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he di cronac
Corri dietro alla fortuna, ma non troppo! Tutti cercano la fortuna alle spalle di chi corre Bertolt Brecht
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 23 SETTEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
312 voti contro 306. Il Cavaliere soddisfatto: «Ve l’avevo detto che il Carroccio sarebbe stato leale»
Tutti giù nel bunker! Pdl e Lega obbediscono a Berlusconi: Milanese ce la fa per sei voti Con sette franchi tiratori la maggioranza segue il Capo e si arrocca a difesa di se stessa. Esplode la polemica per l’assenza di Tremonti. Bossi: «Andiamo avanti giorno per giorno» SCENARI 1
Il testo della lezione di Benedetto XVI a Berlino
L’opposizione cambi passo. Soprattutto Bersani
«Salvate la politica, salvate l’uomo»
di Savino Pezzotta
Importante discorso di Ratzinger al Reichstag: il Pontefice lancia “l’ecologia dell’essere umano”
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Mercoledì la sfiducia al ministro
di Benedetto XVI per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta, davanti al Parlamento della mia Patria tedesca. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore, certamente anche come connazionale che si sa le-
È
uanto successo ieri in Parlamento, con la negata autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Milanese, deve essere valutato con molta attenzione. Sarebbe sbagliato interpretarlo come un episodio qualsiasi. a pagina 5
gato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è stato rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma. a pagina 8
La Lega si interroga: voteremo così anche per Romano? Il Carroccio è in rivolta per la «buona azione» di Maroni che non ha rotto con Bossi. Ma pochi sembrano disposti a difendere il «responsabile» Osvaldo Baldacci • pagina 3
SCENARI 2
Ieri è nato il centrodestra dell’omertà di Giancristiano Desiderio a verità. Berlusconi vuole che sia detta la verità e si sta preparando per dirla direttamente agli italiani. Bossi ha detto la sua parte: «Il governo va avanti giorno per giorno». Sarà in grado il premier a raccontare la verità in tv? a pagina 2
L
L’Fmi: «Debito pubblico e banche, i due nodi da sciogliere» Il filosofo Giovanni Reale commenta le parole del Papa
Lo spread vola, Milano crolla
«Nel buio della crisi, Appello di Lagarde: «Riforme per salvare l’euro» si deve ascoltare il cuore» di Francesco Pacifico
ROMA. Milano non è Milanese e la Borsa non è
di Franco Insardà
ROMA. «La citazione di re profondità Salomone, anche dal punto di vista drammaturgico, è stupenda: concedi al tuo servo cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo sappia distinguere il bene dal male». Secondo il filosofo cattolico Giovanni Reale il discorso di Benedetto XVI ha una attualità e una
eccezionale: «Molti politici hanno dimenticato in maniera sorprendente questi insegnamenti, perché il potere è fatto coincidere con il diritto: posso e, quindi, quel mio potere è dovere. Ma, come ha sottolineato il Pontefice a Berlino, la cosa è diversa». a pagina 10
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
il Parlamento: non si salva nessuno. Piazza Affari ha chiuso con l’ennesimo profondo rosso (4,52%), ma a preoccupare il fururo della nostra economica (e dovrebbe preoccupare anche il futuro della nostra politica, altrimenti affaccendata) è il volo record dello spread, orami a quota 412. Ma l’allarme è globale. Anche Christine Lagarde dell’Fmi ha lanciato l’allarme: «Debito pubblico e solidità delle banche sono i due problemi dell’Europa. Servono subito riforme per affrontarli». a pagina 6
• ANNO XVI •
NUMERO
185 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
pagina 2 • 23 settembre 2011
Vince la strategia del «giorno per giorno»
Ieri è nato il centrodestra dell’omertà di Giancristiano Desiderio a verità. Berlusconi vuole che sia detta la verità e si sta preparando per dirla direttamente agli italiani. Intanto, Bossi ne ha detto una parte: «Il governo va avanti giorno per giorno». Sarà in grado il presidente del Consiglio di andare in televisione e di raccontare agli italiani per filo e per segno la verità? A questo punto, il capo del governo è obbligato. Dovrà dire: il governo va avanti perché sull’amministrazione della crisi non ha colpe, mentre le agenzie di rating declassano l’Italia perché obbediscono a un complotto ordito dalla stampa e tutti media con la collaborazione attiva della magistratura. Se la Lega ha votato no all’arresto di Marco Milanese - mentre votò sì all’arresto di Alfonso Papa - è per sostenere questa verità del premier, altrimenti un minuto dopo l’arresto dell’ex braccio destro del ministro Tremonti il governo sarebbe venuto giù. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, sa che la realtà dei fatti è molto distante dalla verità di Berlusconi, ma anche lui che spedì Papa a Poggioreale ha deciso di far apparire Bossi decisivo e il premier un vero presidente del Consiglio. Tuttavia, il problema di cosa raccontare direttamente agli italiani neanche il manovriero ministro degli Interni è in grado di risolverlo. Come si dice - anche se è surreale che la frase abbia un senso - Berlusconi ci deve mettere la faccia.
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Tra il governo che va avanti “giorno per giorno” e la “verità del complotto” di Berlusconi c’è una differenza come tra il giorno e la notte. Se fosse vero quel che dice Berlusconi, il governo italiano dovrebbe avere anche la fiducia delle opposizioni e rispondere con fermezza e dignità sul piano internazionale. Invece, la verità è quella del “giorno per giorno”: il governo va avanti senza sapere cosa farà domani. Nella situazione di crisi, il governo non è ormai da tempo un mezzo su cui far leva per uscirne ma un ostacolo che rende tutto più difficile.Tanto sul piano economico e finanziario - non usciremo da qui con tasse e ancora tasse - quanto sul piano politico e della autorevolezza internazionale. In tutta questa storia le intercettazioni - il complotto, secondo Berlusconi - non c’entrano nulla: anche noi riteniamo che la giustizia intercettante può commettere abusi, ma se il capo del governo fa altro invece di governare e rappresentare autorevolmente il Paese nel mondo non è colpa delle intercettazioni. Ma sia il premier sia il Pdl insistono: bisogna dire la verità direttamente agli italiani. La strategia della verità del complotto si fonda su una convinzione: basta andare in televisione e inventarsi un racconto - oggi si dice narrazione e il gioco è fatto. Questa strategia della sceneggiatura televisiva è deleteria e per un Paese come il nostro lo è doppiamente. Se ci siamo trovati da un giorno all’altro con la crisi in casa è perché il governo ne ha sistematicamente negato l’esistenza. Invece di correggersi, il governo persevera e pensa che basti un discorso agli italiani per fare di un governo sfiduciato dai mercati e dalle agenzie di rating un governo autorevole e credibile. A Palazzo Chigi e dintorni confondono il destino del Paese con il destino del governo e della sua maggioranza. Adottando come scopo il galleggiamento del governo, il Pdl non si avvede che affonda il Paese. Pensa che la crisi del governo sia risolvibile in chiave virtuale e non si rende conto, o se ne rende conto perfettamente ma lo ritiene irrilevante o un rischio da correre, che la crisi economica è risolvibile solo su base reale.
il fatto La Camera «assolve» l’ex finanziere: 312 contro 306. Almeno sette i franchi tiratori
Governo salvo (per sei voti)
Berlusconi prima si infuria per l’emorragia di no all’arresto di Milanese, poi esulta: «La maggioranza è forte. Andiamo avanti» Ma il Pdl attacca: perché Tremonti non c’era? di Marco Palombi
ROMA. Alla fine c’è l’eterno rito del potere romano. L’uomo fino ad allora solo o quasi solo, l’uomo in difficoltà e in bilico sul bordo del precipizio, ce la fa per il rotto della cuffia e finisce per venire sommerso dall’affetto di tutti quelli che, flaianamente, sono sempre pronti a correre in soccorso del vincitore. E così Marco Milanese entra in aula nervoso e solo, si siede al suo posto in penultima fila in alto che neanche il suo compagno di banco, Maurizio Del Tenno, è ancora arrivato. Quelli che gli si avvicinano prima del voto sono uno sparuto gruppo di coraggiosi: Barbara Mannucci, Jole Santelli, Elena Centemero, Enrico Costa, Paola Pelino, Manuela Repetti ed Edmondo Cirielli. Insomma, figure di secondo piano, in tutta sincerità. Ma un paio d’ore dopo, quando Gianfranco Fini legge il risultato della votazione che nega il suo arresto per corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio, Milanese viene sommerso dagli abbracci dei suoi colleghi del Pdl, dai sorrisi e dalla gioia, pur di vedersi salvati ancora una volta nella rappresentazione dello “scampato alla galera”. Uscito dall’aula, poi, l’ex finanziere riceve anche le stimmate del vero potere di palazzo: anche qualche commesso gli stringe la mano e gli fa i complimenti. Lui non parla, né in aula né fuori, si concede solo un breve incontro con Berlusconi. Il resto – di cui ora parleremo – è solo il teatro della politica politicante: i franchi tiratori, la tenuta della maggioranza, il ruolo di Tremonti, il labiale di Berlusconi, gli incontri di Maroni, i “viola” in piazza a fingersi popolo con le loro mo-
netine da cinque centesimi e via teatrando. La sostanza è in quella rappresentazione della passione attraverso la quale molti hanno salvato se stessi vedendo salvo Milanese: come dire?, il «capro espiatorio» funziona anche al contrario.
Ma vediamo il resto. E cominciamo dal premier, che arriva a Montecitorio baldanzoso dopo l’accordo di mercoledì con Umberto Bossi che gli ha garantito qualche altro mese di vita: il Cavaliere aveva già istruito i presenti in Consiglio dei ministri a votare contro il rischio di uno «stato di polizia giudiziaria» che ha comunque lui come obiettivo finale (e, quindi, serve la legge sulle intercettazioni, ormai è un’ossessione). «Con Umberto Bossi siamo amici fraterni – si vanta il presidente del Consiglio parlando poi coi suoi deputati – l’asse con la Lega tiene». Lo dimostra anche quella carezza paterna del premier alla testa dell’”amico” leghista, che tutti i fotografi hanno immortalato: una scena da vecchi pensionati di provincia... mancava solo la mitica canottiera. Sarà, ma quando Fini legge il risultato Silvio Berlusconi è terreo in volto: 312 contro l’arresto e 305 a favore (più Enrico Letta, il cui voto non è stato registrato dal sistema elettronico). Si gira alla sua destra, dove siede Ignazio La Russa, e sbotta con espressione basita: «Ma sono solo sette voti…». Il ministro della Difesa annuisce grave. Poi il premier decide di fare buon viso a cattivo gioco: quando i suoi onorevoli fans lo circondano per certificargli a voce e col tatto i loro imperituri affetto e devozione lui detta
il retroscena
La Lega difenderà anche Romano? Nel Carroccio crescono i malumori (anche se nessuno parla). Aspettando la sfiducia al ministro di Osvaldo Baldacci ossi salva Milanese e i leghisti si interrogano. Ma perché la Lega ex barricadera del giustizialismo ora si ostina a fare barricate per proteggere i pidiellini? Un’autorizzazione a procedere vale la sopravvivenza del governo? Forse in condizioni normali sì, ma nello stato attuale quali vantaggi porta alla Lega la sopravvivenza di questo governo? Sembra evidente ormai che Umberto Bossi abbia deciso di legare completamente la sua sopravvivenza politica a quella di Berlusconi: simul stabunt, simul cadent. Per poi giocare a fare il capopopolo gridando che l’Italia è fallita e al contempo il burattinaio sibilando ai giornalisti «si vedrà giorno per giorno». Ma se si deve vedere giorno per giorno, quali giorni sono da vedere più di quelli in cui si parla della pulizia dai presunti ladroni? Siamo sicuri che gli italiani che votano Lega, e anche i timorosi parlamentari romanizzati, comprendano questa strategia e la condividano? Siamo sicuri che in un clima sempre più esasperato siano felici di vedere i loro voti usati per puntellare Berlusconi e tutelarne i comportamenti personali? In cambio di cosa?
B
È ormai diverso tempo che lo diciamo, e soprattutto che lo dicono quelli della base leghista: la rinuncia al legalismo per la Lega non appare certo compensata da successi in altri campi: che fine ha fatto il già orribile federalismo che era stato
approvato? Annichilito dalle manovre finanziarie di questo governo che sopravvive grazie ai voti leghisti e li usa per tagliare le risorse agli enti locali. E sulla maggiore efficienza del Paese quali passi avanti sono stati fatti? E sulla crescita, sul bene delle imprese, degli artigiani, dei professionisti? Sul pungolo alle regioni meno efficienti del Paese perché contribuiscano allo sviluppo dell’Italia invece di vivere di assistenzialismo? Oppure questo governo che la Lega tiene in piedi rende meno dura
Il Senatur ha ammainato la bandiera della legalità: che farà mercoledì quando in Aula si parlerà di mafia? la vita al malaffare del meridione (e che si espande anche a settentrione) delegittimando continuamente i magistrati, difendendo a priori e ad oltranza persone forse non innocenti, e comunque dando adito a sospetti per le frequentazioni persino all’interno del partito stesso? L’opposizione ieri non ha mancato di rilevare come l’immagine della Lega a difesa della legalità ha subito un ulteriore duro colpo con il diniego all’autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Milanese. E anche l’immagine personale del
ancora la linea. «La maggioranza c’è, lo dimostra questo voto». C’è anche chi, come il capogruppo leghista Marco Reguzzoni, si spinge più avanti: «La maggioranza c’è, ora facciamo le riforme». Forse si tratta di una botta d’ottimismo dovuta all’adrenalina della vittoria, ma decisamente nessuno vede come si possa non solo fare le riforme, ma addirittura certificare l’esistenza in vita della maggioranza stante il voto di ieri mattina. Beppe Fioroni, infatti, che di giochi parlamentari se ne intende, la mette in un modo diverso: «Se fossi in maggioranza, direi che mi sono salvato in calcio d’angolo e salvarsi in calcio d’angolo non vuol dire durare molto…».
La tesi dei «sette franchi tiratori» desumibile dai tabulati anonimi (se l’opposizione ha preso sette voti in più vuol dire che tanti sono i deputati di centrodestra ad aver “tradito”) non regge fino in fondo: «Sono circolati un po’ di voti, ma non riguarda noi...», dice l’esponente del Pd alludendo al Terzo Polo. Da dovunque provengano i voti in libera uscita, le testimonianze sono unanimi: qualche voto dell’opposizione è andato a favore di Milanese, quindi la maggioranza s’è persa per strada assai più di sette voti. Per questo Berlusconi era terreo in volto; per questo il “realista” Fioroni vaticina che «il giorno che ci sarà una nuova fiducia vedrete: la maggioranza è meno solida di quanto si pensi». Gli altri casi del giorno sono il comportamento della Lega e, soprattutto, quello di Tremonti. Il Carroccio, al
ministro dell’Interno ne è senz’altro uscita appannata, sia per i distinguo avanzati appena pochi giorni fa sul caso Papa e platealmente smentiti ieri, sia per il ruolo istituzionale del ministro che ambisce a guidare il rinnovamento della Lega e poi però si accoda alla linea berlusconiana di Bossi. Che succede ora? La linea della Lega sulla legalità continuerà ad andare avanti a singhiozzo o peggio si cristallizzerà sulla difesa a oltranza di qualsiasi sodale di Berlusconi o degli altri perni della maggioranza? Nei prossimi giorni ad esempio ci saranno altri nodi che verranno al pettine. Il principale tra quelli più immediati riguarda il ministro dell’agricoltura Saverio Romano. La sua nomina al governo non era mai piaciuta alla Lega, dato che avevano iniziato la legislatura tenendo ben saldo in mano quel ministero con l’attuale governatore del Veneto Zaia. Poi passando attraverso il non troppo gradito Galan, il dicastero era finito nelle mani del responsabile siciliano Saverio Romano. Che ora è al centro di procedimenti giudiziari assai sgradevoli, indagato per corruzione aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra insieme al senatore Pdl Vizzini.
Ebbene, mercoledì prossimo la mozione individuale di sfiducia presentata da Idv e Pd al ministro per le Politiche agricole sarà discussa e votata alla Camera, primo nuovo appuntamento politico importante dopo il voto di ieri su Milanese. E in seguito la Camera potrebbe essere presto chiamata a decidere sull’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni che ri-
netto di qualche dissenziente, ha votato per “salvare” Milanese e Roberto Maroni, che su Alfonso Papa aveva fatto pendere la bilancia per la galera, acquisito il risultato s’è precipitato a parlare prima – brevemente – col Cavaliere e poi, a lungo, con Umberto Bossi. Forse voleva i complimenti per aver fatto il bravo dopo aver detto ai quattro venti per mesi che i comportamenti di Milanese e del ministro dell’Economia erano gravissimi. Il protagonista della giornata alla Camera, però, è stato - guarda caso - proprio l’unico che mancava: Giulio Tremonti. Il fiscalista di Sondrio, che aveva trasformato l’ex finanziere in un attore politico di primo livello dentro il partito, nel governo e persino nei gangli vitali del potere nazionale, ieri non s’è fatto vedere per difendere il suo uomo: risultava in missione, specificamente ad una riunione del Fondo moneta-
guardano il ministro. La decisione sulla trasmissione della richiesta dovrebbe essere presa dal tribunale il 3 ottobre. Cosa farà la Lega in questi prossimi appuntamenti? Difenderà ancora il governo e ogni suo membro anche poco amato pur di tenere in piedi Berlusconi (anche perché la ritorsione dei responsabili sarebbe a quel punto probabile)? E se sì, come lo spiegherà al suo popolo sempre più arrabbiato? Perché è evidente che quello della Lega negli anni è stato spesso un voto di protesta, ma il rischio è che la protesta, che monta, si stia spostando verso altre case più ospitali. Oppure la Lega per scelte di bottega cambierà di nuovo linea e abbandonerà Romano al suo destino, rischiando però di far saltare tutti gli equilibri assurdamente precari costruiti anche con i voti come quello di ieri? Milanese sì, Romano no: questione di geografia? Ecco che dunque è giorno per giorno più evidente come la Lega si sia infilata in un vicolo cieco, mentre la maggioranza è sempre più solo un coacervo di confusione.
monti». Non è il solo in area centrodestra a prendersela col ministro: «Il giudizio sul Tremonti al governo l’ho già espresso, ora aggiungo quello sul Tremonti uomo: la sua assenza di oggi è un forte indicatore del valore dell’uomo», mette a verbale il frontman dei frondisti del Pdl Guido Crosetto. Toni alti pure da Daniela Santanchè: «È umanamente vergognoso che il ministro Tremonti oggi non fosse in aula. Nella vita come nella politica bisogna essere uniti, nella buona come nella cattiva sorte», dice il sottosegretario che curiosamente, pur non essendo parlamentare e non avendo dunque votato alcunché, sostiene di «averci messo la faccia».
Riverbera nel silenzio, infine, l’irritazione di Silvio Berlusconi: «L’assenza di Tremonti? Fatemi un’altra domanda». Aleggia sullo sfondo, invece, la questione di Alfonso Papa: «Perché il povero deputato napoletano deve pagare anche per gli altri?», si domanda Enzo Carra dell’Udc. Intanto l’ex magistrato attualmente ospite a Poggioreale – dove pare stia scrivendo un libro sulle sue esperienze carcerarie – ha almeno raggiunto un risultato politicamente rilevante: il povero Papa è riuscito ieri almeno ad ottenere una dichiarazione pubblica di solidarietà dalla Velina Rossa di Pasquale Laurito. Senza contare il perfido commento che si è diffuso in Rete subito dopo il voto: «Con fiero spirito risorgimentale, abbiamo salvato un Milanese dopo aver condannato un Papa.Viva Garibaldi!». Appunto.
Colorita la dichiarazione di Giancarlo Lehner contro il superministro: «Muli, bardotti e cavalli della maggioranza, tutti presenti in aula, hanno tirato la carretta. L’unico assente è risultato un robusto somaro eticopolitico chiamato Giulio» rio internazionale a Washington. Riassunto del deputato Giancarlo Lehner, colorito oriundo del Pdl prestato ai responsabili: «Muli, bardotti e cavalli della maggioranza, tutti presenti in aula, hanno tirato la carretta per evitare un nuovo schiaffo forcaiolo non a Milanese, bensì al Parlamento. L’unico assente è risultato un robusto somaro eticopolitico, chiamato Giulio Tre-
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l’approfondimento
Claudio Cerasa, Ugo Magri, Goffredo De Marchis e Angelo Picariello valutano le prospettive politiche che potrebbero attendere il Paese
Il generale gennaio
Tregua fino a fine anno? Trattativa per il salvacondotto del premier? Corteggiamento serrato dei centristi? Salvato Milanese, il balletto nella maggioranza continua: gli osservatori ci raccontano quali sono gli scenari possibili di Francesco Lo Dico
ROMA. Stessa indagine, stessa richiesta d’arresto, stessi leghisti duri e puri. Ma per un Papa in galera, c’è un indagato che trova rifugio in Parlamento grazie all’improvvisa pietas della camicie verdi. Dalla cotoletta alla Milanese servita ieri dal governo svapora un fumus persecutionis che puzza di bruciato. E poco o nulla conta che sette voti abbiano salvato il braccio destro di Tremonti dall’arresto. Perché la definitiva credibilità di questo governo è andata in cenere ieri nell’autodafè della coerenza.
B&B, gli anziani mattatori, hanno temuto ieri di inciampare sulla scala del tramonto che si apre loro sconfinata. Hanno deciso di frenare il passo a un centimetro dai titoli di coda, ma questo non basta probabilmente. Troppi sommovimenti, troppi conciliaboli, troppe figure si muovono sottotraccia perché la storia non sia vicina a un turning point. Si è parlato di un Cavaliere salito a Colle
per patteggiare la buonuscita, di un Napolitano che ha già avviato le preconsultazioni per sondare il dopo Cavaliere, di elezioni in primavera. Umberto Bossi non si sbilancia, neppure dopo il voto su Marco Milanese: «Avanti fino al 2013? Questo lo vedremo giorno per giorno», ha fatto sapere il Senatùr. Ma per una volta va detto con sprezzo del pericolo: ha ragione Silvio Berlusconi a essersi stizzito. Perché il tema del giorno sembrava essere diventato a un certo punto l’assenza di Tremonti al voto su Milanese. Quando pare invece più interessante, proprio come auspicato dal premier, passare alla prossima domanda. Ce ne sono moltissime in effetti. E partono tutte da una sola: quale destino attende il Paese? O meglio. Quale destino attende il Paese se Silvio Berlusconi non si dimette? Di scenari ne sono stati disegnati moltissimi. Ma quanto è credibile l’ipotesi che il presidente del Consiglio stia negoziando una exit stra-
tegy? È possibile pensare ad elezioni in primavera? «È molto probabile che non accade nulla», commenta la firma del Foglio, Claudio Cerasa. «L’ipotesi delle urne anticipate», obietta il notista politico del giornale diretto da Giuliano Ferrara, «non conviene a nessuno, anche perché in pochi sarebbero disposti ad assumersi la responsabilità di lasciare il Paese senza governo per cento giorni. Compresi molti esponenti del Pd, che
«Berlusconi e Bossi sanno che dovranno trattare: non si arriva al 2013»
hanno ben chiara, al di là delle inevitabili pressioni proprie di un’opposizione, che non si può lasciare sguarnita la pancia di comando in un momento così delicato per l’Italia».
All’orizzonte si profilano tre possibili scenari, osserva Cerasa: «Il primo, e cioè aspettarsi che il Cavaliere si dimetta, è praticamente impercorribile. È come chiedere a Zarate se è disposto a passare la palla», dice icasticamente il giornalista del Foglio. Una sorta di periodo ipotetico dell’irrealtà, che pertanto sembra escludere il salvacondotto giudiziario come merce di scambio. «È una cosa che mi sembra del tutto infondata», ammonisce il redattore capo del Foglio. «C’è poi la soluzione numero due, che vedrebbe Berlusconi potrebbe affidare il timone ad Angelino Alfano», prosegue, «ma è una soluzione che al momento resta compresa nel campo dell’improbabilità». E infine la terza ipotesi del governo tecni-
co, «che però avrebbe bisogno dell’appoggio della Lega», precisa. Uno scenario quest’ultimo, per il quale si è molto speso, tra gli altri, il leader centrista Pier Ferdinando Casini. «Si sta muovendo meglio di tutti», commenta Claudio Cerasa, «dà l’idea di essere un’alternativa spendibile e tutti lo stanno corteggiando. Ma da osservatore devo notare che ha poco a che vedere con il progetto del Nuovo Ulivo». Sull’opzione salvacondotto giudiziario in cambio delle dimissioni, apre invece uno spiraglio Goffredo De Marchis di Repubblica. «Non credo esista una trattativa condotta in prima persona dal Cavaliere», precisa il notista politico, «ma sottotraccia, molto prudentemente, ho la sensazione che i centristi, che fino a oggi hanno tentato di mediare con il presidente del Consiglio, stiano dando forma a qualche idea nel tentativo di accompagnare Berlusconi verso la porta d’uscita». «L’ipotesi di un’amnistia avallata dal Pd
La crisi economica si intreccia a quella politica: non è più tempo di valzer sulle alleanze
L’opposizione cambi passo. Soprattutto il Pd di Bersani Il voto di ieri dimostra che la «strategia di Vasto» non ha gambe per camminare e anzi riavvicina i “dissidenti” del Pdl a Berlusconi di Savino Pezzotta uanto successo ieri in Parlamento, con la negata autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Milanese, deve essere valutato con molta attenzione. Sarebbe sbagliato interpretarlo come un episodio qualsiasi, o perdersi in considerazioni (pur tuttavia opportune) di ordine morale, o dare vita a una sorta d’impotente indignazione. Credo che invece debba rappresentare un punto di svolta nelle strategie dell’opposizione. È diventato evidente che la strategia che sembrava abbozzata in quel di Vasto tra Vendola, Di Pietro e, forse, Bersani non ha gambe per camminare. Anzi una sua radicalizzazione non fa altro che stringere attorno a Berlusconi il Pdl e inibire quelle persone o aree che speravano e forse lavoravano per una fase nuova. Nello stesso tempo non si sono generate le contraddizioni, su cui troppo si sperava, tra Bossi e il Presidente del Consiglio. Bisognerà capire dopo tutte le grida in laguna qual è stato lo scambio tra i due. A breve si vedrà.
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Anche il Terzo Polo deve darsi una maggiore consistenza strategica; l’avere appoggiato la richiesta del voto segreto da parte di alcuni terzopolisti è stato un regalo a Berlusconi che gli ha consentito di raggrumare tutta la maggioranza attorno a sé, più che a Milanese. Cercare di individuare quanti voti hanno transumato da una parte all’altra, è sofisma puro ed evidenzia una certa incapacità a fare i conti con la realtà. La maggioranza non può dire che ha vinto, tutt’altro, perché non ha fatto altro che ampliare il solco che la separa da larga parte ormai dell’opinione pubblica e dal sentire comune. Per l’intera l’opposizione è arrivato il momento della riflessione e, soprattutto, per chi crede che sia un bene per il nostro Paese uscire dalle spire berlusconiane-leghiste. Non basta più agire congiunturalmente cercando di approfittare di alcune situazioni che si presentano. Occorre avere una strategia più articolata che relativizzi nel dibattito politico, non su quello etico morale, alcune questioni per consegnarle alla normalità parlamentare senza attribuirgli caratteristiche risolutive o da ultima spiaggia. Mentre occorre accentuare il dibattito e il confronto sui temi economici e sociali, recuperando in modo forte il tema della crescita con grande attenzione alla famiglia e ai redditi famigliari. L’attuale situazione economico-finanziaria esige un passo nuovo per rompere la tenaglia che rischia di stritolare l’Italia costituita da un lato, dal debito e, dall’altro, da un arresto della crescita. Declassati dalle agenzie di rating, alle prese con un blocco della produttività che dura da anni, dal crescere della disoccupazione e dal calo della domanda, il futuro si presenta alquanto in-
certo. Oggi più di ieri ci sarebbe un grande bisogno di politica, ma anch’essa soffre le pene dell’inferno e gode di scarsa considerazione. Eppure sappiamo che senza politica il paese non si risolleva, la democrazia rischia di scivolare su crinali incerti, questa è una verità da non sottovalutare. Né potremmo in eterno confidare sulla saggezza del Presidente della Repubblica. Non voglio fare l’uccello del malaugurio o il catastrofista, ma solo dire che siamo obbligati a fare rigorosamente i conti con la crisi di un sistema politico che si era imperniato, per adesione o per contrapposizione, attorno a Berlusconi. Il berlusconismo non regge più, fa acqua da tutte le parti, non riesce a governare visto che è avvolto e travolto da una serie di scandali e inefficienze. Il fallimento della
Servirebbe uno scatto di orgoglio nazionale da parte del maggior partito di centrodestra
politica di Berlusconi è sempre più evidenziato dalla situazione economica - sicuramente è condizionata dai processi che si sono innescati a livello internazionale -, ma non possiamo non vedere che negli oltre otto anni su dieci di governo del populismo leghista berlusconiano, il declino dell’economia italiana è stato enorme e il malessere sociale sempre più esteso. Il Pil del nostro Paese è stato sopravanzato da quello della Cina, dell’India e del Brasile; altri Paesi ci tallonano con tassi di crescita attesi molto più elevati del nostro; quello della Turchia corre più di quello cinese; negli scambi commerciali fatichiamo, nonostante le retribuzioni italiane siano state contenute; la competitività del nostro sistema è in calo; il mercato interno langue per la diminuzione dei redditi delle famiglie; l’interscambio delle partite correnti è negativo; sul terreno dei comparti tecnologicamente avanzati marchiamo il passo e non riusciamo ad innescare l’avvio di nuovi paradigmi.
Innanzi all’aggravarsi delle situazioni, abbiamo visto solo incertezze e improvvisazioni, lo si è visto nei modi e nel tipo di interventi con cui si è affrontata la manovra di ferragosto che è stata caratterizzata da debolezze programmatiche; infatti nulla o poco prevede per la crescita ed è foriera di forti ingiustizie. Abbiamo, inoltre, il ragionevole dubbio che, nonostante tutto, non basterà. Più passa il tempo, più l’esigenza di un cambio nelle politiche economiche del nostro Paese appare non solo ragionevole ma urgente. Solo che l’unico che non è nelle condizioni di dare risposte a questa richiesta è il governo e il Presidente del Consiglio. Si è così venuto a determinare un intreccio perverso tra crisi politica e crisi economica che se non risolto in fretta può provocare delle derive inaspettate. Il problema che si pone ora è come affrontare la situazione. Servirebbe uno scatto di orgoglio nazionale, ad iniziare dal maggior partito di centrodestra, invece che restare incatenato alla“resistenza”di Berlusconi. In questa situazione, la responsabilità delle forze politiche è molto alta; tutte sono chiamate ad operare per dare vita ad una fase di transizione. Ma per fare questo occorre sottrarsi alla morbosità del bunga bunga, alle cronache sulle escort e iniziare a riflettere su come dovrà essere l’Italia del dopo Berlusconi, e iniziare a presentare un programma contro la crisi. Se nelle opposizioni, e soprattutto da parte del Pd, non finirà il balletto sulle alleanze, sui referendum e quant’altro, non si riuscirà a trovare il filo di Arianna che conduca l’Italia fuori dal labirinto in cui il minotauro-Berlusconi l’ha precipitata. Anche l’aerea centrista è chiamata a fare la sua parte e a solidificare propositivamente la sua proposta di governo di unità nazionale.
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non è del tutto peregrina», continua De Marchis, «in quanto il premier teme fortemente, più che le intercettazioni, la sentenza del processo Mills». «Formulata l’ipotesi, resta però chiara l’intenzione di Berlusconi», conclude la firma di Repubblica, «di resistere, e la sensazione che andare a elezioni già a gennaio sia, a meno di colpi di scena, abbastanza prematura». Resistere, resistere, resistere, quindi. Anche un attento osservatore come Ugo Magri non ha dubbi. Il giornalista de La Stampa, boccia altre strade possibili. «Berlusconi vuole restare e basta», chiosa Magri, «e la sua ascesa al Colle non c’entra nulla con la trattativa per un salvacondotto. È andato dal presidente Napolitano per assicurargli che ha una maggioranza granitica, che il Paese va a meraviglia e che l’economia è floridissima», annota sarcastico il notista del quotidiano torinese. «Il voto su Milanese ha dimostrato che giunto al dunque, il Carroccio ha sterzato verso la strada della sopravvivenza. E pertanto l’unica via d’uscita plausibile resta al momento soltanto una: quella che il premier continui a governare, senza cercare un’improbabile condono giudiziario», conclude Ugo Magri.
«Ieri Bossi e Berlusconi hanno visto la morte con gli occhi». È la sapida sintesi della firma di Avvenire, Angelo Picariello. Un concetto a partire dal quale potrebbero dipartirsi molteplici conseguenze. «Il salvataggio di Milanese credo abbia posto momentaneamente fine ai tormenti della Lega», chiarisce il giornalista del quotidiano cattolico, «ma si tratta di una pacificazione di facciata: non è un caso che mentre Napolitano attaccava Bossi, Maroni invece interloquiva amabilmente con il Quirinale». «La forzata unità del Carroccio resterà tale fino a quando farà la convenienza di tutti. Ma se dovesse presentarsi qualche intoppo, le fratture interne riemergerebbero di colpo», argomenta Picariello. «In ordine di probabilità si può indicare in un governo tecnico presieduto da Mario Monti, la strada più agevole», aggiunge la firma di Avvenire, «in subordine c’è poi l’ipotesi di un governo politico guidato da Alfano, e in ultima analisi le elezioni. Ma mi pare evidente che in questa ricerca d’una via d’uscita, l’Udc di Casini sarà un player determinante. Il progetto centrista esercita molto fascino sulle frange moderate del Pdl». «Tutti hanno ormai abbastanza chiara l’idea», conclude Angelo Picariello», che questo clima di incertezza vada risolto definitivamente entro l’anno prossimo». Magari in tempo per non salutare l’Europa da una zattera.
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economia
In Italia, il Tesoro è costretto a rivedere le stime: la crescita del nostro Paese quest’anno si fermerà allo 0,7%
Milano giù, vola lo spread Piazza Affari chiude a -4,5%. Ma ormai l’allarme diventa globale. Lagarde ai governi europei: «Per banche e debito servono le riforme» di Francesco Pacifico
ROMA. Vietato parlare di double dip. Di ricaduta nella crisi che potrebbe acuire il divario tra emergenti e vecchie economie del mondo. Ma secondo Christine Lagarde bisogna alzare ancora di più il livello di guardia, visto che «l’economia globale sta entrando in una fase pericolosa, la crescita è rallentata e ci sono all’orizzonte rischi di frenata». Conclusione? «La ripresa attesa è a rischio». Aprendo i lavori del meeting annuale del Fondo monetario, il successore di Domenique Strauss-Kahn ha finito per gettare altra benzina sul fuoco.Soprattutto in una giornata all’insegna della massima tensione. Euro debole, borse ai minini, spread tra il Bund e gli altri titoli di Stato schizzati oltre la soglia di sicurezza, non è bastato neppure che scendesse in campo ancora una volta l’Unione europea – attraverso il commissario all’Economia, Olli Rehn – per rassicurare che per la Grecia «non ci sarà né un default non ordinato né un’uscita dall’area euro» e che «l’Italia non avrà bisogno di aiuti». Da par suo Tim Geithner invece ha messo in guardia dal rischio dell’Europa «di ritrovarsi a fronteggiare la minaccia del fallimento se non agirà in fretta per incrementare il potere di fuoco delle sue strutture di salvataggio». Al G20 finanziario il segretario Usa al Tesoro ribadirà che non si dovrà perdere altro tempo nella creazione dei «complementi di natura fiscale e finanziaria al trattato di Maastricht iniziale». Tema sul quale
avrà il pieno appoggio dei Brics. Ma i mercati hanno virato in direzione negativa. E non poteva essere diversamente dopo le decisioni prese da Ben Bernanke al Fmoc di 48 ore fa. Dal seminario newyorchese è scaturito un pacchetto deludente rispetto alle aspettative degli operatori. La Fed ha confermato tassi di interesse vicino allo zero almeno fino a metà del 2013, ma ha varato un nuovo pacchetto di interventi per favorire la liquidità contraddistinto soltanto dalle cosiddette operazioni Twist: dai prossimi giorni fino al 2012 la vigilanza americana acquisterà bond per 400 miliardi di dollari con scadenza a lunga (tra sei e 30 anni) vendendo un un ammontare analogo di titoli con scadenza fino a tre anni. Se non bastasse, la Grecia ha accompagnato il nuovo pacchetto di tagli (riduzione degli stipendi e delle pensioni, 30mila dipendenti pubblici in cassa integrazione) con l’ennesimo sciopero ge-
nerale di 24 ore dei trasporti urbani. E di fronte ad Atene nel caos tra incolonnamenti di auto e aeroporti bloccati e scontri di piazza, la Ue ha preferito rinviare ogni giudizio e avallo sul piano. «Prendiamo nota dell’annuncio di nuove misure in Grecia, ma sarà la troika a giudicarle una volta che avrà tutti i dettagli», ha spiegato un portavoce della Commissione. Una scelta ancora più preoccupante se si pensa che non è stata fissata ancora una data per la nuova missione congiunta di Ue, Bce e Fondo monetario. Mentre le due principali confederazioni sindacali elleniche hanno già fissato due giornate di mobilitazione generale il 5 e il 19 ottobre prossimi. Così non bisogna meravigliarsi se ieri in Europa i mercati hanno ancora bruciato miliardi di euro. Su tutti Francoforte e Parigi, rispettivamente in calo del 5,25 e del 4,96 per cento.Vendite anche a Londra (-4,67 per cento) e Zurigo (-3,41). Ha
Nuovi dubbi da Bruxelles sui tagli al debito della Grecia. Geithner: «Fate in fretta, perché rischiate grosso»
provato a limitare Milano, scivolata del 4,52 per cento. Nonostante la Bce anche ieri sia intervenuta sul debito spagnolo e italiano, lo spread tra il Btp e il Bund tedesco è stato constantemente sopra la soglia di guardia dei 400 punti base (411 il massimo). Il rendimento sui bond decennali è salito oltre quota 5,8%. In quest’ottica il mercato considera più sicuro investire sul debito di Madrid che su quello di Roma: le polizze contro il default iberico sono saliti a quota 450 punti, i Cds sul Belpaese a a 545 punti. Trenta in più rispetto a 24 ore fa che fanno segnare un nuovo massimo storico.
Più in generale gli investitori sembrano rifuggire dalle speculazioni più rischiose e remunerative e guardare a un porto sicuro come le emissioni di debito della Germania o degli Stati Uniti. Berlino può rifinanziare a un tasso a dir poco concorrenziale (all’1,665 per cento, un minimo storico). La richiesta di Treasuries invece offrono una remunerazione dell’1,776 per cento. Non male per un Paese che ha perso la tripla A sul debito. E così ne fa le spese anche l’oro, che ieri ha visto calare un’oncia di quasi il 4 per cento, a 1.738 dollari. Con la Ue che rallenta il salvataggio greco e l’America ancora zavorrata dalla disoccupazione, c’è da chiedersi cosa avverrà nelle prossime settimane. Christine Lagarde ieri ha sottolineato che «alcuni paesi in Europa hanno già com-
economia on la profondissima crisi finanziaria in atto e la prospettiva tutt’altro che peregrina di un’altra recessione alle porte, la crescente disuguaglianza sociale sta diventando un problema ogni giorno più evidente e urgente. Come si può rafforzare il senso di solidarietà e responsabilità all’interno di una nazione? Chi proteggerà i più deboli? Nel pormi questa domanda mi sono ricordato un dibattito avuto più di anno fa in Gran Bretagna con il teologo tedesco Hans Kung e alcuni intellettuali sia americani che asiatici. Il tema era “Globalizzazione ed etica”, e cercava di mettere a confronto tre diversi modelli di approccio alla tutela dei più fragili: quello europeo, quello statunitense e quello asiatico.
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Tutti si conveniva che in Europa lo Stato tradizionalmente sopperiva al ruolo giocato dai filantropi negli Stati Uniti e dalla famiglia in Asia. Ma ognuno concordava che non si poteva fare più una perfetta distinzione e che nessun modello era più al 100% puro. In Asia, per esempio, lo famiglia non era più quel “paracadute”sociale capace di alleviare la tensione sociale; negli Usa lo Stato cominciava ad intervenire a sostegno delle classe deboli in maniera sempre più evidente, mentre in Europa il cosiddetto welfare state non funzionava più come una volta, anzi. Da allora, il quadro è decisamente peggiorato: in Asia la famiglia (e dunque il suo ruolo) si sta vieppiù disgregando; la rete filantropica Usa, nonostante qualche rara e generosa eccezione, sta mostrando tutti i suoi limiti; e l’Europa, fatto salvo qualche paese del
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L’opinione del grande intellettuale e autore di “Geopolitica delle emozioni”
Chi si farà carico dei più deboli? Europa, Usa e Asia: ovvero tre modelli di welfare. Peccato che siano tutti falliti di Dominique Moïsi nord, sommersa dai debiti, non è assolutamente più in grado di svolgere il suo ruolo di “spalla” sociale. Ritorna dunque la domanda: chi si assumerà la responsabilità di proteggere i più deboli se nessuno di questi tre attori è più in grado di farlo adeguatamente? Stiamo forse veleggiando verso un mondo unito da incompetenza e inadeguatezza?
In tutto l’Occidente, i poveri sono quelli più afflitti dalla stagnazione economica. Ma, in tutti i Paesi emergenti, i ricchi tendono a chiudere i loro occhi davanti alla sofferenza degli ultimi, eccetto quando questo gli si può ritorcere contro fino a fargli correre il rischio di un crollo politico: è il caso dell’Arabia Saudita. Le nuove elite dei paesi emergenti semplicemente rifiutano i loro poveri: li ignorano letteralmente. Brasile e India centrano perfettamente questo postulato. Il punto è un altro: la crescita economica è necessaria, ma da sola non sufficiente. Un forte senso di responsabilità sociale è altrettanto necessario. Sarebbe as-
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In tutti i Paesi emergenti i ricchi chiudono gli occhi davanti alla sofferenza degli ultimi, eccetto quando questo gli si può ritorcere contro surdo condannare, come alcuni fanno, la globalizzazione come la principale (se non l’unica) colpevole dell’erosione delle tradizionali fonti di supporto dei più bisognosi. La golbalizzazione è, soprattutto, uno sviluppo, anche se le conseguenze della prima grande crisi economica e finanziaria dell’era globale aumenteranno il divario fra i più ricchi e i più poveri. Ma la globalizzazione, che rende il benessere più visibile e alla portata di molti, rende tuttavia l’assenza
piuto passi coraggiosi e significativi per rimettere in ordine i propri conti, ma questi non sono sempre riconosciuti dai mercati», Quindi a richiamato la politica a superare egoismi ed egotismi, perché «i leader devono fare di più per uscire dalla crisi, mostrando capacità di
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di una giustizia sociale inaccettabile.
Un mondo interdipendente e più trasparente, crea nuove responsabilità per i ricchi. O, più precisamente, rende le vecchie misure varate a protezione dei più deboli sia più difficili che più urgenti. In un mondo sempre più complesso, forse ciò di cui si ha bisogno sono delle soluzioni più semplici. Qualcuno potrebbe seguire, per esempio, i principi di Adam Smith: quello che l’Europa fa meglio è lo
rafforzare i loro bilanci. Noi non abbiamo fatto stress test, ma serve un cuscinetto di capitale che permetta di finanziare l’economia». Parole dietro le quali è facile leggere una riduzione della liquidità per le azienda e per la capacità di spesa delle
Il governo italiano smentisce un’ennesima manovra correttiva per raggiungere il pareggio di bilancio. Ma i mercati preferiscono investire sul debito di Madrid che su quello di Roma gestione per assicurare la ripresa». Ma il mercato pare aver sottolineato altri due passaggi del discorso pronunciato ieri dall’ex ministro delle Finanze francese. Intanto ha ammesso che al di là dei tentativi di congelare gli effetti di Basilea2, «le banche europee devono
famiglie, oltre alle ripercussioni sui listini borsistici, la cui capitalizzazione è legata soprattutto ai titoli bancari. La Lagarde ha sottolineato che «le crisi alimentari ed energetiche del 2008, e la crisi finanziaria economica globale che è seguita, sono state devastanti per i po-
Stato, mentre l’Asia ancora si affida alla famiglia e l’America continua a concentrarsi sull’iniziativa individuale. Il problema è che se il mondo diventa l’unico punto di riferimento, la varie e legittime soluzioni non si adattano – culturalmente – a tutti.
Mi spiego: in Europa, la chiamata al sacrificio di tutti i cittadini per far fronte alla crisi del debito cozza con la diffusa percezione che non tutti contribuiranno egualmente, e che l’ineguaglianza sociale sarà esacerbata dall’austerity. Rimettere in moto la crescita nel breve periodo concentrandosi sul recupero del debito nel medio e lungo, potrebbe essere l’unica valida risposta alla crisi. Ma non funzionerà, né in Europa né da nessuna altra parte, se non si metterà maggior impegno ed enfasi sulla giustizia sociale. Mentre alcuni miliardari capiscono, come Warren Buffet, che loro non pagano abbastanza tasse - e si badi bene, lo fanno anche perché hanno compreso che è l’unica via per salvare il capitalismo e il liberalismo – nessuno fra i mega-ricchi dei paesi emergenti si sogna di fare altrettanto. Siamo realisti, persone come Buffet o Bill Gates sono una goccia nell’oceano e hanno ben pochi seguaci in America. E le società asiatiche non riusciranno più a far rivivere il principio di una famiglia forte capace di rispondere ai bisogni dei loro microcosmi. Nell’ultimo decennio, la globalizzazione ha rivitalizzato e accentuato le differenze culturali. Ma per far fronte alla protezione dei più deboli e dare battaglia alla crescente ingiustizia sociale, ci vorrebbe una de-culturizzazione globale. Perché forse l’unica via per studiare nuove formule, è proprio quella di combinare i tre modelli e immaginare una sintesi di welfare basata sullo Stato, la famiglia e la filantropia.
veri. Quest’anno abbiamo visto un nuovo aumento dei prezzi delle materie prime che potrebbe far precipitare altre 44 milioni di persone nella povertà».
Il mondo inverte la tendenza. Come in Italia, che ieri ha rivisto al ribasso le stime della sua crescità per il prossimo biennio, allineandosi alle previsioni della Ue e del Fmi. Nella nota di aggiornamento al Def il Tesoro confermato il pareggio di bilancio al 2013 senza ulteriori manovre di aggiustamento, ma ammette che il Pil nel 2011 registrerà una crescita dello 0,7 per cento contro l’1,1 delle stime precedenti. Tra un anno il tasso di espansione sarà ancora più risicato: +0,6 per cento contro l’1,3 ipotizzato in passato. Per il 2013 si parla di un aumento dell’1,2 per cento.
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il Papa in Germania
Il testo del discorso che il papa ha tenuto ieri pomeriggio al Reichstag: «Sono un vostro
L’ecologia dell’ess «Non solo la natura: anche l’uomo va difeso dall’aggressione ai suoi valori. E solo una buona politica, che sappia distinguere tra Bene e Male può riuscire a farlo» di Benedetto XVI per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta, davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Federale Repubblica della Germania. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore, certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
È
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci
che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo che di per sé gli apre la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. «Togli il diritto, e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?» ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione
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L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe nemmeno la pena discutere
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del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in
grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: «Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…». In base a
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o concittadino, ma sono qui in quanto Vicario di Cristo»
sere umano
2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura e ragione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen –
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La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma: ossia la fede in Dio, la ragione filosofica e il pensiero giuridico questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. (...) Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. (...)
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla
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parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: «Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…» (Rm
”un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.4 Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la spiegano, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della
conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle ”risorse”di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. (...)
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. (...) È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace.
il Papa in Germania
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Ratzinger non si sottrae al confronto con i ”dissidenti” ma tiene fermo sui principi: non un passo indietro rispetto al relativismo
La Chiesa può sbagliare
A Berlino, forte autocritica del Papa sulla pedofilia: «È uno scandalo ma non per questo i pesci cattivi non devono allontanare quelli buoni» a propria patria può far male. Ma Benedetto XVI non è andato nella sua Germania per un viaggio di piacere. Peraltro difficoltà, incomprensioni e polemiche – la più dolorosa quella sulla piaga scabrosa della pedofilia – erano in conto. Corredo del resto d’ogni passo di Benedetto XVI ormai, croce d’ogni suo viaggio pontificio.
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Bastava dare un’occhiata alla stampa tedesca di ieri per farsi un’idea delle spine disseminate sulla strada che il Pontefice percorrerà in Germania. Sotto il titolo ”Terreno difficile” la Sueddeutsche Zeitung scrive che «in patria Benedetto XVI è diventato un incompreso, non sarà facile vincere lo scetticismo». E se anche «il Papa si impegna molto con la sua patria, la Germania rimarrà un Paese difficile per la Chiesa cattolica», poiché «le incomprensioni reciproche sono troppo profonda-
di Riccardo Paradisi mente radicate». La SZ scrive in proposito che ad accogliere il Papa all’aeroporto di Berlino c’erano «un capo dello Stato cattolico, sposato in seconde nozze, che è escluso dalla comunione, ed un cancelliere protestante al suo secondo matrimonio», mentre nel pomeriggio è previsto l’incontro con «un borgomastro dichiaratamente gay, contrario all’insegnamento cattolico». Un’accoglienza quella verso il Papa distaccata e critica da parte di molti ambienti tedeschi che la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) con un fondo dal titolo ”L’ultimo pregiudizio” censura con energia. «Se la Chiesa cattolica ed i suoi rappresentanti non venissero più visti come l’origine di ogni male nel mondo e come superficie di proiezione di ogni assurdo sospetto, il mondo perderebbe l’ultimo pregiudizio». E così benvenuto caloroso rivol-
Giovanni Reale: «Il discorso al Reichstag è la fotografia della sua missione pastorale»
«Nel buio della crisi, la politica si faccia guidare dal cuore» di Franco Insardà
to al Papa dal presidente tedesco Christian Wulff nella cerimonia di accoglienza al castello di Bellevue di Berlino è stata solo l’introduzione dolce alla rappresentazione dei problemi nella Chiesa e nella società tedesca contemporaena: «La Germania – ammette Wulff – ha assistito al miracolo di una rivoluzione pacifica e al ripristino dell’unità grazie a Giovanni Paolo II», ma Wulff ricorda a Benedetto XVI
Nel colloquio con la cancelliera Merkel il Pontefice ha parlato della crisi economica e del fatto che la politica dovrebbe lavorare per gli uomini, non farsi trascinare dai mercati
che la Germania di oggi è «un Paese in cui la fede cristiana non è più scontata, in cui la Chiesa deve ricollocarsi in una società pluralistica».
Wulff solleva anche alcune questioni che quotidianamente vengono rivolte alla Chiesa cattolica. Si tratta di ”nuovi interrogativi” a cui la Chiesa dovrebbe rispondere proprio per il suo ruolo nella società: «Con quanta misericordia tratta le fratture nelle storie di vita della gente? Come tratta le fratture nella propria storia e gli errori di suoi esponenti? Quale posto ricoprono i laici rispetto ai sacerdoti, le donne rispetto agli uomini? Che cosa fa la Chiesa per colmare la spaccatura al suo interno fra cattolici, protestanti e ortodossi? Il presidente tedesco si fa dunque ambasciatore delle polemiche che inseguono la chiesa di Ratzinger: la tenuta sul relativismo, la fedeltà alla tradizione
della dottrina compreso il celibato sacerdotale, le contraddizioni e gli scandali interni alla chiesa. Questioni sulle quali il teologo tedesco Hans Kung, in un’intervista allo Spiegel, ha spalmato buone dosi di curaro arrivando a paragonare, per il suo conservatorismo e la mancanza di ”aperture”, Ratzinger a Putin. Si certo c’è un antico rancore di Kung ma la sua è la voce di quel cattolicesimo che guarda con favore a una svolta più protestante della Chiesa. Il Papa non si sottrae però al confronto: «Quando ho accettato l’invito a questo viaggio – dice nel discorso al Castello di Bellevue – era per me evidente che l’ecumenismo deve essere un punto centrale di questo viaggio. Noi viviamo in un tempo di secolarismo dove i cristiani insieme hanno la missione di rendere presente il messaggio di Dio, il messaggio di Cristo». Tanto più che «nei confronti della religione vediamo una crescente indifferenza nella so-
ROMA. «La citazione di re Salomone, anche dal punto di vista drammaturgico, è stupenda: concedi al tuo servo cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Secondo il filosofo cattolico Giovanni Reale il discorso di Benedetto XVI ha una attualità e una profondità eccezionale. I politici oggi hanno un cuore docile? Molti politici hanno dimenticato in maniera sorprendente questi insegnamenti, perché il potere è fatto coincidere con il diritto: posso e, quindi, quel mio potere è dovere. Ma, come sottolinea il Pontefice, la cosa è diversa: Salomone dice fammi distinguere il bene dal male. Non la prepotenza del politico di oggi, ma il cuore docile. Questi comportamenti dei politici finiscono per confondere anche le idee dell’opinione pubblica. Benedetto XVI richiama Salomone, ma io, da filosofo, cito la Repubblica di Platone dove si parla di giustizia e il compito del politico sarebbe quello di calare il bene nella vita sociale quotidiana. Per Platone la città si costruisce prima nel cuore, esattamente come dice il Papa. Per Benedetto XVI il principio maggioritario non basta. Si tratta di uno dei punti più delicati della democrazia. Purtroppo molti ne parlano, ma pochi saprebbero darne una definizione corretta. Si ritiene che sia il volere della maggioranza, ma se questa non scava nel proprio animo e non mantiene valori è una maggioranza del nulla, del nichilismo. Ecco perché la democrazia è una cosa grande, ma assai difficile da attuare in modo corretto. Una de-
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cietà che, nelle sue decisioni, ritiene la questione della verità piuttosto come un ostacolo, e dà invece la priorità alle considerazioni utilitaristiche». Ma, avverte il Papa «Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione». È anche il cuore del discorso al Reichstag: «La libertà ha bisogno di un legame originario ad un’istanza superiore. Il fatto che ci sono valori che non sono assolutamente manipolabili è la vera garanzia della nostra libertà». Nessuna protervia naturalmente ma non un solo passo indietro rispetto alla battaglia contro il relativismo e sulle radici spirituali: «La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma».
«Le radici spirituali dell’Europa affondano nella tradizione di Roma, di Atene e di Gerusalemme». L’omaggio di Ratzinger agli ebrei tedeschi
mocrazia esiste se l’uomo che vive in essa è un uno democratico. Non avendo ben chiari questo concetto gli americani compiono un errore grossolano: credere di poter innestare nei paesi del Terzo mondo la democrazia, ma non nasce senza l’uomo democratico. La democrazia è grande perché al centro c’è l’uomo, con i suoi valori, ecco perché il principio maggioritario non è sufficiente. Questo concetto andrebbe insegnato alle giovani generazioni, da loro nascono le basi della democrazia. Professore, nel discorso del Papa la natura assume un significato fondamentale? Direi proprio di sì. Già nella cultura greca la natura era alla base della filosofia, ma oggi
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è l’esempio più tipico. La ragione positivista, quindi, diventa una minaccia per la natura? Non rispetta più il dato di fatto che l’uomo ha una sua natura, che, come ha detto Benedetto XVI, “deve rispettare e che non è manipolabile a piacere. L’uomo non è soltanto una liberta che si crea da sè. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura”. L’idea che il cattolico ha sempre avuto e che il Papa ribadisce è quella del diritto naturale. Nella Bibbia è scritto: Eritis sicut dei (crederete di essere come Dio), come dicono alcuni scienziati oggi. C’è quindi in questo il predominio della ragione e lo stesso Illuminismo, pur dicendo cose incontrovertibili ha sbagliato
Il principio maggioritario è uno dei più delicati: si ritiene che sia il volere dei più, ma se non scava nel proprio animo e non mantiene i valori, questa è una maggioranza del nichilismo
questo concetto viene cancellato. Molti sostengono che la natura non esiste più, perché con la scienza e la tecnologia è stata destrutturata. Ma commettono un errore di fondo. Nella medicina si ritiene di superare la natura, ma molte volte si crea l’innaturale, l’artificiale che non funziona. La physis è la realtà con le sue legge che l’uomo non può illudersi di eliminare. Questi novelli apprendisti stregoni ottengono il risultato che quello che fanno gli si rivolta contro: la bomba atomica
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per eccesso. Gli stessi illuministi di oggi fanno lo stesso errore: una forma di razionalismo integralistico, uguale e contrario all’integralismo di certe religioni. Ritengono, cioè, la ragione sovrana assoluta fino ad arrivare alla autodistruzione. Benedetto XVI non è contro la ragione, ma distingue in maniera perfetta due forme di ragione: quella scientifica positivistica e quella filosofica. Il Papa si è chiesto: se la ragione ogget-
tiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? Magnifica domanda. Il primo che se l’è posta è stato Socrate, danno una risposta stupenda a tutti quelli che lo negano.Voi dite che nel vostro corpo c’è una parte di tutte quello che c’è nella natura e per la ragione non si può dire la stessa cosa? In ogni uomo c’è una piccola cosa che in grande c’è nell’universo. Da Socrate a Ratzinger arriva la stessa risposta in maniera perfetta. In conclusione, qual è il suo giudizio su questo discorso del Papa? È una specie di emblematica fotografia spirituale di Benedetto XVI e del suo modo di pensare: bada uomo che la ragione è solo quella che fa esperienza. Ed è stupenda la sua descrizione:“ La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle ”risorse”di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto”. Quindi l’uomo al centro della natura? Ma la natura vera: quella creata da Dio.
Nell’incontro con la comunità ebraica Ratzinger ricorda i tempi terribili del terrore nazista. «Pochi percepirono la gravità della situazione. Il prevosto del Duomo di Berlino Bernhard Lichtenberg dal pulpito della cattedrale gridò ”Fuori il tempio è in fiamme è anch’esso una casa di Dio. L’onnipotente Adolf Hilter era un idolo pagano che voleva porsi come sostituto del Dio ebraico, creatore e padre di tutti gli uomini». Ecumenismo, appunto. Il Pontefice non si sottrae nemmeno alla velenosa polemica sulla pedofilia e invita i cattolici, giustamente indignati per alcuni episodi di scandalo, a restare nella Chiesa: «In questa rete del Signore che è la Chiesa ci sono anche pesci cattivi ma è anche vero che non sono nella Chiesa per questi o per questi altri, ma sono nella Chiesa per Dio». Nel colloquio tra papa Benedetto XVI e la cancelliera tedesca Angela Merkel, si è invece parlato della crisi dei mercati finanziari e della tenuta dell’unità europea. «Abbiamo toccato anche il tema dell’Europa – dice la Cancelliera – Ho ribadito con forza che l’unificazione europea per noi tedeschi è irrinunciabile... Abbiamo parlato anche della crisi dei mercati finanziari, del fatto che la politica dovrebbe avere la forza di lavorare per gli uomini e di non farsi trascinare dai mercati».Tradizione, lotta al relativismo e dottrina sociale della Chiesa. Non un passo indietro, appunto, rispetto ai valori non negoziabili.
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Oggi Abu Mazen parla all’Assemblea Generale, che propende per il riconoscimento del nuovo Stato. Ma in Consiglio di Sicurezza è tutta un’altra storia. L’ago della bilancia? La Bosnia
Don’t cry for me Palestina Asia, Africa e America Latina sono a favore, Paesi ex comunisti e Nord America no. E l’Europa nicchia di Maurizio Stefanini u una carta del mondo, la contrapposizione tra chi riconosce la Palestina come Stato indipendente e chi no è netta, e la sensazione della prevalenza per il riconoscimento altrettanto netta. Praticamente tutta l’Asia: eccetto Myanmar,Thailandia, Singapore, Giappone e Corea del Sud , oltre a Taiwan che dall’Onu non è riconosciuta. Tutta l’Africa: eccetto Eritrea, Sudan del Sud e Camerun.Tutta l’America Latina: eccetto la Colombia. E tutta l’Europa Orientale ex-comunista: eccetto Armenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Croazia, Macedonia e Moldavia. I Paesi che non riconoscono la statualità palestinese, il che non vuol dire comunque che con l’Anp non abbiano rapporti, coprono tutta l’Europa Occidentale, comprese le appendici greca e cipriota. Tutta l’America Centro-Settentrionale: eccetto Cuba, Repubblica Dominicana, Belize, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica. E tutta l’Oceania: eccetto Papua-Nuova Guinea. In gran parte, è l’eredità della guerra fredda, quando i palestinesi erano riconosciuti dai Paesi comunisti e islamici, più vari Paesi africani loro clienti. E di recente si sono aggiunti i governi di sinistra latino-americani arrivati al potere a partire dal 1999: quelli più radicali in chiave anti-Usa; quelli più moderati e anche qualcuno di centro-destra a seguire la decisione dell’anno scorso del Brasile di Lula, soprattutto per coccolare quella influente componente del proprio ceto medio che è appunto di origine libanese, siriana o palestinese.
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In questo quadro generale, ci sono poi vari casi particolari. La Colombia, ad esempio, oltre ad avere l’unico governo che in Sud America è rimasto sempre saldamente ancorato al centrodestra, dipende fortemente dagli aiuti Usa e israeliani per il conflitto interno con le Farc. Il Sudan del Sud, appena arrivato all’indipendenza, dipende a sua volta dall’aiuto Usa. L’Armenia teme che il precedente palestinese possa essere poi applicato anche alle rivendicazioni azere sul Nagorno-Karabakh. Il pre-
Per il diplomatico Usa, a Turtle Bay sta andando in scena un teatrino. Nulla a che vedere con il Medioriente
«Questa è Broadway signori, altro che processo di Pace» di John R. Bolton attendo in lungo e in largo i corridoi di Manhattan all’Onu, l’Autorità Palestinese sta lavorando a tutto spiano per ottenere un risultato in Medioriente. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che i leader palestinesi soccombono alla delusione che l’irrilevante attività delle Nazioni Unite possa in qualche modo cambiare la realtà mediorientale. Il Palazzo di Vetro in queste ore è testimone di un viavai di mosse tattiche e contromosse. Nel bel mezzo di tutte le notizie contraddittorie che vedremo e ascolteremo, ricordiamoci una cosa: tutto questo teatrino assomiglia più a uno spettacolo di Broadway che a un serio tentativo di raggiungere la pace in Medioriente. Le possibilità che la “Palestina” diventi un membro Onu sostanzialmente sono zero. Il presidente Obama, nonostante una volta abbia giocherellato con l’idea di non mettere il veto alla richiesta di adesione dell’Anp all’Onu (incoraggiando così ironicamente il caos che ora è in atto a Turtle Bay), ha poi rifiutato una simile controproducente idea. Washington porrà il proprio veto, punto.
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questo tipo passerebbe in modo schiacciante. Ma questo cosa comporterà? Molte persone in Israele e in America temono la prospettiva di una“Palestina riconosciuta“stato”, anche se solo “osservatore’”. Si dice che i funzionari di Israele verranno convocati davanti alla Corte Penale Internazionale (Icc) e che la “Palestina” assumerà immediatamente il controllo sul suo spazio aereo e sulle acque adiacenti a Gaza, compromettendo quindi l’autodifesa di Israele. E molto altro ancora.
Tutto questo non ha senso. L’unico risultato pratico della dichiarazione di stato della “Palestina”da parte dell’Assemblea Generale sarà di spostare di qualche passo la sua poltrona rispetto alla sua posizione attuale per andare a mettersi vicino a quella del Vaticano, l’unico altro “stato osservatore”. Ma cosa ne sarà delle preoccupazioni isteriche espresse da molti, sulla necessità che Israele offra concessioni all’Anp per prevenire un qualsiasi voto da parte dell’Onu? In effetti le risoluzioni dell’Assemblea Generale non sono vincolanti per nessuno se non per l’assemblea stessa. Potrebbe dichiarare che Disneyland è uno stato osservatore e trattarlo di conseguenza, ma nessuno altro avrebbe bisogno di farlo. Se la Corte Penale dovesse interpretare che una risoluzione dell’Assemblea Generale consente alla “Palestina”di diventare parte del trattato fondatore dell’Icc, lo Statuto di Roma, prenderebbe una decisione politica, non legale, che va ben oltre la propria autorità. Una simile irresponsabile azione della Icc trasformerebbe le attuali scarse possibilità di una futura adesione dell’America in assoluta incertezza. L’opposizione statunitense alla Icc è già forte, e prendere di mira Israele ci consoliderebbe nella nostra opposizione. Una qualsiasi altra agenzia Onu che prendesse la stessa decisione rischierebbe di fare un grave danno, compresa l’eventualità di perdere i finanziamenti statunitensi. Coraggio!
Il massimo risultato che otterrà l’Anp sarà quello di spostare di qualche metro la sua sedia per andarsi a sedere vicino al Vaticano
Forse, la richiesta dell’Anp potrebbe addirittura non raggiungere la maggioranza di nove (su quindici) voti del Consiglio di Sicurezza necessari come stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, il che significa tecnicamente che il “no”di Washington non sarebbe proprio un“veto”. Per questo credo che sia improbabile che l’Autorità si rivolga al Consiglio di Sicurezza. Sebbene nell’Onu, la sconfitta viene spesso fatta passare per vittoria, ulteriori simili “vittorie” per l’Anp potrebbero causarne il collasso. È più probabile quindi che Abu Mazen cerchi il voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che potrebbe riconoscergli la propria statualità o forse che cambi il suo status Onu da “organizzazione osservatrice”a “stato osservatore”. Vista l’impostazione politica dell’Assemblea Generale, qualsiasi risoluzione di
sidente del Camerun Paul Biya ha spostato dalla metà degli anni ’80 il Paese su posizioni filo-israeliane: ricavandone anche ingenti aiuti dallo Stato ebraico, ma probabilmente soprattutto perché è un cristiano che intende controbilanciare l’appartenenza del Camerun alla Conferenza Islamica decisa dai suoi predecessori. Anche l’Eritrea dopo l’indipendenza ha assunto una posizione proisraeliana per ragioni simili. Alcuni Paesi ex-comunisti hanno abbandonato l’atteggiamento pro-palestinese in chiave di avvicinamento all’Occidente.
Myanmar, Thailandia e Singapore sospettano delle minoranze islamiche in casa loro, e comunque sia Singapore che Thailandia hanno forti relazioni con Israele. D’altra parte, Antigua e Barbuda sono due Paesi membri contemporaneamente della Comunità Caraibica e dell’alleanza “bolivariana” Alba, che al momento sembrano seguire più la linea filoisraeliana della prima organizzazione che non quella filo-palestinese della seconda.Tra i G8 solo la Russia riconosce la statualità palestinese, ma tutti e 5 i Brics si pronunciano invece in tal senso. All’Assemblea Generale, dunque, la linea per il riconoscimento della Palestina come Stato membro dell’Onu avrebbe la maggioranza. Ma la leadership dell’Anp preferisce rivolgersi direttamente al Consiglio di Sicurezza, anche se sa che il no è scontato, per via del diritto di veto degli Stati Uniti.
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che si possa concordare una posizione europea comune. Quanto al Portogallo, anch’esso fa il pesce in barile: il giornale israeliano Ha’aretz crede che finirà per votare sì, ma sta anche circolando l’osservazione che l’ambasciatore portoghese all’Onu fu anche ambasciatore in Israele, tra 1999 e 2001. Quindi siamo a otto sì, un no e quattro indecisi. Gli ultimi due sono Colombia e BosniaErzegovina. Come si è già ricordato, la Colombia ha forti legami con Israele, che è al momento il suo principale fornitore di armi. Ma d’altra parte la strategia di Juan Manuel Santos da quando è diventato Presidente è stata quella di attenuare il rigido atteggiamento filo-Usa del suo predecessore Álvaro Uribe Vélez. È lana caprina in questo momento capire se era Chávez ad appoggiare le Farc perché Uribe era troppo filo-Usa, o se Uribe si era allineato strettamente a George W. Bush perché Chávez appoggiava le Farc. Ma la guerra commerciale che ne era seguita tra Colombia e Venezuela si era rivelata micidiale per entrambi i Paesi, una volta eletto Santos ha cercato subito di raddrizzare la situazione, Chávez ha risposto, e ne è venuto un riavvicinamento spettacolare. Da
Davvero però gli Usa saranno costretti a farvi ricorso? In realtà no, se i sì sono meno di 9. Per le “decisioni sostanziali”, infatti, il Consiglio funziona con la maggioranza qualificata dei tre quinti. Facciamo allora i conti. Come si diceva, i Brics sono in blocco per il riconoscimento. Forse in modo non casuale, in questo momento tutti i Brics fanno parte del Consiglio di Sicurezza: Russia e Cina come membri permanenti; Brasile, India e Sudafrica, in attesa di ottenere a loro volto il seggio permanente pur senza diritto di veto che da tempo agognano, come membri eletti. E fa dun-
que cinque. Più il Libano, membro della Lega Araba e presidente di turno del Consiglio, sei. Martedì il ministro degli Esteri dell’Anp ha poi fatto sapere che il Gabon si era deciso a sua volta per il sì, e che dunque “mancano solo due voti”. Anche se la Nigeria non si è ancora pronunciata ufficialmente, sembra però sicuro che anche lei dirà sì. Sarebbe dunque otto.
Sia Nigeria che Gabon sono membri dell’Oic, che si è incaricata di far schierare tutti i suoi aderenti su posizioni pro-palestinesi. In Gabon però gli islamici sono in realtà una mino-
ranza del 12%, e l’adesione all’Oic è stata un’idea di Omar Bongo, padre e predecessore dell’attuale presidente, dopo essersi a sua volta convertito. In effetti, sarebbe stata più importante una pressione dell’exmadrepatria Francia, e gli osservatori davano come presumibile un voto del Gabon in armonia con quello francese. Solo che Parigi ancora non ha deciso. Gli Stati Uniti, però, sono al momento l’unico no sicuro. Né i due membri Ue permanenti del Consiglio, cioè Regno Unito e Francia, né i due membri eletti, Germania e Portogallo, hanno al momento ancora veramente chiarito che faranno. Il governo del regno Unito, diviso tra le posizioni filo-israeliane dei conservatori e quelle filo-palestinesi dei liberali, è indeciso. Per la Francia il ministro degli Esteri Alan Juppé ha fatto capire che non è molto favorevole alla richiesta palestinese: ma d’altra parte Sarkozy vuole sempre essere protagonista, anche in chiave pre-elettorale; e in questo momento vorrebbe mettersi in evidenza facendo accettare all’Anp una soluzione di compromesso che le darebbe un seggio da osservatore tipo la Santa Sede.
La Germania ha problemi evidenti ad assumere una posizione anti-israeliana, e il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha mostrato di non gradire il tipo di campagna che l’Anp ha fatto per ottenere il riconoscimento: ma neanch’essa ha ancora detto apertamente che voterà no, nella speranza
all’Ue la Bosnia-Erzegovina punta ad essere ammessa. Tant’è che adotta addirittura già l’euro come propria valuta. Insomma, il governo di Sarajevo dovrebbe seguire le indicazioni europee. Se queste non arrivano, è abbastanza verosimile una sua astensione. Il conteggio finale, dunque, sarebbe otto sì, un no, sei astensioni. Il minimo indispensabile per risparmiare agli Usa di dover esercitare il suo diritto di veto. Ma tutto è sul filo del rasoio. E proviamo ad esempio a pensare alla crisi del Portogallo, e al modo in cui invece il Brasile sta pensando di accorrere in aiuto alla sua ex-madrepatria, e al tipo di pressione che su Lisbona ne potrebbe venire in favore di un voto pro-Anp.
Da ultimo, un appello autorevole all’Ue a prendere una posizione in favore dell’ammissione dell’Anp all’Onu è stato formulato da due membri di grido della giunta direttiva del Consiglio europeo di Relazioni estere. Uno è Martti Ahtisaari: ex-presidente di Finlandia e Premio Nobel per la Pace. L’altro è Javier Solana: già ministro degli Esteri spagnolo, segretario generale della Nato e altro rappresentante dell’Ue per la politica estera e la sicu-
Undici ragioni per far decidere l’Ue a favore dell’Anp sono state elencate da due membri di grido del Consiglio europeo: Martti Ahtissari, premio Nobel per la Pace, e Javier Solana una parte, dunque, Chávez ha effettivamente iniziato a cooperare alla lotta anti-Farc, estradando in Colombia vari leader guerriglieri. Dall’altra, Santos ha ritirato l’offerta di basi militari agli Usa. Ma così ha anche contribuito a distendere le relazioni con gran parte dei Paesi confinanti, e sebbene non li abbia seguiti sul percorso del riconoscimento dello Stato palestinese, tuttavia probabilmente non intende neanche tornare a fare la figura “dell’amerikano”, come si diceva da noi negli anni ’70. Conclusione: ha annunciato l’astensione. Un po’ a sorpresa, perché il suo no veniva dato quasi per sicuro. La chiave di tutto, dunque, resta la Bosnia-Erzegovina. Che è un Paese a maggioranza relativa islamica, e membro osservatore dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica. Ma si tratta anche di un Paese confederale, la cui componente serbo-bosniaca è fortemente ostile a un’ammissione della Palestina all’Onu, nel timore di determinare un precedente per il Kosovo. D’altra parte, se è forte la gratitudine dei musulmani per l’appoggio ricevuto negli anni ’90 dal mondo islamico, di fatto a salvare i bosniaci dal genocidio ed a permettere oggi alla Bosnia-Erzegovina di funzionare è stato l’intervento massiccio e diretto di Nato e Ue, e
rezza. Secondo loro, ci sarebbero undici ragioni per far decidere l’Ue ad agire nel senso da loro raccomandato. Primo: mantenere il principio dei “due popoli e due Stati”. Secondo: l’aver già investito oltre un miliardo di euro all’anno di aiuti in questa soluzione. Terzo: il dare un riconoscimento agli sforzi di Mahmud Abbas. Quarto: evitare di esporre l’Europa all’accusa di applicare un doppio standard, di appoggiare i ribelli della Primavera Araba e non i palestinesi. Quinto: evitare che la difesa di interessi e valori europei sia compromessa dall’accusa di ipocrisia. Sesto: togliere le castagne dal fuoco a Obama, che in realtà sarebbe interessato a un riconoscimento, ma non può farlo per ragioni interne. Settimo: dare ai palestinesi nuove opzioni di negoziato. Ottavo: riconoscendo i palestinesi nei confini del 1967, rafforzare anche la legittimità dell’esistenza di Israele negli stessi confini. Nono: prevenire un sentimento di frustrazione che potrebbe precipitare in una nuova Intifada e forse anche una nuova offensiva terrorista. Decimo: non si tratta di dare riconoscimento, ma solo di elevare lo status di una rappresentanza Onu già esistente. Undicesimo: mostrare una buona volta che l’Europa riesce a prendere decisioni.
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Ancora una volta, culture diverse e lontane si sono incontrate in totale libertà per parlare delle modalità della ricerca di Dio
Il Signore e i suoi “fratelli” Al monastero di Bose, il XIX Convegno Ecumenico di Spiritualità Ortodossa di Sergio Valzania leppo, Antiochia, Bursa, Damasco, Petra, Sinai sono i nomi antichi dei luoghi dai quali provengono alcuni dei partecipanti al XIX Convegno Ecumenico di Spiritualità Ortodossa che si è svolto dal 7 al 10 settembre presso il Monastero di Bose, in Piemonte. A questi nomi si affiancano quelli più familiari di Washington, Mosca, Salonicco, Roma, Oxford, Lisbona, San Pietroburgo, Kiev, Istanbul e quelli esotici di Sendai, in Giappone, Saidnaya, in Siria, Riga, in Lettonia, Astana, in Kazakistan. La benedizione del mattino, al termine delle laudi, è stata impartita spesso in arabo, da Georges, metropolita del Monte Libano. Ancora una volta si è ripetuto il piccolo
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che poco avrebbe a che fare con la tradizione ortodossa se non fosse per la comunità sorta negli ultimi decenni attorno alla figura di Enzo Bianchi e per il lavoro di ricerca che essa svolge sul significato e la pratica del monachesimo.
Quest’anno il tema del convegno è stato di particolare impegno: La Parola di Dio nella Vita Spirituale. Il vangelo di Giovanni si apre con l’affermazione “In principio era il Verbo”, ossia la parola di Dio, e subito dopo aggiunge “il Verbo era Dio”. Quando rifiuta la tentazione del diavolo nel deserto Gesù ricorda che “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, una citazione dal Deutero-
Quest’anno il tema del fervido confronto è stato di particolare impegno: «La Parola di Dio nella Vita Spirituale». Che per i cristiani si manifesta tutti i giorni come nutrimento necessario per vivere e grande miracolo di persone provenienti da società diverse e lontane che si incontrano per parlare, nella massima libertà, delle modalità della loro ricerca di Dio, all’interno delle chiese ortodosse e in dialogo con il resto della cristianità.
Ancora una volta ci si stupisce che tutto questo avvenga in Italia, sulle Prealpi, in un luogo
nomio. La parola di Dio si manifesta quindi per i cristiani come nutrimento necessario, una delle fondamentali ricchezze dell’umanità: a fianco dei sacramenti e della chiesa è uno strumento necessario alla salvezza. A questo punto sorgono però i dubbi e gli interrogativi. Qual è la vera parola di Dio? Come possiamo e dobbiamo usarla? Chi la deve custodire?
Esiste una lingua, o più lingue sacre, nelle quali si esprime il linguaggio di Dio? Si può, e si deve, fissare in modo univoco il testo divino? Infine, ma soprattutto, chi e come è autorizzato a interpretarlo, a individuarne il significato? Sono questioni sulle quali la chiesa si interroga fin dalla sua nascita e gli uomini si sono troppe volte divisi. Già nei primi secoli del cristianesimo, i padri della chiesa si orientavano verso la scuola di Alessandria, favorevole a un’interpretazione allegorica delle scritture, o a quella di Antiochia, indirizzata piuttosto verso una lettura più letterale.
Una opposizione che così descritta non dà ragione della realtà storica se si considera che Origene, massimo rappresentante della scuola alessandrina, fu un filologo attento e profondo, oltre che un oratore appassionato.
In forme sempre nuove e diverse il problema dell’approccio corretto ai testi sacri ha continuato a riproporsi nel corso di tutta la storia della cristianità. La riforma protestante nasce proprio da un desiderio di prossimità maggiore con le scritture, così spinto da negare la provvidenziale mediazione
della chiesa. A dimostrazione della vitalità della chiesa ortodossa nel mondo, durante il convegno di Bose le due immagini più nette di visioni lontane nella modalità di approccio ai testi sacri sono venute da rappresentanti di comunità attive negli Stati Uniti. Il professor John Fotopoulos ha difeso le ragioni dell’interpretazione storico-critica, evocando le figure di archeologi al lavoro a Qumran, nelle grotte del Mar Morto, alla ricerca di documenti antichi che ci avvicinino all’autenticità delle primissime redazioni della scrittura. Il monaco Christopher Savage ha
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i che d crona
scere l’intenzione originaria dei redattori. Ormai tutti riconoscono il valore meritorio di tale attività, ma nessuno ne accetta la pretesa di esaustività che le sue origini positiviste le assegnavano. Chi ritiene che i testi biblici sono stati scritti sotto l’ispirazione di Dio, pur con una significativa integrazione umana, è infatti rivolto a ricercare al loro interno l’insegnamento divino, a farne strumento utile alla devozione e alla liturgia, più che a conoscere il senso che intendeva dare a essi il redattore originario e quanti hanno operato la serie di interventi successivi ai quali buona parte dei libri della Bibbia sono stati sottoposti nei secoli e nei millenni. Del resto anche la critica letteraria ha acquisito da tempo la consapevolezza del fatto che persino nei testi perfettamente laici spesso l’autore non è consapevole della complessità di senso che ha introdotto nella propria opera. Come diceva Giogio Manganelli, buona parte della scrittura è scrittura automatica.
Meno coinvolto di quello cattolico nelle questioni relativi all’autenticità del testo sacro, il mondo ortodosso si ritrova oggi più vicino alla grande stagione interpretativa della patristica, riconosciuta come sorgente comune di sapienza religiosa da tutte le chiese cristiane, che all’epoca del suo fiorire erano ancora unite. I padri della chie-
Ci si stupisce che questo dialogo avvenga in Italia, in un luogo che poco avrebbe a che fare con la tradizione ortodossa se non fosse per la comunità sorta negli ultimi decenni attorno a Enzo Bianchi raccontato invece della sua comunità che si riunisce persino nella notte per lavorare insieme all’elaborazione di una traduzione dei Salmi più prossima all’autenticità della loro liturgia. Due approcci lontanissimi, ma ambedue corretti, che trovano ciascuno nell’altro la propria giustificazione e un solido sostegno alla ragion d’essere.
Dal convegno è emerso come l’approccio ortodosso alle scritture sia leggermente diverso da quello cattolico, condizionato da una maggior vicinanza fisica e culturale alla tradizione protestante e segnato dall’aver affrontato la crisi del modernismo, suscitata in parte notevole proprio dall’affermazione in Europa dell’interpretazione storico-critica. In sintesi estrema essa propone l’utilizzo delle tecniche della filologia classica e delle scienze che le si sono collegate nell’analisi dei testi biblici, inserendoli nel loro contesto storico, individuando paralleli e raffronti con testi coevi o precedenti del mondo orientale, riflettendo sui generi letterari impiegati di volta in volta e sforzandosi sempre di ricono-
sa furono capaci di affrontare le sacre scritture utilizzando appieno le conoscenze storiche e linguistiche di cui i loro tempi disponevano, nello stesso tempo dimostrarono una grande libertà e una vera e propria gioia nello scavare all’interno dei testi per trarne significati anche divergenti e persino spunti per proposte letterarie parallele. L’inglese Sebastian Brock ha presentato al convegno un passo emozionante di Sant’Efrem il Siro, tratto dal racconto di pura invenzione da lui scritto sull’incontro fra la peccatrice redenta e il mercante di profumi al quale si rivolge per acquistare l’unguento prezioso con il quale intende onorare il Cristo. È proprio Sant’Efrem a spiegare questa leggerezza nell’accostarsi al testo evangelico e questa libertà assoluta nel trarne insegnamento e ispirazione paragonando la scrittura sacra a una fonte alla quale tutti si possono abbeverare fino a placare in modo completo la sete, senza che nessuno possa pretendere di bere tutta la sua acqua. La parola di Dio è rivolta a tutti e a ciascuno di noi e ci nutre in maniera personale e perfetta.
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ULTIMAPAGINA Alcuni componenti del satellite Uars, di ritorno nell’atmosfera nei prossimi giorni, potrebbero finire sul nostro Paese
2011, “Armageddon” di Martha Nunziata i chiama Uars, acronimo che sta per Upper Atmosphere Research Satellite, il vecchio e corposo satellite della Nasa, lanciato in orbita nel 1991, è inattivo dal 2005 e fuori controllo. Potrebbe cadere sulla Terra oggi.Tra gli scenari possibili anche l’ipotesi che alcuni componenti possano precipitare proprio sull’Italia. Uars è uno dei circa 12mila satelliti, civili e militari (dei quali un appena un migliaio ancora in funzione) che orbitano attorno alla terra. E, qualche volta, precipitano su di essa. Come accadrà, o potrebbe accadere, perché le certezze in questo campo non sono mai assolute, stasera, tra le 19.15 e le 5 del mattino di domani, secondo i calcoli della Nasa. Che però, al pari dell’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea, co-titolare del programma di esplorazione spaziale) non è ancora in grado di stabilire con ragionevole certezza la traiettoria di caduta dei frammenti del satellite. Il grosso della struttura dell’Uars, infatti, si disintegrerà al contatto con l’atmosfera, e dovrebbe creare un’esplosione spettacolare, al punto che sarà possibile vederla anche durante il giorno. Ma alcune centinaia di detriti continueranno a precipitare anche una volta all’interno dell’atmosfera, rischiando di abbattersi al suolo. E alcuni di loro, circa 26, potrebbero cadere anche in Italia, in particolare nel Nord. Le regioni in cui potrebbero piombare i pezzi del satellite sono la Val d’Aosta, il Piemonte, la Lombardia, il Trentino Alto Adige, il Veneto, il Friuli, la Liguria e l’Emilia Romagna, in un raggio di 800 chilometri. In realtà, secondo quanto diffuso ieri dagli ambienti della Protezione Civile Italiana e dall’Asi, l’Agenzia Spaziale nazionale, sarà possibile avere informazioni solo poco meno di due ore prima dell’impatto. E solo 20 minuti prima la Nasa sarà in grado di comunicare il luogo preciso della caduta dei frammenti del satellite.
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Non si può neppure sapere di quale tipologia saranno i 26 frammenti previsti. Allo stato delle simulazioni la probabilità che un frammento colpisca il nostro Paese è dello 0,9%, mentre quella che colpisca un essere umano è di 1 su 3200. Sono due, al momento, le traiettorie di caduta individuate: una che taglia tutto il nord Italia e l’altra che invece interesserebbe solo il nord-ovest (qui è possibile seguire in tempo reale la traiettoria della caduta del satellite: www.n2yo.com/?s=21701). Il Dipartimento della Protezione Civile, comunque, non ha previsto nessuna evacuazione dei cittadini che abitano nelle zone del nord Italia che potrebbero essere interessate dalla caduta dei frammenti: «L’evacuazione - ha detto Franco Gabrielli, il capo della Protezione Civile - sarebbe una misura estrema e per il momento si pensa sia immotivata. Ci troviamo di fronte a un evento – ha spiegato Gabrielli – del quale non esiste letteratura perché la stragrande maggioranza di questi frammenti cade in mare o in zone deserte. Stiamo cercando, perciò, di mettere in piedi per la prima volta un sistema di autoprotezione che passa innanzitutto per una informazione trasparente, chiara e tempestiva». Al momento, dunque, ha spiegato ancora Gabrielli, i suggerimenti che vengono dati alla popolazione sono di evitare i luoghi aperti nelle finestre di caduta, di evitare i piani
SULL’ITALIA? alti degli edifici e di porsi sotto le architravi o nelle zone ad angolo delle proprie case e non al centro dei solai.
La caduta di Uars (che, curiosamente, ha “scelto” di precipitare sulla Terra proprio nelle ore cui si festeggia, nel polo di eccellenza aerospaziale di Frascati, la sesta Notte Europea dei Ricercatori, con l’apertura al pubblico del più grande campus scientifico italiano, dove lavorano oltre 3000 scienziati) ha riaperto la questione della “spazzatura spaziale”. La quantità di detriti di vario genere che orbita attorno al
nostro pianeta, infatti, come ha rivelato l’Esa, è imponente, per non dire impressionante: sulle nostre teste volteggiano 500 mila oggetti di varie dimensioni. La maggioranza dei rifiuti spaziali è costituita da ferraglia e da frammenti di satelliti militari, commerciali e scientifici. Tutto il resto, però, è spazzatura: il 31,3 % è costituito da carichi abbandonati, il 16,6 % da pezzi di vettori, il 13 % da oggetti persi nel corso di passeggiate spaziali e infine l’1,3 % dai cosiddetti detriti anomali.
Il problema, forse, sembra però avviato verso la soluzione, grazie a CubeSail, il “cubo spazzino spaziale”, progettato in Inghilterra dal Surrey Space Centrum e dalla Eads Astrium, un cubo di piccole dimensioni (10x10x30 centimetri), che però, una volta lanciato nello spazio, sembra in grado di aprire le sue “vele”, speciali pannelli in polimero, dotati di armatura metallica con una superficie pari a 25 metri quadrati, pensati per sfruttare il vento solare e quindi spostarsi più facilmente per andare a cercare la spazzatura in orbita. Per vedere in azione lo “spazzino spaziale”, però, bisognerà aspettare ancora qualche mese: nel frattempo, soprattutto stasera, sarà meglio evitare passeggiate fuori porta e restarsene a casa. Non si sa mai.
Al momento non ci sono dati certi, ma le simulazioni effettuate dalla Nasa mostrerebbero che, al momento del rientro, 26 frammenti potrebbero raggiungere proprio il nostro suolo
La progressione del satellite in avvicinamento alla Terra. In alto: il Satellite UARS mentre viene rilasciato in orbita, nel 1991, dagli astronauti dello Shuttle Discovery.