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he di cronac

Se credi al fato, fallo almeno nel tuo interesse

Ralph Waldo Emerson

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 28 SETTEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La road map dell’associazionismo, in grande fermento dopo il discorso del presidente della Cei

La Cosa di Bagnasco I movimenti cattolici spiegano come sarà il nuovo soggetto Partono per prime Acli, Cisl, Mcl e Confcooperative: a metà ottobre un convegno a Todi farà da starter. «Faremo un fronte unitario per tornare protagonisti e chiudere la stagione delle deleghe in bianco»

Parola-chiave: dimissioni oggi il voto sul ministro

Se Berlusconi e Romano fossero tibetani di Vincenzo Faccioli Pintozzi os’hanno in comune un tempio buddista dell’Henan, l’eremo di un lama a Dharamsala e Montecitorio? Nonostante le distanze geografiche, sociali e religiose siano immense, sono tutti luoghi in cui si parla di dimissioni. Ma soltanto nell’ultimo, il Palazzo del potere italiano, la parola è un tabù: perché nei primi due essa è invece invocata per salvare tradizioni e rituali estremamente più importanti dei singoli personaggi che di volta in volta li mettono in pratica. Il punto più caldo di questo panorama, al momento, è sicuramente l’eremo di Dharamsala. Nel monastero dove vive in esilio il Dalai Lama, infatti, si è appena consumato l’ultimo atto di una guerra che contrappone il leader della “setta della sciarpa gialla” al governo di Pechino. Che, per spezzare del tutto la resistenza popolare in Tibet, non vede l’ora di mettere le mani sul prossimo Dalai Lama. Per evitare questa situazione, il Nobel per la Pace si è dimesso dal ruolo di primo ministro del Tibet alcuni mesi fa. a pagina 8

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VALORI COMUNI

OLTRE LA STORIA

Un progetto che parte dal Centro

Per favore, non parlate di “nuova Dc“

di Osvaldo Baldacci

di Vittorio Possenti

n partito dei cattolici? O un partito in dialogo con i cattolici, un partito laico di ispirazione cristiana? Il fermento nel mondo cattolico va di pari passo con la crisi della politica, e le parole del cardinal Bagnasco lunedì segnano una tappa importante di questo percorso. Per i cattolici non è più il momento di stare a guardare e delegare ad altri la guida della società. E questo vuol dire anche politica. In che modo, è da vedere. Ma certo il protagonismo attivo in politica è diventato un’urgenza. I progetti del Pdl e del Pd sono falliti in soli tre anni ma i valori dei cattolici non sono negoziabili. a pagina 2

l nostro Paese ha bisogno di ritornare a crescere per invertire la tendenza di “media potenza declinante”, anche demograficamente: il tasso di natalità italiano è tuttora tra i più bassi al mondo, e ciò costituisce un segnale negativo, più centrale di molti altri. L’Italia rimane una nazione “seduta” che osa assai meno di un tempo, che si trova da 15 anni in una fase di stanchezza progettuale ed esistenziale: un paese fiaccato da scarsa fiducia e speranza. Molti vivono al 5% e temono di aumentare la percentuale. Sembrano mancare proiezione in avanti e capacità di donare la vita. a pagina 4

U

I

Vogliono cambiare le definizioni «a.C.» e «d.C.»

E intanto la Bbc toglie Cristo dalla storia di Boris Johnson

Senza cambiare le date, gli esperti della rete vogliono introdurre l’«Era volgare». Si leva un coro unanime di proteste: a guidarlo è il sindaco di Londra a pagina 5

In Aula il governo prova a istituire l’ennesimo ordine professionale e va sotto

È tregua armata sullo sviluppo Vertice Berlusconi-Tremonti. Lo Svimez accusa: «Sud abbandonato» di Francesco Pacifico

Verso una nuova, imbarazzante accusa

ROMA. Due ore di colloquio do-

«Il premier sapeva che erano escort...»

po una lunga, estenuante mediazione di Letta che voleva ricomporre l’ennesiam rottura tra Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi. Al vertice, i due hanno parlato senza insultarsi, pare, sicché le cose sono andate «bene». Via libera al piano per lo sviluppo con l’apertura di qualche cantiere. Molto meno di quanto chiede lo Svimez, quando - dati alla mano - denuncia l’abbandono del Mezzogiorno da parte dell’esecutivo. a pagina 6

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

di Marco Palombi

ROMA. Ennesimo (quasi) colpo di scena nell’ultima vicenda penale che vede coinvolto Silvio Berlusconi. Il Cavaliere non è più - a stare all’ordinanza del giudice del riesame di Napoli - la vittima di un’estorsione ai suoi danni organizzata da Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per via della sua passionaccia senile per il sesso facile e (pare) a pagamento. a pagina 6 NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il commento

prima pagina

L’Unione di Centro è il bacino politico naturale

Valori comuni e senso civico: pronti a partire di Osvaldo Baldacci n partito dei cattolici? O un partito in dialogo con i cattolici, un partito laico di ispirazione cristiana? Il fermento nel mondo cattolico va di pari passo con la crisi della politica, e le parole del cardinal Bagnasco lunedì segnano una tappa importante di questo percorso. Per i cattolici non è più il momento di stare a guardare e delegare ad altri la guida della società. E questo vuol dire anche politica. In che modo, è da vedere. Ma certo il protagonismo attivo in politica è diventato un’urgenza. Finora, con i progetti del PDL e del PD (sembra antiquariato, ma siamo ad appena tre anni fa), il mondo cattolico si era illuso di poter vivere un ruolo protetto sotto l’ala di altri, magari riuscendo a mettere a segno qualche colpo sulle cose più importanti, soprattutto esercitando un diritto di veto su alcune tematiche specialmente di bioetica. I valori non negoziabili. Ma ora molto sta cambiando. È evidente il fallimento del PDL e del PD, e in particolare il fallimento di Berlusconi. È altrettanto evidente l’irrilevanza cui i politici cattolici sono condannati in quelle condizioni. Persino il potere di veto si erode, perché a forza di stare sulla difensiva si arretra ogni giorno di un passo. Ma poi le crepe si vedono. Esemplare e illuminante il caso dell’ordine del giorno (insensato e inconcludente) sulla presunta ICI che la Chiesa dovrebbe pagare oltre quello che fa: i cattolici del PD lo hanno appoggiato compatti, quelli del PDL (e anche della Lega) si sono astenuti permettendo che fosse approvato. Solo l’UDC si è opposto compatto a questo esercizio di infondato anticlericalismo. E questa è già una plastica risposta su chi può e deve interloquire con il mondo cattolico.

U

Secondo punto: i cattolici non riescono ad essere propositivi. A parole tutti condividono i temi di fondo, ma poi in Parlamento non succede niente. Si pensi alla famiglia: cosa è stato fatto in suo favore? Nulla, anzi è stata tartassata dalle ultime manovre. Anche qui, solo l’UDC ha tenuto una posizione ferma e costante nel chiedere di mettere la famiglia al centro delle politiche di sviluppo e di quelle fiscali. Gli altri fanno i sordi. Questo però non è solo colpa dei politici: evidentemente la società civile cattolica ha almeno in parte smarrito la sua capacità di farsi ascoltare. Ed è questa che deve recuperare. Un movimento che ridia forza di massa critica alle diverse attivissime realtà di ispirazione cattolica. Ma un movimento che è chiamato ad assumersi delle responsabilità: perché per avere peso oltre ad essere compatto deve essere anche capace di fare delle scelte. Scelte sugli obiettivi, ma anche scelte sugli interlocutori. Si può parlare con tutti, ma si deve privilegiare chi condivide la stessa ispirazione e porta avanti le stesse battaglie. In questo senso è innegabile che l’UDC sia in prima fila, pronto e lieto a diventare interlocutore di questo movimento dei movimenti. Il mondo cattolico deve accettare di riconoscere degli interlocutori privilegiati a patto che questi ne rappresentino le istanze, e l’UDC deve aprirsi ancor di più a queste istanze, anche preparandosi a diventare il fulcro di una cosa rinnovata e più ampia. Un qualcosa che abbia un rapporto vitale con la società civile di ispirazione cristiana, una forte osmosi con veri interscambi di idee,programmi e anche di persone. Rendendo forte e chiara la propria ispirazione cristiana, non confessionale ed apertissima ai laici, ma chiaramente identificabile, nel senso sturziano che è nelle sue radici e nel senso crociano di radici culturali cristiane comuni anche ai non credenti.

l’inchiesta Dopo i vescovi, parlano le associazioni: «Siamo pronti a scendere in campo»

L’arcipelago si muove così

«Formiamo un fronte unitario di pressione per costringere la politica ad ascoltarci». L’obiettivo è «tornare protagonisti» dopo aver «delegato troppo a lungo» di Riccardo Paradisi è un nuovo partito cattolico nel prossimo futuro italiano? Forse è presto per dirlo, per cogliere i contorni definiti d’un progetto in elaborazione. Certo è che dopo le parole del cardinal Bagnasco sembra avere un imprimatur ufficiale l’avviato percorso verso la costruzione d’un movimento ispirato alla dottrina sociale della Chiesa.

C’

Movimento che avrà il suo battesimo il prossimo 17 ottobre a Todi dove si daranno convegno le sigle più significative dell’associazionismo cattolico: Cisl, Acli, Confcooperative, Movimento cristiano lavoratori, Compagnia delle opere, Coldiretti e poi rappresentanti del mondo economico culturale, tra cui il rettore dell’università Cattolica

di Milano Lorenzo Ornaghi. Si diceva dell’imprimatur delle gerarchie. Il Servizio Informazione Religiosa della stessa Conferenza episcopale lo conferma: «In questo momento davanti al mondo

ANDREA OLIVERO

cattolico stanno due impegni: il primo riguarda la difesa dei principi e valori non negoziabili connettivi. Il secondo si può formulare così: esprimere delle proposte di aggregazione e di leadership su cui sperimentare forme di libera, ampia e articolata convergenza». Che significa? È chiaro che la Chiesa non parla mai per formule conchiuse. E non per una forma di obliquità assertiva, come dicono i suoi critici, ma perché suo compito è aprire delle prospettive che sta poi ai laici tradurre in pratica. D’altra parte in questo caso il messaggio è molto chia-

La rete sociale cattolica ha siglato un patto per una nuova stagione unitaria


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il fatto La politica, il giorno dopo il discorso

ne il patrimonio, sentire cosa ha da proporre in termini di programmi e di uomini». Ed è questo quello che intanto hanno intenzione di fare le associazioni cattoliche. Andrea Olivero, presidente delle Acli spiega a liberal che «Le organizzazioni in se stesse non vanno a costituire un partito. Le nostre restano organizzazioni sociali. Però sentiamo l’esigenza di avere interlocutori politici nuovi, credibili e sensibili alla Dottrina sociale. Insomma per noi è fondamentale che ci sia un soggetto cattolico che faccia una politica cattolica oltre un bipolarismo che vede ormai la disgregazione di se stesso e dei suoi principali attori. Peraltro aggiunge Olivero – la supplenza dei vescovi non può essere la prospettiva. L’operazione a breve dunque è quella di andare a definire alcune proposte per il Paese e intorno a queste c’è un consenso vero delle organizzazioni sociali cattoliche, un patto che è stato costruito in questi mesi. Todi servirà a questo».

ro: serve un’aggregazione e una leadership cattolica dei moderati. Anche perché «L’impasse, il senso di blocco che tutti percepiscono e

LORENZO ORNAGHI

ciale. Un fronte con il quale la politica sarà costretta a dialogare e dal quale potrà essere selezionata una nuova classe dirigente cattolica. Nella consapevolezza che il vecchio ordine politico sta cedendo il passo ad un ordine nuovo. Le parole di Bagnasco «non sono solo un auspicio a un nuovo impegno politico dei cattolici – come dice Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio – ma la rilevazione di un processo. C’è una parte che giocheranno i laici cattolici.. È un processo in corso, una sorta di incubazione. È un investimento di un patrimonio di energie e di cultura sul futuro». Intendiamoci nessuno ha in mente di resuscitare la Dc. Quel periodo storico è concluso come sottolinea Monsignor Fisichella e nessun altro partito dei cattolici, così come è stato realizzato dalla Dc, è all’orizzonte. «Ciò su cui si deve riflettere è il superamento della diaspora dei cattolici, che ha visto una frammentazione del loro impegno politico, con posizioni spesso contrastanti soprattutto in materia etica». Non dice una cosa diversa Rocco Buttiglione che pure è tra i fautori più convinti del partito cattolico: «È presto per dire che in questo modo tratteggia i lineamenti di un nuovo partito, ma di certo sta parlando di un movimento che deve interloquire con la politica. Il resto si vedrà. Per l’Udc questa è una grande sfida. Noi siamo pronti e vogliamo interloquire con questo movimento, valorizzar-

Il mondo cristiano è un prezioso “giacimento” di reti e di istanze sociali che tutti in questo momento si rimpallano - spiega il coordinatore scientifico del Progetto Culturale della Chiesa Italiana, Francesco Bonini, - è dovuto al fatto che, dopo quasi vent’anni di alternanze, puntualmente prodottesi tra il centro-destra e il centro-sinistra, l’alternativa non è l’alternanza ma la ristrutturazione del sistema. Nel 2001, nel 2006, nel 2008 gli elettori, insoddisfatti del governo, lo mandano a casa e premiano l’opposizione: sono quelle che si possono chiamare le alternanze per disperazione. Oggi lo scenario è diverso e l’indicazione è chiara».

Un lavoro considerevole se si pensa che le leve del cattolicesimo politico sono state, per il ventennio della diaspora – dalla fine della Dc e lungo tutta la cosiddetta seconda repubblica – comprimarie e marginali. Un partito cattolico che non è dietro l’angolo ma che sembra imporsi come orizzonte della vasta area dell’associazionismo cattolico che intanto si va costituendo come fronte plurale ma unitario di pressione e persuasione culturale e so-

D’altra parte Bagnasco ha assunto e rilanciato un’iniziativa che parte proprio da queste associazioni, le prime ad avvertire, insieme alla Cei, l’insostenibile marginalità del cattolicesimo politico dalla scena nazionale. Il presidente del Movimento cristiano lavoratori Carlo Costalli è molto esplicito: «Negli ultimi anni si è finito per considerare i principi non negoziabili non come un punto di partenza per l’impegno politico dei cattolici, ma come un punto di arrivo. Così si finisce per ridurre l’originalità dei cattolici in politica e si rischia di dare deleghe in bianco facendosi rappresentare in cambio della difesa dei valori». Per Costalli quest’epoca è giunta al tramonto: «Serve un impegno rinnovato, che non definisca la presenza dei cattolici in politica soltanto con i principi non negoziabili. Anche perché oggi, accanto a quelli che per noi restano imprescindibili, ci sono le emergenze del lavoro, della povertà che cresce, di un Paese che ha bisogno di un’aria purificata, e di tornare a guardare al futuro con speranza». Il 17 ottobre, al Seminario di Todi dovrebbe avvenire un passo avanCARLO COSTALLI

Serve un impegno rinnovato, che definisca la presenza dei fedeli in politica ti importante in questa direzione. Il primo d’una lunga marcia che dalle associazioni, ai corpi intermedi, incrociando la presenza già consolidata d’un partito cattolico già esistente, l’Udc, ha come orizzonte la costruzione di un’area politica dei moderati, dei cattolici e dei popolari.

La Lega insulta la Cei: «Pensi alla pedofilia» di Gualtiero Lami

ROMA. Il giorno dopo l’invettiva del cardinale Bagnasco sull’Italia da salvare e sull’aria da purificare è pieno di rabbia e distinguo. La rabbia di chi si ritrova nelle parole del capo della Chiesa italiana e i distinguo di chi cerca di far finta di niente, cerca di spostarsi e dice che. In fondo, Bagnasco si riferiva a questioni generali appellandosi al fatto che (per eleganza e stile) il cardinale non ha fatto nomi e cognomi. Intanto, per il direttore dell’Avvenire (organo della Cei) la frase del presidente della Cei («C’è da purificare l’aria») «non è solo una frase che fa effetto e lascia un segno forte in pagina e nella mente, ma un’espressione profonda che interpreta il grido angosciato e speranzoso che si alza in tanti modi diversi dalla società italiana». Il centrosinistra, nella quasi totalità, si allinea all’understatement del segretario del Pd, Bersani: «Non voglio commentare, basta leggerlo e si capisce bene». È più esplicito, invece, Francesco Rutelli: «Le dichiarazioni dei vescovi indicano che Berlusconi non ha più il consenso di nessuno. È evidente che Bagnasco rispondeva a un malessere profondo che c’è nella sua base di persone che chiedevano un pronunciamento etico e per un certo verso politico». In questo contesto, colpisce la dichiarazione dell’enfant terrible della sinistra, il sindaco di Firenze Matteo Renzi: «Bisogna farla finita di considerare le parole dei vescovi quando ci fanno comodo e non considerarle quando non ci piacciono. Io credo che i vescovi possono dire tutto quello che credono e che non sia un attacco alla laicità quando un vescovo parla. Semmai la domanda è perché Bagnasco certe cose le dice ora». Tutt’altro imbarazzo, naturalmente, dalle parti della maggioranza. Tranne che per la Lega la quale, ormai, votata alla difesa a oltranza di Berlusconi, sciorina il suo politichese dicendo: «Quello del cardinale Bagnasco è un messaggio rivolto a tutti, che potrebbe valere anche per la Chiesa per quando riguarda la pedofilia. È un monito per tutti, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutti abbiamo l’obbligo di tenere un decoro nei comportamenti». Parola di Carolina Lussana, vicepresidente dei deputati della Lega Nord. A parte il tono da «avvertimento» colpisce l’equazione «la Chiesa pensi ai suoi scandali che noi pensiamo ai nostri»: è evidente che l’identificazione Lega-Berlusconi (a livello di Palazzo) è totale. Chissà che cosa pensa la base leghista, non solo delle parole di Bagnasco ma anche di questa «romanizzazione» finale degli ex «padani». Comunque, i toni sono più soft (benché tradiscano la medesima irritazione) dalle parti del Pdl. «Non sono d’accordo con Bagnasco che è giunto a conclusioni che sono apparse unilaterali, prestando il fianco inevitabilmente a strumentalizzazioni di ogni sorta, prendendo evidentemente per buone delle premesse che sono invece a tutt’oggi delle semplici accuse non dimostrate, risultanti peraltro da una prassi illiberale e sconcertante di entrare illegalmente nella vita privata delle singole persone» ha filosofato uno dei massimi intellettuali del centrodestra: Sandro Bondi. Più imbarazzato il ciellino Maurizio Lupi: «Penso che per i peccati ci giudicherà Dio. Per i reati, la magistratura. E per la politica, gli elettori. Che giudicheranno la politica svolta, non la vita privata». Due notazioni: curioso per un cattolico fervente questo smarcamento dal vicariato di Cristo sulla terra; curioso per un politico militante considerare l’immoralità di un (presunto?) uomo di Stato come un fatto privato.


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l’approfondimento

Pubblichiamo un estratto dell’intervento tenuto nei giorni scorsi a Verona sul tema: «Un patrimonio comune per le sfide di oggi»

Non chiamatela Dc

I cattolici non hanno più un’adeguata capacità di incidere nel tessuto civile e istituzionale. Sanno di doverla ritrovare nel segno della Dottrina Sociale della Chiesa. Ma con uno strumento di rappresentanza tutto da inventare di Vittorio Possenti l nostro Paese ha bisogno di ritornare a crescere per invertire la tendenza di “media potenza declinante”, anche demograficamente: il tasso di natalità italiano è tuttora tra i più bassi al mondo, e ciò costituisce un segnale negativo, più centrale di molti altri. L’Italia rimane una nazione “seduta” che osa assai meno di un tempo, che si trova da 15 anni in una fase di stanchezza progettuale ed esistenziale, con gli stigmi di un paese fiaccato da scarsa fiducia e speranza. Molti vivono al 5% ed hanno paura di aumentare la percentuale. Sembra mancare la proiezione in avanti, il desiderio di futuro e la capacità di donare la vita. La politica attuale appare a tanti complessivamente lontana dalla vita della gente, anche per il sempre più forte carattere oligarchico del ceto politico. «Dobbiamo fuoriuscire dalla riproduzione oligarchica delle classi dirigenti alimentata da leggi che impediscono agli elettori di esprimere le proprie preferenze, valutando le credibi-

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lità e le competenze dei candidati» si legge nel Manifesto per la buona politica e il bene comune presentato il 19 luglio 2011 dal Forum delle persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica.

Intanto aumenta il numero di coloro che riconoscono i meriti storici del cattolicesimo politico italiano, ma che osservano anche che le principali “mediazioni”politiche sono state da tempo gestite dall’episcopato, in specie nell’ultimo quindicennio… Gli auspici di Benedetto XVI per una nuova fioritura di politici cattolici non ci consentono di rimanere solo sul terreno generale. Il pontefice spera nella formazione di una «nuova generazione» di uomini e di donne credenti capaci di assumere responsabilità pubbliche nella vita civile e nell’agone politico. Lo stesso dicono i vescovi italiani, a partire dal Presidente della Cei. Se guardiamo indietro si direbbe che la cultura della diaspora, diffusa tra i politici e l’elettorato cattolici ha

condotto ad una mentalità minoritaria dei cattolici ed alla riduzione della loro capacità propositiva e riformatrice. La stessa cultura ha finito per avallare l’idea che l’unità fosse un disvalore o un’anomalia da superare. Ritornare dalla diaspora al dialogo ed alla cooperazione non si improvvisa. Occorre puntare all’unità di azione, di modo che dopo la più ampia discussione e assunte le decisioni democraticamente, si proceda uniti anche con l’apporto di chi avrebbe preferito un altro

Malgrado la crisi, il futuro è un ventaglio di possibilità aperte

orientamento. Vi è un grande bisogno di unità per non far prevalere spinte divaricanti e non porre al primo posto le singole appartenenze ecclesiali, politiche o civili. Occorre creare momenti di unità e puntare a far emergere le capacità di guidare e di ‘federare’, oggi più che mai necessarie, se si vuole rimanere significativi, efficaci e non irrilevanti.

Tra le possibilità della nuova tensione a convergere, dopo gli anni in cui le organizzazioni cattoliche risultavano autoreferenziali, sta l’ipotesi di far sorgere un partito aconfessionale e laico ad ispirazione cristiana. Spetta alla responsabilità cristiana laicale di valutare la situazione ed eventualmente di orientarsi verso la nascita di nuovi partiti di ispirazione cristiana, che sono motivati su piano storico ed ideale. Sarebbe infatti strana la posizione del laico cristiano il quale fosse abilitato soltanto ad entrare da comprimario in partiti fondati da altri, che in genere non ri-

sultano propensi ad “aprire le porte” al contributo di cattolici. Questa situazione, insieme a leggi elettorali che penalizzano pesantemente il baricentro del sistema politico, ha condotto alla scarsa rilevanza politica dei cattolici, nonostante il cattolicesimo italiano rappresenti la più importante e duratura rete sociale del Paese. Motivo in più per percepire un crescente e diffuso disagio tra i cattolici, che avvertono di avere un patrimonio di idee, valori ed esperienze che rimane scarsamente impiegato e messo a frutto.

Occorre valorizzare il grande giacimento del mondo cattolico italiano. Studi e osservazione mostrano quanto alto sia il compito propulsivo delle minoranze attive nella vita nazionale, ed oggi forse la principale minoranza attiva è quella dei cattolici. Ma questa minoranza attiva non possiede al momento un’adeguata capacità di incidere nel tessuto civile e istituzionale. In merito alto è il bisogno di guide spirituali per colo-


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I tutori dell’etica della rete britannica hanno proposto di abolire le tradizionali indicazioni storiche

Mentre la Bbc vuole cancellare Gesù Cristo dalla Storia

«Era Volgare è più neutrale». Insorgono i cristiani, ma non solo. E il sindaco di Londra attacca: «Polemica inutile, le date sono quelle» di Boris Johnson apete una cosa? Semplicemente penso che non vada bene. Questa decisione della Bbc non solo è infantile e assurda, è anche estremamente antidemocratica! E sollecito tutti coloro che sono stufi degli inutili progressi politici a reagire! La Bbc è una delle pochissime emittenti - fra quelle delle democrazie occidentali - ad essere sovvenzionata dallo stato. Anche se la maggior parte delle mie notizie le raccolgo dai quotidiani e da internet, pago un occhio della testa il privilegio di avere una Tv. Mi sembra di ricordare che l’ultima bolletta fosse di 148 sterline. Tutti la paghiamo. E credo che questo ci consenta il diritto di essere consultati prima che l’azienda prenda una decisione di importanza culturale immensa, una decisione che influirà sul modo in cui chiederemo ai nostri figli di pensare alla storia della nostra civiltà. Siamo stati educati immaginando che la ragione per la quale chiamiamo questo anno il 2011 D.C., o Dopo Cristo, è che siamo 2011 anni dopo la putativa nascita di Gesù Cristo. Siamo cresciuti pensando che l’anno 2011 A.C. sia così chiamato perché si tratta di 2011 anni prima di Cristo. Come spesso accade, entrambe le versioni sono corrette. È vero che esiste un dubbio circa la data della nascita di Cristo, visto che Erode morì nell’anno 4 A.C. – e ci sarà sempre qualcuno che dubiterà che Gesù di Nazareth sia realmente esistito. Tuttavia, per quanto è vero che fu una figura storica, allora è abbastanza chiaro che è nato attorno a quel periodo.

S

Adesso però viene fuori che un qualche comitato o “gerarca” della Bbc abbia deciso che la nostra emittente sovvenzionata dallo Stato non possa più far riferimento a questa natività – ipotetica o qualsivoglia – per individuare se un evento sia collocato prima o dopo – ehm – l’evento in questione. Ci viene quindi richiesto di definire gli anni prima dell’evento che non possiamo nominare con bce (before common era) o “prima dell’era volgare”, e gli anni dopo l’evento che non possiamo nominare “era volgare”, o ce (common era). Occorre non sottovalutare l’influenza di questo verdetto. Quello che decide la Bbc sarà adottato dagli altri editori ed emittenti. Anche le scuole scatteranno sull’attenti e a chi protesterà verrà detto che si sta seguendo la procedura migliore – questo è quello che fa la Bbc, dopo tutto. Non si tratta quindi di un qualche triviale affaire burocratico: si tratta di un cambiamento dalle culturali ramificazioni sottili ma vaste. Non sono d’accordo per una serie di ragioni: 1) perché nessuno ha chiesto questo cambiamento. Un tempo feci qualche programma di storia per la Bbc senza aver mai ricevuto una lettera di reclamo per aver usato i riferimenti prima e dopo

Cristo; 2) perché nessuno viene offeso da questi termini. Abbiamo parlato con tantissimi studiosi musulmani ed ebrei, e nessuno di loro ha mai battuto ciglio sulle mie espressioni. Ed è assurdo in particolare pensare che i musulmani possano essere offesi da un riferimento

I riferimenti ad a.C e d.C. verrebbero sostituiti con “Before Common Era” e “Common Era”

a Gesù, quando egli stesso è una figura importante nell’islam. Non solo: molti musulmani sono sconcertati dall’intenzione di questo Paese di sterminare i riferimenti culturali alla sua cultura cristiana.Vorrei precisare che la mia obiezione non deriva dal fatto che desidero vendicare la verità letterale della religione cristiana – visto che temo che la mia fede sia come un’antenna traballante, il cui segnale spesso è disturbato. Non sono d’accordo perché è maledettamente senza senso.

Non esisteva alcun Signor Era Volgare che predicava un ministero in Galilea nel primo secolo d.C.. Non esiste alcuna religione dell’Era, né alcun seguace del Volgare. C’è stato Cristo, e se la Bbc non intende datare gli eventi dalla nascita di Cristo allora dovrebbe abbandonare il sistema occidentale. Forse dovrebbe usare il calendario buddista, secondo il quale siamo nel 2.555esimo anno dal nirvana di Buddha. Forse dovrebbe avere una versione dell’antico calendario romano, e dichiarare che siamo nel quarto anno del quarto consolato di Silvio Berlusconi. O potrebbe dire che questo è l’anno 13.400.000 o qualsiasi altro dopo il Big Bang, o forse la Bbc dovrebbe passare al calendario Maya e annunciare che il 2011 è l’anno 1 a.c. – prima della catastrofe che ingoierà il pianeta Terra. Non ci riferiamo al 2011 perché sono 2011 anni dopo che all’imperatore Cinese Ai è succeduto l’imperatore cinese Ping (anche se lo sono); ne’ perché sono 2011 anni dopo che Ovidio ha scritto l’Ars Amatoria. Sono 2011 anni dopo la (presunta) nascita di Cristo. Questo cambiamento riflette un patetico imbarazzo della sinistra per le migliaia di anni di dominanza culturale dell’occidente. Il fatto è che l’impero romano è stato fondamentale per la maggior parte della nostra moderna civiltà mondiale, e le decisioni di Costantino nel 330 d.C. di rendere la cristianità la religione ufficiale ha rappresentato uno dei momenti più importanti nella storia di quell’impero. È per questo motivo che abbiamo usato questo sistema per più di 1500 anni ed è per questo che è accettato in Cina, Giappone e praticamente in ogni luogo in cui abbia un senso dire che oggi siamo nel 2011. La Bbc deve smettere di spendere tempo e denaro su questa insignificante correttezza politica. Bisogna che qualcuno esca dal corridoio e trovi la persona che ha fatto passare questo editto e gli dia un simbolico calcio nel sedere. So che può sembrare una cosa triviale da capire, ma da triviale si passa a triviale. Sollecito tutti i lettori a impugnare la loro stilografica per scrivere o mandare email a Mark Thompson e Lord Patten. Reagiamo a questa stupidaggine della Bbc.

ro che si dedicano all’attività politica, ed altrettanto quello che il laicato cristiano italiano recuperi capacità corale di iniziativa. La Dottrina Sociale della Chiesa non è un corpus che possa essere rinchiuso in qualche scaffale accademico: è un’ispirazione per l’agire concreto. Essa si indirizza in modo privilegiato ai laici perché la meditino, la pratichino ed offrano elementi per un suo aggiornamento. Senza l’ascolto del Vangelo e la pratica della Dottrina Sociale della Chiesa si impoverisce la comunità ecclesiale che rischia di ripiegarsi e non comprendere il mondo di oggi.

Per quanto difficile sia la situazione dell’Italia ai vari livelli, e forte il sentimento che il sistema-Paese sia bloccato da alcuni lustri, non perdiamo di vista che il futuro è un ventaglio di possibilità aperte, e dunque che tanto nella politica come nella vita nulla è mai definitivo e le salite sono fatte per essere superate. E’ anche nostro compito rimettere in movimento un paese sfiduciato, ridando spinta a tanti tentati dalle passioni tristi del disincanto, dell’indifferenza, della delusione, del ripiegamento nel “proprio particolare”. Occorre che i credenti oggi assumano una responsabilità ed un coraggio maggiori rispetto agli ultimi decenni nei campi del lavoro, impresa, società, volontariato, partiti, istituzioni. La Dottrina Sociale della Chiesa è indirizzata in specie al laicato cristiano, e dunque non solo richiede ma esige un suo nuovo protagonismo. Non è desiderio vano proporre la Dottrina Sociale della Chiesa come guida per il rinnovamento morale e civile della vita nazionale: tale dottrina, come dice monsignor Mariano Crociata, «costituisce una preziosa piattaforma di orientamenti e di criteri condivisi sulla base dell’unica fede e del giudizio credente via via maturato sulla realtà sociale sotto la guida del magistero». Nella Dottrina Sociale della Chiesa si esprimono la passione per l’uomo nella sequela di Gesù Cristo, Verbo incarnato che dà luce all’intera creazione, ed un patrimonio lungamente elaborato e lungamente saggiato in rapporto alla realtà. La Dottrina Sociale della Chiesa non può essere accostata solo come una teoria sociale tra le altre, ma come un patrimonio vivente e ‘incarnato’ che richiede nelle persone che le si accostano lo sviluppo delle virtù morali, una spiritualità di presenza entro le situazioni, umiltà. Per quanto concerne i credenti ricordo una frase di Fioretta Mazzei, amica e discepola di Giorgio La Pira: L’Eucarestia è il centro; è il centro anche della politica, è e deve essere segno di unità. Bisogna dunque trovare nella comunione eucaristica (ed in quella ecclesiale) il vero nutrimento ultimo.


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politica

«Nei prossimi anni il Mezzogiorno perderà due milioni e mezzo dei giovani». Intanto il governo promuove l’ennesimo ordine professionale ma in Aula va sotto

Una pace armata

Faccia a faccia tra Berlusconi e Tremonti sullo sviluppo Ma lo Svimez accusa: «Così avete dimenticato il Sud» di Francesco Pacifico

ROMA. Un armistizio per tranquillizzare i mercati e per affrontare le scadenze che più spaventano la maggioranza. Cioè la sfiducia a Saverio Romano, la sentenza Mills o sempre più possibile referendum sulla legge elettorale. Accordo che garantisce a Silvio Berlusconi di guidare le operazioni per rimettere in moto il Paese e a Giulio Tremonti di scrivere ogni parola del famigerato Piano per la crescita, rigettando le richieste dei suoi colleghi e le velleità del Pdl. Agli stessi che in questi giorni gli hanno chiesto la testa del ministro, il presidente del Consiglio ieri avrebbe replicato: «Qui non c’era bisogno di fare nessuna pace, perché non c’era nessuna guerra».

Fatto sta però che dall’incontro di due debolezze, ieri a Palazzo Grazioli premier e titolare dell’Economia non potevano che stringere un patto fragile, con l’obiettivo persino di garantire al governo l’arrivo a fine legislatura. «Perché il premier», spiega un esponente del Pdl, «non vuole perdere il suo migliore scudo giudiziario che è la permanenza a Palazzo Chigi. Mentre il ministro sa bene che difficilmente, e ancor di più dopo l’affaire Milanese, ha chance di reciclarsi come risorsa della Repubblica in un governo di unità nazionale o peggio ancora guidato dalle opposizioni». Il tutto mentre il Paese reale sembra andare in un’altra direzione: le retribuzioni in un anno sono salite soltanto del 1,7 per cento (nel pubblico impiego dalla manovra tartassato dell’1,3) mentre l’inflazione corre al 2,6; la speculazione, con lo spread tra Btp e Bund a quota 365 punti e Piazza Affari a +4,3 per cento, concede una tregua in attesa del maxipiano per salvare l’euro; i franchi tiratori in Parlamento fanno saltare l’istituzione dell’ordine degli odontoiatri e il Mezzogiorno, come ha certificato lo Svimez, ha visto fuggire negli ultimi dieci 600mila giovani. Sia cervelli sia braccia. Luca Bianchi, vicedirettore dell’istituto che si occupa di Sud, dice che «nell’ultimo anno la crisi del Nord ha

Il Cavaliere verso una nuova accusa. E intanto passa a Bari l’inchiesta su Tarantini

Le procure contro il premier: «Sapeva che erano escort» di Marco Palombi

ROMA. Ennesimo (quasi) colpo di scena nell’ultima vicenda penale che vede coinvolto Silvio Berlusconi. Il Cavaliere non è più - a stare all’ordinanza del giudice del riesame di Napoli - la vittima di un’estorsione ai suoi danni organizzata daValter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per via della sua passionaccia senile per la patonza. No, no. Il presidente del Consiglio è il presunto colpevole di aver indotto Tarantini a rendere falsa testimonianza in Tribunale in cambio di soldi (il giovane ex imprenditore barese è stato infatti rilasciato perché la sua condotta non sarebbe penalmente perseguibile). Quanto al giornalista, procacciatore d’affari, rappresentante ittico, nonché latitante,Valter Lavitola, resta un ricercato: per i magistrati ha commesso il reato insieme al premier. Curiosamente i giudici del Riesame – al contrario della loro collega per le indagini preliminari, che aveva inviato gli atti a Roma – hanno deciso che la competenza dell’inchiesta è della Procura di Bari, dove tutto era iniziato con le scorribande di Gianpi, dei suoi amici e delle sue amiche, Patrizia D’Addario in testa. Scrivono i giudici: «La condotta processuale fin dall’origine assunta da Tarantini (cioè a Bari, ndr), volta a tenere il più possibile “indenne” il presidente del Consiglio da verosimili danni alla sua immagine pubblica derivanti dalla divulgazione dei risvolti più “sconvenienti” del processo è stata indotta dalla promessa (anche tacita o facta concludentia quali la nomina e la retribuzione di un avvocato indicato dal suo entourage) da parte del premier di ‘farsi carico’ della situazione di Tarantini». Questo perché, dice il Riesame napoletano, dalle carte si evince che «Silvio Berlusconi era pienamente consapevole» che le ragazze portate nelle sue residenze da Gianpi «erano delle escort» e non è stato dunque affatto raggirato dal suo giovane sodale. Le prove? Alla stessa Patrizia D’Addario, in una telefonata, Tarantini esprime il suo stupore per il fatto che il premier non la abbia pagata: «Mi dispiace che non hai preso niente – si rammarica lui - però guarda, è la prima volta che succede, io avrò portato cento donne…». Se Gianpi va a casa sua, dove ritrova anche la moglie Nicla, scarcerata pure lei, Lavitola dovrebbe andare in galera (invece resta latitante come consigliato dal premier): per lui, infatti, «esiste un elevatissimo rischio di recidiva, avendo l’indagato dimostrato la propria capacità di conti-

nuare a delinquere pur trovandosi dall’altro capo del mondo».

Il direttore dell’Avanti, dicono i giudici del Riesame, è «una personalità assolutamente allarmante», tanto che è riuscito a gabbare sia la vittima Tarantini che il correo Berlusconi, intascandosi senza starci troppo a pensare soldi del secondo destinati al primo. Sconfessata insomma l’impostazione dei pm napoletani e confermata per via laterale, si dice in Transatlantico, la tesi del Cavaliere: mi vogliono interrogare come testimone senza avvocati e accusarmi subito dopo anche di falsa testimonianza. Solo che adesso il bailamme giudiziario si complica anche di più: Bari è titolare dell’inchiesta perché l’ha deciso il Tribunale del Riesame di Napoli, ma anche Roma è titolare dell’inchiesta perché l’ha deciso un giudice, quello per le indagini preliminari sempre di Napoli. Finito? Macché. Anche la Procura di Napoli ha dire delle cose e in particolare che l’inchiesta è sua: l’ha iniziata lei e vuole proseguirla anche se non è chiaro il motivo per cui il capoluogo campano sia connesso con questi eventuali reati. Il casino si complica ulteriormente se si tiene conto che i pubblici ministeri del capoluogo pugliese sono guidati da Antonio Laudati, che è sotto inchiesta a Lecce proprio perché avrebbe tentato di insabbiare l’inchiesta sulle prostitute del Cavaliere (lo sostiene il pm Scelsi, che ne fu il primo titolare). Basterebbe così, ma il cortocircuito lungo l’asse NapoliBari-Roma rischia di arrivare fino in Lombardia: anche la Procura di Monza ritiene di avere diritto a mettere il naso nelle carte su Gianpi visto che l’intraprendente ragazzo barese avrebbe avuto un ruolo anche nel cosiddetto “sistema Sesto”, quello che coinvolge l’ex braccio destro di Bersani, Filippo Penati.

Tra Roma, Napoli e il capoluogo pugliese ormai è sfida aperta per gestire l’inchiesta. Ma anche Monza ha chiesto le carte sul «sistema Sesto»

frenato questa corsa. Ma continua invece invariato l’esodo di laureati. La Banca d’Italia ha spiegato che alzare di un decina d’unità la scolarità nelle aziende, fa aumentare di mezzo punto la produttività. Per difetto potremmo dire che per questo esodo il Sud ogni anno perde due punti di Pil, non pochi se si pensa che a fine anno crescerà soltanto dello 0,1 per cento». Mentre Domenico Arcuri, ad di Invitalia nonché in gioventù brillante calabrese costretto a emigrare in giro per l’Italia e


politica

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Europa e Usa sono legati a doppio filo nell’affrontare la bufera

«L’Occidente è in crisi: abbiamo speso troppo» «La politica ha smesso di occuparsi di economia: il caso-Grecia insegna»: parla Joseph LaPalombara di Martha Nunziata

ROMA. Il vertice del Fmi ha messo a confron-

per l’Europa, se la prende «con l’assenza di orientamento universitario. Alcune facoltà al Sud dovrebbero chiudere. Senza contare l’alto costo del lavoro: un importante amministratore delegato dell’Itc italiano è venuto da me annunciadomi di voler aprire un sede al Sud dando 600 posti di lavori, ma non può farlo perché gli costerebbe il doppio che in India». In quest’ottica Berlusconi e Tremonti

sconi aveva fatto trapelare «la voglia di licenziarlo». Atteso per l’opera di pranzo, ieri Tremonti si sarebbe presentato a Palazzo Grazioli con un atteggiamento più dimesso. E avrebbe spiegato al premier di comprendere le sue esigenze, ma di non potere accettare ogni richiesta della maggioranza per mancanza di risorse. Di conseguenza, bisogna accontentarsi di un pacchetto realiz-

Salta la cabina di regia sull’economia chiesta dal Pdl. Malumori nel partito, stanco e deluso dall’atteggiamento del premier. Ma il ministro del Tesoro dovrà confrontarsi con Gianni Letta hanno deciso che il tavolo della crescita resta in via XX settembre e che non ci sarà alcuna cabina di regia. Ma il ministro deve accettare un costante confronto con Gianni Letta su ogni misura (il sottosegretario sarà oggi presente al vertice con Confindustria e Abi per il piano) e permettere al premier di avallare pubblicamente o meno le misure. Non a caso domani è pronto a catalizzare tutte le attenzioni al seminario sulle dismissioni immobiliari, in agenda nella sede del Tesoro. Ma per capire chi vince e chi perde tra i due duellanti, è indispensabile ricordare i Galan che chiedevano «lo spacchettamento delle deleghe» e un «commissariamento del ministro» o i Crosetto convinti che il nostro doveva «soltanto mettere la firma su un decreto che però fa il governo». E chiaramente il silenzio del tributarista, soprattutto dopo che Berlu-

zato per lo più sbloccando vecchi fondi Cipe per le infrastrutture, estendendo le dismissioni sul modello già utilizzato per le caserme e accelerando sulle liberalizzazioni.

Deluso, e non poco, sembra il partito. Nei prossimi giorni dai gruppi di Camera e Senato partiranno non poche proposte in direzione del Tesoro. Allo stesso modo va avanti il fuoco di sbarramento dei ministeri per limitare i tagli lineari previsti in manovra o per inserire fondi per altre infrastrutture strategiche, compresa la banda larga. Ma c’è anche chi ipotizza il tentativo di spingere il governo a realizzare un condono, anche se meno eclatante di quelli fatti in passato. Si vocifera di una sanatoria onerosa sui contenzioni con le Entrate. Tremonti sarebbe contrario, ma al Tesoro non mancherebbero simulazioni in questa direzione.

to Stati Uniti ed Europa, i due giganti in crisi, costretti ad ammettere di non rappresentare più il faro economico, anche di fronte ai paesi emergenti. Liberal ne ha discusso con Joseph LaPalombara, professore emerito di Scienze Politiche dell’Università di Yale e famoso politologo. Professore, gli errori della politica economica che hanno portato alla crisi mondiale nascono dalla recessione americana, dal 2008 fallimento della Lehman Brothers, o provengono dall’Europa? È ovviamente difficile, non trattandosi di scienze esatte, porre l’accento su una sola causa. Per quanto riguarda gli Usa, io darei la “colpa” a fattori come l’avidità fuori controllo in tutto il settore finanziario. Politiche economiche effettuate durante il mandato presidenziale di Clinton, in particolare l’abolizione della legge che impediva ad una banca di essere simultaneamente di tipo “savings” e tipo “investment.” E poi le politiche di Bush, che da una parte, aveva azzerato surplus di 2mila miliardi di dollari lasciati da Clinton, dall’altra aveva mandato alle stelle la spesa pubblica, in guerre sbagliate in Afghanistan ed Iraq, creando un deficit senza precedenti nella storia americana. E poi le nostre banche, che si sono messe a creare quella montagna di mutui sub-prime: siamo come una famiglia che ha speso molto più di quello che si portava a casa, e questo è il risultato. Obama dice che l’aumento delle tasse sui redditi più alti non è “lotta di classe” ma semplice matematica, dai Repubblicani e dalla frangia oltranzista dei Tea party, rispondono che il “Buffet Rule” è invece lotta di classe. Chi ha ragione e chi vincerà questa battaglia? La campagna elettorale presidenziale, da noi, è ormai già partita da qualche mese. I Repubblicani, che sono ora in maggioranza alla Camera si sono convinti che Obama sia altamente vulnerabile e che, per questa ragione, sarà uno di loro ad occupare la Casa Bianca nel gennaio del 2013. Il loro giudizio sulla “Buffett Rule” è pura propaganda politica, e non altro. Pensare che la formula giusta sia solo la cura di cavallo che vorrebbero coloro che si oppongono ferocemente al “Buffett Rule, cioè fare solo tagli alla spesa pubblica senza nessun

aumento fiscale, è proporre una politica destinata a regalarci almeno un decennio di sviluppo piatto, come il Giappone degli anni recenti. Ma la crisi economica mondiale potrebbe essere solo un effetto voluto dalle agenzie di rating per screditare alcuni paesi? Siamo in ritardo per capire la necessità di disciplinare le agenzie di rating, così come siamo in ritardo nel riconoscere che tra queste agenzie e certi loro clienti si sia sviluppato un rapporto simbiotico. E siamo troppo disposti, ad esempio, a dare la colpa della crisi greca alla loro classe politica: però ben poco si è detto, e meno si è fatto con quegli esperti che si sono messi ad insegnare al governo greco come effettuare questa “truffa”. Negli anni Sessanta, per le tensioni razziali e la guerra del Vietnam, le metropolitane americane si trasformarono in campi di battaglia. Il sindaco di New York Bloomberg, ha parlato di nuovi rischi di proteste: “è accaduto anche a Madrid e al Cairo, stiamo attenti”; è uno scenario allarmista? Mi sembra esagerata la paura di Bloomberg. Però attraversiamo un momento di tali manchevolezze da parte dei nostri governanti, incapaci di prevedere vari tipi di “disastri,” che pur per evitare di cadere nella stessa condizione, rischiano di esagerare. Mio giudizio? Da noi, momenti come quelli visti in Nordafrica sono rari. Obama adesso deve preoccuparsi anche della campagna elettorale: perché il suo calo nei sondaggi è al minimo storico della sua presidenza? Quanto è ancora forte la sua leadership nel partito democratico? Sono molti i democratici diventati critici nel confronti del Presidente e non c’è il minimo dubbio che la sua leadership sia molto indebolita, tanto che non vengono pesati ed apprezzati come si dovrebbe parecchi dei suoi successi, come la gestione della crisi del 2008, la riforma sanitaria, i nuovi, anche se insufficienti, regolamenti del settore della finanza. Però paga troppi compromessi, e la troppo semplicistica idea che sia sempre possibile trovare un punto di equilibrio, a favore del paese, nella lotta tra i due partiti. Ora, per la prima volta, sfida i Repubblicani con la “Buffett Rule”, ma mi sembra troppo in ritardo.

I Repubblicani attaccano la «Buffett Rule» per partito preso, ma Obama paga i troppi compromessi della sua gestione


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os’hanno in comune un tempio buddista dell’Henan, l’eremo di un lama a Dharamsala e Montecitorio? Nonostante le distanze geografiche, sociali e religiose siano immense, sono tutti luoghi in cui si parla di dimissioni. Ma soltanto nell’ultimo, il Palazzo del potere italiano, la parola è un tabù: perché nei primi due essa è invece invocata per salvare tradizioni e rituali estremamente più importanti dei singoli personaggi che di volta in volta li mettono in pratica. Il punto più caldo di questo panorama, al momento, è sicuramente l’eremo di Dharamsala. Nel monastero dove vive in esilio il Dalai Lama, infatti, si è consumato nei giorni scorsi l’ultimo atto di una guerra silenziosa che contrappone il leader della “setta della sciarpa gialla”al governo comunista di Pechino. Che, per spezzare del tutto la resistenza popolare in Tibet, non vede l’ora di mettere le mani sul prossimo Dalai Lama. Per evitare questa situazione, che sarebbe disastrosa per la teologia buddista e per la gestione della diaspora tibetana, il Nobel per la Pace si è dimesso dal ruolo di primo ministro del Tibet alcuni mesi fa: facendo eleggere dal popolo il suo successore, ha sancito l’impossibilità cinese di mettere le mani su quella poltrona. Ma è andato, nei giorni scorsi, ancora oltre: nel corso di un incontro con i vertici religiosi locali, ha chiarito che il governo cinese “non ha alcun potere sulle reincarnazioni dei buddha viventi”e che quella del Dalai Lama «è un’istituzione sulla quale soltanto io posso decidere. E lo farò, ma quando avrò 90 anni: sono ancora in salute». Il 76enne leader religioso ha chiarito una volta per sempre su chi dovrà scegliere e riconoscere il suo successore, ricordando alle autorità cinesi che «l’ultima parola sulla nomina della nuova guida spirituale dei tibetani non spetta certo a Pechino. Consulterò i grandi lama della tradizione buddista tibetana, il popolo del Tibet e altri fedeli e procederò a una rivalutazione dell’istituzione del Dalai Lama per decidere se debba essere tramandata o meno».

C

Chi detiene un potere dovrebbe sapere quando è il momento di fare un pa quali possa essere identificato come la reincarnazione dell’ultima guida spirituale; tuttavia il Dalai Lama aveva ipotizzato in passato una rottura di tale tradizione scegliendo un successore prima della sua morte o fra i tibetani in esilio, oppure mediante un’elezione.

Proprio su questa tradizione ha reagito il governo cinese, ateo e comunista. Secondo il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Hong Lei, «il XIV Dalai Lama è stato approvato dal governo. E nessun leader buddista ha mai identificato la propria reincarnazione o scelto il suo successore». Per questo, Tenzin Gyatso ha spiegato che potrebbe ricorrere all’emanazione, un termine teologicamente corretto per rinunciare al suo ruolo anche spirituale e passarlo a un’altra persona. Delle dimissioni totali, quasi uno snaturamento della propria esistenza, in nome di un bene comune maggiore.

Nessuno metterà in pericolo il buddismo: lascio e lo difendo

Ma – ha sottolineato ancora il Nobel per la Pace – «al di fuori della reincarnazione, accertata con metodi legittimi, nessun candidato può pretendere un riconoscimento qualora sia stato scelto per fini politici da chicchessia, compresi coloro che si trovano nella Repubblica Popolare Cinese». Il Dalai Lama ha poi concluso chiarendo che la sua prossima reincarnazione “è un affare solo mio”e che “nessuno ha il diritto di interferire”. In base alla tradizione tibetana, dopo la morte dell’attuale Dalai Lama, i monaci dovranno identificare un bambino che presenti dei segni mediante i

La seconda storia viene da non molto lontano. È infatti infuocata la polemica su Shi Yongxin, abate del tempio buddista (non tibetano) di Shaolin, che ha accettato in dono una tunica tessuta con seta ed oro e stimata non meno di 160mila yuan (circa 16.600 euro). Sempre da più parti il monaco è contestato per avere trasformato la vita modesta e meditativa del tempio in un ricco business. La tunica è stata fatta dal Nanjing Yunjin Fabrics Research Institute, è tessuta con una seta speciale e ha elaborati ricami di temi buddisti, quali il fiore di loto e l’om rituale. Fonti di stampa hanno riportato che contiene fili d’oro per un valore di 50mila yuan. Un portavoce del monastero si ribella alle critiche, osservando che non si può colpevolizzare Shi solo per avere accettato un dono ed è verosimile che non indossi la veste ma la custodisca e la tramandi tra le proprietà del tempio. Ma altri osservano che l’abate Shi non è nuovo a simili polemiche. Nel 2006 ha accettato in dono dal governo locale un lussuoso SUV da un milione di yuan, per il suo contributo all’incremento del turismo nella provincia e nella Cina.

Nell’aprile 2008 il tempio è stato di nuovo criticato per avere speso 430mila dollari per realizzare lussuosi gabinetti. Shi è da molti accusato di avere sfruttato la fama mondiale del monastero, culla della pratica spirituale buddista e fisica del kung-fu, per trasformarlo in un’attrazione turistica a livello mondiale da sfruttare in vario modo, persino con spettacoli teatrali, film e vendite di prodotti “tipici” via internet. Tuttavia

Dal Dalai Lama al capo Shaolin, sono numerosi i casi di leader (spirituali e politici) pronti a lasciare per il bene comune. Una lezione che l’Italia ignora A sinistra il Dalai Lama; in basso il ministro Saverio Romano; nella pagina a fianco, in alto il premier Silvio Berlusconi; in basso l’abate Shaolin Shi Yongxin

Parola-chi molti dicono che in questo modo ne ha compromessa l’originaria finalità religiosa. Egli è anche ritenuto amare la vita mondana più che quella frugale e meditativa dei monaci ed è stato spesso vi-

(Cts, colosso nel settore del turismo cinese) ha annunciato di aver aperto una trattativa con la municipalità di Dengfeng, nell’Henan, per trasformare l’antico monastero di Shaolin città in una marca di grande successo. L’incontro è stato confermato dai dirigenti comuna-

Le accuse contro di me sono strumentali, mirano al governo

“ sto in compagnia di politici, ricchi imprenditori e celebrità. Tanto che è arrivata la batosta: la China Travel Service

li, che hanno però sottolineato di “non aver ancora firmato alcun contratto con la società”. La branca di Hong Kong della Cts è incaricata di portare avanti l’affare. Secondo i particolari disponibili, il monastero non farebbe parte della futu-


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asso indietro: ovvero quando si mette a rischio la stabilità della situazione

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sarà guerra di numeri in Parlamento. Il voto sulla mozione di sfiducia che riguarda il ministro delle Politiche Agricole è stato richiesto perché su Romano pende una richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione

Non lascerò la carica senza la sfiducia delle due Camere

iave: dimissioni di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ra joint venture e il suo abate sarebbe stato tenuto all’oscuro dei negoziati.Tuttavia, molti fedeli buddisti della zona lo accusano di essere il vero promotore dell’iniziativa. Il primo incontro per la nuova compagnia è avvenuto il 9 dicembre: secondo il Bejing News, i diritti di ingresso nel monastero e lo sfruttamento dei suggestivi scenari del monte Song – dove sorge il luogo religioso – si aggirano sui 49 milioni di yuan [circa 5 milioni di euro]. Il governo di Dengfeng ha diritto al 49% del totale. L’affare sembra però essere al ribasso: lo scorso anno, soltanto di biglietti di ingresso, il monastero ha incassato 10 milioni di euro. Tuttavia, l’affare non è passato inosservato neanche nell’atea Cina: il monastero di Shaolin, vecchio di 1.500 anni, è considerato un luogo di interesse nazionale e quindi non dovrebbe arricchire nessuno in particolare.

Patria del kung fu e culla del buddismo zen, si è trasformato negli anni in un luogo di attrazione turistica e set cinematografico. Il suo giro d’affari comprende persino la produzione di medicinali, oltre ovviamente ai celebri monaci che girano spesso il mondo per tour e spettacoli sulla loro arte marziale. Molti

pensano che dietro a questa mutazione del monastero, da luogo di preghiera a parco divertimenti, ci sia l’abate Shi. Da parte sua, il religioso nega tutte le accuse. Dopo 11 mesi di polemiche, ha restituito la veste d’oro (ma non il suv).

hanno semplicemente deposto. È ancora l’abate, ma non ha poteri temporali o spirituali. Il terzo atto di questa storia si svolge in-

La mia posizione non permette ombre: mollo

In un’intervista alla televisione dell’Hunan ha detto di non avere alcuna intenzione di vendere o svendere il monastero, che “ospita un’eredità culturale inestimabile”. Ma i suoi monaci non lo tollerano più, e ne hanno chiesto le dimissioni: quando questi ha rifiutato, lo

vece a Roma, lontana migliaia di chilometri dai luoghi sopradescritti. Oggi, infatti, si vota a Montecitorio la sfiducia al ministro Francesco Saverio Romano, e

mafiosa. E se la Lega ha fatto sapere che, come per Milanese, appoggerà in Aula gli alleati, il segretario del Pri Francesco Nucara ha annunciato invece, attraverso una nota, che è orientato a votare la sfiducia. Romano «farebbe bene a dimettersi prima, visto il tipo di reato di cui è accusato», ha detto Nucara ricordando di aver votato «a luglio contro l’arresto del deputato Papa e contro quello di Milanese la scorsa settimana» e anticipando che in questo caso non è disposto a sostenere il governo. «Ritengo che in questo caso dovrò votare la sfiducia», è la posizione del segretario Pri. Mentre lui sostiene che «anche qualcuno dell’opposizione mi darà fiducia». E tanti saluti all’integrità della propria posizione.

Ma se, dopo Papa e Milanese, quello di Romano è soltanto un caso come molti altri – fatta salva ovviamente la presunzione d’innocenza nei confronti del ministro – la figura del presidente del Consiglio è forse quella che più si avvicina ai due casi asiatici. Lungi dal voler paragonare il Dalai Lama a Silvio Berlusconi – viene più in mente l’accostamento con l’abate – si può pensare che il primo (per sua scelta) e il secondo (per costrizione dei suoi monaci) hanno deciso di fare un passo indietro di rilevante portata per salvaguardare ciò che erano stati chiamati a custodire. Il Cavaliere, invece, questa sensazione proprio non ce l’ha. E l’Italia attenderà invano delle dimissioni salvifiche. Anche se forse dovrebbero essere i fedelissimi del premier che, come i monaci, decidono di prendere in mano la situazione.


mondo

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L’Occidente continua a promettere che il nuovo governo sarà laico. Ma, Carta alla mano, le nuove regole avvicinano Tripoli più a Ryad...

Nubi Nubi sul sul futuro futuro della della Libia Libia La Costituzione provvisoria contempla la Shari’a in almeno tre articoli. Inutile far finta di niente di Luisa Arezzo irte, città natale di Muammar Gheddafi e uno degli ultimi bastioni del regime, si avvierebbe alla capitolazione. Il se, visto il continuo valzer di notizie, è ormai d’obbligo. Il Cnt, che ieri all’alba ha annunciato la conquista da parte dei ribelli del porto cittadino, ha fatto sapere di contare sulla sua definitiva caduta entro 48 ore. Mentre un comandante delle truppe del Cnt ha fatto sapere di aver offerto un salvacondotto ai familiari delle tribù rimaste fedeli al Colonnello. Che proprio ieri è tornato a far sentire la sua voce grazie una radio di Bani Walid, dicendosi pronto a morire con il suo popolo: «Ci sono eroi che resisterono e caddero come martiri, e anche noi aspettiamo il martirio, ha detto l’ex Raìs. Mentono quando dicono che sono fuggito il Nigeria o in Venezuela. Voglio morire nel mio Paese come un martire». Una retorica punto diversa rispetto ai messaggi passati, la prima che in qualche misura riconosce una possibile disfatta. Ma se le operazioni militari vanno faticosamente avanti, in questa guerra al contagocce che si allunga di giorno in giorno, quelle “civili”

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stentano a decollare. Tanto per cominciare, non c’è ancora nessuna traccia del nuovo governo provvisorio, che solo pochi giorni fa a New York era stato dato (per la seconda volta) per certo e imminente sia da Jibril che da Jalil. La data del“varo”slitta continuamente perché i dirigenti del Cnt non sono ancora in grado di superare le dispute regionali sulla composizione dell’esecutivo: i leader di Bengasi, Misurata, Zintan ed altre località ancora, chiedono - in nome delle maggiori perdite patite o di un maggior contributo alla lotta contro Gheddafi - un più elevato numero di rappresentanti.

In alto, un soldato libico con un bambino che sventola la nuova bandiera del Paese. A lato: il segretario del Cnt Jalil. Sotto: Hillary Clinton e Yang Jiechi, ministro degli Esteri cinese

Mentre alcuni gruppi mettono in discussione anche la figura di Mahmoud Jibril, che svolge le funzioni di primo ministro e ministro degli Esteri, per avere vissuto a lungo all’estero negli anni di Gheddafi. I suoi sostenitori, per

contro, rivendicano il ruolo fondamentale di Jibril nella costruzione del sostegno internazionale. L’esecutivo provvisorio, che comunque rimarrebbe in carica solo per gli otto mesi successivi alla dichiarazione ufficiale di liberazione del paese, è ancora in alto mare. Mentre prende sempre più corpo la Costituzione provvisoria della nuova Libia, almeno su alcuni snodi fondamentali. Suscitando non poche perplessità e, diciamolo, anche ansie per il futuro assetto istituzionale e religioso del Paese. Quanto è concreto il pericolo che tra i ribelli prenda piede il fondamen-

Smart power e Subtle power, ovvero la guerra vista da Usa e Cina

Il mondo si divide fra “svegli” e “subdoli” di Maurizio Stefanini li americani che hanno fatto agire i francesi e gli inglesi; la Cina che allo stesso tempo forniva armi a Gheddafi e comprava petrolio ai ribelli. Proprio il contegno delle due maggiori potenze mondiali nei confronti del conflitto in Libia possono essere considerati un esempio sul campo del grande duello tra lo smart power di Washington e il subtle power di Pechino: i due pensieri strategici alla base del “mondo liquido” descritto in Nomos & Kaos: il Rapporto Nomisma 20102011 sulle prospettive economico-strategiche dell’Osservatorio Scenari strategici e di Sicurezza, presentato venerdì a Roma. Il punto di partenza è appunto la famosa analisi sulla postmodernità del sociologo e filosofo inglese, ma di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bauman. Il pensatore secondo il quale la metamorfosi dell’uomo contempo-

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raneo da produttore a consumatore ha generato una grande incertezza. Conseguenza di quella deregulation con cui comunque il modello reaganiano-thatcheriano era riuscito a porre fine alla stagflazione e anche a sconfiggere il sistema sovietico, la rivoluzione “liquida” è via via passata dalla sfera economico-finanziaria alla politica. Per questo, le intelligence mondiali non sono riuscite a prevedere l’ondata delle rivoluzioni arabe: un movimento in cui ha avuto un ruolo scatenante una tecnologia tipicamente “liquida”come il web 2.0. La prima rivoluzione della storia in cui l’assalto al potere è stato coordinato via cellulare. Ma sul liquido hanno osservato i presentatori del rapporto, è difficile imporre relazioni di forza. Il mare non si conquista, e l’ammiraglio Persano che dopo Lissa disse che pur avendo perso due navi era rimasto “padrone del-

le acque”finì infatti sotto processo. Sul liquido, piuttosto, bisogna stabilire rotte, e proteggerle. Ormai, anche in senso letterale, visto l’allarme pirateria.

Dopo che l’Amministrazione di George W. Bush aveva espresso il più efficiente degli hard power nel regolare in tempi brevissimi i regimi dei Taleban in Afghanistan e di Saddam Hussein in Iraq ma si era trovata in crisi per difetto di soft power nel regolare i rispettivi dopoguerra, si era previsto che il passaggio a Barack Obama potesse appunto esprimersi nei termini di un ritorno dall’hard power al soft power. Ma piuttosto si è andati invece verso il nuovo concetto di smart power. Joseph Nye, il docente di Harvard che a partire da un suo articolo del 1990 sull’Atlantic Monthly aveva lanciato il concetto di soft power, nel suo


mondo smo, ma un dato è certo: tra i ribelli ci sono diverse fazioni: i nazionalisti, ben visti dall’Occidente, che hanno un modo di vedere simile a quello di Gheddafi, vogliono uno Stato laico ma non saranno in grado di giocare un ruolo importante nella nuova Libia.

Sul terreno, invece, ci sono diversi movimenti di ispirazione religiosa: i salafiti, che si trovano soprattutto a Tripoli; i Fratelli musulmani, che sono la maggioranza, e poi i Sufi che giocano un ruolo importante in Cirenaica e nelle tribù del deserto. Non bisogna infatti dimenticare che la Libia è un paese profondamente religioso e con la guerra questo aspetto si è radicato ulteriormente. E purtroppo, i gruppi salafiti, che sono i più estremisti, hanno una grande influenza. Sarebbe cieco non vedere che il paese non sta andando verso uno sviluppo laico e democratico. Anzi: la società è arretrata e radicalmente islamica. Mahmud

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riconosciuta ai non musulmani di praticare la propria religione. Perché detta così evoca, e nemmeno alla lontana, la dhimmitudine. Da Dhimmi, ovvero lo status giuridico riconosciuto ai non-musulmani che vivono in un sistema politico governato dal diritto musulmano. L’articolo 1, e questo va sottolineato, accetta una delle principali istanze della popolazione berbera (il cui appoggio ha consentito la caduta di Tripoli): considerando i diritti culturali di tutti i componenti della società libica, e considerando le loro lingue come lingue nazionali, la futura Carta si allinea a quella recentissima del Marocco (approvata con referendum popolare il primo luglio scorso) che prevede il riconoscimento della lingua berbera, come altra lingua ufficiale, insieme all’arabo. L’articolo 5 è invece di più oscura interpretazione, ma certo non lascia presagire il meglio: «La famiglia è la base della società e ricade sotto la protezione dello stato, che difende e

Benché venga riconosciuta la libertà di formare partiti politici e fondare organizzazioni, essa è soggetta a restrizioni nel caso siano contrari alla “moralità pubblica”. Un concetto pericoloso talismo islamico? La bozza della Costituzione (composta da 37 articoli) prevede la Shari’a come fonte di ispirazione della legge. L’articolo 1 cita quanto segue: «La Libia è uno stato indipendente e democratico, il suo popolo è la fonte dell’autorità, la capitale è Tripoli, la religione l’Islam e la Shari’a è la principale fonte della legislazione. Lo stato garantisce ai non musulmani la libertà di praticare la propria religione. La lingua ufficiale è l’arabo. Lo stato libico garantisce i diritti culturali di tutti i componenti della società libica, e considera le loro lingue come lingue nazio-

nali». Così facendo, soprattutto per i suoi riferimenti all’Islam, la Libia si allinea a molte delle Costituzioni dell’area del Nord Africa e del Medioriente: Arabia Saudita, Bahrein, Eau, Oman, Qatar e Siria (ma anche il nuovo Egitto post Mubarak).

Come dire: l’unico paese islamico a cui non è paragonabile è l’Iran, che basa tutte le leggi su criteri islamici e riconosce sul Paese l’esclusiva sovranità di Dio. Per il resto, entra pienamente nel solco dei paesi islamici. Resta da capire se e quanto prenderà piede il fondamentali-

Jibril, il primo ministro del Consiglio transitorio libico, è una persona insediata dalle potenze occidentali e non ha le carte per farsi valere sul serio. Jalil invece è islamico e giocherà sicuramente la sua partita al momento delle elezioni, anche se è un uomo del regime di Gheddafi e prima o poi qualcuno glielo rinfaccerà. A giocare un ruolo fondamentale saranno i personaggi eletti sul territorio. Esattamente quelli che adesso si stanno mettendo di traverso alla nascita dell’esecutivo provvisorio. Non deve poi sfuggire il riferimento, sempre all’articolo 1, alla libertà

ultimissimo saggio The future of Power identifica ora lo smart power come «una strategia liberal-realista, che muove dal riconoscimento che gli Stati Uniti possono influenzare ma non controllare altre parti del mondo, e postula la pratica di un mix di hard e soft attractive power». E Hillary Clinton ha ufficialmente rivendicato il concetto di smart power come nuova dottrina ufficiale della Casa Bianca in una dichiarazione davanti alla Commissione Esteri del Senato, proprio nell’audizione di conferma della sua designazione a Segretario di Stato. «La potenza americana ha lasciato a desiderare, ma rimane molto desiderata. Dobbiamo utilizzare quello che è stato chiamato lo Smart Power, potenza intelligente: l’intera gamma degli strumenti a nostra disposizione – diplomatici, economici, militari, politici, legali e culturali – applicando lo strumento giusto, o combinazione di strumenti, in ciascuna situazione». Sebbene molti abbiano dunque sottolineato le soluzioni di continuità tra Barack Obama e George W. Bush, confrontare queste analisi e dichiarazioni con l’atteggiamento Usa durante la guerra civile libica permettereb-

protegge il matrimonio, garantisce la tutela della maternità, dell’infanzia e degli anziani e veglia sui nascituri». Quest’ultima frase potrebbe evidentemente implicare una regolamentazione in senso restrittivo della possibilità di ricorrere all’aborto, o anche un divieto integrale. Esattamente come avviene negli altri Paesi islamici. L’articolo 7, sui diritti e le libertà pubbliche, affida allo Stato la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, con l’impegno all’adesione ai documenti internazionali in materia, ma anche alla «promulgazione di nuove car-

be di comprendere come Obama abbia in realtà fatto proprio il fine di esportazione della democrazia del suo predecessore.

Ma con mezzi del tutto nuovi, che hanno ottenuto il risultato del regime changing senza però oberare tutto il peso sugli Usa, in termini di costi economici, costi umani e costi di impopolarità. Ma ripartendo il tutto tra forze di terra dei ribelli; aviazioni, marine e forze speciali franco-britanniche e di altri Paesi Nato o perfino arabi; al-Jazeera e

Non solo: il documento prevede che «tutti i diritti e le libertà riconosciute nella Dichiarazione siano soggetti alla Shari’a islamica, unica fonte per l’interpretazione di ciascun articolo della Dichiarazione. Ricapitolando, almeno tre articoli della Costituzione provvisoria fanno esplicito riferimento alla Shari’a. Il che legittima ogni sospetto sulla potenziale deriva islamica del Paese. Passi discutibili vengono fatti anche sulle libertà individuali. Un esempio su tutti. L’articolo 12 prevede che «la vita privata dei cittadini è inviolabile» salvi i casi stabiliti dalla legge: il che significa che per le perquisizioni domiciliari non è richiesto un provvedimento dell’Autorità giudiziaria. Mentre per quanto riguarda la libertà di formazione dei partiti politici, essa è sì una libertà contemplata, ma con il divieto di costituire «associazioni segrete o armate o contrarie all’ordine pubblico o alla moralità pubblica». E si sa che sotto l’indefinibile barriera della moralità pubblica può essere compreso di tutto. Sarà la composizione del nuovo governo, che una volta annunciato entrerà in carica dopo 30 giorni, a far capire dove andrà a posizionarsi la nuova Libia. Ma certo le premesse non sono delle migliori.

quella di un ritiro Usa che “scarichi”il compito di normalizzare il Paese sull’equilibrio dei vicini. Più in generale, l’ipotesi che viene fatta è quella di un passaggio degli Usa da quella che Luttwak definì in un suo bestseller del 1976 La grande strategia dell’Impero Romano, a quella che in un altro bestseller del 2009 ha invece definito La grande strategia dell’Impero Bizantino. Viceversa, il subtle power cinese è stato sintetizzato dal generale Giuseppe Cucchi, l’ideatore di Nomos & Kaos, come: «dove c’è casino la Cina non c’è mai». Corsa al potere e Fuga dall’onere. Il sinologo David Gosset nel suo saggio ha fatto ricorso da un lato all’Arte della guerra di Sun Tzu, secondo cui «la guerra è il Tao dell’inganno» e il miglior condottiero è quello che vince senza combattere; dall’altro al gioco del go, in cui a differenza che negli scacchi, il nemico non è cancellato ma inglobato, per ricostruire le radici culturali di un “potere sottile” basato su tre “assiomi minimalisti”: assenza di confronto, non interferenza, disponibilità al cambiamento del paradigma. Appunto, appoggiare Gheddafi fino all’ultimo, e poi correre subito a fare affari col Cnt.

Le due neo-dottrine strategiche servono non più a governare, ma ad influenzare il “mondo liquido” nel quale ormai viviamo. Il mantra di Pechino? Corsa al potere e fuga dall’onere Qatar; Onu; Ue, Lega Araba; e così via. Il processo è stato molto più lento, ma Gheddafi è caduto lo stesso, nessun americano è morto, le spese sono state più contenute, l’Onu ha appoggiato, e nessuna bandiera a stelle e strisce è stata bruciata in manifestazioni di piazza. Ovviamente, quello libico non è che un caso particolare. In Afghanistan, ad esempio, l’ipotesi di smart power è

te che riconoscano l’uomo come rappresentante di Dio sulla terra». Il riferimento non è certo casuale e si ricollega ad alcuni documenti presenti nell’area islamica, come la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam, approvata dall’Oic il 5 agosto 1990. Il documento offre un catalogo di diritti analogo a quello della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, pur subordinando in più punti (diritto alla vita; libertà di movimento; libertà di opinione) l’esercizio di tali diritti ai principi della legge islamica, la Shari’a.


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grandangolo Il nome è stato coniato nel 2002 dallo storico Van Schendel

Zomia, il Paese che non c’è con 100 milioni di abitanti

Lo Stato, ufficialmente, ancora non esiste. Ma i suoi confini sì. E soprattutto le sue genti: si tratta delle popolazioni indigene che vivono sugli altipiani a cavallo di Vietnam del Nord, Laos, Myanmar, Cina sud-occidentale,Tibet, nord dell’India, Pakistan e Afghanistan. Quattro milioni di chilometri quadrati per una etnia che non è mai stata assimilata dagli Stati tra cui sarebbe, teoricamente, divisa di Maurizio Stefanini o spettro di Zomia incombe sull’Asia. Nel 2002 Willelm van Schendel, uno storico dell’Università di Amsterdam, inventò questo termine per indicare una zona montuosa dell’Asia sudOrientale che, secondo lui, era popolata da genti che storicamente avevano sempre cercato di sfuggire al controllo che avevano provato a esercitare su di loro gli Stati costruiti da etnie delle pianure circostanti, e in genere ci erano riuscite. Origine del nome: Zomi, un termine per indicare gli abitanti degli Altipiani comune a molte lingue del gruppo tibeto-birmano, parlate nella zona dove si incontrano i confini di India, Bangladesh e Myanmar. Confini di Zomia: variamente discussi da vari studiosi, ma andrebbero sicuramente dagli altopiani del Vietnam del Nord e del Laos fino allo stato Shan di Myanmar, alle montagne della Cina Sud-Occidentale. Alcuni la estendono però fino al Tibet, al Nord dell’India, al Pakistan e all’Afghanistan. Un’estensione di quasi 4 milioni di Km2. Caratteristica di Zomia: la presenza di un territorio scosceso che ha permesso alle etnie che abitavano di preservare la propria cultura origi-

L

naria, salvaguardandola dalle influenze omogeneizzatrici degli Stati tra cui sarebbe teoricamente divisa. Si parva licet, anche l’autore di queste note nella seconda metà degli anni ’90 aveva redatto per una rivista specializzata una serie di saggi in cui aveva esaminato tutti i popoli indigeni della Terra divisi per aree geografi-

James C. Scott, professore a Yale, nel 2009 ha delineato l’ideale repubblica anarchica che, sforzandosi non solo di censirli, ma anche di individuare da una parte il modo in cui le legislazioni dei vari Stati avevano cercato di inquadrare la propria specificità; dall’altro le circostanze storiche che avevano determinato quella identità “indigena”. Può essere forse interessante fare una lunga citazio-

ne dall’introduzione della quinta puntata, che era dedicata all’Indocina. «Col termine“Indocina” intendiamo l’area geografica costituita da questi cinque paesi: Repubblica Federale di Myanmar; Regno di Thailandia; Regno di Cambogia; Repubblica Democratica Popolare del Laos; Repubblica Socialista del Vietnam. La denominazione della regione, inventata nel XIX secolo dal geografo francese Malte Brun, esprime il punto di vista dei viaggiatori occidentali di fronte a paesi “minori” considerati solo in quanto immensa zona di transizione tra i due colossi dell’India e della Cina. Tuttavia, non è arbitraria.

A parte la posizione geografica, la cultura stessa di questi cinque stati deriva in gran parte da influenze indiane e cinesi, anche se le prime tendono a ridursi man mano che si procede da ovest a est, e le seconde man mano che si procede da est a ovest. Ma il termine “Indocina” acquista una connotazione particolare se si considera il particolare punto di vista della “questione indigena”. A ognuno di questi stati, infatti, corrisponde un’etnia maggioritaria: birmani; thai; khmer; lao; viet. Ma birma-

ni, thai e lao sono popoli indigeni dell’attuale Cina che in tempi recenti sono stati espulsi dalle loro terre d’origine in seguito al processo di espansione della civiltà han, mentre khmer e viet, immigrati in epoca più antica probabilmente per sfuggire alla pressione delle culture dominanti dell’India, dravida e indoeuropea, sono stati trasformati dell’influenza cinese e indiana in modo da divenire differenti dalle altre etnie autoctone. Ecco qui, dunque, un modo di formazione di “etnie indigene” diverso da quelli incontrati nelle precedenti puntate: le invasioni di etnie indo-europee in Americhe, Oceania e Sub-Continente Indiano; l’espansione della cultura han o di quella giapponese cinesizzante in Asia Orientale. In questo caso, abbiamo popoli indigeni che sono stati costretti ad andarsene dalla loro patria ancestrale e a conquistarsene una nuova, riducendo però alla condizione di indigeni i popoli ivi già stanziati». Scritto nel 1998:

non è stato mai tradotto, quindi non abbiamo l’ambizione di aver ispirato van Schendel. L’osservazione viene comunque spontanea a chiunque studi quelle regioni. Anche perché proprio attorno alla contrapposizione tra popoli delle alture e popoli di pianura sono legate alcune delle vicende più sanguinose di quelle terre. L’interminabile guerra civile di Myanmar in particolare: con shan, karen, mon, arakan, pa’o, kachin, wa, kayah, lahu, palaung variamente in rivolta contro i birmani fin dall’indipendenza. E anche prima, se si pensa al modo in cui durante la Seconda Guerra Mondiale si affrontarono nazionalisti birmani filo-giapponesi e milizie shan filo-inglesi. Ma anche in Vietnam le varie etnie collettivamente definite montagnardi e in Laos i hmong parteggiarono con francesi e americani contro il nazionalismo comunista di Vietminh, Vietcong e Pathet Lao.Tuttora i montagnardi in Vietnam sono un focolaio di


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I due colossi asiatici pronti a scaricare l’Occidente in panne

Delhi e Pechino: «Un mercato unico contro la crisi» di Vincenzo Faccioli Pintozzi ndia e Cina, forse, hanno trovato la quadratura del cerchio economico. Le due nazioni, giganti dell’economia non soltanto più asiatica ma mondiale, si sono impegnate a «continuare gli sforzi per aumentare domanda interna, la quale può assicurare stabilità all’economia mondiale». Nel corso di un vertice economico che si è tenuto due giorni fa a Pechino, i due colossi scrivono che «il processo di consolidamento della ripresa non si presenta stabile e neppure equilibrato. I rischi connessi ai debiti sovrani delle economie sviluppate, la grande volatilità finanziaria e del mercato delle materie prime hanno aggiunto nuove incertezze sulle previsioni economiche». Quindi sviluppare i mercati interni è un modo perfetto per salvare la capra della produzione e i cavoli dell’esportazione. La decisione è stata presa nell’ambito della prima edizione del cosiddetto “Dialogo economico strategico”, un incontro bilaterale dedicato alle relazioni commerciali e deciso durante la visita del premier Wen Jiabao in India nel dicembre 2010. Quella è stata una visita fondamentale per la storia dei due Paesi, tecnicamente ancora in guerra per una questione di confine. Oltre agli attesi importanti accordi commerciali, nei tre giorni di visita di Stato si discusse soprattutto dei rapporti tra i 2 Paesi e di questioni internazionali come il Pakistan e il desiderio di New Delhi di avere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

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dissidenza che oltretutto si è convertito in massa al cristianesimo, mentre i hmong dopo aver continuato a lungo la guerriglia contro i comunisti sono emigrati in massa negli Usa: era un giocane hmong il protagonista di Gran Torino di Clint Eastwood. Al contrario, in Thailandia e Cambogia i popoli delle alture locali furono arruolati dalle guerriglie comuniste, e in particolare in Cambogia furono tra le unità più feroci dei khmer rossi.

L’apparente contraddizione si risolve nell’alterità dei popoli delle alture indocinesi rispetto alla ideologia dominante tra i

Il popolo zomi ama essere controcorrente: rifiuta la cultura dominante e sceglie la fuga dalla modernità popoli delle pianure: qualunque essa sia. Van Schendel, però, ha esteso quella contrapposizione tipica dell’Indocina tra popoliStato di pianura e popoli indigeni delle alture praticamente a tutto il cuore dell’Asia. Diventa quindi una categoria in cui inquadrare una quantità di altre questioni: la dissidenza jumma in Bangla Desh, le numerose rivolte tribali dell’India nordorientale, la resistenza anti-cinese in Tibet, perfino il retroterra tribale pashtun del movimento taleban in Aghanistan e Pakistan. Ovviamente il dibattito è continuato, e nel 2009 il James C. Scott, professore e direttore del programma di studi agrari alla Yale University, ne ha fatto un libro in cui ha trasformato

l’osservazione e l’analisi quasi in ideologia. The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia è il titolo: L’Arte di non essere governati: una Storia Anarchica dell’Altopiano dell’Asia Sud-Orientale. Secondo lui, infatti, la continuità di queste culture costruirebbe una ideale controstoria al concetto di modernità dominante: cioè, che una volta conosciuti i vantaggi della vita moderna gli uomini tendono spontaneamente ad assimilarsi. Al contrario, le tribù di Zomia avrebbero scelto coscientemente economie più primitive e autocentrate, apposta per sfuggire alla modernità. Zomia, insomma, secondo Scott sarebbe la più vasta area della Terra in cui gli abitanti non sono stati ancora assorbiti dagli Stati nazionali: anche se questo periodo sta per finire. Una ideale “repubblica anarchica” con 100 milioni di abitanti, la cui intuizione dice di aver elaborato da studi come quelli dell’antropologo francese Pierre Clastres e dello storico Usa Owen Lattimore. Anche se poi dice di essere «il solo che va incolpato di questo libro». Da due anni infatti il dibattito continua, su toni che sono stati riassunti recentemente da The Chronicle of Higher Education: nota rivista del mondo accademico Usa. Anne L. Clunan, direttrice del Center on Contemporary Conflict alla Naval Postgraduate Study e contributrice a un dibattito su Zomia apparso a marzo su Perspectives on Politics, parla del libro di Scott come di un “capolavoro”. Prasenjit Duara, docente alla National University di Singapore, ha invece obiettato che Scott ha attribuito ai popoli di Zomia un po’ troppa consapevolezza. «Un’esagerazione». Una punta di ideologismo può essere certamente riscontrata nel particolare che Scott ha scritto il

suo libro in una fattoria dove alleva mucche, api e galline, e che solo dopo averlo fatto è andato a Myanmar per apprendere il birmano. Tuttavia, anche i critici ringraziano Scott per l’occasione di un dibattito che ha dato di che riflettere a gran parte della comunità di specialisti. Di nuovo, si parva licet, forse il problema non è nell’aver troppo allargato il campo, ma di averlo ristretto. Portando la comparazione a livello mondiale, gran parte dei popoli indigeni sono caratterizzati dall’adattamento a nicchie economiche ed ecologiche estreme che le società dominanti avevano difficoltà a ricoprire.

Sono “popoli delle alture”, in effetti, non solo quelli di Zomia, ma anche gran parte dei popoli indigeni dell’America Latina, i berberi del Nord Africa, le etnie della Cordigliera filippina. E altrove gli indigeni sono “popoli dei deserti”: dai san dell’Africa Australe ai tuareg del Sahara o agli aborigeni australiani. “Popoli dei ghiacci”: dagli inuit ai sami, come rispettivamente si autodefiniscono gli eschimesi e i lapponi. “Popoli delle jungle”: dagli indios dell’Amazzonia ai pigmei africani, agli orang asli malesi. A volte effettivamente lo Stato moderno è troppo pesante per gli stili di vita essenziali di questi ambienti estremi. A volte, come pure ha osservato Scott, sono pure questi popoli indigeni a accentuare polemicamente il proprio primitivismo in chiave identitaria. Più spesso, i popoli indigeni hanno cercato semplicemente una via alla modernità alternativa. E la haka, danza tradizionale maori diventata emblema del rugby moderno, spiega come a volte può essere la stessa modernità a prendere le mosse dai popoli indigeni. Dopotutto, anche il modello federale Usa fu ispirato da quello degli irochesi.

Nella sua prima visita in India in 5 anni,Wen ha guidato una delegazione di oltre 400 persone, soprattutto funzionari di alto livello e imprenditori, per aumentare i rapporti economici tra i 2 giganti asiatici. Una scelta lungimirante, dato che vennero firmati 45 accordi commerciali per un totale di 20 miliardi di dollari, in settori come l’elettricità e la farmacologia. Per anni i rapporti commerciali tra i 2 Paesi sono stati modesti, a causa della tradizionale rivalità, che comprende una guerra non ancora risolta con ampie regioni Himalayane rivendicate da entrambi gli Stati. Hu Zhengyuen, assistente del ministro cinese degli Esteri, ha osservato ieri che «dopo l’incontro strategico, i leader dei due Paesi sono d’accordo su un punto. Nel mondo c’è spazio sufficiente per la crescita delle 2 economie emergenti». Il funzionario cinese Zhang Yan ha spiegato alla stampa che Pechino ha interesse a istituire un accordo di “libero commercio”con New Delhi. Il mercato indiano, con un emergente ceto medio di centinaia di milioni di persone, interessa molto agli industriali cinesi. Ma l’India ha anche necessità di non essere invasa dalle merci cinesi, che potrebbero penalizzare la sua nascente produzione manifatturiera. L’India è già in forte deficit negli scambi commerciali con la Cina. Nei primi 9 mesi del 2010 gli scambi commerciali bilaterali sono stati di 45 miliardi di dollari, con una crescita del 46,7% rispetto al 2009, con un deficit per l’India di 13,7 miliardi. Ora la firma di ieri rilancia molti aspetti della questione, prima fra tutti la creazione di un mercato - forse addirittura comune - che tranquillizzi le due capitali in caso di crollo da parte delle economie occidentali. Pechino e Delhi hanno molti, moltissimi investimenti in Occidente: la crisi dell’euro e la zoppìa dimostrata in questi mesi dall’economia americana sta facendo perdere il sonno a molti fra politici e industriali dei due lati dell’Asia. Mettersi in società per salvare il salvabile, con tanti saluti a rivalità e diversità di opinioni, è un tratto tipico della mentalità asiatica. Che dell’Occidente, alla fin della fiera, non si cura poi troppo.


mondo

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Lentamente lo scontro tra Akp e militari sta prendendo la via democratica, in attesa della Seconda repubblica

Una tregua in divisa Il primo ministro Erdogan ha bisogno dei generali per la politica di governo. Dentro e fuori il Paese di Pierre Chiartano

ISTANBUL. «Se Erdogan avesse fatto prima un discorso come quello del Cairo di qualche giorno fa, non penso ci sarebbero mai stati problemi con i militari», la frase semplice e chiara, spiega bene i sentimenti dei turchi in divisa nei confronti del premier, primo leader di un partito islamico moderato a governare la patria che fu di Kemal Ataturk, padre di uno Stato che definire laico sarebbe riduttivo. È stata pronunciata da un rappresentante influente della classe dirigente in divisa e che oggi insegna all’Università di Galatasaray. Ma che per ovvie ragioni non vuole essere citato. Liberal lo ha incontrato in una Istanbul di settembre alla fine del trionfale tour del premier turco fatto nei Paesi della Primavera araba. In una città dove puoi toccare con mano il salto in avanti che la società turca sta facendo, spinta dallo sviluppo economico e dalla voglia di diventare un Paese “normale”. Soprattutto che vuole scrollarsi dalle spalle, con la brezza che spira dal Mare di Marmara, la polvere di un confronto tra secolarismo e religione. E i turchi hanno le capacità culturali per farlo. Le incomprensioni tra l’Akp, primo partito a ispirazione islamica al governo e i guardiani dell’ortodossia laica con le stellette, vengono da lontano. Come molti movimenti in Europa il kemalismo aveva messo Dio fuori dalla storia e deciso che modernità e religione fossero incompatibili. Qui nascono le

diffidenze, i sospetti, anche l’ostilità che ha portato nel tempo a uno scontro istituzionale forte, tra governo e forze armate, condotto sempre sul filo del confronto legittimo, ma con molti sconfinamenti nell’autoritarismo e tre colpi di Stato. L’allontanamento della Turchia dal percorso verso l’Europa (non sempre per colpa di Ankara) non ha reso più facile il dialogo. Oggi, dopo lo scandalo Ergenekon – un piano per rovesciare il governo dell’Akp tra il 2003 e il 2004 – e la sua continuazione Sladgehammer (Balyoz in turco), sembra che gli

mara, in cui persero la vita nove cittadini turchi, dove il premier turco ha promesso l’intervento delle fregate di Ankara come scorta di una nuova missione umanitaria a Gaza, alla vicenda delle trivellazioni petrolifere a largo di Cipro, dove è stato promesso che la Marina militare di Ankara avrebbe difeso gli interessi turchi, sono ormai troppi i settori in cui il governo dell’Akp ha bisogno del sostegno di chi fino a poco tempo fa era visto con sospetto. Molto sta cambiando nella nuova Turchia: il previsto ritiro strategico dell’America dal Medioriente e dal

L’esercito di Ankara sa che per continuare a essere classe dirigente e guardiano della laicità dello Stato deve assecondare la svolta del premier. Soprattutto dopo le sue dichiarazioni al Cairo anticorpi democratici, che evidentemente erano latenti nel sistema politico turco, stiano prendendo il sopravvento.

Il governo di Ankara può aver usato strumentalmente accuse e inchieste contro gli uomini in divisa, ma qualcosa di fondo c’era e molte delle informazioni pubblicate da giornalisti investigativi, come i colleghi di Taraf, venivano dall’interno delle Forze armate. Ora, col protagonismo internazionale di Ankara, Erdogan sente la necessità di aver l’appoggio dei militari, in modo specifico della Marina, per sostanziare la propria politica estera. Dall’affaire Mavi Mar-

Mediterraneo meridionale sta aprendo nuovi spazi alla politica neo-ottomana di Erdogan. Ma con gli onori del ruolo di nuovo Paese leader di una regione così importante, arrivano anche gli oneri: più stabilità politica interna, maggior equilibrio nell’azione esterna. Una lezione che, passo dopo passo – non senza alcuni errori – la nuova Turchia democratica sembra voler imparare. C’è ancora chi guarda con sospetto la politica “parlata”del ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu. Perché la giudica non sostanziata dai fatti. Edward Luttwak, ad esempio, cita le relazioni con la Siria come emblematiche di questa am-

biguità. Ma veniamo alla situazione legata a Ergenekon e Balyoz, erroneamente ribattezzata la «Gladio turca».

Più della metà dello Stato maggiore della Difesa è finito dietro le sbarre e molti provengono dalle fila della Marina militare. Ma sulle nuove nomine c’è stata una tregua. «Spesso si sono scambiati documenti e rapporti su scenari possibili per piani studiati per fermare il governo o tentare un golpe», argomenta il militare. E fa l’esempio dell’eventualità di una scissione della Padania dall’Italia. «Sono sicuro che le forze armate italiane abbiano preparato un piano su questo ipotetico scenario, anche i carabinieri potrebbero averne uno. Fa parte del lavoro delle forze di sicurezza anticipare situazioni potenzialmente pericolose per la salvaguardia dello Stato. Probabilmente che su

questa ipotesi specifica anche altri Paesi hanno preparato analisi e piani», spiega il nostro interlocutore. Certo che le forze armate turche hanno dei precedenti che non farebbero dormire molti uomini di governo. Ricordiamo che nel 1960 un premier regolarmente eletto, Adnan Menderes, venne arrestato dopo un colpo di Stato militare e poi impiccato un anno dopo, accusato di aver violato la Costituzione. Lanciando un segnale inequivocabile all’esterno e all’interno dell’Esercito turco. Una tale capacità e forza inevitabilmente può avere portato a un uso deviato del potere. «È possibile, ma rimarrei nel campo delle responsabilità personali. Non allargherei il discorso alla cosìddetta classe militare. Ci sono tanti comandanti provinciali che non hanno la cultura e le capacità di distinguere ruoli e competenze istituzionali. Soprattutto che non


mondo

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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

sanno come esprimere correttamente le proprie idee. Specialmente nel caso Ergenekon e Balyoz il problema è anche legato al fatto che manchino le capacità di una buona comunicazione esterna». Il nostro interlocutore lascia intendere che le posizioni dei militari sono molto meno rigide di quelle apparse sui media, e il comportamento degli uomini in divisa che hanno accettato di essere giudicati da tribunali civili, dopo il referendum popolare del settembre 2010, ne sarebbero la dimostrazione.

«È ovvio che i militari debbano restare sotto il controllo del potere civile, è una banalità, ma chi afferma che il problema sia questo non conosce bene la storia del nostro Paese». Il generale Yasar Buyukanit, capo di Stato maggiore della Difesa ai tempi della visita del Pontefice in Turchia, ad esempio, due mesi prima della fine del proprio mandato vide due generali del proprio stato maggiore, Sener Eruygur e Hursit Tolon, arrestati per l’inchiesta Ergenekon. Buyukanit non fece nulla per impedire il fermo dei due militari. «Non c’era nulla che potessi fare. In Turchia vige lo stato di diritto e secondo il codice penale non c’era niente da fare per impedirlo», affermò in seguito il generale. Il problema di fondo sarebbero le origini anche educative dell’attuale premier. Molti militari d’alto rango hanno frequentato delle scuole primarie islamiche, ma poi hanno integrato la propria cultura con studi successivi in scuole “laiche”. Hanno appreso le differenze tra leggi divine e

leggi dello Stato, una divisione che peraltro è anche sancita nel Corano che sottolinea come le decisioni di governo pubbliche debbano essere prese collettivamente. Le posizioni di Erdogan sono mutate nel tempo, e quelle più ortodosse quando era un pupillo del leader Necmettin Erbakan, si sono via via edulcorate acquistando maggiore maturità politica. La scuola dell’attuale

premier sarebbe stata «l’esercizio di governo» che lo avrebbe portato fino alla fatidica dichiarazione del Cairo, dove ha affermato come la «laicità dello Stato» sia un valore e non sia la negazione della religione. E quindi non debba essere vista con «diffidenza». Posizione condivisa anche dalle più importanti correnti dei Fratelli musulmani e criticata dall’ala oltranzista. L’analisi culturale che viene fatta dai militari turchi sul proprio Paese e sull’innesto di una cultura di governo d’ispirazione islamica è piuttosto sofisticata. Parte da una differenza che chiunque abbia anche solo letto il Corano conosce: quanto le tradizioni locali abbiano influito sulla libera interpretazione del testo sacro per i credenti. La stessa Chiesa cattolica ripete da secoli come il Dio cristiano, quello musulmano e quello ebraico siano la stessa incarnazione. La stessa parola Allah, sia uguale all’aramaico Elohi. Nel Corano in molte Sure, dalla Bakarà all’al-Maeda e in altre ancora viene ripetuto conti-

nuamente come Allah sia il Dio di Adamo, Abramo, Mosè, Gesù e Mohammad – tanto per citare solo alcuni profeti e messaggeri – e di come Dio abbia mandato sulla Terra testi scritti come le Tavole della legge, la Torah, il Vangelo e gli insegnamenti di Gesù.

E che soprattutto non ci sia traccia di velo, niqab, hijab, chador o altra copertura obbligatoria per le donne. Comunque sia, tra le fila degli analisti in divisa si conoscono le teorie di Clifford Geertz su tradizione, cultura e islam. Libere “interpretazioni” del resto avvenute anche in ambito cristiano su testi della Bibbia, dopo il concilio di Nicea. Sicuramente gli impegni del premier turco in ambito internazionale e la necessità di poter utilizzare le forze armate turche con fiducia, spingeranno il governo a limare le posizioni più intransigenti e l’eventuale uso strumentale della giustizia. Oggi la polizia e una parte dell’intelligence sarebbe controllata dal governo, con le forze armate l’altra parte dei servizi segreti in contrapposizione al potere dell’Akp. La realtà è più complessa e in continua trasformazione. I militari sono ancora molto amati dalla popolazione e sono una fucina di classe dirigente per il Paese. Una sterile contrapposizione ideologica col governo ne minerebbe solo il prestigio e la possibilità di continuare ad essere la spina dorsale “laica”ed europeista. I timori per una deriva pakistana stanno scemando, in compenso lo stallo politico nella vicenda curda «potrebbe portare il Paese alle soglie di un conflitto interno». Il governo si è accorto di come le differenze culturali e sociali tra la Turchia e l’enclave curda non aiutino e di come «anche il progetto probabile di divisione in tre dell’Iraq, possa influire negativamente sulla vicenda. Ankara sta facendo pressioni su Washington per poter incidere maggiormente sulla politica irachena. Sta diventando fondamentale per la Turchia», spiega il nostro interlocutore in una tiepida serata, non lontano da Besiktas, quartiere centrale dell’Istanbul europea. Forse non siamo ancora all’armistizio tra Akp e militari. Ma la seconda repubblica turca è all’orizzonte.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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ULTIMAPAGINA Diventa museo l’«Hotel de los Inmigrantes», dove per oltre un secolo gli italiani sbarcavano in Argentina

Quando eravamo noi di Marco Ferrari hi, ma ci sentite da lì? Trasmettiamo da una casa d’Argentina illuminata nella notte che fa la distanza atlantica, la memoria più vicina e nessuna fotografia ci basterà: così canta Ivano Fossati. Il brano spiega compiutamente il flusso degli italiani che ebbe inizio intorno agli anni ’30 dell’800 e terminò negli anni ‘60 del secolo scorso. Dei nostri poveri emigranti sappiamo da dove partivano (Genova, Napoli, Palermo) e su quali bastimenti viaggiavano (Conte Rosso, Biancamano, Rex), ma sappiamo poco del luogo dove approdavano. L’edificio che simboleggia l’arrivo di milioni di persone sul Rio de la Plata è l’Hotel de los Inmigrantes, lungo e squadrato come una caserma di diecimila metri quadrati, circondato da un parco verde, appena discosto dalle rive dal fiume, in Avenida Atlantica Argentina. Oggi, vedendolo, si nota una certa distanza dall’effervescenza del vicino Puerto Madero. Qui pare dominare il silenzio della storia. Adesso, a cento anni esatti dall’inaugurazione, l’Hotel de los Inmigrantes tenta l’ennesimo rilancio aspirando a diventare museo.

E

Di fronte alla consistente ondata di emigranti, il Governo dello Stato di Buenos Aires istituì nel 1857 un primo centro di accoglienza per immigrati. Con l’avvicinarsi del nuovo secolo i flussi migratori si incrementarono con lo sbarco di calabresi e siciliani. Allora per offrire un’adeguata accoglienza di decise di edificare, su progetto del Ministerio de Obras Públicas, una nuova struttura. Nel 1906 si costruì l’imbarcadero, l’oficina de trabajo e quindi l’ospedale e la direzione e infine nel 1911 il grande edificio chiamato Hotel de los Inmigrantes. A Buenos Aires l’emigrante veniva sottoposto ai controlli burocratici e sanitari direttamente a bordo del piroscafo, appena giunto dall’Europa, dopo di che poteva trovare una sistemazione nell’Hotel. Il periodo massimo, per regolamento, era di cinque giorni, ma poteva aumentare in caso di infermità temporanea o di mancanza di occasioni lavorative. Lì è passata gran parte della storia dell’Argentina, contadi-

All’inizio del Rio de la Plata, a Buenos Aires, c’è un enorme edificio fornito di cucine a vapore e mense, camerate, docce: poteva ospitare sino a quattromila persone

I CLANDESTINI ni che sono diventati proprietari agricoli, bambini che crescendo hanno fatto una nazione, donne che hanno portato l’emancipazione, profughi politici che hanno costruito i partiti e sindacati, preti e suore che hanno portato l’evangelizzazione. Lì sono depositati i sogni svaniti di quanti erano disposti a crearsi una vita nuova senza dimenticare le proprie radici.

Lungo cento metri, largo 26, quatto piani, spazi interni accessibili da un corridoio centrale, fornito di cucine a vapore e mense, camerate, bagni, docce, l’Hotel de los Inmigrantes poteva ospitare sino a quattromila persone. A differenza di altro luoghi simili di accesso al Nuovo Mondo (come Ellis Island di New York), qui l’emigrante aveva una vita attiva fin dallo sbarco. Gli uomini potevano uscire oppure passavano il tempo alla Officina de trabajo per mettersi alla prova di fronte a eventuali offerte da lavoro e partecipare a corsi professionali, le donne pulivano, i bambini imparavano la nuova lingua. Bisognava sopportare lunghe file per accedere al pranzo, distribuito dalle 11 alle 12 e alla cena, dalle ore 18. Alle ore 15 i bambini avevano diritto anche alla merenda. La sera si tenevano conferenza sulle storia e l’attualità dell’Argentina. Quando un consistente numero di persone aveva ottenuto il lavoro veni-

va accompagnata in gruppo alla stazione ferroviaria. Una folla faceva ala a quel corteo di nuovi cittadini. Dal 1913 l’Hotel ampliò le propri funzioni con un ufficio di collocamento femminile e prove pratiche di utilizzo di macchine agricole poiché gran parte del lavoro veniva dall’immensa campagna argentina. Era insomma la porta d’ingresso nella pampa…. La struttura svolse il suo ruolo sino alla fine degli anni Cinquanta quando l’emigrazione sfumò sia per la confusa situazione politica che si era creata in Argentina sia per il boom economico che investì l’Europa ed in particolare l’Italia, ripresasi dal dramma bellico.

Nei primi anni Settanta si iniziò a discutere sulla creazione di un museo dedicato all’epopea dell’emigrazione, dalla metà degli anni ’80 fu predisposto un progetto esecutivo, nel 1990 il complesso fu dichiarato “Monumento storico di interesse nazionale” e il grande edificio dell’Hotel divenne la sede del Museo, Archivo y Biblioteca de la Inmigración. Soltanto che il Museo è incappato in varie vicissitudini, ridotto a un solo stanzone con valigie, oggetti e fotografie e infine ha chiuso i battenti nel 2006. Gli immensi saloni ancora conservano letti, armadi, manichini, carte, archivi e ricordi, tutto reso fatiscente dall’oblio. Un sospiro di nostalgia sembra ancora aleggiare tra le trapunte ammassate in un angolo. Il simbolo delle radici del Paese è diventato un oggetto dimenticato, anche se là è conservata la banca dati di circa 4 milioni di ingressi con i registri di arrivo dei migranti tra il 1882 e il 1927. Ma sulla porta del Museo Nacional de la Inmigración ora di trova la scritta “Serrado” al pubblico. A cento anni dall’inaugurazione dell’Hotel sembra quasi un’offesa alla storia argentina e anche dell’Italia. Ora il progetto di rilancio grazie al bicentenario dello scorso anno della nascita dello stato argentino, accompagnato dal concorso internazionale per valorizzare una nuova immagine della storica entrata in un paese che, a lungo, rappresentò il futuro per milioni di italiani.


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