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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 24 SETTEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Alcune particelle sparate da Ginevra al Gran Sasso hanno infranto il muro considerato invalicabile dalla fisica
Il passo indietro di Einstein La politica è paralizzata, ma la scienza apre nuove frontiere al mondo Sotto la guida dell’italiano Antonio Ereditato, il Cern arriva a una scoperta rivoluzionaria: i neutrini vanno più veloci della luce. Ora bisognerà ricalcolare la teoria della relatività Nuovo appello di Napolitano per sostenere la crescita
Confindustria in campo per «salvare l’Italia» «Serve una vera discontinuità»: Marcegaglia prepara un documento «per il Paese, non solo per gli imprenditori». Intanto, la crisi globale non dà tregua: al G20 Europa nel mirino Francesco Pacifico • pagina 6
Parla il fisico Remo Ruffini
di Franco Insardà
DEFICIT E DEBITO
CRISI DI SISTEMA
Caro Tremonti, Cara Emma, ecco qual è il grande nemico il tuo vero errore è il bipolarismo di Gianfranco Polillo
di Enrico Cisnetto
on il senno di poi, dobbiamo forse cominciare a pensare che la manovra decisa dal Governo non era quella giusta. Lo diciamo con un pizzico di autocritica, visto che l’idea di anticipare al 2013 il pareggio di bilancio ci aveva suggestionato. Un risultato storico che aveva un come riferimento pressoché unico l’esperienza della Destra storica italiana. Quei pochi anni, all’indomani della costituzione dello Stato unitario, in cui si era costruita un’intelaiatura destinata a durare nel tempo. a pagina 8
eno male. Per quanto urgenti e indispensabili, il combinato disposto tra l’uscita di scena di Berlusconi, e la conseguente caduta di questo governo, e la fine della Seconda Repubblica, non sarebbe stato opportuno che fosse dipeso da un atto della magistratura, come avvenne per la fine della Prima Repubblica. Atto che avrebbe sì equiparato la “casta”alla “gente comune”, come vuole chi accusa Milanese, ma nel perpetuare un’intollerabile atto di “ingiustizia giustizialista”. a pagina 9
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
ROMA. A una velocità maggiore di quella della luce rischiano di crollare tutte le poche certezze esistenti sull’universo. Il Cern di Ginevra e l’Istituto nazionale di fisica nucleare del Gran Sasso hanno riscontrato che i neutrini – particelle scoperte da Enrico Fermi e un milione di volte più piccole degli elettroni – si muovono più veloci della luce di circa 60 nanosecondi. Una scoperta che potrebbe essere rivoluzionaria per le regole della fisica, basata com’è sulle teorie di Albert Einstein, secondo le quali niente nell’universo può superare la velocità della luce. La scoperta è stata «un pugno allo stomaco», ha racconta Dario Autiero, coordinatore dell’analisi fisica dell’esperimento Opera. «Eravamo increduli, perché francamente non ce l’aspettavamo», ha spiega il ricercatore che presenta nel presentare a Ginevra i risultati dell’esperimento insieme a Antonio Ereditato, coordinatore della collaborazione internazionale Opera. «Il primo pensiero che abbiamo avuto era appunto che doveva esserci qualche errore. E infatti abbiamo poi passato sei mesi a fare verifiche. È molto più confortevole nella vita dei ricercatori misurare degli effetti che tutti gli altri si aspettano. Trovare qualcosa di nuovo è più difficile perché poi bisogna provarlo, verificare che non ci siano errori».
NUMERO
a pagina 2
186 •
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• CHIUSO
«Ora parte la sfida al concetto di tempo» «Più si pensa di sapere tutto, più si capisce la natura, più aumentano i brividi sulla schiena. E se davvero i neutrini superluminali esistessero, sarebbe l’inizio di una nuova avventura del pensiero» Francesco Lo Dico • pagina 3
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Storia della particella elementare
L’avventura di un corpo infinitamente piccolo Il neutrino ha una massa fino a un milione di volte inferiore all’elettrone, che a sua volta è 1/1836 di protone e neutrone Maurizio Stefanini • pagina 4
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Cosa aveva previsto la fantascienza
Ma più veloce di tutto è l’immaginazione Già dall’Ottocento i grandi scrittori avevano raccontato i viaggi nel tempo e sulla luna come fossero cose reali Riccardo Paradisi • pagina 5 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 24 settembre 2011
il fatto Resi noti i risultati della ricerca, ma gli scienziati avvertono: occorrono un’indagine più ampia e misure indipendenti
È scappato il neutrino
L’esperimento del Cern, tra Ginevra e il Gran Sasso, guidato da un italiano, rivoluziona la fisica. «Einstein ne sarebbe felice» Un’eccellenza italiana Il Cern, è il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle e fu fondato nel 1954. Ne fanno parte venti paesi e si trova al confine tra Svizzera e Francia alla periferia ovest della città di Ginevra. Il suo scopo principale è quello di fornire ai ricercatori gli strumenti necessari per la ricerca in fisica delle alte energie. Questi sono principalmente gli acceleratori di particelle, che portano nuclei atomici e particelle subnucleari ad energie molto elevate, e i rivelatori che permettono di osservare i prodotti delle collisioni tra fasci di queste particelle. Al Cern, dove oggi ha avuto così grande successo Antonio Ereditato (che, fatalità, insegna all’Albert Einsten Center for Fundamental Physic di Berna), gli italiani hanno sempre avuto grande peso. A cominciare da Carlo Rubbia che ne è stato Direttore Generale dal 1989 al 1994.
ROMA. A una velocità maggiore di quella della luce rischiano di crollare tutte le poche certezze esistenti sull’universo. Il Cern di Ginevra e l’Istituto nazionale di fisica nucleare del Gran Sasso hanno riscontrato che i neutrini – particelle scoperte da Enrico Fermi e un milione di volte più piccole degli elettroni – si muovono più veloci della luce di circa 60 nanosecondi. Una scoperta che potrebbe essere rivoluzionaria per le regole della fisica, basata com’è sulle teorie di Albert Einstein, secondo le quali niente nell’universo può superare la velocità della luce.
La scoperta è stata «un pugno allo stomaco», ha racconta Dario Autiero, coordinatore dell’analisi fisica dell’esperimento Opera. «Eravamo increduli, perché francamente non ce l’aspettavamo», ha spiega il ricercatore che presenta nel
di Franco Insardà presentare a Ginevra i risultati dell’esperimento insieme a Antonio Ereditato, coordinatore della collaborazione internazionale Opera. «Il primo pensiero che abbiamo avuto era appunto che doveva esserci qualche errore. E infatti abbiamo poi passato sei mesi a fare verifiche. È molto più confortevole nella vita dei ricercatori misurare degli effetti che tutti gli altri si aspettano.Trovare qualcosa di nuovo è più difficile perché poi bisogna provarlo, verificare che non ci siano errori».
Il risultato si deve alla collaborazione internazionale Opera, che ha analizzato oltre 15.000 neutrini tra quelli che, una volta prodotti dall’acceleratore del Cern Super Proton Synchrotron, percorrono i 730 chilometri che separano il Cern dal Gran Sasso. I dati dimostra-
no che i neutrini impiegano 2,4 millisecondi per coprire la distanza, con un anticipo di 60 miliardesimi di secondo rispetto alla velocità attesa. L’analisi dei dati, raccolti negli ultimi tre anni, dimostra che i neutrini battono di circa 20 parti per milione i 300.000 chilometri al secondo ai quali viaggia la luce.
Gli scienziati, ovviamente, continueranno a discutere e a realizzare nuovi test per validare i risultati raggiunti fino ad oggi. «Tenendo conto delle straordinarie conseguenze di questi dati, - avvertono i due Enti di ricerca - si rendono necessarie misure indipendenti prima di poter respingere o accettare con certezza questo risultato». Per questo motivo i responsabili della ricerca hanno deciso di sottoporre i risultati a un esame più ampio nel-
la comunità scientifica. «Questo risultato è una completa sorpresa» ha commentato Ereditato. «Dopo molti mesi di studi e di controlli incrociati, non abbiamo trovato nessun effetto dovuto alla strumentazione in grado di spiegare il risultato della misura. Continueremo i nostri studi e attendiamo misure indipendenti - ha aggiunto Ereditato - per valutare pienamente la natura di queste osservazioni. Il potenziale impatto sulla scienza è troppo grande per trarre conclusioni immediate o tentare interpretazioni».
Secondo il direttore di ricerca del Cern, Sergio Bertolucci, quando «un esperimento si imbatte in un risultato apparentemente incredibile e non riesce a individuare un errore sistematico che abbia prodotto
quella misura la procedura standard è sottoporlo a una più ampia indagine. Esattamente ciò che sta facendo la collaborazione Opera: è una corretta pratica scientifica. Se questa misura fosse confermata potrebbe infatti cambiare la nostra visione della fisica, ma dobbiamo essere sicuri che non esistano altre, più banali, spiegazioni. Ciò richiederà misure indipendenti». Secondo l’astrofisica Margherita Hack si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione perché ha osservato «finora tutte le previsioni della teoria della relatività sono state confermate».
Per compiere questo studio, Opera ha collaborato con esperti nel campo della metrologia del Cern e altre istituzioni per eseguire una serie di misurazioni di alta precisione della distanza tra la sorgente e il rivelatore, e del tempo di volo dei
prima pagina
24 settembre 2011 • pagina 3
l’intervista
«Sfida al concetto di tempo» Il fisico Remo Ruffini: «Se sarà confermato, bisognerà ripensare tutto» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Attualmente io e miei collaboratori siamo impegnati nello studio della formazione di alcuni buchi neri risalenti ad oltre dieci miliardi miliardi di anni fa. Più si capisce la natura, e più aumentano i brividi sulla schiena anche quando si pensa di conoscere ormai tutto. E se davvero i neutrini superluminali esistessero, sarebbe l’inizio di una nuova e affascinante avventura del pensiero». Presidente dell’International Centre for Relativistic Astrophysics (ICRA), da oltre trent’anni professore di Fisica teorica all’università La Sapienza di Roma, Remo Ruffini è semplicemente uno dei più importanti scienziati italiani viventi. E bastano poche parole, per avvertire che è ancora uno dei più entusiasti, nonostante l’attività incessante che da quasi mezzo secolo lo spinge ad esplorare i misteri dell’universo. Il “papà dei buchi neri”, come lo chiama familiarmente la comunità scientifica internazionale in virtù dei suoi studi sull’argomento di enorme portata, ha mantenuto intatta la passione e la voglia di mettersi in gioco. Professore, è già arri-
vato il momento di trarre scientifiche conseguenze dall’incredibile notizia proveniente dal Cern, o per il momento dobbiamo “limitarci”a sognare? È ancora prematuro attribuire una valenza definitiva ai risultati provenienti dal Cern. Per stabilire che le particelle in viaggio da Ginevra al Gran Sasso abbiano viaggiato a una velocità più alta di quella della luce sono necessarie ulteriori verifiche delle sincronizzazioni. Ma di certo, se la compagine scientifica che ha curato l’esperimento sarà solidale nel pubblicare i parametri che hanno presieduto all’operazione, il “caso neutrino” sarà di grande stimolo per tutti. Ma se verrà confermata l’esistenza di neutrini più veloci della luce, quali saranno le ricadute sulla fisica? Se dovessimo assumere che la velocità del neutrino sia davvero superiore a quella della luce, ci troveremmo senz’altro di fronte a una violazione della fisica fondamentale. Ma ribadisco che occorre cautela. Bisogna prima appurare che non siano stati violati piuttosto i parametri prescritti dall’esperimento. E che cosa potrebbe cambiare invece in termini tecnologici? La scienza è per sua natura situata sempre in avanscoperta, volta ai limiti del possibile e del progresso. È la fisica che conosciamo ad aver consentito la genesi di tutti i processi tecnologici di cui ci serviamo. Strumenti come il Gps sono l’apoteosi delle leggi della fisica. E la presenza di neutrini su-
neutrini. L’esperimento Opera è stato inaugurato nel 2006, con l’obiettivo principale di studiare la trasformazione rara (oscillazione) dei neutrini muonici in neutrini tau. Il primo di questi eventi è stato osservato nel 2010, dimostrando la capacità unica di questo esperimento nella rilevazione del segnale sfuggente dei neutrini tau.
numero di scienziati, ingegneri, tecnici e studenti, e con il forte impegno dei vari attori del progetto. In particolare compaiono i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn, i laboratori del Cern, e il sostegno finanziario di Italia e Giappone con il contributo sostanziale di Belgio, Francia, Germania e Svizzera.
Opera è stato ideato ed è
sono state raccontate da Dario Autiero: «Abbiamo sincronizzato la misura dei tempi tra il Cern e il Gran Sasso con un’accuratezza al nanosecondo e abbiamo misurato la distanza tra i due siti con una precisione di 20 centimetri. Dopo molti mesi di studi e di controlli incrociati,
Le fasi salienti della ricerca condotto da un team di ricercatori provenienti da Belgio, Croazia, Francia, Germania, Israele, Italia, Giappone, Corea, Russia, Svizzera e Turchia. L’esperimento costituisce una complessa impresa scientifica realizzata grazie da un gran
“
perluminali non farebbe che spostare in avanti i limiti inseguiti dalla scienza in modo incessante. Specie perché il neutrino ha un ruolo determinante nel progresso delle nostre conoscenze. Ci spieghi pure. I precedenti esperimenti sulle Supernovae non avevano mai dato risultati simili a quelli riscontrati al Cern. Ma è sempre più evidente che il neutrino, che in apparenza si presenta come una particella piccolissima e quasi irrilevante, si stia dimostrando al contrario la possibile chiave di volta dell’universo. Oggi sappiamo infatti che il neutrino è alla base della materia oscura. Ed
« La particella superluminale sarebbe un’ulteriore conferma: il neutrino è la chiave di volta dell’universo
”
è un onore precisare che molte delle preziosissime conoscenze acquisite dalla scienza in merito a questa particella, parlano la lingua italiana. È la scuola di Roma ad aver aperto preziosi squarci su quella che è la più piccola e forse la più sorprendente tra le entità fisiche conosciute dall’uomo fino ad oggi. Per capire quanto fascino eserciti il neutrino, basta tornare a dare un’occhiata allo splendido documentario che ebbi a fare con Claudio Sestieri, andato in onda qualche tempo fa su Rai3: “Il caso neutrino”. Dobbiamo ritenere compromessa la teoria della realitività di Einstein, come ha detto qualcuno? Se davvero esistesse “una velo-
non abbiamo trovato nessun effetto dovuto alla strumentazione in grado di spiegare il risultato della misura. Nonostante le nostre misure abbiano una bassa incertezza sistematica e un’elevata accuratezza statistica, e che la fiducia riposta nei nostri
cità più veloce della luce”, la teoria della relatività resterebbe comunque valida, in quanto la -cche nella famosa formula di Einstein indica la velocità della luce espressa in metri al secondo, assumerebbe invece come punto di riferimento la velocità registrata dai neutrini superluminali. Ma diventerebbe molto interessante, inoltre, cercare di capire perché a certe condizioni, la propagazione della luce è più lenta di quella del neutrino che pure è dotato di una massa. Una differenza che potrebbe spingerci a tentare di ridefinire, di sottoporre a una nuova indagine, la natura del vuoto. È il momento della domanda più ingenua ma anche più eccitante. Se esistono particelle più veloci della luce, è teoricamente possibile viaggiare nel tempo? Sappiamo bene dalla teoria della relatività che non esiste un tempo assoluto, e che lo scorrere del tempo dipende dal sistema di riferimento in cui lo si misura. Se sulla terra vi sono due gemelli, e uno parte per un viaggio interstellare di andata e ritorno per una stella lontana, mentre l’altro rimane ad aspettarlo sulla terra, il gemello viaggiatore risulterebbe, una volta tornato sulla terra, molto meno vecchio di quello rimasto ad attenderlo. È il famoso paradosso dei gemelli. È una questione che non resta confinata al semplice campo teorico. Molti esperimenti rilevano che i tempi di decadimento delle particelle subatomiche aumentano, quando le particelle viaggiano nel laboratorio a velocità prossime a quelle della luce. Aspetti professore. Era un sì? È un sì. Ma per il momento resta un sì teorico.
Fermilab statunitense spara neutrini verso la miniera Soudan Mine, nel Nord del Minnesota, a verificare i sorprendenti risultati osservati dall’esperimento Opera. Gli scienziati americani, infatti, già qualche mese fa avevano visto segnali
Petronzio, con soddisfazione ha dichiarato: «Come molte altre volte nella storia della scienza, si è arrivati a un’osservazione sorprendente partendo da un esperimento che cercava tutt’altro. Le evidenze statistiche raggiunte dall’esperimento hanno spinto a pubblicare i dati, diventa ora essenziale ripeterlo in altre condizioni. Del resto, al Gran Sasso abbiamo un’altra situazione analoga. L’esperimento Dama sulla materia oscura ha una evidenza statistica positiva schiacciante, e a questo punto si attendono nuove conferme statistiche indipendenti».
Il presidente dell’Infn, Roberto Petronzio: «Come altre volte nella storia della scienza, si è arrivati a un’osservazione sorprendente partendo da un esperimento che cercava altro» risultati sia alta, siamo in attesa di confrontarli con quelli provenienti da altri esperimenti». Potrebbe essere l’esperimento Minos (Main Injector Neutrino Oscillation Search), che dal
molto simili a ciò che ha osservato Opera ma, avendo tecnologie meno potenti di Opera non hanno potuto confermare il loro risultato. Il presidente dell’Infn, Roberto
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l’approfondimento
Storia della particella elementare, dai veri esperimenti dei primi del Novecento alle finte rappresentazioni cinematografiche
Infinitamente piccolo L’esistenza del neutrino si “sospettava” già dal 1930. Ma è solo nel ’56 che Cowan e Reines la dimostrarono. Le sue caratteristiche: una massa sprovvista di calore, da 100mila a un milione di volte inferiore all’elettrone di Maurizio Stefanini
ia, più veloci della luce!», gridava Superman. Il neutrino ci permetterà di emularlo? Si aspetta che i risultati dell’esperimento vengano riprodotti da altri laboratori, americani e giapponesi. Ma proprio in Italia, dopo tre anni di ricerche in collaborazione, un fascio di neutrini partito dal Cern di Ginevra è arrivato al Laboratorio del Gran Sasso dopo 730 km di corsa, con 20 metri di vantaggio sulla luce. C’era stato il terremoto all’Aquila, e dunque sono stati fatti ulteriori sei mesi di controlli, ma il risultato finale è stato identico: il neutrino è più veloce del massimo che la fisica moderna gli aveva finora imposto. E non solo al neutrino. Che, forse è arrivato il momento di presentarlo, è in effetti una particella elementare con una massa da 100mila a un milione di volte inferiore all’elettrone, che a sua volta è 1/1836 di protone e neutrone, pesanti 1,6726231 x 10-27 kg. Sprovvisto sia di carica elettrica che di calore, il neutrino può però interagire attraverso la forza nucleare
«V
debole e la forza di gravità. Ma in modo così debole, che ci vorrebbe un muro di piombo spesso un anno luce per bloccare la metà dei neutrini che lo attraversano.
L’idea della sua esistenza venne nel ’30 a Wolfgang Pauli, per risolvere un problema che si riscontrava nell’osservare il decadimento dei neutroni, da cui in teoria avrebbero dovuto venire un protone e un elettrone. Ma invece della relativa riga risultava uno spettro completo che partiva da 0, saliva, raggiungeva un massimo e quindi ritornava ad annullarsi, in corrispondenza di un valore massimo circa 5 volte e mezza la massa dell’elettrone. Poteva esserci un terzo corpo a impulso nullo, a complicare i dati? Nel ’34 fu dunque Enrico Fermi a coniarne il nome: neutrino, cioè neutro come il neutrone, ma molto più piccolo. Ma solo nel ’56 Clyde Cowan e Fred Reines ne verificarono l’esistenza, quando un esperimento eseguito al reattore a fissione di Savannah River mostrò reazioni indotte proprio da neutrini liberi. Studi successivi hanno smen-
tito che fossero i neutrini i responsabili della materia oscura, se non in proporzione insignificanti.Ma in compenso nel 1987 si sperimentò che effettivamente la gran parte dell’energia di una supernova collassante viene irradiata in forma di neutrini: prodotti in quantità notevole quando i protoni e gli elettroni del nucleo si combinano a formare neutroni. Torniamo però a Bomba: cioè, alla luce. Si imparava appunto a scuola che la sua 299.792, 458 km al secondo abitualmente arrotondato in
Fu Fermi a dargli il nome: neutro come il neutrone, ma più piccino
300.000 e indicato con c, non potrebbe mai essere superata. Lo aveva detto Albert Einstein, basando su questo postulato tutte le sue teorie: in particolare, quella della relatività ristretta. Al massimo, è possibile il famoso paradosso dei gemelli.
Un’astronave parte dalla Terra con a bordo un gemello, e a velocità costante raggiunge una stella a 8 anni luce dalla Terra, per poi tornare indietro e riabbracciare il gemello che invece è restato sulla Terra. Se è andato a 240mila km all’ora, cioè 0,8 c, per via del sistema di relatività ristretta il tempo per lui è andato al 60% rispetto al tempo del fratello. Quindi per lui sono passati solo 12 anni, contro i 20 del fratello, ora di 8 anni più vecchio. E la teoria della relatività generale spiega che all’aumento dell’accelerazione che un osservatore avverte, il suo orologio rallenta in proporzione. La conseguenza? Sarebbero impossibili civiltà interstellari basate su una comunicazione continua tra i vari “nodi”dell’Universo, come quelle immaginate da Star
Wars, Star Trek o Stargate. In Star Wars, infatti, l’ostacolo alla velocità della luce viene aggirato attraverso l’iperspazio: concetto introdotto in matematica da Arthur Cayley nel 1867, trasposto in letteratura da Howard Phillips Lovecraft nel 1933, applicato alla fantascienza nel 1934 da Jack Williamson, e popolarizzato soprattutto dalle saghe di Isaac Asimov. Ovvero, una specie di “foglio di universo”nel quale le normali leggi della fisica non sembrano valere più. L’esempio che viene fatto è quello dei due punti su due punti opposti di un foglio di carta, che possono essere distanti, ma vengono ravvicinati se il foglio viene piegato. Allo stesso modo, due punti in uno spazio a tre dimensioni possono apparire molto distanti, ma gli stessi punti in un iperspazio con un numero superiore di dimensioni potrebbero essere collegati da una traiettoria di lunghezza più breve. Si teorizza anche l’esistenza nell’iperspazio dei tachioni, per i quali la velocità della luce non sarebbe il limite verso l’alto sopra il quale non potrebbero andare, ma il limi-
Già dall’Ottocento i grandi scrittori avevano preconizzato i viaggi nel tempo e sulla luna
Più veloce della luce? È stata la fantascienza
Per il filosofo della scienza Giorello «potremmo avere astronavi per esplorazioni oltre il nostro sistema solare» di Riccardo Paradisi iù veloce della luce e dello stesso neutrino, che secondo le ipotesi formulate in queste ore dei fisici del Cern sembra averla superata, è sempre stata l’immaginazione umana. Le cui visioni, come in translucido, hanno anticipato spesso e clamorosamente gli scenari del futuro: si pensi solo alle città e alle macchine del futuro intuite dal genio di Jules Verne, a metà dell’Ottocento – dal sommergibile nucleare allo sbarco sulla luna – visioni che poi la modernità s’è fatta appunto carico di realizzare anche se con meno epica e minore poesia.
P
Ora questa storia del neutrino che infrangerebbe la velocità della luce con i suoi 299.792,458 chilometri al secondo – evento che secondo il Cern di Ginevra potrebbe cambiare radicalmente numerosi dei nostri assiomi contemporanei a partire dalla teoria della relatività di Albert Einstein – sembra dare conforto e prospettive alle suggestioni che hanno sempre intrigato la psiche umana. Come appunto il sogno e il desiderio di viaggiare lungo l’asse del tempo oltre i confini della propria limitata esistenza, verso il più remoto passato e il più lontano futuro, lontano comunque dal sempre prosaico presente. Il luogo dal quale gli uomini cercano in fondo sempre di fuggire. Certo questa scoperta, ancora da verificare, come ha spiegato il filosofo della scienza Giulio Giorello non avrà un impatto sulla nostra vita quotidiana, che funziona con la cara vecchia meccanica newtoniana: spazi, tempi, e anche le comunicazioni viaggiano qui a velocità molto piccole rispetto a quelle della luce. E anzi ordinariamente la velocità di viaggio negli ingorghi delle metropoli segna un passo indietro rispetto ai sogni di velocizzazione novecenteschi dell’esistenza. «In un futuro piuttosto lontano però – dice Giorello – qualche effetto ci potrebbe invece essere. Se davvero si potesse superare la velocità della luce potremmo infatti avere astronavi per l’esplorazione dell’universo lontano, fuori dal Sistema Solare». Una pista che la fantascienza ha già abbondantemente esplorato raccontando di come astronauti che hanno superato la velocità della luce una volta tornati sulla terra si sono accorti che mentre per loro erano passati pochi mesi per i loro coetanei erano passati decenni. Ma la fantascienza ha battuto anche la via del viaggio nel tempo - tra tutti La macchina del tempo di Orson Wells – al quale in pura teoria potrebbe appunto aprire la scoperta del Cern. «Siamo di fronte a qualcosa di veramente straordinario, osserva John Ellis, fisico teorico al Cern. Il superamento della teoria della relatività implicherebbe infatti addirittura la possibiltà delle traversate interstellari e dei viaggi nel tempo.
Il problema della possibilità anche soltanto teorica di viaggiare nel tempo è in effetti legato alla teoria della relatività formulata da Einstein. Lo scienziato sosteneva come non sia possibile per un qualsiasi oggetto muoversi a una velocità maggiore di quella della luce. Un assioma che apre a un principio di causalità per il quale nessun effetto può aver luogo prima che si sia manifestata la sua causa. La trasmissione di informazioni nello spazio non può avvenire dunque a maggiore velocità della luce escludendo la possibilità di invertire l’ordine degli eventi, di viaggio nel tempo insomma. Prima di quello del Cern però c’erano già stati degli esperimenti condotti in un periodo successivo rispetto alla formulazione della teoria della relatività che sembravano suggerire come in particolari condizioni, si potesse avere una propagazione di informazione più rapida rispetto alla velocità della luce.
Una scoperta che cambia la nostra visione del mondo
Esperimenti fino ad oggi
confutati dalla dimostrazione di errori di osservazione. Tra tutte la confutazione data da un esperimento avvenuto recentemente in un laboratorio di Hong Kong dove si dimostrava che un singolo fotone, l’elemento costitutivo elementare della luce non si muoveva a velocità maggiore di quella della luce obbedendo dunque alla legge di Einstein. Ora la sorpresa del neutrino apre ad altre ipotesi che farebbero sembrare addirittura plausibili congetture finora relegate nel campo fantascientifico. Suggestioni certo, ma d’altra parte la scienza stessa muove da suggestioni e intuizioni. E la stessa vita, come diceva Borges, appartiene al genere fantastico.
te verso il basso sotto il quale non potrebbero scendere. Stargate è invece un esempio del concetto di wormhole: un “tunnel spaziale”, spesso ma non sempre identificabile con un buco nero, che può essere usato come scorciatoia. Star Trek utilizza entrambi i sistemi: propulsione a curvatura per raggiungere remoti sistemi stellari in pochi giorni o talvolta poche ore; tunnel spaziali per viaggiare addirittura in quadranti diversi della nostra galassia.
La genesi stessa della propulsione a curvatura, la warp drive, è il plot del film Star Trek: Primo contatto, in cui si fissa al 5 aprile 2063 la data del primo viaggio interstellare con il motore inventato dal dottor Zefram Colchrane, attraverso il quale viene per la prima volta contattata una civiltà extraterrestre: i famosi vulcaniani con le orecchie appunta, popolo del Dottor Spock. Fonte dell’enorme quantità di energia necessaria a raggiungere la velocità di curvatura: il reattore materia/antimateria a cristalli di dilitio, che forma attorno all’astronave forze contrapposte capaci di curvare lo spaziotempo davanti e dietro, fino a permettere al mezzo di saltare nel subspazio e raggiungere la destinazione in minor tempo. Come una formica che viaggia su un elastico che venga accorciato davanti a essa e allungato dietro. Senza questi marchingegni, però, il viaggio nello Spazio sarebbe possibile solo a patto di costruire astronavi in cui possano susseguirsi varie generazioni; o in cui si collochino astronauti ibernati; o addirittura mettendovi ovuli da fecondare in tempo per far nascere, crescere e istruire l’equipaggio: evidentemente, da robot e computer. Ma così ovviamente si colonizza, forse, lo Spazio. Non si crea una civiltà interstellare. È la stessa differenza che passa tra gli antenati siberiani degli indiani d’America che passarono lo Stretto di Bering e furono separati per millenni dagli uomini restati nel Vecchio Mondo, e il viaggio di Cristoforo Colombo. Oppure, se l’astronave si mette a
correre veramente veloce, si può verificare il Paradosso dei Gemelli, che è anch’esso un plot caratteristico dalla fantascienza: da Mondo senza fine al Pianeta delle scimmie romanzo (il film sceglieva invece la soluzione degli astronauti ibernati). L’astronauta che parte, e torna in un mondo in cui non solo tutti i suoi coetanei sono ormai morti da tempo, ma è diventato completamente irriconoscibile. Che sarebbe poi un modo scientificamente plausibile per fare un viaggio nel tempo: ma senza possibilità di ritorno. Il neutrino più veloce della luce, ovviamente, comporterebbe nell’immediato una completa rivoluzione della fisica. Un risultato straordinario che spiega il perché, avvertono al Cern e al Gran Sasso, non bastino le conferme ordinarie, ma si stia cercando una conferma straordinaria. D’altra parte, un conto è la possibilità teorica di viaggiare oltre la velocità della luce. Un conto è riuscirci davvero: lo stesso paradosso dei gemelli è già possibile in teoria, ma in pratica irrealizzabile con i poveri strumenti di propulsione che abbiamo. Eppure, già la rimozione dell’ostacolo teorico basta a far sognare scenari da vertigine: dal viaggio stellare, appunto, a quello nel tempo. Isaac Asimov nel 1956 scrisse addirittura un racconto il cui titolo originale in inglese significata
Il passato morto e in italiano è noto come Il cronoscopio, in cui immagina i neutrini in grado di viaggiare nel passato, in modo da offrirne una visione come in un cinema o in una televisione. Ma ne veniva fuori un incubo, più che un sogno. Poiché le richieste di usare il cronoscopio sono stranamente contingentate, uno storico di Cartagine furibondo convince uno scienziato a costruirgliene uno in casa. E troppo tardi, quando ormai hanno diffuso il segreto, scopriranno la ragione per cui il governo cercava di tenere quella scoperta nella maggior ombra possibile. Caricandosi di “scariche” durante il viaggio nel passato, infatti, il neutrino offusca l’immagine, in modo che oltre i 125 anni non si vede più niente. Ma poiché il passato inizia esattamente una frazione di secondo fa, il cronoscopio è in realtà un terrificante strumento che permette a ogni uomo di spiare il suo prossimo.
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ROMA. Il governo traccheggia sul piano per lo sviluppo. Confindustria e le altri associazioni datoriali, invece, sono pronte a presentare «un manifesto per salvare l’Italia». L’ha annunciato ieri Emma Marcegaglia incontrando gli imprenditori toscani riuniti a Firenze.
Il nodo resta la crescita, che l’esecutivo sembra aver dimenticato. Un richiamo condiviso anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha ricordato all’esecutivo: «L’Italia si sta cimentando con precisi impegni di riequilibrio finanziario, ora deve affrontare senza indugio la sfida del tornare a crescere, del crescere di più e meglio, del crescere uniti, anche con l’assillo di dare una scossa al muro della disoccupazione giovanile». Toni diversi di quelli usati dalla Marcegaglia. Che,esasperata da un esecutivo nella cui «manovra non c’è niente che riduca la spesa dello Stato», da «uno stallo nel quale si vivacchia e ci si limita a fare qualche piccola manutenzione», ha promesso una terapia choc per mettere la classe politica davanti alle proprie responsabilità con «un documento che dica quali sono per noi le riforme da fare». Indirettamente Giulio Tremonti le replica che a questo punto «la soluzione si trova solo se la Germania definisce una posizione meno incerta e mostra il coraggio la forza e la visione di investire di più sull’Europa, per il bene dell’Europa e della Germania stessa». Ma le paro-
la crisi economica
Napolitano: «Dopo il riequilibrio finanziario ora va affrontato il nodo dello sviluppo»
Confindustria scende in campo Marcegaglia prepara «un manifesto per tutti, non solo per le imprese». «Serve discontinuità. E serve velocemente per tornare a crescere» di Francesco Pacifico
le dell’imprenditrice mantovano riportano l’Italia al 1993, quando industria, sindacati e banche dovettero supplire alle mancanza della politica. Quasi vent’anni fa da questo patto scaturirono gli accordi sulla politica dei redditi, senza i quali Carlo Azeglio Ciampi non avrebbe mai imbrigliato l’inflazione e costretto i tedeschi ad accoglierci nell’euro. Oggi si lavora a una serie di misure che affrontino i nodi strutturali del Paese anche con un orizzonte culturale più lungo. Anche l’altra sera ricevendo
la Legion d’Onore a Palazzo Farnese, Emma Marcegaglia ha smentito velleità politiche. Ma il suo manifesto finisce soprattutto per trasformarsi in una sonante bocciatura del governo.
Una scelta non a caso amplificata quando l’unico ministro sensibile alla salvaguardia delle finanze pubbliche, Giulio Tremonti, appare sempre più isolato dal partito della spesa. Soprattutto la “rivolta” delle imprese arriva con i mercati ancora titubanti sul rischio Italia – gli spread tra Bund e Btp
hanno veleggiato sopra i 400 punti per scendere a quota 390 – e con le autonomie costrette ad accollarsi compiti che esulano dalle proprie competenze. «Con l’ultima manovra», ha spiegato il leader dei governatori Vasco Errani, «il Paese si ferma. Anche il governo ne ha preso atto dunque si deve procedere a una verifica punto per punto e correggere quello che non sta in piedi per avere le risorse che servono per garantire ai cittadini i servizi sociali». Giuliano Cazzola, parlamentare del Pdl ma sempre più co-
scienza critica di un centrodestra ormai al tramonto, si augura che «Palazzo Chigi smentisca, per l’ennesima volta, le notizie giornalistiche, che parlano, con un’ampiezza inconsueta dei difficili rapporti tra il premier e il ministro dell’Economia. Anche nella follia tanto diffusa in questi tempi è sempre necessario non smarrire un certo grado di lucidità». Ma non c’è limite all’autolesionismo della maggioranza. Il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto, ha attaccato Tremonti per aver «organizzato un seminario sul patrimonio immobiliare. Un seminario ristretto, con inviti limitati ad alcune grandi banche e società finanziarie più qualche amico. Chiaramente escluse altre amministrazioni dello Stato, come la Difesa o i Beni Culturali, che benché interessate ampiamente dalla materia, non riscuotono simpatie. Forse perché abbiamo ricordato al Tesoro che il patrimonio immobiliare va venduto e non svenduto?». Mentre si litiga al suo interno, il governo deve provare a serrare le fila dopo che l’ultimo Def ha dimezzato le stime di crescita per il prossimo biennio, con il rischio di una nuova manovra. Non a caso il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto ha suggerito di «definire misure per la crescita che vanno definite, sotto il coordinamento della presidenza del Consiglio, con il lavoro dei ministri responsabili, dal ministro del Tesoro ai ministri economici e con il concorso dei gruppi della maggioran-
Londra, Canada e Australia firmano un documento molto duro: sbrigatevi a salvare la moneta! za». Non c’è più tempo da perdere. E non soltanto in Italia. Aprendo i lavori del Fondo monetario, il suo direttore Christine Lagarde ha richiamato ancora una volta l’Europa. Con argomenti non diversi da quelli usati da Obama e Tim Geithner, ha spiegato che il Vecchio «deve urgentemente risolvere il doppio problema del debito sovrano e del debito delle banche, e risolverli assieme». E se la politica non «avrà coraggio», c’è la possibilità di annullare «una ripresa, che è sempre debole e incerta. E i rischi sono aumentati rapidamente». Al momento però l’Europa continua a guardare all’aspetto finanziario del problema. Ewald Nowotny, governatore della Banca austriaca e membro del direttivo Bce, ha fatto ventilare alla stampa l’ipotesi che l’Eurotower reintroduca operazioni di rifinanziamento a un anno per le banche.
Una misura che non è più praticata dal 2009, ma che rappresenterebbe una boccata di ossigeno per gli istituti con difficoltà a finanziarsi. Non a caso le Borse di tutt’Europa ieri hanno chiuso in positivo, in primis quella francese che stando alle maggiori agenzie di rating deve lanciare un maxipiano di ricapitalizzazione. Per affrontare il nodo della crescita Confindustria, nel suo manifesto, pone «in primo luogo l’obiettivo della riduzione della spesa pubblica. Perché non servono i tagli lineari, ma bisogna guardare alle singole cose, costo per costo». Non da meno il capitolo pensionistico. Anche ieri la Marcegaglia ha sottolineato che «non è possibile che un Paese con i nostri problemi mandi le persone in quiescenza a 58 anni con assegni molto alti, mentre domani i giovani ci andranno a 70 con assegni pari alla metà di adesso». Da riscrivere il rapporto tra fisco e impresa, partendo «dal cuneo contributivo fiscale, soprattutto nella parte che riguarda più i giovani». Sul versante della spesa pubblica, si guarda «alla vendita del patrimonio pubblico, che può essere utilizzato per abbassare il debito e levare l’ingerenza del pubblico nell’economia». Maxidismissioni da accompagnare con privatizzazioni e liberalizzazioni, indispensabili in un Paese dove un «pezzo lavora nel libero mercato e un altro invece è protetto e ha le tariffe minime e scarica sugli altri i proprio costi». Stoccata sulle infrastrutture. Al governo che promette di sbloccare i fondi Fas, Confindustria replica chiedendo di «levare i vincoli burocratici che impediscono di partire a investimenti magari già finanziati da pubblico e privato».
Se anche la Gran Bretagna fa uno sgambetto all’Euro Cameron convince il Commonwealth ad attaccare i 17 di Eurolandia. In questo modo cerca di smarcare la Sterlina dalla crisi degli alleati di Enrico Singer ommersa dal frastuono della crisi dell’euro, dalla pioggia delle rassicurazioni di rito sul salvataggio della Grecia e, soprattutto, dalle fibrillazioni dei mercati, una lettera con sei firme pesanti recapitata a Nicolas Sarkozy, presidente di turno del G20, è stata liquidata in poche righe nelle cronache da Washington. Eppure è il segnale di un nuovo strappo che si sta producendo nel già logoro tessuto dell’Unione europea e che potrebbe modificarne radicalmente la natura mettendo, l’uno contro l’altro armati, i 17 Paesi di Eurolandia e i dieci che non hanno aderito alla moneta comune. Protagonista dello strappo è il premier britannico, David Cameron, che è il primo firmatario della missiva sottoscritta anche dall’australiana Julia Gillard e dal canadese Stephen Harper – guarda caso rappresentanti di due Stati membri del Commonwealth – oltre che dall’indonesiano Susilo Yudhokono, dal sudcoreano Lee Myung-bak e dal messicano Felipe Calderon. Il testo reclama «un’azione decisa a sostegno della crescita, della fiducia e della credibilità» e invita «i governi e le istituzioni dell’area euro ad agire per risolvere la crisi, affrontare il buco del debito e prevenire il contagio». A prima vista sembra un appello scontato. Di sicuro condivisibile. Allineato con la generale preoccupazione del G20, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale che nelle riunioni di questi giorni hanno, in pratica, messo sul banco degli accusati la Ue chiedendo che si muova in fretta per evitare un disastro peggiore. Unico dettaglio stonato: la Gran Bretagna fa parte dell’Unione europea. Anzi, ne è la terza potenza con Francia e Germania. E questa presa di distanza dai governi di Eurolandia ha un significato preciso: segna la nascita di uno schieramento nuovo negli equilibri dell’economia globale e di quella del Vecchio Continente in particolare che fa sentire – per la prima volta con un documento ufficiale – la voce di chi non è entrato nell’euro e adesso chiede che «siano considerate tutte le opzioni possibili per assicurare la stabilità della seconda valuta internazionale». Come dire: l’avete voluta, adesso difendetela.
S
È la Gran Bretagna che si fa portavoce dell’Europa extra-euro e avverte che non vuole pagare le conseguenze di una crisi di cui non è protagonista – e sulla quale ha anche pochi strumenti istituzionali per intervenire – ma di cui rischia di essere vittima. Come già nel 2008 era accaduto quando, dall’altra parte dell’Atlantico, era arrivata l’onda lunga del terremoto dei mutui subprime e dei contraccolpi che ha poi innescato. Si può obiettare che la divisione in due dell’Unione europea tra i Paesi che sono entrati nella moneta comune e quelli
che ne sono rimasti fuori non è una novità. Che tutta la costruzione dell’Europa unita marcia a diverse velocità. C’è chi ha aderito all’area Schengen di libera circolazione delle persone e chi no, c’è chi ha messo in moto la costruzione di un esercito comune e chi non vuole nemmeno sentirne parlare. Gli eurocrati di Bruxelles le chiamano “cooperazioni rafforzate” e sono lo strumento-chiave per consentire passi avanti a chi vuole accelerare il processo d’integrazione lasciando agli altri il diritto del cosiddetto “opting out”: la scelta di rimanerne fuori restando, però, membri a pieno titolo della Ue. L’euro è la massima espressione delle “cooperazioni rafforzate”. Il primo nucleo di Eurolandia era composto da dodici Paesi, poi, a partire dal 2006, si è via via allargato a Slove-
Anche Corea del Sud, Indonesia e Messico hanno aderito all’appello: l’obiettivo politico è quello di dividere definitivamente in due l’Unione per spaccare anche il mercato «unico»
nia, Malta, Cipro, Slovacchia ed Estonia, l’ultimo arrivato nel gennaio di quest’anno. L’euro, insomma, fino all’esplosione dell’attuale crisi, ha funzionato da volano del processo unitario. Anche in Gran Bretagna – soprattutto durante l’era Blair – è stata presa varie volte in esame l’ipotesi di un referendum per l’adesione. Una strada mai percorsa fino in fondo nemmeno dai più convinti europeisti d’oltre Manica, per la verità. Ma ormai siamo sulla linea opposta. Cameron non ha alcuna intenzione di lasciare la cara, vecchia sterlina a costo di rispolverare anche un’istituzione come il Commonwealth per raccogliere le adesioni alla lettera che bacchetta Eurolandia.
Il rischio più grande della crisi che stiamo vivendo – a parte quello del default della Grecia e dell’effetto-domino che potrebbe innescare – è trasformare l’euro da possibile cemento dell’Unione in elemento di divisione all’interno della stessa Ue. Un rischio politico. Ma non solo. Perché se si creassero due squadre nella Ue – gli extra-euro contro Eurolandia – il tanto inseguito mercato unico europeo finirebbe per diventare un campo di battaglia con i Paesi che non hanno aderito alla moneta comune che potrebbero anche utilizzare la leva valutaria per favorire import ed export. Le fluttuazioni tra l’euro, la sterlina e le monete degli altri Paesi dell’Unione – in particolare lo zloty polacco – sono già ai limiti della fascia concordata. Anche la politica dei tassi d’interesse, nei Paesi extra-euro, non risponde alle decisioni della Banca centrale europea, ma a quella delle singole Banche centrali nazionali e può determinare scompensi nel costo del denaro e, quindi, nella competitività. Fino a quando non sarà trovata una strategia concordata – che purtroppo stenta ad arrivare – prevarrà la regola del si salvi chi può e tutte le differenze tra le due aree potrebbero diventare altrettanti strumenti per approfondire le divisioni. Tra l’altro, con i Trattati in vigore oggi, l’unica sede in cui la Ue può prendere decisioni in materia economico-finanziaria è l’Ecofin, il consiglio dei ministri delle Finanze di cui fanno parte i rappresentanti di tutti i 27 Paesi dell’Unione – Gran Bretagna compresa – che, per quanto riguarda le scelte che interessano i 17 Paesi della zona euro, ratifica quello che decide l’Eurogruppo che è una struttura informale ristretta ai rappresentanti di Eurolandia. Ma con il progetto di riforma ispirato da Francia e Germania per rafforzare la moneta comune, dovrebbe nascere presto una specie di “governo dell’economia” dei Paesi dell’euro. Anche questo piano, in fondo, è l’ammissione che c’è una doppia Europa. E David Cameron, con la sua lettera, forse, ha soltanto voluto giocare d’anticipo.
la crisi economica
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Il governo ha dovuto rivedere al ribasso le previsioni per il 2011: colpa di norme depressive prese in fretta e senza strategia
Il vero errore di Tremonti Aggredire il deficit invece del debito: ecco qual è stato lo sbaglio. E in pochi mesi il tasso di crescita del Paese ha perso un punto di Pil on il senno di poi, dobbiamo forse cominciare a pensare che la manovra decisa dal Governo non era quella giusta. Lo diciamo con un pizzico di autocritica, visto che l’idea di anticipare al 2013 il pareggio di bilancio ci aveva suggestionato. Un risultato storico che aveva un come riferimento
C
di Gianfranco Polillo pressoché unico l’esperienza della Destra storica italiana. Quei pochi anni, all’indomani della costituzione dello Stato unitario, in cui si era costruita un’intelaiatura destinata a durare nel tempo. Che il successivo trasformismo della sinistra – da De Pretis in avanti – aveva poi contaminato. Vecchie reminescenze dal fascino straordinario. Se questo era l’atteggiamento non solo nostro, dobbiamo, invece, prendere atto che il mercato non ha gradito. E quindi essere pronti a eventuali, anche se difficili, correzioni. Con un secondo avvertimento: nulla è scontato. Dovremo quindi seguire, con attenzione, quanto avverrà nei prossimi giorni e approntare piani diversi, da rendere operativi se sarà necessario.
punti. In questi ultimi giorni la Grecia ha raggiunto quota 7.000, mentre gli altri hanno superato seppur di poco il valore iniziale. Per l’Italia, invece, si è passati da poco più di 100 a 400, superando la Spagna (350 punti) e collocandosi in fondo alla classifica dei Paesi meno esposti.Terzo indizio: il downgrade (declassamento) di Standard & Poor’s nei confronti del debito italiano e le motivazioni addotte: una crescita troppo bassa che non dà garanzie per i futuri rimborsi. Spiegazione più che ovvia. Se una famiglia è indebitata, la sua solvibilità è legata esclusivamente alla sua capacità di produrre reddito.
Fin qui la risposta del mercato. Eccesso di pessimismo? Visione miope con un orizzonte
2012. Il governo ha dovuto accusare il colpo e correre ai ripari. Nel nuovo Def le previsioni originarie, sopra soglia, sono state bruscamente ridimensionate. Si conferma, per l’anno in corso una crescita dello 0,7; che si riduce allo 0,6 l’anno successivo. Più una speranza che non una certezza.
Ciò che più preoccupa è quanto che si desume dall’analisi del Fmi. Non tanto per le cifre indicate, ma per la revisione a ribasso di valutazioni condotte solo pochi mesi (giugno) orsono. Allora si prevedeva, per l’anno in corso, una crescita dell’1 per cento, ridotta allo 0,6 per cento. E per il 2012 il brusco passaggio da un’ipotesi dell’1,3 allo 0,3 per cento. Con la perdita di 1 punto di Pil: la più alta in assoluto a livello internazionale. Solo gli Usa subiscono un tracollo
Per il momento abbiamo una serie d’indizi. Indizi, purtroppo, pesanti. Cominciamo dalle borse, la cui frenesia rapsodica non accenna a diminuire. Dal 7 luglio – data d’inizio delle turbolenze – la borsa italiana ha perso più di tutte. Il crollo del MIB 30 è stato del 31,9 per cento. La Francia e la Germania hanno ceduto un po’ meno (30,9 e 31,6 per cento), ma le cause sono diverse. Negli altri Paesi il coinvolgimento delle principali banche nei confronti della Grecia è notevolmente superiore. L’eventuale swap (scambio di titoli posseduti con quelli a più lunga scadenza) comporterebbe perdite in conto capitale dell’ordine del 20 per cento. Perdite che si concentrerebbero – altro elemento di diversità rispetto alla situazione italiana – su alcuni di quegli istituti che sono l’architrave del relativo sistema bancario. Secondo indizio: l’andamento degli spread. Agli inizi di luglio quelli greci, irlandesi e portoghesi erano inferiori ai 1.000
Sarkozy ha puntato al pareggio solo nel 2012 per affrontare l’emergenza troppo limitato? A smentire queste facili giustificazioni è intervenuta le previsione dei principali organismi internazionali. I primi dubbi li avevano espressi il Centro studi di Confindustria, ipotizzando una crescita, per il 2012, pari ad appena lo 0,2 per cento. Quindi l’Ocse, che aveva indicato per la fine dell’anno un andamento piatto dell’economia (-01 nel terzo trimestre e 0,1 nel quarto). Tesi, in qualche modo avvalorata dalle previsioni della Commissione europea. Infine – ciliegina sulla torta – il Fondo Monetario internazionale. L’anno – secondo queste ultime indicazioni – si chiuderà con un tasso di crescita dello 0,6 per cento, che si dimezzerà (0,3 per cento) nel
simile, con una perdita di 0,9 punti di Pil, ma il loro tasso di crescita prospettico resta dell’1,8 per cento: sei volte quello italiano. Cos’è accaduto da giugno? Indubbiamente le turbolenze del mercato, che hanno mostrato un sentimento non benevolo nei confronti di tutto l’Occidente. Ma questo non basta. Lo dimostra il confronto con la Francia, paese molto simile all’Italia per quanto riguarda la sua struttura produttiva. Anche in questo caso si è registrata una rettifica delle previsioni, ma il calo è stato rispettivamente di 0,4 e di 0,5 punti di Pil. E il suo tasso di sviluppo è indicato nell’1,7 e nell’1,4. Diverse volte quello italiano.
eno male. Per quanto urgenti e indispensabili, il combinato disposto tra l’uscita di scena di Berlusconi, e la conseguente caduta di questo governo, e la fine della Seconda Repubblica, non sarebbe stato opportuno che fosse dipeso da un atto della magistratura, come avvenne per la fine della Prima Repubblica. Atto che avrebbe sì equiparato la “casta” alla “gente comune”, come dicono quelli che volevano vedere le manette ai polsi dell’onorevole Milanese, ma nel perpetuare un’intollerabile atto di “ingiustizia giustizialista” come è quello di procedere con carcerazioni preventive che non rispondono per nulla, come nel caso di quasi tutti quei poveracci che compongono il 50% della popolazione carceraria italiana in attesa di giudizio, alle tre circostanze (pericolo di fuga, reiterazione del reato, inquinamento delle prove) che saggiamente la legge – la legge, non la casta – prevede siano necessarie per procedere all’arresto.
M
Come si è detto la settimana scorsa da questa tribuna, il premier deve essere sfiduciato da chi, nella maggioranza, intende assumersi alla luce del sole la responsabilità di tradurre in atti parlamentari quanto si dice, sempre più apertamente, in privato. E cioè che Berlusconi e il governo non sono in grado – ammesso che lo siano mai stati – di fronteggiare una crisi senza precedenti, che espone l’Italia ad un pericolo di default finanziario figlio legittimo di un default politico che travalica questo esecutivo coinvolgendo l’intero sistema politico. Se si vuole che il “dopo”, già tremendamente difficile da immaginare visto che poco o niente si è fatto per definirlo e costruirlo, non sia peggio del “prima” – come è stato nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica – bisogna che il “the end”non abbia i tratti della congiura di palazzo o della pressione indebita di un altro potere. Sappiamo che questo contrasta con la situazione di massima emergenza che si è venuta a creare per Esiste, quindi, nel nostro caso, un elemento atipico, che si somma alla cronica debolezza della nostra economia. Forse – il condizionale è d’obbligo – la conseguenza della scelta di aver voluto anticipare il pareggio di bilancio. Le regole europee – valide per tutti gli altri Paesi – prevedevano questo traguardo per il 2014. E queste erano le intenzioni del governo, certificate
L’opposizione degli industriali e la Terza Repubblica
Cara Confindustria, il grande nemico è il bipolarismo di Enrico Cisnetto via dello spread oltre i 400 punti, del sistema bancario nazionale in pericolo per l’attacco speculativo, della clamorosa marginalizzazione che l’Italia sta vivendo nello scenario internazionale (Ue, Libia, rapporto con gli Usa). Ma, d’altra parte, se per cominciare bene la Terza Repubblica – e se così non fosse, che la si farebbe a fare? – occorre chiudere altrettanto bene la Seconda, tanto vale aspettare la prossima occasione.
Così, per esempio,
Marcegaglia deve fare un altro passo e capire che è fallito un intero sistema
sembra pensarla la Confindustria, che si è sottoposta ad una due giorni di discussioni animate per giudicare il comportamento della presidente Marcegaglia che ha dato un secco e ripetuto ultimatum al governo, e per definire cosa fare adesso che il premier di quegli autaut se n’è altamente fregato. Sappiamo che la discussione è stata animata, e che la Marcegaglia ha esplicitamente chiesto la compattezza del fronte imprenditoriale ove dovesse decidere di alzarsi dai tavoli di confronto con il
in aprile, nel Documento di economia e finanza. Poi l’improvvisa accelerazione. Una richiesta ultimativa dell’Europa? Può essere. Comunque una richiesta sbagliata. La Francia, infatti, avrà nel 2012 un deficit pari al 4,6 per cento: quasi il doppio di quello italiano (2,4), secondo i dati del Fondo Monetario internazionale. Avendo rispettato le regole della nuova governan-
governo sul “pacchetto sviluppo” (sic) perché privi di concretezza. Qualcuno dei suoi colleghi le ha rimproverato di essere andata troppo avanti – specie se si considera che per lungo (troppo) tempo aveva fiancheggiato il governo – altri, viceversa, le hanno contestato di non aver ancora tratto le conseguenze delle sue aspre critiche. Ma il vero tema, sempre se si vuole avere come obiettivo primario la necessità di una transizione positiva verso una stagione politica nuova e non solo la caduta al buio del governo attuale, è quello di uno sforzo di comprensione che il mondo produttivo deve saper fare perché la sua azione associativa e individuale generi risultati, evitandogli di passare semplicemente dalla fase della preoccupazione e dell’arrabbiatura tenuta dentro a quella della sfiducia pronunciata a voce alta, ma egualmente sterile. E la reazione rischia di rivelarsi sterile se non va oltre la denuncia e non diventa una “posizione politica”vera e propria,
ce europea non è stata costretta ad uccidere la propria economia con una cura da cavallo. Potevamo resistere a quelle pressioni? Forse sì, se avessimo operato sul debito, anziché sul deficit. Con una manovra di carattere straordinario: vendita degli immobili, patrimoniale, dismissioni delle imprese non strategiche, parziale smobilizzo delle riserve auree. E via dicendo.
costruttiva. Per questo tutto il fronte imprenditoriale – non solo Confindustria, dunque – dovrebbe capire che in discussione non può esserci solo il governo Berlusconi, ma il sistema politico nel suo insieme. Se non si capisce che nelle difficoltà odierne, come in quelle che sotto altri profili hanno seppellito il governo Prodi e con esso il centro-sinistra, c’è soprattutto il fallimento del maggioritario e del bipolarismo all’italiana che la stessa Confindustria nel passato ha fortemente voluto e sostenuto – basti pensare al referendum Segni – non si capisce niente della portata storica della crisi che vive il Paese, che è appunto la fine della Seconda Repubblica. Il Paese rivive – nella sostanza ovviamente, perché le differenze puntuali sono molte – la drammatica stagione 1992-1994. Esserne coscienti, per gli imprenditori e più in generale per la borghesia produttiva, significa favorire la transizione in tempi rapidi verso la Terza Repubblica.
Come? Alimentando la nascita di nuovi soggetti politici e l’emergere di nuovi leader. Consapevoli che non è più tempo di deleghe in bianco, né di qualunquismo che alimenta l’anti-politica, né di furbesche scorciatoie. Ora è venuto il momento di ritrovare finalmente il senso del proprio ruolo: assumersi la responsabilità di salvare il Paese dal declino. Bisogna che il “partito che non c’è” nasca subito, e non può essere di questo o di quel personaggio, ma per avere successo – dopo l’insuccesso del partito personale di Berlusconi – deve nascere dal basso, su iniziativa della società civile, intesa come associazioni, movimenti e singole personalità che si organizzano in modo aperto e democratico. Poi chi saranno i leader – non è un caso l’uso del plurale – del “partito che non c’è”, sarà un problema del dopo. L’Italia per tornare ad investire e crescere ha bisogno di un nuovo punto di riferimento. Senza perdere altro tempo. (www.enricocisnetto.it)
Una manovra straordinaria di circa 300 miliardi di euro. Questo è il piano B che dovremmo rapidamente approntare. Risorse necessarie per ricondurre il debito italiano intorno al 100 per cento del Pil, tenendo conto del fatto che quello francese è quasi pari al 90 per cento. Se riuscissimo in questa impresa, certamente non facile, potremmo allentare la stretta
e recuperare, almeno, in parte il sentiero dello sviluppo. Avremmo allora titolo per comportaci non più come vigilati speciali, ma rientrare nelle regole e chiedere, anche noi, quell’anno in più che è stato concesso a tutti. È realistico? Sì, ma a un’ulteriore condizione: un governo credibile ed una maggiore coesione nazionale.
politica
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La Corte costituzionale come soluzione al problema dell’eterno conflitto di attribuzioni tra potere giudiziario e potere legislativo
Diritto e politica? Possono dialogare È la Consulta l’ago della bilancia che può riequilibrare le due realtà e ultime vicende nelle quali l’una o l’altra Camera è stata chiamata a votare l’autorizzazione all’arresto di parlamentari hanno riproposto il tema antico, e ancora non compiutamente risolto, del rapporto tra politica e diritto in riferimento alle decisioni specifiche che le Camere sono chiamate ad adottare in relazione a specifiche situazioni giuridiche concernenti appunto i parlamentari. In queste vicende si è molto accentuato anche il dibattito sul rapporto tra voto palese - per sua natura politico e voto segreto - per sua natura più vicino alla decisione individuale del singolo parlamentare.
L
Si tratta di vicende complesse che sono presenti nell’Italia repubblicana, certamente a partire dalla Costituzione e più acutamente dibattute all’indomani della abolizione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, originariamente previsto nell’articolo 68 della Costituzione medesima. La questione di fondo riguarda sostanzialmente da un lato l’affermazione della assoluta neutralità della funzione giurisdizionale e, dall’altro, la capacità delle Camere del Parlamento di deliberare secondo diritto e non secondo criteri ritenuti compatibili esclusivamente con la funzione politica dei parlamentari medesimi. Occorre infatti che si riesca a superare la ricorrente tentazione di ritenere diritto e politica categorie l’una affidata alla magistratura, e l’altra a chi esercita una funzione politica
di Francesco D’Onofrio sulla base del mandato popolare. Non si sarebbe in tal caso costretti a ragionare su soluzioni che rimarrebbero ipocrite, ma spinti a ricercare un punto di equilibrio che parta dalla constatazione che da un lato anche la magistratura svolge una funzione politica, e dall’altro che anche i parlamentari sono tenuti all’osservanza di regole giuridiche pur nell’esercizio della loro naturale funzione politica. Punto di equilibrio tra politica e diritto, dunque, e non ipocrita affermazione della spettanza dell’uno al potere giudiziario e dell’altra al potere politico-parlamentare. Anche la vicenda delle modalità di voto - palese o segreto - fa parte del dibattito complessivo della ricerca del punto di equilibrio, non potendosi ritenere infatti che il voto palese è di per sé modalità esclusiva della funzione politica, mentre quello segreto sarebbe di per sé garanzia assoluta di libertà di coscienza e non di azione politico-partitica. Il rapporto tra politica e diritto va pertanto ricercato nel senso di un equilibrio tra entrambi, e non nel senso di una sorta di contrasto insanabile fra di essi. Qualora si ragionasse in questi termini si finirebbe infatti con il ritenere o che l’autorizzazione è dovuta per il solo fatto che sia stata richiesta da una autorità giudiziaria, o che essa deve essere sempre negata per il solo fatto che a deciderlo sono alla fine i singoli parlamentari, che sono
evidentemente titolari di poteri politici. È questo il punto di fondo che da un lato distingue i garantisti dagli innocentisti, e dall’altro i sostenitori dell’equilibrio tra politica e diritto dai sostenitori del primato gerarchico della funzione giurisdizionale rispetto alla funzione politico-parlamentare. Si tratta pertanto di questioni di fondo che attengono a una visione complessiva dell’ordinamento costituzionale vigente, alla luce
dei dibattiti anche filosofici che furono posti alla base della stessa Costituzione. Occorre chiedersi se siamo costretti a vivere tra due verità destinate a non incontrarsi mai (quella della politica che invoca l’elezione popolare quale legittimazione delle disuguaglianze tra parlamentari e non parlamentari, e quella di quanti vedono il principio di eguaglianza a fondamento esclusivamente tecnico), o se si può individuare anche e
Romano: «Nessuno ha mai chiesto le mie dimissioni»
«La sfiducia non passerà» ROMA. «Mai nessuno nella maggioranza mi ha chiesto di dimettermi, ho ricevuto incoraggiamento ad andare avanti dal premier». Con queste parole il ministro delle Politiche Agricole, Saverio Romano, ieri ha risposto durante una conferenza stampa ad alcuni giornalisti che gli chiedevano di commentare la mozione di sfiducia nei suoi confronti che verrà votata il 28 settembre alla Camera. «Anch’io faccio la lotta contro la mafia, come Maroni - ha sottolineato - contro la mafia e contro la mozione di
sfiducia. È paradossale - ha aggiunto Romano - rispondere a una mozione non per fatti inerenti alla mia attività politica ma per fatti che riguardano la mia persona. In questa vicenda ci sono cose che saltano agli occhi di tutti, parliamo di un fatto che risale a 8 anni fa, la mia considerazione di questa vicenda non inficia l’attività che sto svolgendo anche con qualche risultato». Romano ha quindi aggiunto di essere «un leader di un partito politico» e che la mozione di sfiducia «non passerà».
proprio nella Costituzione vigente l’esistenza di strumenti che tendono all’equilibrio e non allo scontro. Viene in evidenza in questo contesto il ruolo specifico della Corte costituzionale, quando essa è chiamata a operare in sede di conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato. Non si è forse sufficientemente riflettuto sul fatto che è proprio la composizione della Corte magistratuale, parlamentare e presidenziale a dimostrare che la ricerca di equilibrio va ricercata proprio in sede di conflitto di attribuzione.
Quando il Parlamento ritiene che la funzione giudiziaria ecceda dai propri poteri e invada in qualche modo il potere politico-rappresentativo del Parlamento medesimo, lo strumento del conflitto di attribuzione diventa lo strumento ideale perché la Corte possa pronunciarsi proprio in senso di equilibrio tra politica e diritto. Allo stesso modo i magistrati anche singoli possono a loro volta sollevare conflitto ogni volta che ritengano che le decisioni delle Camere siano assunte al di là del punto di equilibrio accettabile tra politica e diritto. La strada della ricerca del punto di equilibrio è stata già ampiamente indicata proprio in quel principio di «leale collaborazione tra i poteri dello Stato», al quale ha fatto riferimento la Corte costituzionale, e che dovrebbe essere posto a fondamento sia delle decisioni parlamentari sia delle iniziative giurisdizionali.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Luisa Arezzo
La nuova provocazione di Elisabeth Badinter
MAMMA O NON MAMMA?
ettiamola così: per essere una buona madre si è spesso disposte a tutto, a rinunciare a una carriera (quando non al lavoro), allo shopping e in molti casi anche al sesso. Si è pronte ad affrontare mesi di allattamento - ché il latte artificiale minimo minimo fa male allo sviluppo, sia psicologico che fisico, del bambino - e anche a lavare decine di pannolini di stoffa - ché quelli industriali provocano allergie, sono anti-ecologici e ultimamente, con la crisi che avanza, anche anti-economici. Si è disposte a rinunciare al parrucchiere e all’aperitivo con gli amici, ma diamine: il ritorno in termini di felicità è straordinario. E se poi quella felicità non assale e non si rivela la «droga» giornaliera in grado di far pendere la bilancia della soddisfazione personale verso l’alto, niente paura. I sensi di colpa la faranno da padrone, ma l’obiettivo di esserne investiti per una causa superiore - essere una brava madre ed evitare decine di sedute dallo psicologo a vostro figlio in età adulta - vi permetteranno di affrontarli a testa alta. Anche se potranno insinuarvi il dubbio di essere un po’ inadeguate e sempre alla rincorsa di un obiettivo irraggiungibile. La soluzione alternativa? Trasformarsi in una mamma cattivissima. Dare al bambino un sano biberon e uscire con gli amici, e se la cosa aiuta a stare meglio, anche fumare una sigaretta ammazza-stress dentro casa e in presenza del piccoletto. Per lo svezzamento usare le pappette pronte e smetterla con i frullati organici e recuperare quanti più pannolini industriali possibile, mollare il pargolo alle tate senza sensi di colpa e uscire fuori a cena con il proprio marito. E in ogni caso, mai, mai mollare il lavoro qualora si abbia la fortuna di averlo. Se seguirete queste regole, il senso di inadeguatezza sparirà via non appena vi renderete conto che il figlio cresce sano e bello comunque. Il prezzo di tutto questo, al posto del senso di inadeguatezza perenne del modello A sarà quello di sentirvi delle madri un po’ meno perfette (modello B), ma molto, molto più felici.
M
Non si stanca la filosofa femminista francese di lanciare sfide alle donne. Come nel suo nuovo libro, dove le invita a non subire un rinvigorito pensiero corrente, secondo cui la realizzazione personale passa prima di tutto dalla maternità
Parola chiave Terremoto di Maurizio Ciampa
Riecco i Blondie, tutt’altro che reduci di Stefano Bianchi
IL PAGINONE
Erode fu un grande re di Rossella Fabiani
Le cartoline dal mondo di Luca Doninelli di Pier Mario Fasanotti Poesia della mozzarella di Anselma Dell’Olio
Somaini e la forza della fragilità di Marco Vallora
mamma o non
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Almeno secondo la filosofa e scrittrice femminista Elisabeth Badinter, il cui ultimo lavoro, Mamme cattivissime? (Corbaccio, 192 pagine, 16,00 euro) - arrivato adesso in Italia dopo aver stazionato fra il primo e il secondo posto per dieci mesi in Francia - ha provocato un dibattito a livello occidentale senza esclusioni di colpi. Ma di fatto esauritosi solo e nel semplice scontro fra due tipologie di pensiero, senza considerare l’eco che ha suscitato all’interno del mondo cattolico. Eppure, nonostante un limite evidente di questo lavoro - considerare le donne incapaci di scegliere fino in fondo e considerarle semplicemente adattabili ai modelli di vita strombazzati dai media, senza mai porsi il dubbio che per una donna, oltre che un desiderio o un dovere sociale, la maternità possa essere una sfida da provare, indipendentemente dagli esiti, la Badinter mette il dito in una piaga esistente.
Prima degli anni Settanta, un figlio era la conseguenza naturale del matrimonio e ogni donna in grado di procreare lo faceva senza farsi troppe domande. Più che una scelta consapevole, era un istinto, un dovere e un riconoscimento sociale. Poi, più che le battaglie femministe, è arrivata la pillola e la possibilità di scegliere quando e se diventare madre. Da quel momento - e questa è la tesi centrale del libro della Badinter - il desiderio di avere un bambino non è stato più (almeno nel mondo occidentale) né una costante né universale. Alcune donne lo vogliono, altre no, alcune non ne vogliono più, altre ancora ammettono di non averlo mai voluto. È la rottura di un tabù, quello che insiste sulla certezza che una donna realizzi veramente se stessa attraverso la maternità. A essere sinceri, questo tabù è da lustri che viene messo in discussione ma, per la Badinter, da oltre vent’anni si è rivitalizzato. Grazie a un alleato formidabile e insospettabile: il neonato. Nuovo padre padrone della donna e grande sponsor del maschilismo imperante. Il bambino radioso che tutti sognano esige una madre disponibile, che organizza la propria vita in funzione del figlio. In sostanza: «l’io prima di tutto» della generazione delle madri, ha lasciato a poco a poco il posto a «il bambino pri-
In alto, la scrittrice Elisabeth Badinter e la copertina del suo libro “Mamme cattivissime?” anno IV - numero 32 - pagina II
ma di tutto», come proclamano le loro figlie. E questo merita una riflessione. Una madre felice è per forza una donna felice? Esiste davvero quell’istinto materno che fa sì che la donna si realizzi solo in quanto madre? Sembra di sì, almeno per l’immagine che viene veicolata non solo dai media, ma anche da saggi filosofici e sociologici. Ma non da Elisabeth Badinter che ripercorre mezzo secolo di storia dell’emancipazione femminile per ribadire alcuni capisaldi della parità fra i sessi. Primi fra tutti la pillola e l’allattamento artificiale, che hanno reso le donne libere di scegliere, e che adesso vengono fortemente messi in discussione dal nuovo mantra naturalista che attanaglia l’Occidente. Che cosa è cambiato, si chiede la filosofa francese, negli ultimi cinquant’anni? L’autonomia femminile può venir schiacciata nelle fasi di crisi economica, come questa, in cui la perdita di posti di lavoro relega, per ragioni di convenienza, le donne al loro ruolo «tradizionale». Ma non tutte le donne sono nate per essere madri. Eppure, questa affermazione trova sempre un uditorio poco disponibile. Come se si parlasse di un mostro, anziché di un un dato di fatto. Il punto in cui la sua battaglia culturale fa acqua è che per la Badinter le donne possono spingere al massimo grado il loro ruolo di madri cattivissime: rifiutandosi di fare dei figli. Spiego meglio: si può rinunciare alla maternità non solo perché non inclini a diventare una madre (più che legittimo) ma anche e solo per sottrarsi alla schiavitù di un figlio padrone, che costringe a rinunciare a parte della propria vita. «Una donna in media vive fra gli 80 e gli 85 anni, un figlio si segue fino al venticinquesimo compleanno. Nessun animale in natura spende così tanto con il proprio cucciolo. E sacrificare 25 anni della propria vita per un altro è troppo». Balza agli occhi che così dicendo, non si è trovata una soluzione al problema, ma si è solo fatta ricadere sulla donna la responsabilità di rinunciare a una parte di sé. E che parte! E manco una riga sul dolore o il senso di inadeguatezza che può colpire l’universo femminile il giorno in cui capisse di aver fatto la scelta sbagliata. Ma solo un peana per le cosiddette childfree (che si distinguono dalle childless in quanto queste lo sono loro malgrado per problemi di infertilità), queste nuove pioniere del femminismo che costituiscono una nuova identità femminile che non necessita della maternità per definirsi. Le prime donne nella storia dell’umanità a riflettere seriamente sulle implicazioni e le conseguenze di questa scelta. E se ne astengono. Per Elisabeth Badinter - madre di tre figli e nonna di vari nipoti, figlia di Marcel Bleustein Blanchet, fondatore dell’agenzia pubblicitaria Publicis, la quarta in ordine di importanza a livello mondiale, e di cui detiene il 10% del pacchetto azionario, e moglie di Robert Badinter, l’ex ministro della Giustizia francese che ha combattuto la battaglia per l’abolizione della pena di morte - il mondo ormai cade in estasi di fronte ad Angelia Jolie o Laetitia Casta con pancione e figli al seguito. E i me-
mamma?
dia rafforzano un’ideologia strisciante secondo cui la vera realizzazione passa attraverso la maternità. Ma la donna è regredita a posizioni inimmaginabili. «In meno di un decennio (fine degli anni Settanta - inizio degli anni Ottanta), la teoria femminista percorre una curva di 180 gradi», scrive la filosofa. Voltando le spalle all’approccio culturalista di Simone de Beauvoir, che preconizzava una politica dell’uguaglianza e della promiscuità dei sessi in virtù della loro somiglianza (ciò che unisce è più importante di ciò che distingue), una seconda ondata di femminismo riscopre che la femminilità non è solamente un’essenza, ma una virtù di cui la maternità è il cuore. L’uguaglianza, si afferma, sarà sempre un’illusione finché non sarà riconosciuta questa differenza essenziale che governa tutto il resto. Contrariamente alla Beauvoir, una nuova generazione di femministe considera la maternità come l’esperienza cruciale della femminilità a partire dalla quale si può ricostruire un mondo più umano e più giusto. Per fare ciò, è necessario far ritorno a Madre Natura, troppo a lungo ignorata: rimettere l’accento sulle differenze fisiologiche che generano quelle dei comportamenti, ritrovare la fierezza del nostro ruolo di nutrici da cui dipendono il benessere e il destino dell’umanità. Ironia della storia: è nel momento in cui le donne occidentali riescono finalmente a sbarazzarsi del patriarcato, che trovano un nuovo padrone in casa! E i doveri che aumentano nei confronti del neonato e del bambino si rivelano altrettanto limitanti, se non di più, della perpetua guerra maschilista in casa o sul posto di lavoro. Questa dolce tirannia dei doveri materni non è una novità, ma si è considerevolmente accentuata con il ritorno in forze del naturalismo. Il tanto celebrato maternalismo non è riuscito a generare per il momento né il matriarcato né la parità dei sessi, ma piuttosto una regressione della condizione della donna. Regressione consentita in nome dell’amore che si nutre per il proprio figlio, del sogno del figlio perfetto e di una scelta moralmente superiore.
La decisione di non avere figli o la non-decisione di averne uno rientrano nella sfera del privato e dell’intimo. La maggior parte delle volte è il risultato di un dialogo segreto e interiore che non ha nulla a che fare con le tendenze del momento. Eppure il fenomeno, come spiega la Badinter, si propaga a un ritmo sostenuto in alcuni Paesi, in particolare quelli anglosassoni, ma anche in Giappone e nell’Europa del Sud. In vent’anni, dati alla mano, in questi Paesi il numero di coppie senza figli è raddoppiato, quasi senza che ci si sia resi conto del fenomeno. Per definire questa nuova realtà - esistono coppie non sterili che non fanno figli - gli anglofoni distinguono i childless e i childfree. I dati sono chiari: il 18% per cento delle inglesi, il 20% delle italiane, il 26% delle tedesche e il 18% delle americane, non fanno volontariamente figli. È come se stesse montando una sorda resistenza alla maternità. Dal momento in cui le donne controllano la propria riproduzione, studiano, invadono il mercato del lavoro e ottengono l’indipendenza economica o fanno carriera, la maternità non è più un fatto natuarle ma diventa argomento di discussione. Anche se il rifiuto di avere figli riguarda una minoranza, la vera rivoluzione è accaduta, e richiede una ridefinizione dell’identità femminile. Perché per un numero significativo di donne la femminilità non può essere limitata all’essere madri. Non solo queste donne rifiutano l’essenza materna tradizionale della femminilità, ma si ritengono più femminili di quelle che trovano la loro realizzazione nella procreazione. Per loro le attività legate alla maternità sono desessualizzanti e quindi defemminilizzanti, associate ai sacrifici e alla perdita dell’identità. Per le altre, il desiderio di un figlio è totalmente estraneo e la nozione stessa di istinto materno non ha alcun senso. Che lo si voglia o no, la maternità non è più che un aspetto importante dell’identità femminile e non più un fattore necessario all’acquisizione del sentimento nella pienezza del sé femminino. Grazie o a causa della contraccezione, il mondo delle donne si scinde e si diversifica. Non volerne prendere atto è un errore. E su questo, ma solo su questo punto, siamo d’accordo.
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TERREMOTO pezzi andrà la terra, /in frantumi si ridurrà la terra,/ crollando crollerà la terra./ Barcollerà la terra come un ubriaco,/ vacillerà come una tenda;/ peserà su di essa la sua uniquità,/ cadrà e non si rialzerà». Sono le parole del profeta Isaia. Suonano come un «colpo di martello», commenta il grande teologo Paul Tillich. Un «colpo di martello» che periodicamente torna a farsi sentire, riattivando uno scenario di paure primordiali che lo sviluppo della civiltà e della tecnica aveva provvisoriamente neutralizzato. Nelle grandi catastrofi naturali, e particolarmente nei terremoti più rovinosi, l’uomo, che pareva dominare la natura attraverso la tecnica, si sente in balia della natura, avverte che essa è attraversata da una forza sconvolgente che non si riesce a governare. Le grandi malattie forse possono essere sconfitte, i terremoti no. Il loro fatale accadere ci butta in faccia il limite del sapere umano. Un filosofo contemporaneo, Peter Sloterdijk, dice che «gli uomini sono esseri viventi costretti a condurre la propria esistenza sul margine esterno di un corpo rotondeggiante e accidentato perso nell’universo, un corpo che… non può offrire nessun tipo di riparo». Siamo tutti - dice Sloterdijk - «esseri soppiantati». Il terremoto è sempre. Si tratta, e certamente non è cosa facile, di addestrarsi all’insicurezza, convivere con l’insicurezza. E questo è un compito, una responsabilità che pesa sul pensiero contemporaneo. Credo che tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini recenti del Giappone in cui il terrore, come è stato osservato, si è moltiplicato (al terremoto si è aggiunto lo tsunami sovrapponendosi con il rischio nucleare), ma ricordiamo l’Aquila, e, andando indietro di qualche decennio (maggio 1976) le immagini prese dall’elicottero dei paesi friulani quasi completamente distrutti o quelle dell’Irpinia (novembre 1980). La terra che trema, e i suoi catastrofici effetti, non sono semplicemente raccontati, sono immediatamente visibili, soprattutto da quando i media svolgono, nelle nostre società, il ruolo fondamentale che conosciamo.
«A
Ma c’è un sisma più profondo che i media non arrivano a rilevare. Ed è questo secondo sisma, più lento e silenzioso del primo, più nascosto e forse anche occultato, è questo secondo sisma ad attrarre la mia attenzione. Augusto Placanica, storico e filosofo delle catastrofi (il suo Il filosofo e la catastrofe, pubblicato da Einaudi nel 1985, è un testo di riferimento) parla di un’onda lunga dei terremoti. Che cos’è questa onda lunga? Un effetto a distanza, una crepa invisibile che incrina il tessuto del pensiero, ne ridefinisce le possibilità, ridisegna i suoi
Sul pensiero contemporaneo pesa il compito di addestrarsi all’insicurezza. Quando la terra trema un’onda lunga si insinua dentro di noi, ridefinisce le nostre possibilità, ridisegna i nostri limiti
La ragnatela squarciata di Maurizio Ciampa
sbona, un minuto l’una dall’altra. La seconda abbattè i muri e i tetti delle case… con un rombo assordante. Passarono quindici minuti prima che la polvere si diradasse e consentisse di intravedere il propagarsi del fuoco… I sopravvissuti cercarono di allontanarsi da quella devastazione e i più si diressero verso le rive del Tago, considerate relativamente sicure. Ma in capo a un’ora arrivarono le onde di marea, tre in rapida successione… Chi stava osservando la scena dalla cima dei colli riferì che la città ondeggiò sotto quella furia come grano al vento prima di crollare». Quel crollo, quello schianto, un’intera città e la sua vita annientate nel giro di pochi minuti, attraversò come un brivido di morte l’intera Europa, dalla penisola iberica fino alla Norvegia. Ma la sua ondata fu ben più lunga. E non fomentò soltanto le ataviche paure dell’uomo di quel tempo risvegliandole, ma polverizzò, come furono polverizzate i muri dei palazzi di Lisbona, certezze accumulate nel tempo. Per anni il fantasma di Lisbona agitò il sonno dei grandi pensatori europei che si raccolsero, con una meditazione serrata e dal tono drammatico, su quel funesto evento. Voltaire prima di ogni altro che, a partire dal terremoto di Lisbona del 1755, impresse una nuova svolta al suo pensiero, ma anche Diderot, Rousseau, Kant. Tutto il grande pensiero europeo passa per Lisbona.
Un «terremoto filosofico»
Giappone 2011, L’Aquila 2009, Irpinia 1980, Friuli 1976, Lisbona 1755. Periodicamente “un colpo di martello” riaccende le nostre paure e recide la trama dei nostri significati. Così dopo che la città portoghese fu annientata in pochi minuti, Voltaire, Diderot, Rousseau e Kant riformularono le loro certezze limiti. Non è cosa di poco conto: il pensiero può essere l’archivio dove si custodisce la rappresentazione del mondo e dell’uomo, l’immagine stessa della vita. L’antropologo Clifford Geertz parla dell’uomo come di «animale sospeso a ragnatele di significato che egli stesso ha filate». Ma che cosa accade quando la fitta trama di queste ragnatele viene lacerata? L’uomo potrebbe precipitare, con tutte le sue costruzioni e i suoi azzardi mentali, nell’abisso che sempre è aperto sotto i suoi piedi. Prendiamo il grande terremoto di Lisbona del 1 novembre 1755. La grande fiori-
tura dell’illuminismo è ai suoi inizi. L’Encyclopédie, diretta da Diderot e d’Alembert sarà completata nel 1780, ma inizia nel 1751. Nel ’54 Condillac scrive il Trattato sulle sensazioni, poco dopo Helvétius pubblica il suo De l’esprit, manifesto di un materialismo radicale. Nel ’75 comincia dunque a diffondersi la chiara luce dei lumi, fino al momento (mancano quattordici anni alla Dichiarazione dei diritti del 1789) in cui, a Lisbona, la terra trema. Sono le 9.30 del 1 novembre 1755. «Tre grandi scosse colpirono Lisbona, scrive Paul Buck nel suo saggio su Li-
è stato detto, comunque un grande tribunale metafisico dove vengono convocati e impietosamente indagati il Male, Dio, la Natura, l’Uomo. Il pensiero si ripensa, questo è accaduto a Lisbona. L’Uomo si ripensa; la natura si ripensa. «Le fondamenta della terra tremano», dice Paul Tillich sulla scia di Isaia e di Geremia. E quando le «fondamenta della terra tremano» oscilla pericolosamente anche la possibilità stessa dell’uomo. Un terremoto, filosofico o meno, squassa l’uomo ancor prima delle sue città. Non solo colpisce a morte i suoi affetti e i suoi legami, spezza il filo delle consuetudini che l’orientano nel mondo, frantuma lo specchio della sua identità. Non solo questo. C’è un percorso più sotterraneo, più nascosto, che segue al movimento distruttivo delle forze che danno vita a un terremoto. Hiroki Azuma, un giovane scrittore giapponese che ha raccontato la sua personale esperienza del terremoto, dice di aver provato una nuova paura, quella di non poter comunicare, di restare isolato. Credo ci sia una paura, non immediata, ma ancora più dirompente: è il silenzio dell’uomo e del suo pensiero, che non potrà dar nome alle cose se non riuscirà a farsi strada fra le rovine, fra i nomi andati in frantumi.
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Pop
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musica
BUSINESS ALTERNATIVI: armi, coca e rock ’n roll di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi ieccoli, i Blondie che dal 1976 all’82 elettrizzarono la scena Downtown di New York suonando al CBGB e al Mudd Club. Reunion impossibile (dopo le rimpatriate del ’99 e del 2003) se non ci fosse stata ancora lei, Debbie Harry, l’icona in cima al gruppo. Debbie che dalla nativa Miami approdò nella Big Apple: cameriera al Max’s Kansas City, coniglietta di Playboy nei night club e poi, appunto, Blondie: talmente sexy (e platinata) da far girare la testa a quella screpolata New York che mischiava nelle strade e nei locali underground musica, improvvisazioni teatrali, poesia e la graffiti art di Jean-Michel Basquiat e Fab Five Freddy. È il chitarrista Chris Stein a scoprirne le doti di cantante (nel gruppo folk-rock The Wind in the Willows), a volerla negli Stilettos e poi a confezionarle su misura la band che di volta in volta scandisce post-punk, rock, technopop, reggae e discomusic mettendo in fila successi come Picture This, Heart Of Glass, One Way Or Another, Atomic, Rapture, Maria e Call Me, dall’American Gigolo girato nell’80 e griffato Richard Gere. Quaranta milioni di dischi venduti e otto album dopo, Debbie e Chris pubblicano Panic Of Girls. Con loro c’è Clem Burke, il batterista storico, più i «gregari» Tommy Kessler (chitarra), Leigh Fox (basso) e Matt Katz-Bohen (tastiere). «Comporre nuova musica si è rivelato molto importante sia per me, sia per il resto della band», ha dichiarato Debbie. «Dodici anni fa abbiamo ricominciato a riunirci con uno scopo ben preciso: non ridurci a essere uno squallido greatest hits di noi stessi. Obiettivo che, ne sono certa, siamo riusciti a cogliere anche con questo disco
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Jazz
zapping
na volta si diceva sesso, droga e rock ’n roll. Una volta. Adesso invece la casa discografica Interscope ha chiarito la propria posizione sulla vicenda che ha visto il manager di The Game Jimmy «Henchman» Rosemond al centro di un massiccio traffico di cocaina e contante tra Los Angeles e New York: nello specifico, la affiliata al gruppo Universal ha smentito di essere coinvolta - sia a livello di personale, che di strutture di proprietà mobili e immobili - nell’operazione illegale che potrebbe costare all’impresario della Czar Entertainment una condanna all’ergastolo. Insomma già il sospetto che una casa discografica si trovasse implicata in un affare del genere poteva portare a due considerazioni: 1) il mercato dei dischi è in crisi nera, come sappiamo, e allora le forme di business alternative a volte prendono strade un po’ eccentriche; 2) tanto tanto tempo fa si diceva che la discografia (o addirittura il governo Usa) controllasse artisti e pubblico attraverso le droghe, per distruggere la purezza hippie dei rockettari. In entrambi i casi si tratta di dietrologia, purissima dietrologia: fa piacere sapere che la Interscope niente c’entra. Anche se, con un po’ di dispiacere estetico, bisogna notare che il manager che fa la spola coast to coast con armi e coca è una gran figura di maledetto (e rockettaro), in fondo. E il fatto che la Interscope se ne dissoci così, a cuor leggero, è sintomatico. Eh, sì, una volta si diceva sesso droga e rock ’n roll. Ora del trinomio maledetto nemmeno la droga resta. Aridatece trafficanti ed ergastolani, o ci crollano proprio tutte le mitologie.
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Riecco i Blondie tutt’altro che reduci ben incollato al presente, ma con un orecchio rivolto al passato». In effetti, Panic Of Girls ha il pregio di rimettere in gioco tutta la godibilità new wave dei Blondie senza farsi abbindolare da quel’insopportabile déjà vu che fa tanto «cosa resterà degli anni Ottanta». D’accordo, ben pigiati nella polpa di What I Heard ci sono sintetizzatori a manetta e chitarre power pop; D-Day, irresistibilmente ballerina, scandisce il metronomo del technopop per poi tuffarsi nel rock; e il tipico «tiro» melodico dei loro più grandi successi (Maria su tutti), rende particolarmente efficace Mother. Il tutto, però, suona per fortuna attuale. Per cui vade retro, bolse nostalgie da reduci. L’importante, per Debbie Harry, è divertirsi alla faccia delle sessantasei primavere raggiunte a luglio. Brutte storie di droga l’hanno segnata ma è viva, ha lavorato
duro per rimettersi in forma e «ho fatto la plastica che forse rifarò a breve», ha ammesso candida. Si diverte, l’ex ragazza che fantasticava d’esser figlia di Marilyn Monroe, a colpi di reggae e ragamuffin (Sunday Smile, The End The End, Girlie Girlie), facendo il verso a Shakira nel ritmo caliente e nei versi spanglish di Wipe Off My Sweat, travestendosi da rockettara un po’ caciarona (Love Doesn’t Frighten Me). Epperò come sono bravi lei, Chris e Clem quando riscoprono il gusto della ballata con la spigolosa e umorale Words In My Mouth (interpretata da Debbie con piglio acidulo, alla Marianne Faithfull), lo pseudo-country di China Shoes e Le Bleu, chanson un po’mélo che fa rima con Serge Gainsbourg. Ce ne fossero di dischi così, felicemente poppettari. Ma se ancora non lo conoscete, ascoltate quel gioiellino kitsch & chic del ’78 intitolato Parallel Lines. È il miglior album dei Blondie, ne vale la pena. Blondie, Panic Of Girls, Eleven Seven Music/Emi, 14,99 euro
Una manciata di stelle nel regno dell’improvvisazione di Adriano Mazzoletti ggi che riviste più o meno specializzate, trasmissioni radiofoniche, referendum indetti dalle maggiori pubblicazioni informano i loro lettori o i pochi ascoltatori sul mondo del jazz limitandosi, unicamente o quasi, agli ultimi arrivati, i cui nomi, a volte ancor sconosciuti, vengono presentati e «lanciati» come nuove stelle del jazz, ben vengano piccole o piccolissime case discografiche che pubblicando nuovamente registrazioni introvabili da tempo o che indagando in archivi pubblici e privati, scoprono piccoli o grandi tesori del jazz di ieri, rimasti inutilizzati. Chi si ricorda oggi del Jazz at the Philarmonic, che Norman Granz inventò oltre sessant’anni fa? Pochi o nessuno, sicuramente fra i giovani e giovanissimi che leggono riviste specializzate e ascoltano i rari programmi jazz della radio pubblica. Nelle fila del Jazz at the Philarmonic o più semplicemente JATP, si sono suc-
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ceduti, nel corso di oltre mezzo secolo, molti fra i più importanti musicisti della storia del jazz, da Dizzy Gillespie a Coleman Hawkins, da Stan Getz a Oscar Peterson, da Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Benny Carter, Gene Krupa, Cannonball Adderly e decine d’altri. Una di queste piccole e un po’ misteriose etichette discografiche, la Solar Records, ha pubblicato recentemente, in un cofanetto di tre cd, accompagnato da un libretto di ben 24 pagine, l’integrale dei concerti, pomeridiano e serale, che il JATP diede il 21 novembre 1960 alla Konserthuset di Stoccolma, per un totale di 3 ore e 24 minuti di musica divisi di 25 brani, di cui gli ultimi sette, rimasti inediti fino a ora. Per quella tournée europea, che contrariamente ad altre non toccò l’Italia, Norman Granz si avvalse della collaborazione delle trombe, Dizzy Gillespie e Roy Eldridge, dei sassofonisti Stan Getz, Coleman Hawkins, Benny Carter,
tare i duetti fra Roy Eldridge e Dizzy Gillespie, le «battaglie» fra Getz, Hawkins e Don Byas, le magistrali interpretazioni di meravigliose canzoni di Jerome Kern (Yesterdays), Hoagy Carmichael (The Nearness of You), Harry Link (These Foolish Things) da parte di grandi maeFlip Phillips e Roy Eldridge nel 1950 stri come Hawkins, Cannonball Adderly, Leo Wright e Don Benny Carter e Roy Eldridge o le infuoByas, del trombonista Jay Jay Johson, cate jam session, della durata di quasi dei pianisti Lalo Schriffin e Victor Feld- venti minuti, su Kush, una composizioman, del contrabbassista Art Davis e ne di Gillespie, e Indiana, da parte di del grande batterista Jo Jones. Un tutti i musicisti alla ricerca di superare gruppo di stelle del jazz le cui improv- se stessi e gli altri. visazioni sono state fortunatamente registrate, inizialmente su vinile e oggi, Jazz at the Philarmonic, Complete Live con un processo di rimasterizzazione, in Stockholm, Solar Records, Distribusu cd. È una gioia immensa poter ascol- zione Egea
arti Mostre
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a scritto Francesco Somaini (1926-2005): «La scultura non ha altro modo che questo: cucire immagini lontane, per avanzare modelli, riferimenti, al suo pubblico vero, che non frequenta i luoghi separati dell’arte». Davvero, io non so più se esista un pubblico «vero», e se possa salvificamente separarsi dai site specific, spesso marci, dell’arte ufficiale (separata dalla vitalità vera della vita), ma mi auguro ancora di sì. E anche che, se qualche viaggiatore, apparentemente sprovvisto di spocchia contemporaneistica, per sola virtù turistica, s’inoltri in uno dei luoghi più affascinanti al mondo, cioè le chiese rupestri tra i Sassi di Matera (spruzzate ancora di qualche larva d’affreschi arcaici e bizantineggianti, salvati dalla luce protettiva dell’umido buio) riesca però subito a penetrare la forza e la potenza, coinvolgenti, di queste forme-non forme, inconformi, che il fantasma postumo di Francesco Somaini è riuscito a depositare qui, come pietrificate ovaie preistoriche, capaci però di schiudere speranze inattese, e adesioni immediate, fisiche. Ho messo le sue date, all’inizio, perché Somaini è scultore ingiustamente poco frequentato, e certo scandalosamente meno noto di tanti celebrati copyright di trovatine alla moda, che la critica ancora supporta. Mentre credo e spero che anche un profano s’accorgerà della forza ctonia e autentica, che sprigiona da Leda o da una Matrice, magari paragonandola mentalmente alla scopiazzatura, in salsa Raimondo di Sangro, esposta da Cattelan, nello show-room di Pinault, a Venezia. Certo, lui-Franti sorriderebbe, sufficiente, con il ghigno dollaro-Cabello, ma a noi davvero poco importa, e continuiamo a inseguire Somaini, in questo labirinto sepolto, che ma-
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Architettura
Somaini e la forza della fragilità di Marco Vallora gnificamente lo magnifica e invera. Mi ha ricordato la figlia dell’artista, Luisa, che ha collaborato a questa splendida mostra curata da Peppino Appella, che non esiste solo questa lettura notturna, saturnina, sepolta, che c’è anche l’erotismo, la vita. Ma io sento in lui molto quest’aspetto-strazio della morte dell’arte, percepita da Argan, e di agonia della forma mancata, franta, esplosa, ch’è bellissima proprio perché ferita a morte. Come un po’ moribondo, in fondo, mi pare quel fare critico che con lui deve ancora stampellarsi con dei riferimenti, che sono legittimi, biografici, inequivocabili, ma che non servono più a
contenere la sua volontà di soffocare i legami, di deglutire le «citazioni». Lo dice quasi in poesia: «Gli azzardi di una tecnica nuova/ tendono il percorso creativo./ La tradizione è impedita, impraticabile la citazione./ Condizione (...) è ritrovarli su una sponda nuova /nel limbo dell’inedito,/ con una prassi mai frequentata». L’infrequentabilità ormai della citazione, la volontà di strangolare le influenze, magari mettendole in scena, spiranti. Sì, giusto: si continuano a ripetere quasi meccanicamente i nomi di Pevsner e di Gabo, che per la sua biografia, certo, son stati importanti, ma la sua
scultura pare presto aver ben poco a che fare con i tendini geometrici di quelle fantasie strutturaliste, costruttiviste. Somaini distrugge l’utopia del costruire razionale, anche se è molto vicino agli architetti, lavora a fianco di Caccia Dominioni e Ico Parisi, è presente nello studio di Philip Johnson, se pur lontanissimo dalla poetica post-moderna della citazione a-gerarchica. Trapana molti sky-line di città americane, ma i suoi titoli sono illuminanti - disfattisti, secondo una logicagrattacielo: Caduta nello spazio, Lotta con il mostro, Paesaggio insidiato, Stele spaccata, Grande martirio sanguinante (già da ragazzino i suoi titoli erano: Attila e Barbaro!). Carnificazione di architettura: il murarsi, che torna viluppo dolente di carne. Insoddisfazione e rifiuto: colati nello stampo urlante dei suoi «conglomerati ferrei». Non so se sia forzatura, ma in mezzo a quei soffocati clamori di materia bombardata, può tornate alla memoria l’ultimo racconto di Kafka (la tubercolosi che ha guadagnato la sua afona laringe, il canto ucciso). Josephine, la cantatrice o il popolo dei topi. Squittisce, la diva, ma il suo popolo sotterraneo è convinto che lei abbia voce divina, e lei, per capriccio e sfinimento, si nega al canto. Così Somaini, nei penetrali della materia sculturorea, in un mondo che non capisce più che sia bellezza, smette la «citazione», il rapporto con la tradizione, spezza e si spezza. Anche lui ha titoli doppi, indecisi, come Kafka che ammette, con Max Brod: «Non sono belli, ma valgono da bilancia». Tra figurazione e astratto, luce e ombra, vita e morte. «Non ho apportato nessuna qualità richiesta dalla vita, solo l’umano e la fragilità. Grazie a questa - forza immensa ho assorbito l’elemento negativo del mio tempo, senza avere la possibilità di combatterlo, ma sino a un certo punto, di rappresentarlo».
Idee costruite: la doppia missione del Maxxi
opo le numerose iniziative che hanno animadi Marzia Marandola to le giornate estive al museo Maxxi, la sezione architettura apre con la mostra Exhibiting pezzo spettacolare lungo ben 4,5 metri, magnificathe collection, 1950-2010. Progetti dalla colle- mente restaurato per l’occasione. Accanto si può apzione del Maxxi, curata da Maristella Casciato, Laura prezzare in modo ravvicinato la straordinaria qualità Felci e Esmeralda Valente. La mostra presenta una se- grafica e visionaria del progetto di Carlo Aymonino lezione dei materiali, modelli e disegni, conservati ne- per la copertura del Giardino Romano in Campidogli archivi di architettura del Maxxi, che ha acquisito glio; l’immagine pionieristica, già Pop Art, del progetdalla sua fondazione nel 2001 a oggi, archivi di archi- to per una stazione di servizio della Esso progettata tetti e ingegneri del XX e XXI secolo. In mostra più di negli anni Sessanta da Vittorio De Feo; l’affascinante 70 disegni e modelli di 19 progettisti, alcuni esposti qui nastro di sezione della ricostruzione del teatro la Feniper la prima volta, corredati da interviste audio, rap- ce di Venezia di Aldo Rossi; il modello dell’originale presentano solo un camedificio polifunzionale su via pione degli oltre 50 mila Campania a Roma dello studisegni, più di 25 mila fotodio Passarelli e le figurazioni grafie, libri, periodici, etc., immaginifiche di Venezia acquisiti e archiviati dal nelle cartoline postali di YoMaxxi. L’esposizione inina Friedman. Come sottolizia con un colpo di teatro: nea Maristella Casciato, stolo straordinario modello in rico dell’architettura di fama legno e metallo del ponte internazionale, la mostra atsullo stretto di Messina, testa il doppio ruolo del progettato da Sergio MuMaxxi: da un lato custodire e smeci, per il famoso conproteggere i documenti; dalcorso internazionale di l’altro promuovere iniziative progettazione del 1969. Un finalizzate alla conoscenza e Il progetto di Carlo Aymonino per la copertura del Giardino Romano in Campidoglio
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alla loro più ampia divulgazione. Una rassegna di opere, architetture realizzate come schizzi ideativi, ognuna delle quali ha influenzato o contrassegnato un momento nevralgico del percorso architettonico italiano e internazionale del Novecento. Nella scala cronologica temporale chiudono la mostra 3 dei 15 progetti finalisti al concorso internazionale di progettazione del museo Maxxi: i plastici di Michele De Lucchi, Rem Koolhaas e Jean Nouvel: proposte in diverso modo spregiudicate che fanno apprezzare ancora più l’edificio costruito su progetto della celebre architetta angloirachena Zaha Hadid, vincitrice del concorso. In contemporanea e in adiacenza alla mostra principale, una piccola esposizione monografica presenta progetti e opere degli ultimi vent’anni del maestro spagnolo Albero Campo Baeza, brillantemente allestita dallo stesso architetto e curata da Manuel Blanco. L’esposizione ruota intorno all’«albero della creazione», un fulcro visivo le cui stilizzate foglie, schizzi di lavoro e immagini dei progetti, restituiscono vibranti frammenti dell’asciutta e misurata «idea costruita» di Baeza, come lui stesso definisce l’architettura.
Exhibiting the collection, 1950-2010. Progetti dalla collezione del Maxxi, Roma, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, fino al 13 novembre
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il paginone
ERODE?
Fu un grande re di Rossella Fabiani e l’Europa è afflitta dalla vexata quaestio delle due velocità, anche l’Italia appare divisa in due. Da una parte costretta, e quasi umiliata, a seguire la parabola politica del suo governo, dall’altra impegnata a costruire un futuro che poggi le sue radici anche nella conoscenza del passato. Come nel caso della fondazione Niccolò Canussio che, fin dal 2000, è impegnata in un progetto di ricerca sull’identità e l’integrazione dei popoli nell’antichità classica attraverso convegni dedicati ogni anno a incontri di genti, culture e lingue in Europa dall’Antichità all’Umanesimo. Il tema di quest’anno, si tratta del XIII convegno organizzato dalla Fondazione che si chiude oggi a Civi-
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na, storia militare antica, letteratura latina, diritto romano, storia delle religioni, archeologia e storia dell’arte antica - analizza l’antica Giudea, cioè l’area compresa tra Israele, Palestina e Giordania, e i suoi rapporti con le diverse realtà politiche mediterranee e mediorientali (Roma, i Tolomei d’Egitto, i Seleucidi di Siria, i Parti dell’Iran) e con le comunità ebraiche della «diaspora» (in particolare quelle di Roma e di Alessandria), talvolta oggetto di persecuzione, ma protagoniste allo stesso tempo anche di una notevole integrazione culturale; le diverse fazioni e i conflitti interni al mondo giudaico; l’organizzazione amministrativa pre-romana e romana, la religione, la letteratura e la cultura nel senso più ampio
dei Romani, secondo la definizione dello storico Flavio Giuseppe, Erode occupa un posto a parte nella storia del Vicino Oriente antico, soprattutto se lo si colloca nella prospettiva delle relazioni tra Roma e la Giudea. Il suo regno e la sua stessa figura sono stati tante volte descritti dagli storici, soprattutto cristiani, secondo l’unica fonte scritta che ce ne dà notizia in modo completo, ma è vero che Giuseppe si è ispirato largamente a un adulatore-confidente del re, Nicola di Damasco, spesso troppo compiacente. Le scoperte archeologiche rivelano, però, anche l’attività di Erode che è stato un grande costruttore e invitano a rivederne il giudizio complessivo. Sovrano imposto da Roma e protetto dalle più alte autorità
Sovrano imposto, fece della lealtà verso Roma il motivo della legittimità del suo potere. Riuscì così ad assicurare stabilità e pace al suo regno che curò sia dal punto di vista urbanistico che culturale dale del Friuli, affronta l’argomento «spinoso» - come lo definisce il vicepresidente Corrado Canussio - della Iudaea sociaIudaea capta ed è dedicato a un’area la cui importanza geopolitica è oggi sotto gli occhi di tutti, una terra affascinante e problematica già nel mondo antico che nell’immagine scelta per illustrare i tre giorni del convegno è rappresentata dalla Haghia Polis Ierousalem (la città santa di Gerusalemme).
La lente d’ingrandimento di diciotto studiosi di chiara fama provenienti da Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Israele e Italia, e appartenenti a diverse discipline storia roma-
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del termine. L’arco cronologico affrontato va dall’inizio del II secolo avanti Cristo, quando l’emergente potenza romana si presenta all’orizzonte come l’alleata ideale contro la politica antigiudaica dei re di Siria (la Iudaea socia); e il regno di Adriano (117-138 dopo Cristo), quando viene repressa l’ultima ribellione ebraica contro l’impero romano (la Iudaea capta). La storia, si sa, viene scritta dai vincitori. E in questa area - strategica allora come oggi - l’analisi accurata delle fonti, dei reperti archeologici, delle iscrizioni, dei papiri, è stata sempre quanto mai tirata ora da una parte ora dall’altra: i vincitori e i vinti. Un caso emblematico può essere la figura di Erode, il re straniero, analizzata da Jean-Michel Roddaz. Re dei Giudei e amico
romane, Erode fa della lealtà verso Roma il motivo della legittimità del suo potere. D’altra parte, se si considera la stabilità e la pace sia interna che esterna da lui assicurate e se si esaminano tutte le opere architettoniche, urbanistiche e culturali che ha realizzato - influenzate dall’ellenismo, dal giudaismo e dalla romanità - si deve riconoscere che il suo fu il regno di un grande re.
Altra figura emblematica della difficoltà o dei limiti dell’integrazione è quella dello storico Yosef ben Mattithyau che cambia il suo nome in Tito Flavio Giuseppe e di cui ci parla Elvira Migliarino. Il periodo almeno ventennale trascorso a Roma da Flavio Giuseppe è interamente compreso nel-
l’età flavia, oggetto di vari studi recenti scaturiti da una rinnovata attenzione degli studiosi nei confronti di quella che viene oramai considerata come una fase storica peculiare, caratterizzata dalla stabilizzazione sia dell’im-
pianto strutturale, sia del quadro ideologico-culturale del sistema imperiale. Pare dunque giunto il momento - sostiene la Migliarino - di riconsiderare la figura di Flavio Giuseppe alla luce del
contesto storico di appartenenza, esaminando la collocazione e il ruolo che a un intellettuale ebreo, già appartenente alla classe dirigente di una nazione sconfitta, poi transfuga presso i vincitori, era dato di avere nella Roma dei Flavi, dove l’annientamento del suo popolo veniva celebrato a livello ufficiale con iniziative e manifestazioni di enorme impatto propagandistico e dove, comunque, la presenza di una delle maggiori comunità della diaspora ebraica poneva delicati problemi di riposizionamento a chi era stato direttamente - e ambiguamente - coinvolto negli eventi del 66-70. Una lettura soddisfacente del periodo romano della vita di Giuseppe, nel quale la sua attività letteraria
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Scoperte archeologiche invitano a rivedere il giudizio sull’autore della Strage degli innocenti. È uno dei tanti aspetti emersi al convegno della Fondazione Niccolò Canussio che si chiude oggi a Cividale del Friuli, dedicato quest’anno allo spinoso argomento della Giudea: un’area strategica nell’antichità tanto quanto oggi
si esplicò interamente, non può prescindere da un tentativo di ricostruzione dei primi contatti che egli ebbe con Vespasiano, e, soprattutto, del rapporto privilegiato intrattenuto con Tito fra il 67 e il 70, anni nei quali vanno cercate le premesse della posizione di relativo privilegio di cui egli poté godere a Roma nel decennio successivo al suo trasferimento. Alla luce del contesto storico-politico degli anni 80-90 del I secolo, le poche notizie autobiografiche desumibili dalla Vita inducono invece a sospettare l’insorgere di alcune difficoltà personali di Giuseppe, probabilmente riconducibili a una situazione individuale a sua volta determinata dall’atteggiamento di diffidenza generalmente tenuto da Domiziano nei confronti del mondo giudaico. Le opere risalenti a quest’ultima fase (le Antichità con la Vita, l’appendice che in tale contesto assume grande rilievo, e il Contro Apione) risentono del mutato clima di età domizianea: un fattore certamente condizionante, di cui risulta indispensabile tenere conto nell’avvicinarsi a una produzione letteraria alla quale sono state ultimamente applicate nuove e interessanti categorie interpre-
tative. Lucio Troiani analizza, invece, la politica estera di Pompeo in Giudea secondo la visuale di Flavio Giuseppe riscontrandone due elementi: da un lato, la marginalità della storia romana nella sua opera (tanto nelle Antichità giudaiche quanto nella Guerra giudaica). La narrazione delle azioni militari di Pompeo nella regione è tutta incentrata all’interno della storia giudaica passata e futura e della visione che di essa offre il nostro autore. La potenza romana è vista sostanzialmente come potenza militare che mette a disposizione i suoi servizi al maggior offerente e si butta a capofitto nelle situazioni di politica internazionale che di volta in volta si presentano nelle loro opportunità da utilizzare e la perdita dell’indipendenza giudaica è attribuita ai dissidi interni, dissidi cronici da cui i giudei sono afflitti nel corso
della loro storia millenaria. Con un nuovo studio delle fonti basato sulle ricerche più recenti,Ariel Lewin mette sotto la lente d’ingrandimento la guida politica ebraica dal 6 dopo Cristo fino allo scoppio della grande rivolta, sviscerando il ruolo che ebbe la leadership ebraica negli eventi che portarono alla condanna di Gesù. Discute anche i motivi per cui all’epoca dei successivi attacchi portati contro i cristiani si crearono fratture all’interno del ceto dirigente. E vaglia con profondo senso critico le rispettive peculiarità dei farisei e dei sadducei. L’analisi di Giorgio Camassa del terzo libro - forse il più studiato - degli Oracoli Sibillini come pure l’intervento di Dirk Obbink su un nuovo papiro dell’Exagoge di Ezechiele proveniente da Ossirinco in Egitto,
offrono invece lo spunto per una rivisitazione della storia mediterranea fra la fine del III e l’inizio del II secolo avanti Cristo e sono anche occasione per un esame della difficile posizione in cui si trovavano le comunità giudaiche in Egitto mentre la Palestina passava dai Tolomei ai Seleucidi. William Fitzgerald offre l’opportunità di discutere in modo particolare la presenza degli ebrei a Roma per sostenere approcci più storici o positivi, attraverso le citazioni che il poeta latino Orazio nel suo primo libro delle Satire dedica alla comunità ebraica e alle sue pratiche. Citazioni che, a una lettura isolata possono apparire xenofobe, ma che considerate nel loro contesto danno un’immagine più complessa degli ebrei. Parte dalle fonti letterarie romane anche Mireille Hadas-Lebel per descrivere la presenza giudea a Roma dal secondo secolo avanti Cristo al secondo secolo dopo Cristo tentando almeno in parte di rispondere ad alcune domande: a quando si può far risalire la prima presenza degli ebrei a Roma? Come questa popolazione aumenta nel tempo? Quale è stata la reazione della società romana al contatto con le usanze ebraiche? Gli alti e i bassi della situazione degli ebrei a Roma durante l’epoca imperiale. Le conseguen-
Una ricerca, quella portata avanti dai Canussio, incentrata sull’identità e l’integrazione dei popoli in Europa dall’Antichità all’Umanesimo. Nella convinzione che il futuro si fonda sul passato Al centro del paginone Erode il Grande. Sopra, Salomè danza per il Re e la locandina del convegno internazionale “Iudaea Socia Iudaea Capta”. A destra, la Passione secondo Memling. Nella pagina a fianco, le monete dell’epoca e Gerusalemme
ze delle rivolte ebraiche sulla comunità ebraica romana. Le fonti archeologiche, soprattutto le iscrizioni delle catacombe ebraiche di Roma, restituiscono un quadro della vita degli ebrei romani a partire dal secondo secolo: onomastica, lingua, mestieri, sinagoghe e credenze.
Giusto Traina sottolinea che nella Storia d’Armenia di Mosé di Khoren, si parla di deportazioni di ebrei in Armenia da parte del re Tigran il Grande. Mosé di Khoren mette in scena una prima avanzata del re contro i Seleucidi, la sua conquista della Cappadocia e quindi il ritorno in patria e le misure prese contro la casata nobiliare dei Bagratidi, a cui lo storico, in un passo precedente, aveva già attribuito un’origine ebraica. Mosé di Khoren ricorda che i prigionieri ebrei vennero condotti in Armenia, nelle città di Armawir e Vardgs, secondo una tradizione di deportazioni attestata già per epoche più antiche. Pur tenendo conto dei problemi relativi alle fonti armene, e in particolare alla Storia d’Armenia di questo autore, non occorre dubitare della veridicità storica delle deportazioni di Tigran: la documentazione presenta infatti una relativa coerenza. Inoltre, le fonti classiche attestano che il re aveva intrapreso un’attività sistematica di spostamenti di popolazioni. Non a caso, ancora nel IV secolo importanti comunità ebraiche vivevano ancora in almeno otto centri urbani del regno d’Armenia. Con il convegno Iudaea sociaIudaea capta la Fondazione Niccolò Canussio continua il suo lavoro ciclopico di ricerca che aveva già concentrato l’attenzione sulla Spagna (nel 2001), l’Illirico e l’area balcanica (nel 2003) e l’Asia Minore, l’odierna Turchia, (nel 2006). Anche quest’anno il presidente della Repubblica ha aderito al convegno e ha donato una speciale medaglia di rappresentanza, coniata per l’occasione, che la Fondazione ha, a sua volta, consegnato a Wang Huansheng per premiare la sua opera di divulgazione della lingua latina nel mondo. Wang Huansheng, professore dell’Accademia di Scienze Sociali di Pechino, ha tradotto moltissime opere latine in cinese e ha ritirato la medaglia a Cividale. Il convegno ha ricevuto anche il patrocinio dell’Ambasciata d’Israele in Italia (cosa più unica che rara per un convegno di scienze umane) e quello del ministero degli Esteri che si aggiunto a quelli, tradizionali, dei ministeri dell’Università e della Ricerca scientifica e della Cultura.
Narrativa
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a scuola di Brueghel nel suo crudele realismo, nel suo allusivo caos, nei suoi sconci apparentamenti ha la stessa vividezza e lo stesso scoramento dell’osservatore del romanzo di Antonio Scurati, La seconda mezzanotte. Il romanzo si profila subito nel denso impasto linguistico come una storia di confine, di materia, di crogiolante sangue, di polvere e macerie, di fine del mondo. La storia, a cui non manca il sottofondo allegorico dei romanzi di Scurati, si distacca di poco dalla contemporaneità, dai temi ributtanti della cronaca ripercorsi negli episodi fin troppo noti della pubblicistica (Il bambino che sognava la fine del mondo), per arrivare a un tempo futuro, per l’esattezza il 2092, che ha portato fino allo stremo i tempi moderni, coniugandoli e rappresentandoli come decadenza e morte, fine d’ogni principio di convivenza civile, distruzione del sistema occidentale così come lo conosciamo. Un testo apocalittico con una misura meno distaccata dell’impeto morale a cui Scurati ci ha abituati. Una storia che è l’apocalisse della cultura europea, africanizzata nel Mediterraneo e distrutta nell’economia dei Paesi forti come Germania e Inghilterra. Un mondo brutale, scisso tra perversi osservatori della dissoluzione e brutali e miseri gladiatori, o combattenti, di un’arena agghiacciante. Il teatro (non avrebbe potuto essere diverso) è Venezia che travolta da un’Onda viene definitivamente sommersa, com’è nel suo destino di città morente. Ricostruita da una multinazionale cinese, la Tnc, come una sorta di città virtuale chiusa in una bolla che regola la temperatura e controlla l’ingresso delle persone, una grande arena costruita per il divertimento di pochi ricchi che assistono allo scontro mortale dei gladiatori. I quali ripetono come una nenia, prima di affrontare la lotta, il giuramento dei gladiatori: uri vinciri verberari ferroque necari. Un mondo poggiato su questa strana mescolanza di orrore e morte, lingua morta e uomini regrediti a bestie, per lo più descritti come animali che fronteggiano altri
Antonio Scurati LA SECONDA MEZZANOTTE Bompiani 343 pagine, 19,00 euro
L
Riletture
libri
2092
morte a Nova Venezia Scenari da fine del mondo, ambientati nella città lagunare caduta in mano dei cinesi, nel nuovo romanzo di Scurati di Maria Pia Ammirati
animali, di fronte a una natura estenuata. I gladiatori, o gli ultimi veneziani, sono schiavi costretti a vivere per combattere. Non è loro concessa una vita normale, non possono avere figli, la vita sessuale è possibile solo nei postriboli. I gladiatori «sono enormi e orribili, come voleva la voce del popolo…bicipiti gonfi allo spasmo, colli taurini, toraci tesi, zigrinati, ruvidi come cuoio animale». I corpi maschili deformi ed enfiati, vittime della forza, quelli femminili, ridotti al ruolo della puttana e della vittima; un mondo stremato, con la geografia ancora riconoscibile di Venezia nella sua piazza San Marco ricostruita, e i perimetri attorno annientati e tenuti come punti di riferimento. In questo percorso, che certo non intrattiene né consola ma porta alle estreme conseguenze il male che sembriamo abituati a vivere, si distinguono due personaggi che appartengono alla schiera degli eroi, il Maestro e Spartaco. Uomini che disubbidiscono alle nuove regole di questo nuovo mondo (la città che nasce sopra l’annegamento di Venezia si chiama Nova Venezia), e partono alla scoperta della città distrutta, la città vecchia, quella fuori dalla ricostruzione cinese, oppure si innamorano e strappano il microchip che fissato sotto pelle, rende gli uomini sterili. Un romanzo duro e scomodo, una lingua grondante umori, densa di salmastro, il disagio per il senso di claustrofobia e d’odio che regola un universo ammalato e distrutto nel suo codice più profondo che è l’umano. La parafrasi della modernità come luogo di morte e di falsificazione si spiega già nelle prime pagine quando la Nova Venezia viene paragonata a una squallida Las Vegas, «la Las Vegas dell’ultimo millennio».
Il correttore di refusi e l’utopia dell’esattezza
eorge Steiner (Parigi 1929), scrittore, critico e saggista, si è sempre dedicato al rapporto tra potere, barbarie e cultura. La Garzanti manda ora in libreria un suo testo, tanto breve quanto arguto e denso di interrogativi fondamentali, apparso nel 1992 (riproposto poi nel ’99 nella collana «Gli elefanti»), intitolato Il correttore (100 pagine, 11,00 euro). Alle prime pagine tutto sta a indicare l’andamento narrativo, che però improvvisamente si stempera fino a diventare saggio o pamphlet. Il «correttore» è un uomo triste e pignolo, considerato negli ambienti editoriali un mago del refuso, lo scopritore delle inesattezze. Proveniente da studi irregolari, il correttore, chiamato «il gufo», conosce tante cose e sa bene che un’inesattezza, pur minima, può rovesciare l’intero significato di una frase, addirittura, in certi casi, migliorarla fino a farla diventare geniale come è capitato con una poesia inglese. Accanto alla sua routine appassionata, c’è l’impegno politico all’interno del movimento comunista. L’adesione a circoli e gruppi culturali alimenta la sua «massoneria della speranza» visto che s’arrovella, da solo e insieme con i suoi amici tra cui
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di Mario Donati un prete, nel tentativo di individuare gli strumenti più adatti a evitare l’umiliazione e lo sfruttamento dell’uomo. L’apparat comunista, ingessato e miope, lo spinge a ricordare Lenin quando denunciava i pericoli della funeraria burocrazia stalinista (25 milioni di vittime per le purghe nell’Urss), e Trockij allorquando inneggiava al modello di «rivoluzione spontanea e permanente». Dialogando con l’amico prete, il correttore s’aggrappa, infervorandosi, al Lenin che nel 1902 affermava che «è necessario sognare». Lo scambio di battute tra il correttore e il prete ricorda in parte il dialogo che c’è nella Peste di Albert Camus. Salvo che qui i due sono sodali nello scovare una via di uscita sia dalle promesse sia dallo sconforto come frutto marcio di meccanismi ideologici. Che cos’è il socialismo? Risposta, necessariamente parziale: «È impazienza… una furia dell’adesso». Da contrapporre alla promessa della Chiesa sul dopodomani. Un’impazienza ripresa da Mosè e più in genere dal giudaismo, ecco perché i nazisti vedevano nel bolscevismo «il virus ebrai-
Tra racconto e pamphlet, un testo di Steiner sulle ideologie offre infiniti spunti di riflessione
co». Insistono, i due dialoganti, sulla «tribù dei perdenti» così cara al Signore. È il sacerdote a dire: «Non può esistere un comunista che non sia, in fondo, un ebreo. Se nel cuore del comunismo c’è la menzogna,“centrale, assiomatica”. Una “perversione” che porta a mutare la guerra nella parola “pace”, un continente di manodopera schiavizzata nella madrepatria della libertà socialista». Crollo del Muro di Berlino. E poi, dopo l’errore mostruoso di sopravvalutare l’uomo? Il capitalismo? Innegabile che abbia evitato questo errore visto che è espressione dell’uomo medio e punta sulla «media mediocre». Diventiamo così «posseduti» da una non-ideologia che impacchetta con la pubblicità i sogni degli uomini. Ma ancora: «L’America ha messo pace tra i desideri umani e l’appagamento». Però «ha reso invisibili gli affamati, i drogati, i brutti: cos’è peggio?». Il correttore, la cui professione assurge a simbolo, rivendica «la santità dell’esattezza, il rispetto di te stesso… esattezza come utopia». Se certe ideologie tentavano di togliere gli errata dalla storia, è pur vero che usavano la «sferza», con la deriva sanguinolenta di gulag e di torture. Steiner, con questa tormentata figura del correttore, ci bombarda di domande. Da ognuna di esse spunti di riflessione. Nessuna è superflua.
Paesaggi
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agnifico. Oppure: Very interesting, Quelle merveille!, Wunderbar. Esclamazioni in tutte le lingue, sincere ma spesso automaticamente incolori, che inalziamo dinanzi a certi angoli o edifici di varie città. Sono però pochi i turisti che portano nello zaino mentale gli occhiali adatti per leggere e percepire il bello, lo strano, il misterioso che s’affianca al loro temporaneo altrove. Lo scrittore Luca Doninelli, che si definisce colto ma «imbranato», questi occhiali li possiede e li inforca. E grazie a essi ci manda «cartoline» da luoghi importanti di un mondo che cambia o che dà l’impressione (falsa) di non cambiare affatto. Nel suo saggio-descrizione-guida intitolato Cattedrali (Garzanti, 269 pagine, 18,60 euro) racconta del suo impatto, del suo «modo di sentirsi dentro una città, sia essa nostra oppure no» (distinzione che ha un senso visto che si tramuta in viaggiatore anche nella città dove abita, Milano). Doninelli cerca il punto di «incontro», senza il quale avvertirebbe estraneità tra sé e quella particolare atmosfera. Che va cercata in un punto o luogo simbolo. E che lui chiama «cattedrale». Spiega così la sua maniera di guardare, curiosare e riflettere: «In una grande città esiste sempre un punto nel quale la pluralità che la compone si raccoglie, prende la parola e comincia a raccontare una storia capace di comprendere tutti i particolari, anche minimi». Questo il metodo che l’ha accompagnato a Barcellona, Gerusalemme, Il Cairo, Pechino, New York, Londra, Parigi, Betlemme (di Milano abbiamo già accennato).
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arroganti, molto consapevoli di stare lì e da lì arginare la globalizzazione, ma non così tanto accoglienti. Accoglienza sempre gentile, verissimo, ma mai abbraccio come a New York.Torniamo a Les Halles, là dove la città sprofonda «dentro un modesto centro commerciale senza vista, senza panorama, senza Tour Eiffel, senza Jardin Du Luxembourg». Sta qui forse «il segno terroso, la cicatrice deformante di qualcos’altro, che si trovava qui, che fu estirpato e che qui lasciò per sempre la propria impronta, la propria cicatrice». Era solo un mercato ortofrutticolo? Les Halles era più di questo,eccome. «È, nunc et semper, il Ventre di Parigi. Dentro ci corrono i treni, insetti in perpetuo movimento».Tutto vero, tutto moderno ma non tutto papiro di storia passata e anche presente, che così si fa orfana di recinti. Comunque è qui il centro gravitazionale, cupola rovesciata della Cattedrale che non c’è, ricordo della via culturale europea che passava da qui.
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Les Halles forever
Se New York, anzi Manhattan, è soprattutto «un’agenda di indirizzi, una rubrica telefonica, un carnet di appuntamenti», o una città che ha la consapevolezza, o l’arroganza, di considerarsi terra dove oggi tutto accade, Parigi è un’aria, un’atmosphère. Ma come entrarci? Dove è la sua «cattedrale»? No, non può essere Notre Dame, «che galleggia come un’incisione nel cielo in bianco e nero e nella topografia rifatta e anonima dell’Ile de la Cité». Non è questo «il ventre di Parigi» per usare l’espressione di Emile Zola. Difficile trovare il centro dell’urbe, che ha una forte impronta romana in barba a tanto sbeffeggiante
Per Luca Doninelli, sono, “nunc et semper”, il Ventre di Parigi, il luogo-simbolo in cui si realizza l’incontro con la città. Così come lo sono la Sagrada Familia per Barcellona, il Muro del pianto per Gerusalemme, i Magazzini Harrods per Londra. Lo spiega in “Cattedrali”, una raccolta di cartoline da nove diverse parti di mondo. In continua evoluzione di Pier Mario Fasanotti gallicismo stile Asterix. Parigi, maniacalmente tondeggiante, una sorta di monade cui pare non possa essere aggiunto né sottratto alcun altro elemento, contiene «una grande porzione di oscurità: la abbraccia e la conserva». Doninelli sceglie Chatelet-Les Halles, il Centro Geometrico. Strani ‘sti francesi: invece di rivitalizzare lo storico e coloratissimo mercato di Les Halles, hanno compiuto una desertificazione. È sotto e attorno che occorre trovare Parigi.Venti arrondissment, ciascuno dei quali ha un odore particolare e offre l’occasione di fare incontri. In un bar o in una brasserie si trova quasi sempre chi legge un libro. Se si ha garbo, gli si può rivolgere una domanda, e lui risponde, comincia a chiacchierare, formando o ampliando così quell’inconfondibile, e così intelligente, brusio parigino. Peccato che Doninelli non creda al «pariginismo». Chi scrive queste righe dissente, riflettendo proprio su un Paese, la Francia, che gravita attorno
alla sua capitale, i cui abitanti portano il foulard della diversità. Ma ha poca importanza: quisquilia. Soprattutto perché Doninelli capta subito il fatto che «la bellezza di Parigi non sta nei suoi capolavori d’arte, nei suoi monumenti o nei suoi negozi, ma nell’essere Parigi, ossia nella sua aria». Certo, ogni città ha la sua aria. Perlomeno, chi più chi meno, in un Occidente con vocazione all’inodore. Parigi tuttavia si rende riconoscibile proprio per la sua aria. Un elemento apparentemente impalpabile (a parte quella porzione che azzanna o accarezza l’olfatto), eppure cosa che si lascia indovinare per ciò che nasconde: fragranze e puzze «si trasformano in inviti». Malizia della Città dell’Amore. I parigini, simili ai romani e molto diversi dai milanesi, sono formidabili abitatori della propria città: «Qui tutto è abitato: case, strade, negozi, caffè». Parigi è il terreno ideale dell’entretien che è l’opposto (malgrado la fonetica) dell’entertainment. Annota Doninelli: «Entretien, ossia lo stare insieme conversando, creando reti di discorsi, di parole scelte; entretien, ossia il brouillement de la langue, il brusio della lingua». Accoglienti i parigini? Cordiali, spiritosi, un po’
Gerusalemme: a Doninelli appare come «una meravigliosa città araba», sospesa in una luce che potrebbe, per noi occidentali, parere rubata, nel giallooro e nel verde, da una cartolina. La rete stradale è pressoché identica a quella che percorse il Cristo. La «cattedrale» di questa città impregnata di Dio, è il Muro. Sì, quello «del pianto», ma anche quello nuovo che alla fine dei lavori risulterà lungo ottocento chilometri. La separazione tra israeliani e palestinesi ha un senso se fa riferimento al Muro dove stanno coloro
che pregano, si inchinano, dondolano, lasciano quei foglietti che contengono domande, dubbi, devozioni, angosce. La muraglia politica in continua costruzione rende difficile, anzi peggiore, la vita dei palestinesi. Che sono reclusi in una smisurata prigione con telecamere oppure inglobati, in territorio israeliano. Diritto al lavoro, ma non diritti politici. «A ciò - osserva Doninelli - si aggiunga la profonda diffidenza degli altri arabi nei confronti dei palestinesi, in quanto piantagrane (secondo loro) o troppo intelligenti (secondo i palestinesi)». Non è il solo muro al mondo che simboleggi il potere, la paura, l’illusione, la segregazione. Il muro parla chiaro: da qui in avanti è casa mia e tu puoi entrare solo se io ti autorizzo. Grandi blocchi di pietra sono il Muro cosiddetto del pianto dove sostano lo «sciame di calabroni», la folla disordinata, gli oranti nerovestiti.Testimonianza tragica della vita umana, altare a un Dio che non ha mandato il Messia, «che non ha mantenuto la promessa non perché non volesse, ma perché non ha potuto mantenerla». Così, con partecipazione pietosa, scrive Doninelli, rassicurato dal Cristo in cui crede.
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di Enrica Rosso ltime battute per la seconda edizione dei Teatri Del Sacro, la rassegna in scena dal 19 al 25 settembre a Lucca, voluta e promossa da Federgat e Fondazione Comunicazione e Cultura. Dei ventisette spettacoli in programma, gratuitamente e in prima nazionale - di cui sette progetti speciali per linguaggio e tema proposto che si vanno a sommare ai venti vincitori del bando di Concorso nazionale - sette saranno rappresentati nelle giornate di oggi e domani. Chiese e giardini del centro storico come palcoscenico, ecco in dettaglio come si presenta la giornata di oggi: s’inizia presto, alle 10.00 (in replica alle 16.00 e alle 21.00) all’Oratorio di San Giuseppe, con la Messa in scena di Costa/Teatro Comunale di Occhiobello-Arkadis celebrata da Marco Sgarbi, ideata e diretta dallo stesso Giulio Costa. Si tratta dell’esecuzione di una vera e propria Messa che svincolata dal suo abituale contesto, restituisce nella presentazione di una liturgia formalmente nota, ma spesso data per scontata, il senso delle parole, dei gesti, dell’essere lì in quel momento, mettendo a nudo la sostanza del rito senza commentarlo. Nel pomeriggio, alle 18.00, l’Orto Botanico sarà testimone della narrazione di Sista Bramini accompagnata dalle musiche dal vivo eseguite da Carla Taglietti della fabula La leggenda di Giuliano. Il racconto vivido e travolgente di una redenzione attraverso la libera elaborazione del flaubertiano La leggenda di San Giuliano ospitaliere presentata da O Thiasos. L’appuntamento successivo è alle 19.30, al Teatro San Girolamo per assistere al Combattimento spirituale davanti a una cucina Ikea di Alessandro Berti nei panni di uno di noi sopraffatto e schiantato dagli eventi, alla ricerca affannosa e appassionata del punto da cui ripartire per dare un senso al proprio passaggio terrestre spogliandolo del superfluo e avendo ben chiaro che «lo stato di unione mistica non è il raggiungimento di una sorta di pacificazione, ma piuttosto un punto di partenza, un pavimento solido su
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Televisione
Teatro I riti del Sacro da Abramo a Ikea MobyDICK
spettacoli DVD
ACCORDI E DISACCORDI DI WOODY IL MAGNIFICO ssurto a uomo immagine della nevrotica way of life newyorchese, aspramente discusso per essersi unito alla figliastra Soon-Yi, esaltato o demolito da tifoserie contrapposte. Pochi artisti come Woody Allen hanno riassunto accordi e disaccordi della società contemporanea. Ma c’è nelle corde del regista anche una vena spontanea che gli regala l’assenza di qualunque sindrome da palcoscenico: l’attività di clarinettista nella New Orleans Jazz Band. Barbara Kopple ne ha seguito la recente tournée in un bel documentario intitolato Wild man blues: ritratto di un Allen inedito, e udite udite, persino felice.
A
BAND
SI SCIOLGONO I REM: NON C’È PIÙ “RELIGION” cui cominciare a saltare». Alle 21.00 su musiche di J.S. Bach saranno i danzatori di Ariella Vidach a interrogarsi sulla questione «Può la spiritualità essere una risposta alla perdita progressiva del valore dell’esistenza?», presentando nella chiesa di Santa Maria dei Servi Empty_less, uno studio sul confronto tra materia e spirito che si avvale dell’interazione di tecnologia e movimento. L’ultimo appuntamento per oggi è alla chiesa San Cristoforo per le 22.30 dove la compagnia I Sacchi di Sabbia presenterà una sacra rappresentazione in cartoon: Abram e Isac, scritto da Giovanni Guerrieri e tratto dalla Rappresentazione di Abramo e Isac di Feo Belcari. In questa performance l’equilibrio tra comico e tragico, cifra della compagnia, si sviluppa attraverso la fusione
dei materiali più disparati per costruire una dimensione scenica a un tempo materica e metafisica. Non meno variate le proposte di domenica: Parabole di un clown (…e Dio nei cieli ride) di Bruno Nataloni e Umberto Zanoletti, alle 11.30 e alle 17.00, per concludere riappropriandosi della tradizione umoristica ebraica con una risata di gioia; tutt’altra l’atmosfera di Vigilia, diretto da Emanuele Bergamaschi alle 16.00; alle 18.30 un ever green, Laudes da Jacopone da Todi e alle 20.30 Per quell’acerbo dolore, in omaggio al Santuario della Cornabusa e ai suoi pellegrini, diretto da Piera Rossi.
I Teatri del Sacro, Lucca, fino al 25 settembre, info www.iteatridelsacro.it - tel. 349 0734578
on sarà la fine di un’epoca, ma di certo è un pezzo d’epoca di cui dovremo fare a meno. Le band si sciolgono, cantava qualcuno, e la regola vale anche per i Rem. «Come Rem e come amici di una vita e cospiratori, abbiamo deciso di mettere fine ai Rem. Ce ne andiamo con un grande senso di gratitudine, di definitività e di stupore per i risultati raggiunti. A tutti il nostro più sentito ringraziamento per averci ascoltato». Il testamento di Stipe è arrivato direttamente dal sito ufficiale della band come una doccia fredda. Nessuna lite, precisano però: soltanto la constatazione che si è chiuso un ciclo.
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di Francesco Lo Dico
A grande richiesta torna Chloe, regina del “profiling” a avuto tanto successo, quindi torna sul piccolo schermo. Innegabile. Ma è anche innegabile il fatto che non ci sia un rimpiazzo. Parlo di Profiling, Fox Crime (Sky), serie realizzata nel 2009 da TF1 (rete francese) su soggetto di due donne, Fanny Robert e Sophie Lebarbier. Alla squadra investigativa del commissario Lamarck viene assegnata una criminologa esperta in psicologia, con cinque anni di dura gavetta negli ospedali psichiatrici e consulenze risoltesi brillantemente. Si chiama Chloe Saint-Laurent: occhioni azzurri, incedere esitante a causa dei pensieri che continuamente insegue, straordinariamente (e comicamente) goffa, intuitiva alla massima potenza. Sempre con la borsetta appesa al braccio, anche in occasioni in cui potrebbe disfarsene, è capace di rimanere
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di Pier Mario Fasanotti muta, per ascoltare meglio, così come di intervenire all’improvviso creando scompiglio tra i poliziotti che si credono un po’troppo poliziotti, per i quali conta il lavoro «di strada», diffidentissimi per quello della mente («Ah, adesso ci mettiamo anche Freud per ammanettare i delinquenti!»: questa una delle battute nella fase di rigetto di Chloe). Profiling è un altro, l’ennesimo, inno alla psicologia. Pare che senza la scienza comportamentale il genere poliziesco sia soltanto una burla, una caccia ai ladri, una
serie di scazzottate. Moda? Può darsi, anzi il peso di questa moda psicologica è pervasiva in tv. Ma è proprio la psicologia a poter cambiare una mentalità pericolosamente piegata sul versante punitivo e preconcettuale, un indagare che scommette sul fiuto (quando va bene) e sui muscoli. Chloe piace molto al pubblico. In maniera inversamente proporzionale rispetto all’insofferenza manifestata dal capo della quadra Matthieu Perac, che pure è un gentiluomo, e dalla sua vice, poliziotta efficiente ma anafettiva. Si intuisce che si abbasserà di molto la resistenza all’«intrusa», al metodo sottile, all’apparente stravaganza di un cervello perennemente in ebollizione, capace di infilarsi nel profondo e scorgere incongruenze tra le dinamiche comportamentali. La biondina che quando cammina pare sia in bilico su uno strato di uova, che gesticola da sola, che muove i muscoli facciali in sintonia con i suoi temporali mentali, indica la strada maestra. Magari non così chia-
ramente per i colleghi, però insegna che un ambiente, un dettaglio o soltanto un colore possono fornire più indicazioni di un teste sotto tortura. Nell’episodio che apre la fortunata serie (con una regia ottima e una sceneggiatura poco sprecona e mai sbracata), la squadra parigina si trova davanti a una giovane donna massacrata con un colpo in testa. La sua casa è interamente bianca, asettica, vuota. Si parte dal niente, da un niente che mette le vertigini. La vittima, si scoprirà poi, era afflitta da una certa patologia, tendente a crearsi, come corazza di un io fragile, diverse identità. L’episodio è una concatenazione di scoperte, piccole, medie e grandi. Un puzzle credibile, facile a capirsi se lo si legge dalla fine: e il genere poliziesco è proprio questo, ossia attraversare una crescente complicazione per arrivare alla cosiddetta facile soluzione. Già, facile per chi ha già letto il copione o il romanzo. Sullo sfondo una splendida Parigi. La telecamera predilige immagini dal basso. Questo velocizza, e ingentilisce, certe sequenze.
MobyDICK
Cinema
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di Anselma Dell’Olio
duardo De Angelis ha ambientato il suo primo lungometraggio, Mozzarella Stories, a Caserta, sua città d’origine. È il racconto di grazie e disgrazie di un luogo e i suoi abitanti. Romanzato, certo, ma ben osservato e con i toni della commedia. Si sente l’affetto e l’allegra angoscia dell’autore, ossimoro che s’addice all’esordiente che certamente si è ispirato ai film rutilanti e tragicomici di Emir Kusturica, co-produttore del film. Dell’autore serbo il casertano ha l’attaccamento alle radici, l’ironia che sfuma nel grottesco e l’amore per la musica. Il cast corale è ben scelto, e tra gli altri (tutti intonati e credibili) comprende Sofia (Luisa Ranieri), suo marito, Angelo Tatangelo, cantante neo-melodico (Massimiliano Gallo), il papà di Sofia, l’imprenditore di mozzarelle più importante della zona, detto Ciccio Dop in omaggio all’oro bianco, il pregiato latticino che lo ha fatto ricco (Gianpaolo Fabrizio). Lo scrittore Antonio Pascale scrive che Caserta è un posto di «ex» - ognuno era qualcos’altro un tempo». De Angelis rincara: per lui è una città di «quasi». Atleti che sono arrivati quasi in Serie A, altri che hanno quasi vinto uno scudetto,altri ancora che sono stati quasi felici. Nel girotondo di personaggi, il quasi in capo è il cantante Angelo, ora richiesto solo a matrimoni e comunioni. Una volta adorava la curvosa Sofia (in onore della Loren?); ora non la vuole, non la tocca più, come lei si sfoga con Ciccio Dop quando le chiede perché non è ancora mamma.Tutti i personaggi hanno il loro dramma. Le vendite dell’impresa di Ciccio sono insidiate dalla concorrenza aggressiva di una ditta cinese che smercia una mozzarella buona come la sua a metà prezzo.Tutta la baracca di Ciccio rischia di crollare quando gli strozzini con cui è indebitato chiedono il saldo immediato. Ciccio ordina il rientro di tutti i generosi prestiti fatti ad amici e parenti al Ragioniere (Andrea Renzi) che comincia a battere cassa. Ausilia Jazz Mood (Aida Turturro), una cantante scaricata da Angelo quando ha sposato la bella e ricca Sofia, non lo ha mai dimenticato e si strugge ancora per lui. La Turturro, cugina di John, nota come la sorella pasticciona e New Age di Tony Soprano, è al suo primo film italiano. È lei a incarnare l’immagine-guida del regista per la scrittura del soggetto (con Devor De Pascalis): «Che succede se tutti cercano qualcuno che non si trova perché è rimasto incastrato sotto il corpo morto di un’amante enorme?».Tra gli altri attori che si distinguono c’è lo «zingaro napolitano» Dudo (Massimiliano Rossi), un altro chiaro omaggio a Kusturica. Con i capelli tinti e un’espressione alla Buster Keaton, Dudo è un ex campione di pallanuoto che ha mollato dopo un brutto incidente che lo ha marchiato a vita.Va spesso a trovare una signora anziana, che gli parla del nipote sparito, pallanuotista pure lui, e lo accoglie con affetto e lo coccola. E lo «zingaro» si occupa di lei. Il mistero del loro rapporto si svela solo alla fine, quando tutti i nodi saranno sciolti. La frase chiave del film è: «Quando penso che da una roba sporchissima viene fuori una cosa pura e candida come la mozzarella, mi viene il freddo addosso». È il raro film italiano che mantiene l’interesse fino alla fine. Da vedere.
E
Il debito è un thriller di spionaggio, rifacimento di un film israeliano su tre agenti del Mossad in azione negli anni Sessanta, e il loro rovello trent’anni dopo. Il gruppo in passato compie un’operazione segreta e delicata nella Berlino comunista. La loro missione è rapire un criminale nazista che ha uno studio medico lì sotto falso nome, e trafugarlo in Israele per processarlo per crimini contro l’umanità.
POESIA
della mozzarella L’esordio di Eduardo De Angelis è uno dei rari casi italiani che riescono a mantenere acceso l’interesse fino alla fine. Da vedere “Il debito”, un film di spionaggio con Helen Mirren e un’eccellente Jessica Chastain. “Crazy Stupid Love” è una rom-com da non perdere
Si tratta del dottor Vogel (Jesper Christensen), un chirurgo alla Joseph Mengele, che ha massacrato migliaia di ebrei nel lager di Birkenau con i suoi mostruosi esperimenti. Il film inizia con i tre operativi in età matura: Rachel (Helen Mirren), David (Ciaràn Hinds) e Stefan (Tom Wilkinson). I tre sono celebrati per l’eroica impresa dalla figlia giornalista di Rachel e Stefan (ora divorziati), che presenta il libro che la documenta. Alla presentazione, Rachel legge la parte che riguarda la sanguinosa lotta tra lei, di guardia in quel momento, eVogel: era riuscito a liberarsi e tenta la fuga. L’allora 25enne Rachel (Jessica Chastain), pur mal ridotta e con la guancia squartata durante la colluttazione, riesce a freddare Vogel prima che lui si dilegui. Il disagio degli ex agenti ormai anziani è palese quando si parla di quell’exploit. Il repentino suicidio di David, che si butta sotto un camion mentre va a un incontro con Stefan per parlare di cose rimaste in sospeso, precipita in un doloroso riesame del passato. In un via vai di scene tra passato e presente, si vede com’è andata veramente. È senza dubbio la parte migliore del film; è scritta meglio, e fortunatamente è anche la più sviluppata. All’epoca dell’operazione, David (Marton Csokas) e Stefan (Sam Worthington) erano innamorati di Rachel. È il più ardito e intraprendente David che riesce a portarsela a letto e a metterla incinta. Ma alla lunga il più introverso Stefan la conquista. Il piano procede bene fino al rapimento di Vogel, ma durante il trasferimento in treno le cose vanno storte. Il gruppo non è più in grado di raggiungere l’aereo in attesa in una località segreta per riportareVogel a giudizio in Israele. Sono costretti a nasconderlo nell’appartamento fatiscente in affitto a Berlino est. Il medico insulta i rapitori, sputa il cibo mentre lo imboccano e finisce col far rompere un piatto. Con un pezzetto di ceramica affilato nascosto riesce a liberarsi, ferire Rachel e fuggire. David impone il segreto al gruppo. «Lui non si farà più trovare. Diciamo che Rachel lo ha ucciso e amen; altrimenti sarà un danno per noi e per il Paese». I sensi di colpa e il rovello per «il debito» che sentono di aver contratto con la Storia, muovono l’azione del film. La Chastain (Tree of Life,The Help di prossima uscita) è di tale bravura,che surclassa di parecchio la premio Oscar Mirren. Marton Csokas è un attore ungherese bravo e molto sexy. L’eccellente versione italiana, come quella dell’ottimo Carnage, è firmata da MauraVespini, Nastro d’Argento alla carriera per il doppiaggio. Da vedere.
Resta poco spazio per Crazy Stupid Love, una rivisitazione non convenzionale della rom-com, che regge persino una seconda visione. Dopo 25 anni di matrimonio, Cal (Steve Carrell) e Emily (Julianne Moore) sono a cena fuori. Cal chiede alla moglie di dire quale dessert desidera in unisono con lui: lei risponde «il divorzio» mentre lui pronuncia «créme brulée» con voce in calando. È la prima scena di un copione scintillante con battute affilate e ribaltoni sorprendenti. Emily confessa di averlo tradito con un collega di lavoro (Kevin Bacon) e Cal saluta i figli minorenni e passa le sue notti in un locale dove beve vodka con succo di mirtilli e frigna ad alta voce sulla sua disgrazia. Jacob (Ryan Gosling, attore sorprendente di film indipendenti che approda ora alle multisale, ha un notevole talento comico). Un habitué del posto e abilissimo con le femmine, stufo del musone che guasta l’atmosfera, lo prende in carico. Gli rifà il look e gli insegna le fondamentali del rimorchio: «Mai parlare di sé, e sempre di loro». Emily Stone (Hannah) è una laureanda con fidanzato stolto: prima respinge Jacob e poi lo sfida. Annaleigh Tipton è stupenda come babysitter con una cotta per Cal, amata a sua volta dal di lui figlio adolescente. Marisa Tomei ruba la scene come la maestra focosa arrapata dall’insolita sincerità di Cal. Da non perdere.
Essere & Tempo
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ovvio che a Machu Picchu bisognava andare quarant’anni fa, come avranno fatto tutti quelli giusti del tempo, magari sulle note di flauti andini intillimanici, che però erano cileni. Adesso, la vera esplorazione sarebbe verso l’impervio e inaccessibile Choquequirao, in cinque-dieci giorni di cammino, dove osano soltanto i condor. Anche solo da turista (e non viaggiatore) il viaggio verso la più famosa città inca ha il suo fascino. La visita preliminare al museo Larco di Lima è necessaria per la collocazione di questo popolo nel suo contesto storico e quotidiano. Ospitato in una bella villa coloniale e perfettamente organizzato, oltre all’esposizione permamente, permette un giro nei depositi: corridoi fitti di vetrine terracielo con una quantità impressionante di perfette ceramiche che rappresentano di tutto, qualsiasi tipo di animale che striscia (serpi), salta (rane e rospi), cammina (giaguaro, lama, alpaca) o vola. Ma anche donne, uomini e bambini affaccendati nei loro lavori. Una sezione ufficiale del museo, un po’ distaccata, è anche dedicata alle opere a contenuto erotico.
È
Dalle ceramiche alle tele finissime, ai copricapi e paranasi si capisce che i nostri tenevano molto all’aspetto e al culto del sole (oro) e della luna (argento). Colpisce, però, che la differenza fra gli oggetti del 1000 a.C. e quelli di duemila anni dopo sia minima (sempre bella, perché cambiarla; oppure mancanza di creatività?) e che volendo fare un paragone, magari scorretto, con lo stesso progresso nella ceramica europea si va dai butteri agli elaboratissimi oggetti rinascimentali. Viene il sospetto che una cultura monolitica e repressiva come quella inca non abbia consentito di sviluppare un pensiero divergente, alla base del progresso in tutti i campi, anche in quello delle relazioni umane. In questo gli Inca erano più o meno dei trogloditi, abituati a sfruttare a morte i sudditi, specie se non appartenenti allo stesso gruppo dirigente, giustificati dalla convinzione che la vita vera è quella ultraterrena e non quella banale dei vivi. Inoltre, la loro fissazione a onorare gli astri più che a rendersi conto dei problemi terreni fu probabilente una delle ragioni della scomparsa del loro impero nel giro di appena un secolo per gli errori commessi nella gestione di un territorio vasto e popolato da diverse etnie. E infatti, arriva Francisco Pizarro con un cannone e 168 soldati, riesce facilmente ad allearsi con i malcontenti e rovescia tutto l’impero, per poi sottomettere ed eliminare fisicamente anche loro. Non solo. Gli spagnoli convinsero l’ingenua classe dirigente locale di essere loro i discendenti per volere divino degli stessi Inca. Ovviamente, dopo una prima gestione dell’impero affidata a un reggente locale, arrivare al totale dominio spagnolo fu questione di poco tempo. Ancora una volta, essere più scaltri culturalmente, li avrebbe aiutati a eliminare da subito gli
MobyDICK
ai confini della realtà
Incatenati
alla monocultura
di Leonardo Tondo invasori che arrivarono sì scintillanti di corazze, ma che avrebbero incantato difficilmente un popolo appena più sofisticato e pragmatico. Evidentemente, per loro, tutto quello che riluceva era
ceva Machu Picchu. Da Cuzco si prende un autobus (non volendo investire in un treno costosissimo) per un’ora e mezza, poi un treno modesto scende fino a 2000 metri ad Aguas Calientes, po-
Visitando Machu Picchu, nel centenario del ritrovamento da parte dello storico Hiram Bingham, si spiegano, attraverso luoghi e reperti, le ragioni della scomparsa degli Incas nel giro di appena un secolo: la mancanza di un pensiero divergente, alla base di ogni progresso oro. Eppure, dovevano saper distinguere bene il metallo giallo dalle imitazioni, vista l’altra loro ossessione di ricoprire tutto di oro che fu forse la ragione principale della loro eliminazione. Un più basso profilo avrebbe dato meno nell’occhio anche perché l’interesse spagnolo di conquistare una città a 3800 metri di altitudine sarebbe stato minimo senza l’incentivo dei metalli preziosi. Fu così che le mura delle città di Cuzco vennero ripulite, le statue portate via ed ecco che ora il dieci per cento di quell’oro è sparso per i musei peruviani, il venti per cento sarebbe in luoghi spagnoli e il restante in vari luoghi del Vaticano. Si di-
sto migliorabile a valle di coni montagnosi, per risalire in autobus verso una delle cime attorno e arrivare al posto agognato, in compagnia di centinaia di altri turisti. Essendo un sito patrimonio dell’umanità e una delle nuove sette meraviglia del mondo, la quota giornaliera dovrebbe essere di duemila visitatori e invece ne arrivano su ogni giorno cinque volte tanti. Il posto è però tenuto bene e le rovine fanno la loro figura e alla fine ne vale la pena. La ragione di costruire una città quassù e non in posti più accessibili pare sia da attribuire alla vicinanza agli astri e alla facilità di trovare il materiale. Infatti, la punta della montagna è stata smontata e trasformata in pietre perfettamente
combacianti e a prova di terremoti da una mano d’opera usa e getta, facilmente reperibile e magari contenta di lavorare per le divinità in cielo e in terra. Vennero così costruite terrazze per le coltivazioni, abitazioni grandi e piccole e il tempio del sole (uno dei tantissimi sparsi per il loro territorio), dove l’astro nel giorno del solstizio entra dritto da una feritoia e colpisce una pietra che sta lì davanti proiettando un’ombra su un muro. Un avvenimento di cui gli egiziani di 4000 anni prima avrebbero sorriso con condiscendenza, ma che attrae verso la fine di giugno frotte di giovani e adulti abbigliati in modo pittoresco. I locali apprezzano molto e lo chiamano turismo mistico.
Machu Picchu era un luogo regale e molto esclusivo con accesso permesso soltanto alla casta dominante che sicuramente veniva trasportata in modo regale da eserciti di schiavi. Avventuroso il suo ritrovamento da parte dello storico americano Hiram Bingham nel 1911 (questo è anno di centenario) e la comunicazione al resto del mondo della sua esistenza (i locali sapevano del sito e alcuni vi abitavano). Nel migliore stile coloniale, lo scopritore portò via un migliaio di reperti come «oggetti di studio» in prestito alla Università di Yale che li conserva gelosamente, nonostante abbia riconosciuto il diritto alla restituzione da decenni sollecitata dal governo peruviano.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Manovra economica: la soluzione è sempre la tassa patrimoniale FANNO ARRESTARE PAPA, SALVANO MILANESE E AFFONDANO IL PAESE Qualcuno ricorderà la Storia della colonna infame del Manzoni, «l’adoprar doppio peso a doppia misura»: bene, questa è la sintesi di una intera stagione politica rappresentata oggi in Parlamento dal Popolo della libertà e dalla Lega di Bossi e di Maroni. Fanno arrestare Alfonso Papa, salvano Marco Milanese, e sullo sfondo le sorti di un esecutivo incerto, incapace e non più credibile. Onore all’Udc e alle opposizioni “responsabili” che, anche su questo, sono state capaci e coerenti nell’uno e nell’altro caso. Tornando all’esecutivo e al presidente del Consiglio, non posso non fare con voi una considerazione (che mi auguro condividiate) in merito al sacrificio che oggi da più parti e in primis questo governo (ri)chiedono agli Italiani di ogni “ordine e grado”. Silvio Berlusconi oggi è palesemente, per le sue questioni pubbliche, tralasciando per ulteriore amore di patria quelle private, non più credibile nel chiedere ulteriori sacrifici agli italiani, i quali - come già è accaduto nella storia di questo straordinario Paese sono pronti e ben disposti a farli, ma a patto che a chiederli sia un governo e un presidente del Consiglio di grande responsabilità, unità e credibilità politica, morale e istituzionale. Insomma non proprio l’identikit di Berlusconi, bensì quello di un uomo nuovo, certamente legittimato dalla politica, che non si metta a capo di una parte contro un’altra, ma del Paese intero, inteso come il Paese di tutti, in un momento di straordinaria gestione e dove non conta essere di destra o di sinistra ma conta salvare l’Italia e salvarla tutta intera. Ora vorrei chiedere a Silvio Berlusconi: è un buon padre di famiglia chi, nel constatare la difficoltà in cui è caduta la propria, toglie a sé per dare ai propri cari o chi fa finta di niente continuando a vivere come se niente fosse? E poi, secondo il “Berlusconi pensiero”, conta di più essere ricordati come uno statista “fallito” o uno “compiuto”? Un eroe dei tempi moderni di questa politica senza politica che come ogni eroe toglie a sé per dare agli altri qualcosa di grande e di prezioso che, in questo caso potrebbe nobilitare il presidente Berlusconi, forse salvare l’uomo e certamente salvare l’Italia e tutti noi dal fallimento annunciato. Rifletta presidente, rifletta, ma il tempo è veramente poco, anzi è scaduto. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L
Il ministero dell’Economia smentisce: non ci sarà una manovra aggiuntiva per pareggiare i conti. I 54 miliardi previsti sono sufficienti anche per l’avanzo primario. La manovra aggiuntiva consisterebbe, in sostanza, in una patrimoniale. Si nega, come si è negata per mesi la crisi italiana, salvo arrivare ad una manovra messa giù in fretta e furia in quattro giorni. L’aveva già proposta l’ex banchiere Alessandro Profumo, per un importo di 400 miliardi; dove li prendeva non si sa, ma la proposta è stata fatta e pubblicata sul Corriere della Sera, il che è tutto dire. Sulla patrimoniale sono d’accordo la Cgil, che indica introiti per 15 miliardi e Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, che si ferma a 5 miliardi di euro. Anche la Confindustria è d’accordo. Dunque questo governo metterà le mani in tasca agli italiani (cosa peraltro già fatta)? Il presidente Berlusconi piangerà ancora, gli sanguinerà il cuore, come ha già detto, ma alla fine la stangata arriverà. Gli italiani pensano che sarà una tassa sui ricchi e che il prelievo riguarderà il vicino di casa che ha un tenore di vita più alto del suo. Si illudono. Basta ricordare il prelievo notturno del 9 e 10 luglio del 1992 sui conti correnti operata dal governo Amato.
Primo Mastrantoni
LA LEGA HA SVENDUTO L’ANIMA La Lega e il Pdl, salvando Milanese dall’arresto, hanno offeso il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. In Italia solo i poveri disgraziati e i non garantiti finiscono in galera. Solo chi ha votato per l’arresto di Milanese è stato coerente e ha pensato all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge Di sicuro la Lega non potrà più parlare di legalità ai suoi elettori.
Lettera firmata
tro, Grillo, Vendola, antagonisti, centri sociali, alcuni postcomunisti massimalisti e parti conflittuali della Cgil. Anche taluni cattocomunisti sono oltranzisti. L’onnipresente pasionaria cattocomunista vuole stravincere nella dialettica, nel dibattito e nel battibecco. È animosa, logorroica e mira all’egemonia; interrompe ripetutamente l’interlocutore avverso e vuole avere sempre l’ultima parola. La sua foga è stata riconosciuta espressamente, perfino da Santoro, nella trasmissione Anno Zero.
Gianfranco Nìbale
LA POLITICA DEL GIORNO PER GIORNO «Il governo va avanti giorni per giorno», ha detto Umberto Bossi. Il governo va avanti senza sapere cosa farà domani, traduco io. Se ci siamo trovati da un giorno all’altro con la crisi in casa è perché il governo ne ha sistematicamente negato l’esistenza. E invece di correggersi, persevera e pensa che basti un discorso agli italiani per fare di un governo sfiduciato dai mercati e dalle agenzie di rating un governo autorevole e credibile.
Carmine Del Piano
DALLA PADELLA BERLUSCONI ALLA BRACE SINISTRA Passare da Berlusconi alla sinistra significa cascare dalla padella nella brace: criminalizzazione dell’avversario, violenza politica, lotta di classe. Nella sinistra esistono forti componenti estremiste: Di Pie-
LO STALLO POLITICO NON È PIÙ SOSTENIBILE Speriamo che gli appelli di questi giorni del presidente di Confindustria e di Confcommercio siano ascoltati: gli interventi strutturali e di forte impatto per la crescita sono vitali perché il Paese torni a contare economicamente e politicamente a livello internazionale. Altrimenti è meglio cambiare la guida al timone del governo del Paese. O il governo si mette sulla strada corretta per una crescita responsabile, oppure è meglio che, responsabilmente, si faccia da parte»
Luca Pozzoli
VINCENZI PIAGNONA I guai di Genova sono... la Vincenzi. È una piagnona: invece di risolvere i problemi
L’IMMAGINE
APPUNTAMENTI OTTOBRE VENERDÌ 14 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Sento puzza di mine Peso piuma e olfatto prodigioso. Sono questi i superpoteri di alcuni topolini assoldati nell’esercito colombiano, come metal detector viventi, incaricati di scovare col loro fiuto le mine ancora inesplose. I coraggiosi roditori riescono a stanare il 96 per cento degli ordigni e in totale sicurezza. Sono infatti molto leggeri e calpestano il terreno minato senza innescare esplosioni
LE VERITÀ NASCOSTE
Errori geografici? Se la Groenlandia si “scioglie”… È proprio vero: un errore può capitare a chiunque. Anche all’Atlas of the World, l’atlante più autorevole e prestigioso del mondo, di cui qualche giorno fa è stata lanciata una nuova versione. Tra gli aggiornamenti dell’ultimo volume, uno riguarda la Groenlandia che, a causa dello scioglimento dei ghiacci – dovuto al riscaldamento globale –, ha visto ridisegnata la sua mappa, con una riduzione delle “terre bianche” pari al 15 per cento rispetto all’edizione del 2007. Un’esagerazione, secondo gli studiosi dello Scott Polar Research Institute di Cambridge. I quali sostengono che i mutamenti climatici stanno cambiando l’aspetto di alcune zone del Pianeta, ma non al punto da far “emergere” dai ghiacci una superficie che, a conti fatti, risulterebbe pari a quella di Gran Bretagna e Irlanda messe insieme. Del resto, dicono loro, le immagini scattate dai satelliti confrontate con le mappe dell’atlante qualche dubbio dovrebbero farlo venire...
cerca sempre di dare le colpe agli altri. In via XX Settembre gli esercenti sono in subbuglio e la delinquenza imperversa nelle più belle vie storiche della città. È stata la Vincenzi a non volere l’esercito per dare una mano per l’ordine pubblico, e adesso indovinate cosa fa? Piange, in ciò aiutata dai giudici: polizia e carabinieri arrestano i delinquenti che il giorno dopo sono già fuori.
Bruno Ravera
FORTE CON I DEBOLI La previsione della ridotta rivalutazione annuale delle pensioni superiori ad euro 1400 mensili e la mancata rivalutazione di quelle di poco superiore si traducono in una effettiva riduzione delle stesse, in considerazione del costante aumento delle addizionali comunali e regionali autorizzate dal governo a seguito delle riduzioni dei contributi nazionali ai bilanci dei comuni e delle regioni. Se per completezza della rappresentazione del quadro nel quale si troveranno i pensionati si aggiungono: il diminuito potere di acquisto della moneta a causa dell’inflazione, l’aumento dei ticket per i medicinali e per le visite specialistiche, necessari alla sopravvivenza degli anziani pensionati, appare evidente la situazione drammatica che li attende. Dopo avere lavorato una vita dovranno fare i salti mortali per sopravvivere. Ogni commento è superfluo. Un paragone però è necessario: ai pensionati si chiede di stringere ancora di più la cinghia dei pantaloni, mentre si riducono le tasse ai più ricchi. L’aliquota massima dell’Irpef viene ridotta al 40%. Ne beneficeranno di un punto quelli che hanno un reddito di euro 55.000 e di tre punti tutti i redditi superiori ad euro 75.000. Il divario economico aumenterà e si avvicineranno alla fascia dei più poveri moltissimi pensionati. In questo modo non mi pare si rilanci l’economia e la crisi rischia di aggravarsi, come fu con la tassa sul macinato introdotta da Quintino Sella. Certo è facile essere forti con i più deboli come ricorda una vecchia massima popolare.
Luigi Celebre
il dibattito all’Onu
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Il presidente dell’Autorità ha presentato a Ban Ki-moon la richiesta per il riconoscimento. Rammarico di Netanyahu
Sognando la Palestina Abu Mazen infiamma l’Onu accusando Israele di «fare pulizia etnica». Ma poi si dice pronto al negoziato. Gelo di Gerusalemme di Luisa Arezzo a storia del Medioriente si avvicina a un nuovo punto di svolta. Abu Mazen ha presentato ieri la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu: un passaggio storico, anche se la richiesta al Consiglio di Sicurezza è destinata, con ogni probabilità, a cadere nel vuoto. E dopo l’incontro con Ban Ki-moon, in evidente ritardo sul tabellone di marcia dell’Assemblea, il leader dell’Anp è salito su quello stesso podio dove trentasette anni prima,Yasser Arafat, con «il ramoscello di ulivo e un fucile da combattente» aveva ottenuto il riconoscimento del’Olp. Accompagnato da un applauso scrosciante, praticamente una standing ovation, con buona parte dei delegati in piedi, il delfino di Ara-
L
Abu Mazen a sinistra e Netanyahu a destra. In alto, un ragazzo palestinese sventola la bendiera durante le manifestazioni di ieri
fat, il riservato professore della Galilea, come sempre poco incline all’emozione, dopo aver annunciato la presentazione della richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu, ha attaccato pesantemente Israele. «Abbiamo tentato tutte le strade per la pace. Il fallimento dei negoziati di pace israelo-palestinesi è colpa della politica colonialista di Israele, della occupazione militarizzata dei Territori e della discriminazione razziale praticata nei confronti dei palestinesi: una vera e propria pulizia etnica». Parole taglienti come una lama. Pesate con cura e volutamente tali. «Gli occupanti», non ha quasi usato mai la parola israeliani (e tantomeno Israele) «confiscano le nostre terre e la nostra acqua, uccidono i nostri figli». E poi tutta una rilettura unilaterale di oltre sessant’anni di tentativi caduti nel vuoto. Fino al ricordo di Arafat, quando un applauso davvero fuori luogo lo ha interrotto per qualche istante.
Mai una esitazione nel suo dicorso, mai un fremito nella voce. Lo stesso timbro freddo è servito ad accusare Israele così come a porgergli la mano per un nuovo negoziato «a condizione che vengano immediatamente bloccati gli insediamenti». E poi la chiamata all’Assemblea: «È un momento di verità, il nostro popolo vuole sapere cosa farà il mondo. Permetterà ad Israele di continuare a rigettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e della Corte Penale internazionale, o riconoscerà il popolo palestinese?» «Arrivo dalla terra promessa, la terra di Palestina, per raccontare 63 anni di dolore. Ora basta, ora basta, ora basta. Dopo la primavera araba, ci vuole la primavera della Palestina». Un discorso, il suo, che ha lasciato tutti col fiato sospeso. Dai palestinesi di Cisgiordania innanzitutto, delusi dal discorso di Barack Obama, che dai maxi schermi di Ramallah hanno seguito in diretta il discorso del presidente. Dai governi europei, arrivati allo snodo cruciale di una pace possibile in ordine sparso e dai grandi Paesi come Russia, Cina, Brasile - favorevoli al 194/esimo membro delle Nazioni Unite - fino ai nuovi pro-
In migliaia a Ramallah e nel mondo arabo hanno seguito il discorso del leader dell’Anp sui maxischermi. Incidenti. E Tsahal schiera 22 mila agenti tagonisti dell’area, come la Turchia di Erdogan, che sta giocando a raffica le sue carte diplomatiche per ridisegnare gli equilibri regionali. Il leader palestinese si è rivolto all’Onu per perorare la sua causa: lo ha fatto con una retorica meno teatrale di quella con cui Yasser Arafat, nel 1974, si rivolse al mondo dallo stesso podio («Vengo qui con un fucile e un ramo d’olivo: non lasciate che il ramoscello cada dalla mia mano»), ma è stato ascoltato ai quattro angoli del mondo e da migliaia di palestinesi.
La verità è che la determinazione di Abu Mazen nel portare avanti il suo progetto nonostante l’ostilità di Israele e Usa ha scompaginato le carte. Francia e Gran Bretagna sarebbero inclini all’astensione, ma anche quella nel mondo arabo sarebbe considerata una posizione filo-israeliana. Per evitare la prova di forza, il lavorio diplomatico ha portato a un compromesso: Abu Mazen ha presentato la sua richiesta, ma il voto sarà rinviato per consentire di rilanciare il negoziato di pace. Gli Usa, che escono indeboliti dalla prova di forza, hanno aperto la strada all’Europa che reclama un ruolo maggiore nel negoziato. Quindi un incarico extra Quartetto. Israele però ha già respinto la proposta, avanzata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, di innalza-
il dibattito all’Onu
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L’ex presidente Usa attacca l’attuale governo israeliano
Bill Clinton a Netanyahu «Hai ucciso l’accordo di pace» «Il mondo deve capire: il problema non è la Cisgiordania. E la proposta che nel 2000 Arafat fece cadere, oggi passerebbe» di Laura Giannone hi è da condannare per i continui fallimenti del processo di pace? «Tutti quei governi che, facendo finta di volersi adoperare per esso, continuano invece a lavorare su piani molto diversi». Le due grande tragedie che hanno condotto allo stallo perpetuo in Medioriente? «l’assassinio di Yitzhak Rabin e l’emorragia cerebrale di Ariel Sharon, due sciagure che ci fanno dubitare che Dio voglia davvero la pace nella regione». Qual è oggi l’ostacolo principale ad un accordo? «Sono due: la riluttanza di Netanyahu e del suo governo ad accettare le conidzioni del Trattato di Camp David e lo spostamento dell’opinione pubblica israeliana verso posizioni sempre più rigide». È un fiume in piena Bill Clinton, intervistato dai blogger a margine della conferenza della Clinton Global Initiative organizzata a New York. E le sue parole non sono tenere, soprattutto verso “Bibi” Netanyahu, a suo giudizio assolutamente responsabile dello stallo negoziale con i palestinesi. «Mr. Benjamin Netanyahu non sembra interessato a raggiungere un accordo che finalmente metta fine al conflitto in Medioriente» ha detto l’ex presidente americano.
C
governo Netanyahu lo ha detto, che questo è il migliore governo palestinese mai avuto in Cisgiordania». Come dire: se questa strordinaria chance è stata fatta cadere, vuol dire che il colpevole non è da ricercare nelle fila dell’Anp, quanto piuttosto nella compagine governativa israeliana.
Anche sul fronte della seconda richiesta - il riconoscimento da parte dei paesi arabi - per Clinton Israele era sul punto di ottenerla, «Con il re saudita che aveva cominciato a raccogliere tutti i paesi arabi per dire agli israeliani “se lavorate con i palestinesi vi daremo non solo immedia-
che nel 2000 Arafat rifiutò», aggiunge Clinton che undici anni fa, nel suo ultimo summit da presidente a Camp David, mediò quell’offerta: «Nel 2000 Yasser Arafat ha perso l’occasione di siglare la pace per ragioni che anni dopo ancora mi sfuggono. Yasser rifiutò un accordo che avevamo preparato e che l’allora premier israeliano Ehud Barak aveva accettato. E allora c’era anche un governo israeliano pronto a cedere Gerusalemme est quale capitale dello Stato palestinese». Oggi le cose sono cambiate, non c’è dubbio, ma «i palestinesi hanno esplicitamente detto in più di un’occasione che se Netanyahu accettasse l’accordo che gli è stato offerto in passato, il mio accordo, non lo lascerebbero cadere».
«Non ci sono dubbi - ha detto l’ex inquilino della Casa Bianca - questa leadership di Ramallah è la migliore di tutte. Con loro si poteva arrivare oltre Camp David»
re lo status palestinese all’Onu da “entità”a “Stato non membro”; una “promozione”che consentirebbe loro di portare Israele dinanzi alla Corte Penale Internazionale e dunque capace di aumentare il loro peso nel negoziato di pace. Un’eventualità piena di dubbi e insidie, ma che al momento Benjamin Netanyahu non sembra temere.
Se i contenuti sono stati relativamente scontati, importanti sono stati i toni e le sfumature in un momento comunque delicato, che potrebbero far esplodere la rabbia nelle nuove piazze di Ramallah affollate da migliaia di ragazzi, nei vicoli antichi di Nablus (dove ieri è morto un ragazzo palestinese colpito da un proiettile di gomma sparato dai soldati israeliani) e di Hebron, nelle strade polverose dei villaggi di Ci-
Obama avrebbe autorizzato in segreto la vendita di 55 bombe bunker-busting ad Israele. Ordigni che nel 2005 George W. Bush aveva negato sgiordania soffocati dai 400 chilometri del Muro. E potrebbero innescare la repressione dell’esercito con la stella di Davide.
Al Palazzo di Vetro, ieri, non si è votato. Né al Consiglio di Sicurezza, né all’Assemblea generale. I potenti, confusi o schierati, hanno deciso di non contarsi e prendere tempo, puntando su una ennesima serie di round negoziali dall’esito, e dai tempi, imprevedibili. Intanto la polveriera palestinese - e non è un luogo comunque - resta comunque ad altissimo rischio esplosione.
A suo giudizio, l’attuale primo ministro israeliano ha perso interesse nei confronti del processo di pace proprio quando due richieste basilari d’Israele erano a portata di mano: una leadership palestinese responsabile e la normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo. «I veri cinici - ha aggiunto - credono che le continue richieste di Netanyahu di negoziare sui confini nascondano la volontà di non cedere la Cisgiordania». Ma non è così. «Perché gli israeliani hanno sempre chiesto due cose ma quando le hanno avute non sembrava che Mr. Netanyahu fosse interessato». «Israele, ha argomentato ancora Clinton, che quando era alla Casa Bianca mediò gli accordi di pace di Oslo siglati nel settembre del 1993, ha sempre voluto «un governo palestinese che fosse un partner per la pace, e non ci sono dubbi, e questo il
tamente il riconoscimento, ma anche una partnership politica, economica e di sicurezza”, bisognava trattare. Questo era un accordo enorme, ed è quello che è successo, tutti gli americani devono saperlo. Tutti». Si scalda l’ex presidente, mentre i blogger continuano ad incalzarlo. Si scalda difendendo gli sforzi compiuti in questi due anni e mezzo da Barack Obama e dal dipartimento di Stato guidato dalla moglie Hillary. «Qualcuno veramente cinico crede che la continua richiesta del governo di Netanyahu di negoziati sui confini significhi che non vuole rinunciare alla Cisgiordania», ha detto ancora l’ex presidente. Ma è chiaro che non è così.
«Invece oggi i palestinesi sarebbero pronti ad accettare l’accordo di pace
Un tale profluvio di invettive a poche ore dall’intervento di Abu Mazen e soprattutto Netanyahu al Palazzo di Vetro, ha lasciato tutti un po’ sconcertati. In fin dei conti Clinton è sempre stato considerato l’unico presidente capace di mantenere un rapporto come dire, equo, con entrambi gli attori regionali. Nonostante gli Stati Uniti siano sempre stati al fianco di Israele, in quegli anni ancor più che oggi. E così sono stati in molti a leggere questa “bloggerata” come il tentativo di smarcare non solo sé stesso (che ancora aspira a ricoprire un ruolo di mediatore regionale), ma anche la moglie Hillary, capo del Dipartimento di Stato, dalla rabbia che sta montando non solo in Palestina, ma in tutti i Paesi arabi verso Obama e la sua Amministrazione. Il netto rifiuto del presidente a qualsiasi apertura verso la Palestina in sede Onu, ha infatti galvanizzato le folle arabe contro di lui. In queste ore, l’uomo che tre anni fa al Cairo regalò una speranza al mondo arabo nel suo primo discorso, è adesso percepito come un traditore. Incline più a garantirsi il supporto della lobby ebraica alle prossime elezioni del 2012 che a conseguire una vera pace in Medioriente. Non è così. Invece è certo che la reputazione di cui Clinton godeva presso Israele, è adesso messa in discussione.
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il dibattito all’Onu
Doveva essere l’uomo forte del Medioriente, l’unico in grado di mediare. E invece non è nemmeno a Turtle Bay
Che fine ha fatto Tony Blair? Da tre anni a capo del Quartetto, non ha portato a casa un risultato. Eppure era l’uomo delle lobby internazionali. Mal visto a Ramallah per il suo appoggio alla guerra contro Saddam e inviso a Israele per aver snobbato Gerusalemme, si è infine rivelato la scelta sbagliata altro giorno, il presidente Obama, negando il sostegno della sua amministrazione al riconoscimento dello Stato palestinese in sede Onu, ha fatto espressamente appello alla necessità di un dialogo. Un’operazione e un atteggiamento che dovrebbero essere ripresi sia da Israele sia dall’Autorità palestinese. Un dialogo, però, che chiede il supporto della comunità internazionale. Per questo Obama ne ha parlato di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Certo, le sue parole non possono che far riflettere sul ruolo svolto (o mancato) dalla Casa bianca. Sorprende ancora di più, tuttavia, il fatto che il Palazzo di Vetro sia da sempre impegnato nel tentativo di porre fine al conflitto israelo-palestinese. Da anni, inoltre, ha organizzato una struttura permanente basata a Gerusalemme che dovrebbe promuovere le iniziative di pacificazione. Il così chiamato Quartetto dovrebbe aver appunto tale funzione. Il problema però è doppio. Da una parte i governi membri, (Onu, Unione europea, Russia e Stati Uniti) non sono mai riusciti a definire una politica comune.
L’
di Antonio Picasso Al di là della road map, più volte proposta e spesso rigettata dai diretti interessati, il Quartetto non dispone di quella capacità di influenza concreta presso il tessuto politico mediorientale che, invece, servirebbe. Il Quartetto, in teoria, dovrebbe essere quel soggetto super partes la cui autorità è riconosciuta da tutti. Dovrebbe fare da cassa di risonanza di tutte le proposte di pace. Così non è.
Più di tre anni fa ormai, quando l’ex premier britannico,Tony Blair, venne scelto con nuovo chairman del consesso, vennero sollevate consistenti obiezioni politiche. Blair, in Medioriente non è mai riuscito a lavarsi di quell’aura negativa sorta in seguito alla sua scelta di appoggiare Bush nella guerra in Iraq. Sono in tanti nel mondo arabo a parlare dell’ex inquilino di Downing street alla stregua di un criminale di guerra. Com’è per Bush. Di conseguenza, la scelta di assegnargli un compito di così alto livello e, a prima vista, sensibilmente decisionale non venne accolta bene. Si sospettò che Blair avrebbe portato avanti una linea prettamente
filo-israeliana. Per quanto il suo trascorso, antecedente al 2003, di interlocutore privilegiato con Ramallah, non suscitò soddisfazione nemmeno presso le istituzioni governative di Gerusalemme. Tuttavia, a Blair era riconosciuta unanimemente una capacità. Vale a dire quella di creare una lobby di portata internazionale. Questo avrebbe potuto non tanto portare la questione sulla ribalta – se c’è una cosa che israeliani e palestinesi non possono lamentare è proprio la visibilità sopra la media – bensì un impegno di tipo concertativo. Le amicizie e le conoscenze intessute da Blair durante il suo lungo periodo di go-
Il suo asso nella manica? Le amicizie intessute a Downing Street
verno britannico sarebbero dovute essere trasformate in una sorta di rubrica Vip messa a disposizione del Quartetto.
L’organizzazione sarebbe dovuta diventare la capo cordata del processo di pace. Avrebbe dovuto accogliere e ricevere le proposte di risoluzione giunte, per esempio, dagli Usa oppure dalla Lega araba. Ma questo non è successo. Blair, nella sua persona, e sicuro del carisma che in passato aveva sfoggiato, avrebbe dovuto garantire agilità di azione e soprattutto quello stile informale che, nei primi dieci anni del Terzo millennio, ha caratterizzato il modo di fare diplomazia ad alto livello. Ma anche questo non è avvenuto. Assunto l’incarico, l’ex premier ha scelto come sede di lavoro Londra e non Gerusalemme. Ha preferito restare vicino al suo passato quartier generale, invece che trasferirsi sul territorio. È stato la prima di una lunga lista di leggerezze. Israeliani e palestinesi, paradossalmente concordi, hanno interpretato questa scelta come una manifestazione di disinteresse per la que-
stione e per il delicato ruolo che Blair stava per ricoprire. Nel frattempo, sul fronte occidentale, sono maturate critiche ben più sibilline. Il capo del Quartetto è stato visto come un re senza trono manovrato da una moglie, Cherie, ingorda di fama e denaro. Una critica, questa, alimentata dai gossip della stampa britannica, la quale non è mai stata tenera con la coppia. Cherie Blair, una delle avvocatesse più pagate di Londra – il cui studio, si pensa abbia tratto qualche vantaggio dalla linea diretta con il premier – si è trovata a essere una sorta di Lady Macbeth. Da qui l’accettazione della presidenza del Quartetto. Unico incarico che Cherie avrebbe visto come degno del marito una volta usciti da Downing street. Nello stesso periodo, si era anche parlato di Blair come potenziale presidente dell’Unione europea. Anche questa sarebbe stata una nomina adeguata per soddisfare gli appetiti dei due.
Oggi le congetture non sono state ancora dissipate. Anzi. Blair ha conquistato le vetrine delle librerie di tutto il mondo con una voluminosa autobiografia, scritta sulla falsa riga di
el ripercorre le tappe delle trattative tra Israele e i rappresentanti della comunità palestinese, occorre premettere alcuni fatti che, se omessi, non aiuterebbero la comprensione della vicenda, soprattutto del perché si parli di una tela di Penelope diplomatica. Nel 1897 Thomas Herzl ebbe un’idea, quella di costruire uno Stato per dare una casa a tutti gli ebrei del mondo,“aiutato”allora dalla presenza di un premier britannico, Benjamin Disraeli, che condivideva alcuni aspetti del progetto. Nel XIX secolo in Europa vigevano in diversi Paesi – Italia compresa – molti divieti per gli appartenenti alla comunità ebraica. Compreso quello di non poter diventare proprietari terrieri. Si comprende dunque l’ansia e le aspettative scatenate dalla visione di Herzl. Poi nel 1917 ci fu la “contraddittoria”dichiarazione di Balfour. Una lettera scritta da un pari britannico a Lord de Rotschild. Il governo inglese nella spartizione dei resti dell’impero Ottomano vedeva con favore la creazione di «un focolare ebraico in Palestina». Un sogno che divenne realtà, solo dopo un incubo: la Shoah. Il massacro di milioni di vite umane. La cattiva coscienza europea che aveva fretta di lavarsi l’anima dal grande massacro perpetrato dal nazismo, durante il Secondo conflitto mondiale, fece il resto. La storia della nascita d’Israele s’intreccia molto con la nascita della Repubblica in Italia. Ada Sereni, Alcide De Gasperi e Golda Meyerson, le armi per il nascente esercito di Gerusalemme, gli intrighi politici e le spy story, gli attentati e i colpi di mano, sono tutti elementi della nascita dello Stato ebraico. La concatenazione di eventi che ha creato un “problema”, a seconda dei punti di vista, la zavorra che si tira dietro da oltre mezzo secolo. Il “problema” se così si può definire è la nascita di una vera democrazia, ricca e ambiziosa, in mezzo alle aride e poverissime spianate della Palestina. Una terra per cui nessuno – prima del 1948 – avrebbe pensato di combattere.
N
Un anno prima c’era stata la risoluzione Onu 181 che sanciva la nascita di due Stati in Palestina: quello ebraico e quello arabo. All’epoca molti Paesi mediorientali si erano riempiti di consiglieri nazisti, scappati alla sconfitta del Terzo Reich, così molte cancellerie nel Mashreq vennero utilizzate per estendere e continuare la battaglia antisemita. Dal canto loro i palestinesi, costretti a un esodo forzato, più per colpa degli Stati arabi, che fin dall’inizio utilizzarono la loro causa per opportunismo politico, che per volontà del nascente Stato d’Israele, incominciarono a popolare i campi profughi in Libano, In Siria e in quella che allora si chiamava Transgior-
My life di Bill Clinton. Pratica adottata quasi sempre dagli ex presidenti Usa e, invece, mai dagli ex primi ministri di Sua Maestà. Sky Tv, a sua volta, lo ha portato agli onori del grande pubblico televisivo grazie a un film intervista a più puntate. Per inciso: a suo tempo Rupert Murdoch fu il grande mecenate della Terza via blairiana. Difficile non fare collegamenti maliziosi. Ironia della sorte, il film The ghost writer, uscito lo scorso anno, riprende per molti passaggi i turbolenti ultimi quattro anni della premiership di Blair. Dal 2003 al
Le trattative: una tela di Penelope diplomatica
Tutte le tappe del non accordo Oltre mezzo secolo di tentativi per una pace “scomoda” di Pierre Chiartano
dania. Nessun Paese che li ha ospitati li ha mai amati. In Libano sono disprezzati, in Siria Damasco li ha sempre fatti controllare, In Giordania poi la Legione araba di re Hussein li ha massacrati durante il famoso Settembre nero. Insomma dove piantavano le tende, cominciavano a tramare golpe contro i governi ospitanti. Negli anni si è poi costituita una comunità della diaspora, fatta di professionisti, imprenditori, artigiani e operai che si integravano invece benissimo con le comunità che li ospitavano: Canada, Europa, Stati Uniti erano tra le mete preferite. Con gli anni questa comunità si identificava sempre di meno con chi li avrebbe dovuti rappresentare: l’Olp di Yasser Arafat e le altre sigle che mischiavano politica, terrorismo e criminalità. Dopo la crisi di Suez, nel 1956, che mette fuori gioco i vecchi Stati europei, le cose si complicano. Gli Usa non vogliono che le vecchie logiche neocoloniali intralcino la loro politica mediorientale in piena Guerra fredda. Nel 1967 c’è la Guerra dei Sei giorni. E subito dopo arriva la risoluzione Onu 242, quella della «pace in cambio di territori». Si
2007, per intenderci. Lasciamo perdere che poi il film degenera nel teorema per cui l’establishment britannico sia infiltrato dalla Cia, questo è cinema. The ghost writer, però, è un evidente attacco alla persona di Blair e alle sue decisioni di alleato fin troppo diligente verso Washington. E oggi? Oggi Tony Blair è a capo del Quartetto. Il problema è che nessuno se lo ricorda più. Soprattutto in questi giorni in cui l’Onu, membro precipuo del Quartetto stesso, sta per adottare una decisione dalla portata storica (seppure solo forma-
contano i primi fallimenti diplomatici. Prima lo svedese Gunnar Jarring getta la spugna nel 1969, dopo aver fatto la spola tra Israele e le capitali arabe. Poi è il turno di William Rogers, segretario di Stato Usa. Stesso risultato. Arriva il secondo piano Rogers un anno dopo che Nasser a luglio decide di accettare, ma poi il presidente egiziano muore in settembre.Tutto da rifare. Nel 1971 nuovo piano del dipartimento di Stato. Nell’ottobre del 1973 arriva un’altra guerra, scatenata da Egitto e Siria contro Israele, durante la festività ebraica dello Yom Kippur. Alla fine dello stesso mese il Consiglio di sicurezza Onu emana l’ennesima risoluzione. A dicembre si apre a Ginevra la conferenza per la pace in Medioriente. Intanto continuano le trattaive tra Gerusalemme e il Cairo, il Terzo corpo d’armata egiziano è intrappolato nella Penisola del Sinai. Ma solo nel 1975 arriva un accordo definitivo sulla separazione delle truppe. È il 1977 segnare una svolta nei rapporti tra arabi e israeliani e quindi ad aprire una nuova stagione di speranze per il futuro palestinese. Anwar el Sadat in autunno si reca
Prima del 1948 nessuno avrebbe mai pensato di combattere per le aride e povere spianate palestinesi
le) per quanto riguarda il popolo palestinese.
Blair è evanescente. Anzi è del tutto assente dalla ribalta newyorkese. Il paradosso è che quel suo messaggio di exporting democracy, pur in una maniera differente, si sta facendo strada presso i governi mediorientali. Insomma, in un modo o nell’altro, quel che sta accadendo è il sogno dei neocon e dei laburisti della Terza via che, dopo l’11 settembre 2001 hanno messo al bando gli amici satrapi del passato. Saddam Hussein non era stato cacciato pro-
per la prima volta nello Stato ebraico, parla alla Knesset e incontra Menachem Begin: si pongono le basi per quello che l’anno dopo saranno gli accordi di Camp David. Dieci anni dopo un altro passaggio cruciale sulla strada dei rapporto tra israeliani e palestinesi. Ad Algeri infatti il consiglio nazionale palestinese accetta l’insieme delle risoluzioni Onu sulla Palestina, riconoscendo di fatto lo Stato d’Israele. Poi nel 1991 c’è Madrid che sancisce il passaggio della questione palestinese nell’era del dopo Muro di Berlino nell’Urss c’è ancora Gorbaciov.
Gli Usa e l’ex Urss promuovono la Conferenza di Pace di Madrid con l’intento di raggiungere un giusto, duraturo e comprensivo accordo di pace attraverso dirette negoziazioni lungo due percorsi, tra Israele e gli Stati arabi e tra Israele e i palestinesi, basandosi sulle risoluzioni 242 e 338. Al tavolo siedono Israele, Siria, Libano e Giordania. I palestinesi vengono invitati a partecipare come parte di una delegazione comune giordano-palestinese. Si accendono molte speranze, molti credono che la divisione del mondo in sfere d’influenza tra amici di Washington e quelli di mosca abbia influenzato negativamente anche il processo di pace in Palestina. E infatti nel 1993 si arriva al riconoscimento reciproco dello Stato ebraico e dell’Olp, che apre la strada agli accordi di Oslo, firmati a Washington nel settembre dello stesso anno. Poi in successione arrivano gli accordi economici e l’autonomia di Gaza e Gerico (1994), Oslo II (1995) a dicembre dello stesso anno l’esercito con la Stella di David si ritira dalle sei maggiori città arabo-palestinesi. Ma sembra che il vento di Oslo spiri solo su Gerusalemme, l’Olp stranamente temporeggia. Poi nell’agenda negoziale arrivano Hebron e Wye Plantation. Ma il processo langue, Arafat palesemente non rappresenta più gli interessi palestinesi, Gerusalemme lo sa e teme di fare concessioni all’interlocutore sbagliato. Nel Duemila a settembre si accende la seconda Intifada, dopo la passeggiata del premier Ariel Sharon nella spianata della moschea di al Aqsa. Nel 2002 arriva la risoluzione 1397 e poi il piano di pace Ue. Poi arriva Sharm el Sheik e quella che sembra una svolta: nel 2004 muore Artafat. Nasce la stella di Abu Mazen, ma nasce cadente perché è arrivato il tempo dell’ultrafondamentalismo declinato dai sunniti di Hamas. I problemi cambiano solo colore. Il resto è storia recente e racconta una narrazione dove Israele concede con riserva, percependo l’odio di Hamas. Dove al ritiro israeliano da Gaza segue l’operazione Piombo fuso e dove l’Anp si barcamena ormai solo in Cisgiordania e con difficoltà, viste le continue interferenze iraniane.
prio per questo? Perché allora Blair non cavalca l’onda e non sfrutta la situazione per un momento di ritrovata gloria personale? Peraltro converrebbe a molti. Specie a coloro che, sensatamente, temono un rigurgito un po’ troppo islamista al Cairo come in altri Paesi. E invece la stampa inglese continua a martellare sul suo passato. Pochi giorni fa, il Daily telegraph è uscito con un editoriale in cui si ricorda il legame di amicizia personale tra l’ex premier e Muhammar Gheddafi. Berlusconi non è solo in questa imbarazzante crisi libica. E Blair
che abbraccia fraternamente il raìs non è molto diverso dal nostro presedente del consiglio.
È per questo, allora, che il Quartetto è in stand by? Se così fosse, basterebbe cambiare il timoniere. Ma l’operazione richiede che i quattro membri si siedano a tavolino e scelgano un successore. Si tratterebbe di un’operazione burocratica che certo non è prioritaria oggi. Così Tony Blair resta il ben pagato sovrano di un’Isola d’Elba, alla Bonaparte maniera, dalla quale nessuno gli impedisce di scappare. Per andar dove però?
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grandangolo L’attivista indiana contro l’uomo simbolo del suo Paese
Anna Hazare è un impostore! Altro che il nuovo Mahatma Gandhi La scrittrice contro il guru pacifista che ha galvanizzato l’India con la sua lotta anti-corruzione e i suoi scioperi della fame in diretta Tv. Per l’intellettuale,“Anna” avrà pure soppiantato le star di Bollywood e i giocatori di cricket nell’immaginario collettivo, costringendo il governo ad approvare il Jan Lokpal Bill, ma non è un santo. Tutt’altro. di Arundhati Roy e quella che abbiamo visto in televisione è stata una vera rivoluzione, allora deve essere una delle più imbarazzanti e incomprensibili degli ultimi tempi. Per ragioni completamente differenti e in maniere altrettanto distanti, si potrebbe dire che i maoisti e i sostenitori del Jan Lokpal Bill (la legge contro la corruzione, ndr.) hanno una cosa in comune: entrambi cercano di rovesciare lo Stato indiano. Uno lavorando dal vertice, usando una lotta armata sostenuta da una grossa armata di adivasi (i tribali del nord dell’India, considerati dei “fuori casta” ndt.) composta dai più poveri fra i poveri. L’altro lavorando dal basso, usando un colpo di Stato non violento alla Gandhi guidato da un santone “all’acqua di rose”, che guida un’armata di persone sostanzialmente urbanizzati e certamente migliori. (In questo caso, il governo sta collaborando facendo praticamente tutto il possibile per rovesciarsi da solo). Nell’aprile del 2011, a pochi giorni dal primo “digiuno fino alla morte” di Anna Hazare, il governo ha invitato il Team Anna (il nome scelto da questo gruppo di persone, membri della “società civile”) a unirsi a una Commissione congiunta che doveva redigere una nuova legge anti-corruzione. L’esecutivo cercava in quei giorni ogni possibile strada per di-
S
strarre l’attenzione dagli enormi scandali emersi che ne minavano la credibilità. Pochi mesi dopo, quella linea di azione è stata abbandonata e il governo ha portato in Parlamento la propria proposta: un decreto così difettoso che era impossibile prenderlo sul serio. Quindi il 16 agosto, la mattina del suo secondo “digiuno fino alla morte” Anna Hazare è stato arrestato e incarcerato prima di iniziare il digiuno o commettere alcun reato.
La spinta per far approvare il Jan Lokpal Bill è divenuta una lotta per il diritto a protestare, una lotta per la democrazia stessa. Poche ore dopo questa “seconda lotta per la libertà”, Anna è stato rilasciato. In maniera molto cauta si è rifiutato di lasciare la prigione, ma è rimasto presso il carcere Tihar come ospite d’onore: qui ha iniziato un digiuno e ha chiesto di poter digiunare in un posto pubblico. Per tre giorni, mentre fuori dalla cella si assembravano persone e televisioni, i membri del Team Anna sono entrati e usciti a piacimento da un carcere di massima sicurezza portando all’esterno i videomessaggi dell’attivista, che sono stati poi trasmessi dalle televisioni nazionali in tutti i canali. (E a chi altro sarebbe mai concesso questo lusso?). Nello stesso tempo 250 impiegati della Commissione
municipale di Delhi, 15 camion e 6 scavatrici si sono messi al lavoro senza tregua per preparare il terreno fangoso di Ramlila per il grande spettacolo del fine settimana. Fino a quando – guardato a vista, osannato da folle adoranti e ripreso da telecamere, assistito dai dottori più ricercati del Paese – è iniziato il terzo “digiuno fino alla morte” (conclusosi il 28 agosto scorso, ndr.) di Anna.
Con il suo carisma e ascetismo, Hazare ha quasi fatto cadere il governo Singh Mentre i suoi metodi potrebbero essere gandhiani, le richieste di Anna Hazare di sicuro non lo sono. Contrariamente alle idee gandhiane di decentralizzazione del potere il Jan Lokpal Bill è una draconiana legge anti-corruzione che prevede che un gruppo di persone attentamente selezionate amministri una burocrazia gigante, con migliaia di dipendenti e con il potere di mettere sotto inchiesta chiunque a partire dal primo ministro, i membri del giudiziario, i parlamentari e tutta la burocrazia, fino ai più bassi rappresentanti governativi. Il Lokpal prevede il potere di investigare, sorvegliare e perse-
guire. Se si supera il fatto che non avrebbe una sua propria prigione si tratta di fatto di un’amministrazione indipendente, concepita per combattere quella corruzione estesa e non quantificabile che abbiamo già. In pratica, due oligarchie al posto di una sola.
Che possa funzionare o meno dipende dal modo in cui concepiamo la corruzione. La corruzione è una questione puramente legale – fatta di irregolarità finanziaria e tangenti – oppure è la valuta di una transazione sociale in una società egregiamente ineguale, in cui il potere continua a essere concentrato nelle mani di una minoranza sempre più esigua? Immaginiamo, per esempio, una città fatta di centri commerciali in cui il commercio degli ambulanti sia stato proibito. Un ambulante paga al poliziotto locale e al rappresentante del comune una piccola tangente che gli permette di vendere per strada la sua merce a coloro che non possono permettersi i prezzi dei centri commerciali. È una cosa tanto terribile? In futuro, quest’uomo dovrà pagare anche i rappresentanti del Lokpal? La soluzione ai problemi della gente ordinaria si trova nel riparare la disuguaglianza sociale o nella creazione di un’altra struttura di potere a cui la gente dovrà rispondere? Nel frattempo sono scesi in campo i sostenitori e la coreografia, sono state srotolate le bandiere e il nazionalismo aggressivo della Rivoluzione di Anna: dalle bandiere delle pro-
e di cronach
che guidano una cricca di Organizzazioni non governative generosamente rifornite, che hanno fra i donatori Coca Cola e Lehman Brothers. La Kabir, guidata da Arvind Kejriwal e Manish Sisodia (entrambi figure di spicco del Team Anna) ha ricevuto negli ultimi 3 anni circa 400mila dollari dalla Fondazione Ford. Fra i finanziatori della campagna “India contro la corruzione” vi sono anche industrie e fondazioni indiane che guidano fabbriche di alluminio, costruiscono porti e Zone economiche speciali e gestiscono il mercato dell’immobiliare: tutti strettamente correlati a politici che guidano imperi finanziari dal valore di migliaia di milioni di rupie. Alcuni di questi sono al momento sotto inchiesta per corruzione e altri crimini. Ma perché sono tutti così entusiasti?
teste contro gli abusi commerciali a quelle della vittoria per la Coppa del Mondo fino a quelle della celebrazione per i test nucleari. Queste bandiere vorrebbero dirci che chi non ha sostenuto il Digiuno non è un “vero indiano”. I canali televisivi, che lo hanno trasmesso 24 ore al giorno, hanno deciso che nella nazione non succede null’altro che valga la pena di segnalare. Il Digiuno non si riferisce ovviamente allo sciopero della fame di Iron Sharmila, che è durato per più di dieci anni (oggi viene nutrita a forza) e che cercava di far revocare l’Afspa, disegno di legge che permette ai soldati del Manipur di uccidere sulla base del semplice sospetto. Non si riferisce neanche al prolungato sciopero della fame ancora in corso, ovvero quello dei
Il suo vero disegno? Una doppia oligarchia a Nuova Delhi 10mila abitanti di un villaggio a Koodankulam, che protestano contro una centrale nucleare. E Il Popolo non si riferisce agli abitanti del Manipur che sostengono Sharmila, o alle migliaia di persone che affrontano con coraggio poliziotti armati e la mafia delle miniere di Jagatsinghpur, Kalinganagar, Niyamgiri, Bastar o Jaitapur. Non ci riferiamo neanche alle vittime della fuga di gas di Bhopal, o alla gente di Pune, o di Haryana o di qualunque altro posto nel Paese che resistono alle requisizioni della terra. Il Popolo si riferisce soltanto a coloro che si sono radunati a guardare lo spettacolo di un uomo di 74 anni che minaccia di morire di fame se il Jan Lokpal Bill non veniva discusso e approvato dal Parlamento. Il Popolo sono quelle decine di migliaia di persone che per miracolo si sono moltiplicate in milioni, almeno secondo le nostre televisioni, come Cristo che moltiplica i pani e i pesci per sfamare gli affamati. «Un miliardo di voci hanno parlato – ci dicono – l’India è Anna». Ma chi è lui veramente,
questo nuovo santo, la Voce del Popolo? Stranamente non lo abbiamo sentito esprimersi su alcuna questione urgente. Nulla sui suicidi dei contadini nelle sue vicinanze, nulla sull’operazione Green Hunt. Nulla su Singur, Nandigram, Lalgarh; nulla su Posco o sulle agitazioni dei contadini o sulla questione delle Sez (le Sezioni economiche speciali, che mineranno i diritti dei piccoli proprietari terrieri ndt.). Sembra non avere un punto di vista sul piano del governo di dislocare l’esercito indiano nelle foreste della parte centrale del Paese. Invece sostiene la xenofobia del Marathi Manoos di Raj Thackeray (etnia indoariana, che vive nello Stato del Maharashtra e predica l’isolamento completo dalle altre etnie e il ritorno alla purezza hindutva ndt.) e loda apertamente il “modello di sviluppo”del Gujarat, il cui primo ministro ha guidato il pogrom anti-musulmano del 2002. (A causa dell’enorme protesta popolare Anna ha ritirato queste dichiarazioni, ma presumibilmente non la sua ammirazione).
Nonostante tutto questo baccano, alcuni sobri giornalisti hanno fatto quello che i giornalisti fanno di solito. Oggi sappiamo dei rapporti di vecchia data fra Anna e l’Rss (il Rashtriya Swayamsevak Sangh, partito di estrema destra nazionalista accusato di portare avanti campagne di violenza e discriminazione contro i non indù ndt.). Abbiamo sentito il parere di Mukul Sharma, che ha studiato la comunità del villaggio di Anna a Ralegan Siddhi, dove non si sono verificate elezioni di alcun tipo negli ultimi 25 anni. Conosciamo il sentimento di Anna nei confronti degli “ariani”: «Era la visione del Mahatma Gandhi: ogni villaggio dovrebbe aver un chamar, un sunar, un kumhar e via di seguito (tutte figure religioso-amministrative ndt.). Questi dovrebbero fare il proprio lavoro secondo ruolo e occupazione e, in questo modo, un villaggio potrà essere auto-sufficiente. Questo è quanto abbiamo messo in pratica a Ralegan Siddhi». Vi sorprende il fatto che i membri del Team Anna siano in contatto con i “Giovani per l’uguaglianza”, il movimento che combatte contro i posti riservati (per le minoranze) nel mondo del lavoro? La campagna è stata portata avanti da alcune persone
Va ricordato che la campagna per il Jan Lokpal Bill ha creato una coltre di fumo attorno a rivelazioni imbarazzanti di Wikileaks e altri scandali fra cui il 2G Spectrum: importanti aziende, giornalisti di fama, ministri governativi, politici del Congress e del Bjp (i due maggiori partiti politici dell’India, il primo democratico e il secondo nazionalista ndt.) tutti coinvolti in vari modi per far sparire miliardi di rupie di denaro pubblico. Per la prima volta da anni i giornalisti lobbysti sembravano caduti in disgrazia, e alcuni fra i più importanti tycoon dell’India parevano sul punto di finire in galera. Una tempistica perfetta per un’agitazione popolare contro la corruzione. O no? In un momento storico in cui lo Stato si ritira dai suoi compiti tradizionali e le industrie e le Ong subentrano in alcune funzioni governative (distribuzione di acqua ed elettricità, trasporti, telecomunicazioni, industria mineraria, salute, istruzione pubblica); in un momento storico in cui il terribile potere dei media di proprietà privata sembra riuscire a controllare l’immaginario pubblico uno potrebbe pensare che queste istituzioni – industrie, media, Ong – siano comprese nel Lokpal Bill. Invece no, non li menziona proprio. Oggi, urlando più forte di tutti e spingendo una campagna contro questi malvagi politici e la corruzione del governo, sono riusciti ad allontanarsi dall’amo. Ancora peggio: demonizzando soltanto il governo hanno costruito un pulpito da cui chiedere un ulteriore ritiro dello Stato dalla sfera pubblica e un secondo turno di riforme. Fra quelle previste ci sono nuove privatizzazioni, la possibilità di maggior accesso alle infrastrutture pubbliche e alle risorse naturali del Paese. Non ci vorrà molto prima di vedere legalizzata la corruzione aziendale, che si chiamerà “tassa di lobby”. Gli 830 milioni di persone che vivono con meno di 20 rupie al giorno (30 centesimi di euro) avranno un vero beneficio dal rafforzamento di un gruppo di politiche che li impoveriscono ancora di più e avvicinano la nazione alla guerra civile? Questa tremenda crisi si è creata per il fallimento della democrazia rappresentativa dell’India, in cui i governi sono composti da criminali e politici milionari che hanno smesso di rappresentare il loro popolo. In cui nessuna istituzione democratica è accessibile alla gente ordinaria. Non vi fate ingannare dallo sventolio delle bandiere. Stiamo assistendo al trascinamento dell’India in una guerra per la sovranità che è mortale quanto qualunque battaglia combattuta dai signori della guerra in Afghanistan. Soltanto che qui c’è molto, molto di più in gioco.
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il personaggio della settimana Elogio del 68enne romano, morto giovedì sera per aver difeso la moglie da un malvivente
La caduta degli eroi Mentre ci si ostina a venerare icone di vacuità, c’è chi ogni giorno vive (e perde) la propria vita con coraggio e senza riflettori puntati. L’ultimo esempio? Ennio Lupparelli di Osvaldo Baldacci ortunato il Paese che non ha bisogno di eroi. L’Italia non è un Paese fortunato, perché ne ha molto bisogno. E per di più è doppiamente sfortunata perché non riesce più a capire quali siano i veri eroi, e spesso preferisce tributare onori sballati a chi invece è dall’altra parte, sulla riva degli antieroi, dei modelli negativi. Sarebbe ora di rimettere le cose a posto, rimettere ordine nella scale dei valori. È solo con una rinascita morale che l’Italia può salvarsi. Questa crisi economica e di crescita è soprattutto e prima di tutto una crisi di valori, e da lì bisogna ripartire per uscirne. È per
F
questo che liberal considera come personaggio della settimana appena trascorsa Ennio Lupparelli, il 68enne investito martedì sera a San Basilio (Roma) dallo scippatore che aveva appena derubato sua moglie. Ennio non ce l’ha fatta. Ennio e sua moglie Anna, a passeggio per il quartiere in attesa di raggiungere alcuni amici a cena, si sono imbattuti nel loro aggressore, un pregiudicato romano di 33 anni che si è avvicinato a bordo della sua Panda rossa strappando la borsetta dalle mani della signora Anna. Ha poi tentato la fuga imboccando però una strada chiusa, così nel tornare indietro si è visto sbarrare la strada da Ennio che cercava di reagire: non ci ha pensato su e lo ha investito, uccidendolo. Per una borsetta. La famiglia ha autorizzato la donazione degli organi.
Cosa ha fatto di eroico Ennio? Qualcuno potrà dire che forse non valeva la pena, che non è stato furbo, e che comunque lo ha fatto per difendere gli affari suoi. E poi ci sarà qualcun altro che andrà oltre, e dirà che la vera vittima è il pregiudicato, che è stato
svantaggiato dalla società, che forse non sapeva come tirare avanti, come sfamare la famiglia o chissà che altro. No. Basta con questo rovesciamento di ruoli. Certo la crisi morde, la società è problematica, l’emarginazione è ingiusta e pericolosa, a tutti bisognerebbe trovare il modo di dare l’opportunità di raddrizzare la propria vita.
Ma se questo manda in confusione tutti i punti di riferimento, se il buonismo diventa una vera e propria corruzione morale, bisogna dare l’altolà. L’eroe è Ennio, che aveva il sacrosanto diritto di non vedersi strappati via i risparmi, che non doveva vedere la moglie alla mercè di un balordo. Aveva il sacrosanto diritto di essere vivo, e i suoi familiari avevano il sacrosanto diritto di averlo a fianco. È un eroe perché non ha fatto cose spettacolari, clamorose. Ma ha compiuto un gesto di ordinaria quotidianità, e lo ha fatto forse in tutta la sua vita. Quel giorno quel gesto gli è costato la vita. Ha
reagito. Non si è rassegnato. Non è l’aver affrontato lo scippatore che ne fa un eroe, ma il suo rifiuto di rassegnarsi a un mondo ostile, cinico, prepotente. Il suo rifiuto di essere complice del fatto che le cose vadano così, e tiriamo a campare. Ha
Non è l’aver affrontato lo scippatore che ne fa un simbolo, ma il suo rifiuto di rassegnarsi a un mondo ostile, cinico, prepotente
visto un’opportunità di non cedere imbellamente, e lo ha fatto. Che sia morto è una responsabilità che ricade su tutti noi, non certo su di lui, che senz’altro pensava a ben altro esito della sua piccola eroica azione. Insieme a lui sempre a Roma vanno ricordate le donne che hanno avuto più fortuna, ma che anch’esse meritano una menzione: sempre di scippo si tratta, stavolta al quartiere Balduina. Un uomo ha tentato di derubare una donna: «Quando ho visto quell’uomo - racconta Marcella, la donna che è intervenuta e l’ha fermato - che metteva le braccia intorno al collo di una signora ho iniziato a gridare e gli sono corsa dietro per fermarlo. Ho pensato che se quella donna fosse stata mia figlia avrei voluto che qualcuno la aiutasse. In molti avevano assistito alla scippo ma prima delle mie urla nessuno si era mosso per dare una mano alla signora. Fortunatamente il ladro è inciampato così ho avuto il tempo di raggiungerlo e trattenerlo per qualche secondo attraverso la tracolla del borsello che aveva con sé».
A quel punto sono arrivate altre donne che lo hanno tenuto fermo fino all’intervento della polizia. Ecco un’altra eroina, che ha capito un meccanismo elementare, la solidarietà che è vicendevole. Certo, si è eroi ad applicare una cosa tanto elementare perché troppi intorno a noi rifuggono da questo: pensa ai fatti tuoi, pensano e ci ripetono, ci insegnano continuamente. Un individualismo che dà poi i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non è così che il mondo può funzionare, non è così che l’Italia può ritrovare la sua spina dorsale. Stiamo facendo un’apologia dell’antiscippo? È questo un grande appello a ribellarsi agli scippatori? Non è questa l’intenzione, non chiediamo a nessuno di mettersi a rischio fuori luogo. È un esempio, una grande metafora, che va ben oltre l’episodio e la casistica specifica. È la reazione contro la rassegnazione, è l’invito a prendersi ciascuno la propria parte di responsabilità per se stessi e per gli altri. E anche un invito a rivedere le nostre categorie mentali per rimettere ordine nei nostri modelli di riferimento. Non si diventa eroi per caso. Non auguriamo a nessuno di diventare eroe, vorrebbe dire che si trova in una situazione estre-
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di facile guadagno? Quanti veri eroi ci sono nella pubblica amministrazione? E persino nella tanto bistrattata politica, a tutti i livelli, partendo dalle realtà locali? Quanti per un po’ di successo, ricchezza, potere, ammirazione hanno venduto la propria anima, e quanti invece l’hanno salvata senza che se ne sappia niente, e anzi ricevendo forse in cambio solo fiele e emarginazione. O vogliamo parlare di sanità? Quanti veri eroi ci sono nelle pieghe di un sistema oggettivamente più malato dei suoi stessi pazienti? E quanti antieroi?
ma. Ma la possibilità di diventarlo, la capacità di esserlo, matura solo attraverso la quotidianità, le piccole cose della vita, le scelte di ogni giorno, i valori in cui si crede. Questo sì che è importante, questo sì che siamo chiamati a esercitare. E allora riflettiamo, chi sono gli eroi di oggi? La cronaca ogni giorno ci dà adito a riflettere su questo, a farci questa domanda. E se guardiamo i mass media è particolarmente evidente come i modelli che ci vengono proposti sono drammaticamente fuorvianti, sbagliati. Sta allora alla nostra capacità critica rimettere le cose a posto, fare nel nostro piccolo gli eroi non rassegnandoci ai modelli imposti e cambiando le cose. Gli eroi di oggi
chi fa la follia più assurda, più estrema, anche per la strada. Quelli che hanno la testa imbottita dei modelli televisivi. Ma chi è il vero eroe? Quello che si fa o quello che rifiuta la droga nonostante la pressione del gruppo? Quello promiscuo o quello che rispetta le ragazze? Quello che beve di più o quello che si rifiuta di avere alla guida un ubriaco? Essere eroi vuol dire sapersi ribellare al conformismo, alle pressioni del gruppo.
Eppure i media questi giovani eroi li dimenticano continuamente, li emarginano, persino li irridono. Eppure fortunatamente di giovani eroi se ne vedono tanti. Giovani che si lanciano
È arrivato il momento di rimettere le cose a posto. Soprattutto di riordinare la scala dei nostri valori sono i modelli tv? Sono i tronisti, le veline, i personaggi da reality? Sono le loro vite, le vite di chi ad ogni costo frequenta il mondo dello spettacolo? O persino quelle di grandi atleti (tanto di cappello per i meriti sportivi, ma nella vita?). Sono questi i riferimenti, quelli che vorremmo trasmettere ai nostri figli? Oppure i veri eroi sono altri, che appunto tirano la carretta giorno dopo giorno nell’anonimato e hanno un solo tesoro, ma il più prezioso la loro dignità intatta? Pensiamo ai giovani.
Se si guarda a cosa raccontano i media, i giovani sono solo quelli di sesso, droga e rock’n’roll. Gli sballati del sabato sera. Quelli che si sentono eroici perché trasgrediscono, fanno a gara a chi “si fa” più persone, chi si ubriaca,
con impegno nel mondo del lavoro, che studiano con sacrificio e passione nonostante le difficoltà del nostro sistema. Ragazze e ragazzi che amano curarsi, divertirsi, stare bene, ma che non hanno mai pensato che questo possa essere in contrasto con la capacità di sognare, impegnarsi, assumersi responsabilità, credere. Che amano le discoteche, i cinema e i concerti, ma lo dicono le statistiche - dedicano altrettanto interesse alla cultura, alle mostre,“persino”ai libri.Viaggiano per divertirsi, ma anche per conoscere il mondo e la gente. Ma dove sono sui mass media i tanti giovani che si spendono per un impegno civile e politico perché credono che il mondo possa essere un po’ migliorato? I Papaboys fanno notizia solo per folklore e scom-
paiono quando riempiono la vita quotidiana dell’impegno che scaturisce dalla fede? I tanti che per questa o quella idea partecipano a manifestazioni su manifestazioni esistono solo quando invadono le città o scendono in piazza perché hanno qualcosa da dire, giusta o sbagliata ma che si potrebbe anche ascoltare? Quanti giovani mettono la divisa per difendere giorno dopo giorno pace e ordine, ma ce ne ricordiamo solo se vengono massacrati? Ci sono più aspiranti tronisti e veline o più volontari nelle ong, nelle associazioni, nelle cooperative, nelle parrocchie...? C’è confusione: e ci si dovrebbe indignare vedendo che a essere presentati come giovani eroi sono quei teppisti che nelle manifestazioni black bloc o nei sobborghi di Londra o Parigi scatenano la loro rabbia (a volte comprensibile, perché nasconderlo?) in una violenza cieca che è parte integrante del problema e lo aggrava, non contribuisce certo alla soluzione. E i media gongolano a mandare quelle immagini spettacolari, e qualche maestro di pensiero elogia l’eroismo di chi si ribella. No.
La vera ribellione è quella di chi il mondo lo cambia giorno dopo giorno, con il proprio impegno, con lo studio, il lavoro, e costruendo un mattone per volta il mondo delle relazioni intorno a sé. Non lanciando mattoni. Ai violenti, bisognerebbe preferire i poliziotti, che quando fanno bene il loro lavoro, nelle condizioni in cui sono costretti, sono dei veri eroi. Come i militari e gli altri delle forze di sicurezza. In politica chi è il vero eroe? L’arruffa-popoli sempre più diffuso, l’anti-politico, l’anti-sistema? Quello che scatena la rabbia della gente e la incanala verso la distruzione sottraendo preziose energie alla costruzione? Oppure l’eroe è quello che non si piega al vento che cambia, non liscia il pelo alla gente, ma dice la verità e percorre tenace la sua strada controcorrente avente ben in mente il bene comune e non il suo successo demagogico? Chi è il vero eroe? Chi è il modello di riferimento? La persona di successo, ricca e senza scrupoli? Chi ha costruito la propria scalata sui cadaveri degli altri? Chi si è saputo arricchire approfittando della cattiva amministrazione, tra tangenti e truffe? Oppure l’eroe è chi fa onestamente il suo lavoro magari rifiutando le occasioni di illegalità,
A chi va la nostra ammirazione? A chi lucra su cliniche che non fanno quello che dovrebbero ma intanto i potenti si arricchiscono? Al primario cocainomane che spilla quanti più quattrini possibile da gente che sta male? O all’infermiere che non fa il suo lavoro ma si è ritagliato un ruolo di gestore dei favori e in questo modo si gode il suo piccolo potere e i suoi illeciti arrotondamenti? Tutta gente di successo, tutta gente ammirata in società. Ma marcia. Mentre gli eroi sono tutti quelli, medici, chirurghi, infermieri e portantini, che gettano sangue e sudore per far funzionare un sistema di cui altri si approfittano, e prendono il loro lavoro come una missione e mettono al centro del loro mondo le persone che vanno aiutate, e non spremute. Qualche esempio di eroi moderni? Chi ad esempio dona gli organi per salvare delle vite, nonostante in quel momento provi un immenso dolore e forse rabbia per la persona cara che gli è stata strappata via. E che vogliamo dire di chi resiste alla mafia, rifiuta di pagare il pizzo, sporge denuncia? Saranno più eroici questi comportamenti o quelli di qualche membro dello star system intento a preoccuparsi di un vestito, di un’unghia, di un amante? Cosa c’è di eroico nell’essere un’icona pop? Beh, mi attirerò qualche antipatia, ma non vedo niente di eroico, niente di esemplare in Lady Gaga che bercia conciata da pagliaccio (con tutto il rispetto per i pagliacci), in Vasco Rossi che fa i suoi sconnessi predicozzi di vite spericolate (l’antieroe per eccellenza, il cattivo esempio più esemplare, a mio modesto avviso), in Amy Winehouse e negli altri idoli che poveracci sono morti a 27 anni a seguito della vita che hanno condotto: possono fare pena come vittime di un sistema che li ha sfruttati da vivi e da morti, ma dev’essere chiaro che ci sono dei carnefici e altrettanto chiaro che se quei ragazzi cantavano canzoni apprezzate, questo non vuol dire che sono icone e le loro vite modelli. Non bisogna fare confusione tra talento ed esempio. Se si riesce a distinguere, bene, altrimenti è certamente meglio buttar via le canzoni insieme al cattivo esempio, piuttosto che buttare i valori per salvare le canzoni. Ma purtroppo succede spesso il contrario. L’elenco degli eroi di oggi e dei contrapposti modelli antieroici che ci vengono propinati potrebbe essere infinito. Ma il tono ormai lo abbiamo capito. Resta un ultimo esempio. Chi è il vero eroe? Il mago che promette di venderti un figlio ad ogni costo, ad ogni età, in ogni modo, con ricchi guadagni? Gli aspiranti genitori che quando si sentono appagati della loro vita pensano sia arrivato il momento di comprarsi un giocattolo nuovo in forma di bimbo? Oppure oggi in Italia è eroico fare i figli quando è il momento, nonostante tutto remi contro la famiglia, e quindi contro il futuro?
ULTIMAPAGINA
Tre soldati italiani sono morti in un incidente stradale appena fuori dalla nostra base in Afghanistan
Continua la maledizione di Gaia Miani Si allunga drammaticamente la lista delle vittime italiane in Afghanistan: la zona di Herat, dove i nostri soldati hanno la loro base, è diventata quasi una maledizione. Stavolta è di tre morti il bilancio dell’incidente che ha coinvolto una pattuglia italiana: sembra si tratti proprio di un incidente stradale, non di un attentato. «Sono militari che viaggiavano a bordo del loro mezzo e si è trattato di un incidente stradale», ha confermato il generale Massimo Fogari, portavoce dello Stato maggiore della Difesa. «Stanno cercando di rianimare i due militari rimasti feriti», aveva detto in precedenza. Ma i due militari purtroppo sono poi deceduti. Le loro condizioni sono apparse subito gravissime, dopo il ricovero nell’ospedale organizzato dentro alla base italiana di Herat. L’incidente, ha confermato il portavoce del contingente di Herat, Marco Amoriello, è avvenuto «durante uno spostamento». I tre soldati morti nell’incidente sono il tenente Riccardo Bucci, 34 anni, di Milano, in servizio presso il Reggimento lagunari Serenissima di Venezia; il caporal maggiore scelto Mario Frasca, 32 anni di Foggia, in servizio al Quartier generale del Comando delle forze operative terrestri di Verona; il caporal maggiore Massimo Di Legge, 28 anni, di Aprilia (Latina), in servizio presso il Raggruppamento logistico centrale di Roma. Sulla dinamica dell’incidente il generale Fogari ha spiegato che «allo stato dei fatti posso dire che i 3 militari erano a bordo di un Lince, appartenevano ad una unità affiancata all’esercito afghano e stavano muovendo verso il comando italiano in Afghanistan. Si è trattato di un mero incidente stradale» avvenuto su «una via molto ma molto trafficata».
saggio è arrivato anche dal presidente del Senato Renato Schifani: «Ci stringiamo attorno ai nostri militari che, ogni giorno rischiano la vita in difesa della pace e della democrazia». Anche i senatori del Pd hanno espresso tutta la loro vicinanza alle famiglie: «In attesa di sapere di più sulle dinamiche dell’incidente accaduto ad Herat, il nostro pensiero commosso va alle famiglie, alle forze armate e a tutti i soldati italiani che in questo momento stanno partecipando alle missioni internazionali in cui è impegnata l’Italia» ha detto Anna Finocchiaro.
DI HERAT
Il presidente Giorgio Napolitano, ha mandato un messaggio ai familiari delle vittime per esprimere il dolore e il «cordoglio di tutto il Paese». E «grande vicinanza alle famiglie dei
caduti» è stata espressa dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa, mentre da New York, dove si trova per rappresentare il governo all’Assemblea dell’Onu, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha ribadito che «questo dolore non può e non deve arrestare il processo di transizione ormai avviato in Afghanistan e reso possibile anche grazie all’altissimo prezzo pagato dalle nostre Forze armate».
Cordoglio e vicinanza alle famiglie anche da parte del presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha rinnovato «l’apprezzamento per il costante e generoso impegno dei nostri soldati che con coraggio e professionalità operano in quel tormentato Paese». E un mes-
Le vittime sono il tenente Riccardo Bucci, 34 anni, di Milano, il caporal maggiore Mario Frasca, 32 anni di Foggia, il caporal maggiore Massimo Di Legge, 28 anni, di Aprilia
Con la morte dei tre militari, ieri, sale a 44 il bilancio delle vittime italiane nella missione Isaf in Afghanistan. L’ultimo episodio luttuoso si era verificato il 25 luglio scorso, con il la morte del Caporal Maggiore David Tobini in seguito alle ferite riportate in uno scontro a fuoco nel villaggio di Khame Mullawi, nella valle di Bala Murghab. Pochi giorni prima, il 12 luglio, a perdere la vita era stato il primo caporal maggiore Roberto Marchini, dell’ottavo reggimento genio guastatori della Folgore. Il 2 luglio era rimasto rimasto ucciso in un attentato a Caghaz, il caporal maggiore Gaetano Tuccillo. Era originario di Pomigliano d’Arco (Napoli) ed apparteneva al battaglione logistico Ariete di Maniago (Pordenone). Il 4 giugno scorso, il tenente colonnello dei carabinieri Cristiano Congiu, intervenuto per difendere una donna americana, era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco mentre si trovava in una località della Valle del Panshir. Il 28 febbraio scorso era stato il Tenente Massimo Ranzani a perdere la vita in seguito all’esplosione di un ordigno esplosivo a nord di Shindand. In precedenza, il 28 gennaio, il Caporal Maggiore Scelto Luca Sanna era morto in seguito alle ferite per i colpi d’arma da fuoco esplosi da un presunto appartenente all’Afghan National Army, poi fuggito.