dollari) o


le proteste

La rabbia dei sindaci: «Ci fate chiudere» Aderiscono allo sciopero 9mila fasce tricolori. Alemanno a Roma “chiude” l’anagrafe di Riccardo Paradisi na rivolta dei sindaci di queste proporzioni non s’era mai vista: così diffusa, capillare e soprattutto trasversale ad ogni area politica. L’innesco è una manovra ritenuta insostenibile dai primi cittadini che hanno aderito in massa allo sciopero indetto dall’Anci e al quale si sono affiliate anche la Conferenza delle Regioni e l’Unione delle provincie italiane. Regioni che a loro volta mettono sul tavolo del governo i contratti del trasporto pubblico locale che non riescono più ad onorare. La manovra ha tagliato infatti il 75% dei fondi per questo settore.

U

A Roma come a Milano a Napoli come a Venezia e a Torino sono stati 9mila i sindaci che hanno protestato contro gli effetti di una manovra che, secondo le stime dell’Ifel, l’istituto per la finanza locale dell’Anci, costringerà il 54,7% dei Comuni ad aumentare l’addizionale Irpef «fino al livello massimo dello 0,8%. E questo sebbene ad ogni modo il 60-80% dei municipi italiani rischia di non riuscire comunque a compensare interamente i tagli con l’aumento delle tasse». Le stime dell’Anci sono allarmanti anche per la ricaduta della manovra sulle tasche degli italiani: a Roma si pagheranno, nel 2012, 172 euro in più a cittadino, a Milano 227 euro, a Napoli 236 euro, a Torino 220, a Venezia 327. Con punte in piccoli comuni come come Livigno, 438 euro, Cortina d’Ampezzo, Sanremo 400 euro. Fra gli articoli più criticati della manovra, il 4 e il 16, che obbligano i Comuni alla dismissione delle società partecipate e che intervengono sull’organizzazione istituzionale dei 5800 Piccoli Comuni sugli 8 mila totali. La protesta più clamorosa e politicamente più significativa è però quella insce-

nata a Roma dal sindaco Gianni Alemanno che dopo avere rimesso, come gli altri colleghi in tutta Italia, le deleghe al prefetto, ha simbolicamente anche chiuso l’ufficio Anagrafe e Stato Civile del Comune. «Tra Patto di stabilità e taglio ai trasferimenti – protesta Alemanno – la manovra costerà al Comune capitolino 450 milioni di euro che si uniscono ai 150 milioni che sono stati tagliati quest’anno, nel bilancio 2011». E come aveva fatto il governatore della Lombardia Formigoni nei giorni scorsi anche Alemanno paventa scenari apocalittici: «rischiamo o di non trovare più bus e tram alle fermate o di pagare i biglietti 5 euro, di dover abbandonare assistenza agli anziani e asili nido». Alemanno non si limita ad animare la rivolta, si preoccupa anche di denunciare lo sfilarsi della Lega dalle manifestazioni: «Emerge una grande contraddizione nell’atteggiamento della Lega. Hanno preso la bandiera del federalismo e oggi sono in prima linea nella posizione centralista del Governo, un centralismo che non guarda all’Italia ma al Nord». Sembra il capo dell’opposizione Alemanno: “I tagli ai Comuni sono tagli ai tuoi diritti”è il titolo del volantino che il sindaco distribuisce ai cittadini incontrati all’interno dell’ufficio Anagrafe della Capitale. E così li arringa «Oggi ho comunicato al prefetto e al ministro dell’Interno che Roma Capitale non è più in grado di garantire i servizi ai cittadini». E a chi gli contesta, come fa l’opposizione, che in fondo Alemanno è un autorevole esponente di questo governo, che è uno dei leader del Pdl e uno dei più ambiziosi successori alla leadership del centrodestra lui risponde che sta solo cercando una fruttuosa dialettica con le istituzioni, che gli fa male volantinare contro il governo ma è

Secondo le stime dell’Anci a Roma si pagheranno, nel 2012, 172 euro in più a cittadino, a Milano 227, a Napoli 236

Norvegia (72.237 dollari) e Svizzera (80.153 dollari). La risicata ripresa delle attività ha soltanto garantito «la creazione di posti di lavoro con contratti a termine o atipici (inclusi i cosiddetti collaboratori), mentre il numero di posti con contratto indeterminato tende ancora a contrarsi».

Tra il primo trimestre del 2010 e quello del 2011 il numero di precari è aumentato di 72mila unità. Non a caso ad aprile 2010, nel picco della crisi, il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato di 9,7 punti percentuali, raggiungendo quota 28,9 per cento, mentre a luglio di quest’anno «i segni di ripresa sono stati timidi, visto che è ridotto di soli 1,3 punti percentuali per attestarsi al 27,6». Cartina di tornasole il fatto che la percentuale dei giovani precari in Italia cresce con il peggiorare della congiuntura: 42,3 per cento nel 2007, 43,3 nel 2008 e 44,4 nel 2009, a riprova che il sistema di tutele messo in

piedi in questi anni ha finito soltanto per garantire i lavoratori più anziani. «Questo suggerisce che il mercato del lavoro italiano sta diventando più segmentato, con lavoratori in età matura in impieghi stabili e protetti e molti giovani senz’altro sbocco immediato che posti più precari», fotografa l’Ocse. Risultato? Per l’organizzazione

suo dovere di sindaco farlo se queste sono le condizioni della manovra e poi «non si può consegnare questa protesta giusta e legittima alla sinistra». Sarà, ma non deve risultare troppo convincente in questo giocare due parti in commedia. Tanto che i sindacati di base, durante la manifestazione all’anagrafe, tentano di consegnargli un coccodrillo gonfiabile a insinuare, appunto, che le sue lacrime sono tardive e ipocrite. Il leader dell’Api Rutelli lo incalza nel merito durante la seduta straordinaria dell’Assemblea Capitolina. Il Governo – gli dice – rema contro la capitale, l’unica soluzione allora è fare un’alleanza tra parlamentari romani, senza i quali nessun provvedimento contro la città può passare. Su Alemanno piovono strali anche da destra. Per Giorgio Stracquadanio è ”un ingrato”, per il prolifico Giancarlo Lehner un barbaro che non fa nemmeno il sindaco di Roma.

Ma Alemanno non si impressione e anzi rilancia: boccia come un’errore l’eventuale ricandidatura di Berlusconi, dice che si deve parlare con Casini, che si deve addirittura ricucire con Fini. E tutto lascia presagire che sia solo l’inizio dei sommovimenti a cui assisteremo. Il caldo autunno italiano deve ancora cominciare.

Da Parigi si fa notare che, mentre si discute della riforma dell’articolo 18, in Italia è totalmente assente un dibattito sugli ammortizzatori sociali. Infatti consiglia «un’ampia riforma dei contratti di lavoro, che dovrebbe essere rivolta, in particolare, a ridurre l’incertezza rispetto alle conseguenze del quadro regolamentare sugli

fine anno in salita soltanto dello 0,7 per cento, mentre nel 2012 il Pil crollerà con un risicatissimo +0,2. Alla base di queste performance l’effetto depressivo delle ultime manovre correttive, visto che le sue misure finiranno per erodere i risparmi e per portare la pressione fiscale a battere un nuovo record: quest’anno raggiungerà il 42,8 per cento, il prossimo salirà invece al 44,1. A differenza di altri osservatori, il centro studi di Confindustria non pone sulla bilancia l’ammodernamento in atto nell’impresa italiana, che sta provando a svecchiare le principali produzioni. Per i suoi analisti paghiamo soprattutto il declino del benessere degli italiani, tornato ai livelli del 1999. «In termini assoluti», si legge in una nota, «il Pil procapite sarà l’anno prossimo del 6,9 per cento inferiore a quanto era nel 2007. Ai dieci anni perduti se ne sono

Il 47 per cento degli under 35 è precario, i salari sono sotto la media europea e la pressione fiscale segna nuovi record. La Marcegaglia: «Il tempo è scaduto, servono riforme profonde, il governo avrà responsabilità pesantissime». «la legislazione italiana restrittiva sui contratti da lavoro a tempo indeterminato da una parte potrebbe aver aiutato il paese a contenere l’impatto della recessione sul mercato del lavoro, ma dall’altra nella fase attuale tale legislazione potrebbe scoraggiare le assunzioni, soprattutto con contratti permanenti, mettendo dunque a repentaglio la ripresa».

esiti delle procedure di licenziamento». Ma la strada per invertire non è soltanto normativa. Infatti la situazione rischia di peggiorare se non ripartirà l’economia. Al riguardo c’è da tremare guardando alle stime presentate ieri dal centro studi di Confindustria per il prossimo biennio. Da «malata di lenta crescita» qual è l’Italia vedrà il suo Pil a

aggiunti altri tre. In termini relativi, rispetto alla media europea, il reddito degli italiani passa dal 107 per cento nel 1996 al 93 per cento nel 2012». Non a caso le imprese chiedono al governo un piano choc per portare la crescita nel 2012 all’1,5 per cento. Primo suggerimento un intervento sulla previdenza. «Si deve mettere mano», ha ribadito la Marcegaglia, «e in modo serio e completo alla riforma delle pensioni. Soprattutto quelle d’anzianità e quelle delle donne. Questo è un tema che senza dubbio verrà affrontato, è meglio avere una riforma chiara, completa invece di tanti aggiustamenti».

Serve anche un nuovo metodo nelle relazioni industriali. Al riguardo la leader degli imprenditori rilancia uno dei suoi leit motiv: «Vogliamo adesso riprovare a mettere insieme molto seriamente un patto sociale, qui o ci salviamo tutti o non credo sia più il momento di tutelare se stessi».


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la crisi economica

I paragoni con le depressioni del passato non lasciano molto spazio all’ottimismo, analizzando le prospettive che ci aspettano

The day after

Il dollaro spingerà Washington verso l’isolazionismo, Sarkozy spingerà l’Europa su una deriva «interventista», la Cina spingerà l’Italia a privatizzare i gioielli Eni e Enel... Ecco alcuni scenari sul mondo dopo la guerra (alla crisi) di Giancarlo Galli ebbene sia stato fatto l’impossibile per negare l’evidenza, alla fine politici ed economisti (entrambi afflitti da interessata miopia) hanno finito con l’ammetterlo: il modello capitalistico è entrato nel nero tunnel di una crisi generale. Che nessuno risparmia, dall’America di Obama all’Europa dell’euro al Giappone, cioè i tre pilastri del “sistema”. Non è certo la prima volta che si verifica, nella storia moderna. E sempre, almeno questo è motivo di speranza, il trauma è stato superato. Con quali tempi ed a che prezzo, però? Il pensiero corre quindi all’ultimo crac planetario, iniziato nell’ottobre del 1929 con un crollo a Wall Street, che praticamente si trascinò sino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

S

Eccoci così di fronte a una serie di fatti, storicamente inconfutabili, e sui quali è oppor-

tuno riflettere. Anche perché, sosteneva Thomas Stearns Eliot, «il futuro contiene il tempo passato». Allora come adesso, la crisi esplose nei santuari del dio Danaro, le Borse. Febbre alta, terremoto nelle quotazioni; poi un decorso da malattia cronica. Pochi ed episodici lenimenti dei vari piani di ricostruzione & ricerca, in primis il New Deal del presidente americano Roosevelt. Banche fallite o sull’orlo del fallimento, spesso nazionalizzate ad evitare il peggio. (In Italia, la nascita dell’Iri che inglobò Banca Commerciale, Credito Italiano, Banca di Roma). Finché, risolutivi, furono il riarmo, e le successive guerre. Non burro ma cannoni! È uno scenario, vietato scandalizzarsi, che in questo periodo fra le boiseries dell’Alta Finanza, in parecchi rievocano. In punta di labbra, ma con intenti quasi profetici. A Parigi, in una Francia dove Borsa & Banche stanno come le nostre,

se non peggio, si seguono le manovre mediterranee del presidente Nicolas Sarkozy. Con mosse abili o ciniche, a seconda dei punti di vista, ha alimentato a freddo le rivolte in Egitto, dichiarato guerra senza quartiere alla Libia di Gheddafi. Avvicinandosi alla Turchia, fosse per lui, si dovrebbe pure invadere la Siria. A far da paravento degli interessi,“ragioni umanitarie” a bassissima credibi-

Con le monete indebolite, torna la corsa all’oro, unico vero bene-rifugio

lità. La più accreditata interpretazione è che con l’avventura africana Sarkozy intenda dribblare i problemi interni e presentarsi quale “Campione di civiltà” alle elezioni della prossima primavera. Smentendo i pronostici che lo danno sconfitto. Restiamo a Sarkozy. Una guerra-lampo vittoriosa gli avrebbe consentito, ad imitatore in sedicesimo di Charles De Gaulle, di proclamarsi Salvato-

re della Patria, che da indebitatissima, le centrali nucleari obsolete e fragili contestate, vedrebbe in lui l’Uomo Forte.

Se violenta, una crisi economico-finanziaria ha la tendenza a partorire forme dittatoriali, od a un livello più basso, una messa sotto tutela delle regole della democrazia parlamentare, che non brilla certo per efficienza e capacità d’immediata risposta ai problemi. In simmetria, si produce in parallelo con rigurgiti nazionalistici, un colpo di freno alle utopie della globalizzazione. Con i principali paesi portati a rinchiudersi, guardando al proprio orto. Non a caso il più accreditato candidato alla Casa Bianca, per succedere all’insufficiente Obama è il texano Rick Perry, un “isolazionista”. In un clima vieppiù cupo, s’intrecciano, talvolta in contraddizione fra loro, le ipotesi. Dilagare delle guerre che usci-


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L’interessamento al nostro debito pubblico passa per concessioni dolorose

Non diamo a Pechino le chiavi di casa

Il gigante asiatico ha fame di energia. E cedere senza combattere la nostra significa perdere a tavolino di Vincenzo Faccioli Pintozzi na cosa è scegliersi un coinquilino, qualcuno con cui dividere le spese in cambio di una non troppo ingombrante vicinanza. Altra è dare a un semi-sconosciuto le chiavi di casa, quelle del quadro elettrico e l’accesso alla cantina. Ovvero esattamente quello che il governo italiano sta facendo, se è vero che ha offerto alla Cina pacchetti di azioni di Eni ed Enel in cambio dell’acquisto del nostro debito pubblico. Pechino è da almeno quattro decenni a caccia di ogni fonte di energia su cui può mettere le mani: con le liberalizzazioni lanciate da Deng Xiaoping, infatti, iniziò una corsa all’industrializzazione del Paese che non si è ancora fermata. Ma che, per essere mantenuta vivace e in attivo, ha bisogno di molta energia. Inizialmente, la Cina decise che era il caso di abbattere ogni scrupolo ecologista e diede il via a uno spregiudicato programma nucleare: con la complicità del Pakistan, diede il via ai primi esperimenti con Mao ancora vivo. Esperimento riuscito, prima fase completata. Poi fu il turno del carbone: decine di migliaia di miniere – legali e illegali – spuntarono come funghi per tutta la nazione.Turni massacranti, estrazioni facilitate dalla dinamite, nuovo schiavismo: e nei primi anni del 2000 questo pessimo modo di fare diede il via a una strage infinita di minatori. Ogni giorno, un necrologio sotterraneo: storie drammatiche di intere comunità sepolte vive, decine di vittime da piangere quotidianamente. Si diede in un primo tempo la colpa agli industriali privati, che ignoravano completamente ogni standard di sicurezza. Ma dopo molto poco ci si rese conto che, senza la complicità della politica corrotta, difficilmente tutto questo sarebbe accaduto.

U

ticolare degli Stati Uniti), la Cina ha lanciato una nuova colonizzazione “soft” dell’Africa. Niente soldati, soltanto industriali armati di tanta pazienza e tanto razzismo. Dal Continente Nero, depredato, ora il dragone spera di passare all’Europa. È vero, la Cina – avendo oltre 3mila miliardi di dollari in riserve di moneta estera - fa investimenti in diverse parti del mondo. L’Italia e l’Europa potrebbero sperare in qualche briciola. Ma se anche qui si guardano le cifre, ci si accorge che per il 2009 Pechino ha investito all’estero solo 38 miliardi di dollari, mentre il resto del mondo ha investito in Cina ben 106 miliardi di dollari (fonti Unctad). In realtà, dunque, Pechino assorbe investimenti, più che concederli. Soprattutto, il surplus serve più a ricapitalizzare ciclicamente il suo sistema bancario, afflitto da insolvenze. Sperare che la Cina salvi l’economia mondiale è irrealistico, oltre che non vero. La Cina, infatti, si trova nelle stesse condizioni degli altri Paesi: sovrapproduzione; dipendenza dalle esportazioni; banche sovraesposte; consumi al minimo. Il suo successo dipende troppo dal valore dello yuan, tenuto basso in modo artificiale, e da una manodopera schiavizzata, che mantiene basso il costo del lavoro. Questa economia “drogata”si è lanciata a costruire faraoniche infrastrutture per aumentare il Prodotto interno lordo, ma senza produrre vera ricchezza. Affidarle ora le chiavi della nostra casa significa rischiare molto, forse troppo.

Il dragone ha depredato l’Africa e distrutto il proprio terreno. Ora vuole passare in Europa

Il Partito, per una volta nel mirino anche della censuratissima opinione pubblica interna, diede prima un ultimatum e poi la sepoltura al programma carbonifero. Si passò all’idroelettrico, e la diga sulle Tre Gole ne è la cattedrale. Milioni, miliardi di litri d’acqua – radunati devastando le campagne di tre province diverse - lasciati cadere in un bacino che ne trasforma la potenza cinetica in energia. I danni iniziano a vedersi adesso: territori devastati, dighe estremamente insicure, carestia perenne in diverse zone dell’interno. Ma tutto questo, in realtà, non è mai bastato a Pechino che – per il 70 per cento del proprio fabbisogno energetico – deve rivolgersi all’esterno dei confini nazionali. Dopo lunghe trattative con l’Iran, poi lasciate cadere per timore delle reazioni internazionali (e in modo parWu Bangguo, membro del Poliburo del Partito comunista cinese e delegato del presidente per i problemi energetici

rebbero dalla sfera del “locale” (focolai, ve ne sono ovunque; e dal Mediterraneo al Medio Oriente, all’Iraq all’Afghanistan, nessuno riesce a spegnerli), in contagiosa spirale. Con i connessi rischi derivanti dalla proliferazione degli arsenali nucleari in aree ad alta instabilità: Israele, India, Pakistan, Nord Corea. Altri scenari, dando per scontato un lungo periodo di recessione, non escludono un’ondata inflazionistica. Servirebbe a ridurre drasticamente (a spese del tenore di vita dei cittadini e dei risparmi) il peso ormai quasi insostenibile dei debiti pubblici nazionali. Ancora, in un doloroso rosario: la fine dell’euro. Essendo vacillante quel principio di solidarietà fra le nazioni del Vecchio Continente che è (o dovrebbe essere), alla base della moneta unica.

Registriamo come si stanno comportando, rispetto ai partner continentali Frau Merkel e monsieur Sarkozy: sino all’altra settimana viaggiavano a braccetto, piuttosto sprezzanti. Finché è arrivato l’uppercut delle agenzie di rating che hanno declassato Credit Agricole e Societé Generale, superbanche parigine. Troppo esposte nei confronti della Grecia. I titoli del debito pubblico di Atene sono però massicciamente presenti pure nelle banche tedesche. Quindi neanche a Berlino si ride, poiché la crisi che stiamo vivendo è innanzitutto quella del denaro facile, dei prestiti concessi ad occhi chiusi da banche al tempo stesso avide e miopi. Non stupiamoci allora se va prendendo quota la proposta di Eurobond. Emessi dalla Banca centrale europea, dovrebbero servire da ciambellone di salvataggio continentale. I “sudditi” aderiranno? Difficile credervi, ma a dare ascolto ai grilli parlanti della Bce di Francoforte, il lancio degli Eurobond sarebbe accompagnato dall’obbligo di sottoscrivere. Ciascuno per la sua parte, piccola o grande. Novità sgradevole, ma con precedenti. In Italia, e non solo, i prestiti “forzosi” degli Anni Trenta, Era fascista. C’è allora da stupirsi che le banche svizzere, rigurgitanti di capitali in fuga abbiano bloccato l’apertura di nuovi conti correnti e fissato d’imperio il cambio euro-franco a 1,20, quando già si viaggiava attorno alla parità? O che sia in atto un’autentica corsa all’oro, col grammo di metallo giallo, classico bene rifugio, nel volgere di un anno schizzato da poco più di 20 a 43 euro? Tutto può accadere, insomma. Senonché, e ci riguarda direttamente, eccoci all’imprevedibile: i cinesi che giungono in soccorso forse dell’Europa, sicuramente dell’Italia. Con encomiabile riservatezza, plenipotenziari governativi legati al ministro Giulio Tremonti, da mesi andavano dialogando

con Pechino. La ricchissima Cina gestita da un’oligarchia semidittatoriale che tuttavia ha concesso mano libera al capitalismo consumistico. Dualismo sul quale riflettere, poiché potrebbero anticipare un futuro “modello planetario”. Ebbene, i cinesi si sono già presi in carico il 4 per cento del nostro immenso debito pubblico (qualcosa come 70 miliardi), ma potrebbero arrivare al 10 per cento, pari a 190 miliardi. Generosità interessata, ovviamente: in cambio richiedono di entrare, con voce in capitolo, nell’azionariato di Enel ed Eni, elettricità e petrolio, fra gli ultimi fiori all’occhiello del nostro apparato industriale e spina dorsale del sistema energetico. Volendo, ai prezzi stracciati della Borsa, potrebbero acquistare azioni sul mercato. Preferiscono, sembra, che lo Stato italiano ceda una parte del pacchetto di controllo delle due aziende in sua disponibilità. Vietato comunque strapparsi le vesti: tre decenni fa, la Fiat degli Agnelli in affanno, mediatrice la Mediobanca di Enrico Cuccia, vendette alla Libia di Gheddafi un bel pacchetto azionario della Casa torinese. Si celebri o meno il fidanzamento Pechino-Roma, una cosa è fuori discussione: il mutamento degli assetti geoeconomici planetari. Sin qui erano gli Usa, frantumatosi l’Urss, ad essere l’unico punto di riferimento. Ora, di fronte alla debolezza americana, alla fragilità dell’Area euro, l’Italia guarda alla Cina. Ricambiata. Già i cinesi sono economicamente penetrati in Africa, ed ora guardano oltre. In qualche sintonia con la Russia di Putin. Cartina di tornasole, ciò che è avvenuto in Libia. La Francia era intenzionata a prendersi gli immensi giacimenti petroliferi, dopo avere concordato con Gran Bretagna ed Usa. Cinesi e russi sono stati alla finestra; con l’impaludarsi del conflitto, hanno chiesto di prendersi una parte delle concessioni estrattive. La nostra Eni s’è mossa bene, ma dovrà rinunciare alla posizione dominante, lasciando spazio a francesi, russi e cinesi.

Una sommatoria di elementi fa dunque presagire che, complice una crisi che ha azzoppato il capitalismo di matrice Usa, e con un’Europa debole, si vada verso un mondo nuovamente bipolare. Con la Cina nuova superpotenza. Innanzi a questi scenari, comunque inquietanti perché carichi d’interrogativi, una domanda: siamo impreparati? Vale soprattutto per noi italiani e la nostra classe politica. Mentre il mondo brucia, anziché ricercare l’unità, ci dilaniamo in bizantine dispute. Provvediamo, poiché con la crisi che incombe e le grandi potenze in movimento, il rischio di far la fine dei vasi di coccio è più che reale.


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dopo l’11 settembre

Per cercare di rifarsi l’immagine, e forse l’anima, ha messo online delle pagine per “spiegarsi” ai bimbi e ha dato il protagonista a un cartone animato

Alla fine, grazie Cia! Tra mito e verità, il ruolo dell’Agenzia è cambiato col tempo Nel bene o nel male, è tornata alle origini del controspionaggio di Maurizio Stefanini dell’11 l’anniversario settembre, è la nomina del generale eroe del Surge David Petraeus alla testa della Cia, ed è forse anche un nuovo inizio per la Cia. La Central Intelligence Agency nata il 26 luglio 1947. Proiezione della “superpotenza Usa”, sulla Cia pesa una leggenda nera che nell’immaginario antiamericano ne ha fatto la quintessenza di ogni male. I voli della Cia, le prigioni segrete della Cia, i complotti della Cia… Una leggenda nera che ha indotto la stessa Cia a tentare di rifarsi il look: anche con pagine web molto curate, tra cui una per “spiegarsi” ai bambini e un World Factbook ampiamente usato come fonte di informazioni di tipo geopolitico e geoeconomico sui vari Paesi del mondo. C’è perfino il cartone animato American Dad!: dissacrante ma in fondo affettuosa epopea di un agente della Cia che deve conciliare il suo lavoro con una bizzarra famiglia composta da moglie exhippy, due figli, un alieno e un pesciolino tedesco.

È

Eppure, questo supposto strumento di una vocazione “imperialista” plurisecolare in effetti è una creatura relativamente recente. È vero: Harvey Birch, spia degli indipendentisti nella Rivoluzione Americana, è l’eroe di La Spia. Ma in realtà fino al 1947 gli Stati Uniti non avevano neanche mai avuto un servizio segreto permanente in tempo di pace. Motivo: l’avversione puritana verso la politica “machiavellica” delle monarchie e “dispotismi” del vecchio Mondo, che secondo i Padri Fondatori avrebbe dovuto essere sostituita da un nuovo modo di fare politica completamente aperto. Per questo, durante la Guerra Civile i nordisti avevano appaltato l’intelligence all’investigatore privato Allan Pinkerton. Poi il 14 aprile 1865, cinque giorni dopo la fine formale del conflitto, Lincoln istituì un Secret Service. Ma, malgrado il nome, si trattava solo di una specie di Guardia di Finanza alle dipendenze del Di-

partimento del Tesoro. Subito dopo lo stesso Lincoln fu ucciso, e il Secret Service, essendo l’unica forza a disposizione, si vide anche assegnare la funzione di guardia del corpo e addetta alla sicurezza dei presidenti, che mantiene tuttora. Insomma, un “Servizio Segreto”molto sui generis. Dopo ancora, tra il 1880 e il 1890 nacquero la Military Information Division dell’esercito e il Navy’s Office of Intelligence della marina. Ma già nel 1903 queste due divisioni vennero liquidate. Nel 1908 viene poi fondato il Federal Bureau of Investigation, il mitico Fbi: con funzioni di coordinamento tra le polizie dei vari

Odiata dai “sinistri” di tutto il mondo, è stata lei a uccidere il dittatore anticomunista dominicano Trujillo Stati, ma anche di controspionaggio. G-2 e Fbi erano però talmente disorganizzati che le informazioni di allarme arrivate nel dicembre 1941 su quanto stava per accedere a Pearl Harbor vennero trascurate. Per rispondere alla grande sfida del “giorno dell’infamia” nacquero allora il Corps of Intelligence Police (Cic), l’Office of Naval Intelligence (Oni) e soprattutto l’Office of Strategic Service. Ma dopo la resa di Germania e Giappone l’Oss fu

sciolta, anche se ne restarono provvisoriamente in vita la sezione incaricata della raccolta di informazioni segrete e quella che le vagliava per trarne deduzioni e conclusioni.

Anche queste erano però in pericolo: alla tradizionale ostilità della mentalità puritana Usa per le “spie” si aggiungeva infatti la pressione dell’Fbi di Edgar Hoover, che aveva già profittato dell’assenza di strutture apposite per riciclare la sua organizzazione nel difficile compito dell’intelligence in America Latina. E lo scontro tra Hoover e il generale Bill Donovan, il padre dell’Oss, fu infatti al coltello. Il secondo inviò nel novembre 1944 un memorandum a Roosevelt in cui lo esortava a mantenere in vita l’Oss in vista del futuro confronto, a suo dire “inevitabile”, con l’Unione Sovietica. Hoover rispose facendo trafugare il documento e passandolo al Chicago Tribune, che denunciò a caratteri di scatola la “Gestapo americana”. Lo scandalo fu tale che Roosevelt lasciò perdere,

L’ingresso della Cia, che sulla parete ha un muro composto da stellette anonime: sono gli agenti, anch’essi anonimi, morti in missione in giro per il mondo e mai più tornati a casa. Per dirla alla Nanni Moretti, L’Fbi era di destra, mentre la Cia era di sinistra. Erede della lotta antifascista dell’Oss, pur con qualche eccezione la Cia puntò infatti esplicitamente su un anticomunismo “avanzato”. In basso, Petraeus

almeno fino allo scontro aperto con Mosca. Ma poiché lo scandalo non era passato invano, il nome della nuova organizzazione non fu Oss ma quello nuovo di Cia: anche se erano quasi tutti di provenienza Oss i suoi quadri. La rivalità con l’Fbi di un “destro” dichiarato come Hoover ebbe un risvolto sorprendente, per chi dà retta agli stereotipi: mentre l’Fbi, per dirla alla Nanni Moretti, era di destra, la Cia era di sinistra. Erede della lotta antifascista dell’Oss, pur con qualche eccezione la Cia puntò infatti esplicitamente su un anticomunismo “avanzato”, che togliesse al pesce del comunismo i mari di povertà e risentimento sociale. Il fallimento del tentativo anticastrista sulla Baia dei Porci rappresentò però l’inizio di un periodo confuso, tra l’eccesso di realpolitik dell’era nixoniana, l’impotenza di quella carteriana e gli scandali Iran-Contras di quella reaganiana. E a proposito di stereotipi da sfatare: si deve al “falco” Ronald Reagan quell’Ordine Esecutivo 12333 che il 4 dicembre 1981 inderdì formalmente alla Central Intelligence Agency di “essere coinvolta, direttamente o indirettamente, in omicidi”, e

che nel nuovo clima della War on Terror è stato revocato formalmente da George W. Bush il 30 luglio 2008, col nuovo Ordine Esecutivo 13355. Se no, forse non ci sarebbe stata l’Operazione Geronimo contro Bin Laden. Anche in tema di omicidi, però, bisogna distinguere la leggenda dalla storia della Cia. È la leggenda, ad esempio, ad affermare che la Cia abbia tentato di uccidere Fidel Castro. È sempre la leggenda che narra come un altro agente della Cia si fosse preparato a “far fuori” De Gaulle dopo la sua decisione di far uscire la Francia dalla Nato, col semplice espediente di stringergli la mano recando al dito un anello in cui era un pungiglione intinto nel veleno. E che però il generale avrebbe riconosciuto nella fila di invitati che stava passando in rassegna, proprio prima dell’assassino, un suo ex-soldato dei tempi della Francia Libera, abbracciandolo e scatenando i fotografi. Al che il malcapitato sicario, col pericoloso aggeggio in mano, non avrebbe trovato altra alternativa se non andare immediatamente a buttarlo. Addirittura, ci sono voci su un coinvolgimento nel caso Kennedy. Ma, appunto, sono le leggende, su cui mai forse la storia potrà dire una parola definitiva. Paradossalmente, è invece storia che una delle istituzioni più odiate dalla sinistra mon-


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tali dell’Europa orientale, e in Unione Sovietica, era in una posizione tale da dirci quello che stava capitando».

diale organizzò l’attentato in cui fu ucciso il dittatore anticomunista dominicano Rafael Trujillo, vicenda rievocata nel best-seller di Mario Vargas Llosa La festa del caprone. Lo si fece sapere per mostrare che l’America di Kennedy non faceva distinzione tra dittature di destra e di sinistra, e preparare così l’opinione pubblica al tentativo si sbarco della brigata di esuli cubani nella Bahia de los Cochinos. Quel tentativo fallito, a sua volta, era stato ispirato all’analoga operazione compiuta nel 1954 in Guatemala, contro il regime di Jacobo Abornoz, considerato filo-comunista. Ma proprio questa ossessione per i “colpi di mano” condotti da gruppi di esuli, oggi bollata con l’etichetta dell’”uso di mercenari” e come tipico esempio di “politica di destra”, è invece un ulteriore esempio della filiazione della Cia da quell’Oss che si era specializzata nell’appoggio ai partigiani antinazisti.

Solo dopo il fiasco di Cuba la Cia passò definitivamente dall’appoggio alle guerriglie a quello alle controguerriglie e ai golpe. In un’ottica ormai difensiva che aveva rinunciato a destabilizzare “l’impero del male”, e mirava ormai solo a limitarne l’espansione con ogni mezzo. Ma della maggior parte degli “omicidi” politici che oggi le sono attribuiti, la Cia non lo

fu che in maniera indiretta. Salvador Allende, ad esempio, in effetti si suicidò dopo aver cercato di resistere armi alla mano in un golpe che la Cia aveva certo appoggiato, ma che era nato dentro al Cile. Anche Che Guevara fu catturato grazie al servizio di intelligence della Cia, ma ucciso su decisione autonoma del governo boliviano, che non sapeva “dove custodirlo”. E quanto alla famosa uccisione senza processo di un agente vietnamita accusato di fare il doppio gioco al tempo di Kennedy, un funzionario della

Si deve al “falco” Reagan quell’Ordine che interdì formalmente all’Agenzia di “essere coinvolta, in ogni forma possibile, in omicidi” Cia a Saigon si limitò a “dare un vago ordine”, che fu però poi eseguito dai Berretti Verdi. Si era però già creata quella torbida immagine che aveva fatto dire nel 1956 al democratico Richard Russell, allora presidente della Commissione Difesa del Senato: «Ascoltare quello che fanno nel mondo gli agenti Usa quasi agghiaccia il midollo delle ossa». Dopo la crisi di credibilità seguita al

Vietnam, al Watergate e al fallimento di Carter, Reagan potè permettersi di dare all’opinione pubblica liberal il contentino dell’ordine 12333 proprio perché aveva in animo di abbandonare la difensiva per l’offensiva, tornando ai tempi dell’Oss. E furono quindi gli aiuti massicci ai contras, alla guerriglia afghana, all’Unita, a Solidarnosc, che provocarono il crollo del blocco sovietico. Anche se, come ha scritto Marcello Flores nel suo recente La fine del comunismo (Bruno Mondadori), «non sono stati i governi, i loro apparati di intelligence e di informazione, i servizi segreti e le diplomazie, a raccontare al mondo – e agli stessi ‘grandi’ del mondo – quanto stava accadendo attorno alla cortina di ferro più importante, il Muro di Berlino. Sono state le televisioni locali e nazionali, i network internazionali come la Cnn, che inizia da questo momento a crescere d’importanza nella politica internazionale». «È stata la Cnn e non la Cia a tenere informata Washington sugli avvenimenti a Berlino. La caduta del Muro di Berlino era il primo colpo di una competizione non dichiarata tra Cia e Cnn che sarebbe continuata per tutti gli anni della guerra fredda. La Cia non aveva una comprensione umana di quanto stava succedendo, nessuna delle nostre risorse nelle capi-

Insomma, in realtà dopo aver tanto lavorato per propiziarlo, in realtà la Cia fu presa di sorpresa dal collasso sovietico. Così come fu presa di sorpresa dall’attacco di Saddam al Kuwait, e abbindolata dall’Isi pakistano nella vicenda che porta alla costruzione del mostro taleban-al Qaida. In compenso si è un po’ riscattata in Afghanistan, dove sono state le sue nuove unità di combattimento speciali le grandi protagoniste della vittoriosa guerra lampo. Ma è di nuovo finita nell’occhio del ciclone in Iraq, ed è stata variamente contestata per le sue tecniche di lotta al terrorismo. Forse anche alla strategia Usa ha fatto comodo fare dell’unico servizio segreto al mondo costretto a mandare i suoi agenti a testimoniare in Congresso una vittima sacrificale: quella su cui si appuntano tutti gli sguardi, di una Intelligence Community appunto composta da ben 16 servizi. George W. Bush era figlio dell’unico direttore della Cia divenuto presidente degli stati Uniti. Ma proprio l’indagine da lui disposta sulla drammatica prova di inefficienza nel non saper prevenire gli attacchi dell’11 settembre 2001 ha finito per abolire quell’incarico di Director of Central Intelligence che cumulava alla direzione dell’agenzia anche il coordinamento tra tutti i servizi segreti Usa. Il nuovo Director of the Central Intelligence Agency istituito il 21 aprile 2005 è ormai perfettamente alla pari rispetto ai 15 colleghi preposti ai servizi di esercito, marina, aviazione, marines e guardia costiera, a quello del Dipartimento della Difesa nel suo complesso, a quella National Security Agency specialista in decrittazione, all’agenzia geospaziale, a quella dei satelliti artificiali, all’intelligence del Dipartimento dell’Energia, a quella del nuovo Dipartimento alla Sicurezza interna stabilito nel 2002, all’Fbi, alla Dea anti-droga, alle intelligence dei Dipartimenti di Stato e del Tesoro. Una Intelligence Community, qual è la dizione ufficiale, con alla testa il nuovo Director of National Intelligence. È migliorata la situazione da allora? Il buco assoluto di informazioni sulle rivolte della Primavera Araba, farebbe pensare: non tanto. Ma questo è stato un vuoto assoluto di tutte le intelligence del mondo. In compenso, le unità combattenti della Cia hanno registrato il nuovo successo del colpo a bin Laden. Ecco: forse la vera vocazione della Cia torna lì, alle origini Oss. Per questo, probabilmente, ci hanno messo alla testa un generale ex-ranger ed ex-paracadutista come Petraeus.

i che d crona

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ULTIMAPAGINA Esce un bel film-documentario che racconta un’edizione inventata dei campionati di calcio come se fosse vera

1942, cronaca del Mundial di Marco Ferrari e c’è qualcosa di vero nella fantasia, ebbene possiamo dire che un’edizione del Mondiale di calcio si svolse nel 1942 nella lontana, ventosa e desertica Patagonia argentina. Non è scritto in nessun almanacco sportivo né in nessun libro di storia, ma è stato descritto per filo e per segno da un grande scrittore come Osvaldo Soriano, prematuramente scomparso nel 1997, nel racconto Il figlio di Butch Cassidy contenuto nel libro Pensare con i piedi edito da Einaudi. Da lì sono partiti Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni per realizzare il documentario Il Mundial dimenticato, prodotto da Daniele Mazzocca e Pier Andrea Nocella, ospitato alla Mostra del Cinema di Venezia e subito catapultato nelle sale con anteprime oggi al Cinema Apollo di Milano e al Cinema Farnese di Roma.

S

I due autori sposano in pieno il febbricitante lirismo antiepico e surreale di Soriano che affonda le proprie ragioni in quell’Argentina bislacca, piena di eroi perdenti e sconosciuti, sempre in movimento, laggiù al confine del niente. Il film è frutto di quattro anni di lavoro, viaggi nel tempo e nello spazio, ricerche in archivi, un mixer di finzione e realtà, un linguaggio nuovo che non ci fa intravedere dove cominci la leggenda e dove terminino i fatti veri. Grazie al ritrovamento di straordinari materiali filmici dell’epoca, alcuni conservati negli archivi di Cinecittà Luce, altri di Buenos Aires, si fa credere allo spettatore che il Mundial del 1942 fosse stato voluto dal Conte Vladimir Otz, mecenate stravagante e visionario, emigrato in Argentina negli anni ’30. Per rispondere agli orrori e alle tragedie del mondo avanzato, il nobile si sarebbe messo in testa di continuare l’esperienza dei Mondiali di calcio, interrotti dalla Fifa a causa del conflitto bellico, dopo le vittorie italiane del 1934 e ’38 e in realtà ripresi solo nel 1950 con il famoso trionfo dell’Uruguay sul Brasile. Il racconto si snoda con la testimonianza del giornalista argentino Sergio Levinsky che prende spunto dal ritrovamento in una fossa di uno scheletro con accanto una macchina da presa negli scavi paleontologici di Villa El Chocon, nella Patagonia argentina. I resti umani appartengono a Guillermo Sandrini, cineoperatore di origini italiane assoldato - come svela una lettera del conte Otz a Jules Rimet - per «filmare i Mondiali in modo memorabile e rivoluzionario». Tant’è che, secondo il racconto cinematografico, Sandrini utilizzò tecniche che già 70 anni fa anticiparono le attuali ”spider-cam”utilizzate sui campi di gioco: dalla ”camera fluctuante”alla ”trampilla”, fino alla ”cine-pelota”e al ”cine-casco”. Insomma, sempre secondo il documentario, il povero emigrante Sandrini incarnò la risposta a Leni Riefenstahl che filmò i Giochi Olimpici di Berlino del ’36, trovando la morte proprio durante la finale del Mundial, flagellata da un violento temporale e da una drammatica alluvione che congelò nella memoria il risultato tra la rappresentativa tedesca e gli indios mapuches sull’1 a 1. Quel Mondiale, nella storia di Soriano, fu caratterizzato dalla partecipazione di giocatori non professionisti, minatori, ingegneri, militari, pescatori, esiliati e rivoluzionari in fuga, elettrotecnici del Terzo Reich che installavano la linea telefonica dal Pacifico all’Atlantico e operai piemontesi ed emiliani che costruivano la diga di Barda del Medio. Ad arbitrare la contesa il conte Otz assoldò addirit-

IMMAGINARIO tura William Brad Cassidy, figlio del più celebre Butch, che proprio come il padre, dopo aver rapinato banche e assaltato treni, collezionando taglie in 5 diversi paesi dell’unione, si era rifugiato in Sud America. Ma proprio Cassidy si sarebbe reso artefice di uno scandaloso arbitraggio nel corso di Italia-Germania vinta dagli uomini di Hitler 3 a 2. Nel film lo conferma quello che in quel match svolgeva la funzione di terzino destro, Antonio Battilocchi, allora operaio alla diga di Barda del Medio, che poi l’alluvione spazzò via, oggi ottantenne vispo e arzillo. Di certo il documentario conferma che la Fifa non riconobbe mai quel trofeo, che fu sepolto dal-

la memoria, oltre che dal fango, ma che qualcosa ha resistito, oltre la patina del tempo. Si tratta delle immagini colte dalla cinepresa di Sandrini che, di colpo, riemergono dal sottosuolo per essere riportate in vita in una saletta di Buenos Aires. Con un’opera di montaggio accurato e dal ritmo energico e una costruzione filmica altrettanto precisa, si alternano sullo schermo immagini di repertorio vere e altre ricostruite.

Poi ci sono personalità come Victor Hugo Morales, Roberto Baggio, Mimi Klein, Gary Lineker, Joao Havelange, Jorge Valdano, pronte a tuffarsi nella leggenda, a mettersi a disposizione della macchina da presa per un viaggio nel pieno della finzione. A quel punto lo spettatore è vittima della macchinazione, sente che non esiste differenza tra realtà e finzione.Veramente particolare è la tecnica di ripresa delle sequenze calcistiche ricostruite come dei luoghi descritti nella pellicola, colti nella loro essenzialità, laggiù nella Patagonia dei mapuches. Con gol, rigori parati, azioni bellissime e colpi di scorpione, ecco il calcio vero di quel Mundial inventato attraverso immagini “sporcate” per farle risalire a quell’epoca e farle sembrare originali, appunto girate dal povero Sandrini. Il pisano Garzella e il fiorentino Macelloni hanno lavorato sugli archivi, scovato cinegiornali, costruito storie personali e collettive per il più sgangherato campionato del mondo del calcio, giocato da 12 compagini sulla frontiera incerta del pianeta. Un’invenzione cinematografica con l’eleganza di un sogno.

Il lavoro fatto da Lorenzo Garzella e Filippo Marcelloni prende spunto da uno splendido racconto di Osvaldo Soriano che raccontava un torneo in Patagonia e vinto dalla Germania


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