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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 1 OTTOBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il testo, fortemente voluto da Marcegaglia, è già stato sottoscritto da Abi, Rete imprese, cooperative e Ania
Ultimatum al governo Le imprese: «Subito cinque riforme per la crescita o salta il tavolo» Presentato il manifesto di Confindustria che rivoluziona fisco, tagli alle spese, privatizzazioni, liberalizzazioni e infrastrutture: «Il tempo è scaduto: servono scelte immediate e coraggiose» METAMORFOSI
«Adesso, cambiare la legge elettorale»
Era nato per decidere. Ora Silvio è indeciso a tutto di Enrico Cisnetto ve mai ce ne fosse stato ancora bisogno, l’indecorosa vicenda della successione a Draghi al vertice della Banca d’Italia conferma che abbiamo un gigantesco problema di governance, senza superare il quale non potremo mai uscire dalla spirale del declino in cui siamo finiti. E per problema di governance s’intende la carenza sia di strumenti adatti, a fronte di questioni sempre più complesse, a prendere le decisioni migliori che sono necessarie, sia di meccanismi di selezione della classe dirigente, oggi del tutto inadatta e impreparata. a pagina 4
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Le contraddizioni del Pd
Napolitano: «La Padania non esiste». La Lega lo insulta
Punire i radicali o la politica delle ammucchiate? di Riccardo Paradisi
Parla Franco Reviglio
di Gualtiero Lami a Lega, la secessione, la legge elettorale. Il presidente Napolitano, si conferma sempre di più l’unico vero faro della politica e della società della Penisola. Ieri ha tuonato contro la Padania: «Si può strillare in un prato ma non si può cambiare il corso della storia: il popolo padano non esiste. E adesso bisogna cambiare la legge elettorale». Volgare la risposta leghista: «Quanto ancora dovremo sopportare questo vecchio comunista?», ha detto Salvini. a pagina 7
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È
«Non chiamatelo complotto: Emma ha ragione» di Errico Novi videntemente non si tratta di una cospirazione. Né interna né internazionale: la minaccia di rottura rivolta da Marcegaglia al governo ha un fondamento preciso. Così Franco Reviglio commenta il Manifesto di Confindustria. a pagina 3
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una storia curiosa questo scontro tra il partito democratico e i radicali italiani. Il processo politico che i vertici del Pd hanno imbastito contro Marco Pannella e la sua formazione infatti ha in sé qualcosa di bizzarro. Se si trattasse semplicemente d’un puntiglio disciplinare, verrebbe da domandarsi per quale motivo la stessa energia polemica non sia stata impiegata dalla direzione del Pd quando Marco Beltrandi si schierò con il governo. a pagina 10
Mons. Crociata spiega: «Il nuovo soggetto cattolico? Deve essere unità di buona volontà»
«Governiamo solo le anime» La Cei: «Non è nostro compito mandare a casa i governi» Era il numero 3 di al Qaeda
Yemen, ucciso al Awlaki Braccato dalla Cia, aveva ospitato terroristi da tutto il mondo Pierre Chiartano • pagina 26
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Dobbiamo ripartire dall’essere umano
ROMA. Gli equivoci c’erano. Da
Non di sola politica vivono i cristiani
una parte e dall’altra. Ma la prolusione con cui il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aperto il Consiglio permanente dei vescovi puntava il dito inequivocabilmente contro la situazione politica e sociale del Paese. Berlusconi sì, Berlusconi no: il mondo politico si era scatenato nel leggere fra le righe e si era concentrato soltanto sul presunto impegno dei vescovi. a pagina 8
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
di Francesco D’Onofrio ono ormai numerosi gli interventi sulle più recenti iniziative di provenienza cattolica: si va dalla domanda sul “se rinasce la Dc” o “se sta per nascere un nuovo partito” a quelle sul rapporto tra cattolici e Berlusconi, quasi che si fosse in un tradizionale talk-show politico concernente il governo in carica. a pagina 9
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NUMERO
191 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Confindustria, Rete Imprese e Abi, Ania e le cooperative lanciano ”il Manifesto per l’Italia”. Inflazione ai massimi livelli
La manovra delle imprese La Marcegaglia avverte il governo: «Risposte o abbandoneremo tutti i tavoli». Casini: «Suppliscono all’assenza della maggioranza» di Francesco Pacifico
ROMA. Più realisti dello stesso Tremonti, i commercianti e gli esercenti non hanno atteso l’aumento dell’Iva e hanno alzato i prezzi dei beni di consumo e dei servizi. Infatti a settembre l’inflazione è schizzata al 3,1 per cento, mentre i salari reali crescono in media soltanto del 1,7. E tanto basta per capire cosa resta del potere d’acquisto degli italiani. Intanto, ad agosto, 83mila lavoratori rientrano nello status di occupati. Peccato che tra loro siano pochi gli under 35, visto che la disoccupazione giovanile – la peggiore eredità della grande crisi perché punisce chi non ha tutele – aumenta di un decimo di punto.
È per tutto questo che Emma Marcegaglia e le altre associazioni datoriali sono passate dalle parole alle proposte. E hanno intimato al governo di muoversi perché «non c’è più tempo, è necessario varare riforme profonde e coraggiose molto velocemente». Tanto che il mondo delle imprese è pronto a lasciare i tavoli di trattative con Palazzo Chigi se non arriveranno risposte Confindustria, Rete Italia Imprese, l’Abi, l’Ania e l’associazione cooperative ieri hanno presentato il “Manifesto delle imprese per l’Italia”. Perché se
Sbloccati fondi che andranno soprattutto a Puglia e Sardegna
Un po’d’ossigeno all’Università Dal Cipe un miliardo di euro per quelle del Sud ROMA. Il programma di investimenti nel sistema universitario delle regioni del Mezzogiorno approvato ieri dal Comitato interministeriale per la programmazione economica nell’ambito del Piano nazionale per il sud ammonta a «complessivi 1.161 milioni di euro, di cui circa 161 milioni provenienti da finanziamenti già disponibili e 999,7 milioni assegnati oggi». Lo ha comunicato il Cipe, ricordando che «il programma include il finanziamento sia dei Poli di eccellenza di Calabria/Sicilia, della Campania e della Puglia, sia di infrastrutture universitarie strategiche regionali in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Puglia, Sardegna e Sicilia, quali laboratori didattici e di ricerca, biblioteche, mense, attrezzature tecnologiche e informatiche, case dello studente, ristrutturazioni e nuove costruzioni di edifici universitari». Con la delibera di ieri, in particolare, vengono assegnati 150 milioni a tre «poli integrati di ricerca-alta formazione-innovazione» e 864,6 milioni ripartiti tra Puglia (315 milioni), Sardegna (301,3), Sicilia (88,7), Campania (68,6), Calabria (63,8), Basilicata (22) e Abruzzo (4,9). Dei finanziamenti già disponibili, 113,8 vanno alla Sardegna (portando il totale degli interventi a quota 415,2 milioni) e 46 alla Sicilia (totale 134,8). ». Per il ministro dell’Istruzione si tratta di «una scelta lungimirante aver inserito la valorizzazione
del sistema universitario all’interno del piano sud. Prova concreta che il Governo vuole dare importanza al sistema universitario per la crescita e lo sviluppo del paese». Infine, ha concluso Gelmini, «voglio evidenziare che saranno interventi condivisi con la Conferenza dei Rettori e con il sistema universitario». Di opinione diversa, naturalmente, il Pd: «Il miliardo a disposizione delle università del Sud potrà forse rappresentare una boccata d’ossigeno anche se per il momento è poco più che un annuncio» ha dichiarato la capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni. Che ha aggiunto: «È ancora sotto gli occhi di tutti quanto accaduto con il miliardo di fondi Fas destinati all’edilizia scolastica nel 2008 e assegnati dal Cipe con una prima delibera il 6 marzo 2009. Ad oggi sono solo 31 su 1.706 le scuole che hanno potuto siglare la convenzione per poter utilizzare quei fondi. È la dimostrazione che la politica degli annunci è come le bugie, ha le gambe corte». Soddisfazione, infine, è stata espressa dal governatore della Sardegna, Cappellaci: «Questa decisione non solo accoglie le nostre richieste, ma rappresenta la conferma che quando la dialettica tra i Ministeri e le Regioni viaggia sul binario del dialogo e dell’ascolto reciproco, possono arrivare risposte alle istanze dei territori».
l’accordo del 28 giugno con i sindacati serve per dare il là alla riforma del lavoro chiesta anche da Trichet e Draghi nella loro missiva a Palazzo Chigi sulla tenuta dei conti pubblici, questa piattaforma ha l’obiettivo di spingere la politica sulla strada delle riforme. Di oggi e di domani.
Cinque i capitoli e le priorità (spesa pubblica e pensioni, riforma fiscale, cessioni del patrimonio, liberalizzazioni e semplificazioni, infrastrutture ed energia) per un pacchetto che finisce per segnalare i limiti del piano per lo sviluppo al quale sta lavorando Tremonti. Come il ministro i produttori guardano al breve e medio termine e parlano di «proposte immediatamente operative». Sul versante fiscale si punta su pagamenti elettronici e una patrimoniale dell’1,5 per mille per chi guadagna oltre 1,5 milioni di euro. Obiettivo, recuperare sei miliardi e finanziare un piano per ridurre Irpef, Irap ed estendere il credito d’imposta per la ricerca. Per la previdenza confermate le proposte di portare nel breve l’età di ritiro a 68 anni e di estendere il regime contributivo a tutti i lavoratori. Quindi un maxi piano per dismettere asset immobiliari e partecipate pubbliche – «Ma non parliamo di privatizzare Eni, Enel e Fin-
la crisi dell’euro
1 ottobre 2011 • pagina 3
l’intervista
«Altro che congiura, siamo sul baratro!» Franco Reviglio: «Produrre per tagliare il debito. Ecco perché lo sviluppo è indispensabile» di Errico Novi
ROMA. Evidentemente non si tratta di una cospirazione. Né interna né internazionale. Evidentemente la minaccia di rottura rivolta da Marcegaglia al governo ha un fondamento preciso, chiaro, nell’incapacità di rimettere in moto la crescita. Combinazione vuole che su questo stesso nodo finiscano per cadere sia le preoccupazioni di Trichet e Draghi, espresse al governo nella lettera delle scorse settimane, sia le perplessità al’origine del downgrading di Standard & Poor’s. Il tema è sempre lo stesso: la necessità di mettere in campo misure straordinarie. Che consentirebbero finalmente di attivare un processo di crescita e quindi aprire spaz di investimento per le imprese. Naturalmente la spinta alla crescita – assolti almeno in parte i doverosi interventi di rigore finanziario – rappresenta a questo punto l’unica via per arrivare al pareggio di bilancio chiesto dall’Ue e dalla Banca centrale europea. In modo da creare infine i presupposti per intaccare davvero il debito.
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quel dato, a quei «650 trilioni di debito complessivo dell’area euro che sovrasta la capacità dell’attuale pil europoe di arrestare la deriva. Ora consideriamo che tale debito è un patrimonio delle istituzioni, soprattutto delle banche: bene, se in particolare l’Italia non riesce a ridurre il valore del debito anche con provvedimenti di carattere straordinario c’è poco da essere ottimisti per il futuro». L’ex ministro delle Finanze e del Bilancio, considerato quasi un padre putativo di Giulio Tremonti, o in ogni caso un suo maestro, ritiene insomma che i motivi di preoccupazione espressi da Marcegaglia stiano decisamente un po’ più in alto della polemica politica spicciola o di un concorso di forze orientate a un governo di responsabilità nazionale. «Anche perché le stesse proposte avanzate dagli imprenditori, per esempio quella della patrimoniale, valgono soprattutto come un segnale di disponibilità. Come disponibilità a quello che potremmo definire un sacrificio di classe. Perché dicono: colpiamo anche i ricchi, basta però che con quelle risorse si finanzi una riduzione dell’Irap e delle imposte societarie. Sanno che molte imprese, soprattutto quelle che producono per la domanda interna e non per l’export, hanno bisogno non solo di una minore pressione fiscale ma in generale di una vera inversione di tendenza, cioè di una crescita vera». Cioè è necessario ridurre il cuneo fiscale non solo per dare ossigeno ai conti delle imprese ma anche per incoraggiare i consumi, la domanda interna. In ultima analisi per innescare quel circolo virtuoso che per
È chiaro che le tensioni nella maggioranza o tra esecutivo e parti sociali incidono sul giudizio delle agenzie di rating
Semplice. Così chiaro, così semplice che davvero non ha più senso, per l’esecutivo, appellarsi alle ombre di un fantomatico assedio mosso verso Palazzo Chigi da forze oscure e tra loro cospiranti (tra cui, per paradosso, si pretende di annoverare anche la Chiesa). Non ha senso e non è più credibile come alibi difensivo. «Semplicemente la situazione si fa drammatica, davvero», dice un economista del calibro di Franco Reviglio. Che nel suo ragionamento tiene a enfatizzare la gravità del momento affidandosi innanzitutto a meccanica», ha chiarito la Marcegaglia –, una delegificazione per liberalizzare i trasporti, le utilities, le professioni e per favorire la libertà d’impresa e ridurre la burocrazia. In ultimo, una sterzata sulle infrastrutture e sull’efficienza energetica, anche sfruttando il project financing. Attivismo che irrita il governo. Maurizio Sacconi premette che «le proposte delle associazioni di impresa meritano rispetto ed attenzione», ma poi conclude che con una patrimoniale da sei miliardi «avrebbe effetti poco percettibili una redistribuzione su Irpef e Irap». Renato Brunetta ha sottolineato di essere «talmente d`accordo con le proposte in materia di semplificazione avanzate da Emma Marcegaglia e dagli altri amici imprenditori che o le abbiamo già realizzate oppure siamo impegnati con loro per farle diventare legge».
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Parole che non convicono il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, secondo il quale va «accolto l’appello delle forze sociali, perché supplisce all’assenza del governo». Mentre dal Pd Pier Luigi plaude alle proposte in materia fiscale. Tra le richieste non dette c’è però l’invito alla politica a cambiare registro. Ivan Malavasi, leader di Rete Italia imprese, giura di non volersi «minimamente sostituire ai compiti che spettano al governo». Di rimando Emma Marcegaglia assicura che i «firmatari del “Manifesto”non sono interessati alle elezioni anticipate. Ma il tempo è breve e il Paese ha bisogno di politiche economiche diverse: scelte forti, riforme profonde che portano sacrifici per tutti, ma anche vantaggi». Ieri lo spread tra Btp e il Bund si è allargato a 370 punti, con i tedeschi che si rifinanziano
esempio consenta di accelerare anche i pagamenti della pubblica amministrazione, altro tasto dolentissimo per il sistema produttivo italiano.
Il filo del discorso di Reviglio, d’altronde, si appunta alla fine sempre sulla «difficoltà decisionale del governo». Perché dice, anche proposte come quella di Marcegaglia sui patrimoni valgono certo come segnale, ma notoriamente ci sono difficoltà insormontabili ad attaccare la base patrimoniale, pur enorme, in Italia. E allora torniamo al punto: «Il vero problema dell’Italia è che negli ultimi 15 anni i nostri investimenti sono stati la metà della media europea», incalza l’economista ed ex presidente dell’Eni, «ci si affanna in proclami altisonanti sulle opere pubbliche, ma il dato è quello. E in effetti è vero che andrebbe ridotto innanzitutto il cuneo fiscale, è urgente un piano di liberalizzazioni in modo che gli investimenti possano avvalersi anche di maggiore apertura alla concorrenza. Ma poi non si può prescindere da privatizzazioni robuste. L’esempio che abbiamo in Italia, a proposito di pareggio di bilancio, che è quello di Quintino Sella, è essenzialmente un coraggioso esercizio della leva privatizzatrice».
zia. Alle quali interessa semplicemente che il nostro debito aumenta, punto e basta. È evidente che le misure adottate dal governo finora non accolgono le richieste di Trichet e Draghi e inevitabilmente sono insufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio. Certo, è chiaro che le tensioni all’interno della maggioranza, o tra il governo e le parti sociali, suggeriscono agli osservatori e alle agenzie di rating scarsa fiducia nella capacità dell’esecutivo di assumere decisioni davvero capaci di nnestare la retromarciam su questa progressione del debito. Ma ripeto: non è che uno può considerare infondate le preoccupazioni di Confindustria. Non in un Paese che si riempie la bocca di opere infrastrutturali e poi, su questa voce, mette appena il 2,3 per cento del pil».
Si critica la scarsa stabilità del quadro interno per far cadere Berlusconi, punto: questa è in sostanza la linea difensiva della maggioranza opposta persino di fronte al giudizio di Standard and Poor’S. «Ma sono i media a enfatizzare questi passaggi, nella relazione dell’agen-
all’1,88 per cento e noi al 5,58. PIù in generale tutte le Borse europee hanno chiuso in forte calo (Londra -1,32 per cento, Francoforte -2,44, Milano -1,39) dopo che l’impennata dell’inflazione al 3 per cento nell’Eurozona ha allontanato la possibilità di un taglio dei tassi da
tare la capacità di spesa. Soprattutto il dato dell’inflazione dimostra che commercianti ed esercenti hanno approfittato della crescita di un punto di Iva per aumentare il costo della spesa degli italiani: a riprova che più del comitato prezzi in questo Paese possono le libera-
Caro vita record a settembre (+3,1 per cento) mentre gli stipendi crescono soltanto della metà. L’Ires-Cgil: dal 2001 il potere d’acquisto dei lavoratori è calato di 5mila euro. Sale la disoccupazione giovanile parte della Bce. La Marcegaglia ha sottolineato che con questo costo del lavoro le imprese hanno «difficoltà per reperire risorse da investire nella crescita». A valle invece l’aumento dei prezzi unito al basso incremento della retribuzioni e le fiammate delle materie prime non possono che limi-
lizzazioni. Non a caso Federcargo ieri ha annunciato che le prime aperture del settore hanno fatto salire nei primi sei mesi l’occupazione del 20 per cento nelle imprese di trasporto private. La situazione è soltanto destinata a peggiorare, visto una manovra recessiva, che porterà
in un biennio la pressione fiscale al 43,9 per cento del Pil. Un conto al quale va sommato quello presentato da un decennio a bassa crescita. L’Ires, il centrostudi della Cgil, ha calcolato che dal 2001 al 2011 la perdita di potere d’acquisto dei salari lordi è stata di 5.304 euro per ogni lavoratore dipendente.
Nel suo ultimo rapporto sull’occupazione la Ue nota che «le misure di austerità di ampia portata decise dal governo e approvate dal Parlamento hanno provocato una serie di proteste e di scioperi e causato la caduta dell’indice mensile di fiducia in agosto da 103,7 punti a 100,3 punti». Risultato? Non si produce perché si pagano poche tasse, non si consuma perché diminuisce la capacità di spesa, non s’investe e non si assume perché il futuro è avvolto da una profonda nebulosa.
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la crisi dell’euro
Pubblichiamo il testo presentato ieri con il quale Confindustria sfida il governo e lancia la sua proposta a tutti i cittadini
Cinque mosse per salvarci Un nuovo equilibrio economico e sociale: il manifesto degli industriali disegna un’Italia viva e solidale: «Servono scelte immediate e coraggiose» Italia si trova davanti ad un bivio. Può scegliere tra la strada delle riforme e della crescita in un contesto di stabilità dei conti pubblici o, viceversa, scivolare ineluttabilmente verso un declino economico e sociale. Per questo le imprese hanno deciso di lanciare una proposta che indichi a tutti - Governo, Parlamento, forze politiche di maggioranza e opposizione, parti sociali, tutti gli italiani pochi punti essenziali di forte discontinuità. È necessaria la maggiore coesione possibile, di tutte le risorse e di tutte le intelligenze. Da troppo tempo l’Italia non cresce. Da troppo tempo le nostre imprese perdono competitività. Da troppo tempo i giovani italiani vedono ridursi opportunità e speranze. Da troppo tempo il 95% dei contribuenti dichiara redditi inferiori a 50.000 euro. Le ragioni di tutto questo sono molteplici e nessuno può ritenersi esente da responsabilità. Per l’ingente ammontare del suo debito pubblico, per la sua bassa crescita oramai quindicennale, per i suoi alti tassi di spesa pubblica e di prelievo fiscale, il nostro Paese da due mesi ha visto accrescere in maniera intollerabile il premio al rischio sui titoli di stato. Il deprezzamento dei listini erode il valore degli asset nazionali e del risparmio delle famiglie.
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Oggi il tempo si è fatto brevissimo. Ciò impone scelte immediate e coraggiose. Diversamente, ben al di là dei nostri demeriti, il mercato continuerà a penalizzare i nostri titoli pubblici con inevitabili conseguenze sia sulla tenuta dei conti dello Stato che sul costo della raccolta delle banche e, di conseguenza, sui tassi applicati ai finanziamenti alle imprese e alle famiglie. Non si può assistere inerti a questa spirale. È in gioco più della credibilità del Governo e della politica. Sono a rischio anni e anni di sacrifici. È a rischio la possibilità di garantire ai nostri figli un Paese con diritti, benessere e possibilità pari a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi. Parte delle cause dell’attuale, difficile, fase economica dipendono da fattori esterni. Evidenti ritardi e incertezze della governance europea nel suo complesso hanno contribuito a deteriorare uno scenario economico già particolarmente avverso. Nello stesso
Di fronte all’impotente Parlamento dei nominati e al vuoto di governo, si rivalutano le preferenze
Nato per decidere, Silvio è indeciso a tutto di Enrico Cisnetto segue dalla prima Nello specifico di Bankitalia, la legge parla chiaro: il presidente del consiglio deve, di concerto con il consiglio dei ministri, indicare un nome al consiglio superiore della banca centrale stessa, il quale esprime un parere obbligatorio ma non vincolante, e successivamente il nome deve ricevere la ratifica del presidente della Repubblica. Ora, è chiaro anche ai ciechi che il premier non ha esercitato il diritto-dovere che la legge gli affida, ma ha aperto, pubblicamente, una caotica fase di consultazioni, condita di passaggi a dir poco degradanti come l’improvvida pregiudiziale etnica manifestata dal ministro (sic) Bossi. In altri casi, invece, sono le procedure o addirittura le istituzioni stesse che non funzionano, oppure che con la mutata realtà hanno perso l’antica efficacia. Si tratta quindi di fare delle riforme che aiutino il processo decisionale a svolgersi nel migliore dei modi. Un resetaggio istituzionale che sarebbe opportuno realizzare nel modo più proprio di una revisione costituzionale profonda, quello di un’Assemblea Costituente. Ma siccome un processo (ri)costituente non può che essere messo in campo dal parlamento, torniamo al punto di partenza: la classe dirigente. Della sua (infima) qualità gli italiani si sono accorti da tempo, ma in mancanza di proposte costruttive che sappiano incanalare i sentimenti di ripulsa e protesta, per ora la reazione si è solo tradotta nel dar fiato alle trombe dell’anti-politica. Invece, si tratta di andare ben oltre lo sdegno verso la casta e di capire che nella stagione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica si sono create abitudini ben più perniciose dell’uso improprio di un’auto blu o privilegi simili. Una di queste, tra le più letali, è stata l’idea di affidare le sorti del Paese a un “capo”. Non sia ingannevole la retorica anti-berlusconiana: non si tratta solo del Cavaliere, ma di un intero ceto politico che ha illuso se stesso e gli italiani che dai pur difettosi partiti fosse opportuno passare ai leader carismatici. Leader che a loro volta, inevitabilmente, hanno creato intorno a loro un ceto politico formato con un duplice criterio: da un lato di cooptazione e dall’altro la vendibilità, basata sulla notorietà. Insomma, tutto meno che la qualità e il merito. Sia chiaro, si è trattato di una deriva che ha riguardato un po’ tutte le democrazie occidentali, ma che in Italia ha raggiunto livelli ineguagliati. Dobbiamo
dunque liberarci della “ideologia del capo”. Del caso italiano ne ha scritto mirabilmente sul Corriere della Sera il presidente emerito della Corte Costituzionale,Valerio Onida: «Abbiamo bisogno di partiti che discutano e decidano, non solo che abbiano un capo; di elezioni vere, non di un concorso di bellezza tra leader; di alternanza o di convergenze politiche a seconda delle circostanze, non di un bipolarismo coatto». Ma un fenomeno di ripulsa è in atto un po’ ovunque. La crisi finanziaria mondiale, prima, e quella più specificatamente europea che è in corso, hanno fatto capire ai cittadini disorientati che l’estrema complessità dei problemi da risolvere, e la loro interconnessione planetaria dovuta alla globalizzazione, è ben più grande di un uomo, per quanto capace e determinato (figuriamoci quando non lo è).
Il declino evidente di Obama e Sarkozy, la percezione della pericolosità di Putin, le difficoltà della Merkel, che pure corrisponde meno di tutti in Europa alla figura del leader carismatico, ci dicono che è venuto il momento della svolta. Anche in Italia. Da noi, di fronte all’impotente parlamento dei nominati e al terribile vuoto di governo, si rivaluta il voto di preferenza e si torna a pensare che la squadra sia più importante del solista. Se si vede che di fronte alla necessità di nominare presto e senza sbavature il nuovo governatore della Banca d’Italia – non fosse altro perché il momento è a dir poco delicato – il premier tentenna e subisce il mercato delle vacche, il signor Rossi capisce non solo che Berlusconi non corrisponde affatto all’icona del “ghe pensi mi”, ma anche che il modello leaderistico da lui interpretato e imposto (per debolezza altrui) a tutto il sistema politico – ricordiamoci, per esempio, che nel caso del Pd è nato prima il segretario del partito – non funziona. Da qui a poterci liberare di quella scandalosa violazione della Costituzione che è rappresentata dal mettere il nome del “candidato premier” sulla scheda e pretendere di conseguenza che con quel sistema siano i cittadini a votare direttamente il presidente del consiglio e non, come dice la Carta, che sia indicato dal Capo dello Stato e votato dal parlamento, il passo è breve. E decisivo. Non perché sia esecrabile una repubblica presidenziale, ma perché se la si vuole occorre costruirla con tutti i criteri di bilanciamento dei poteri che quel tipo di sistema politico-istituzionale richiede. (www.enricocisnetto.it)
tempo siamo fermamente convinti che tocchi all’Italia fare, sin da subito, le scelte necessarie per riguadagnare il rispetto e il prestigio che il Paese merita. Occorre quindi produrre un immediato e profondo cambiamento, capace di generare più equità, maggiore ricchezza e riduzione dello stock del debito. La buona tenuta dei conti pubblici è il punto di partenza sul quale costruire le prime e non rinviabili misure per favorire e incentivare la crescita. Le forze del lavoro e dell’impresa del nostro Paese, il risparmio delle famiglie, come il successo dell’export italiano sui mercati mondiali anche in questi anni difficili, rappresentano altrettanti punti di forza su cui costruire. Siamo chiamati a cambiare passo e ad esprimere uno sforzo comune in grado di far sì che l’Italia continui ad essere uno tra i primi Paesi manifatturieri del mondo e possa far conto su un forte e dinamico sistema dei servizi. Tutte le imprese sono pronte a fare la loro parte. È questa la ricetta vincente in un mondo scosso da un cambio di fase economica senza precedenti. Salvare l’Italia non è uno slogan retorico.
Deve essere chiaro. Non intendiamo minimamente sostituirci ai compiti che spettano al Governo, alla politica, a chi rappresenta la sovranità popolare. Avvertiamo però l’esigenza di non limitarci alle critiche, ma di indicare all’attenzione di tutti alcuni punti assolutamente prioritari. Chiediamo quindi di agire senza indugi. La discussione sui temi da noi proposti è da tempo ormai matura e non necessita di ulteriori approfondimenti. La nostra è una proposta che non vuole guardare indietro. Guardiamo avanti con un’ottica di “sistema”. Insieme si può rimettere in moto il Paese. Le imprese lanciano questo progetto ben sapendo di non rappresentare che una parte della società italiana. È l’Italia intera che deve trovare la convinzione e l’energia per fare sin da subito le scelte necessarie. Per salvare oggi l’Italia e per rilanciare la crescita occorre affrontare cinque questioni prioritarie: spesa pubblica e riforma delle pensioni; riforma fiscale; cessioni del patrimonio pubblico; liberalizzazioni e semplificazioni; infrastrutture ed energia.
3. Cessioni del patrimonio pubblico
Nuove regole per le privatizzazioni 1. Spesa Pubblica e riforma delle pensioni
Tagli mirati e riduzione del cuneo contributivo algrado i tagli annunciati in ogni manovra finanziaria, negli ultimi dieci anni, fra il 2001 e 2010, la spesa pubblica al netto degli interessi è continuamente aumentata, dal 41,8% al 46,7% del Pil, mentre era diminuita, in rapporto al Pil, nel decennio precedente. Questo dato non è dovuto solo alla bassa crescita del Pil: la spesa, sempre al netto degli interessi, è infatti cresciuta nell’ultimo decennio di venti punti percentuali in più dell’inflazione. In base all’ultimo documento ufficiale (Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza; 22 settembre 2011), per conseguire il pareggio nel 2013 e iniziare a ridurre il rapporto fra il debito e il Pil, il saldo primario dovrebbe migliorare di quasi 90 miliardi di euro, da 0,1 del Pil nel 2010 a +5,4 nel 2013. Dovrebbe rimanere fra il 5 e il 6% negli anni successivi. È di assoluta evidenza che questi obiettivi non possono essere conseguiti se non si avviano quelle riforme strutturali della spesa che sinora sono state rinviate. È fondamentale che si dia piena attuazione ai tagli già programmati. Ma è altresì essenziale che i
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tagli non siano indiscriminati e siano volti a colpire i veri e grandi sprechi che si annidano nelle pubbliche amministrazioni. In questo contesto bisogna intervenire con decisione sui costi della politica e sugli apparati istituzionali. Occorrono poi misure sulle pensioni pubbliche che, se non vengono decise rapidamente, corriamo il rischio di dover assumere, in condizioni di assoluta emergenza, provvedimenti ben più dolorosi, quali la messa in mobilità di decine di migliaia di dipendenti pubblici, come sta già accadendo in molti altri paesi. Si può stimare che le misure proposte da questo documento determinino un risparmio iniziale complessivo di circa 2,9 miliardi di euro nel 2013 e di circa 18 miliardi di euro nel 2019.Tali stime si riferiscono al solo sistema Inps. Le risorse reperibili con la riforma delle pensioni devono anche concorrere a realizzare gli interventi cruciali per la crescita e in particolare a ridurre l’attuale cuneo contributivo e fiscale e rilanciare così l’occupazione, soprattutto dei giovani.
er sostenere la credibilità e la competitività del sistemaPaese occorre un piano immediato di cessioni del patrimonio pubblico mobiliare e immobiliare per ottenere un rapido abbattimento dello stock di debito pubblico e ridurre l’enorme perimetro della manomorta pubblica sull’economia italiana. L’attività di dismissione deve essere svolta unicamente secondo le procedure dell’evidenza pubblica. Sono poi necessarie ampie privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici locali (SPL), gestiti attraverso migliaia di società controllate da enti locali e generalmente in perdita, malgrado i generosi sussidi pubblici. La Manovra di agosto prevede alcune misure di incentivazione che vanno in questa direzione, ma sono insufficienti. Essa, infatti, destina una quota del Fondo infrastrutture a investimenti infrastrutturali effettuati dagli enti territoriali che dismettano parteci-
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4. Liberalizzazioni e semplificazioni
Fuori la politica dalle Autorità garanti indispensabile per il ritorno alla crescita ridurre in maniera drastica l’eccesso di regolamentazione e procedere ad una energica liberalizzazione delle attività economiche. Per dare impulso al processo di liberalizzazione dei mercati in cui è ancora forte la presenza pubblica, occorre anzitutto istituire autorità indipendenti nei settori che ne sono privi o estendere le competenze delle autorità esistenti per colmare le attuali carenze, con l’obiettivo di garantire imparzialità, parità di trattamento e certezza della regolazione. È necessario, in particolare, istituire un’Autorità indipendente dei trasporti. Essa deve ridurre le asimmetrie regolamentari esistenti tra le varie modalità, prevenire e sanare situazioni lesive della concorrenza ed allineare l’assetto regolatorio nazionale agli standard UE. Sempre in quest’ottica, occorre trasformare l’Agenzia delle risorse idriche in un’Autorità indipendente, affidandole anche la
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2. Riforma fiscale
Reddito e patrimonio: serve più coerenza a delega per la riforma fiscale presentata dal Governo prevede che le risorse aggiuntive che saranno reperite dalla riforma dell’assistenza e dalla eliminazione delle sovrapposizioni tra interventi assistenziali e fiscali vengano destinate al raggiungimento del pareggio di bilancio. Si tratta di reperire 4 miliardi nel 2012, 16 nel 2013 e 20 nel 2014. L’attuale situazione dei mercati finanziari impone di attuare rapidamente, la delega. Va rafforzata l’azione di contrasto dell’evasione fiscale. Il contrasto all’evasione serve a recuperare gettito, ma è anche una misura per la crescita, perché elimina un fattore di concorrenza sleale che tende a impedire la crescita dimensionale delle imprese e la loro internazionalizzazione. A questo fine va fissato a 500 euro il limite per l’utilizzo del contante e va contestualmente incentivata la diffusione della moneta elettronica. Occorre confermare ed anche estendere misure di contrasto di interessi, quali sono le detrazioni fiscali del 36% per gli interventi in edilizia e del 55% per l’efficienza energetica. Un’altra misura cruciale ai fini del contrasto all’e-
L
vasione consiste nel prevedere l’obbligo, per le persone fisiche, di indicare il proprio ”stato patrimoniale” nella dichiarazione annuale dei redditi, per consentire di valutare la coerenza fra reddito e patrimonio. Nell’ambito di una riforma complessiva del sistema fiscale, l’obbligo dichiarativo può essere accompagnato da un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta e con una soglia di esenzione. In questo modo si darebbe concretezza all’obbligo dichiarativo e si otterrebbe un gettito annuale certo e tendenzialmente stabile da destinare, nell’ambito della riforma complessiva e nell’ottica della rimodulazione del prelievo, alla riduzione del prelievo diretto su imprese e persone. In alternativa, si renderebbe necessaria un rivisitazione della tassazione sui patrimoni immobiliari. È essenziale agire oltre che sulle aliquote anche sulla complessità dell’ordinamento fiscale e sull’incertezza del diritto tributario. Questi fattori scoraggiano gli investimenti, la creazione di posti di lavoro e la produzione di reddito.
pazioni societarie nei SPL, eccetto quelli idrici, ed esclude le spese effettuate a valere sulla predetta quota dai vincoli del patto di stabilità. La dotazione del Fondo, pari a 250 milioni di Euro per il 2013 e 250 milioni per il 2014, è però limitata, quindi l’incentivo riconosciuto agli enti locali è debole. Manca un rapporto diretto tra dismissioni, che hanno un costo politico potenzialmente elevato per l’ente locale, e investimenti, che invece sono considerati positivamente da cittadini e imprese. Questo è un passaggio essenziale. Per incentivare realmente gli Enti locali a dismettere le partecipazioni societarie, occorre sottrarre integralmente ai limiti del patto di stabilità le spese effettuate con i proventi delle dismissioni per investimenti per opere pubbliche, manutenzione straordinaria e ristrutturazione del patrimonio esistente, anche a fini di efficienza energetica.
competenza sul settore del ciclo dei rifiuti, ovvero attribuire tali compiti all’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas. Quanto ai servizi pubblici locali (SPL), i principi affermati con la Manovra di agosto sono condivisibili, ma in parte inefficaci perché privi di meccanismi che ne assicurino l’enforcement. Bisogna attribuire all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato un vero e proprio potere vincolante di verifica degli orientamenti di liberalizzazione e di gestione concorrenziale dei SPL definiti dagli enti locali e non invece, come è oggi, di mero monitoraggio. L’abbattimento delle barriere all’entrata di nuovi concorrenti e degli ostacoli all’esercizio delle attività economiche deve diventare la regola e non l’eccezione. Per conseguire strutturalmente questo obiettivo è necessario orientare le modifiche all’articolo 41 della Costituzione all’affermazione espressa del principio della libera concorrenza.
5. Infrastrutture e investimenti
Dai cantieri all’efficienza energetica infrastrutturazione del nostro Paese vive ormai da troppi anni in una situazione di dannosa e inaccettabile incertezza, che impedisce la definizione e l’attuazione di un’efficace programmazione volta a sostenere lo sviluppo e la competitività del Paese, specie nel Mezzogiorno.Ad ogni livello decisionale vanno individuate precise responsabilità per la buona riuscita dell’opera. Nei casi di blocco, deve essere possibile il ricorso al potere autorizzatorio dei livelli superiori di responsabilità, per imporre le decisioni localizzative e progettuali finali. In tema di efficienza energetica e fonti rinnovabili devono essere salvaguardati gli obiettivi di efficienza (minimizzazione costi rispetto agli obiettivi) ed efficacia (policy stabile) anche rispetto agli obiettivi di crescita delle aziende italiane. L’efficienza energetica è il pilastro portante della green economy italiana. È un settore in cui le nostre imprese sono già all’a-
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vanguardia e presentano una dimensione importante: il comparto associato all’efficienza energetica conta oggi oltre 400.000 aziende e oltre 3 milioni di occupati (incluso l’indotto). La condizione fondamentale per la crescita è rappresentata dalla presenza di un framework normativo certo e stabile nel medio termine per assicurare la necessaria continuità sia ai soggetti che investono, sia all’industria fornitrice di prodotti ad alta efficienza e ai servizi connessi. Già oggi è possibile stimare che il mantenimento degli incentivi ordinari previsti per l’efficienza energetica nel settore residenziale, terziario e dell’industria consentirebbe, a tecnologia esistente, di ottenere un risparmio potenziale del nostro paese nel periodo 2010/2020 pari a oltre 86 Mtep di energia fossile che equivale ad una riduzione della bolletta energetica del Paese di oltre 25 miliardi di euro e di oltre 5 miliardi di costo della CO2 evitato.
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la crisi dell’euro
La teoria inusuale dell’esperto che, già nel 2006, aveva messo in guardia Dublino in vista del «probabile» collasso
Elogio del fallimento
L’economista irlandese che aveva previsto il collasso del suo Paese va controcorrente: alla Grecia serve il default. «Prendete noi: spendiamo centinaia di milioni di euro per ”ripulire” i titoli tossici invece di investirli per lo sviluppo» di David McWilliams vete notato qualcosa di strano sui mercati finanziari, negli ultimi due giorni? Le borse europee si sono compattate dopo le voci di un possibile fallimento ”protetto” della Grecia. Tuttavia, secondo la posizione ufficiale del governo irlandese e dell’Europa qualsiasi forma di default sarebbe un terribile disastro e scatenerebbe un’incontrollabile fuga di capitali e una sorta di ”carneficina” finanziaria. Ma allora come mai negli ultimi giorni i mercati hanno inviato segnali in totale contrasto con questa teoria? Gli ultimi movimenti dei mercati finanziari suggeriscono che il default calmerebbe le acque e gli investitori. L’idea che la Grecia non abbia denaro e debba dunque essere dichiarata insolvente sembra infatti assolutamente
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sensata. Ostacolare i processi fondamentali del capitalismo (dove gli investitori pagano per i loro errori), significa invece destabilizzare un intero sistema. Dando un’occhiata alla percezione di rischio del sistema bancario europeo nelle ultime settimane, ci accorgiamo che è schizzata alle stelle. È interessante notare che la stessa cosa è accaduta nei giorni precedenti al crollo della Lehman Brothers. Tuttavia, una volta avvenuto il collasso della società finanziaria, la percezione si è stabilizzata. È importante sottolineare che ciò è avvenuto dopo il default della Lehman Brothers.
L’anno scorso , quando la crisi ha colpito Grecia, Irlanda e Portogallo, la situazione era abbastanza tranquilla, perché c’era la convinzione
che gli eventi avrebbero seguito il loro corso naturale. Oggi invece l’Europa deve affrontare una crisi del debito generalizzata e sempre più massiccia, senza poter contare su una leadership forte in grado di gestirla. Per questo motivo la prospettiva di rischio delle banche si è nuovamente impennata, raggiungendo livelli da record. È evi-
I mercati non sembrano aver troppa paura delle bancarotta di Atene
dente che la via per calmare le acque passa per un default della Grecia e degli altri paesi che non sono in grado di ripagare il debito. Come ha dimostrato la reazione dei mercati, soltanto cancellando i vecchi debiti e creando un fondo per evitare il ripetersi di una crisi del genere possiamo iniziare a costruire il futuro. È la base di tutte le
procedure di bancarotta: i vecchi creditori che hanno fatto investimenti sbagliati pagano, e i nuovi ne beneficiano. Il problema è che i politici europei non intendono accettare questa logica, preoccupati per il prestigio dell’Europa e del fatto che un default della Grecia potrebbe alterare la percezione della forza dell’Unione.
Se un paese che in teoria fa parte dell’area più ricca del pianeta va in default, la percezione del resto del mondo sarà certamente negativa, almeno nell’immediato. Inoltre l’Europa, considerata insieme agli Stati Uniti una superpotenza mondiale, non farebbe sicuramente una bella figura accogliendo al suo interno un paese ”delinquente”. Insomma, è tutta una questione di prestigio politi-
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Duro monito dell’inquilino del Quirinale, che ricorda i secessionisti del ’43: «Furono puniti»
«Il popolo padano non esiste». E i leghisti insultano Napolitano
Il Presidente: «Si può strillare in un prato ma non si può cambiare il corso della storia. E adesso bisogna modificare la legge elettorale» di Gualtiero Lami
a Lega Nord, la secessione, la legge elettorale. Il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, si conferma sempre di più l’unico vero faro della politica e della società della Penisola. Nel corso della sua visita a Napoli, dove ha incontrato gli studenti e i docenti della locale Facoltà di Giurisprudenza, il capo dello Stato ha ritenuto opportuno tornare sulla polemica sollevata qualche giorno fa dal capogruppo dei lumbàrd alla Camera dei Deputati, Marco Reguzzoni. Secondo il deputato verde, «la sovranità del popolo sta al di sopra delle prerogative del presidente della Repubblica». Napolitano non ha voluto certo rintuzzare Reguzzoni per un senso di lesa maestà, ma soltanto per un senso di giustizia e per il suo ruolo di custode e garante di quella Carta costituzionale verso la quale i seguaci di Bossi mostrano non soltanto poco rispetto, ma anche poca conoscenza. Secondo Napolitano, infatti, le affermazioni di Reguzzoni denotano «una scarsa consapevolezza dell’articolo 1 della Costituzione. Si dice che la sovranità appartiene al popolo, ma - ha precisato il capo dello Stato - ci si dimentica della virgola, dopo la quale c’è scritto che il popolo “esercita la sua sovranità nell’ambito della Costituzione e delle leggi”. E nella Costituzione e nelle leggi non c’è spazio per una via democratica alla secessione. Io non avrei dubbi». Il presidente della Repubblica ha poi chiesto ai presenti – che lo hanno applaudito a scena aperta - di «stare con gli occhi aperti» e di «essere vigilanti» sulle ipotesi di secessione, perché le reazioni delle istituzioni potrebbero essere anche di carattere “permanente”. Ovviamente, il tema della secessione non riguarda soltanto Reguzzoni: lo stesso argomento è stato a più riprese sollevato nelle scorse settimane da tutti i leader della Lega Nord, su tutti Umberto Bossi. Che dal “pratone” di Pontida aveva messo in guardia «l’Italia e tutti i suoi politici» sulla presenza del popolo padano. Napolitano chiarisce che l’adozione del federalismo fiscale, sollecitato a più riprese e con vigore dal Carroccio, non pone alcun tipo di problema: «Ma dove dalle grida, dalle chiacchiere, dalla propaganda, dallo sventolio di bandiere si passasse ad atti preparatori di un qualcosa che si chiamasse secessione, è ovvio che tutto cambierebbe». Insomma, «non basta urlare su un prato per avere una secessione che non esiste, dato che un popolo padano non esiste». Il presidente della Repubblica
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ha poi voluto ricordare lo sviluppo del movimento separatista siciliano, che nel 1943-1944 «fu represso da quell’accenno di Stato italiano che c’era. Di fronte ad un tentativo di organizzazione, magari armata, di un movimento separatista, quell’accenno di Stato italiano appena nato non esitò a intervenire, e si arrivò alla detenzione di un
Ai giovani: «Serve il vostro impegno per cambiare la politica da dentro prima che sia troppo tardi»
capo importante di quel movimento. Uno Stato lombardo-veneto sarebbe una cosa fuori dal mondo d’oggi». L’inquilino del Quirinale ha voluto tratteggiare meglio questo pensiero, inserendo l’ipotetico nuovo complesso statale nel delicato equilibrio mondiale: «Appare grottesco creare uno Stato lombardo-veneto che calchi le scene mondiali competendo con India, Brasile, Cina o Russia. Il livello grottesco di questo basta a capire che non si può cambiare il corso della storia». Per i leghisti, la risposta è stata unanime: insulti al capo dello Stato, definito «un simpatico ex comunista che non conosce bene la storia dell’Europa». Ma il presidente non si è fermato, dopo aver bacchettato le aspirazioni del “popolo che non c’è”, e ha voluto commentare anche i risultati della raccolta firme per l’indizione di un referendum popolare per l’abolizione del sistema noto come “Porcellum”.
Secondo il capo dello Stato «credo sia necessaria una nuova legge elettorale. Non voglio idealizzare e idolizzare modelli del passato, ma ritengo che si stia andando verso un meccanismo elettorale che possa aumentare la fiducia tra elettori ed eletti». La conclusione del suo discorso è riservata a un invito nei confronti dell’unico motore ancora funzionante nel Paese, o almeno quello che potrebbe accendersi in previsione di uno sviluppo futuro della situazione: le nuove generazioni. Secondo il presidente della Repubblica, infatti, «la politica ed anche i partiti richiedono cambiamenti, ed è necessario che i giovani di oggi si diano da fare per realizzarli. In questo momento è fondamentale che voi restiate dentro la politica per cambiarne fortemente le modalità. Datevi da fare! In questo momento non so se si può ancora riconoscere ai partiti la vecchia funzione pedagogica che hanno avuto o hanno una funzione al rovescio. Anche i partiti richiedono cambiamenti. Non so se saranno possibili se voi giovani decidete di ritirarvi dall’impegno politico». Una chiamata alle armi alla quale si dovrebbe prestare seriamente orecchio.
co. I politici europei sono decisi a proteggere il buon nome dell’Unione anche se ciò vuol dire indebolire l’economia del continente, dato che pompare denaro nelle casse di banche e paesi sulla via del fallimento è uno spreco totale. I mercati invece si preoccupano delle prospettive economiche per il futuro e non del prestigio del passato. Il mondo della finanza non ha memoria, e si basa sulle opportunità di domani e non sulle recriminazioni di ieri.
Per questo motivo la decisione di un paese come l’Irlanda di ripagare tutti i debiti mette a repentaglio il suo futuro economico anziché proteggerlo. La lezione da trarre dal comportamento dei mercati negli ultimi due giorni è semplice: se Noonan smetterà di rimborsare i possessori delle obbligazioni della banca irlandese «tossica» Anglo, i mercati nazionali reagiranno positivamente. Quando versiamo 700 milioni di euro nelle tasche dei creditori della Anglo buttiamo denaro e ostacoliamo la crescita futura dell’Irlanda, perché la nuova generazione dovrà pagare tasse più alte. Sarebbe molto meglio spendere quel denaro per le scuole. Per salvare il salvabile abbiamo bisogno di un cambiamento radicale ai vertici dell’Unione, e per fare in modo che ciò accada dobbiamo valutare la realtà per quello che è, non per come vorremmo che fosse. L’attuale generazione di leader europei fa sembrare risoluti Neville Chamberlain e il Feldmaresciallo tedesco Paul von Hindenburg. L’Europa, in sostanza, si rifiuta di guardare in faccia la realtà della crisi. Fin dall’inizio la Commissione europea ha promesso che tutto sarebbe andato a posto, e Angela Merkel ha continuato a garantire che la Grecia non sarebbe mai andata in default. Ora però si vocifera di una soluzione al problema del debito basata su una sorta di default protetto della Grecia. Nella giornata di lunedì la conferma è arrivata dalle dichiarazioni (avventate) dei commentatori americani. Nei prossimi giorni aspettatevi che alla Grecia venga concesso un qualche tipo di default. Ma a quel punto la domanda sorgerà spontanea: se alla Grecia viene concesso di non pagare i debiti, perché non possono fare lo stesso le banche irlandesi? In questo modo si risparmierebbero miliardi di euro. Dopo tutto la Bce è in difficoltà in Grecia come lo è in Irlanda. La soluzione per Atene, insomma, potrebbe essere ottima anche per Dublino.
politica
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Chiudendo i lavori del Consiglio dei presuli, Mariano Crociata sottolinea: «Non è compito nostro mandare a casa i governi»
Governiamo solo le anime Il Segretario della Cei: «Non vogliamo fare un partito, indichiamo la strada»
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. Gli equivoci c’erano. Da una parte e dall’altra. Ma la prolusione con cui il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, ha aperto il Consiglio permanente dei vescovi puntava il dito inequivocabilmente contro la situazione politica e sociale del Paese. Berlusconi sì, Berlusconi no: il mondo politico si era scatenato nel leggere fra le righe – ma le stesse righe bastavano, eccome – e si era concentrato soltanto sul presunto impegno, la “discesa in campo”, dei vescovi. Ed ecco che, come da nobile tradizione, la Chiesa puntualizza e spiazza. A chi invocava Bagnasco come affossatore del berlusconismo, e a chi lo voleva invece assassino dello stesso, ha risposto il segretario generale della Cei, mons. Mariano Crociata: «A scanso di equivoci, la Cei storicamente non fa i governi e nemmeno li manda a casa. Ognuno ha la responsabilità delle sue affermazioni in un dibattito che ha comunque la sua legittimità». Nel corso della conferenza stampa conclusiva dei lavori del Consiglio Permanente dei vescovi, mons. Crociata ha risposto alla domanda se nella prolusione del card. Angelo Bagnasco di lunedì scorso fosse da leggere un appello alle dimissioni del premier Silvio Berlusconi.
«La Cei - ha spiegato - non fa valutazioni di aspetti tecnici delle dinamiche della vita politica. La Chiesa giudica singoli temi quando è in gioco la sua missione, ma non esprime giudizi politici». «Dobbiamo esprimere giudizi sui singoli temi che di volta in volta si presentano mettendo in gioco i valori inerenti la dignità della persona, l’intangibilità della vita e le esigenze irrinunciabili della vita sociale, in quanto questo rientra nella finalità e nel senso della presenza della Chiesa nella società». La Chiesa, ha aggiunto il segretario dei vescovi, «esprime valutazioni, indirizzi, suggerimenti, confronti perché ha il dovere di rapportarsi con l’istituzione governativa, che ha legittimazione ed esistenza indipendenti dalla
Secondo la Ccee: «Il problema non è solo dell’economia»
I vescovi europei: «La crisi è dell’etica» CITTÀ DEL VATICANO. Il Papa incoraggia i vescovi europei definendo il Consiglio delle Conferenze episcopali europee una «preziosa struttura di collegamento tra episcopati europei che – aggiunge - da quarant’anni promuove una proficua collaborazione in attività pastorali ed ecumeniche». Da parte sua, il presidente del Ccee, il cardinale Erdo, proprio in occasione del quarantesimo anniversario, ribadisce, nella sua prolusione, la missione: «Sostenere la Chiesa in tutto il continente – dice - e avere una speciale attenzione per le Chiese che nell’ultimo secolo hanno sofferto molto sotto la dittatura dei regimi atei». Poi una parola in riferimento alla «grave situazione economica di tanti Paesi europei» di fronte alla quale – sottolinea il cardinale Erdo , la Chiesa «cerca di mostrare una via d’uscita». Per giungere a questa via d’uscita – spiega - «è fondamentale aprire la ragione e il cuore a Dio e quindi avere anche un’altra prospettiva della vita sociale determinata dalla solidarietà e dalla gratuità».
E il presidente del Consiglio dei vescovi europei avverte: «Uno dei sintomi più visibili della crisi in Europa è senz’altro il collasso dell’economia, ma molto più profonda e insidiosa è la crisi etica e antropologica che si annida specialmente nella vita delle famiglie, nelle strutture educative, nei media…». Parla inoltre delle discriminazioni dei cristiani: «Basta dare uno sguardo
ai fatti riportati dall’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa – dice - per rimanere sconcertati di fronte al numero di casi presenti in Europa di persone discriminate, in modo velato o evidente, nel loro luogo di lavoro o nei vari ambiti della vita sociale soltanto perché sono cristiane». «D’altra parte - aggiunge noi tutti sappiamo come, Chiesa, che viene dal popolo e dal Paese». Quindi, «la Chiesa non si vuole sostituire a nessuno, ma vuole invece promuovere l’impegno di tutti (gerarchia, laici, ministeri) secondo la differenza dei ministeri e delle collocazioni nella promozione e nella difesa di quel plesso di valori che costituisce il patrimonio della Chiesa cattolica e che costituisce una piattaforma per il bene comune di tutti». Il numero due dei vescovi italiani l’influenza di un certo atteggiamento anti-cristiano si diffonde sistematicamente nei mezzi di comunicazione sociale, nei libri di scuola o nell’opinione pubblica». C’è da dire che ieri Jean-Luc Moens, coordinatore delle missioni cittadine in Europa, ha presentato il risultato di un questionario del CCEE, dal quale emerge l’immagine di una Chiesa che si trova a vivere «in una situazione simile a quella degli Atti degli Apostoli, immersa in una cultura straniera». Emerge «una grande diversità tra Paesi ma anche un elemento comune: la necessità di aiutare tanti cristiani ad andare oltre la professione di fede per scoprire una relazione personale con Cristo». Un modo per superare, secondo la Chiesa, anche la crisi economica continentale.
specifici temi che mettono in gioco valori di fondo perché questo attiene alla missione della chiesa».
L’azione della Chiesa sul fronte dell’impegno sociale e politico dei cattolici parte «dalla responsabilità che i cattolici condividono con tutti i cittadini per il bene comune: partiamo da una presenza che vuole essere attiva, partecipe e corresponsabile del destino del Pae-
L’azione della Chiesa sul fronte dell’impegno sociale e politico dei cattolici deve partire «dalla responsabilità che i cattolici condividono con tutti i cittadini per il bene comune del Paese» ha voluto anche analizzare il passaggio in cui, nella sua prolusione, il cardinal Bagnasco aveva accennato a un nuovo “soggetto”dei cattolici.
«Da parte nostra non c’è nessuna iniziativa volta a organizzare un partito. Non abbiamo nessun partito da promuovere o da organizzare». Attribuire intenzioni del genere alla prolusione, ha aggiunto subito dopo, «è fuori luogo. Noi non abbiamo da esprimere giudizi complessivi su una maggiore o minore vicinanza di sensibilità di un governo rispetto a un altro. Questo ci porterebbe su un terreno politico. Abbiamo da esprimere per ragioni istituzionali valutazioni e indirizzi su
se» La “evoluzione convulsa” della vita politica, sottolinea ancora mons. Crociata, «invita ad una rinnovata presa di coscienza di questa responsabilità. I cattolici costituiscono un giacimento culturale, un patrimonio di valori che va reinvestito anche al di là dell’appartenenza o della pratica religiosa». Il “soggetto” culturale e politico evocato dal card. Bagnasco va quindi letto «come un invito a convergere, a partire da questo patrimonio condiviso, attorno ai valori fondamentali del mondo cattolico, mostrando nella eccezionalità di questa transizione l’importanza di uno sforzo condiviso». Il segretario dei vescovi ha anche confermato la presenza del presidente
politica
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Sono strumentali e poco utili gli interrogativi sul “ritorno alla Dc”
Non di sola politica vive il cristiano
Il dibattito sulla presenza dei fedeli nell’agone pubblico deve ripartire dall’essere umano di Francesco D’Onofrio ono ormai numerosi gli interventi sulle più recenti iniziative di provenienza cattolica: si va dalla domanda sul “se rinasce la Dc” o “se sta per nascere un nuovo partito”; ci si interroga sul rapporto tra cattolici e Berlusconi, quasi che si fosse in un tradizionale talk-show politico concernente il governo in carica; si distingue tra integralismo cattolico e integralità cristiana, quasi che la secolarizzazione non dovesse porre questioni di fondo proprio in riferimento al rapporto tra religione e Stato; si accentua il carattere italiano delle iniziative in corso, quasi a dimenticare che il cristianesimo è per sua natura tendenzialmente universale.
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L’Assemblea generale della Cei. In basso, mons. Crociata. A sinistra De Gasperi. Nella pagina a fianco, il cardinal Erdo
della Cei al seminario organizzato a Todi il prossimo 17 ottobre dal Forum delle associazioni cattolici del mondo del lavoro. La sua presenza, ha spiegato, servirà a confermare la «premura della Cei per il bene del Paese, a partire dal cattolicesimo popolare». Quanto ai contenuti del suo intervento, mons. Crociata ha precisato che la dottrina cattolica «è un plesso di valori, non un vestito stagionale che si mette secondo le mode o le atmosfere di giornata e i suoi cardini sono l’etica della vita e l’etica sociale, strettamente correlate e strutturate gerarchicamente».
In conclusione, il vescovo ha voluto chiarire e sottolineare la grande vicinanza di papa Benedetto XVI alla Chiesa e alla società italiana, smentendo anche chi aveva ventilato lipotesi di uno “scatto in avanti” della Cei al di fuori della sfera della Santa Sede: «La prolusione è stata pubblicata come sempre dall’Osservatore Romano e dei temi di cui tratta, il cardinale Bagnasco ha parlato previamente e personalmente, come di prassi, con il Papa». Insomma, nessuna diserzione o allontanamento di vedute con Benedetto XVI. E se la discesa in campo, o le crociate, non sono nella mente dei vescovi, la preoccupazione è comune. Non soltanto nella Chiesa italiana, ma in quella universale. Perché la situazione è grave, e seria.
Il dibattito in corso sulle più recenti iniziative di provenienza cattolica è diventato persino tumultuoso all’indomani della prolusione del Cardinale Bagnasco in qualità di presidente della Cei, quasi a vedere nella prolusione medesima una sorta di suggello conclusivo per quel che concerne le iniziative in corso e di apertura di una vera e propria nuova fase politica, quasi che si trattasse del segretario nazionale di un partito politico italiano. Ogni volta che si discute di questa o quella iniziativa cattolica occorre infatti aver sempre presente che si tratta di iniziative nelle quali la dimensione culturale, la dimensione sociale e la dimensione elettorale costituiscono un tutt’uno non facilmente distinguibile per chi - alla luce della secolarizzazione - è abituato a considerare la religione un fatto tendenzialmente individuale che, soprattutto in Europa, ha avuto il significato di separare rigidamente il pubblico dal privato, rinchiudendo di conseguenza la religiosità cristiana in una dimensione esclusivamente intimistica ed individualistica. Anche in riferimento alle più recenti iniziative, ed ancor più in relazione alla prolusione del cardinale Bagnasco, occorre pertanto saper distinguere tra permanente e transeunte; tra immodificabile e cangiante; tra popolo cristiano e Chiesa istituzionale; tra dimensione nazionale italiana, contesto europeo, ambito mediterraneo, tendenziale globalizzazione mondiale. Le iniziative delle quali si parla concernono infatti contestualmente la dimensione culturale che viene posta a base stessa della religiosità cristiana; l’orizzonte sociale delle iniziative considerate; l’interlocuzione con chiunque sia al governo dell’Italia nell’epoca storica considerata; il significato stesso della sovranità nazionale nel nuovo processo di integrazione europea; la combinazione -necessaria soprattutto per un cristiano - tra gelosa difesa della propria identità e consapevolezza delle condizio-
ni di vita in ambiti territoriali lontani dall’Italia, dall’Europa, dal Mediterraneo. Appare di conseguenza riduttivo vedere nelle iniziative in atto la sola dimensione politico-elettorale, dimenticando che per l’ispirazione cristiana la dimensione della solidarietà inerisce a qualunque attività umana, dalla comunità familiare alle altre e numerose comunità di vita, di affetto e di lavoro, di territorio, minuscolo o grande che esso sia. Sono pertanto le dimensioni di tempo e spazio tipiche del pensare cristiano quelle necessarie per poter cercare di comprendere gli avvenimenti che oggi appaiono particolarmente rilevanti. Si tratta infatti di una rilevanza che incide certamente sulle dimensioni di tempo e spazio che avevano caratterizzato anche l’iniziativa cattolica durante il processo di formazione dell’unità nazionale (come il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ripetutamente colto nel contesto delle celebrazioni dell’Unità nazionale medesima); si tratta delle dimensioni di tempo e spazio che hanno indotto Luigi Sturzo a dar vita al Partito Popolare italiano e Alcide de Gasperi a dar vita alla Democrazia Cristiana; si tratta in fondo di quella rivoluzione antropologica che il cardinale Ruini ha posto proprio a fondamento della riflessione culturale nel tempo presente; si tratta dunque di qualcosa che va certamente al di là di quella visione sostanzialmente angusta che risolve tutto negli equilibri politici di governo. Non vi è dubbio che le iniziative sono certamente destinate ad influire anche sugli equilibri di governo che si è soliti definire della Seconda Repubblica. Ma commetterebbe un grave errore culturale prima ancora che politico - chi tentasse di vedere nelle iniziative in atto una sorta di coincidenza tra Democrazia Cristiana e iniziative odierne di ispirazione cristiana. Ma se non vi è nostalgia per una esperienza partitica quale è stata quella della Democrazia Cristiana, non vi è del pari nessuna “demonizzazione” di quella esperienza in quanto di provenienza cristiana.
Le iniziative a carattere elettorale hanno frantumato l’identità complessiva dell’umanità
Il ripetuto e significativo appello ad un rinnovato impegno politico da parte di quanti hanno l’ardire di dichiararsi di ispirazione cristiana non comporta infatti l’operare esclusivamente in una dimensione politico-elettorale, perché la politica si può realizzare anche in iniziative diverse da quelle politico-elettorali, perché queste hanno proprio finito con il frantumare l’identità complessiva dell’uomo, se a questa identità – come per i cristiani è del tutto normale – si guarda come un tutt’uno, nella consapevolezza che questo è il significato di persona umana.
politica
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Pannella attacca il Pd: «Non hanno centro né strategia politica, ormai sono sposati con il molisano fissato con le manette»
La contraddizione di Bersani È più corretto punire i radicali o la politica delle ammucchiate?
una storia curiosa questo scontro tra il Partito Democratico e i radicali italiani. Il processo politico che i vertici del Pd hanno imbastito contro Marco Pannella e la sua formazione ha in sé qualcosa di bizzarro.
È
Se si trattasse semplicemente d’un puntiglio disciplinare – riflessi da centralismo democratico – dell’irritazione cioè per il non allineamento durante il voto di sfiducia al ministro Saverio Romano verrebbe da domandarsi per quale motivo la stessa energia polemica non sia stata impiegata dalla direzione del Pd quando lo scorso marzo il radicale Marco Beltrandi si schierò con il governo. Anche perché grazie al suo voto non passò alla Camera la mozione Franceschini con cui veniva chiesto l’accorpamento delle elezioni amministrative con il referendum, il cosiddetto election day. Si certo i Democratici avevano subito protestato per la scelta di Beltrandi, la solita Rosy Bindi l’aveva definita ”gravissima” aggiungendo che «ci sono momenti nei quali la disciplina di un gruppo è fondamentale». Che la Bindi fosse nervosa lo si capisce bene considerando che quel voto si era concluso con 276 contrari e 275 a favore, tradotto significa che se il radicale, eletto con il Partito Democratico, avesse votato con l’opposizione il risultato sarebbe
di Riccardo Paradisi stato l’opposto. Nessuno però allora, almeno ufficialmente, chiese l’espulsione dei radicali dal Pd. Oggi nel Pd c’è chi invece i radicali lo vedrebbe volentieri alla porta. Al di là dell’egemonia ferita e del centralismo democratico frustrato c’è da domandarsi dunque perché al Nazareno stavolta l’insofferenza verso i radicali sia maggiore, perché c’è questa voglia di farla finita con loro. La prima ipotesi è che nel Pd vi sia la convinzione che uneventuale cambio di maggioranza e una svolta politica potrebbero essere gestite più serenamente senza le loro alzate d’ingegno tanto più che l’esiguità della loro
pattuglia comporterebbe un sacrificio sostenibile. La seconda ipotesi è meno tattica e più strategica, ossia che il Pd abbia ormai deciso che il suo orizzonte è quello dell’alleanza con l’estrema sinistra di Nichi Vendola e con l’area giustizialista e antipolitica di Antonio di Pietro. Ed è questa l’interpretazione con cui Marco Pannella legge questa vicenda. A chi gli chiede se i radicali siano dunque giunti alle pratiche di divorzio con il Pd Pannella risponde che ci si divorzia con qualcuno con cui s’è contratto un matrimonio. Invece tra Pd e radicali non c’è stata nessuna unione in questo senso anche perché il Pd ha preferito farlo con l’Idv di Antonio Di Pietro il matrimonio.
Pannella tiene poi il punto sulla questione di merito del mancato voto di sfiducia a Romano. Spiegando che i radicali hanno utilizzato quella occasione per rilanciare con forza la richiesta di amnistia per «liberare i 70mila sequestrati come da pirati somali nelle carceri nazionali». Pannella mette sul piatto anche il resto della polemica contro i democratici. «Poverino il Pd, poverini loro e noi tutti. Come si dice. Perdona loro perché non sanno quello che fanno. Certo fosse solo questo. Nel Pd il vero problema è l’assenza totale di un dibattito di qualsiasi ti-
po». E rivolto direttamente ai vertici democrat dice provocatorio: «Espelleteci se ne siete capaci». Pannella sa che non ci saranno né potranno esserci espulsioni anche se un libertario della sua tempra – meno libertario nella gestione del suo partito come si sono spesso lamentati esponenti radicali poi emigrati in altri recinti politici – non può tollerare nemmeno gli accenti da maestrina di Rosy Bindi, quell’invito perentorio a rientrare nei ranghi, quel richiamo alla disciplina. La prossima settimana ci sarà dunque un incontro del segretario Pd con Marco Pannella ed Emma Bonino ma alla direzione di lunedì Bersani non accen-
Di Pietro, proprio lui che non molto tempo fa s’era espresso con solennità di toni ultimativi contro ogni ipotesi di rinnovato Ulivo e santa alleanza. Ma la depoliticizzazione della tensione tra Pd e radicali è una una rimozione. Perché Pannella pone un problema politico innestandolo anche sulla strategia delle alleanze del Pd definendo Di Pietro «Un molisano che si è montato la testa e si interessa più del mondo delle manette che dei diritti».
L’ex Pm risponde a stretto giro chiedendo al Pd come sia possibile allearsi con chi vuole l’amnistia e, rivolto a Veltroni, dice che il «problema è chi ha messo lì i radicali». Del resto che il Pd guardi ormai verso
Non è vero che si tratta di una questione interna al gruppo. Il vecchio leader pone un problema politico contestando l’intesa sempre più stretta dei democrat con l’Italia dei Valori nerà alla vicenda. Per lui si tratta di una questione interna al gruppo parlamentare. È anche la versione di Walter Veltroni: «Nel voto sulla sfiducia a Romano, al quale non hanno partecipato, i radicali hanno compiuto un errore di merito e di metodo. Ma non credo che il modo giusto per affrontarlo sia una espulsione. Un vero chiarimento politico, questo si». Nella stessa riflessione però Veltroni apre le prospettive future del Pd anche a Vendola e
Vendola e Di Pietro e non gli interessi un ancoraggio d’alleanze al centro lo dimostra l’adesione e il sostegno al referendum sulla legge elettorale: «Non ci ho messo il cappello ma i banchetti per raccogliere le firme si» dice il segretario del Pd a proposito della raccolta della firme per un referendum la cui vittoria farebbe tornare in vita il cosiddetto Mattarellum, che determinava l’elezione del 75% dei parlamentari in collegi uninominali.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Drive” di Nicolas Winding Refn
QUESTIONE DI STILE di Anselma Dell’Olio
rive, il noir d’azione di Nicolas Winding Refn, arriva con un pedigree. giovane ebreo neo-nazista; nel 2004 è Noah, un giovanotto povero innamorato di una ragazza ricca in Le pagine della nostra vita, film sentimentale Invitato nella selezione ufficiale dell’ultimo Festival di Cannes, ha portato a casa il Premio per la regia. Il protagonista è la ed efficace di Nick Cassavetes, e il critico Roger Ebert già lo definiIl protagonista, star in inarrestabile ascesa e attore du jour Ryan Gosce uno dei migliori attori della sua generazione. Ora ne è il dosling. Lo abbiamo scoperto in sapidi, insoliti film indipenminus. Al Lido ha dato spessore a Le idi di marzo di GeorRyan Gosling, è la star ge Clooney (Venezia 68) che esce dopo Natale, nel ruodenti come Lars e una ragazza tutta sua (2007) dove del momento, e la regia, premiata lo di un giovane idealista in politica che perde le un uomo impacciato in amore si sblocca con una all’ultimo Festival di Cannes, è emozionante, illusioni e si scaltrisce, a contatto con la bambola a grandezza umana. Il suo memorarealtà delle campagne elettorali e la scoperta bile ritratto in Half Nelson (2006) di Dan, un indi quelle che incatenano allo schermo. Troppa che anche il più nobile dei candidati è una scheggia segnante di scuola media tossicomane, gli ha portaforma e poca sostanza è stato detto, del legno storto dell’umanità, come tutti. È un film ben to un bouquet di candidature per miglior attore tra cui ma in questo film la forma fatto e scritto, con un ottimo cast, che ha al centro un vuoto quelle dei Golden Globe e degli Academy Award. Ha vinto il intellettivo, una filosofia banale, qualunquista. Globe per Blue Valentine (con Michelle Williams), altro film ultra è sostanza Gosling conferisce peso drammatico ai film con la sua presenza, semindipendente, curiosa disamina di un matrimonio tra flashback e flapre composta ed elettrizzante insieme. shforward. L’attore canadese emerge nel 2001 con The Believer, film su un
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Parola chiave Parlamento di Sergio Belardinelli Mick senza Stones a rischio indigestione di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
La prima sfida di Federigo Tozzi di Francesco Napoli
Gugliemo di Rubruck alla corte del Gran Khan di Franco Cardini La felicità secondo Goethe di Pier Mario Fasanotti
L’anticamente moderno Cerone di Marco Vallora
questione di
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C’è chi sostiene che senza di lui Drive, tratto dall’ottimo romanzo pulp di James Sallis, sarebbe un thriller qualunque, ma dimenticano la regia giustamente premiata. Il protagonista (Gosling) senza nome come l’eroe di un western classico, non ha altro nome che Driver, e di lui sappiamo solo quello che comunica il viso enciclopedico dell’attore. È più che sufficiente. S’inizia in una camera d’albergo anonima. Si sente una voce fuori campo: scopriamo che è Driver al telefono con un cliente. Di giorno Driver lavora nell’officina di Shannon (Bryan Cranston) che gli trova ingaggi come pilota stuntman nelle produzioni di Hollywood. Ci sono anche missioni segrete in cui il suo virtuosismo al volante è ancora più apprezzato e ben retribuito. Siamo nella Los Angeles di Nathaniel West (Il giorno della locusta), nei quartieri mediocri lontani dal glamour, blocchi d’appartamenti qualsiasi, a buon prezzo, abitati da aspiranti famosi, ex famosi (i temuti has-been) o più spesso da falliti, e d’attività commerciali spesso ambigue.
Di notte Driver si presta a guidare auto truccate per rapine. Non vuol sapere nulla oltre l’indirizzo, come scandisce al cellulare: «Sono a disposizione vostra per cinque minuti. Quel che succede prima e dopo, non mi riguarda». Prima di uscire butta via il telefonino, precauzione essenziale. Driver ha poche regole e chiare, e le fa rispettare. Accompagna due tipi mascherati in una Chevrolet Impala argentata, «sicura perché anonima, l’auto più comune di Los Angeles», rammenta Shannon. «Ma sotto il cofano c’è una bomba di motore, 300 di cilindrata». Driver, stuzzicadenti al centro della bocca, impassibile, aspetta fuori di un complesso industriale. Tiene la portiera posteriore aperta. Sbuca da un magazzino il primo ladro con una borsa; banconote o refurtiva. L’uomo smoccola, agitato: il complice non arriva. Driver guarda l’orologio da polso che ha legato sul volante appena iniziata l’operazione. Non sono ancora passati i cinque minuti. Finalmente compare correndo il socio, salta in macchina e Driver parte. Ha la radio accesa: ascolta sin dall’inizio la cronaca di una partita. Colpisce il suo aplomb durante un’attesa snervante: la calma e il sangue freddo sono i ferri del mestiere; perché l’esibizione narcisistica? C’è un’altra trasmittente accesa che intercetta comunicazioni via radio tra le volanti della polizia. Partito l’allarme del magazzino, inizia la caccia ai ladri. Come sempre in una città notoriamente sparpagliata su una distesa vasta, la polizia chiama il supporto aereo e si sente il rumore degli elicotteri, la classica colonna sonora della Città degli Angeli, specie nei weekend. Gli sbirri in volo individuano la Chevrolet anno IV - numero 33 - pagina II
argentata e inizia l’inseguimento a rotta di collo per il dedalo di strade. Le riprese sono spettacolari ed eleganti; una buona prova dell’abilità da pilota di Driver e della raffinata, emozionante regia di Refn. Se di giorno L.A. è una città d’interminabili grovigli di strade, autostrade, sottopassaggi, cavalcavia e svincoli per sopraelevate ingrigite dallo smog, di notte assume il trucco delle grandi occasioni: diventa una Bella di Notte. Vista dall’alto dopo il crepuscolo, L.A. pare un vasto tappeto di velluto nero cosparso di brillanti e rubini, falsi e splendenti. La fotografia affascinante a forti contrasti di luce è di Newton Thomas Sigel, una formazione di pittore e cineasta sperimentale al Whitney Museum di New York. Ha girato sei film con Bryan Singer, tra cui I soliti sospetti. Durante le acrobazie della corsa in auto (con Driver che gioca anche a nascondino), la radio annuncia la fine della partita. La Chevrolet s’infila in un parking sotterraneo vicino allo stadio, mentre orde di tifosi affluiscono rumorose, festanti a riprendersi le auto. Driver scende, cala un berretto in testa, e si perde nella folla. Non era una smargiassata supercool ascoltare la radiocronaca ma un tassello del piano di fu-
ga. Notiamo che porta una ganza giacca a vento di raso bianco, con un grande scorpione dorato ricamato sulla schiena: gli si addice. Poi partono i titoli di testa rosa shocking, e siamo già incatenati allo schermo.
Nel corridoio del suo palazzo incontra Irene (Carey Mulligan, la studentessa di An Education, la perfezione), una giovane madre sola con un bambino, Benicio. Si salutano, lei con la cesta della biancheria in braccio. Una corrente passa tra i due adulti. Più tardi al supermercato, Driver ascolta, non visto, le affettuosità scambiate tra Irene e il figlio. È cotto, e si intuisce che la sua infanzia era molto diversa. Nel parcheggio, con perfetto tempismo cinematografico, lei ha l’auto in panne. Driver li accompagna a casa, porta su la spesa, e scambiano qualche parola. Il papà di Benicio è in
carcere. Irene chiede cosa fa il vicino. «Guido». «Limousine?». «No, nei film». «È pericoloso?». «È solo part-time. In realtà lavoro in un’officina dalle parti di Reseda Boulevard». Il giorno dopo porta mamma e figlio a fare un giro sul letto del fiume secco di Los Angeles, una pista da corsa. Non c’è un eccesso di trama o di dialoghi, solo l’essenziale. Il marito d’Irene torna a casa inaspettatamente con l’intenzione di redimersi, ma è indebitato con la malavita per la protezione in carcere. Obbligato a fare un colpo per sdebitarsi ed evitare guai alla famiglia, Driver si offre come autista per proteggere Irene e Benicio dalla vendetta trasversale. Il copione è di Hossein Amini, candidato all’Oscar per l’adattamento di Le ali della libertà, dal romanzo di Henry James. È stato Gosling a innamorarsi del libro e a scegliere il regista. I critici che parlano di style over substance, non notano che qui lo stile è la sostanza; se leggessero il libro, coglierebbero l’abilità dei cineasti nel trasformare correnti esistenziali necessariamente esplicite in prosa, in potenza narrativa visiva. Refn nasce in Danimarca nel 1970, e si trasferisce negli Stati Uniti nel 1981. Torna in patria per completare il liceo, poi studia all’Academy of Dramatic Arts di New York, dove è espulso prima della laurea per aver lanciato una scrivania in aula. Entra subito nella Danish Film School, senza diplomarsi. A 24 anni ha l’opportunità di trasformare un suo corto in un film di produzione danese. È un successo internazionale il primo capitolo della trilogia Pusher, ammirata per la vio-
stile
lenza estrema e il rigore formale. Fear X (scritto con Hubert Selby Jr., autore di Ultima fermata a Brooklyn) è con John Turturro, il suo primo film in inglese, invitato a Sundance. Il fallimento della sua casa di produzione costringe il filmaker a riprendere Pusher. Scrive, produce e dirige altri due capitoli. È il raro caso in cui i sequel equivalgono o superano l’originale, e lanciano la carriera di un autore subito di culto.
Noi lo abbiamo incrociato con il mirabile Bronson, biopic sui generis, scritto e diretto da lui, che ha fulminato Sundance nel 2008. È un film originalissimo sul criminale-artista che, non a caso, ha il nome d’arte di Charles Bronson, il più violento detenuto della Gran Bretagna. È uscito in Italia solo alla fine della scorsa stagione, sulla scia del premio a Cannes, grazie a Fulvio e Federica Lucisano, che distribuiscono Drive. Refn è un autore che sa quel che vuole. Lars Von Trier gli ha offerto di girare Dear Wendy, ma lui ha giustamente rifiutato. Il film, superficiale e noioso, è una macchia sulla carriera di Thomas Vinterberg, un passo falso dopo l’ipnotizzante Festen, storia famigliare crudele di raro fascino. Il tocco da maestro (non più emergente) c’è anche nelle parti secondarie. Sicuramente Carey Mulligan, richiesta dappertutto, non avrebbe accettato un personaggio incisivo ma quasi muto come Irene da un regista meno dotato. Christina Hendricks, la rossa formosa di Mad Men, è Blanche, la procace donna di un picciotto usata come esca nel colpo che segna a fuoco la vita di Driver. Il più sorprendente tra i caratteristi è Albert Brooks (nato Albert Einstein), noto per le sue rom-com d’autore, con tormentati eroi passive-aggressive. Qui è l’aggressive-aggressive Bernie Rose, tostissimo ex produttore di film porno e capo banda, e incute terrore. Brooks coglie lo stretto rapporto tra ira e comicità. «Il comico contrabbanda le sue ossessioni negative provocando risate». Gosling, però, come dice Refn, «puoi guardarlo per ore. È un dono di pochi». Il regista non è da meno. Un esempio per tutti: il bacio en rallenti vibrante di sensualità e minaccia tra Irene e Driver in ascensore. Da non perdere.
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PARLAMENTO n un sistema politico liberaldemocratico il Parlamento esprime certo il potere legislativo e di controllo del governo, ma soprattutto esprime la parola, l’azione del parlare. E lo fa in modo specialissimo. Posso infatti parlare di calcio o di belle donne, senza che questo significhi, purtroppo, giocare a pallone o altro. Ma parlare di politica è diverso. La parola politica è sempre azione politica. In Parlamento dunque si parla e si agisce parlando, realizzando in questo modo la dimensione più nobile e più umana della politica, addirittura la dimensione umana per eccellenza, se è vero, come pensava Aristotele, che è precisamente la parola, il logos, ossia la ragione, a distinguere l’uomo dagli altri animali: quella parola che, guarda caso (sono sempre parole di Aristotele), è fatta «per esprimere il giusto e l’ingiusto e gli altri valori». Il grande valore politico e simbolico del Parlamento sta in questo suo costitutivo richiamo al logos, alla parola. È dunque facile immaginare la tragedia politica e simbolica che si consuma nel momento in cui, in Parlamento, non si parla più, oppure le parole perdono il loro peso, diciamo pure il loro fondamentale orientamento a ciò che è giusto, diventando qualcos’altro: vuota retorica, chiacchiera e demagogia.
I
A scanso di equivoci, vorrei chiarire subito che non intendo parlare della crisi del nostro Parlamento in particolare, né cantarne le lodi, a scapito magari di qualche altra istituzione dello Stato. Ciò che mi preme sottolineare è semplicemente quanto ho già detto: se il Parlamento richiama la parola, allora in Parlamento occorre prestare un’attenzione speciale alla natura della parola stessa, alla natura del logos. Non si possono dimenticare «il giusto e l’ingiusto e gli altri valori»; non si possono dimenticare la verità e la giustizia, le norme più alte dei nostri discorsi politici.Temo invece che un po’ ce le stiamo dimenticando. Per il fatto di vivere in un contesto socio-culturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in ordine a ciò che è vero e giusto e di prendere quindi le nostre decisioni politiche a maggioranza, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra; siamo diventati relativisti, con la convinzione che questo fosse il modo migliore per essere pluralisti e tolleranti. Ma questo significa soltanto mettere una cattiva filosofia alla base di una pratica eccellente (la pratica parlamentare) che, alla lunga, potrebbe esserne danneggiata. Le nostre decisioni politiche, ad esempio, vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell’uomo e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata presa con il consenso della maggioranza che una
Nel tempio della democrazia occorre prestare un’attenzione speciale alla natura del logos, fatto per esprimere, come diceva Aristotele, “il giusto, l’ingiusto e altri valori”. Primo fra tutti, la verità
Il peso delle parole di Sergio Belardinelli
La dialettica democratica e le procedure parlamentari funzionano, se c’è un ethos che le ispira, fatto di fiducia, di convinzioni comuni sulla dignità e la libertà delle persone. La semplice conta dei voti non è sufficiente. Nessuna democrazia può sopportare a lungo di essere governata da menzogna e falsità decisione giusta imposta con la forza. Altro che relativismo. Per richiamare un po’ un’idea che ho sviluppato nel mio libro intitolato L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità, credo che sia proprio a livello della verità dei nostri discorsi che oggi si gioca la partita culturale più importante; una partita importante anche per la laicità delle nostre istituzioni in generale e del Parlamento in particolare. Qualcuno però potrebbe obbiettare subito: non è forse vero che oggi il concetto di verità è assai discreditato e che lo spazio pubblico democratico, quindi anche il Parlamento, si caratterizzano soprattutto per il pluralismo delle posizioni che in esso si esprimono e per una sorta di rinuncia preventiva a prendere decisioni in nome della verità? Senz’altro. Ma questo non significa che la verità non continui a svolgere una funzione fondamentale. Credo anzi che sia
proprio la verità a dare il giusto senso alle nostre scelte e alla dialettica democratica stessa. È quasi stucchevole trovarsi a discutere di tutto, anche di questioni di vita e di morte, senza la fiducia che esistano argomenti più validi di altri - più validi perché più vicini alla realtà delle cose, non certo perché condivisi da un maggior numero di persone o perché «creduti» in base a una qualsiasi fede. Tendiamo ad esempio a fondare il pluralismo e la tolleranza sulla convinzione che non esista alcuna verità o, che è lo stesso, sulla convinzione che esistano tante verità quanti sono gli individui. Una sorta di pirandellismo preso alla leggera domina in questo senso i nostri discorsi. Ma non è questa la strada giusta per metterci al riparo dalla demagogia e dalla lotta per il potere fine a se stessa. Affinché la dialettica democratica e le procedure parlamentari funzio-
nino come si deve, c’è bisogno infatti anche di un ethos che in qualche modo le ispiri, un ethos fatto di fiducia (come accettare altrimenti il verdetto della maggioranza?), di convinzioni comuni circa la dignità e la libertà delle persone, come pure circa la verità. Quando questo ethos comune si indebolisce, ci accorgiamo non a caso che la dialettica politica e quella parlamentare tendono a incepparsi. La semplice conta dei voti non è più sufficiente; maggioranza e minoranza tendono a delegittimarsi reciprocamente, addirittura a considerarsi reciprocamente criminali; per farla breve, la democrazia perde qualcosa che le è fondamentale: il senso dell’unità politica, il sentirsi tutti sulla stessa barca e la consapevolezza che le decisioni della maggioranza possono pur sempre essere poste al vaglio della verità e della giustizia. Nessuna democrazia può sopportare di essere governata troppo a lungo dalla menzogna e dalla falsità.
Proprio nei momenti di crisi diventa pertanto decisiva la verità dei nostri discorsi, la loro conformità o meno alla «cosa stessa», direbbe Aristotele. E questo vale sia per la maggioranza che per l’opposizione. Per questo credo che non bisogna mai stancarsi di ricercare la verità, a maggiore ragione quando essa è controversa. Per questo credo che la «sensibilità per la verità», come la chiama Habermas, sia oggi una risorsa pubblica di fondamentale importanza. La pratica democratica non può certo pretendere di dedurre dalla verità di un argomento il fatto che esso venga anche condiviso; la verità degli argomenti conta finché si discute; quando si tratta di «decidere», si contano le mani e la maggioranza vince. Punto. Alla fin fine, sono convinto anch’io che quest’ultima procedura sia la più preziosa in democrazia. Credo tuttavia che sarebbe come snaturarla, se la scardinassimo, come purtroppo oggi accade assai spesso, dal suo riferimento alla «verità», dal suo riferimento a qualcosa che vale a prescindere dal fatto che venga riconosciuto. È precisamente questo riconoscimento, infatti, che costituisce l’argine migliore a qualsiasi pretesa totalizzante della politica. Si tratta dunque di mantenere viva l’istanza della verità, rinunciando alla pretesa di imporla. Dobbiamo imparare a mettere la libertà e la dignità degli uomini al primo posto (meglio l’errore liberamente scelto che la verità imposta con la forza); dobbiamo farlo, però, senza dimenticare mai la verità, la quale peraltro tanto più è robusta e tanto più riesce a sopportare che la si misconosca, che la si offenda, diciamo pure, che la si crocifigga. Credo che sia entro questo orizzonte che si dispiega il presupposto più laico e più nobile, diciamo pure il vero logos, della dialettica parlamentare e dei sui inevitabili conflitti.
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Pop
musica
FENOMENOLOGIA di Truce Baldazzi di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi el 2012 i Rolling Stones festeggeranno cinquant’anni tondi di rock. Nuove canzoni in vista? Concerti? Raffica di ristampe con qualche inedito giusto per spennare i polli? Ricchi premi e cotillons? Per il momento: chissenefrega. Le pietre continuano a rotolare, ma ognuna per i fatti suoi. Se Charlie Watts sta riabbracciando il suo primo amore, il jazz, con gli A, B, C & D of Boogie Woogie, Keith Richards è intenzionato a rispolverare gli X-pensive Winos e Ron Wood a rifondare i Faces. E Mick Jagger? Fra gli Stones è quello che ha combinato le cose più in grande, architettando col chitarrista ed ex Eurythmics Dave Stewart il gruppo extralarge dei SuperHeavy. «Esperimento di un alchimista pazzo», ha sottolineato Stewart alludendo alla multietnicità dell’insieme che include la soulgirl inglese Joss Stone (che nel 2004 collaborò proprio con lui e Mick alla stesura della colonna sonora del remake di Alfie), il vocalist giamaicano Damian Marley (figlio del sempiterno Bob) e A.R. Rahman, detto «il Mozart di Madras», compositore indiano vincitore nel 2008 di due Oscar (miglior colonna sonora e miglior canzone, Jai Ho) per il film The Millionaire. «L’intenzione di Dave era di incidere un album coinvolgendo musicisti eterogenei che non esprimessero solo rock o blues ma il maggior numero possibile di generi», ha dichiarato Jagger. «Gli ho risposto che era una buona idea, ma non credevo fosse possibile trasformarla così facilmente in realtà». Invece, caracollando di studio in studio da Los Angeles al sud della Francia, da Cipro alla Turchia fino a Miami, ai Caraibi e infine a Chennai, in India, il quintetto ha costruito pezzo su pezzo SuperHeavy e adesso ne sbandiera tronfio i primati:
N
Jazz
zapping
no degli aspetti più bizzarri della realityzzazione che coinvolge anche la musica è lui. Truce per gli amici. Truce Baldazzi in arte, in vita Matteo Baldazzi. Un ragazzino pieno di rabbia e con un percorso scolastico travagliato che scopre il rap e comincia a frequentare i concerti dei suoi idoli, tanto da diventarne amico. Grazie a loro comincia a mettere in rima il suo disagio e diventa una star del web. Solo che non siamo nei ghetti di Detroit o di New York ma a Rastignano, frazione di Pianoro, in provincia di Bologna. Altro piccolo elemento di differenza rispetto alle storie dei soliti, bravissimi e fantasmagorici rapper americani, Truce non sa rappare. È oggettivamente scarso. Non ha tecnica, non ha musicalità, e nemmeno contenuto. Ma piace. O meglio: siamo di fronte a quel tipico fenomeno post-trash: Truce. Come altri, è popolare, ma non si capisce se piace o fa schifo. Anche chi scrive si trova di tanto in tanto a canticchiare qualcuno dei suoi, diciamo, hit, come Vendetta vera, ma sa benissimo che Truce non gli piace. E così Truce, oltre a essere un ragazzo obeso con problemi scolastici e una webstar è anche un paradosso vivente. Annulla quell’aspetto «antidemocratico» dell’arte, abbatte la quarta parete tra performer e spettatore (e c’è il sospetto che abbatta anche le altre tre di pareti, oltre a rompere una quantità di altre cose che non è il caso di menzionare) e nell’insieme fa sentire il fruitore superiore al performer: un po’ il meccanismo della fenomenologia di Mike Bongiorno spiegata da Umberto Eco. Certo a estendere questo meccanismo di identificazione al contrario tipico del postmoderno si rischia di cadere in un bel paradosso: finiremo per affezionarci a cose brutte perché ci rassicurano, ci fanno sentire superiori alla realtà. Ma c’è il sospetto che la religione del brutto sia già fra di noi, e che Truce ne sia l’esponente più simpatico. E inoffensivo.
U
Mick senza Stones
a rischio indigestione ventidue canzoni composte nei primi sei giorni, trentacinque ore complessive di musica registrata, più un’infinità di corroboranti jam sessions. Dopodiché, screma tu che scremo io, ecco i dodici brani finali (che diventano sedici nella deluxe edition) di questo disco zeppo di colori e di esotismo che ha il bel vizio di saltar di palo in frasca sovrapponendo e frullando umori, generi, stili e il viziaccio d’esser qua e là un po’ bulimico. I Fab Five, cioè, condividono tutto con grande onestà e professionalità; eppure ogni tanto danno singolarmente l’impressione di voler strafare, e collettivamente di metter troppa carne al fuoco. Ma veniamo ai dettagli. Pensando a Mick Jagger, se cercate aria «rollingstoniana» ne troverete tutt’al più qualche spiffero: nel rock trascinante di I Can’t Take It No More che riaccende il ricordo di Undercover Of The Night e nella
semiacustica ballata, stile Wild Horses, di Never Gonna Change. Il reggae, corteggiato dai Rolling Stones all’epoca di Black & Blue (1976) e dallo stesso Mick, quando nel ’78 intonò Don’t Look Back insieme a Peter Tosh, si svela sporco e urticante (Unbelievable), spensierato e pop (Miracle Worker), denso e burroso (Beautiful People), mentre fra le canzoni più multietniche spiccano la magmatica SuperHeavy che fila dalla world music fino al rock; il supersonico ragamuffin di Energy, infarcito di chitarre muscolari; One Day One Night, ballata con un pizzico di Bollywood. Pollice verso, invece, per la folkeggiante Satyameva Jayathe, fracassona e di grana grossa, cantata in urdu da tutta la compagnia. L’impressione, a fine ascolto, è di aver fatto una gran scorpacciata rischiando l’indigestione. Ma niente paura: il ruttino, liberatorio, sottintende che questo disco è più bello di tutti gli album solisti di Mick Jagger messi insieme. SuperHeavy, SuperHeavy, A&M/Universal, 17,99 euro
Bollani & Corea, gli indimenticabili di Orvieto idea del duo pianistico nel jazz risale agli anni Venti, quando George Gershwin e Ferdie Grofe oppure Roy Bargy e Lennie Hayton si esibivano con grandi orchestre come quella di Paul Whiteman. All’inizio però i due pianisti erano inseriti nell’organico di grandi orchestre con ottoni e archi. I primi a realizzare un vero duo di pianoforti, senza accompagnamento alcuno, furono negli Stati Uniti, Fats Waller e Bennie Paine e in Francia Clément Doucet e Jean Wiener, le cui esibizioni al Boeuf sur le Toit di Parigi, erano seguite con entusiasmo da musicisti, poeti, scrittori, pittori - Satie, Darius Milhaud, Francis Poulenc, Picasso, Man Ray, Jean Cocteau - che frequentarono per tutti gli anni Venti quel celebre locale che si trovava al 28 di Rue Boissy d’Anglas fra Place de la Con-
L’
di Adriano Mazzoletti corde e la chiesa de la Madeleine. Negli anni Trenta la voga del duo pianistico giunse in Italia e Alberto Semprini ed Enrico Bormioli, per oltre dieci anni, incisero dischi, si esibirono in concerto e alla radio sempre con notevole successo. Poi la voga dei due pianoforti terminò finché nel 1967 chiesi a Martial Solal e Hampton Hawes di prendere parte alla Stagione di Concerti Jazz fortemente voluta da Leone Piccioni, all’epoca direttore dei programmi di RadioRai. Il duo Solal-Hawes ebbe successo, limitato però a qualche successivo concerto e all’incisione di un disco. Nulla di più. Diciassette anni dopo, nel 1984, chiesi ancora a Solal di ritentare l’idea del duo, questa volta con un pianista italiano, Stefano Bollani. Il concerto che diedero a Genova, duran-
te l’Esposizione Universale del Jazz, fu un trionfo. Da allora Bollani e Solal si sono esibiti innumerevoli volte, sempre con lo stesso successo del loro primo concerto genovese. Da quel momento il duo pianistico è tornato di moda, spesso però con alterne vicende. Assai brillante, quello di Enrico PieranunziDanilo Perez, nel corso del festival romano Odio l’estate, modesto il concerto a Perugia del duo Danilo Rea-Brad Meldhau. Un duo straordinario è invece quello nato nel 2009 fra Chick Corea e Stefano Bollani, ascoltato a Perugia, Verona e Orvieto, lo scorso inverno. Fortunatamente il concerto di Orvieto è stato registrato da Ecm e il disco è stato pubblicato da qualche giorno in tutto il mondo. Disco importante questo. Chick Corea torna a incidere dopo
27 anni per questa prestigiosa casa discografica, per la quale Bollani ha licenziato i suoi lavori più recenti e impegnativi, fra cui un disco per piano solo e uno in trio con musicisti danesi. In quel disco c’era un brano intitolato Orvieto, composto dal contrabbassista Jesper Bodilsen, che dà il titolo al nuovo cd. Fra i brani più riusciti, la splendida interpretazione del capolavoro di Fats Waller, Jitterburg Waltz e poi Nardis di Miles Davis, Doralice di Dorival Caymmi, alcuni standars fra cui Darn That Dream, un tema originale di Corea Armando’s Rumba e Orvieto improvisation number One e Number Two, improvvisati sul palco, secondo la migliore tradizione inventata da Bollani e Solal, sette anni fa. Chick Corea-Stefano Bollani, Orvieto, Ecm, Distribuzione Ducale
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obbiamo essere martelli che spaccano i vetri per far entrare il vento nelle case»: non potrebbe esserci frase più «ceroniana» ma anche «alla Fontana», di questa. Aria! Sì, uno strano imbarazzo che ti prende nell’«attaccare» la seconda puntata del pezzo promesso sulla potente mostra di Giancinto Cerone alla Gnam di Roma. Non soltanto perché molte cose son passate, nei nostri occhi, nel frattempo - altre sculture, altre inezie, altri strazi e combattimenti con la materia. Non certo perché l’intensità dell’entusiasmo si è come appannata, nelle more del tempo, anzi. Né che si sia affievolita, negli interstizi del vivere trafelato (proprio come la materia ancora fluida e incandescente di Cerone) la verve polemica, che semmai questa mostra-pugno potenzia e nutre. Già, nel frattempo è giunto anche l’elegante catalogo Electa, e dunque le reazioni si ampliano, si complicano, proprio come la scultura ancora respirante e in apnea, pronta a esplodere stellarmente del nostro scultore, avviluppato nella materia e fulminante nei suoi aforismi. Il catalogo: magari qualcuno, ma non succede mai, dovrebbe fare anche un pochino di autocritica, sopra l’imperdonabile distrazione stesa su un artista di questo livello, che adesso tutti amano, tutti erano suoi amici e sostenitori, tutti ex-solleciti nell’averlo capito e supportato e non è vero nulla: era considerato piuttosto un giullare disturbato e disturbante (le categoriette di comodo del Lego espositivo), un epigono eccentrico dell’inquietudine esistenzial-informale, considerata, in quel momento, di lastre minimal e provocazioni concettuali, un avatar noioso e pasticcione. Si legge con piacere, per esempio, nell’immedesimato saluto di
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© Silvio Scafoletti
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per ritrovarmelo la mattina piantato nel plesso solare. Quel bruciore è Giacinto». Giacinto Cerone non-narciso, che porta un giacinto sulla tomba di Baccarini, morto giovanissimo. Cerone, già malato, il «figlio illegittimo di Medardo Rosso», che dando vita a una «scultura finalmente semovente», il figlio Michele, si confida: «Ti prego Michele con la tua salute porta via la mia malattia e fammi diventare moderno». Bellissimo e terribile questo «moderno», altro che i trucchetti con le bibliografie immaginarie o i giochetti con le avanguardie (anche lui guardava a Duchamp, ma in modo così diverso da tanti nipotini sclerotizzati del nulla dada. E poi lo coniugava, celibilmente, con altri olii essenziali: Fontana, Leoncillo, Martini). «Vedi, attraverso Fontana, che è lo scultore che amo di più - ma amo anche Martini, che è la Scultura - e che si è sempre sforzato di allontanarsi dalla scultura, io, stranamente, faccio scultura. La fine del XX secolo deve rappresentare la vita, l’appropriazione delle cose» (in modo così diverso dal Beuys, che dà lo stesso titolo a una sua opera, ma che non sai se chiude o apre, duchampianamente, una nuova era). E questa sorta di colata lavica di vita, trascina con sé, e non imbalsama, semmai potenzia, carciofi, giocattoli, Persefoni e Ofelie, fuochi d’esistenza e ipocrisie critiche (usiamo il martello nicciano per dare aria anche in queste stanze). Essere anticamente, eternamente, baudlerianamente: «moderno». Come ricorda Appella, uno di quei critici che gli è stato davvero accanto, e che spiega bene le radici terrestri, lucane, romaniche delle sue steli atterrate, ripeteva: «Stiamo ancora assorbendo gli echi degli scalpelli di Fidia». «Il futuro è dietro di noi, se non impariamo a ricordare».
L’anticamente moderno Cerone di Marco Vallora benvenuto di Maria Vittoria Clarelli, che «Achille Bonito Oliva ci ha sempre incoraggiato»; bene, meglio tardi che mai. Non per essere petulanti, ma, umilmente, non sarebbe stato meglio e giusto, incoraggiarlo al momento debito e perspicace, quand’era vivo, in difficoltà, lasciato spesso solo tra pochi critici eroici e sensibili, sbeffeggiati come conservatori e demodés? Perché qui, cari ragazzi, parlano solo e inesorabilmente le bibliografie, e qui in calce (la calce viva della vergogna) certi nomi che oggi si mimetizzano nel plauso generale del «recupero» (dalla propria cecità), i nomi proprio non si ve-
dono e sarà caritatevole non domandarsi quali altri artistacci ignobili quegli stessi incensatori dell’ultim’ora andavano allora magnificando. Tanto per rispettare la memoria d’un artista che ha sofferto e forse rimane grande perché non ha avuto nulla a che fare con quei meccanismi di mercato e di contraffazione estetica. E che in modo diverso dallo sdoppiato dandy Boetti, andava bruciantemente scrivendo (parlava spesso da solo, dicono, eh certo, se doveve attendere i critici alla moda, hai voglia che soliloqui...): «No, Giacinto è un compagno di viaggio. Un compagno che uccido tutte le sere,
Giacinto Cerone 1957-2004, Roma, Gnam, fino al 24 ottobre
Stilisti sulla macchina del tempo
entre le Borse traballano e i grafici dell’euro fanno pensare a quelli di un malato in rianimazione, la moda è costretta a celebrare una gioiosa primavera-estate 2012 (sempre che nel frattempo non arrivi la fine del mondo) e ci riesce addirittura. Mentre a ridosso del cambio di millennio era tutta una corsa verso il futuro, con strizzatine d’occhio alla fantascienza, adesso, salvo eccezioni (Krizia e le sue ragazze guerriere, con ginocchiere e paragomiti) la moda è tornata al passato, chi con i Cinquanta (Blumarine), chi con i Sessanta (Aquilano e Rimondi per Fay), chi con Venti (Gucci, Veronica Etro) scegliendo uno slancio, una suggestione, un sogno, ma con l’ambizione di vestire «donne vere» (così parlò Alberta Ferretti). Miuccia Prada per prima ha lavorato sul più anacronistico dei concetti, la dolcezza, «parola tabù nella moda», che predilige le signorine sexy-aggressive o quanto meno imbronciate. In nome di una «dolcezza non deficiente», Prada manda in passerella costumi che sarebbero piaciuti a Esther Williams (Bellezze al bagno è del 1944), colori «stucchevoli», postbellici, (rosa, azzurro pallido, giallino) e ragazze non così magre. Frida Giannini, diretto-
M
di Roselina Salemi re creativo di Gucci, reinventa Louise Brooks, diva del muto (l’equivalente contemporaneo più somigliante è Keira Knightley): donne sottilissime, capello corto, bocca disegnata, grandi occhi, androgine ma non troppo.Vita bassa, stampe animalier, jais in vetro. Alessia Giacobino, stilista di Jo No Fui reinventa Romy Schneider nel film La piscina (1968): lusso, feste, abiti corti davanti e lunghi dietro che lasciano, si suppone, una scia di profumo. Veronica Etro reiventa il futurismo, il Charleston, le stampe di Depero, in un’atmosfera jazzy frizzante e trasognata. Iceberg reinventa Charlotte Rampling (La caduta degli dei è del 1969) e le mette addosso fluidi abiti di maglia stampata con l’indimenticabile Valentina di Guido Crepax (che somiglia a Louise Brooks, a cominciare dalla pettinatura). Ferragamo evoca la bellissima Jerry Hall (anni Settanta-Ottanta), compagna di Mick Jagger, in vacanza a Moustique con i bambini. Dolce&Gabbana guardano a nuove generazioni cocciutamente nostalgiche, perciò pescano ancora, con allegra ironia, nei tardi Cinquanta di Mambo italiano e di Sophia Loren,
si ispirano ai body delle gemelle Kessler a Studio Uno (1964), e in passerella sale una festa di paese con tanto di luminarie. Bianca Balti apre la sfilata in cipolle e margherite e si vede di tutto, anche braccialetti e orecchini sotto forma di maccheroni e fusilli.Viva l’Italia. Ma se c’è un filo conduttore in questo racconto, è proprio la ricerca di un tempo, di un luogo, di un momento felice al quale tornare (non impossibile, ora che i neutrini, a sorpresa, hanno superato la velocità della luce), perciò ecco un’ombra della Dolce Vita nei colori perlacei di Giorgio Armani (grigi e azzurri, alternati a luci di blu), nella Torre di Pisa disegnata su un lungo abito da sera di Frankie Morello, nelle sirene di Versace - ma al posto dello chiffon c’è il neoprene -, nella fusion romantica di Ermanno Scervino che si può collocare in Rajasthan o in Cina, ma è in realtà, molto tricolore. Se mai qualcuno costruisse una macchina del tempo, i primi a usarla sarebbero gli stilisti. Krizia, Collezione 2012
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il paginone
Sconfinati deserti, algide o roventi distese di sabbia e di pietra, notti profonde o stellate. Con Guglielmo di Rubruck alla scoperta dei popoli «barbari» dell’Asia centrale presso i quali il frate si recò tra il 1253 e il 1256 con il proposito di cristianizzarli. Una pagina di storia che avrebbe potuto avere esiti sorprendenti… di Franco Cardini roviamo a raccontare una di quelle storie fosche eppur splendenti di colori da leggenda di cui è tanto ricco il nostro Medioevo. Chissà perché, al giorno d’oggi, alla gente piace sentirsi raccontare goffe e miserabili balle travestite da romanzi di mistero e di magia, con improbabili Santi Graal e finti ridicoli templari. La realtà storica non è solo «più vera»: è più ricca, più affascinante, più coinvolgente. Prendete il quinquennio che va dal 1241 al 1245: uno dei più infausti e terribili della storia di Europa. I tartari di Batu, nipote di Genghiz Khan, dilagavano tra i Balcani e la Polonia: e correva voce che puntassero sulla città di Colonia per appropriarsi, nella sua cattedrale, delle reliquie dei re magi dei quali alcuni principi mongoli si
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contraccolpo dell’impero mongolo che aveva sommerso il regno khwarizmiano - era tutto sommato un semplice episodio della guerra civile tra as-Salih Ayub sultano d’Egitto e suo zio Ismail signore di Damasco. I templari avevano persuaso i baroni franco-siriaci a prender parte a questa guerra schierandosi con Ismail, come avevano fatto i principi arabi di Siria. Il sultano d’Egitto, assicurandosi qualcosa a metà strada fra l’alleanza politica e il servizio mercenario dei khwarizmiani, aveva risposto mettendo in moto i suoi nuovi amici. Nell’economia generale del conflitto, la presa di Gerusalemme non fu che un evento secondario, mentre fondamentali furono la battaglia presso Herbiya a nord-est di Gaza con la quale gli egizio-khwarizmiani
Riccardo Filangieri, era stato così esautorato e non gli era rimasto che tornare dal suo imperiale padrone e patire il carcere in punizione per lo smacco subìto; intanto, nel 1246, la regina Alice era morta e la reggenza era passata al figlio Enrico re di Cipro. I diritti di Corrado restavano teoricamente intatti, ma in pratica gli svevi erano colpiti dal più duro ostracismo. Né soltanto in Oltremare Federico stava irrimediabilmente perdendo terreno: il Concilio di Lione si era aperto nonostante i suoi tentativi d’impedirlo e in quella sede Innocenzo IV, il 17 luglio 1245, l’aveva scomunicato e deposto, il che aveva provocato anche in Germania una guerra civile che si protrasse dall’anno successivo in poi. Egli cercò di reagire, ma dovette accorgersi ben presto
Il resoconto del “Viaggio in Mongolia”, pubblicato ora a cura di Paolo Chiesa, è appassionante e agevole. Se ne ricava una visione dei tartari delle steppe diversissima da quella successiva di Marco Polo dichiaravano discendenti. Frattanto, in Europa, il braccio di ferro tra l’imperatore Federico e il papa continuava, provocando in Germania come in Italia disordini e guerre civili.
Ma neppure il minaccioso affacciarsi mongolo alla storia europea riuscì a fare in modo che l’Occidente cambiasse da un anno all’altro i suoi atteggiamenti mentali vecchi ormai di secoli. Quando nel luglio del 1244 i nomadi guerrieri turchi detti - dal loro luogo d’origine - khwarizmiani, che l’avanzata mongola aveva cacciato dalla Persia orientale e che ora vivevano di saccheggi tra lo Jezireh e la Siria settentrionale, assalirono e conquistarono Gerusalemme in parte massacrandone in parte espellendone i cristiani, l’Europa non comprese che quello - oltre a essere la fatale conclusione del trattato che quindici anni avanti aveva restituito ai cristiani una Gerusalemme indifendibile per le fortificazioni smantellate, nonché un anno IV - numero 33 - pagina VIII
fermarono l’avanzata dei principi siriaci, cristiani e musulmani, e la successiva resa di Damasco nell’ottobre del 1245 al sultano Ayub. Ma in Occidente queste vicende politiche erano poco e confusamente note, e solo il fatto che la Città Santa fosse di nuovo preda degli infedeli colpì ancora una volta dolorosamente le coscienze cristiane. Unicamente un sovrano occidentale, l’imperatore Federico, aveva informazioni e pratica delle cose d’Oriente tali da permettergli di capire con precisione che cosa era avvenuto e di vedere con chiarezza gli errori politici dei baroni d’oltremare e soprattutto dei suoi acerrimi nemici, i templari: ma egli era ormai impotente giacché i baroni avevano affidato unilateralmente la reggenza per suo figlio Corrado, che per quanto maggiorenne non era andato a cingere in Acri la corona che gli sarebbe spettata, alla sua prozia Alice, regina-madre di Cipro. Il plenipotenziario di Federico,
che la sua stella era al tramonto.
Alla fine del 1244, alcune voci e canzoni avevano cominciato a spargersi per la cristianità ancor attonita a causa della nuova caduta di Gerusalemme. Si portava una buona novella dalla terra di Francia: il re Luigi IX, miracolosamente guarito da una crudele malattia, aveva fatto voto di partire crociato. Ciò era in effetti da molto tempo un suo sogno, per quanto la madre Bianca di Castiglia e i suoi consiglieri avessero cercato unanimi di richiamarlo ai più concreti obbiettivi della politica interna. Nel giugno del 1245 al Concilio di Lione Innocenzo IV, che già da due mesi aveva inviato al Gran Khan il francescano Giovanni da Pian del Carpine nella speranza di gettar le basi d’un’alleanza cristiano-mongola che chiudesse l’Islam in una morsa, aveva proclamato una nuova crociata. L’imperatore e i suoi partigiani si erano opposti al bando, sapendo con quale facilità la proclamazione d’una crociata poteva mutarsi in strumento di coercizione morale e fiscale da parte della Chiesa: e invano Luigi IX, che cercava disperatamente di funger da mediatore fra i due massimi poteri ecu-
Un frances alla cor del Gran K menici, si era sforzato di riportare la concordia. Ma papa Innocenzo IV si era dato frattanto a un nuovo sogno: la cristianizzazione dei mongoli e la vittoria della fede in tutta l’Asia centrale. A tale scopo aveva pensato a due diversi itinerari attraverso i quali raggiungere il mondo tartarico ed entrare in contato con esso. La «via meridionale» era stata affidata al francescano Lorenzo del Portogallo e poi al domenicano Ascelino da Cremona: egli, partito da Acri, vi fece ritorno attorno al 1247 dopo
aver attraversato Mesopotamia e Armenia meridionale fino alla Persia ed essersi arrestato ai limiti della regione turanica.
I non brillanti esiti della sua ambasceria furono narrati da uno dei suoi compagni, frate Simone da san Quintino, e la sua narrazione ci è giunta, per brani, nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais. La «via settentrionale» fu invece quella percorsa dal francescano Giovanni da Pian del Carpine, iniziato a metà aprile del 1245 e terminato
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Sopra, le carovane di Marco Polo; accanto la cartina dell’impero mongolo nel 1300 e l’itinerario percorso da Guglielmo di Rubruck torno al Syr-Darja, l’altopiano turanico e la pista tra il lago Balkhash e i monti del Kirghizistan. Giunta alla valle del fiume Ili, immissario del Balkash, la spedizione proseguì attraverso la Zungaria fino alla capitale-accampamento di Karakorum presso le sorgenti dell’Orhon (non lontano dall’odierna città di Tsetserlig), dove Giovanni arrivò alla fine di luglio in tempo per assistere alla proclamazione del nuovo Gran Khan, Ogödäi, cui presentò la missiva pontificia e dal quale ricevette ricchi doni.
scano rte Khan nel novembre del 1247. Latore di una lettera del pontefice per il Gran Khan, Giovanni partì da Lione e attraversò Germania, Boemia, Polonia, per giungere nel febbraio del 1246 a Kiev da dove s’inoltrò nell’immenso territorio controllato dai tartari seguendo il corso del Dnepr fino a giungere, ai primi d’aprile, alla corte di Batu Khan sul fiume Volga. Da lì, attraverso la Comania (cioè la Russia meridionale) e l’Ural, il frate affrontò l’immenso deserto a nord del Caspio e del lago di Aral e quindi le steppe at-
Il resoconto del francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck si situa appunto al culmine di questa prima fase del contatto religioso e mercantile tra Europa e Asia centrale. Frate Guglielmo conosceva già l’Egitto perché vi aveva accompagnato pochi anni prima Luigi di Francia in una crociata che era finita in un fallimento. Ma il re lo stimava: e fu proprio lui ad affidargli il compito di recare il verbo cristiano e romano ai tartari del Gran Khan Mangu. Abbiamo brevemente riassunto
scritto per giunta da piuma fiamminga. Una parola. E invece - sorpresa! - nulla ormai di più agevole. Grazie alle fatiche di un nostro ottimo filologo, Paolo Chiesa, professore di letteratura latina medievale nell’Università Statale di Milano, il Viaggio in Mongolia di Guglielmo di Rubruck esce ora per i tipi della Mondadori, nelle eleganti, irreprensibili edizioni promosse dalla Fondazione Valla, in originale latino con traduzione italiana a fronte (pp. XCIII-530). Un’emozione, un’avventura, una festa
Innocenzo IV voleva gettar le basi di un’alleanza cristiano-mongola che chiudesse l’Islam in una morsa. Individuò così due vie attraverso cui i suoi emissari poterono raggiungere il mondo tartarico Verso la metà del novembre cominciò il viaggio di ritorno, conclusosi quasi un anno più tardi.
Il buon esito del viaggio di Giovanni incoraggiò altri analoghi tentativi: quali quello del francescano Guglielmo di Rubruck, che viaggiò tra 1253 e 1256 con un confratello italiano, Bartolomeo da Cremona. L’itinerario di Guglielmo e di Bartolomeo, iniziato da Acri da dove tuttavia si era andati via mare fino a Soldaia (Sudak) in Crimea, ricalcò per l’andata la strada percorsa da Giovanni da Pian del Carpine, mentre per il ritorno si scelse di costeggiare la riva occidentale del Caspio per guadagnare le carovaniere dell’Azerbaijian e dell’Armenia fino alla costa Cilicia e di lì ad Acri. Insomma, messer Marco Polo da Venezia non fu per nulla un precursore: anzi, l’importanza del libro di viaggi ch’egli redasse in francese settentrionale (la stessa lingua nella quale il più grande cronista veneziano del Duecento, Martino da Canal, aveva redatto le sue Estoires de Venise) e che noi conosciamo come Il Milione, sta proprio nel rappresentare un momento conclusivo, la messa a punto di una prima conoscenza dell’Asia.
le tappe della via percorsa da Guglielmo: ma quel che davvero è indescrivibile, nel suo testo, è la ricchezza degli usi, delle tradizioni, della varietà dei luoghi e dei paesaggi attraversati e della gente avvicinata. Indescrivibile, abbiamo detto: bisogna leggerlo. E voi risponderete che è una parola, che testi come questo si avvicinano solo in rare preziose occasioni oppure accedendo a severe aule accademiche e cimentandosi con il latino duecentesco
che la bella traduzione e le sapienti note erudite di Chiesa permettono di goderci fino in fondo. Attraverso sconfinati deserti, àlgide o roventi distese di sabbia e di pietra, notti profonde o stellate, frate Guglielmo ci guida alla scoperta dei popoli «barbari» dell’Asia centrale, là dove la fantasia dei geografi greci e latini seguiti fino alla generazione precedente la sua - avevano posto la sede di orribili o stupefacenti mostri. Gugliemo cerca a sua
volta, nei suoi strani e crudeli interlocutori, l’ombra dei popoli diabolici di Gog e Magog che Alessandro aveva rinchiuso al di là di un muro di bronzo per impedir loro di dilagare nel mondo; e vi cerca le tracce di un potente re cristiano d’Asia, il Prete Gianni, sul quale correvano tante leggende. Assistiamo perfino a una dotta e colorata discussione, a metà strada tra la festa e la rissa, tra cristiani latini (il nostro Guglielmo, appunto), cristiani greci, musulmani, ebrei e buddhisti, tutti interessati a tirar dalla loro il potente Gran Khan.
Un po’ narrando, molto interpretando, qualcosa inventando, Guglielmo ci fornisce una visione dei tartari delle steppe diversissima da quella dei tartari ormai conquistati dalla grande civiltà cinese che ci darà Marco Polo. Eppure, entrambi ci offrono due facce d’una storia vera e possibile. Non a caso, di lì a qualche anno, il papa avrebbe potuto inviare nella Pechino sinomongola un primo arcivescovo della nuova diocesi cattolica pechinese, ovviamente francescano e per giunta campàno, frate Giovanni da Montecorvino. Il mondo mongolo avrebbe potuto davvero largamente cristianizzarsi, appoggiare gli europei nella crociata contro i musulmani, aprire ai nostri mercanti la via dell’Asia profonda e quindi dell’Oceano pacifico, due secoli prima di Vasco de Gama. E la storia del mondo sarebbe stata diversa. Invece la Cina cacciò i conquistatori mongoli e si chiuse con la sua nuova superba dinastia, i Ming: e la diocesi di Pechino venne cancellata. Intanto, dall’Asia centrale giunsero sulle rive del Mediterraneo alcuni lontani parenti dei mongoli, i turchi ottomani, e ci chiusero la via dell’Asia. Abbandonammo i propositi di espanderci lungo la via della Seta e cominciammo a guardar piuttosto alle rotte oceaniche. E venne Colombo, e con lui il Nuovo Mondo. È così che va la storia: che non ha nessun senso, nessuna ragione, però, questo perdinci sì, un sacco di fantasia.
Narrativa
MobyDICK
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enza l’odiosa tentazione dei proclami, fuori da qualsiasi pedanteria ideologica e lontana da forzate gabbie psicoanalitiche, Marcela Serrano descrive la storia tormentata di dieci donne che frequentano lo studio di Natasha, ebrea catapultata dalla Bielorussia all’Argentina e infine in Cile. La psicologa-psichiatra le accoglie in un’atmosfera serena. «Ecco, arrivano le matte!» dicono i giardinieri, «omaccioni armati di vanghe e zappe» che si bloccano e le osservano. No, non sono «matte da legare, solo un po’ nevrotiche». Comunque sono sempre donne. Le loro nevrosi non sono capricci di alto-borghesi, ma filamenti malati di esistenze bastonate da eventi e sfortune. Se attorno a loro c’è il clima morbido dell’accoglienza, nelle storie di ciascuna di esse emerge il nucleo duro del dolore, dello stordimento, dell’immane fatica a rintracciare i lembi dell’identità. Natasha ha il compito di sciogliere quei grumi, non certo di modificare il passato, di camuffarlo, anzi. La Serrano, scrittrice cilena apprezzata in tutto il mondo, è attenta ai minimi dettagli. A questo proposito non è fuori luogo affermare che la cura della mente coincide con la narrazione delle vite. Il logos terapeutico ha come necessaria premessa il logos della vita quotidiana. Straziante, del resto come tutte le altre, è la storia di Mané, ex donna bellissima e grande attrice di una sola sera. Si paragona all’interprete del film Viale del tramonto, là dove Gloria Swanson fa l’attrice del cinema muto che marcisce sola e anziana, abbandonata da tutti. Sempre «poco sicura di sé», Mané dà seguito alla sua mania infantile di travestirsi, ballare e recitare. Particine di poco conto. Poi l’incontro col poeta Rucio, che a lei dedica liriche, tra una bevuta e l’altra. Un giorno la straordinaria occasione: interpretare a teatro la Blanche di Un tram chiamato desiderio. Scroscio di applausi, poi la svolta della sua vita: Rucio, poeta ormai senza editori, muore travolto da un autobus mentre raggiunge la moglie a teatro. Vedovanza, solitudine, declino, alcol, infine la vecchiaia. Una vecchiaia che Marcela Serrano descrive ponendo in risalto i terribili ostacoli, interni ed esterni, che una donna sola e avanti nell’età, incontra nello scivolo del tempo. «Essere vecchia significa essere sempre stan-
Marcela Serrano DIECI DONNE Feltrinelli, 284 pagine,18,00 euro
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Ragazzi
libri
Mané
Francisca e le altre Dieci donne ferite dal dolore e una psichiatra, descritte con attenzione al dettaglio da Marcela Serrano di Mario Donati ca» e «invisibile». Significa essere umiliata dalla poltrona dalla quale si fa fatica ad alzarsi, tenere gli occhi aperti di notte e trovare in quelle tenebre «ricordi e ossessioni». Mané s’aggrappa al decoro. Ma non può fare a meno di osservare che «non sta succedendo niente», che «non ti aspetti più niente, per cui il tempo è una linea di-
ritta». La boa che non la fa affogare è la convinzione di aver amato e di essere stata amata. Ecco «il bene raro». Nessuno, si dice, potrà portarti via quel che hai vissuto. La malinconia tuttavia non se ne va: «Daresti la vita per un abbraccio forte. O per una carezza sui capelli per farti addormentare… a volte mi sembra di desiderare soltanto questo: una mano sui capelli prima di addormentarmi per sempre». Poi c’è il caso di Francisca, che ha odiato la madre e se stessa e che, a soli 42 anni, attraversa i «giorni della paralisi», una immobilità che «l’acceca». La madre è la causa di tutto. Una madre - figlia a sua volta di madre indifferente che andò a poco a poco alla deriva durante un soggiorno a New York: perse il senso del pudore, si sentì attratta da un vagabondare nella diversità bizzarra. Infine, dopo il ritorno a Santiago, la fuga. Sparita, introvabile. Dolore feroce di Francisca, lacrime, notti insonni. E odio, che «è come il sangue, impossibile nasconderlo, macchia tutto quanto». Rivedrà la madre in un filmato: vecchia, sporca, vagabonda. Come superare il trauma? «Un problema così non si supera mai. Però adesso posso conviverci. Non mi distrugge… ho spezzato la maledizione ereditaria… ed eccomi con la mia vita normale» di donna sposata. «Le mie figlie sono in salvo». Un’altra donna, Luisa. Una contadina moretta e paffutella. Un altro esempio di solitudine. Sposata a Carlos di idee socialiste, se lo vede portare via dalla polizia poco dopo il golpe militare che uccide Salvador Allende. Solo dopo molti anni le diranno che è uno dei tanti desaparecidos. Intanto affronta la vita e garantisce il pane ai due figli. Cerca di informarsi, ma lo fa goffamente. Aspetta. Ricorda le parole del marito: «Giustizia e legge non sono la stessa cosa». Finirà di «ammalarsi di dolore». A quasi settant’anni pensa: «Per me lui è come un viaggiatore che vuole tornare a casa. Qualcuno glielo impedisce».
Con Socrate, Kant e Cartesio, a lezione di libertà radotti in tutto il mondo; adottati come libri di testo nelle scuole francesi sono finalmente arrivati anche in Italia, illustrati con disegni dai tratti incisivi e colori smaglianti, le brevi e intense monografie della collana ideata e scritta dal giovane filosofo francese Jean Paul Mongin, «Les Petits Platons», ribattezzata per l’occasione «Piccoli Filosofi» dalle edizioni IsBn (traduzione di Cecilia Antolini). L’ultima è dedicata a La folle giornata del Professor Kant (illustrazioni di Laurent Moreau), dove il grande filosofo tedesco dimentica di fare la sua consueta passeggiata quotidiana, che faceva regolare i pendoli dei bottegai di Konigsberg, per rispondere, per niente austero, come viene in genere immaginato, a una arguta quanto amena intervista sui misteri della conoscenza e sulla definizione della ragione umana. Le domande che nascono sono tante: interessa a un ragazzino di dieci anni capire il sottile gioco intellettuale che c’è per esempio nella Morte del divino Socrate (illustrazioni di Yann Le Bras)? Seguire Socrate mentre interroga tutti quelli che incontra per le strade di Atene invitandoli «a praticare la filosofia» per rag-
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di Paola Benadusi Marzocca giungere la saggezza, diventa una camminata divertente specie quando il grande filosofo greco scopre l’ignoranza di coloro che si ritengono sapienti. Perché Socrate è il primo a riconoscere di essere certo di un’unica cosa, ovvero «di non sapere nulla». Ma la sua lucidità spietata nell’abbattere ipocrisie e alibi sociali gli scatena contro l’odio di molti e firma la sua condanna a morte. Esplorare il «Mito della caverna» non è uno scherzo, ma il linguaggio limpido e persuasivo dell’autore ci fa intendere inequivocabilmente che siamo ancora ben lontani dall’essere il più perfetto risultato della creazione. Bisogna tuttavia sopravvivere e andare avanti: il disfattismo è la peggiore delle scelte. E che cosa meglio della filosofia può dare ai ragazzi la chiarezza indispensabile per agire, orientarsi e dominare gli istinti? Insomma si pensa per essere liberi; «filosofare» è un lavoro come un altro, che contribuisce a fornire rigore metodologico, onestà intellettuale, capacità di ragionamento. È quanto occorre per entrare nei meandri del Genio maligno del signor
Esce in Italia la collana francese di filosofia dedicata ai piccoli lettori
Cartesio (illustrazioni di François Schwoebel), «soldato e viaggiatore». Mongin individua nell’ombra del pappagallo Baruch gli inganni del «Genio Maligno» che trasforma in miraggi e illusioni tutto ciò che circonda Cartesio: «la sua stanza, l’Olanda e il mondo intero». Ora è vero che «il Genio Maligno nelle sembianze di Baruch si ingegnava a imbrogliare di continuo il signor Cartesio e a riempire la sua mente di chimere; ma lo stesso signor Cartesio, vittima di questo artificio, doveva pur esistere, visto che pensava tutto ciò!». E così si giunge al famoso aforisma: «Penso, dunque sono: ecco qui una cosa sicura!». Un tassello in più alla scoperta di quella faccenda complicata e a volte dolorosa che è la vita. Sono libri in definitiva che possono essere letti a più livelli anche se si rivolgono direttamente ai bambini perché affrontano i quesiti fondamentali dell’esistenza: la ricerca della verità, la giustizia, la bontà, la bellezza, la ragione, l’esistenza di Dio. E sono temi, come ha più volte detto Salvatore Veca, autore di un piccolo e concettoso libro di qualche anno fa, Il giardino delle idee (Frassinelli), che suscitano l’interesse dei bambini perché avendo essi «un odio spontaneo per la falsità, amano ciò che li fa sognare e in questo senso la filosofia schiude il mondo dei sentimenti e della libertà».
Personaggi
MobyDICK
arà perché era tedesco, quindi appartenente a una nazione non proprio nota per la dolcezza e la leggerezza. Sarà perché attorno a lui ci furono, e ci sono ancora, molti preconcetti. Sarà anche perché non conosciamo bene la sua esistenza… Fatto sta che Johann Wolfang Goethe non era affatto arcigno o maniacalmente severo. Sia nelle sue opere sia nelle annotazioni autobiografiche che cominciò a scrivere dopo i 60 anni (morì a 82), si possono scoprire lati della sua personalità in netto contrasto con quanto molti immaginano di lui. Lati a volte sorprendenti, come afferma John Armstrong che ripercorre la parabola dell’uomo che molti accostarono a Omero e a Dante (Come essere felici in un mondo imperfetto - La vita e l’amore secondo Goethe, Guanda, 466 pagine, 23,00 euro). Era un uomo sempre impegnato a capire la vita, propria e quella degli altri. Anche se a questo proposito scrisse al suo tramonto una nota scoraggiante (non drammatica, semmai realistica): «Nessuno ha mai capito un’altra persona; io non capisco mai gli altri, e nessuno ha mai capito me». Ciò malgrado si buttò nella vita di tutti i giorni, ben conscio d’essere nato ricco ed essere stato fortunato per aver raggiunto presto una notevole fama letteraria (con I dolori del giovane Werther). Questa compenetrazione con il flusso delle esistenze degli altri si riassume in un’altra frase: «Non c’è delitto di cui avessi sentito che non avrei potuto commettere io stesso».
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ALTRE LETTURE
LA MODERNITÀ E AUGUSTO DEL NOCE di Riccardo Paradisi
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Osservatore acutissimo e morbido nel comportamento, Goethe esaltò l’amore e l’amicizia. E mai guardò con disgusto la condizione umana, di fronte alla quale spesso avvertì tristezza e dolore. Arcigno non lo fu mai, e nemmeno sprezzante.Voleva sempre trarre spunti dalla vita per rafforzare la volontà di esistere secondo il decoro e l’armonia. In questo senso dette molta importanza, assieme all’amico Schiller, al concetto di «classico», inteso come «dotato di un centro», «calmo», vitale ma posato. La Grecia e l’antica Roma gli fornirono i modelli. L’autore del Faust pensava che il progresso della civiltà fosse imprescindibile dalla trasformazione che si compie nella vita interiore. L’uomo deve lottare per essere e restare un unicum, un «insieme», evitando così la pericolosa frammentazione dell’io. Nella concezione dell’amore Goethe era, per così dire, elastico. Sposato con Christiane per 25 anni, evitò l’ipocrisia di affermare che una persona abbia o debba avere un solo oggetto del desiderio sessuale. In alcuni passi delle sue opere, il genio di Francoforte palesò senza remore il corteggiamento della poligamia, finendo a fantasticare sulla possibilità di amare veramente tre o quattro donne nello stesso tempo. Uno dei suoi primi amori si chiamava Charlotte, impegnata tuttavia con un altro uomo. Desiderata, bramata, sognata, quella donna tuttavia non si era dimostrata all’altezza del desiderio di amore spirituale e totalizzante del poeta, che realisticamente si accorse di questa discordanza, cioè della discrasia tra passione e comportamento. Goethe ebbe come modello la madre Catharina, di medio-bassa cultura (il padre era un giurista), capace di andare d’accordo con ogni genere di perso-
l saggio di Massimo Borghesi su Augusto Del Noce, La legittimazione critica del moderno (Marietti 1820, 366 pagine, 26,00 euro) è un lavoro essenziale per comprendere la cifra del filosofo torinese. Il cui compito è stato quello di liberare la tradizione dall’utopia archeologica. Non contrapposizione ma sviluppo di quel cartesianesimo non ateo che opponendosi al naturalismo libertino esalta la connessione tra libertà dell’uomo e presenza di Dio. «Del Noce - scrive Borghesi - perviene a una legittimazione critica del moderno senza l’adesione modernistica al medesimo». Ma la legittimazione del moderno non implica accettazione. La modernità compiutamente materialista conduce infatti non alla liberazione dell’uomo ma al comunismo e al nichilismo.
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Felicità è…
essere se stessi Dai classici imparò a evitare la frammentazione dell’io. Nella sua vita non praticò mai l’ideologia della disperazione ma tentò di coniugare cultura e ragion pratica. Tutt’altro che genio e sregolatezza, usò il buon vivere borghese come occasione di progresso. La personalità di Goethe nel libro di John Armstrong di Pier Mario Fasanotti na, compreso l’irritabile marito. Goethe bambino di quattro anni fa una scoperta, assieme alla sorellina Cornelia: di fronte a una ribellione, peraltro giustificabile, comprende che la brutale severità del padre Caspar non conduce ad alcun risultato, mentre sono efficaci la gentilezza e la comprensione della mamma. Se il papà, assai colto, aveva affrontato il problema in modo sbagliato, l’aveva risolto la mamma, che non aveva avuto un’istruzione di grado superiore. «Per tutta la vita - annota il biografo Armstrong - Goethe fu negativamente colpito dall’abisso che può venire a crearsi tra studio e saggezza pratica». E fu per questa ragione che cercò di coniugare arte, cultura e ragion pratica. La figura e la vita di Goethe, impegnato come funzionario ministeriale e come scrittore fecondo, hanno senza dubbio scompigliato l’assioma che affianca il genio alla sregolatezza. Goethe considerava la tecnica, il commercio e il buon vivere borghese (era sempre molto educato ed elegante) un’occasione per migliorare la propria multiforme personalità. Schiller gli disse un giorno: «Voi siete un’anima greca che vive in Germania». L’artista di Francoforte, gran viaggiatore, visitò a lungo Roma e ne rimase affascinato, senza per questo chiudere gli occhi dinanzi ai difetti dell’ex capitale del grande impero. «L’Italia, paese dei limoni» (così recita un suo verso) era per lui «la casa dell’eterno» e stimolo ad arrivare a possedere nel proprio animo quanto vi è di eterno nell’arte. Tornato in Germania si sentì come in esilio, in territorio «sotterraneo e umbratile», ma il suo buon senso gli suggerì di interiorizzare Roma - ma anche Napoli e l’a-
matissima Sicilia - in modo tale da poterla far rivivere nella sua immaginazione. Goethe non si dispera, tesaurizza le fasi più esaltanti della sua vita.
Lesse e rilesse i classici greci e romani, e giunse ad abbracciare la convinzione che talvolta la rinuncia giova alla felicità. Ci sono dei limiti: tentare continuamente di valicarli porta alla depressione, allo sfinimento, al pensare al cuore come a un organo tragico che, ricercando la gratificazione, distrugge se stesso (questa è anche la «lezione» contenuta nel Werther). Se dal punto di vista letterario Goethe simpatizza con gli estremi della disperazione e della confusione, nella sua quotidianità non li sbandiera mai, e mai non perde di vista una massima ispirata al buon senso: «Dopotutto si sta meglio se si va avanti con la propria vita». Non gli piaceva proprio l’ideologia della disperazione, secondo la quale la sofferenza è più nobile dell’appagamento. E nella vita privata, Goethe ebbe numerose occasioni di «appagamento». Capace di altezze letterario-fantastiche (vedasi il Faust), Goethe fu certamente combattuto tra due concezioni della condizione umana. Scrive il biografo: «Da un lato nutre un grande attaccamento per il punto di vista “tecnico”, un aspetto caro a sua madre… egli vuole concentrarsi su ciò che è alla sua portata», dall’altro lato è attratto da certi abissi, ma riesce a correggere la rotta convinto che si debba essere «se stessi», sempreché uno comprenda cos’è che vogliamo veramente fare. La ricerca eccessiva del piacere può essere riassunto in una sola parola: «dissipazione». Era un represso? No. A 80 anni s’innamorò di Ulrike, che aveva 55 anni meno di lui. Non fu ricambiato, ma il suo cuore palpitò sino alla fine.
LE CRONACHE DELL’ANIMA DI CLIVE STAPLES LEWIS *****
onere della gloria (Lindau edizioni, 168 pagine, 16,50 euro) raccoglie nove scritti di Clive Staple Lewis, tra i quali il famosissimo Il peso della Gloria da cui il titolo della raccolta. Ma è la prolusione Perché non sono un pacifista il saggio più provocatorio per i palati politicamente corretti. A una platea di pacifisti Lewis dice di non essere un pacifista e ne spiega i motivi riflettendo sull’insegnamento del porgere l’altra guancia. Il monito - dice Lewis - si riferiva alla necessità di mortificare la nostra rabbia, di non covare sentimenti di vendetta. Ma non si rivolge certo al magistrato nei confronti del delinquente, al soldato nei confronti del nemico pubblico, al genitore nei confronti del figlio irrispettoso. Lewis ricorda le parole di San Paolo: «Non a caso Cesare porta la spada».
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ODISSEA DI THEOPHILOS TRA MITO E VERITÀ *****
heophilos, greco di origine, medico, agnostico, è preoccupato per il figlio adottivo Loukas, seguace del cristianesimo. Deciso a riportarlo a casa, si imbarca per un lungo viaggio. È in questo sfondo a cavallo del primo secolo dell’era volgare che si svolge il romanzo di Micheal O’Brien Teophilos (San Paolo, 546 pagine, 19,50 euro). Attraverso conflitti tra nazioni, mito e verità, bene e male, Theophilos compie un lungo percorso arrivando alla scoperta di una dimensione spirituale che non immaginava di possedere. Sebbene Theophilos sia un uomo del suo tempo non è difficile immedesimarsi in lui, nella sua storia, che parla del misterioso rapporto tra fede e ragione e del potere dell’amore sopra la morte.
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Classica pagina 20 • 1 ottobre 2011
di Francesco Arturo Saponaro
l suo quarto e ultimo anno di direzione artistica della Biennale Musica di Venezia, festival internazionale di musica contemporanea, il compositore Luca Francesconi ha scelto un taglio particolare, e ha intitolato Mutanti quest’edizione. Un’etichetta che vuole sottolineare la mutazione genetica che la cultura occidentale - e noi che ci siamo dentro - sta forse attraversando. Chiara la sua idea: «Viviamo in un mondo che fa sembrare anacronistici non solo il pensiero, l’approfondimento, e la fatica che comportano, ma anche la carta, la pratica, l’artigianato. Oggi che tutto è a portata di un click, viviamo la tentazione… di liberarci della memoria, come fosse un fardello pesante… in una realtà che ti invita a rimbalzare come una pallina da flipper tra i saperi di Google, Facebook, Twitter, Wikipedia». E allora, per opporsi a questa deriva, meglio non demonizzarla, ma cercare di non subirla passivamente, conservando la consapevolezza delle cose, riaffermando con forza che la nostra storia e la nostra cultura non sono morte e superate, ma invece ci offrono strumenti insostituibili di comprensione e analisi della nostra realtà. Confrontarsi a viso aperto, quindi, con queste vorticose ibridazioni. Indagare sui rapporti fra musica contemporanea, tendenze sociali, sviluppo tecnologico. Osservare il pack di frammenti che vanno alla deriva, in continuo aggregarsi e distaccarsi. Ecco l’asse portante di quest’anno, che ha quindi assemblato molte esperienze diverse in esecuzioni di qualità. Limpido, incisivo il concerto inaugurale, affidato alla SWR Sinfonieorchester di Baden Baden e Friburgo, sotto la bacchetta del direttore ungherese Peter Eötvös, da decenni portabandiera della musica contemporanea, che ha dato eccelsa prova di sé presentando anche due suoi lavori. Non a caso, perché proprio
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Televisione
spettacoli Venezia in musica e il valore della memoria MobyDICK
L’Hermes ensemble alla Biennale Musica di Venezia Eötvös è stato quest’anno il destinatario del Leone d’oro alla carriera, a coronamento di una storia personale che lo ha visto frequentare momenti e personaggi tra i più alti nella musica del nostro tempo, offrendo sempre contributi significativi. Importante anche la riproposta di A floresta è jovem e cheja de vida, di Luigi Nono, trattandosi del recupero di un lavoro destinato a una vita improvvisativa, difficile quindi da riprodurre, e oggi fissato invece in una formulazione dettagliata e ripetibile. Dopo un’altra serata sinfonica della FVG Mitteleuropa Orchestra, diretta da Andrea Pestalozza, con pezzi di autori storici e autori giovani, molto atteso e riuscito il rècital del pianista francese Michaël Levinas, capace di lumeggiare intensamente l’opus 111 di
Beethoven come una scelta di pagine di Ligeti, proposte in una lettura rapinosa delle loro espressive difficoltà. Utile anche l’appuntamento dedicato al movimento dadaista Fluxus, all’avanguardia nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Utile a mostrarne tutta la patetica polvere e inutilità; da apprezzare tuttavia la se-
rietà e l’impegno del gruppo di giovani esecutori del Conservatorio di Venezia. Splendido, per la rovente temperatura espressiva e per la bravura degli interpreti dell’HERMESensemble, il Lamento di Medea di Wim Henderick. Un lavoro che ha rapito l’ascolto, con la sua atmosfera ieratica da delirio onirico, denso di dolore e di calore comunicativo. E per chi si trovasse in zona, chiusura molto attraente e curiosa, oggi sabato 1° ottobre. Dopo il concerto dell’Ictus Ensemble, nel Teatro alle Tese alle ore 16, sempre dall’Arsenale partirà alle 18 la performance conclusiva di questo 55° Festival: una «vogata rituale» che si recherà suonando a rendere omaggio alla tomba di Stravinskij, per celebrare e riaffermare il nostro patrimonio di tradizioni e di cultura.
La “bisteccona argentina” non piace ai bambini ravamo un po’ tutti preoccupati. Qualcuno ha sofferto d’insonnia. Il pensiero era rivolto alla sempre-presente Belen. Scomparsa durante la scorsa estate? Pareva così. Poi abbiamo scoperto che stava preparando la nuova versione di Colorado, per Italia 1. L’abbiamo vista in gran forma fisica. Sorridente, spigliata: a causa forse dello scampato pericolo visto che ha rischiato di finire nel serraglio di Arcore, e per fortuna, essendo l’ex fidanzata di Marco Borriello, ex attaccante del Milan, non invitata: l’ospite è riguardoso verso il «suo» bomber (di due anni fa). Colorado, nelle versioni precedenti, era un programma comico condotto da Beppe Braida e Rossella Brescia ed era destinato a un pubblico adulto. Quello che va in onda oggi, in prima serata, si rivolge ai bambini. Italia 1 ha sempre avuto l’ambizione di appa-
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gare i gusti e le richieste di un pubblico giovanile. Si vede che, dopo vari flop, ha ridotto la statura del bersaglio. Bambini, quindi. I quali, secondo un mio piccolo sondaggio, si divertono poco. Per loro Belen non è un’attrattiva, un sex symbol. Tanto è vero che ho captato questa critica: «Ma perché parla così?!». Si sa, è argentina. E bisogna dire che la sua erre, per noi adulti, è carica di musicalità e di sensualità. Per noi, appunto. Per ragazzini di otto-dodici anni è un difetto.
Eppure l’hanno messa lì come bandiera, anzi come calamita. E presentata in modo davvero fine: «Ed ecco a voi la bisteccona argentina!». Ma, visto l’età dei telespettatori, è calamita che attrae poco o nulla. Certo, ci sa fare, anche vestita da Puffa che sbuca fuori dalla torta circondata dai Fichi d’India in versione mini. Ad affiancarla nella conduzione del programma c’è il livornese Paolo Ruffini, disinvolto, pure lui comico in certe gag. Sketch molto modesti, senza alcuna invenzione dietro se non la citazione intenzionalmente comica di pubblicità televisive, di personaggi dei fumetti e così via. Di tanto in tanto ci scappa un «minchia» e un «coglione». Tanto vale l’assioma da autobus a ora di punta: ormai sono parole usate dai bambini. Bene, allora, facciamo loro un bel ripasso, tanto perché non si trovino spaesati nell’Italia post-moderna, quella da periferia dei
coatti, dei bar dove s’insulta il tricolore («Roba da somari» ha detto recentemente Bossi). Insomma nel Paese della volgarità che da domestica è diventata internazionale. Colorado è ideato e sponsorizzato da un bravo attore come Diego Abatantuono e da un produttore accorto come Maurizio Totti. Mi chiedo: loro hanno visto e approvato questa versione con i calzoni corti? In ogni caso la trasmissione porta sempre alle solite osservazioni, quelle che, a furia di ripeterle, alla fine stancano. Ossia: è mai possibile che si consideri la preadolescenza come il giardino delle stupidaggini? È mai possibile che, quando non si sa dove andare a parare, si fa la consueta allusione sessuale? Un attore di varietà, nelle vesti di «Orso abbracciatutto», fa scorrere un filmato nel quale tira palloni nel campo del Novara. Belen: «Ma come sei bravo!». E lui, guardandola con desiderio: «Sono bravo anche con le mani…». Oltre il trito e ritrito non si riesce ad andare. Di qui il successo dei canali Sky e le proposte su inter(p.m.f.) net. Concorrenza facile.
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poesia
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La prima sfida di Tozzi
PROVENZANO SALVANI O Provenzano, io prendo la tua testa gocciolante di sangue ghibellino, la quale in cima della picca innesta il tuo truce nemico Cavolino.
di Francesco Napoli ualcuno dovrà pur spiegare perché a Federigo Tozzi (Siena, 1883 - Roma, 1920) è stato sinora sottratto il suo apprendistato poetico, apprendistato negletto al punto da essere indicato «come parentesi necessaria ad esaurire la carica dannunziana e ad avviare il narratore al superamento in chiave realistica della sua formazione decadente» (Luti). Appunto: «avviare il narratore», per cui non credo affatto che «Tozzi (…) non sarebbe stato affatto Tozzi se avesse scritto soltanto La zampogna verde e opere ad esse assimilabili» (Marchi). In quanto proprio quei versi costituiscono un brillante esperimento di scrittura necessario a inquadrare bene la direzione dell’arte di Tozzi, e in secondo luogo in poesia si rintracciano quelle motivazioni e quelle immagini, poi diversamente personalizzate e con diverso grado di funzionalità, che veicolano una poetica specifica che sarà data ritrovare nel prosatore coevo. Un autore da subito indicato, soprattutto nell’area della rivista Solaria di Alessandro Bonsanti ma, in particolare, di quel Giacomo Debenedetti che per primo rilesse con compiuto discorso critico l’opera in prosa di Tozzi. Ma solo più tardi c’è stata una sorta di ravvedimento operoso su Tozzi che ha spinto Carlo Cassola prima ad avvertire come «sono soprattutto due i romanzi importanti di Federigo Tozzi: Con gli occhi chiusi e Tre Croci. I letterati preferiscono il primo; la gente comune il secondo» e Giorgio Van Straten poi ad affermare che «Federigo Tozzi ha pagato caro il luogo comune di essere toscano».
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La prima sfida letteraria, dunque, Tozzi la lancia con La zampogna verde (1911), pubblicato a suo spese, esordendo nel silenzio più assoluto. Un silenzio che gli dev’essere risuonato particolarmente amaro pensando a una vita iniziata decisamente in salita. La sua è una famiglia di agricoltori trasferitasi nella città toscana: il padre gestisce una trattoria ed è un uomo autoritario e violento; la madre, invece, è una trovatella, malata di epilessia. Prima di mettere al mondo Federigo aveva perso precocemente sei figli e lei stessa morì quando lo scrittore aveva soltanto dieci anni. Insomma: un quadro di stenti, soprattutto psicologici per il giovanissimo Federigo che venne ritirato dagli studi dal ginnasio arcivescovile, iscritto all’Istituto di
il club di calliope
Ancora, in Purgatorio, ti è molesta,
Belle Arti, dal quale, tuttavia, fu espulso la pietra che guardò Dante divino? per cattiva condotta. Passò, quindi, alle scuole tecniche, che questa volta portò a Ma certo si convenne a te cotesta termine. Con il padre ebbe un rapporto asSuperbia, per seguire Corradino. sai aspro: il genitore, non sopportava che Federigo perdesse tempo con la letteratura, piuttosto che aiutarlo nell’amministrazione della trattoria e dei campi. Lo stesso E tu perdesti a Colle di Valdelsa Federigo si formò un carattere aggressivo, (là donde si fuggì Guido Novello), che lo portò a una vita instabile. Per sfuggire alle influenze paterne, si mise e la tua mano più non ebbe l’elsa, subito alla ricerca di un lavoro sicuro e si recò giovanissimo a Roma con la moglie, la scrittrice, Emma Palagi. Nella capitale perché non t’eri accorto del tranello: fece il giornalista per un certo periodo, poi «Di tutte la tua testa fia più eccelsa», lavorò in un Ministero. Venne in contatto con Pirandello ma soprattutto con Giusepquando rispose a te il demonio fello. pe Antonio Borgese - «uno dei primissimi edificatori della nuova giornata letteraria italiana» affermò di lui - che fu uno dei suoi pochi estimatori in vita. Morto il paFederigo Tozzi dre, ereditò i tre poderi che quegli aveva acquistato nella campagna di Siena e decida La zampogna verde se così di lasciare il lavoro per dedicarsi all’amministrazione dell’azienda familiare. Non interruppe mai, tuttavia, i rapporti con la letteratura: collaborò con diverse riviste letterarie, fondandone egli stesso una, La Torre, liano, mediato dai crepuscolari, alla grande svolta definita «organo della reazione spirituale ita- neospiritualista che proprio in quegli anni andava imliana». Il suo primo romanzo, Con gli occhi padronendosi della cultura italiana, al punto di toccachiusi, memore di un’esperienza persona- re anche il più «materialista» Corazzini. le e «notturna» giovanile, apparve nel 1913. Ebbe appena il tempo di pubbli- Silloge di sonetti, La zampogna verde si suddivide care a marzo del 1920 un altro roman- in sette sezioni. Densi i richiami a D’Annunzio, come zo, Tre croci, che una polmonite lo nel medioevo di maniera del primo componimento consuma anzitempo. L’esordio poeti- della raccolta qui ripreso e nell’abbondante onomaco per Tozzi avviene quando il Nove- stica, o al tardo simbolismo macabro, maestro Poe, cento sembra essersi già aperto sulle con quella «testa/ gocciolante di sangue ghibellino», note dei Canti di Castelvecchio di Pa- dove sangue ricorre quale parola-chiave dell’intera scoli e delle Laudi dannunziane, sen- raccolta. Ma è nella parola disposta su un endecasilza considerare il lavoro dei crepusco- labo potente e ben costruito che si gioca la poesia di lari e il Manifesto futurista già edito da Tozzi. Il suo esercizio musicale è continuo, tenta Marinetti. Ebbene, la poesia di Tozzi s’i- strade, sperimenta percorsi per assecondare quella sola da questo contesto e sembra procede- ricerca dell’io in un’alternanza di alti e bassi, di opre con una sua personale ricerca. Ma forse posti, dove l’anima del poeta si specchia in fiumi ora non si comprende il cammino successivo di Tozzi chiari e ora torbidi, densa di potenzialità inespresse se non s’inquadrano i versi della Zampogna, a cui se- alle quali il suo canto allude prima di sfociare quasi guì nel 1913 La città della Vergine, come percorso dal per osmosi nella prosa di romanzi e novelle a loro tardo simbolismo paradisiaco di D’Annunzio e pasco- volta di intensa espressività lirica.
in libreria
SPIAGGIA BRETONE Riunito è tutto ciò che vedemmo, a prender congedo da te e da me: il mare, che scagliò notti alla nostra spiaggia, la sabbia, che con noi l’attraversò di volo, l’erica rugginosa lassù, tra cui ci accadde il mondo.
Paul Celan (da Di soglia in soglia, Einaudi 1999)
n libro «potente, nuovo, innervato di storie e di redenzione» scrive Giuseppe Conte nella prefazione a Le midolla del male di Emilio Zucchi (Passigli, 10,00 euro), un giudizio che coglie nel segno perché raramente la poesia si dispiega in modo così intenso e cattura e affascina come in questi versi. L’autore ha scritto un poema che ripercorre i terribili crimini del fascista Koch, torturatore di oppositori ed ebrei. Un viaggio dentro lo squallore più profondo del Ventennio e che ci riporta anche all’eterno dissidio tra il bene e il male, già affrontato dalle Arendt, e che si presenta difficile da rappresentare
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IL BENE E IL MALE RITORNANDO A KOCH di Loretto Rafanelli in poesia, come qualsiasi fatto storico. Zucchi lo fa benissimo, con un tono alto e un lirismo pulito, quasi classico, con emozione e sincero slancio umano, come nelle parole dedicate a Anna Maria Enriques. Donna straordinaria torturata e uccisa, perché antifascista, che emerge nei versi del poeta in uno stupendo candore («Tu, Pietro Koch, non sai quanta bellezza/ c’è in un fiore di campo, in un cortile/ con le lenzuola stese…») e una forza indicibile, fi-
gura che egli contrappone, appunto, a Koch, senza però farne un personaggio vendicativo, votato all’odio, ma, piuttosto, una figura tesa alla compassione, al perdono, alla pietà cristiana. Le midolla del male è un libro che pare un film, con immagini rapinose («Arno, padre di carmi, ti risalgono/ i gabbiani lestrigoni») e ritmi serrati, sequenze realistiche che ci portano al clima terribile di quegli anni («Rosari mormorati nel silenzio/ rotto dal rombo delle camionette/ e delle moto. Arrivano,/ sono sotto la casa; sono sotto…»). Un impegno poetico quello di Zucchi dalla profonda tensione civile, rara di questi tempi.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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ai tempi della scuola media sono stato affascinato dalla storia antica. Allora, anni Cinquanta, si dava un quadro abbastanza ampio della civiltà egizia, assiro-babilonese e persiana, nonché ebraica; del tutto ignorate invece le civiltà indiane, cinesi e di altre parti della terra. Avevo un’insegnante giovane e preparatissima, Alessandra Sperati, da cui ho appreso quel latino che mi è poi servito per scrivere articoli di matematica e musicologia in quella lingua, e per tradurre, nel corso dell’agosto 2011, la Cosmographia di Pseudo Aethicus, autore quasi dimenticato del V secolo, contenente informazioni rivoluzionarie per la geografia antica. Presto passai a leggere libri più approfonditi sulla storia antica, cominciando, se ben ricordo, con La Bibbia aveva ragione di Werner Keller, libro uscito nel 1957 con grande successo. Poi lessi quanto era sopravvissuto dell’epica di Gilgamesh nell’edizione Penguin Books, giungendo anni dopo a proporre un mio itinerario per i viaggi di questo eroe forse vissuto verso il 2400 a.C.
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Incontrai Giovanni Pettinato attraverso vari suoi libri, una parte di quelli non specialistici da lui scritti. Ricordo un libro su Semiramide, Sammuramat in assiro, dove la sua datazione si accorda con una mia ipotesi sull’ultima guerra di Troia. Quella guerra cui avrebbe partecipato il cieco cantore Omero, rievocandone una precedente fra Greci e Troiani avvenuta in tempi molto più antichi, prima della catastrofe di Deucalione da associare, lo dice già Orosio, all’esplosione di Fetonte. O libri sulla divinazione presso i Babilonesi, e specialmente quelli su Ebla, la città riscoperta da Matthiae che scavando uno dei tanti tell (montagnole costituite da detriti di una città andata in rovina), trovò una grande biblioteca con tavolette in varie lingue, e in particolare nella lingua detta eblaitica di questa grande città commerciale, citata nella Bibbia e sempre restata di ignota identificazione.Va detto che solo una piccola parte dei tell del Medio Oriente è stata scavata. Ancora sconosciuto è il luogo dove sorgeva Agade, la capitale del grande regno di Sargon II il Grande. Giovanni Pettinato, siciliano di origine, purtroppo recentemente scomparso, era uno dei maggiori, forse il maggiore, degli assirologi mondiali, dove il termine assiriologo corrisponde a conoscitore di numerose lingue del tipo (nord e sud) semitico, fra cui l’accadico, nonché del sumerico, lingua associabile al mongolo e all’ungherese. Queste lingue sono documentate in milioni di tavolette e loro frammenti scoperti negli ultimi centocinquant’anni, delle quali solo una piccolissima parte è stata tradotta. Sono scritte nel cosiddetto cuneiforme
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A tu per tu
con gli Assiri
di Emilio Spedicato e la loro decifrazione risale alla scoperta di un’iscrizione multilingue. La prima grande biblioteca fu scoperta a Ninive. Risale ad Assurbanipal, e vi si trovò parte dell’epica di Gilgamesh, importante specialmente per i riferimenti a un diluvio, certamente quello biblico in cui sopravvissero Noè e altre persone. L’epica è stata poi trovata parzial-
l’Università di Heidelberg, città ai vertici di questi studi e dove anche trovò moglie, in breve tempo fu in grado di decifrarla, illuminando con la sua traduzione un mondo ricco di commerci e di contatti internazionali. Nel 1987 fu scoperta una biblioteca intatta in cinque stanze sotterranee presso il tempio di Shamash nella città sumera di Sip-
Ricordo di Giovanni Pettinato, il maggior conoscitore di lingue mesopotamiche, recentemente scomparso. Fu lui a decifrare la biblioteca di Ebla, mentre la guerra contro Saddam gli ha impedito di portare a termine importanti studi sulla città sumera di Sippar mente in altri luoghi e in altre lingue. I re sopravvissuti appaiono con i nomi di Ziusudra o Utnapishtim; a parere di chi scrive nulla hanno a che vedere con Noè, ma sono altre persone sopravvissute in altri luoghi a un evento catastrofico globale, dalla causa del tutto inattesa. Va a questo proposito ricordato che quando fu data la traduzione dell’epica, verso il 1870, lo studioso armeno Gurdjeff disse che corrispondeva a una delle storie raccontate da suo padre, l’ultimo dei cantori armeni, e da lui chiamata il diluvio prima del diluvio. Nome spiegabile con riferimento all’ultima delle tre catastrofi di Platone, il diluvio di Deucalione, quella di Noè essendo la penultima (di tre). La biblioteca scoperta da Matthiae fu studiata da Pettinato, che, divenuto esperto di lingue semitiche antiche presso
par; Pettinato fu incaricato di occuparsene, ma il progetto non potè essere completato causa la guerra contro Hussein. Si tratta di una biblioteca appartenuta a un grande sacerdote, con un catalogo completo nella prima stanza. Pochi anni fa Pettinato con la sua collaboratrice Silvia Chiodi tornò in Iraq, nella zona di Nassiriya, controllata dagli italiani, scoprendo, nella città sumera di Eridu, indicazioni di una biblioteca estremamente antica e di vaste dimensioni. Nessuno studio ha po-
tuto essere compiuto, le difficoltà e le minacce ricevute in quel periodo sono documentate in un recentissimo libro di Chiodi e Pettinato.
Va detto che durante il decennio passato dalla caduta di Saddam, l’Iraq è stato oggetto di enormi furti di materiale archeologico. Il grande museo di Baghdad ha perso moltissimi reperti, scavi illegali sono stati fatti dappertutto, addirittura è stata individuata una nuova città sumera dove circa duecento scavatori hanno cercato materiale archeologico, con uomini armati che proibivano l’accesso agli ispettori. Materiale che finisce poi nelle case dei ricchi del mondo, giapponesi in primis probabilmente. Pettinato è stato uno studioso d’immenso valore, ai vertici dell’accademia italiana; è stato un divulgatore di grande qualità; venne a un mio workshop su Atlantide dichiarando convincente la mia teoria sulla fine di quella civiltà (ovvero la fine dell’ultima glaciazione); generosamente mise a disposizione informazioni su nuove scoperte e quando ero a Roma potevo usare una stanza del suo istituto in via Palestro per leggere il prezioso materiale esistente. Colpito da problemi di salute da non molto, necessitava di dialisi; lo vidi l’ultima volta mentre alla Sapienza scendeva dall’edificio dove ha sede Assirologia. Con immensa tristezza ho appreso della sua morte, che forse con maggiore attenzione ospedaliera - e se si fosse adeguato ad alcuni consigli - poteva essere ancora evitata. Non ci sarà presto un altro Giovanni Pettinato...
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Bagnasco rafforza la necessità di una vera politica per la famiglia ELOGIO DEL PONTE «In edilizia si scassano e si rifanno soffitti e pavimenti, si tirano su muri, che servono a dividere, a isolare. Solo il ponte è un’opera cordiale, fatta per congiungere» (Erri De Luca); è una modalità sicura di attraversamento dei confini mobili, e complicati, di un Paese che si presenta sempre più sfilacciato e frammentato nella sua composizione sociale ed articolazione geografica e generazionale. Richiamando alla memoria la figura del Beato Giovanni Paolo II, autentico “costruttore di ponti”, e non dimenticando l’intuizione editoriale di Piero Calamandrei così come l’importanza strategica (di cerniera) dei cosiddetti “pontieri” nella storia della Democrazia cristiana, vogliamo far nostra la metafora del ponte come senso e direzione del pensiero e dell’azione di una «nuova generazione di cattolici impegnati nella politica che siano coerenti nella fede professata, che abbiano rigore morale, capacità di giudizio culturale, competenza professionale e zelo di servizio per il bene comune» (Benedetto XVI). Un senso: il ponte è un cantiere di ricostruzione di unità che, collegando sponde parimenti essenziali, scavalca rivalità, ricuce lacerazioni e ricompone divisioni; è un laboratorio di ri-congiunzione del legame tra la sponda civile della progettazione (e anche della contemplazione) e quella politica dell’azione. Una direzione: non si può costruire un ponte dal centro, ma occorre iniziare a lavorare da una delle sponde sulla base di solide fondamenta; i ponti, una volta costruiti, consentono poi di spostarsi da una sponda all’altra, senza più barriere. La costruzione del ponte - senza l’utilizzo di pietre o mattoni, ma attraverso relazioni di amicizia - diviene, così, strumento privilegiato di condivisione dell’ampio orizzonte della “comunità”, nel quale non si privilegia la somiglianza, o meglio l’identità, ma piuttosto la pluralità, la differenza, l’alterità. Il costruire una siffatta nuova strada per la ri-conquista del futuro conferisce alla fatica e all’abitare la sfera pubblica un valore profondamente diverso, svelando la bellezza di mettere in comunicazione persone, culture e territori. Francesco Nicotri V I C E CO O R D I N A T O R E NA Z I O N A L E GI O V A N I UD C
Siamo lieti di ritrovare nelle parole del cardinale Bagnasco un’autorevole conferma dei temi che stanno al cuore della riflessione che il Forum sta conducendo in questi giorni di crisi economica, politica e morale. Ci auguriamo che riferimenti come quello ad un nuovo patto intergenerazionale che «sia in grado di raccordare fisco, previdenza e pensioni avendo come volano un’efficace politica per la famiglia» valgano a smuovere politica ed istituzioni. Senza questo impegno «potrà forse aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, ma si prosciugherà il destino di un popolo». Un tema che non può non ricondurre al giudizio sulla manovra per il risanamento di cui è noto il peso «caricato sulle famiglie; non si può, rispetto a queste dinamiche, assecondare scelte dissipatorie e banalizzanti. La collettività guarda con sgomento gli attori della scena pubblica e l’immagine del Paese all’esterno ne viene pericolosamente fiaccata. Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili». In questa logica il Forum con le sue 50 associazioni nazionali e le 400 associazioni locali non si tirerà indietro rispetto alla possibile nascita «di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni». Le parole del cardinale Bagnasco rafforzano la determinazione con cui nelle prossime settimane chiameremo le famiglie italiane a richiedere pubblicamente alla politica scelte coraggiose e orientate al bene comune.
Francesco Belletti, forum delle associazioni familiari
MINORI: VITTIME MEDIATICHE IN ASSENZA DI REGOLE A difendere i bambini dai media in Italia non esistono regole certe, a fronte di un palese fallimento dei vari codici di autoregolamentazione, e così i piccoli sono bersagliati da spot pubblicitari aggressivi, mandati in onda a ripetizione durante i cartoni animati e le trasmissioni loro dedicate. Assistono a trasmissioni trash, volgari, violente. Sono strumentalizzati da un sistema mediatico che vede in loro non dei piccoli spettatori da rispettare, incantare, affabulare, e perché no educare, ma solo dei potenziali consumatori.
Graziella Pipolo
ANCORA RITARDI SUI RICONOSCIMENTI D’INVALIDITÀ Il nuovo sistema per l’accertamento e il riconoscimento dell’invalidità civile, dell’handicap e della disabilità doveva essere il frutto della rivoluzione digitale contro i falsi invalidi e la burocrazia più volte annunciata dal governo. Se però i tempi d’attesa e i ritardi ci sono ancora, a due anni di distanza dall’introduzione della nuova normativa, vuol dire che qualcosa non funziona. Sarà il malfunzionamento del software gestito dall’Inps, peraltro segnalato dalle aziende sanitarie locali costrette a trasmettere gli atti su supporti cartacei, saranno le nuove pro-
cedure, fatto sta che i disagi ci sono e sono enormi. È una situazione grave perché le persone con disabilità, senza la necessaria certificazione, non possono accedere a nessun beneficio economico o servizio ad esse destinati. È certamente utile il tavolo tecnico istituito tra Regioni, ministeri del Lavoro e della Salute e l’Inps per monitorare la concreta attuazione della normativa, ma prendere solo atto dei problemi, con i soliti rimpalli delle responsabilità, non basta più: questa è l’ora delle soluzioni.
T.D.
MOBILITAZIONE PERMANENTE Alcuni mesi fa, davanti agli scandali che coinvolgevano Berlusconi, fu fatta da varie persone (anche dal sottoscritto) la proposta di una mobilitazione di piazza permanente fino a quando egli non si fosse dimesso. La proposta, evidentemente, non ha avuto seguito. Di fronte agli ennesimi scandali e alla palese inutilità degli inviti alle dimissioni e della sola lotta parlamentare, mi sembra che la cosa più sensata da fare è riproporre la mobilitazione pacifica di piazza fino a quando Berlusconi non lascerà l’incarico di primo ministro. Credo che l’azione politica più efficace sarebbe la mobilitazione permanente in tutte le piazze più importanti d’Italia, ma se questa ipotesi dovesse essere
L’IMMAGINE
La caffeina dà un contributo importante nella protezione dai raggi UV e nella prevenzione di alcuni tumori, in particolare quelli della pelle. Le proprietà antitumorali di questa“droga”(è una sostanza psicoattiva) naturale, presente per esempio nelle piante di tè e cacao oltre che in quelle del caffè -, sono già state ampiamente confermate da diversi studi su campioni di popolazione importanti e con protocolli molto severi. Non è invece del tutto chiaro quali siano i meccanismi biologici coinvolti. Una delle ipotesi che si fanno i ricercatori attribuisce alla caffeina la capacità di favorire la morte (e di conseguenza l’espulsione) delle cellule danneggiate dalla radiazione solare, inibendo in parte l’azione di un enzima (chinasi serina/treonina), che invece induce alla replicazione (mitosi) le cellule anche quando il loro Dna è danneggiato (per esempio dai raggi UV), contrastando all’origine la formazione di un possibile tumore. Uno studio recente che ha visto coinvolti istituti quali la University of Washington, il Massachusetts General Hospital e la Harvard Medical School, sembra ora confermare questa ipotesi. Lo studio è stato condotto sui ratti e necessita di molte verifiche ancora, tuttavia è considerato un punto di svolta
considerata troppo impegnativa, basterebbe che le forze politiche di opposizione (partiti, movimenti, associazioni, ecc.) occupassero giorno e notte piazza Montecitorio o piazza San Giovanni fino al raggiungimento di un obiettivo che consentirebbe di nutrire qualche speranza che il Paese si salvi.
Franco Pelella - Pagani (SA)
I VERI DELINQUENTI SONO FUORI DALLE CARCERI Non si sa come mai quando si adombra l’ipotesi che un potente qualsiasi possa essere sospettato o accusato da un giudice per un reato qualsiasi, ecco che egli si dichiara subito innocente. Non parliamo poi di quando il reato possa essere abbastanza grave da richiedere l’arresto. Si trovano tutte le scuse, immaginabili e non, per non farlo finire in galera. Chissà come mai le galere sono per lo più popolate da gente qualsiasi e non da potenti. È un mistero della nostra giustizia. È proprio vero: i veri delinquenti sono fuori dalle carceri.
IDENTIFICARE LE AUTO SCOPERTE DI ASSICURAZIONE
VENERDÌ 14 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Caffeina anti-tumore?
Lettera firmata
APPUNTAMENTI OTTOBRE
VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
LE VERITÀ NASCOSTE
Cerco amici Questo raro esemplare di foca albina è stato abbandonato dalla sua famiglia, forse a causa del suo aspetto inusuale. Il cucciolo è anche cieco e difficilmente sopravviverebbe in libertà. Fortunatamente il fotografo Anatoly Strakhov ha realizzato un servizio che sta facendo il giro del web. E il piccolo ha così trovato un delfinario disposto a prendersene cura
Il termine prevenzione è solamente un intercalare. Un esempio: è stato scoperto in Campania un considerevole numero di auto prive di assicurazione che, in caso di incidente, darebbero il via a un calvario per i cittadini perbene. Ma da un confronto dei database del Pra e delle assicurazioni non è possibile risalire alle auto prive di assicurazione e adottare le opportune contromisure? L’adozione di una verifica annuale, oltre ad essere un deterrente per i furboni (delinquenti), potrebbe significare un introito nelle casse statali (sanzioni pecuniarie e quant’altro) che non intaccherebbero i cittadini perbene. Inoltre si permetterebbe a questi ultimi di circolare con più tranquillità, senza l’angoscia di poter avere un incidente con una persona senza scrupoli priva di assicurazione.
Enzo Mattia
mondo
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La proposta del direttore dell’Earth Institute della Columbia University
L’economia della felicità La crisi impone un approccio allo sviluppo diverso, basato sul denaro ma anche sulla soddisfazione sociale di Jeffrey D. Sachs iviamo in un periodo di forte ansia. Nonostante la ricchezza globale senza precedenti, ovunque si respira insicurezza, disagio e insoddisfazione. Negli Stati Uniti, buona parte degli americani crede che il Paese sia “sulla strada sbagliata”. Il pessimismo è alle stelle. Lo stesso vale per molti altri paesi. Contro questo scenario, è giunto il momento per riconsiderare le fonti basilari della felicità nella nostra vita economica. L’incessante ricerca di redditi sempre più alti ci sta portando a livelli di ineguaglianza sociale e paura senza precedenti, piuttosto che verso una maggiore felicità e soddisfazione. Il progresso economico è importante e può migliorare enormemente la qualità della vita, ma solo se viene perseguito parallelamente ad altri obiettivi. A questo proposito, il regno himalayano del Bhutan ha fatto da precursore. Quarant’anni fa, il quarto re del Bhutan, giovane e appena salito al trono, prese una decisione storica: il Bhutan avrebbe dovuto dedicarsi alla “Felicità Interna Lorda”, piuttosto che al “Prodotto Interno Lordo”. Da allora, il Paese sta sperimentando un approccio allo sviluppo alternativo e olistico che enfatizza non solo la crescita economica, ma anche la cultura, la salute mentale, la compassione e la comunità. Decine di esperti recentemente si sono riuniti nella capitale del Bhu-
V
Per Sachs (foto in alto), consigliere del segretario generale dell’Onu, oltre al Pil è ora di introdurre il Fil
tan, Timphu, per valutare bene la situazione del Paese. Vi ho partecipato anche io insieme al primo ministro del Bhutan, Jigme Thinley, un leader sullo sviluppo sostenibile e un grande campione del concetto di “Fil”. Ci siamo riuniti a seguito di una dichiarazione di luglio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che rivolgeva ai paesi l’invito di esaminare come le politiche nazionali possono promuovere la felicità nelle loro società.
Tutti i presenti a Timphu erano d’accordo sull’importanza di cercare la felicità piuttosto che le entrate nazionali. La questione che abbiamo esaminato è come raggiungere la felicità in un mondo che è caratterizzato da una rapida urbanizzazione, dai mass media, dal capitalismo globale e dal degrado ambientale. Come può la nostra vita economica essere riordinata per ricreare un sen-
so di comunità, fiducia, e sostenibilità ambientale? Ecco alcune delle conclusioni finali: in primo luogo non dovremmo denigrare il valore del progresso economico. Quando le persone hanno fame, sono private di bisogni basilari come acqua pulita, assistenza sanitaria, istruzione e non hanno un’occupazione significativa, soffrono. Uno sviluppo economico che riduca la povertà è un passo vitale per incrementare la felicità.
In secondo luogo, l’incessante dedizione al Pil escludendo altri obiettivi non conduce alla felicità. Negli Stati Uniti, il Pil è salito bruscamente negli ultimi quarant’anni, ma la felicità no. Piuttosto una determinata dedizione al Pil ha prodotto grandi diseguaglianze di ricchezza e
potere, ha alimentato la crescita di un ampio sottoproletariato, ha intrappolato nella povertà milioni di bambini e ha causato un grave degrado ambientale. Terzo, la felicità viene raggiunta attraverso un equilibrato approccio alla vita sia da parte degli individui che delle società. In quanto individui, siamo infelici
tenere alti gli standard di vita, un’altra cosa è subordinare tutti i valori della società alla ricerca del profitto. Eppure la politica statunitense ha permesso sempre più che i profitti delle aziende dominassero qualsiasi altra aspirazione: onestà, giustizia, fiducia, salute mentale e fisica, e la sostenibi-
Il progresso economico è importante e migliora la qualità della vita, ma solo se viene perseguito parallelamente ad altri obiettivi, per ricreare un senso di comunità e fiducia se ci vengono negati i nostri basilari bisogni materiali, ma siamo infelici anche se la ricerca di redditi più alti sostituisce il nostro obiettivo sulla famiglia, gli amici, la comunità, la compassione e sul mantenimento dell’equilibrio interno. In quanto società, una cosa è organizzare le politiche economiche per man-
lità ambientale. I contributi aziendali alle campagne elettorali indeboliscono il processo democratico, con la benedizione della Corte Suprema americana. Quarto, il capitalismo mondiale presenta molte minacce dirette alla felicità. sta distruggendo l’ambiente naturale con i cambiamenti climatici e altri ti-
mondo L’Ocse si ispira alle parole dell’ex senatore e apre a nuovi indici di gradimento
Tutto cominciò da Robert Kennedy Ocse è l’organo europeo che ricerca e divulga studi economici per i paesi che fanno parte dell’Unione, favorendone l’interscambio commerciale e legislativo. Ma solo dal 2010, dopo moltissimi anni, si è dotata di nuovi strumenti per calcolare il livello di benessere dei Paesi Ue, introducendo nuovi indicatori e di fatto rendendo il Pil non è più lo strumento principe. Nel farlo, si è ispirata alle parole di Robert Kennedy: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana».(discorso tenuto il 18 marzo del 1968 all’Università del Kansas). L’ex senatore americano sosteneva questa tesi più di quarant’anni fa e il mondo non si trovava immerso nelle crisi globali in cui si trova adesso. L’Ocse sembra oggi aprire una piccola finestra verso il calcolo del benessere delle popolazioni europee uscendo dai rigidi parametri economici che, concretamente, non
L’
hanno la capacità di indicare l’effettiva qualità della vita dei cittadini. Lo fa introducendo nelle sue banche dati 20 diversi indicatori in 11 settori nei suoi 34 paesi membri, dalla soddisfazione di vita, all’inquinamento atmosferico, passando dallo stato dell’ambiente al senso sicurezza. Ha prodotto uno strumento interattivo che permette agli utenti di modificare il peso di ciascun settore secondo la propria visione della sua importanza, immaginando uno strumento utilizzabile da tutti.
Partendo dai dati forniti dall’Ocse, l’Economist ha realizzato un grafico mettendo a confronto l’indice di benessere ottenuto dall’organizzazione con il Pil pro capite, e se ne deducono classifiche alternative rispetto al solo flusso di denari. «Non è l’Ocse a decidere che cosa rende la vita migliore. Sei tu a decidere per te stesso»: così promette il sito dell’organizzazione, ma intanto, con i parametri di default, alcune valutazioni generali possono essere fatte. Ad esempio, su 34 paesi l’Italia arriva al ventiquattresimo posto, dopo la Repubblica Ceca e subito prima della Polonia e della Corea. Benché questa nuova riformulazione del concetto di benessere, oggi sia uno strumento “dimostrativo” chissà che non apra la strada a delle politiche non basate solamente sul Pil.
pi di inquinamento, mentre molte persone continuano a ignorare tutto questo per mezzo di una sfrenata propaganda delle industrie petrolifere. Sta indebolendo la fiducia sociale e la stabilità mentale, con una diffusione di depressione clinica in aumento. I mass media sono diventati i canali di sbocco di “messaggi promozionali”, molti di questi apertamente antiscientifici, mentre gli americani soffrono di una crescente gamma di dipendenze consumistiche.
Si consideri il modo in cui l’industria del fast-food usa gli oli, i grassi, gli zuccheri e altri additivi per indurre insane dipendenze da cibo che contribuiscono all’obesità. Al giorno d’oggi un terzo della popolazione americana è obeso. il resto del mondo farà la stessa fine a meno che i paesi non limiteranno queste pericolose pratiche aziendali, tra cui la pubblicità agli adolescenti di alimenti dannosi alla salute e che creano dipendenza. Il problema non è solo il cibo. Anche la pubblicità di massa sta contribuendo a indurre altre dipendenze consumistiche che implicano ingenti costi di sanità pubblica, tra queste l’eccessivo uso della televisione, il gioco d’azzardo, l’uso di droghe, il consumo di sigarette e l’alcolismo. Quinto, per promuovere la felicità dobbiamo individuare i numerosi fattori diversi dal Pil che possono influire positivamente o negativamente sul benessere della società. La maggior parte dei paesi investono per misurare il Pil, ma spendono poco invece per individuare le fonti di scarsa salute (come i fast food, l’uso eccessivo della tv), che fanno crollare la fiducia sociale e sono responsabili del degrado ambientale. Una volta compresi questi fattori, allora si potrà agire. La folle ricerca degli interessi aziendali è una minaccia per tutti noi. Per essere sicuri, dovremmo sostenere la crescita economica e lo sviluppo, ma solo in un contesto più ampio: un contesto che promuova la sostenibilità ambientale e i valori della compassione e dell’onestà, necessari per la fiducia sociale. La ricerca della felicità non dovrebbe essere confinata al bel regno del Bhutan.
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Dal 2008 il Pil è stato sostituito con il Fil
Esempio Bhutan, il Paese della pace Sanità e scuola sono gratuiti, il tasso di suicidi è il più basso al mondo di Laura Giannone inizio di questa storia risale al 1974, quando il diciottenne Jigme Singye Wangchuck diventò il sovrano più giovane al mondo. Notizia che non conquistò certo le prime pagine dei giornali. «Sarò felice se i bhutanesi saranno felici - disse quel giorno il sovrano - Non credo ci sia altro che un re possa desiderare». Trentadue anni dopo, nel 2006, con un mossa che gettò i suoi sudditi nel panico, decise di auto-deporsi. Rinunciando prima ai poteri di monarca assoluto (il figlio, suo successore, è un sovrano costituzionale) e introducendo una nuova Costituzione. La nuova Carta stilata, in nome della laicità del governo, ha tolto ai monaci il diritto di voto, previsto l’impeachment per la monarchia e il pensionamento obbligatorio del sovrano a 60 anni. Insomma, ha aperto alla democrazia. Perché senza sarebbero mancate le condizioni della felicità. Oggi l’ex re abita isolato in un minuscolo cottage di legno e sembra si dedichi alla meditazione. Mentre suo figlio, seguendo le orme paterne, ha deciso di fare del Bhutan il primo Stato a sostituire il Pil con il Fil (nella sigla inglese è Gnh, Gross national happiness), che misura le esigenze e i bisogni della sua popolazione. Era il 2008.
L’
Da allora sanità e scuola (libri di testo compresi) sono gratuite, la diffusione dell’Aids e il tasso di suicidi o omicidi è tra i più bassi del mondo. E non solo: il perseguimento del Fil si coniuga con il rispetto dell’ambiente e con la produzione di ricchezza: ogni anno il Bhutan accresce l’export di energia idroelettrica dai fiumi dell’Himalaya. Questi risultati, assieme all’originalità dell’idea, hanno portato il piccolo regno a diventare un punto di riferimento possibile. Dal Giappone al Brasile, dal Canada all’Italia, i delegati del piccolo regno himalayano sono invitati sempre più spesso a spiegare il segreto della Felicità interna lorda.
Ora che i subprime sono crollati e la Cina è il primo inquinatore globale, tutti vogliono sapere perché in Bhutan persino i cani di strada sembrino toccati dalla tranquilla soddisfazione che si respira a Thimphu, la capitale. Il Bhutan fa enormi sforzi per classificare e perseguire il suo modello. Il governo misura tutto: la prosperità, l’ambiente, il benessere mentale, la cultura e la religiosità, la vita sociale, la armonica divisione del tempo fra il lavoro e il resto. Ogni due anni il 12% della popolazione riempie un questionario di 70 pagine con
domande e quiz di ogni tipo: sulle fonti di stress, il sonno perso nell’ ultimo mese, il ricorso al medico, all’astrologo o allo sciamano in caso di malattia, alcol bevuto, il karma, la conoscenza dei candidati locali al parlamento, la qualità dell’aria. «Piccoli come siamo, pur con i nostri problemi, abbiamo qualcosa di adatto per le aspirazioni dell’umanità», ha detto in un’intervista il ministro dell’ Educazione Thakur Powdyel. Neanche lui può tagliare un albero senza permesso, perché le foreste devono coprire almeno il 60% del Paese. È proibito cacciare, pescare, vendere sacchetti di plastica o tabacco (il Bhutan è l’unico Paese al mondo smoking free, ma c’è il mercato nero) e per chi traffica gli oggetti d’arte dei templi è previsto l’ergastolo.
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Gli uomini di Langley continuano a spuntare la lista dei maggiori ricercati per il terrorismo ultrafondamentalista di matrice islamica
Ucciso l’imam del terrore Anwar al Awlaki, braccato dalla Cia, freddato grazie a un raid aereo nello Yemen di Pierre Chiartano ’americano di al Qaeda è morto e il presidente Saleh non molla il potere. Anwar Al Awlaki, l’imam radicale – cittadino statunitense di origine yemenita – considerato vicino ad Al Qaida nello Yemen e uno dei tre most wanted della Cia da alcuni ritenuto successore di Osama bin Laden, è stato ucciso. Lo ha annunciato il ministero della Difesa yemenita. Mentre il presidente Saleh ha messo in guardia, in un’intervista al Time e al Washington Post, sul pericolo di una guerra civile nel Paese. Intanto Langley può spuntare un altro nome dall’elenco dei ricercati, una serie positiva cominciata col tentativo di catturare bin Laden, poi ucciso, in Pakistan. L’impressione è che Washington, annunciando la propria intenzione di ritirarsi dal Grande Medioriente, non voglia lasciare conti in sospeso. E stia accelerando i tempi per poter annunciare quanto prima conclusa la guerra contro i terroristi dell’11 settembre 2001. Una narrazione collettiva di cui la Casa Bianca ha necessità, per giustificare il riposizionamento degli Usa più a oriente, per arginare meglio la sfida cinese. Insomma, basta perdere
L
tempo con gli uomini «con gli asciugamani in testa», come dichiarava a liberal qualche tempo fa il consulente del Pentagono, Edward Luttwak.
Secondo fonti citate dalla televisione panaraba Al Arabiya, Al Awlaki è stato ucciso in un attacco aereo contro due automobili mentre si trovava su una delle due. Le vetture viaggiavano nei pressi del confine con l’Arabia Saudita. Nel maggio scorso era sfuggito ad un altro tentativo di uccisione compiuto da un drone (aereo senza pilota) americano pochi giorni dopo l’eliminazione del leader di Al Qaida, Osama bin Laden, in
te ad Al Qaida. Dall’11 settembre fonti dei servizi segreti occidentali citati dalla stampa americana lo hanno indicato come ispiratore di diversi attentati. Ricordiamo che Awlaki era già stato dato per morto dal ministro della Difesa yemenita alla fine del 2010.
L’imam “americano” buon conoscitore dei meccanismi dei media statunitensi e della cultura di quel Paese era uno dei più insidiosi avversari della lotta al terrorismo ultrafondamentalista. Era capace di convertire centinaia di giovani musulmani alla causa del jihad. Compresi i futuri kamikaze
Il leader di al Qaeda aveva accolto, nella sua moschea a San Diego, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdar, due dei futuri attentatori dell’11 settembre ed era un abile reclutatore di kamikaze Pakistan. Al Awlaki, nato negli Usa 40 anni fa, figlio di un ex ministro dell’Agricoltura yemenita, è stato il primo cittadino statunitense nella storia ad essere inserito nella lista degli obiettivi della Cia e compariva anche nella lista nera dell’Onu di personalità considerate lega-
dell’11 settembre, che frequentarono le moschee in California e Virginia. Nato in New Mexico nel 1971, Awlaki ha incarnato l’originale connubio tra una rigida e arcaica educazione islamica e l’American way of life, al punto da divenire un’icona al negativo dei due mondi. È all’i-
nizio del Novanta che Awlaki trascorre almeno un’estate nei campi di addestramento jihadisti in Afghjanistan.
La Commissione di indagine sull’11 settembre accerterà che già agli inizi del Duemila Awlaki accoglieva, nella sua mo-
schea a San Diego, Nawaf alHazmi e Khalid al-Mihdar, due dei futuri attentatori dell’11 settembre. Ma la vera svolta è all’indomani della strage delle Twin Towers: «ci hanno detto che è stato un attacco alla civiltà, alla libertà, al modo di vivere americani. Ma non è vero.
Dopo il rientro del presidente Saleh le tensioni sono aumentate. Ma perché l’Arabia Saudita gli ha permesso di tornare?
Lo spettro della guerra civile è sempre più forte l presidente Ali Abdullah Saleh sabato scorso è inaspettatamente tornato nello Yemen, una mossa che - non deve sfuggire - potrebbe dividere ulteriormente il paese e spingerlo verso una guerra civile. Sembrava fosse rientrato per rimettere il suo mandato, ma nella sua prima dichiarazione pubblica Saleh non ha fatto alcun accenno all’intenzione di dimettersi da presidente, una carica che ha ricoperto per 33 anni. Ma ha chiesto una tregua e un ritorno ai negoziati, affermando che la soluzione agli otto mesi di crisi «non è nelle canne dei fucili e nei cannoni, ma nel dialogo». Saleh ha ricevuto cure mediche in Arabia Saudita per quattro mesi, dopo essere stato quasi ucciso in un attentato il 3 giugno, quando l’esplosione di una
I
di Patrick Cockburn bomba o di un missile gli ha provocato ustioni su tutto il corpo. Ci si attendeva che il governo saudita non gli avrebbe permesso di tornare nello Yemen a meno che egli non avesse promesso di cedere il potere, ma all’alba di sabato Saleh è tornato nella capitale, Sana’a, a bordo di un aereo privato.
Nella capitale, gli oppositori e i sostenitori di Saleh hanno sparato in aria in segno di rabbia o di celebrazione quando la notizia che egli era tornato nel paese è stata drammaticamente annunciata dalla televisione yemenita. Entrambe le parti, che controllano i diversi settori della città, hanno tenuto manifestazioni parallele. I sostenitori
del presidente gridavano «ti vogliamo bene Ali», mentre gli oppositori gridavano «perseguite l’assassino».
Se Saleh non comincerà a trasferire il potere ai suoi avversari, che vanno dai dimostranti filo-democratici nelle strade agli anziani leader tribali e militari, la crisi nello Yemen sarà destinata a peggiorare rapidamente. La prolungata fase di stallo ha già visto il tradizionalmente debole Stato centrale yemenita disintegrarsi ulteriormente. I prezzi dei generi alimentari e della benzina sono saliti alle stelle. Nove dei 23 milioni di yemeniti non hanno abbastanza da mangiare, e il numero di persone che rischia la fame, secon-
do le Nazioni Unite, è in aumento. L’appello di Saleh a un cessate il fuoco e all’avvio di negoziati sarà visto come particolarmente ipocrita dai manifestanti, in quanto le forze a lui fedeli sono state responsabili della maggior parte delle uccisioni. Tali stragi includono circa 100 persone massacrate dai cecchini e dai bombardamenti la scorsa settimana, e la maggior parte dei morti è stata colpita mentre stava manifestando.
I medici degli ospedali dove sono in cura i feriti hanno affermato che molti hanno ferite alla testa, il che indica che le truppe leali al regime sparano per uccidere. Saleh ha condotto prolungati negoziati prima dell’attentato ai suoi danni, ma ha sempre esitato al-
mondo
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parte a un rapimento. È di questo periodo una delle sue registrazioni più famose, «Costanti sulla via della guerra santa», in cui predica il jihad globale» senza barriere e confini.
Il terrorista d’origine yemenita era papabile per la successione ad Osama bin Laden. Nel 2010 era diventato il primo cittadino americano ad essere inserito nella lista dei “killing target” È stato un attacco contro la politica estera americana», dirà senza esitazioni al Washington Post. Intanto è un imam sempre più noto: un vero leader, magnetico e passionale che sa farsi capire. Trasferitosi nell’East Coast, diventa l’imam della moschea di Dar Al-Hijra
in Virginia dove, tra la folla di fedeli inginocchiati, ancora una volta spiccano due o forse quattro dei kamikaze dell’11/9, compreso il ”pupillo” Hamzi. La sua conversione è quasi completa; Awlaki si trasferisce in Gran Bretagna dove centinaia di studenti vengono ad
ascoltare le sue lectio sull’Islam. Poi, nel 2004, fa ritorno nello Yemen meridionale. Ma come inquadrare questo episodio nella già intricata vicenda yemenita. Nel 2006, su pressioni americane, le autorita’ di Sanaa lo arrestano con l’accusa di aver preso
l’ultimo momento di firmare qualsiasi accordo che sancisse le sue dimissioni. Il crollo dello Stato centrale e dell’economia ha spinto i funzionari delle Nazioni Unite a paragonare lo Yemen alla Somalia, un paese in uno stato di guerra permanente, ma senza fazioni in grado di registrare una vittoria decisiva.
Il presidente ha chiesto un ritorno ai negoziati perché la soluzione «Non è nelle canne dei fucili ma nel dialogo»
Anche prima della crisi, lo Yemen era il paese più povero del mondo arabo, con un terzo della forza lavoro disoccupato, con gli introiti del petrolio in caduta libera, e con una crescente carenza di acqua. Lo Yemen non si è mai ripreso economicamente dopo l’espulsione di un milione di lavoratori yemeniti dall’Arabia Saudita nel 1990-91 a seguito della decisione del governo di Sana’a di non condannare l’invasione irachena del Kuwait. Saleh ha dimostrato, durante i suoi quasi quattro mesi trascorsi al di fuori dello Yemen, di non aver bisogno di essere personalmente presente per mantenere il potere, e di essere in grado di
L’Fbi, intanto, ha cominciato a interessarsi di lui dal 1999 e, all’indomani dell’11/9, lo ha interrogato per quattro volte, ma senza arrivare ad alcuna conclusione certa sul suo coinvolgimento. Ma è soprattutto la sua instancabile pubblicistica su internet – tra cui il celebre «44 modi per sostenere il jihad» – a preoccupare gli agenti americani. Predicazioni che, una volta uscito dalle carceri yemenite, si fanno sempre più violente mentre Awlaki viene accreditato come uno dei capi di al Qaeda in Yemen. Secondo gli inquirenti è lui ad istigare l’autore della strage di Fort Hood del 2009, il maggiore Nidal Malik Hasan. Cosi’ come Umar Faruk Abdulmutallab, il kamikaze nigeriano che tenta di farsi esplodere su un volo Delta a Detroit. I suoi sermoni avrebbero spinto al martirio anche il pakistano Faisal Shahzad, arrestato per il fallito attentato del 1 maggio 2010 a Times Square. Ritenuto «estre-
farlo attraverso i membri della sua famiglia. Suo figlio, Ahmed Ali Saleh, precedentemente designato come prossimo presidente, controlla le ben addestrate unità della Guardia Repubblicana. Ma anche se l’opposizione non è stata in grado di allontanare Saleh dal potere, probabilmente egli non ha forza sufficiente per sconfiggerla. Parte di Sana’a è sotto il controllo dei miliziani tribali della potente famiglia Ahmar e delle truppe della prima divisione corazzata guidata dal generale Ali Mohsen, un’influente figura militare che disertò a favore dell’opposizione a marzo, dopo che uomini armati fedeli al regime, sparando dai tetti, avevano ucciso 52 manifestanti.
Le circostanze del ritorno di Saleh rimangono un mistero, in quanto ci si aspettava che l’Arabia Saudita, con l’appoggio degli Stati Uniti, gli avrebbe impedito di tornare a meno che egli non avesse deciso di cedere il potere. Data la sua storia passata di uomo pronto a raggiungere accordi solo per
mamente pericoloso» dall’antiterrorismo Usa, al punto da essere un papabile per la successione ad Osama bin Laden, nel 2010 era divenuto il primo cittadino americano ad essere inserito nella lista dei killing target della Cia. Ora col ritorno in Patria del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica da ben 33 anni, il quadro si complica. La paura del presidente, è che venga permesso ai suoi oppositori di partecipare alle elezioni che decideranno la successione. Saleh era rientrato nel Paese la settimana scorsa dopo tre mesi di assenza, in cui è stato ricoverato in un ospedale di Riyadh per curarsi dei postumi di un attentato.
Stati Uniti e Arabia saudita temono che la situazione d’instabilità possa permettere alle forze di al Qaeda di guadagnare terreno nel sud dello Yemen. E le preoccupazioni sono più per i principi Saud. Per Washington basterebbe il tempo di completare la vendita di armi del secolo ai sauditi, poi potrebbero anche essere lasciati al loro destino di prossimi candidati per una rivoluzione. E non ci sarebbe più tanta gente a preoccuparsene in America.
poi rifiutarsi di firmarli all’ultimo momento, l’unico compromesso di pace possibile sarebbe probabilmente un’intesa in base alla quale egli ceda il potere nelle prime fasi del processo.
Allo stesso tempo, Saleh è stato abile in passato a manipolare gli Stati Uniti proponendosi come alleato dell’America contro il terrorismo, e in particolare contro al-Qaeda nella penisola araba (Aqap), che ha le proprie basi nello Yemen. Questo gruppo conta appena 300 uomini secondo i funzionari yemeniti, ma perseguire e cercare di uccidere i leader di Aqap continua ad essere una priorità degli Stati Uniti. Il regime di Sana’a è sospettato di aver ritirato le sue truppe allo scopo di consentire agli affiliati di Aqap di impadronirsi per un breve periodo di Zinjibar, la capitale della provincia di Abyan nell’estremo sud, così da rafforzare il senso di disagio di Washington su cosa accadrebbe se Saleh non fosse più presidente.
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grandangolo L’analisi del politico libanese, già ministro negli anni ’90
Erdogan d’Arabia invade l’Egitto (e i Fratelli)
Il leader turco vuole che Ankara diventi la prima potenza regionale del Medioriente ed estenda la sua influenza a tutto il mondo islamico, dalle sponde europee dell’Adriatico alla muraglia cinese in Asia. Ritenendo che “l’islam turco”, che unisce religione e democrazia, sia il sistema migliore per i paesi islamici nell’era moderna. Eppure... di Issam Naaman ecep Tayyip Erdogan ha preparato la sua visita in Egitto dei giorni scorsi con estrema cura. Gli atteggiamenti, gli eventi, la scelta di tempo e le parole, tutto era stato preparato con cura e precisione. Ha voluto agire come un ospite d’eccezione che portava con sé un messaggio importante a un padrone di casa ardentemente desideroso di conoscerne il contenuto. Questo messaggio, però, non era rivolto solo all’Egitto, ma anche agli arabi e alle altre nazioni della regione. Perciò il leader turco ha voluto che la diffusione di tale messaggio fosse ripartita in numerose occasioni affinché esso potesse giungere a tutti.
R
Forse il premier si è immaginato nei panni del sultano ottomano Mehmet, il conquistatore di Costantinopoli (oggi Istanbul), perché si è mosso come se avesse pacificamente conquistato il Cairo, dopo secoli e generazioni, arrivando a consacrare «una fase di cambiamento storico, rivoluzionario e democratico». Ma a differenza del predecessore, ha preferito mantenere un comportamento abbastanza umile, assegnando
il ruolo di Mehmet il Conquistatore alla gioventù egiziana che «ha chiuso una pagina del passato per aprire quella di una nuova civiltà».
Centinaia di giovani egiziani, ed in particolare di giovani appartenenti ai Fratelli Musulmani, hanno effettivamente
Il premier guarda al momento, non lontano, in cui gli Usa dovranno lasciare l’area immaginato che egli fosse il sultano “Mehmet Recep”, il nuovo califfo dei musulmani, e gli hanno preparato un’accoglienza solenne all’aeroporto del Cairo. Hanno portato bandiere, gli hanno tributato applausi e ovazioni, hanno innalzato grida e invettive, chiedendogli di fondare un califfato islamico sotto la guida della
Turchia. Questi giovani hanno confermato ai mezzi di informazione di rappresentare una delegazione dei Fratelli Musulmani, che era stata selezionata sotto la supervisione dell’Ufficio della Guida suprema per esprimere il sostegno e l’appoggio alle politiche del leader turco. Essi hanno intonato rumorosi slogan a sostegno di Erdogan, come: «Erdogan, Erdogan, una grande benvenuto dai Fratelli Musulmani», «Egitto e Turchia, mano nella mano» e «Egitto e Turchia, vogliamo un califfato islamico».
Ma Erdogan ha deluso le speranze dei Fratelli Musulmani poiché, durante il secondo giorno della sua visita, nel corso di un’intervista televisiva ha invitato a redigere una nuova costituzione per l’Egitto fondata sui principi dello Stato laico, sottolineando che ciò non vuol dire uno Stato senza religione, ma uno Stato che si pone alla stessa distanza da tutte le religioni. Egli ha aggiunto: «Non abbiate paura dello Stato laico; io auspico l’esistenza di uno Stato laico in Egitto». Il leader turco non vuole soltanto uno Stato laico per l’E-
gitto, ma anche uno Stato moderno. Egli ha affermato che l’Egitto «potrà costruire uno Stato moderno dopo la rivoluzione, se compirà tre passi rappresentati rispettivamente dalla buona amministrazione dei cittadini, dall’interesse nei confronti dell’istruzione e infine da una buona organizzazione delle sue finanze, così come dall’eliminazione della corruzione e dalla realizzazione della stabilità».
Forse i Fratelli Musulmani sono d’accordo con lui riguardo a questi tre passi, ma che dire dello Stato laico? La verità è che il discorso di Erdogan sulla laicità ha rappresentato un grosso shock per gli islamici, ed in particolare per i Fratelli Musulmani. Uno dei loro leader di spicco – il vicepresidente del loro partito “Libertà e Giustizia”, Essam el-Erian – ha affermato di essere rimasto molto stupito dalle parole di Erdogan, sottolineando che il primo ministro turco non ha il diritto di ingerire negli affari interni dell’Egitto! Durante le manifestazioni da un milione di persone a Piazza Tahrir, i Fratelli Musulmani avevano annunciato di essere
d’accordo con la creazione di uno Stato civile democratico di ispirazione islamica, ma non hanno chiarito cosa si intenda per “ispirazione islamica” e quale sarebbe il ruolo di tale “ispirazione”. È stato detto che l’obiettivo di ricorrere all’espressione “Stato civile democratico” sarebbe quello di riconoscere attraverso la promulgazione di leggi una situazione di uguaglianza tra i cittadini nei diritti e nei doveri, e di assorbire le conquiste della scienza e della tecnologia in tutti i settori a condizione che esse non siano in contrasto con le norme della legge islamica.
Quanto alla laicità, essa è stata rifiutata dai Fratelli Musulmani poiché considerata un concetto europeo che include i concetti di ateismo, di dissoluzione dei valori spirituali, e di divieto delle cerimonie religiose.Tuttavia essi non hanno dato la sensazione di essere contro il concetto di neutralità dello Stato rispetto alle diverse istituzioni religiose. Inoltre, i Fratelli Musulmani, così come gli altri attori politici egiziani, si rendono conto che Erdogan non è andato in Egitto per promuovere lo Stato laico.
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«La rabbia di Tayyp è sempre più simile a quella del suo amico Chavez»
Insieme alle armi nucleari di Teheran, sono loro la minacciapiù grande di Daniel Pipes n un Medioriente devastato da colpi di Stato e insurrezioni civili, la Repubblica di Turchia si offre in modo credibile come un modello da seguire grazie alla sua impressionante crescita economica, al sistema democratico, al controllo politico dell’esercito e all’ordine secolare. In realtà, però, la Turchia potrebbe essere, insieme con l’Iran, lo Stato più pericoloso della regione.Vediamone i motivi. 1) Gli islamisti senza freni. Quando quattro dei cinque capi di stato maggiore turchi hanno rassegnato improvvisamente le loro dimissioni, il 29 luglio scorso, questo ha segnato la reale fine della repubblica fondata nel 1923 da Kemal Atatürk. Una seconda repubblica guidata dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan e dai suoi colleghi islamisti del partito Akp ha esordito proprio quel giorno. Con l’esercito sotto il loro controllo, gli ideologi dell’Akp ora possono perseguire le loro ambizioni di creare un ordine islamico. 2) Un’opposizione ancor peggiore. Paradossalmente, i secolaristi turchi tendono a essere più anti-occidentali dell’Akp. I due partiti in Parlamento, il Chp e l’Mhp, condannano le politiche più illuminate dell’Akp, come il suo approccio verso la Siria e la decisione di ospitare un sistema radar della Nato.
I
Egli stesso ha espresso con franchezza parte dei propri obiettivi, lasciando agli altri – egiziani e non egiziani – il compito di intuire quale fosse la parte rimanente.
In una conferenza stampa congiunta con il primo ministro egiziano Essam Sharaf, Erdogan ha annunciato che Ankara è al fianco del Cairo per aiutarla a superare le difficoltà attuali, indicando che il volume degli scambi commerciali fra i due paesi raggiunge attualmente i tre miliardi di dollari «ed entro breve verrà innalzato a cinque miliardi».
La sua intesa strategica con Il Cairo mira a frenare le ambizioni di Israele (e dell’Iran) Per questo motivo Erdogan si è fatto accompagnare da un’ampia delegazione di oltre 250 industriali e uomini d’affari. L’altra parte dei piani di Erdogan, e della sua visita al Cairo, è emersa dalle tesi da lui espresse nelle occasioni in cui ha parlato.
Alla riunione del consiglio dei ministri degli Esteri arabi il leader turco ha sottolineato che «è impensabile che Ankara assuma una posizione di indifferenza rispetto agli sviluppi del Medioriente, non solo perché la Turchia fa parte della geografia della regione, ma per la storia comune e il futuro che condivide con essa». In questo contesto egli ha ribadito il sostegno
del proprio paese al tentativo dei palestinesi di ottenere il riconoscimento internazionale di un loro Stato indipendente, ed ha posto l’enfasi sulle condizioni richieste dalla Turchia per riallacciare i rapporti con Israele, fra cui le scuse da parte di Tel Aviv per aver ucciso 9 cittadini turchi che avevano preso parte alla Freedom Flotilla, il pagamento di un indennizzo alle loro famiglie, e la fine dell’assedio alla Striscia di Gaza.
Tuttavia la parte più importante dei piani di Erdogan è quella che si legge tra le righe. Il leader turco vuole che il suo paese diventi la prima potenza regionale del Medio Oriente ed estenda la sua influenza a tutto il mondo islamico, dalle sponde europee dell’Adriatico alla muraglia cinese in Asia. Egli ritiene che “l’Islam turco” che unisce religione e democrazia sia il sistema migliore per i paesi islamici nell’era moderna. Analogamente egli ritiene che la Turchia, innalzando la bandiera dell’ “Islam democratico” e riconciliando i paesi arabi ed islamici, sarà in grado di colmare il vuoto che deriverà dal ritiro coatto degli Stati Uniti dalla regione, ormai non lontano. Egli pensa che la Turchia, con la sua intesa strategica con l’Egitto, sarà in grado di frenare le ambizioni di Israele, da un lato, e di tranquillizzare i paesi petroliferi preoccupati dall’ascesa dell’Iran e dalla sua alleanza con la Siria e le forze della resistenza nella regione, dall’altro. Tuttavia Erdogan è ancora ai primi scalini dell’ascesa regionale, e le sfide che lo attendono sono molteplici e pericolose. Forse prima o poi egli si renderà conto, come anche altri, che per la regione è indispensabile che l’Egitto riacquisti il suo ruolo nazionale e regionale.
3) Un imminente crollo economico. La Turchia affronta una crisi del credito, in gran parte ignorata alla luce della crisi greca e di altri paesi. Come rileva l’analista David Goldman, Erdogan e l’Akp conquistano il Paese in piena frenesia finanziaria: i fidi bancari sono aumentati mentre il disavanzo dei conti ha subito un’impennata, raggiungendo livelli insostenibili. La macchina clientelare del partito ha contratto ingenti debiti a breve termine per finanziare una bolla del credito al consumo che di fatto ha comprato le elezioni dello scorso giugno. Goldman definisce Erdogan un «uomo forte del terzo mondo» e paragona la Turchia odierna al Messico del 1994 o all’Argentina del 2000, «dove una breve fase di espansione economica, finanziata da flussi di capitale straniero a breve termine, ha portato alla svalutazione monetaria e a una profonda crisi economica». 4) L’escalation dei problemi curdi. Circa il 15-20 per cento dei cittadini turchi sono curdi, un popolo con radici storiche differenti; e sebbene molti curdi si siano integrati, una rivolta separatista contro Ankara, iniziata nel 1984, ha di recente raggiunto un nuovo crescendo con una leadership politica più grintosa e con degli attacchi di guerriglia più aggressivi. 5) Erdogan, l’eroe delle piazze arabe. Sulla scia di Gamal Abdel Nasser e di Saddam Hussein, il premier turco sfrutta la retorica antisionista per diventare la star poli-
tica araba. C’è da rabbrividire al pensiero di dove egli potrebbe andare a finire, elettrizzato da tutta quest’adulazione.
6) In cerca di uno scontro con Israele. Dopo che Ankara ha appoggiato la causa della Mavi Marmara – la nave di protesta diretta a Gaza nel maggio 2010, la cui aggressione indusse le forze israeliane a uccidere otto cittadini turchi e un americano di origini turche – ha inesorabilmente sfruttato questo episodio per alimentare la rabbia domestica contro lo Stato ebraico. Erdogan definisce le morti un casus belli, parla di una guerra con Israele «se necessario», e intende inviare un’altra imbarcazione a Gaza, questa volta dotata di una scorta militare turca. 7) Stimolare una fazione anti-turca. L’ostilità turca ha rinsaldato le relazioni storicamente cordiali che intercorrono tra lo Stato ebraico e i curdi, e ha risanato i freddi rapporti di Israele con la Grecia, Cipro e perfino con l’Armenia. Oltre a cooperare a livello locale, questo gruppo renderà ai turchi la vita difficile a Washington. 8) Affermare i propri diritti sulle riserve energetiche del Mediterraneo. Le imprese che operano fuori dai confini di Israele hanno scoperto delle riserve di gas naturale e petrolio potenzialmente immense come il Leviathan e altri giacimenti situati tra Israele, il Libano e Cipro. Quando il governo cipriota ha annunciato di voler procedere alle trivellazioni, Erdogan ha reagito minacciando di inviare proprie «fregate, cannoniere e (…) la forza aerea». Questa disputa contiene fin d’ora i potenziali elementi di un’immensa crisi. E Mosca, solidale con Cipro, ha già inviato i suoi sottomarini. 9) Altri problemi internazionali. Ankara minaccia di congelare le relazioni con l’Unione europea nel luglio 2012, quando Cipro assumerà la presidenza di turno. Le forze turche hanno sequestrato una nave siriana che trasportava armi. Le minacce turche di invadere il nord dell’Iraq hanno peggiorato i rapporti con Baghdad. Il regime turco e iraniano possono condividere una visione islamista e un programma anticurdo, con delle prospere relazioni commerciali, ma la loro storica rivalità, gli opposti stili di governo e le ambizioni in concorrenza ne guastano i rapporti. Mentre i problemi economici colpiscono, un membro della Nato - un tempo esemplare può uscire fuori strada – si faccia attenzione ai segnali di come Erdogan emula il suo amico venezuelano Hugo Chávez. Ecco perché, insieme alle armi nucleari iraniane, io ritengo che una Turchia dissidente sia la più grande minaccia della regione.
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il personaggio della settimana Lunedì il Tribunale dovrebbe emettere il verdetto sull’orrendo omicidio di Meredith Kercher
La Venere di Perugia Per lei si sono scomodati Hillary Clinton e il Quirinale. Ha diviso la stampa e l’opinione pubblica, e il suo caso ha trasformato l’immagine di una città. Chi è Amanda Knox? È vittima o colpevole? di Gabriella Mecucci asta scorrere Google per capire che cosa sia diventata Amanda Knox: ha più citazioni di Giorgio Napolitano e solo un po’ meno di Silvio Berlusconi. Poi ci sono i libri: ne sono già usciti una quindicina. Il suo volto campeggia sulle copertine, e fa vendere. Per non dire dei film, degli sceneggiati, dei documentari che circolano ormai per gli States. La ragazza di Seattle è un’icona. Se n’è dovuta occupare anche Hillary Clinton e ha strappato persino una cauta dichiarazione del Quirinale.
B
Da più di una settimana, da quando cioè è iniziata a Perugia la fase finale del processo per l’omicidio di Meredith Kercher (che dovrebbe concludersi lunedì prossimo con la sentenza), le telecamere delle tv di mezzo mondo indugiano sui suoi lineamenti angelici, raccontano il suo look: come è vestita, che cosa porta fra i capelli, che cosa ha fra le mani. Il suo avvocato, dopo aver pronunciato l’arringa finale, l’ ha accarezzata teneramente come si fa con una figlia. E la difesa di Raffaele Sollecito (il fidanzato e coimputato), rappresentata dalla Principessa del Foro Giulia Bongiorno, se ha voluto finire su tutti i giornali ha dovuto parlare di lei. Ha detto che è stata «dipinta dall’accusa come una Venere in pelliccia», un’immagine presa in prestito dal mito letterario masochista, che racconta di una donna bella come una dea e crudele come un demone. E invece l’americanina è solo una «giovane donna innamorata», parola di grande avvocato. Sia come sia, Amanda è una protagonista assoluta. È una personalità dominante. Lei presente, tutti gli altri vengono relegati al ruolo di comparse. Una sorte che non è stata risparmiata nemmeno a Raffaele Sollecito. Ormai. da giorni e giorni, la stampa si è schierata per la
sua innocenza. Sono i media americani a tirare la campagna. Ma anche quelli italiani ci danno dentro. Contro di loro, si sono mossi i giornali inglesi, che non si stancano di ricordare che una ragazza, una loro conterranea, Meredith è stata sgozzata nel suo letto: era la notte del primo novembre 2007.
Ma chi è davvero Amanda? Una Venere trasgressiva e aggressiva? Oppure - come raccontano i suoi avvocati, i genitori, gli amici più fidati - una ventenne tenera, a tratti disperata? Al netto degli eccessi e delle iperboli, le due personalità coesistono. C’è un’Amanda del primo tempo e una del secondo tempo. Il processo le ha svelate entrambe. Ne ha fatte e ne ha dette tante di cose strane e poco credibili la ragazzina di Seattle. Come quando ha raccontato al sostituto Giuliano Mignini che lei dormì da Raffaele la notte in cui fu uccisa Meredith. Che la mattina si svegliò e decise di tornare nella casa di via della Pergola, dove giaceva morta la sua amica. Entrò, passò per il corridoio insanguinato, arrivò al bagno, vide il lavandino macchiato di sangue e – come se niente fosse – si fece una bella doccia. Poi tornò dal fidanzato e, solo allora, pensò che doveva essere successo qualcosa di brutto. Strano no? L’accusa lo ha sottolineato più volte. E prima Amanda aveva raccontato, sempre al sostituto Mignini, che lei la sera dell’omicidio era a casa con Meredith e Patrik Lumumba. I due ad un certo momento si appartarono nella camera dell’amica. Dopo un po’ sentì tremende urla, e ebbe il sospetto che stesse accadendo qualcosa di irreparabile. Si tappò le orecchie e non intervenne mentre si consumava l’assassinio. Una confessione vera e propria che convinse il questore di Perugia a tal punto da fargli affermare che «il caso era chiuso». Non l’avesse mai detto! Lumumba dimostrò in modo inconfutabile di essere altrove, e venne scarcerato. Amanda disse che aveva raccontato quella storia perché c’era stata costretta dalla polizia. Minacciata e picchiata (due scappellotti), aveva tirato fuori il nome del suo datore di lavoro su suggerimento degli agenti. Ma poi smentì la smentita. Strano no? Confessare, ritrattare, calunniare non è cosa di tutti i giorni. E poi c’è la storia della simulazione del furto nella casa di via della Pergola. La finestra venne rotta dall’interno:
qualcuno voleva far credere che a uccidere era stato un ladro. E che dire di quell’enigmatico comportamento prima dell’interrogatorio? Raccontarono le amiche che Amanda era fredda, distante. Non versò una lacrima. Parlava della morte di Meredith con un’espressione di ghiaccio. Diceva che la sua morte era stata dolorosa, che aveva visto il cadavere nello specchio. Deliri di una ragazza spaventata? Mitomiania? Oppure era presente quando fu vibrato il colpo fatale? Quella sera in questura, Amanda raccontava o straparlava? L’accusa ha sciorinato durante il processo tutte le sue carte. Ma la difesa ha messo a segno un gran colpo. I periti nominati dalla Corte hanno smentito i referti della polizia scientifica: quello sul coltello, presunta arma del delitto, non è il Dna di Amanda. E l’impronta genetica, attribuita a Sollecito, sul reggiseno di Meredith è stata contaminata. E poi – ha ricordato la Bongiorno – nella camera del delitto non ci sono altre tracce dei due “fidanzatini”, mentre è piena di quelle di Rudy Guede, il ventenne nero già condannato con sentenza passata in giudicato. La sua presenza quella notte sulla scena del crimine è più che dimostrata tanto da far sostenere alle difese che l’assassino è solo lui. Alcune importanti testimonianze portate dall’accusa, infine, sarebbero “inattendibili”. I Pm le difendono, ma gli avvocati Ghirga e Bongiorno le smantellano. Insomma, il clima processuale (proprio come quello dell’opinione pubblica) è indubitabilmente cambiato rispetto al processo di primo grado. Anche se Rudy Guede ha dichiarato che a casa di Meredith lui c’era, ma insieme a lui erano presenti anche Amanda e Raffaele.
Adesso non resta che attendere le decisioni della Corte. Dal carcere di Capanne escono racconti di un’Amanda speranzosa, in attesa dell’assoluzione. E i genitori hanno fatto sapere che è pronto il biglietto per Seattle. Da tempo ormai la giovane americana ha imposto la sua seconda personalità, fatta di tinte pastello e di candidi ammiccamenti a Raffaele. Di incontri in carcere con un sacerdote. Di dialoghi su Dio e sugli angeli custodi. E poi c’è la scrittura dei diari, l’amore per Dante, per la chitarra e per i Beatles. Le conversazioni con un giovane parlamentare eugubino del Pdl, Rocco Girlanda che su di lei ha pubblicato un li-
e di cronach
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Qui accanto, Raffaele Sollecito durante il processo, accanto al suo difensore, l’avvocato Giulia Bongiorno. Sotto, Rudy Guede, già condannato per l’omicidio di Meredith Kercher. Nella pagina a fianco Amanda Knox: personaggio centrale nella terribile vicenda perugina
bro, a tratti toccante. Le compagne di detenzione la raccontano come una ragazza impegnata a lavorare, tenera e sorridente. Sono lontani i tempi dell’Amanda trasgressiva quando arrivò a Perugia – nel settembre del 2007 – e i ragazzi facevano la fila per conoscerla. Era bella e molto libera Amanda, e cambiava gli uomini come fossero una camicetta. Non aveva timore di esibire la sua sensualità dirompente: raccontano che tenesse un vibratore in bella vista. I ventenni perugini ne erano irresistibilmente attratti, le amiche erano colpite da tanto spregiudicato erotismo. Insomma, come sempre s’impose all’attenzione di tutti. Condannata ad
rassicurante). Il blog della ragazza di Seattle restituiva almeno in parte il ritmo della sua vita: parole e soprattutto immagini che la ritraggono sensuale e ubriaca fradicia. L’incontro con Raffaele era nelle cose. Anche lui amava trasgredire. Di se medesimo ha scritto: sono un ragazzo normale ma «certe volte divento un po’matto». E poi Perugia non è una metropoli: se la sera frequenti in pub del centro storico, se balli sino a notte fonda, se cerchi canne, alla fine i luoghi dove andare sono sempre quelli.
Ed è così, frequentando il mondo del “fancazzismo” (la definizione è di
Prima esagerata e trasgressiva, poi dolce, quasi ascetica: in questi anni ha mostrato una doppia personalità essere ammirata e amata, ma anche criticata e condannata. Lei andava per la sua strada come se nulla fosse. Il giorno frequentava l’università, leggeva Calvino, studiava la lingua italiana e innaffiava le piantine di marjuana; la sera finiva al pub di Lumumba: lavoro, alcol, incontri; la notte canne e sesso. Frequentavano la Red Zone lei e i suoi amici: un posto per giovani che “tirano sino a tardi”, nei pressi di Casa del Diavolo (il nome della località è poco
Raffaele), che si arriva alla notte del delitto. L’accusa sostiene che Amanda, Raffaele e Guede,“strafatti”, si ritrovano nella casa di via della Pergola insieme a Meredith. Vogliono organizzare un’orgia e coinvolgere anche lei. Ad un certo punto (quando?) l’inglesina dice un no: non vuole fare quello che gli chiedono. Urla, liti, minacce e poi quel colpo maledetto al collo. Il sangue che esce a fiotti, la simulazione del furto, la fuga. È andata così? La Corte d’Assise
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
ha creduto a questa versione. Per quando riguarda Rudy Guede la tesi ha già convinto anche la Cassazione.
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Perugia si svegliò il 2 novembre in
Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri)
una sorta d’incubo. Il mito della città di provincia ricca, elegante, tranquilla, era stato infranto da quel delittaccio. Adesso, il Corriere della Sera scriveva che il capoluogo umbro si era trasformato in una sorta d’Ibiza. E, al netto di qualche esagerazione, il racconto non era e non è così lontano dal vero. Bisognava trovare i colpevoli e subito. Si capisce così anche la fretta del questore a dichiarare «il caso è chiuso», stretto fra le pressioni dei poteri locali. Da allora la città ha subito parecchi contraccolpi negativi: basti dire che le due università hanno visto calare gli iscritti di quasi un terzo. E l’ambiente perugino è stato messo sotto la lente d’ingrandimento della stampa straniera. L’immagine più negativa la data un’importante giornalista americana, collaboratrice del New Yorker e del New York Times: Nina Burleigh. In un libro, dedicato ad Amanda, dal titolo Il fascino fatale della bellezza, la descrive come una ragazza attraente e anticonformista, relegata da un Pm cattolico-conservatore e da una città stretta fra riti massonici e tradizionalismi, al ruolo di assassina. Nella versione americana, Perugia da sessuomane diventa sessuofoba. E Amanda da colpevole a vittima: a condannarla a ventisei anni non sarebbero state le prove, ma la «maledizione della bellezza». Da un’iperbole all’altra: si è arrivati all’immagine della «Venere in pelliccia». Tante se ne sono dette su Amanda e tante se ne diranno ancora. Sotto il tribunale di Perugia sostano ben 350 inviati che aspettano la sentenza. Probabilmente l’ora X scatterà lunedì sera. E poi, comunque vada, i giornali di mezzo mondo verranno invasi dal volto, dalle dichiarazioni, dalle espressioni della ragazza di Seattle. Colpevole o innocente, sarà lei il personaggio. Maledizione del fascino.
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ULTIMAPAGINA
Il dittatore iscrive il nipote a una scuola internazionale in Bosnia. I figli, invece, hanno studiato in Svizzera
I Kim e la scuola: da Mosca di Massimo Fazzi
iù che Mosca, a essere sinceri, era la Siberia. Il primo Kim (quello vero, che di nome faceva Il-sung) venne educato nelle steppe del ghiaccio. Erano i primi anni Venti, e si registrano sue presenze anche nella capitale degli zar che si stava abituando all’idea – all’epoca era un sogno – di divenire sovietica. E, come tutte le ideologie dell’epoca, preparava scuole d’eccellenza e d’accoglienza, pronte ad abbracciare i futuri leader di altri Paesi. Il nordcoreano era visto con favore: la sua terra era confinante con una Cina repubblicana in cui muoveva i primi passi un timido Partito comunista, e quella striscia di terreno aveva un’importanza strategica unica. Che cosa avrebbe detto il “Presidente eterno” davanti
P
posto è stato scelto come “terzo Kim”il fratello minore, Jong-un (che ha studiato in Svizzera).
Al nipote, forse, sarà assegnato il compito di salvare il salvabile quando arriverà il suo momento (se arriverà, in effetti). La questione è molto più complicata. Il dittatore nordcoreano ha nominato anche il suo secondogenito, Kim Jong-chul, a vice presidente del Dipartimento per l’Organizzazione e la guida del Partito dei lavoratori coreani. Si tratta di un ruolo chiave, che permette al giovane 27enne di utilizzare a proprio piacimento le guardie dell’Agenzia di sicurezza nazionale e di sedere all’interno del ristretto Politburo del Nord. La mossa è stata decisa dal “Caro Lea-
A MOSTAR der” per mettere un freno alle ambizioni del terzogenito Jong-un. Alcune fonti spiegano infatti che il padre, responsabile unico della carestia che sta devastando la popolazione, teme di morire assassinato: la nomina del secondo figlio a “rivale”del terzo dovrebbe garantire un controllo reciproco che limiterebbe le aspettative e la fame di potere dell’erede. La possibilità di una diarchia al comando di Pyongyang, dicono le fonti,“è la probabilità più alta per il futuro”. La mancanza di cibo e la disastrosa riforma valutaria, prosegue la fonte, «hanno esacerbato la popolazione, che non vede l’ora di prendersela con qualcuno. Catalizzare l’odio su una sola figura potrebbe essere molto pericoloso: ecco perché Kim Jong-il ha diviso il potere fra i due figli. In questo modo, inoltre, li tiene meglio sotto osservazione». Secondo altri analisti, però, questa nomina potrebbe rappresentare anche un cambiamento dell’ultima ora nella scelta del successore al trono di Pyongyang. Il “Caro
Kim Han-sol, figlio sedicenne di Kim Jong-nam, è stato iscritto per il 2013 al College United World. A un corso di studi intitolato “Come si ricostruisce un Paese dopo un conflitto” alla prospettiva di un pro-nipote inviato a studiare a Mostar, nella Bosnia della ricostruzione? Sicuramente non sarebbe stato felice.
La notizia è di ieri: Kim Jong-il, figlio di Il-sung e attuale dittatore della Corea del Nord, ha deciso il destino del primo figlio del primo figlio. Kim Han-sol, figlio sedicenne di Kim Jong-nam, è stato iscritto per il 2013 al College United World. La sede, come detto, è quella della Bosnia Erzegovina. La cosa che impressiona, però, è che il giovane è stato iscritto a un corso di studi particolari: “Come si ricostruisce un Paese dopo un conflitto”. Segno che dai fasti di Mosca, dove si insegnava la rivoluzione e la grandeur, si è passati a un più realistico “salvare la pelle”. La questione dinastica è importante: Kim Jong-nam, primogenito, era considerato l’erede del padre ma i suoi tentennamenti, il suo amore per i Paesi stranieri e la sua indole poco aggressiva lo hanno relegato a un dorato confine a Macao. Al suo
Leader”, infatti, venne nominato dal padre Kim Il-sung alla stessa poltrona oggi occupata dal 27enne quando anche lui aveva 27 anni; nella mistica del potere dinastico, potrebbe essere un segnale a discapito del terzogenito Jong-un. Di certo la situazione interna è disastrosa. Oltre alla carestia, all’embargo sugli aiuti umanitari e alle spese destinate quasi esclusivamente all’esercito ci sono le follie della dinastia regnante.
Secondo Seoul, infatti, la Corea del Nord spende annualmente fino a 200.000 dollari per importare animali domestici e beni collegati per conto di Kim Jong-il e la sua famiglia. Malgrado sanzioni internazionali e perenne crisi economica, la cerchia ristretta del leader gode di uno stile di vita sontuoso a fronte di gran parte della popolazione alle prese con carenze alimentari, acuite dalla distruzione dei raccolti per le inondazioni seguite alle piogge torrenziali estive. Il Nord ha importato anche 10 moto d’acqua “made in Usa” tra il 2009 e il 2010 per l’erede.Tra le altre spese figurano le decine di Trotters Orlov, ricercata razza di cavalli russi, acquistate ad ottobre 2010 e le 600 bottiglie di vino dal produttore francese Picard. Il “quarto Kim”, probabilmente, verrà chiamato a rimediare ai danni che si stanno consumando in questi anni all’interno del Paese, uno dei più chiusi al mondo. Ma la sua missione rischia di essere estremamente difficile, nonostante la preparazione che potrà ricevere a Mostar nei prossimi anni. La possibilità che si verifichi una guerra simile a quella che ha devastato i Balani non è poi così remota.