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Credo nel Dio che ha creato gli uomini, non nel Dio che gli uomini hanno creato Alphonse Karr

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 27 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Aprendo il Consiglio permanente dell’Assemblea, l’arcivescovo di Genova punta il dito contro il malcostume

Bagnasco: «Italia disastrata» Incapacità di gestire la crisi e degrado etico stanno perdendo il Paese Il presidente della Cei nega il “silenzio della Chiesa” e lo fa con un “j’accuse“ del non-governo, dell’immoralità, della corruzione. «Ci sono stili di vita incompatibili con il decoro costituzionale» APERTURE

INTERPRETAZIONI

SCENARI

Il Centro è già pronto a rispondere

Non nomina mai il premier. Ma è peggio

La nuova strada per laici e credenti

di Rocco Buttiglione

di Luigi Accattoli

di Paola Binetti

iamo ad un punto di svolta nella vicenda del cattolicesimo politico in Italia. Questa volta, il card. Bagnasco indica un percorso ai cattolici per dare il loro contributo. segue a pagina 2

l cardinale Bagnasco dice molto, forse tutto, sulla mortificazione degli italiani costretti a prendere atto di comportamenti contrari al decoro, tristi e vacui del premier. a pagina 7

l quadro politico dell’ultima settimana ha accresciuto i livelli di ansia e di incertezza degli italiani, smorzando la speranza di uscire presto da una crisi drammatica. a pagina 6

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Lo scontro in Mediobanca

Il teorema incompiuto di Della Valle

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di Giancarlo Galli l mitico Enrico Cuccia vivente e regnante, Mediobanca (fondata nel 1946 da una costola della Comit di Raffaele Mattioli) fu per oltre mezzo secolo il cuore pulsante della finanza italiana. Innanzi alla scrivania dello gnomo di via Filodrammatici in Milano, prendevano ordini senza batter ciglio gli Agnelli ed i Pirelli, De Benedetti ed i Pesenti con tutta la spettabile “compagnia di giro”. «Ciò che Cuccia vuole, Dio lo vuole», usava dire Re Gianni, il signore della Fiat. Da quando “don Enrico” se n’è andato, in Mediobanca non c’è più pace. a pagina 8

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Il testo dell’intervento del Cardinale alla Conferenza Episcopale

«Un nuovo soggetto cattolico» «Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che, coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita, sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né illusioni» Angelo Bagnasco • alle pagine 3, 4 e 5

Lutto nell’ecologismo

Addio Maathai, voce dell’Africa Il Kenia piange la scomparsa del «suo» Nobel per la Pace

Ennesimo botta e risposta nell’esecutivo sulle misure per favorire lo sviluppo

Gaffe di Brunetta sull’antimafia «Certificato inutile». Maroni lo smentisce: «No, indispensabile» di Marco Palombi

Arezzo • pagina 12

Lutto nel fumetto

Sergio Bonelli, il fratello di Tex È morto l’uomo che rese popolare il grande personaggio Scotti • pagina 14

La solita confusione tra carte e criminalità

Una cosa giusta e tre sbagliate

ROMA. Quando si rilassa troppo, Renato Brunetta non si trattiene dal gusto perverso di aprire la bocca e spararle grossa. Salvo che - come dire - spesso è lui stesso vittia delle sue trovate. Come ieri, quando ha spiegato che il certificato antimafia penalizza lo sviuppo. Che troppi documenti siano un peso, lo sappiamo, ma anche Maroni lo ha dovuto contraddire sulla criminalità: «Quel certificato è indispensabile». a pagina 10

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

di Giancristiano Desiderio uando un governo non ha più niente da dire è meglio che vada a casa. Lì, infatti - a casa propria - uno può dire tutte le strombolate che vuole e non farà danni se non a se stesso, mentre se le dice in pubblico quanto meno genera imbarazzo.

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

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pagina 2 • 27 settembre 2011

l’assemblea della cei

La Cei leva alta la voce sulla decadenza dell’esecutivo e della classe dirigente. E la politica (per ora) incassa il colpo

«Un Paese da purificare» Immoralità, corruzione, non-governo, «stili di vita incompatibili con la Costituzione»: l’affondo di Bagnasco sul modello-Berlusconi di Riccardo Paradisi cattolici e la politica. Il cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione al consiglio permanente della conferenza episcopale italiana torna a battere sulla necessità d’un rinnovato impegno dei cristiani nella vicenda pubblica. L’analisi di Bagnasco muove dal senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale: «Non si era capito che la crisi economica e sociale, che iniziò a mordere tre anni or sono, era in realtà più vasta e potenzialmente più devastante di quanto potesse apparire di primo acchito». E ancora: «Circola l’immagine di un Paese disamorato quasi in attesa dell’ineludibile: in

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Fioroni: «Bisogna accogliere l’invito a un nuovo impegno dei cattolici in politica per salvare il Paese» quanto Vescovi non possiamo essere spettatori intimiditi». E non è un paese per giovani questa «Italia senza slanci»; tanto che nel nostro Paese come nel mondo intero si va configurando proprio una questione giovanile: «Sentendosi tagliati fuori dai luoghi decisionali in cui si vanno affrontando i problemi dell’assetto economico i giovani manisfestando la loro incomprimibile esistenza». Senza che venga loro dato un esempio edificante da pare delle classi dirigenti.

Bagnasco è molto duro nel denunciare la questione morale che prostra l’Italia. «Mortifica dover prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui. Si rincorrono con mesta sollecitudine racconti che se comprovati a livelli diversi rilevano stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Colpisce – continua Bagnasco – anche l’esibizione dei certi comportamenti disinvolti come, dall’altra parte, colpisce l’ingente mole di strumenti d’indagine messa in campo su questi versanti quando altri restano disattesi e indisturbati». Occorre portare il Paese fuori da queste secche alla proprie responsabilità storiche e culturali.

Il movimento delineato dal cardinale incontra il progetto messo in campo dall’Udc

Noi del Centro siamo già pronti a rispondere di Rocco Buttiglione segue dalla prima Ovvero, salvare il Paese da una crisi che sembra senza speranza. Inizia ribadendo il carattere prima di tutto morale della crisi. Certo la politica e l’economia hanno la loro legittima autonomia ma essa si esercita all’interno di una più ampia responsabilità morale. Dove questa viene meno, dove politica ed economia diventano autoreferenziali, lì esse necessariamente finiscono con il rivolgersi contro la persona umana concreta e con l’avvelenare la vita della nazione. Il cardinale risponde direttamente e senza timore a chi accusa la Chiesa di non avere detto per tempo parole chiare sul devastante esempio morale dato dal Capo del Governo. Per tempo e prima che gli scandali si aggravassero lo stesso card. Bagnasco aveva richiamato al dovere costituzionale del “decoro”. Oggi questo richiamo viene ripetuto in modo più stringente. Non si può separare senza residui la morale pubblica dalla morale privata. Questa censura viene collocata all’interno di un più complessivo smarrimento della società italiana che ha smarrito i suoi punti di riferimento morali. Se siamo smarriti davanti alla crisi è perché abbiamo creduto di potere fare a meno delle virtù che hanno animato l’enorme lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto. Quando la dissoluzione morale raggiunge certi limiti allora anche l’economia smette di funzionare ed entra in crisi la democrazia. In questo contesto cambia anche il modo in cui si deve considerare l’impegno politico dei cattolici. Il problema non è più (solo) difendere i valori non negoziabili all’interno di una società secolarizzata. L’accento si sposta sul contributo che i cristiani hanno il diritto (ed il dovere) di dare per salvare la nostra democrazia e la nostra società. Fin qui la analisi. La parte più interessante e significativa è però quella che viene dopo. Esiste una grande vitalità del popolo cristiano in Italia, che si esplica in forme multiformi all’interno della società civile. Questo impegno incontra naturalmente la politica nello svolgimento delle sue funzioni proprie. Come interloquire con la politica? Il card. Bagnasco ci dice: «Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che - coniugando l’etica sociale con l’etica della vita- sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie

né ingenue illusioni». Sono evidentemente parole pensate una per una e meritano dunque una riflessione attenta.

Questo soggetto nasce dalla convergenza delle associazioni e dei movimenti, deve essere una struttura di servizio che li aiuti a svolgere tutto il loro potenziale di servizio per il bene comune. Si tratta di iniziare un dialogo esigente per ricondurre la politica verso il bene comune ponendo obiettivi ma anche giudicando le diverse forze politiche secondo la loro capacità di dare risposte soddisfacenti. Se un simile movimento deve essere indipendente dalle forze politiche non deve essere equidistante, deve sapere incoraggiare comportamenti coerenti e stigmatizzare comportamenti incoerenti dando giudizi penetranti e non equivoci. Con molto realismo il cardinale aggiunge che la concreta fisionomia di questo soggetto dipenderà dal modo in cui si svilupperà la crisi italiana. Non si vuole rifare la DC ma non si accetta neppure che l’ossessione di non rifare la DC diventi una specie di remora paralizzante che impedisce di rispondere in modo libero e responsabile alle sfide del presente. Questo discorso sfida anche noi in due modi diversi. Per un verso siamo parte anche noi di quel popolo cristiano che viene invitato ad organizzarsi. Come credenti (quelli di noi che sono credenti) siamo chiamati a dare il nostro contributo. Noi però siamo già impegnati in politica, dentro un partito che si è coraggiosamente rimesso in discussione proprio con l’ambizione di rinnovare la politica e che vuole essere un partito laico di ispirazione cristiana. La sfida per noi è quella di interloquire con il nuovo soggetto in formazione con attenzione fraterna, di formulare in questo dialogo i nostri programmi di azione, di offrire a chi viene da questo soggetto possibilità di competere nelle nostre liste. Dobbiamo essere un partito espressione della società ed in modo particolare del popolo cristiano che in essa si autoorganizza. Dobbiamo riflettere sul modo di rendere evidente questa nostra identità e questa nostra scelta politica nei nostri congressi che andiamo preparando. Magari attraverso una Carta di Valori da proporre alla discussione dei nostri congressi come strumento di dialogo con la società civile a cui guardiamo ed alla quale ci sentiamo particolarmente vicini.

Una Carta dei Valori comuni da proporre come base per il dialogo con le altre forze

«L’Italia ha una missione da compiere, l’ha avuta nel passato e l’ha per il futuro. Si deve reagire dunque. Ma come? Ecco la risorsa dei cattolici: un gran numero dei quali “sollevati dagli eventi e sensibilizzati nelle comunità cristiane”ha còlto «la rinnovata perentorietà di rendere politicamente più operante la propria fede». La transizione dei cattolici verso il nuovo - conclude il presidente della Cei citando un’analisi del rettore dell’Università cattolica Lorenzo Ornaghi - «maturerà all’interno della transizione più generale del Paese secondo la linea culturale del realismo cristiano, e secondo quegli atteggiamenti culturali di innovazione, moderazione e sobrietà che da sempre la connotano.

È forse pensabile che rispetto a tale politica risultino latitanti, facilmente emarginabili, irrilevanti, non tanto singole personalità cattoliche, quanto i cattolici italiani come presenza vitale e immediatamente riconoscibile, perché efficacemente organizzata?». Certo la Cei e le gerarchie si premurano sempre di non dare risposte chiuse ma di aprire a delle prospettive nuove. Eppure questi e altri pronunciamenti della conferenza episcopale sono stati letti come una nuova legittimazione a costruire un’unità dei cattolici in politica. anche perché dalle stesse gerarchie sono arrivati anche messaggi espliciti in questo senso. Come quello di monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che all’incontro “Cattolici in Italia e in Europa: diaspora, unità e profezia” ha detto chiaramente che tutte le ipotesi possono considerarsi legittimamente sul tavolo ed è proprio l’autonomia dei laici nel campo della politica a implicare che «i cattolici, valutate le condizioni storiche e le poste in gioco, possano decidere di dare vita a eventuali partiti». È finito il tempo della Dc ma anche quello che le è seguito, gli anni del berlusconismo che il presule chiama «della diaspora è l’ora dell’unione degli intenti». Sulla strada da seguire concretamente, precisa però monsignor Toso «sono i cattolici che militano nei vari partiti che debbono fare la loro valutazione. Nessuno può sostituirsi ad essi». Il campo è aperto insomma. Anche se non tutti i cattolici sono persuasi che la via sia quella di una rinnovata unità.


l’assemblea della cei «Pensare che si possa rifare un’area moderata a trazione cattolica è fuori dalla storia per me – dice l’esponente dell’Udc Savino Pezzotta – i cattolici devono impegnarsi in politica, ci mancherebbe e ci sono organizzazioni che si richiamano all’ispirazione cristiana. Ma prima di una riconversione all’autonomia dei cattolici che hanno sostenuto fino ad oggi Berlusconi io mi aspetterei un’autocritica. Casini questa autocritica l’ha fatta». Pezzotta ritiene che non sia possibile nessuna nuova Dc e immagina un percorso empirico «È cambiato tutto da allora. Partiamo dal presente piuttosto. In Italia un movimento che si ispira chiaramente alla dottrina sociale della Chiesa e ai valori cattolici c’è e si chiama Udc. Partiamo da qui. Prima scomponiano l’attuale quadro politico e poi vediamo quello che esce». Anche per Giuseppe Fioroni (Pd) le parole di Bagnasco non possono tradursi nell’invito alla riorganizzazione d’una unità politica dei cattolici. «Il richiamo – dice Fioroni – è a un impegno dei cattolici a un soggetto culturale e sociale che dialoghi con la politica sui temi dell’etica sociale e della vita» e «va accolto come un segnale molto positivo di arricchimento alla partecipazione democratica e a quella ricostruzione di un comune sentire valoriale di cui l’Italia non può fare a meno». Non una reprimenda ad personam, o verso il governo, ma un richiamo erga omnes. È questa la valutazione che il ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi (Pdl) dà delle parole di Bagnasco. «Sono due gli aspetti su cui l’episcopato anche recentemente è in-

L’autodifesa di Rotondi: «Berlusconi è un santo puttaniere. Ma passerà alla storia come grande statista» tervenuto: la questione morale e il partito dei cattolici. Sul primo versante, Bagnasco ha messo in chiaro che è una vero e proprio tema permanente. Sul secondo versante, c’è una valutazione negativa sull’archiviazione dell’unità politica dei cattolici. Quindi, parlerei di un’autocritica rispetto alla fretta con cui si pensato di potersi liberare della Dc. È chiaro anche alla Cei, insomma, che senza un partito, i cattolici in politica sono condannati alla marginalità».

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L’intervento del presidente della Conferenza episcopale italiana

Salviamo l’Italia «La Chiesa non ha mai scelto il silenzio. E oggi è doverosa la denuncia del degrado delle istituzioni e della politica» di Angelo Bagnasco vvio questa riflessione facendo subito riferimento al clima che – a giudizio di molti osservatori, ma è anche nostra sensazione – appare emergente, ossia il senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da un attonito sbigottimento a livello culturale e morale. Un’insicurezza che si va cristallizzando, e finisce per prendere una forma apprensiva dinanzi al temuto dileguarsi di quegli ancoraggi esistenziali per i quali ognuno si industria e fatica, essendo essi ragione di una stabilità messa oggi in diper scussione, cause in larga misura non dipendenti da noi. Non si era capito, o forse non avevamo voluto capire, che la crisi economica e sociale, che iniziò a mordere tre anni or sono, era in realtà più vasta e potenzialmente più devastante di quanto potesse di primo acchito apparire. E avrebbe presentato un costo ineludibile per tutti i cittadini di questo

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Paese. Spetta ad altri dar conto degli scenari che si presentano sul versante economicosociale; per parte nostra siamo specialmente in apprensione per le pesanti conseguenze sulla vita della gente e gli effetti interiori di questa crisi che, a tratti, sembra produrre un oscuramento della speranza collettiva. Se ne vede traccia in certa perplessità trascinata e stanca, in una amarezza dichiarata, in un risentimento talora sordo, in un cinismo che denuncia una sconfortata rassegnazione. Circola l’immagine di un Paese disamorato, privo di slanci, quasi in attesa dell’ineluttabile. Ebbene, in quanto Vescovi non possiamo essere spettatori intimiditi; nostro compito è proporci come interlocutori animati da saggezza, interessati a «rompere questo determinismo dell’immanenza o, meglio, aprirlo alla concezione cristiana della storia e del tempo». […]

Più volte e da varie parti la popolazione del Nord del mondo era stata avvertita e sensibilizzata sul fatto che l’Occidente viveva al di sopra delle proprie possibilità. Ed era ragionevole pensare che la crisi esplosa tra il 2008 e il 2009 avesse indotto non solo a tamponare le falle che si erano infine aperte, ma a introdurre elementi virtuosi per raddrizzare progressivamente il sistema dell’economia mondiale. Ma così non è stato. segue a pagina 6


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E quando infine si sperava di cominciare a vedere la luce, la crisi ha dato segnali di inequivocabile persistenza e per alcuni aspetti di pericolosa recrudescenza. La globalizzazione resta non governata, e sempre più tende ad agire dispoticamente prescindendo dalla politica. La finanza «è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. E fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo con impoverire ancor di più quelli che già vivono in situazione di grave precarietà» (Benedetto XVI, Discorso per il 50° dell’enciclica “Mater et magistra”, 16 maggio 2011). Nessuna nuova istituzione internazionale è stata nel frattempo messa in campo col potere di regolare appunto la funzionalità dei mercati allorché questi risultino anomali. Le agenzie che classificano l’affidabilità dei grandi soggetti economici hanno continuato a far valere la loro autarchica e misteriosa influenza, imponendo ulteriori carichi alle democrazie. Dal canto suo, l’Europa ha fatto fronte in ritardo e di malavoglia alle emergenze, incapace di esprimere una visione comunitaria inclusiva dei doveri propri della reciprocità e della solidarietà, soprattutto rivelando ancor di più lo squilibrio tra l’integrazione economica, di cui l’euro è espressione, e un’integrazione politica, ancora inadeguata, pesantemente burocratizzata e invasiva.

D’altronde, l’Italia non si era mai trovata tanto chiaramente dinanzi alla verità della propria situazione. Il che significa, tra l’altro, correggere abitudini e stili di vita. Qualcosa di facile a dire, ma estremamente difficile ad applicare, anzitutto per sé. Ci preoccupa come Vescovi l’assenza di un affronto serio e responsabile del generale calo demografico, e quindi del rapporto sbilanciato tra la popolazione giovane e quella matura e anziana. Il fenomeno va ad interessare anche le funzioni previdenziali e pensionistiche non solo delle generazioni a venire ma già di quanti sono

l’assemblea della cei

oggi giovani. Se non si riescono a far scaturire, nel breve periodo, le condizioni psicologiche e culturali per siglare un patto intergenerazionale che, considerando anche l’apporto dei nuovi italiani, sia in grado di raccordare fisco, previdenza e pensioni avendo come volano un’efficace politica per la famiglia, l’Italia non potrà invertire il proprio declino: potrà forse aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, ma si prosciugherà il destino di un popolo.

Conosciamo le preoccupazioni che pulsano nel corpo vivo del Paese, e non ci sfugge certo quel che, a più riprese, si è tentato di fare e ancora si sta facendo per fronteggiarle. L’impressione tuttavia è che, stando a quel che s’è visto, non sia purtroppo ancora sufficiente. Colpisce la riluttanza a riconoscere l’esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l’impressione che il regolamento dei conti personali sia preva-

Mortificano alcuni atti non solo contrari al pubblico decoro, ma anche tristi e vacui lente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità. Rattrista il deterioramento del costume e del linguaggio pubblico, nonché la reciproca, sistematica denigrazione, poiché così è il senso civico a corrompersi, complicando ogni ipotesi di rinascimento anche politico. Mortifica soprattutto dover

prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui. Non è la prima volta che ci occorre di annotarlo: chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole «della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda» (Prolusione al Consiglio Permanente del 21-24 settembre 2009 e del 24-27 gennaio 2011). Si rincorrono, con mesta sollecitudine, racconti che, se

gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano.

I comportamenti licenziosi e le relazioni improprie sono in se stessi negativi e producono un danno sociale a prescindere dalla loro notorietà. Ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune.Tanto più ciò è destinato ad accadere in una società mediatizzata, in cui lo svelamento del torbido, oltre a essere compito di vigilanza, di-

coloso gioco dei veti e degli egoismi incrociati. La questione morale, complessivamente intesa, non è un’invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un’evenienza grave, che ha in sé un appello urgente. Non è una debolezza esclusiva di una parte soltanto e non riguarda semplicemente i singoli, ma gruppi, strutture, ordinamenti, a proposito dei quali è necessario che ciascuna istituzione rispetti rigorosamente i propri ambiti di competenza e di azione, anche nell’esercizio del reciproco controllo.

Sbigottiti da questa situazione A livello morale e sociale, il Paese appare disastrato comprovati, a livelli diversi rilevano stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Da più parti, nelle ultime settimane, si sono elevate voci che invocavano nostri pronunciamenti. Forse che davvero è mancata in questi anni la voce responsabile del Magistero ecclesiale che chiedeva e chiede orizzonti di vita buona, libera dal pansessualismo e dal relativismo amorale? Annotava giorni fa il professor Franco Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale: «L’unica voce che denuncia i guasti della società della politica è quella della Chiesa cattolica» (Corriere della sera, 20 settembre 2011). Lo citiamo non per vantare titoli, ma per invitare tutti a non cercare alibi. Ci commuove sentire la fiducia e la gratitudine che vengono espresse quando, come Vescovi, ci rechiamo nei molteplici ambienti di lavoro delle nostre città, campagne, porti. […]

Tornando allo scenario generale, è l’esibizione talora a colpire. Come colpisce l’ingente mole di strumenti di indagine messa in campo su questi versanti, quando altri restano disattesi e indisturbati. E colpisce la dovizia delle cronache a ciò dedicate. Nessun equivoco tuttavia può qui annidarsi. La responsabilità morale ha una

venta contagioso ed è motore di mercato. Da una situazione abnorme se ne generano altre, e l’equilibrio generale ne risente in maniera progressiva. È nota la difficoltà a innescare la marcia di uno sviluppo che riduca la mancanza di lavoro, ed è noto il peso che i provvedimenti economici hanno caricato sulle famiglie; non si può, rispetto a queste dinamiche, assecondare scelte dissipatorie e banalizzanti. La collettività guarda con sgomento gli attori della scena pubblica e l’immagine del Paese all’esterno ne viene pericolosamente fiaccata. Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto. Solo comportamenti congrui ed esemplari, infatti, commisurati alla durezza della situazione, hanno titolo per convincere a desistere dal peri-

Nessuno può negare la generosa dedizione e la limpida rettitudine di molti che operano nella gestione della cosa pubblica, come pure dell’economia, della finanza e dell’impresa: a costoro vanno rinnovati stima e convinto incoraggiamento. Si noti tuttavia che la questione morale, quando intacca la politica, ha innegabili incidenze culturali ed educative. Contribuisce, di fatto, a propagare la cultura di un’esistenza facile e gaudente, quando questa dovrebbe lasciare il passo alla cultura della serietà e del sacrificio, fondamentale per imparare a prendere responsabilmente la vita. Ecco perché si tratta non solo di fare in maniera diversa, ma di pensare diversamente: c’è da purificare l’aria, perché le nuove generazioni – crescendo – non restino avvelenate. Chi rientra oggi nella classe dirigente del Paese deve sapere che ha doveri specifici di trasparenza ed economicità: se non altro, per ri-


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Nella pagina a fianco, da sinistra: il cardinal Camillo Ruini, l’Assemblea generale della Cei, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. In basso, Benedetto XVI. Da sinistra, in questa pagina, l’elezione di Giovanni Paolo II e la croce della Gmg

spettare i cittadini e non umiliare i poveri. Specie in situazioni come quella attuale, ci è d’obbligo richiamare il principio prevalente dell’equità che va assunto con rigore e applicato senza sconti, rendendo meno insopportabili gli aggiustamenti più austeri. È sull’im-

L’Europa ha voluto affrontare l’emergenza in ritardo e senza una visione unitaria pegno a combattere la corruzione, piovra inesausta dai tentacoli mobilissimi, che la politica oggi è chiamata a severo esame. L’improprio sfruttamento della funzione pubblica è grave per le scelte a cascata che esso determina e per i legami che possono pesare anche a distanza di tempo. Non si capi-

può salvare dal discredito generalizzato il sistema della rappresentanza, il quale deve dotarsi di anticorpi adeguati, cominciando a riconoscere ai cittadini la titolarità loro dovuta.

L’altro fronte vitale per la nostra democrazia è l’impegno di contrasto all’evasione fiscale. Difficile sottrarsi all’impressione che non tutto sia stato finora messo in campo per rimuovere questo cancro sociale, che sta soffocando l’economia e prosciugando l’affidabilità civile delle classi più abbienti. Il grottesco sistema delle società di comodo che consentono l’abbattimento artificioso dei redditi appare – alla luce dei fatti – non solo indecoroso ma anche insostenibile sotto il profilo etico. Bisogna che gli onesti si sentano stimati, e i virtuosi siano premiati. Sono tanti i cittadini per bene e le famiglie che adempiono positivamente i loro compiti. A un’osservazione attenta, le ragioni per cui guardare avanti ci sono: la strada si è fatta più impervia e il consumismo potrebbe averci fiaccato, ma il popolo italiano odierno sa di non essere da meno delle generazioni che l’hanno preceduto. E sa anche che le conquiste di ieri hanno oggi bisogno di essere riguadagnate: il «parassitismo esistenziale» infatti è solo istinto di psicologie fragili e derelitte. Il brontolio

que reagire con freschezza di visione e nuovo entusiasmo, senza il quale è difficile rilanciare qualunque crescita, perseguire qualunque sviluppo. La Chiesa pellegrina in Italia non intende sottrarsi alle attese e alle responsabilità che le competono. Negli ultimi anni, in coincidenza col dispiegarsi della crisi, essa ha intensificato la propria capillare presenza, a cerniera tra il territorio e i bisogni della gente. […] Quanto alla discussione, non sempre garbata e informata, che c’è stata negli ultimi tempi circa le risorse della Chiesa, facciamo solo notare che per noi, sacerdoti e Vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi: essa si ispira ai criteri della trasparenza, senza i quali non potrebbe sussistere l’estimazione da parte di molti. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti[…]

Riguardo alla presenza dei cattolici nella società civile e nella politica, siamo convinti che, anche quando non risultano sugli spalti, essi sono per lo più là dove vita e vocazione li portano. Gli anni da cui proveniamo potrebbero aver indotto talora a tentazioni e smarrimenti, ma hanno indubbiamente spinto i cattolici, alla scuola

Una nuova fase per i cattolici In politica, l’impegno unitario sostituisca i percorsi individuali sce quale legittimazione possano avere in un consorzio democratico i comitati di affari che, non previsti dall’ordinamento, si auto-impongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni – in genere – tutt’altro che popolari. E pur tuttavia il loro maggior costo sta nella capziosità dei condizionamenti, nell’intermediazione appaltistica, nei suggerimenti interessati di nomine e promozioni. Al punto in cui siamo, è essenziale drenare tutte le risorse disponibili – intellettuali, economiche e di tempo – convogliandole verso l’utilità comune. Solo per questa via si

sordo non aiuta a vivere meglio, demotiva anzi ulteriormente. La gente di questo Paese dà il meglio di sé nei momenti difficili: certo, le occorre per questo un obiettivo credibile, per cui valga la pena impegnarsi. Questo obiettivo c’è, e coincide con il portare l’Italia fuori dal guado in cui si trova anche per un certo scoramento. Portarla fuori perché sia all’altezza delle proprie responsabilità storiche e culturali. Il che significa darle il futuro che merita, e che serve al mondo intero. L’Italia ha una missione da compiere, l’ha avuta nel passato e l’ha per il futuro. Non deve autodenigrarsi! Bisogna dun-

dei Papi, a maturare una più avvertita coscienza di sé e del proprio compito nel mondo. Un nucleo più ristretto ma sempre significativo di credenti, sollecitati dagli eventi e sensibilizzati nelle comunità cristiane, ha colto la rinnovata perentorietà di rendere politicamente più operante la propria fede. Sono così nati percorsi diversi, a livelli molteplici, per quanti intendono concorrere alla vitalità e alla modernità della polis, percorsi che hanno dato talora un senso anche di dispersione e scarsa incidenza. Tuttavia, non si può non riconoscere che si è trattato di una sorta di incubazione che, se non ha mancato

di produrre qua e là dei primi risultati, sta determinando una situazione nuova, rispetto alla quale un osservatore della tempra di Giuseppe De Rita alcune settimane fa annotava: «Chi fa politica non si rende conto che milioni di fedeli vivono una vicinanza religiosa che si fa sempre più attenta ai “fatti della vita politica”, con comuni opinioni socio-politiche, e con ambizioni di vita comunitaria di buona qualità» (Corriere della sera, 6 agosto 2011).

Sta lievitando infatti una partecipazione che si farebbe fatica a non registrare, e una nuova consapevolezza che la fede cristiana non danneggia in alcun modo la vita sociale. Anzi! A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione: chi è l’uomo, qual è la sua struttura costitutiva, il suo radicamento religioso, la via aurea dell’autentica giustizia e della pace, del bene comune… Valori – lo diciamo solo di passaggio – che si sta imparando a riconoscere e a proporre con crescente coraggio, e che in realtà finiscono per far sentire i cattolici più uniti di quanto taluno non vorrebbe credere. Nel contempo, sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente. A un tempo, c’è un patrimonio di cultura fatto di rappresentanza sociale e di processi di maturazione comunitaria. Dove avviene qualcosa di simile, nel contesto italiano? Ebbene, questo giacimento valoriale ed esistenziale rappresenta la bussola interiormente adottata dai cattolici, e da esso si sprigionano ormai ordinariamente esperienze che sono un vivaio di sensibilità, dedizione, intelligenza che sempre più si metterà a disposizione della comunità e del Paese. Non sempre tutto è così lineare, è vero.

ri di idee e dei riferimenti ormai imprescindibili. Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni.

Sarà bene anche affinare l’attitudine a cercare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde e durature, consci, tra

Un nucleo di credenti ha colto la rinnovata perentorietà di applicare la fede nell’agone l’altro, che una certa cultura radicale \u2212 al pari di una mentalità demolitrice \u2212 tende a inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione. Muovendo da una concezione individualistica, essa rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale. Per questo, dietro una maschera irridente, riduce l’uomo solo con se stesso, e corrode la società, intessuta invece di relazioni interpersonali e legami virtuosi di dedizione e sacrificio.

La transizione dei cattolici Lentezze, chiusure, intimismi restano in continuo agguato, ma ci sembra che una tensione si vada sviluppando grazie alle comunità cristiane, alle molteplici aggregazioni ecclesiali o di ispirazione cristiana, e grazie anche al lavoro realizzato dai nostri media, che sono diventati dei concreti laborato-

verso il nuovo inevitabilmente maturerà all’interno della transizione più generale del Paese, e oserei dire anche dell’Europa, secondo la linea culturale del realismo cristiano, e secondo quegli atteggiamenti culturali di innovazione, moderazione e sobrietà che da sempre la connotano.


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l’assemblea della cei

Bisogna ripartire da don Sturzo e richiamare all’azione chi è in grado di contribuire al bene comune. Senza dare spazio a false unità

Una nuova strada

La crisi dell’etica pubblica richiede un recupero forte di una moralità non bigotta, ma neppure tanto secolarizzata da perdere di vista le ragioni della fede. Su queste basi prendono forma nuovi modelli economici e sociali di Paola Binetti l quadro politico dell’ultima settimana ha accresciuto ulteriormente i livelli di ansia e di incertezza degli italiani, smorzando la speranza di uscire presto da una crisi dai contorni oggettivamente drammatici: occorre un cambiamento radicale o il Paese non si salverà. Non si salverà né dal disastro economico, né da quello morale. In questa fase abbondano le analisi e difettano le soluzioni, a meno che non si prendano per soluzioni le affermazioni velleitarie del premier, che continuando a negare i problemi reali del Paese, è diventato lui stesso parte integrante del problema. Ma dobbiamo fare i conti anche con una sorta di maledizione berlusconiana, per cui molti italiani che non credono più in lui non credono più neppure nella politica e nella possibilità di fare della buona politica. La situazione è resa ancor più imbarazzante dalla goffaggine di alcuni collaboratori che, volendo difendere l’indifendibile, arriva-

I

no perfino a farne una sorta di modello invidiato da molti italiani. In realtà la maggioranza degli italiani, come rivelano tanti sondaggi, ha girato le spalle a chi l’ha delusa, sperperando un vero e proprio patrimonio di consensi, fatto soprattutto di speranza.

Un anno fa il Convegno promosso a Reggio Calabria in occasione della Settimana Sociale ha richiamato tutti i cattolici, a prescindere dalle rispettive collocazioni politiche, ad uscire dalla comoda pigrizia di un pessimismo rassegnato per scrivere insieme un’agenda della speranza. E in questa direzione si è mosso lungo tutto quest’anno il variegato mondo dell’associazionismo cattolico. Un lavoro discreto ed efficace, come compete ad una tradizione che non ostenta risultati apparenti, ma che con grande senso di responsabilità pone ognuno davanti alla libertà di vivere con pienezza la sua vocazione cristiana. È in gioco la

libertà personale con le sue profonde implicazioni nella responsabilità sociale, che esige nuove forme di collaborazione, di dialogo e di confronto tra quanti hanno a cuore il bene comune. Non per appiattirsi gli uni sugli altri, in una improbabile forma di omologazione che vanifichi i carismi specifici di ogni diversa associazione o movimento, né tanto meno per realizzare un progetto politico nostalgico e velleitario. Ma perché lo richiede la natura stessa

È arrivato il momento di immaginare nuove soluzioni per il Paese

dell’essere cristiani, che non permette di restare indifferenti davanti allo sfaldamento dei costumi morali, perché costituiscono le strutture portanti della nostra società, la sola garanzia di poter realizzare il bene comune del Paese. Non stupisce quindi che stia diventando sempre più urgente chiedersi perché i cattolici in politica possano fare la differenza, soprattutto quando la necessità di collaborare diventa improrogabile se si vuole uscire da una crisi che è al tempo stesso etica ed economica e che esige risposte nuove, che vadano oltre gli steccati ideologici dei rispettivi partiti. E noi vogliamo ricominciare da qui: non vogliamo puntare su di una falsa unità, come quella che si concentra esclusivamente sulla caduta di Berlusconi. La fine dell’epoca berlusconiana è condizione necessaria ma non sufficiente. Serve una rinascita della coscienza nazionale, che coraggiosamente torni a investire sulle buone vecchie virtù di una

volta. L’unità dei cattolici in politica, in qualunque modo la si voglia immaginare, diventa possibile solo nella misura in cui ognuno dei cattolici si sforza di vivere con coerenza questi stessi valori, condividendoli con tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti o come si suole dire oggi diversamente credenti. Altrimenti si può parlare solo di opportunismo politico, di una sorta di maquillage del bon ton politico, ma niente che sia realmente capace di rinnovare dal di dentro la vita politica.

Per capire sempre meglio il rapporto tra politica e fede vale la pena ripartire sempre da Luigi Sturzo, per il quale i cattolici avevano l’obbligo morale di impegnarsi nella società civile e in politica, ferma restando la necessaria reciproca autonomia. Realisticamente parlando, bisogna archiviare sia l’imperativo categorico che sostiene l’unità dei cattolici in uno stesso partito, sia l’altro


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Il presidente aveva già fatto riferimento al premier, e “Avvenire” lo ha chiarito

Non nomina Berlusconi (perciò lo “scomunica”) La condanna è netta. Ma Bagnasco si fa scrupolo di non passare per un leader dell’opposizione di Luigi Accattoli iamo alle solite: il cardinale Bagnasco dice molto, forse tutto, sulla mortificazione degli italiani costretti a “prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui”. Cioè sui comportamenti del Premier Berlusconi. Specifica che al Premier già si riferiva in passato e si riferisce ora con il richiamo al dovere costituzionale “della sobrietà, della disciplina e dell’onore” per chi sceglie la militanza politica. Afferma che con ciò già rispose e di nuovo risponde alla richiesta di “pronunciamenti” che gli sono venuti “nelle ultime settimane”. Ma non lo nomina, come mai lo nominò. E così di nuovo le parole di ieri – dette ad apertura del Consiglio Permanente della Cei – daranno luogo al conflitto delle interpretazioni e permetteranno ai partigiani di Arcore di sostenere che con c’è stato “l’anatema”da tante parti invocato e ultimamente da Barbara Spinelli sulla Repubblica del 21 settembre con un editoriale intitolato Lo strano silenzio della Chiesa. Per quanto mi riguarda, io mi accontento di quanto è venuto dalla bocca del presidente della Cei e qui espongo – con l’abituale pignoleria – gli argomenti che giustificano quell’accontentamento.

S

lunga citazione è funzionale al mio argomentare: se allora Bagnasco intendeva parlare di Berlusconi, allora possiamo ritenere acclarato – per bocca dell’autorizzato portavoce Avvenire – che anche ieri il cardinale parlava di Berlusconi quando affermava che “è l’esibizione talora a colpire”; e che certo c’è una “mole ingente” di indagini su di lui e una “dovizia di cronache” ma “nessun equivoco può annidarsi: la responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé”. Traduco per chi non frequenta cardinali e affiliati: c’è dell’abuso anche tra i magistrati che intercettano e i giornali che pubblicano, ma il primo responsabile è il Premier. E di chi parlerà Bagnasco, quando – poco più avanti – tratta di “scelte dissipatorie e banalizzanti” che fiaccano “l’immagine del Paese”; o alla pagina seguente mette in guardia dalla “cultura di un’esistenza facile e gaudente, quando questa dovrebbe lasciare il passo alla cultura della serietà e del sacrificio”? Se il cardinale presidente accenna ai “comitati di affari non previsti dall’ordinamento”, che operano “intermediazioni appaltisticche”, uno può pensare anche al “sistema Sesto”, ma il giro della frase arriva ben presto ai “suggerimenti interessati di nomine e promozioni” e qui sentiamo l’inequivocabile Lavitola che fa le sue proposte al Premier in una famosa intercettazione. Dunque il cardinale Bagnasco ha detto più che mai. Ma non ha nominato il Premier. E non è solo virtuosismo del dire e non dire: c’è, si capisce, anche questo. È anche rispetto per lo Stato, per la laicità dello Stato: il presidente della Cei richiama ai principi, non mette alla gogna il capo del governo. Ed è scrupolo di non entrare nella lotta politica. Un rispetto e uno scrupolo che possiamo intendere e apprezzare, se prima abbiamo colto per intero il suo richiamo morale, privo di nomi ma per nulla reticente. www.luigiaccattoli.it

Le parole di ieri rischiano però di dare luogo al conflitto delle interpretazioni già verificatosi

Che Bagnasco punti il dito su Berlusconi quando nomina i comportamenti “tristi e vacui”ponendoli di fronte alla “sobrietà”comandata dalla Costituzione ai governanti, non c’è dubbio. In passato Avvenire, quotidiano della Cei, aveva chiarito che con espressioni equivalenti a queste, il cardinale aveva inteso riferirsi al Premier. L’ultima volta mercoledì scorso, quando – in risposta a chi chiedeva come mai la Chiesa censurasse Vasco Rossi e “tacesse”sul Presidente del Consiglio – il direttore del quotidiano cattolico scriveva queste parole facendo, come già il povero Boffo, il nome dell’innominato: «A proposito dello stile di vita del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ci sono state parole inequivocabili della Chiesa sin dal principio. Sin dal settembre del 2009, quando dal cardinale Angelo Bagnasco arrivò il primo e solenne richiamo ai doveri di ‘sobrietà, disciplina e onore’ spettanti a chi esercita un mandato politico nonché al compito di conformarsi con speciale coerenza ai ‘valori etici e morali’. Concetti più volte ribaditi. E all’inizio di questo tormentato 2011 divenuti perorazione appassionata e forte a proposito dei casi che continuavano (e continuano…) a proporre una ‘rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé». La

imperativo che vede nel pluralismo dei cattolici la soluzione politica ideale per il nostro Paese. Entrambe le posizioni rivelano un falso bipolarismo.

Ciò che conta è lo stile di vita dei cattolici tutti, a cominciare da quelli impegnati in politica, che debbono essere aperti alla collaborazione con tutti, flessibili nella ricerca delle soluzioni ottimali, ma solidamente ancorati ai valori che sostengono l’intera struttura della società in cui viviamo. Il riferimento alla legge naturale, come fonte universale del diritto, requisito indispensabile per una società più giusta, su cui Benedetto XVI ha insistito parlando al parlamento tedesco, è importante anche per noi. La crisi che coinvolge il Paese sta suscitando un’ondata di antipolitica sempre più pericolosa e il malessere sociale che si sta diffondendo esige un cambiamento rapido e profondo non solo nei modelli economici, ma anche e soprattutto nello stile di vita della classe dirigente italiana, a cominciare da quella politica. Tutti gli italiani sanno bene che questa crisi è conseguenza di un disastro etico, in cui convergono tutti i vizi capitali di chi a diverso titolo sta governando questo Paese. Sembra che ci sia l’impossibilità di distinguere i confini tra etica pubblica ed etica privata, perché mentre mancano le virtù pubbliche sovrabbondano i difetti privati. In questo contesto accidentato i cattolici hanno il dovere di tornare con maggiore convinzione e determinazione alla dottrina sociale della chiesa, restituendo al loro stile di vita la coerenza necessaria per elaborare un nuovo umanesimo economico, in cui la centralità della persona e della famiglia dettino la linea ai diversi livelli istituzionali.. L’esperienza politica di questi ultimi anni sta vistosamente mostrando l’urgenza di andare oltre l’attuale bipolarismo, che nella sua conflittualità strutturale imprigiona il sistema sociale in una improduttiva contrapposizione, da cui non sono certamente scaturiti effetti benefici per l’Italia. Paradossalmente ogni coalizione, a destra e a sinistra, riflette un suo bipolarismo interno che rischia continuamente di far esplodere le differenze e pone seriamente il tema della loro tenuta politica. Le attuali coalizioni sembrano reclamare con urgenza una ristrutturazione interna da cui potrebbero scaturire nuove forme di riorganizzazione politica. Il passaggio dalla competizione alla collaborazione tra le forze politiche richiede una fedeltà creatrice ad una sorta di nuova Utopia politica, dal momento che il modello attuale non riesce a fare chiarezza dei problemi e non facilita l’individuazione di soluzioni efficaci. Destra e sinistra

fortunatamente non sono categorie sovrapponibili a quella di laici credenti e non credenti, dal momento che ci sono culture laiciste che abitano gli spazi della destra e culture diverse, ma altrettanto e forse ancor più laiciste che abitano gli spazi della sinistra. E ci sono culture laico-cristiane che abitano convintamente gli spazi della sinistra e culture laico-cristiane che si sentono più a loro agio a destra, anche se le une e le altre mostrano non pochi segni di sofferenza. Probabilmente ci sono differenze di storie culturali, di temi prevalenti, di stili di comportamento. Ma è arrivato il momento di provare a fare un nuovo bilancio nelle rispettive ragioni di appartenenza e di collocamento politico per immaginare nuove soluzioni.

Per i cattolici impegnati in politica dalla dialettica tra l’affermazione di valori e la loro incarnazione storica scaturisce la perenne novità degli stessi principi e la fedeltà del laico cristiano ai suoi principi non può che essere una fedeltà creatrice, capace di individuare soluzioni nuove per i problemi nuovi. Non si tratta però di soluzioni aggiuntive, che si sommano alle precedenti, ma di soluzioni realmente nuove, che operano con una potente logica riformatrice. Questa è la vera sfida politica che abbiamo davanti e che trascende anche la criticità berlusconiana, per fare appello più in profondità alle nostre coscienze e sollecitare una rinnovata responsabilità nei confronti del Paese. La crisi dell’etica pubblica che si riflette nella corruzione dei costumi richiede un recupero forte di una moralità non bigotta, ma neppure tanto secolarizzata da perdere di vista le ragioni della nostra Fede, ed è su queste basi che sta prendendo forma un ripensamento dei modelli economici e sociali. Il tempo del postberlusconismo è già cominciato da tempo e abita i luoghi della cultura e della tradizione che da sempre i laici cattolici riconoscono come lo spazio di un impegno politico da condividere insieme a tutti coloro che credono negli stessi valori e in questo vogliono impegnarsi. Ciò che sta accadendo e che incuriosisce una parte della stampa, come rivelano i molti articoli sul tema, è solo il ritmo accelerato che sta assumendo negli ultimi mesi. Spesso sono gli stessi che si stupiscono del silenzio della Chiesa solo perché non ne riconoscono lo stile e il linguaggio. Non colgono la dimensione ri-costruttiva dello slancio dei cattolici che stanno cercando di rilanciare la buona politica e cercano solo il riflesso di una criticità distruttiva del sistema attuale, come se il nonberlusconismo rappresentasse automaticamente la panacea di tutti i nostri mali!


il paginone

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di Giancarlo Galli l mitico Enrico Cuccia vivente e regnante, Mediobanca (fondata nel 1946 da una costola della Comit di Raffaele Mattioli) fu per oltre mezzo secolo il cuore pulsante della finanza italiana. Innanzi alla scrivania dello gnomo di via Filodrammatici in Milano, prendevano ordini senza batter ciglio gli Agnelli ed i Pirelli, De Benedetti ed i Pesenti con tutta la spettabile “compagnia di giro”. «Ciò che Cuccia vuole, Dio lo vuole», usava dire Re Gianni, il signore della Fiat. Da quando (2000) il nonagenario “don Enrico” se n’è andato, ora riposando nel cimiterino di Meina sul Lago Maggiore, in Mediobanca non c’è più pace. Una lotta di successione senza esclusione di colpi, talvolta anche bassi,

I

no alle traversie giudiziarie che hanno colpito entrambi, puntava “dove più in alto non si può”: la presidenza del santuario della finanza italiana, il “salotto buono” (e ricco). E per una breve stagione s’installò con bellicoso cipiglio alle Assicurazioni Generali. Talvolta col vezzo di riunire il Consiglio non a Trieste (luogo di fondazione della Compagnia, nel 1831, in epoca austro-ungarica, divenuta il terzo colosso europeo del settore), bensì nella a lui più confortevole sede romana. Poiché il maggiore azionista delle Generali è Mediobanca, pareva che Geronzi avesse fatto bingo! A farla breve, considerato che la vicenda è complessa, ad un certo punto i manager, sia a Milano che a Trieste, scesero sul sentiero di guerra. Accuse, sospetti, pesanti: 1°, che Cesarino esercitasse un potere eccessivo,

Un altro esempio di rinnovamento frenato è quello della Banca Popolare di Milano: azionisti e dipendenti stanno rifiutando i finanziamenti (e la conseguente gestione) di Matteo Arpe che non hanno certo fatto bene alla ex Premiata Ditta. Cuccia aveva un valido delfino, Vincenzo Maranghi, senonché i soci fecero l’impossibile per estrometterlo. Ci riuscirono, tant’è che Vincenzo mori sì di cancro, ma soprattutto di crepacuore. Carattere onesto e rude, allorché Cesare Geronzi, aspirante alla poltronissima, si presentò per le condoglianze, venne messo alla porta, per precise disposizioni testamentarie.

Naturalmente Cesare Geronzi, dopo un breve intermezzo di Gabriele Galateri di Genola, jolly-tuttofare dell’establishment, riuscì ad agguantare l’obiettivo. Veniva Geronzi da Capitalia erede del Banco di Roma, storico socio, ed in molti pensavano che il trasferirsi da Roma a Milano dopo avere ceduto Capitalia ad Unicredit, fosse il coronamento di un’ambiziosa carriera. Invece no. Il Cesare capitolino, sodale del Governatore Antonio Fazio fi-

quasi dispotico; 2°, che in alleanza sottotraccia col magnate Vincent Bolloré (azionista di Mediobanca con un robusto 5 per cento, ed il doppio attraverso alleanze di bandiera francese), intendesse trasferire le Generali oltr’Alpe. Con gesto ritenuto, a torto o ragione provocatorio, volle infatti il Bolloré vicepresidente, nonostante questi avesse una risibile, 0,01, quota delle Generali. A questo punto, comparve sulla scena un “cavaliere bianco”, Diego Della Valle, ribattezzato mister Tod’s.

Gli americani lo chiamano “il guru delle scarpe”. In realtà la Tod’s, fondata nel 1986 a Sant’Elpidio a mare, nelle Marche, è una tentacolare conglomerata. Si legge nella ragione sociale: «Produzione di calzature ed articoli in pelle (…), articoli d’abbigliamento (…), assunzione di partecipazioni, costruzione e compravendita d’immobile, operazioni finanziarie in genere». Diego, classe

All’ombra della crisi economica (e si sta combattendo un dura battaglia n

Il paregg di Della V «Mister Tod’s» è riuscito a sconfiggere la vecchia nomenklatura in Generali, non a piazzetta Cuccia. Il rinnovamento della finanza è difficile quasi quanto quello della politica 1953, figlio di artigiani, intelligente, scaltro, ambizioso, viene a giusto titolo considerato “un rampante”. Per meriti propri indubitabili. “Scarpe grosse, cervello fino”, recita un proverbio contadino che gli calza a pen-

nello. La Tod’s è fra i titoli più solidi della Borsa italiana. Se la tempesta dei mercati non lo ha risparmiato (da un massimo di 94 euro a poco più di 70), la società macina utili. Fra polemiche e grane connesse, Della


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da occupare sarebbe stata quella di Lionella Ligresti, pupilla di Salvatore, il grande immobiliarista oggi in difficoltà. Il ricambio avrebbe avuto un significato emblematico. Colpo di teatro. È lo stesso Zorro, presa carta e penna, a puntualizzare in un comunicato: «Tengo a precisare che Lionella Ligresti è una mia amica e che per me i valori dell’amicizia e della lealtà vengono prima di ogni altra cosa. Reputo quindi assolutamente infondate le voci relative ad un mio ingresso in sostituzione».

del governo) nei «salotti buoni»

ggio Valle Valle s’è comprato la Fiorentina calcio, in base alla legge non scritta ma imperativa: per “contare”, in Italia, bisogna avere un club di Serie A. Agnelli, Moratti, Berlusconi testimoniano.

Un cinquantenne di cotale pasta, che i vecchi amici del bar di Sant’Elpidio affettuosamente chiamano “il nostro Zorro” (in omaggio al gentiluomo della California spagnola don Diego de la Vega, giustiziere implacabile e mascherato), non poteva evidentemente accontentarsi di yacht e mondanità, restando ai margini dei “circuiti che contano”. All’incirca vent’anni fa, Diego s’invaghì di Berlusconi. Pare anche sponsorizzandolo. La cottarella finì in delusione, al pari del flirt con Clemente Mastella. Sostiene di non avere ambizioni politiche, ma potrebbe essere la favola della volpe e dell’uva. Proclama comunque di restare “uomo di centro”, allergico agli estremismi. Animato da una carica in-

teriore che o porta ad auspicare un sostanziale rinnovamento della classe dirigente. Lo si può capire. Alla sua età, se non ora, quando? Col carattere brusco che ha, la lingua troppo sciolta, lo Zorro marchigiano sembra tuttavia aver capito che, a meno di clamorose rivoluzioni nel Palazzo, la politica non è la sua vocazione primaria. Però insiste nel voler cambiare questo benedetto Paese che ama anche quando non condivide. Così ha preso a muoversi su un’altra direttrice strategica: “vecchi” non solo i politici, ma lo stesso establishment economico-finanziario. Poiché i quattrini che non gli fanno difetto lo hanno portato nei consigli d’amministrazione di Generali e di Rcs-Corriere della Sera, con una acida battuta dedicata agli “arzilli vecchietti”, ha iniziato a scompaginare le carte. Alle Generali, la testa di Cesare Geronzi è caduta come un birillo al Luna Park. Al Corriere non è al contrario riuscito a scalfire l’egemonia del bresciano Giovanni Bazoli, dominus di Intesa-San Paolo e garante di sofisticati equilibri.

Una vittoria, una sconfitta. Non disarmando, Diego ha puntato gli occhi su Mediobanca, in vista del prossimo rinnovo (28 ottobre) del Consiglio d’amministrazione. Con in saccoccia un buon pacchettino di azioni, il sostegno dei manager con in primis l’ottimo Alberto Nagel, riteneva di avere partita vinta in partenza, trovando un posto nel Consiglio stesso. Comunque, precauzionalmente, aveva fatto salire la sua partecipazione dallo 0,48 all’1,9 per cento del capitale. La poltrona

Qui, dall’alto: Luigi Bazoli, Vincent Bolloré, Cesare Geronzi, Enrico Cuccia con Vincenzo Maranghi, Lionella Ligresti e Matteo Arpe. In apertura: Luca Cordero di Montezemolo. Nella pagina a fianco, la sede di Mediobanca, Alberto Nagel e Diego Della Valle

Per chi frequenta gli ambulatori di via Filodrammatici, la “rinuncia”di Don Diego, più che il nobile gesto del gentiluomo di fronte alle difficoltà di una fanciulla-ereditiera ancora non in grado di volare con le proprie ali, è apparsa una capitolazione (seppur provvisoria), rispetto alle conclamate ambizioni di dare una spallata decisiva all’establishment anchilosato. Si racconta, e va riferito: Zorro aveva tutto predisposto con Alberto Nagel, allorché è entrata in campo la vecchia guardia capeggiata dal cementiere Carlo Pesenti. Inutile la mediazione pro Della Valle di Marco Tronchetti Provera. Al di là dei retroscena possibili, probabili (o azzardati), la sostanza. In Mediobanca le cui azioni sono calate vertiginosamente dai 18 euro del 2007 a meno dei 6 attuali, vi è un’accanita resistenza al cambiamento. I manager si battono contro un muro di gomma. Considerata la situazione in Rcs, viene da pensare che Diego Della Valle l’abbia spuntata alle Generali solo con un blitz. Poi, le volpi di sempre si sono riposizionate, determinate a difendere con le unghie e coi denti ogni poltrona, ogni strapuntino. Non è una radiosa prospettiva per un paese in affanno. E purtroppo quello di Mediobanca non è un caso isolato. Sempre a Milano, sta andando a Patrasso (cioè a rotoli) la gestione della BPM (Banca Popolare di Milano), ottocentesca istituzione a statuto cooperativo, dove i dipendenti hanno in pratica diritto di veto. Urge una ricapitalizzazione, e s’è fatto avanti Matteo Arpe, brillante finanziare men che cinquantenne. Un curriculum nella Mediobanca di Cuccia, poi in Capitalia dove andò ai ferri corti con Geronzi. Ho messo sul piatto 200 milioni cash per rinsanguare la BPM a condizione di poter rivoltare la banca come un guanto. Anziché stendergli tappeti rossi, disseminano cavilli.Quant’è difficile cambiare la finanza italiana, portare una boccata d’aria fresca fra le muffe delle confraternite familiaristiche! Sono poi gli stessi personaggi, sempre gli stessi, che predicano il rinnovamento della politica. Avranno pure ragione, ma se cominciassero col dare qualche esempio?.


economia

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Pioggia di critiche (da Confindustria al procuratore Pietro Grasso), sul titolare della Pubblica amministrazione che aveva tuonato contro i «documenti inutili»

La gaffe di Brunetta «I certificati antimafia bloccano lo sviluppo», dice. E Maroni è costretto a contraddirlo: «Indispensabili» di Marco Palombi

ROMA. Gli succede sempre quando si rilassa troppo, quando il suo rapporto col mondo non è oscurato dalle momentanee frustrazioni che lo riportano a terra, quando al naturale enfiarsi dell’ego suo montante la realtà non concede punto di sfogo onde alleggerirne la pressione. È in questi casi che, per così dire, gli scappa la cazzata. Renato Brunetta è una sorta di misirizzi, di Ercolino sempreinpiedi, un soggetto a reazione automatica la cui passione per l’autogol sta diventando una piacevole abitudine per chi segue questo genere di cose. Da quando poi - dopo anni di gavetta da seconda fila mentre la sua nemesi Giulio Tremonti troneggiava in prima - è assurto al cielo ministeriale, l’affetto e la stima che porta a sé stesso è divenuta talmente evidente da essere fisicamente avvertita come una sorta di leggera brezza da chi gli si trovi casualmente accanto.

È grazie a questo processo di autoenfiamento che il ministro della Funzione pubblica è passato solo in questa legislatura da «sono meglio di Padre Pio» a «io, non ricco e non bello, ho fatto il culo al mondo e sono la Cuccarini del governo», da «avrei vinto il premio Nobel, ma mi sono dedicato alla politica» fino agli statali «fannulloni» e ai poliziotti «panzoni», dal «siete l’Italia peggiore» detto ai precari alla «sinistra di merda» che vuole «il colpo di Stato». Un florilegio di pubbliche esibizioni in cui si è potuto constatare come le passionali carezze

Come al solito, questo governo rischia di fermarsi agli annunci che creano più caos che chiarezza

Tra burocrazia e malaffare, una cosa giusta e tre sbagliate di Giancristiano Desiderio uando un governo non ha più niente da dire è meglio che vada a casa. Lì, infatti - a casa propria - uno può dire tutte le strombolate che vuole e non farà danni se non a se stesso, mentre se le dice in pubblico quanto meno genera imbarazzo. Come è accaduto ieri al ministro Brunetta - per altro figura simpatica della nostra politica - che se n’è uscito con l’idea di azzerare tutti certificati compresi quelli antimafia: questa, secondo il responsabile degli uffici della Funzione pubblica sarebbe la ricetta giusta per crescere e semplificare tutto ciò che oggi è complicato e inutile. Che dire? In teoria si potrebbe anche essere d’accordo con Renato Brunetta ma, come al solito, ciò che conta è la pratica che è sempre un’altra musica. Allora, diciamo le cose come stanno: il governo vuole mettere mano alla crescita ma non sa bene dove mettere le mani e si inventa questa storia della semplificazione che dovrebbe provocare e liberare i cosiddetti “animal spirits” che ogni società dovrebbe avere in sé come principio di conservazione e sopravvivenza. Tutto molto bello, ma l’estetica e la filosofia sono una cosa e l’arte di governare un’altra.

Q

calzoni al ginocchio. Siamo ancora dove eravamo. Se il ministro Brunetta riesce a semplificare e a ridurre tutto ciò è burocrazia inutile e superflua farà un ottimo servizio a tutti noi. Ma per evitare polemiche, retorica, eccessi, verbosità è bene che il ministro impari a fare una cosa che, dopo tante polemiche, avrebbe dovuto già apprendere da solo, quasi come se fosse un’autocertificazione: faccia prima le cose con dei risultati e poi dopo annuncerà al mondo la sua grande trovata. Semplificare è bello, ma l’annuncio della semplificazione è pessimo. Chi ci voleva rendere la vita più semplice, al momento ce l’ha complicata enormemente.

Come per la crociata contro i fannulloni, sarebbe stato meglio valutare prima i risultati, senza limitarsi alla politica delle promesse

La semplificazione è una cosa giusta, giustissima ma la retorica della semplificazione è insopportabile. Cominciamo ad avere una certa età e la storia della semplificazione burocratica ce la sentiamo suonare nelle orecchie da quando avevamo i

C’è poi l’altro corno del dilemma, chiamiamolo così: no al certificato antimafia. Ma perché andare a toccare tasti così delicati? In questo momento il Paese ha bisogno di credere in qualcosa, di non sollevare polveroni e avere la possibilità di raggiungere traguardi: vale per le aziende, per i lavoratori, per le famiglie. Il Paese non avverte il bisogno di fare a meno dei controlli antimafia. Purtroppo, sappiamo che ormai vale al Sud quanto al Nord perché il crimine organizzato, che ricicla denaro sporco, è la cosa che meglio si sposta sul territorio nazionale ed europeo. E’ vero: a volte l’eccesso di leggi non è un ostacolo al contrasto del crimine, tutt’altro. Tuttavia, crediamo che un ministro dovrebbe scegliere meglio i concetti, le parole, gli annunci, gli obiettivi. Si ha la netta sensazione che il governo si sia fatto prendere dalla precipitazione: non ha fatto quanto doveva in tempo utile e ora cerca di recuperare il tempo perduto con delle “trovate”. Ma non sarà così che si uscirà dalla crisi che c’era nel mondo e intorno a noi ma nella quale noi abbiamo avuto l’accortezza di andarci a infilare. I provvedimenti annunciati da Brunetta sembrano una sorta di legge del contrappasso: mentre tutto è diventato più complicato, il ministro della pubblica amministrazione ci viene a dire che tutto diventerà più semplice. Purtroppo, non è così. La prima cosa che dobbiamo tener ferma è proprio questa: recuperare serietà, concretezza, responsabilità perché i tempi sono cambiati e l’improvvisazione è deleteria.

che il ministro riserva al suo ego sono spesso controbilanciate da figure barbine e dalla sua scarsa o nulla importanza di fatto negli equilibri di potere della maggioranza (Umberto Bossi – vedi il “nano veneziano” di cui lo ha gratificato di recente – si permette di usarlo come una sorta di sacco da pugilato nei comizi). Ieri - forse preso dall’entusiasmo per essere stato intervistato dal Corriere della Sera, forse perché gli dicono che sarà il nuovo Tremonti, ovvero la nemesi della nemesi – Brunetta se l’è presa col certificato antimafia per le imprese, venendo smentito a reti unificate praticamente da chiunque si trovasse a passare.

Non è la prima volta, peraltro, che il ministro che a chiacchiere ha fatto la rivoluzione si butta sul tema Cosa Nostra: nel maggio del 2009 dichiarò che «la mafia dev’essere affrontata in modo laico e non ideologico: se della mafia facciamo un simbolo ideologico, con la sua cultura, la sua storia e così via, rischiamo di farne un’ideologia e come tale, alla fine, produrre professionisti di quella ideologia proprio nei termini in cui ne parlava Sciascia, professionisti dell’antimafia». Ieri invece, il nostro è passato dalle teorie da bancone di zinco alla sua più concreta attività di ministro: «Una delle vitamine per la crescita è la semplificazione. Perché famiglie e imprese devono fornire certificati alla pubblica amministrazione che li ha già in casa? Ci sono tante riforme che non costa niente attuare ma che producono crescita», ha spiegato ai giornalisti dopo aver presentato il nuovo logo della P.A. Lasciando stare che - a voler credere a tutti gli annunci di semplificazione dal 2008 ad og-


economia

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Nuovo rallentamento sul maxiprestito alla Grecia. Ottimisti i mercati

Fondo Salvastati, l’Europa continua a tentennare Bruxelles e Berlino frenano sui 300 miliardi promessi al G20 per salvare le banche del Vecchio Continente di Francesco Pacifico

ROMA. Fatto un passato avanti ecco l’Europa indietreggiare di due. Complici le pressioni americane, nel weekend il Vecchio Continente aveva accettato di impegnare un ingente cifra (si è vociferato di 300 miliardi di euro) per ampliare il Fondo Salvastati anche attraverso la leva finanziaria. Obiettivo, ricapitalizzare le banche e comprare titoli spazzatura soprattutto in caso di default greco. Ieri Bruxelles e Berlino non soltanto hanno smentito la cosa, ma hanno anche rallentato lo sblocco della prossima tranche di aiuti ad Atene.

gi - a questo punto dovremmo capirci cogli occhi con qualunque dipendente statale, il nostro ha voluto fare degli esempi: «Basta Durc (documento unico di regolarità contributiva, ndr), basta certificato antimafia, basta pacchi di certificati per partecipare ai concorsi». E qui la faccenda gli è sfuggita di mano. A parte le legittime critiche delle opposizioni - che potrebbero però essere anche viziate dall’odio e dall’invidia nei confronti della “Cuccarini del governo”– il povero Brunetta s’è beccato le contumelie di magistrati, Confindustria e del suo stesso ministro dell’Interno. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, per dire, oltre a definire il nostro “molto originale”, spiega che «è stato da poco approvato il Codice antimafia, che tra l’altro disciplina in modo molto rigoroso tutta la certificazione antimafia. Se il ministro aveva qualche osservazione da fare poteva farla in sede di Consiglio dei ministri”. Comunque, è la conclusione velenosa, “non è mia abitudine prendere posizione su cose campate in aria».

Vabbè, la solita toga rossa, ma vedrai che le imprese… Macché. Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, s’è irritato un bel po’: «Reputo l’abolizione del certificato antimafia un duro colpo alla libertà d’impresa. Proprio grazie al certificato antimafia e ai numerosi protocolli di legalità che sono stati creati, tante imprese pulite hanno potuto misurarsi con il mercato. Anzi, è il mercato stesso a essersi rafforzato grazie ai controlli sulle aziende. Perché in precedenza le società vicine a Cosa nostra schiacciavano le concorrenti oneste. Venendo meno il certificato antimafia, cadrebbe un

controllo fondamentale». Altra cosa, dice Lo Bello, è rilasciarlo «in tempi più rapidi e in questo senso occorre lavorare sulle enormi potenzialità tecnologiche della varie amministrazioni pubbliche» (cosa che Brunetta ha sicuramente già annunciato di aver fatto). Nettissimo pure Roberto Maroni: «La certificazione antimafia non può essere modificata perché è uno strumento indispensabile per combattere la criminalità organizzata e, in particolare, per contrastare le infiltrazioni malavitose negli appalti pubblici».

Peraltro il governo, dice l’uomo del Viminale, «ha appena approvato il Codice delle leggi antimafia che ha riscritto la normativa sulla certificazione antimafia per renderla più efficace e rapida, venendo incontro anche alle richieste del mondo delle imprese». Brunetta, però, essendo veneto, si fa una regola di rispettare il detto «pèso el tacon del buso» e quindi ha emesso ben due comunicati per spiegarsi con relativa nuova gaffe. La tesi di fondo è: non ho detto che il certificato sarà abolito, ma che saranno gli uffici a doverselo procurare senza disturbare i cittadini. Perfetto, solo che nella nota arrivata dopo le parole di Maroni c’è di più: Brunetta qualifica come «anime belle, disinformate e in malafede» non solo l’opposizione o attivisti alla don Ciotti, ma pure Ivan Lo Bello e persino Piero Grasso, che pure qualcosa più di lui rischia ogni giorno. Debutta nel migliore dei modi, insomma, il decreto sulla crescita (a costo zero) che il governo dovrebbe presentare a breve. I ministri lo stanno scrivendo collegialmente e sotto la regia di Renato Brunetta. O almeno questo è quel che crede Renato Brunetta.

«È irresponsabile e prematuro fare speculazioni sulle cifre in relazione al potenziamento dell’European Financial Stabiliy Facility», ha fatto sapere un portavoce del commissario Ue, Olli Rehn. Omettendo di dire che a Washington era stato proprio il suo capo, annunciando anche un coinvolgimento della Bce, quello più prodigo di indiscrezioni alla stampa. «Nessuna speculazione sul secondo pacchetto di aiuti alla Grecia, prima di avere in mano i dati della Troika», aggiunge un portavoce del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble. E tanto basta per intendere quanto non sia scontato il voto di giovedì al Bundestag sul rafforzamento del fondo Efsf. Eppure sui mercati si è diffuso un inaspettato ottimismo. Vuoi perché Bruxelles ha dovuto ammettere di stare «contemplando un ulteriore aumento della capacità di leverage del Fondo Salvastati». Vuoi perché George Papandreou, vedendo oggi la Merkel, potrebbe annunciare nuove privatizzazioni se non anticipare di un anno gli effetti della stretta sul deficit. Così gli operatori sono tornati a comprare titoli delle banche e delle assicurazioni, le realtà più esposte sul debito europeo e che nelle ultime ottave avevano fatto crollare i listini. Milano, maglia rosa nella giornata, ha chiuso con un rialzo di quasi tre punti e mezzo. Vola Francoforte (+2,87), avanzano Madrid (+2,6) e Parigi (+1,75), mentre Londra (+0,45 per cento) paga le tensioni sulle materie prime. Ma a ben guardare più indicative sono le chiusure dei listini asiatici: Tokyo -2,17 per cento, Hong Kong -3,11, Shanghai -1,43, Bangkok -7,82. Da un lato c’è il timore che, come avvenuto con la grande crisi del 1997, il contagio possa fare il percorso inverso e arrivare dall’Europa all’Asia; dall’altro c’è il sentore che i grandi fondi stiano alleggerendo le loro posizioni sugli emergenti per investire in massa sui titoli bancari del Vecchio Continente, in prospettiva dell’intervento dell’Efsf per ricapitalizzare gli istituti più esposti.

In ogni caso decisivo sarà il voto di giovedì del Parlamento tedesco sull’ultimo pezzo della riforma della governance europea: ne va sia del salvataggio greco sia del futuro dell’Unione. E la cancelliera “tentenna” Angela Merkel sembra ancora più in balia degli eventi: ha bisogno di tempo per convincere i suoi elettori e per modificare i trattati vigenti, che oggi permetterebbero al veicolo soltanto di aiutare gli Stati e non le banche. Chiamando alle armi i tanti imprenditori tedeschi che necessitano di incentivi fiscali per l’export, il leader dei liberali, Christian Lindner, ha richiamato la Merkel per«chiarire rapidamente che non vi saranno ampliamenti al

Tremonti prova a riallacciare un filo con la Lega ma dal Pdl gli intimano di non blindare il piano per lo sviluppo. Bonanni (Cisl) avverte: «Al Paese serve un governo di unità nazionale» Efsf». L’altro alleato della Cancelliera, Horst Seehofer, leader bavarese della Csu, si oppone a un avvio anticipato della versione permanente del Salvastati. Uscite che indeboiscono la Germania a livello internazionale. Così fa fatica la Merkel a promettere «un’approvazione senza il voto dell’opposizione» o a ricordare ai suoi che «la Germania ha bisogno dell’euro».

Aspetta buone nuove dal Reno anche Giulio Tremonti. Ieri, mentre S&P’s abbassava il rating su undici comuni italiani, ha visto Umberto Bossi e Roberto Maroni per trovare un’intesa e blindare il piano per lo sviluppo atteso questa settimana in Consiglio dei ministri. Difficile che ci riesca. Sembra abbandonarlo Raffaele Bonanni – «Serve un governo diu unità nazionale» –, lo scarica il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto: «Il decreto lo fa il governo. Non possiamo permetterci di perdere tempo nel cercare di far ragionare chi non ha voglia di ragionare. I problemi caratteriali sono forse più difficili da risolvere di quelli economici».


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grandangolo L’ecologista si è spenta a Nairobi a 71 anni per un tumore

Wangari Maathai l’eroina africana che non sussurra più agli alberi ma entra nel mito Il Kenya piange “Mama Miti”, premio Nobel per la pace e paladina dell’ambiente. La sua eredità? Almeno 40 milioni di nuovi alberi piantati grazie al lavoro del suo movimento, il Green Belt. Ha sempre rifiutato il terzomondismo piagnone esigendo il diritto a fare da sé. E al virus dell’Aids portato dalle scimmie non ha mai creduto… di Luisa Arezzo primi a ricordarla, Nelson Mandela e Desmond Tutu, lo hanno fatto senza tanta retorica, arte che Wangari Maathai detestava: «È morta una vera eroina africana, che aveva compreso i nessi inestricabili tra povertà, diritti e sostenibilità ambientale». Stringati, semplici, consapevoli che con lei è sparita la terza - assieme a loro due - icona dell’Africa contemporanea. Quella che rifiuta il terzomondismo piagnone, non chiede la carità ed esige il diritto a fare da sé.Wangari Maathai, la donna che sussurrava agli alberi (in tanti, dopo il film di Robert Redford sui cavalli, l’avevano soprannominata così), ha finito di combattere la sua lotta contro il cancro, morendo ieri mattina, a 71 anni, in un ospedale di Nairobi. Era una donna abituata ai primati, Wangari Maathai: la prima africana, la prima keniota e la prima ambientalista a ricevere il Nobel per la Pace, nel 2004, per il suo impegno a favore dell’ambiente e di uno sviluppo sostenibile. Non solo, era stata la prima donna nell’Africa centro-orientale a ottenere un dottorato in anatomia all’Università di Nairobi, nel 1971, dopo essersi laureata negli Stati Uniti grazie a una borsa di stu-

I

dio. Divisa tra la carriera universitaria, le campagne ambientaliste, l’impegno a favore dei diritti delle donne e le battaglie politiche contro il regime keniota dell’allora presidente Daniel Arap Moi, la Maathai si è spesa in ogni campo della vita civile, convinta che ci fosse bisogno di uno «stravolgimento del nostro modo di pensare, così che l’umanità smetta di mettere a repentaglio lo stesso sistema che la tiene in vita». La sfida, come disse sul palco, ricevendo a Oslo l’ambito riconoscimento, è «ridare ai nostri bambini un mondo di bellezza e meraviglia».

Prima della classe fin dalle elementari, finite le superiori vola negli Usa dove porta avanti e completa gli studi di biologia. Ed è proprio a Pittsburgh che per la prima volta si avvicina alle battaglie ambientaliste, venendo a contatto con gli attivisti che protestano contro l’inquinamento in città.Tornata a Nairobi, continua la carriera all’università, arrivando alla fine degli anni Settanta alla cattedra di anatomia veterinaria, la prima donna a ottenerla nella capitale keniota, dove dovette superare non poche difficoltà. Visto che gli studenti erano tutti maschi, e lei

aveva meno di trent’anni, faticò non poco per convincerli di essere più che capace di insegnare la materia. I pregiudizi però non la fermarono, anzi. Rafforzarono la sua determinazione e la sua capacità di combattimento. La nobel per la pace era una pugile nella vita, che al posto dei pugni usava parole pesate con

A Nairobi il grande polmone verde del parco di Uhuru è uno dei suoi “capolavori” cura, progetti, conoscenza, semi e soprattutto diritti. Nel 1976 si iscrive al Consiglio nazionale delle donne del Kenya, assumendone la presidenza dal 1981 al 1987. Anni in cui si rafforza il suo impegno a favore dell’ambiente, sempre più minacciato da progetti speculativi, salendo alla ribalta per le sue campagne contro la defo-

restazione. Nel 1977 fonda la Green Belt Movement, un’organizzazione formata da donne provenienti dalle aree rurali del Kenya, che incoraggia affinché intraprendano una vasta operazione contro l’erosione delle falde acquifere del Paese, dovute alla massiccia deforestazione. Quattro i principi fondamentali che subito sottoscrive e a cui le iscritte dovranno attenersi: 1) Amore per l’ambiente; 2) Gratitudine e rispetto per le risorse della Terra; 3) Autopotenziamento e automiglioramento. Perché è il desiderio di migliorare la propria esistenza e le proprie condizioni di vita attraverso la forza della fiducia in sé, senza aspettare che sia qualcun altro a farlo per noi; 4) Spirito di servizio e volontariato.

La sua battaglia la rende al principio uno zimbello, e non solo in Kenya. Lei e le sue “adepte” venivano spesso fotografate intente a piantare fusti di origine indigene, alberi da frutto e piccoli arbusti. E irrise dai più. Ma quel piccolo gesto ha portato risultati straordinari nell’arco di meno di un decennio, e molte tribù capirono che un terreno forte delle radici dei suoi alberi, soprattutto l’acacia, li poneva al

riparo da siccità prima e dissesti alluvionali poi. Cominciarono a difenderla (dallo Stato kenyota, che coglieva ogni occasione per fermarla, accusarla e anche imprigionarla) e ad amarla. Ad aspettarla, con la sua piccola sporta di semi. E l’Occidente si accorse di lei. L’eredità che lascia al Kenya, quella di cui è senza dubbio più fiera, sono quaranta milioni di alberi. Negli anni Ottanta si batte insieme ad altri contro il regime dittatoriale di Arap Moi, manifestando per la liberazione dei prigionieri politici e contro lo sfruttamento delle risorse naturali


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nel ’91 andò alla suadfricana Nadine Gordimer) dà nuovo impulso alle sue campagne ambientaliste e al suo impegno a favore di uno sviluppo sostenibile - in particolare, a favore del bacino del Congo, che ospita la seconda foresta tropicale più grande al mondo. Famose, al riguardo, le sue parole in merito: «L’Africa non ha solamente bisogno di proteggere le sue foreste indigene, ma anche di impegnarsi in imponenti iniziative di riforestazione. Le nostre popolazioni possono coltivare le piantagioni commerciali necessarie all’industria del legname e all’edilizia. Ma è sbagliato sacrificare le foreste per ottenere rapidi e immediati benefici economici. Così facendo pregiudichiamo le riserve idriche e le precipitazioni necessarie all’agricoltura dei nostri figli e nipoti. Le future generazioni potrebbero anche trovarsi nella condizione di non poter più produrre energia idroelettrica. L’Africa è già ora un continente in cui l’acqua scarseggia e non può permettersi di sacrificare i corsi d’acqua».

Dopo la laurea in biologia a Pittsburgh diventa la prima docente universitaria del suo Paese del Paese a fini speculativi. Il legname delle foreste kenyote fa gola a molti e il governo ”svende”intere foreste, arrivando a distruggere anche buona parte delle foreste del Kilimanjaro.

Sottovalutandola, in realtà Arap Moi all’inizio delle campagne della Maatahi aveva sostenuto la sua azione. Poi, quando nei primi anni Novanta la biologa criticò un progetto governativo per la costruzione di un palazzo di 60 piani in un parco di Nairobi, il presidente rispose con la forza. Riferendosi chiaramente alla futura premio Nobel, Moi disse allora che chi si opponeva al progetto di costruzione aveva «insetti nella testa». Aggiungendo che era «anti africano e inim-

maginabile» che le donne potessero sfidare gli uomini. Nel 1999 la Maathai fu duramente picchiata dalla polizia mentre piantava alberi nella foresta di Karura a Nairobi, suscitando le proteste delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Ma anche questo non la fermò: ancora non paga, si candidò più volte in Parlamento, ma riuscì a entrarvi solo nel 2002. L’anno dopo, con la morte di Moi, venne nominata sottosegretario al ministero dell’Ambiente, un incarico che portò avanti dal 2003 al 2005. «Almeno non devo passare le mie giornate nelle celle della polizia commentà ironicamente allora - ora è divertente incontrare gli stessi poliziotti che mi inseguivano con armi e bastoni. Oggi sono molto rispettosi e mi salutano ovunque vada».

Il premio Nobel per la Pace, nel 2004 (il secondo a una donna africana, dopo quello per la Letteratura che

In Kenya la chiamavano con rispetto Mama Miti, la “madre degli alberi”. Ma il suo impegno era a 360 gradi. Come quando, a margine della cerimonia del Nobel, si scagliò contro il flagello dell’Aids (e aveva le carte per farlo, visto che era una biologa di rango): «Ci viene detto che l’Aids viene dalle scimmie. Sciocchezze: noi africani abbiamo sempre vissuto con le scimmie, senza conseguenze, mentre ora siamo proprio noi a essere sterminati più di ogni altro popolo nel pianeta da questa epidemia. È ovvio che sono stati creati agenti di guerra biologica per cancellare intere popolazioni. La verità è che l’Aids è stato creato in laboratorio per ragioni di guerra biologica, altrimenti perché ci sarebbero tanti misteri su tale virus? Ciò mi rende molto sospettosa». E nessuno l’ha mai contraddetta.

Uno degli ultimi interventi della grande attivista scomparsa

«L’amore per l’uomo mi guida nella mia lotta per la natura» di Wangari Muta Maathai egli oltre trent’anni che ho dedicato all’ambientalismo e alle campagne per la democrazia mi è stato spesso chiesto se la spiritualità, le diverse tradizioni religiose e la Bibbia in particolare siano state per me fonte di ispirazione e abbiano influenzato il mio attivismo e il lavoro svolto dal Green Belt Movement (Gbm). Nel 1977, quando cominciai questo lavoro, non ero spinta dalla fede o dalla religione, pensavo solo a come risolvere concretamente i problemi. Desideravo aiutare la popolazione rurale del mio Paese, il Kenya, e soprattutto le donne, a soddisfare quei bisogni primari che mi descrivevano durante i seminari e gli incontri, quando mi raccontavano di non avere acqua potabile, cibo a sufficienza, le energie necessarie per cucinare e scaldarsi e nemmeno un reddito. Personalmente, non ho mai fatto alcuna differenza tra le attività che potrebbero essere definite ”spirituali”e quelle che invece potrebbero essere chiamate ”secolari”. Dopo alcuni anni mi sono resa conto che i nostri sforzi non consistevano solo nel piantare alberi, ma erano volti anche a spargere semi di un altro tipo: quelli necessari a curare le ferite inflitte alle comunità, depredate della loro autostima e della consapevolezza di sé.

N

Era chiaro che gli individui che ne facevano parte dovevano riscoprire la loro vera voce e parlare schiettamente in nome dei propri diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro compito divenne quindi anche quello di allargare lo spazio democratico in cui cittadini comuni potevano prendere decisioni autonomamente, per giovare a se stessi, alla loro comunità, al loro Paese e all’ambiente che li sosteneva. In questo contesto cominciai a capire che, nel corso degli anni, c’era stato qualcosa che aveva ispirato e sostenuto il Gbm e i suoi attivisti, molti dei quali ne volevano condividere l’approccio e l’esperienza pur giungendo da

comunità e regioni diverse. Con il tempo si sono resa conto che il lavoro del Gbm non era guidato solo dalla passione e dalla lungimiranza, ma anche da qualche intangibile principio fondamentale. In particolare, ne ho individuati quattro: 1) l’amore per l’ambiente; 2) la gratitudine e il rispetto per le risorse della Terra; 3) l’autopotenziamento e l’automiglioramento. In altre parole: il desiderio di migliorare la propria esistenza e le proprie condizioni di vita attraverso la forza della fiducia in sé, senza aspettare che sia qualcun altro a farlo; 4) Uno spirito di servizio e volontariato.

Lo spirito profondo, i valori più autentici del Gbm, sono racchiusi in questi principi, senza i quali sono convinta che l’organizzazione non sarebbe sopravvissuta né avrebbe prosperato, perché nessuna iniziativa è mai stata intrapresa per denaro, fama o ambizioni di carriera né di certo con l’aspettativa di ricevere un giorno il premio Nobel per la Pace! Si tratta in realtà di valori universali, inestimabili. Definiscono la nostra stessa umanità e come tali non fanno parte solo di certe tradizioni religiose, non riguardano unicamente chi professa una fede, ma appartengono alla nostra natura, costituiscono una ricchezza del genere umano. Dove tali valori sono ignorati, subentrano vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidità e lo sfruttamento, che possono persino portare alla morte. L’esperienza e l’osservazione mi hanno fatto capire che la distruzione fisica della Terra si estende anche all’umanità: se viviamo in un ambiente ferito, nel quale l’acqua è inquinata, l’aria è satura di smog ed esalazioni, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui di plastica o il suolo è ridotto a polvere, subiamo ferite fisiche, psicologiche e spirituali. Degradare l’ambiente significa degradare noi stessi e tutto il genere umano. © by Wangari Muta Maathai


cultura

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Addio a uno degli sceneggiatori più famosi dela scuola milanese: Dylan Dog, Zagor e Nathan Never sono stati i suoi cavalli di battaglia

Sergio, il fratello di Tex È morto Bonelli, editore dei più popolari fumetti italiani, tra cui l’eroe western, creato da suo padre Gian Luigi di Marco Scotti iuda ballerino, Sergio! Così esclamerebbe Dylan Dog venendo a sapere della morte del grande Sergio Bonelli. Peste! aggiungerebbe Kit Carson. E se non sapete di che cosa stiamo parlando, correte in edicola e comprate qualche albo della Sergio Bonelli Editore, che ha saputo dare alle stampe alcuni dei più importanti fumetti italiani. Con la morte di Sergio Bonelli siamo tutti un po’ più poveri e un po’ meno bambini (indipendentemente dall’età anagrafica), avendo perso un amico di avventure. Attraverso le pagine da lui èdite ci siamo gettati a capofitto contro lupi mannari e zombie, abbiamo percorso i deserti della Sierra a cavallo e abbiamo volato sopra l’America Latina in compagnia di un tipo rissoso e con la battuta pronta, Mister No. Ma chi era Sergio Bonelli? La domanda merita una risposta lunga e articolata. E ci spiace non poter usare le tavole di qualche famoso disegnatore (Galep sarebbe stato perfetto) per dare alla narrazione il ritmo di cui Bonelli ha voluto circondarsi per una vita: quello dei fumetti.

G

Nato a Milano il 2 dicembre del 1932, Sergio Bonelli vive immerso nella cultura dei fumetti: il padre è infatti Gian Luigi Bonelli, il creatore del leggendario Tex Willer. Così, fin da piccolo, inizia a respirare l’odore di china per i disegni e dell’inchiostro per stamparli. Impara che cosa sia una pressa e comincia, a partire dal 1946, a prendersi cura dell’azienda di famiglia, la Cepim. È una delle più importanti case editrici di fumetti, poiché Gian Luigi Bonelli già a partire dagli anni ‘20 ha iniziato a dedicarsi ai ragazzi e ai fumetti: Bonelli senior, infatti, inizia la sua carriera pubblicando alcune poesie sul Corriere dei Piccoli e tre romanzi d’avventura. Nel 1940 decide di mettersi in proprio acquisendo i diritti della testata «L’Audace»,

creando così l’omonima casa editrice che, attraverso vari cambi di nome, e passando prima nelle mani della moglie Tea Bonelli e poi in

quelle del figlio Sergio, si trasformerà nell’attuale Sergio Bonelli Editore. Ma è nel dopoguerra che Gian Luigi Bonelli lascia il suo indelebile marchio nella storia dei fumetti italiani: insieme al disegnatore Aurelio Galleppini (in arte Galep) decide di raccontare la storia di un ranger,Tex Willer, dei suoi tre amici e delle loro avventure in uno sterminato Far West. È l’inizio del mito.

Il ruolo di Sergio diventa apicale già a partire dal 1957, a soli 25 anni, quando riceve dalle mani della madre Tea la gestione della Cepim. Sergio Bonelli non è il classico “figlio di”che sfrutta il suo cognome per aprire le porte; al contrario, per tracciare la propria distanza dalle orme paterne decide di utilizzare uno pseudonimo, avendo voglia di iniziare a creare personaggi e storie ambientate – troppo forte dev’essere stata l’attrazione – nel Far West. Ed è così che inizia a firmare le proprie opere con il nome di Guido Nolitta. Nel 1961 Sergio Bonelli crea il primo di una lunga serie di fortunatissimi personaggi: Zagor, eroe “ibrido” perché assomma le caratteristiche di Tarzan – agile e veloce nel muoversi tra le liane – in un’ambientazione tipicamente western, con forti incursioni nel fantastico. Bisogna aspettare altri quattordici anni per vedere la nascita di un nuovo personaggio, ma l’attesa è ripagata: nel 1975 Sergio Bonelli darà vita a quello che considererà sempre il suo figlio prediletto, Mister No. Che altri non è se non uno scanzonato ex soldato statunitense, con la passione per il volo, che vive nella Manaus degli anni Cinquanta.

In queste pagine, alcuni degli eroi che sono rimasti leggendari nella attività della «Sergio Bonelli editore». Da Tex a Dylan Dog, da Nathan Never a Martin Mystere: personaggi spesso di derivazione letteraria

Trascorso un anno, Sergio Bonelli è pronto per seguire le orme del padre, forte ormai di una propria indipendenza e autonomia. Il 1976, infatti, è l’anno in cui fa il suo esordio come sceneggiatore di Tex Willer: il numero 183 sarà il primo albo del ranger a non vedere in calce la firma di Gian Luigi Bonelli. Ormai Sergio è sempre più un protagonista del panorama fumettistico nostrano, ed è pronto a unire la propria firma a quella del disegnatore di Tex più famoso che ci sia: con Aurelio Galleppini, infatti, realizza L’uomo del

Dopo il debutto come sceneggiatore, fa bravissimo non solo nell’inventare nuovi eroi, ma anche nel costruire una squadra vincente Texas. Ma essere a capo di una casa editrice in continua espansione e che è un punto di riferimento imprescindibile per tutti gli appassionati di fumetti nonDisney è un impegno troppo gravoso per poter continuare anche nell’avventura della scrittura. Così, Bonelli progressivamente abbandona le pro-

prie creature, forgiando però un affiatato team di autori che siano in grado di sostituirlo in tutto e per tutto. Nel 1982 lascia Zagor dopo oltre vent’anni di storie e nel 1995 è costretto ad abbandonare persino Mister No. Ma è solo un arrivederci: nel 2005, Sergio Bonelli torna a scrivere gli albi conclusivi della serie dell’ex soldato americano in Brasile. Una curiosità: Mister No, autentico anti-eroe, sarebbe dovuto morire in sei albi, ma la voglia di continuare a raccontare le sue storie era tale che “il lungo addio”si protrasse fino al 2006, quando Mister No venne ricondotto all’inizio delle sue avventure, facendolo incontrare nuovamente con i primi due personaggi apparsi nei suoi albi. Una circolarità del tempo che dimostra l’affetto che Sergio Bonelli nutriva per le sue creature, tanto da impedire che muoiano, ma custodendole in una sorta di “ciclo continuo”che


cultura

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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

cadimenti che si verificano in un albo sono parte integrante del successivo, creando una ragnatela narrativa difficilmente riscontrabile in altri fumetti.

le preservi dal passare del tempo.

L’uscita di scena dal ruolo di autore permette però la nascita di altri personaggi che sono già “storia”: a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, infatti, dalla Sergio Bonelli Editore spiccano il volo MM, DD, NN. Chi sono? Martin Mystere (nato nel 1982 dalla penna di Alfredo Castelli), il “detective dell’impossibile”. Ovvero, un professore che indaga su alcuni dei misteri più insondabili della storia dell’umanità – Atlantide su tutti – accompagnato dal fido assistente Java, uomo di Neanderthal trovato da Martin Mystere stesso in Mongolia. DD come Dylan Dog, detective che sonda l’animo più oscuro del paranormale. Nato nel 1986 da un’idea di Tiziano Sclavi, Dylan Dog si autodefinisce (così recita la targhetta sulla porta) “indagatore dell’incubo”. Ed è con figure oniriche, con mostri e zombie, con creature mitologi-

che e con licantropi che il detective inglese – dall’innamoramento facile – deve vedersela, accompagnato nelle sue avventure dall’improbabile assistente Groucho, che sforna freddure senza soluzione di continuità. Dylan Dog è forse, dei personaggi della Sergio Bonelli Editore, quello che ha avuto – Tex escluso, ovviamente – la migliore fortuna, tanto da aver ispirato recentemente un (brutto) film americano. Una curiosità si riscontra nel suo aspetto, che prende ispirazione dall’attore Rupert Everett, e nel suo modo di vestire, che ricorda in qualche modo la tipicità degli eroi dei fumetti, da Topolino in poi: la giacca nera, la camicia rossa, le scarpe scamosciate marroni sono un tratto distintivo del personaggio quanto lo furono i pantaloni rossi con i bottoni dorati del topo disneyano. Un pizzico di civetteria si riscontra nella sua pistola, un vecchio revolver a tamburo che spesso e volentieri – ma mai nei momenti chiave – si inceppa, e nella sua automobile, un vecchissimo “Maggiolone”Volkswagen che a più riprese viene definito un “rottame”. Infine, nel 1991, Sergio Bonelli edita anche Nathan Never, detective che si muove in un futuro fantascientifico che prende le mosse dalle tre leggi della robotica di Isaac Asimov. La peculiarità degli albi di questo personaggio sta nella loro

strettissima interdipendenza. Se in precedenza le storie a fumetti raccontate dalla Bonelli erano state sempre autonome (o, al massimo, in due o tre puntate), vivendo di vita propria che iniziava e si concludeva nell’albo medesimo, mantenendo sempre validi alcuni capisaldi, con Nathan Never la scelta degli autori è quella di creare un continuum spazio-temporale che fa in modo che le storie dell’indagatore del futuro siano tutte collegate tra loro. Gli ac-

I tre personaggi descritti sopra sono solo alcuni della nuova generazione degli eroi dei fumetti di casa Bonelli, cui si affiancheranno, nel tempo Nick Raider (nato nel 1988), detective della squadra omicidi di New York ispirato al Robert Mitchum di Marlowe, ispettore privato; Magico Vento (1997), che sancisce il ritorno della Sergio Bonelli Editore al genere western, seppur a forti tinte gialle e noir; e, infine, Julia, nata nel 1998, criminologa il cui aspetto trae origine dalla splendida Audrey Hepburn. Il resto è storia recente: nel 2007 Sergio Bonelli riprende in mano le redini della sua casa editrice, rilevando il posto di direttore generale fino ad allora affidato a Decio Canzio. Nel 2008 riceve l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano. Ad agosto di quest’anno un malore lo costringe al ricovero all’ospedale di Monza, nel quale è morto la scorsa notte. Lasciandoci in eredità avventure senza tempo ed eroi eterni, che da oggi leggeremo con un pizzico di amarezza in più. Diavoli dell’inferno – come direbbe Martin Mystere – questa non ce la dovevi fare!

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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