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he di cronac

Il moralismo è l’atteggiamento che adottiamo verso le persone che non ci piacciono Oscar Wilde

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 4 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Anche il Pd si spacca sul referendum. Parisi attacca Bersani: «Non lo ha firmato. Si deve dimettere»

No al Pasticcellum

L’asse Casini-Maroni spiazza il dibattito sulla legge elettorale «Non c’è spazio per soluzioni confuse»: dopo l’altolà del leader dell’Udc e del ministro, cambiano idea un po’ tutti. Berlusconi: «Non me ne occupo proprio». Bossi ai suoi: «Non parlate a vanvera» INDECISIONISMO

di Errico Novi

Non servono nuovi «mostri». Meglio votare

ROMA. Il giorno dopo l’altolà di Casini e Maroni a soluzioni pasticciate per evitare il referendum, la maggioranza cambia rotta. E Berlusconi smentisce il «suo» segretario che da tempo predicava una nuova legge elettorale: «Non ce ne occupiamo». Caos anche nella Lega, con Calcderoli contro Tosi sulla secessione e Bossi che tuona: «Non parlate a vanvera». a pagina 2

di Giancristiano Desiderio opo il Mattarellum e il Porcellum potrebbe arrivare il Pasticcellum. Quindi? Quindi molto meglio andare a votare che combinare un gran pasticcio che per essere modificato avrebbe bisogno ancora una volta di una raccolta di firme pro-referendum (visto che in Italia le leggi elettorali si concepiscono e si fanno solo sotto minaccia di referendum). Davvero non c’è altra soluzione e per capirlo basta fare una considerazione piccola piccola, ma piccola piccola così: per cambiare la legge elettorale serve un accordo politico ma un accordo politico non solo non c’è tra maggioranza e opposizioni ma neanche (e soprattutto) tra maggioranza e maggioranza. a pagina 2

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Parlano Onida e Pombeni

Lo strappo di Marchionne sulla concertazione

Confindustria addio, la Fiat se ne va

Il progetto della Chiesa

«Tempo scaduto, Le Cei non vuole ora la riforma un partito è impossibile» ma un «cantiere» «Questo Parlamento non ha la lucidità per progettare nuove regole. E il Pd non ha alcun interesse per farlo»

Sono le associazioni dei laici che devono fare il primo passo, non i vescovi. Solo così sarà efficace

Francesco Lo Dico • pagina 4

Luigi Accattoli • pagina 5

«L’accordo con la Cgil del 21 settembre non ci piace»: il Lingotto lascia in polemica con le ultime aperture della Marcegaglia

Stoccolma premia Beutler, Hoffmann e Steinman, morto venerdì

Francesco Pacifico • pagina 6

Assegnati gli «immunobel» Vincono tre studiosi dei tumori. Uno era scomparso

Una mossa dal sapore (anche) politico

La via di Torino all’autarchia globale di Gianfranco Polillo

di Maurizio Stefanini l motivo per cui nel 1948 il Premio Nobel per la Pace non fu assegnato fu che il Mahatma Gandhi era stato assassinato il 30 gennaio: due giorni prima della chiusura delle nomination. Ben sei lettere di designazione ne avrebbero fatto il sicuro vincitore, ma il regolamento non prevede premi alla memoria, e così l’unico modo che si trovò per onorarlo lo stesso in qualche modo fu quello di non dare il Premio a nessuno. Un caso diverso dall’attuale.

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Da sinistra, il canadese Ralph Steinman, l’americano Bruce Beutler e il lussemburghese Jules Hoffmann gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

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• ANNO XVI •

NUMERO

192 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

a lettera di Sergio Marchionne a Emma Marcegaglia segna il definitivo divorzio della Fiat da Confindustria. Era stato un lungo matrimonio, durante il quale gli Agnelli avevano esercitato il loro fascino discreto sul mondo industriale italiano. Basti pensare all’accordo sul-

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IN REDAZIONE ALLE ORE

la scala mobile, nel corso degli anni Settanta: quella firma posta in calce al documento da Gianni e controfirmata da Luciano Lama, era destinata a produrre un’indicizzazione dei salari operai oltre il 100 per cento. E l’avvio di un processo inflazionistico senza precedenti. a pagina 7

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il commento

prima pagina

pagina 2 • 4 ottobre 2011

Non ci sono margini per riforme serie

Meglio le urne di un ennesimo pasticcio di Giancristiano Desiderio opo il Mattarellum e il Porcellum potrebbe arrivare il Pasticcellum. Quindi? Quindi molto meglio andare a votare che combinare un gran pasticcio che per essere modificato avrebbe bisogno ancora una volta di una raccolta di firme pro-referendum (visto che in Italia le leggi elettorali si concepiscono e si fanno solo sotto minaccia di referendum). Davvero non c’è altra soluzione e per capirlo basta fare una considerazione piccola piccola, ma piccola piccola così: per cambiare la legge elettorale serve un accordo politico ma un accordo politico non solo non c’è tra maggioranza e opposizioni ma neanche tra maggioranza e maggioranza. Ha voglia il ministro La Russa a dire che una nuova legge si fa in 48 ore: alla maggioranza non basterebbero neanche 48 mesi. Perché un governo che non ha iniziativa politica ma la subisce è come quel guerriero che combatteva ma non sapeva di esser morto.

D

Il Pdl è il partito che ha fatto della retorica del popolo sovrano il suo argomento preferito. Non dovrebbe quindi rifiutare il ritorno anticipato alle urne. Del resto, che si andrà a votare in anticipo rispetto alla data di scadenza naturale della legislatura è chiaro a tutti.Tra il voto “prima”e il voto “dopo”c’è di mezzo il referendum che condiziona tutto e tutti. Il prossimo voto sarà senz’altro anticipato, si tratta solo di capire come e quanto in anticipo. Persino la modifica della legge elettorale presuppone il ritorno alle urne. La legislatura è già finita. Resta il solito problema: il governo Berlusconi che è diventato un problema per tutti: per l’Italia, per la Lega, per il Pdl e per lo stesso governo Berlusconi. Un capolavoro di insipienza politica senza eguali. Il Pasticcellum che circola è l’introduzione delle preferenze nell’attuale sistema elettorale. Avremmo così una legge allo stesso tempo maggioritaria e proporzionale per garantire un pasticcio fatto a mestiere. Il Pasticcellum non muove dalla necessità di cambiare il sistema di voto e dare agli italiani una buona legge, no; muove dal bisogno di“sterilizzare”il referendum o “disinnescarne” la bomba. Insomma, una manovra per aggirare l’ostacolo. Ad agire in questo modo sono proprio i governo passivi, quelli che tirano a campare per - andreottianamente - non tirare le cuoia. Ma qui c’è un’aggravante politica enorme quanto il debito pubblico: il partito di maggioranza relativa è del tutto incapace di licenziare chi ha fallito e fare un altro governo. Sarebbe la cosa più normale del mondo e lo stesso mondo l’accoglierebbe con quegli effetti positivi che inutilmente tutti invocano. Invece, il Pdl viene meno all’unica cosa davvero seria a cui serva un partito di governo: licenziare chi ha fallito. Basti considerare che il papà del Porcellum è ancora in gara per mettere le mani in pasta e concepire un’altra “porcata”. Per il Semplificatore che complica tutto, Roberto Calderoli, valgono le parole del sindaco di Verona sulla menata della secessione padana: “Io sono veronese, veneto, padano, italiano, europeo, basta non c’è altro”. Proprio così: basta, non c’è altro da aggiungere. Il resto è cabaret, pessimo cabaret. La semplificazione più semplice è quella di Maroni: “Meglio ritornare a votare”. Tutto molto semplice. O Calderoli è forse contrario all’auto-determinazione degli elettori? Tutto ciò che tocca il governo si blocca: l’economia, Bankitalia, ora la legge elettorale. L’unica cosa che non si blocca è l’interesse da pagare sul debito statale.

il retroscena Passo indietro della maggioranza sulle modifiche del «porcellum»

Berlusconi smentisce Alfano Da tempo il segretario del Pdl predicava la riforma elettorale. Ora il suo “capo” lo corregge: «Non ce ne occupiamo». Bossi gela i suoi: «Non parlate a vanvera» di Francesco Lo Dico

ROMA. Tutto si poteva immaginare, ma non che il gioco penoso di questa legislatura potesse saltare per le beghe interne al Pd. E invece così potrebbe finire. Quello che non hanno potuto la paralisi del governo, il terremoto della crisi, e neppure gli scandali, pare riuscire a produrlo il solito, immancabile scontro fratricida nel partito di Pier Luigi Bersani. Mentre infatti Arturo Parisi festeggia il milione e passa di firme chiedendo le dimissioni del segretario, la prospettiva referendaria avvicina per la prima volta, davvero, le elezioni anticipate. Fonti interne alla Lega, il partito più dilaniato dallo spettro della consultazione, arrivano persino a prevedere una data: il 15 e 16 aprile, week end plausibile anche perché in grado di garantire il minimo del vitalizio ai neoeletti.

Non è solo questo l’innesco che avvicina il voto. Un altro simile è strettamente connesso a un eventuale successo referendario. Se per ipotesi – allo stato irreale – davvero la consultazione che abroga il porcellum si celebrasse, dovrebbe rinascere dal lungo sonno il mattarellum. Sistema elettorale assai poco popolare nel centrodestra, e in particolare nel Pdl. In molti si rendono conto che quel modello è troppo penalizzante per l’attuale maggioranza. Si rischia un bagno di sangue. Lo capisce al volo uno dotato di una certa attitudine profetica come Gianfranco Rotondi: «Il dispetto referendario di Parisi a Bersani chiude la legislatura, le beghe del Pd precipitano il Paese in un’avventura elettorale che è ormai inevitabile», giacché «non si può riesumare il pessimo mattarellum né c’è accordo per un’altra legge». Rotondi sa che con il sistema di voto rimasto in vigore fino

al 2005 le schiere parlamentari del Pdl sarebbero falcidiate come fili d’erba. E come lui lo sanno tanti altri, nel partito del Cavaliere.

È così sconcertante lo scivolone del Pd che Silvio Berlusconi si mostra gongolante come non avveniva da tempo. Nonostante da Milano arrivi il rinvio a giudizio per la triade Emilio Fede-Nicole Minetti-Lele Mora, da ieri ufficialmente imputata (e non più semplicemente indagata) per induzione e favoreggiamento della prostituzione. Ai legali del Cavaliere viene inoltre sbattuto sul muso dai magistrati milanesi un secco no alla richiesta di sospendere il suo separato filone processuale fino al prossimo 15 febbraio, data in cui la Consulta si pronuncerà sul conflitto di attribuzioni sollevato da Montecitorio. In più Formigoni continua a stuzzicare il capo bocciando il partito-ghe-pensi-mi. Davvero una giornata da dimenticare per il presidente del Consiglio. Che però intravede il prefigurarsi di una chance proprio grazie al caos provocato dal referendum. E ne approfitta smettendo lo stesso segretario del Pdl Alfano, assertore della linea costruttiva. «La riforma del sistema elettorale non è materia sulla quale mi sto esercitando», dice in una nota che sprizza compiaciuto sarcasmo, «quelle che mi interessano ora sono altre riforme: il fisco, l’architettura istituzionale, la giustizia (in proposito il vicepresidente del Csm Vietti ha diffidato da nuove leggi personali, nda)». Dal disordine e dalla conflittualità scatenatasi nel Pd con il referendum, Berlusconi sa di poter ricavare solo vantaggi. Persino elettorali.


il fatto

Il Pd è per il voto subito. Ma anche no La doppiezza di Bersani non convince la direzione. Parisi: «Non ha firmato, deve dimettersi» di Marco Palombi

ROMA. Legge elettorale, referendum, coalizione, programma economico, teorie costituzionali. Il Pd negli ultimi giorni, e ancor di più ieri in direzione, ha praticamente discusso animatamente su tutto, con toni nervosi e recriminazioni comme il faut, evitando sapientemente però di citare l’unico argomento che agita la classe dirigente democratica: chi sarà il prossimo candidato premier? Se alcuni hanno accusato l’opposizione, Pd compreso, di essersi accanito sulla formula “Tutto tranne Berlusconi”, all’interno del partitone di centrosinistra ormai c’è una nutrita schiera di seguaci del “Tutto tranne Bersani”. A questo punto però, ad uso del lettore, conviene riassumere schematicamente l’attuale geografia interna del Pd: solo in questo modo, infatti, la cronaca potrà riuscire a sfiorare la realtà. Intanto c’è la maggioranza che ha eletto Pierluigi Bersani al congresso: non esiste una corrente del segretario vera e propria, ma tanti seguaci singoli dell’ex ministro, in genere ex Ds, a cui vanno aggiunti le aree vicine ad Enrico Letta e Rosi Bindi, entrambi ex Ppi, più i cosiddetti dalemiani, nel senso di D’Alema, che ormai però non si sa bene chi e quanti siano (pochi, comunque, anche contando i casi dubbi). C’è poi “Area Democratica”, la corrente di Dario Franceschini, che fu sfidante di Bersani al congresso e alle primarie, ed è anch’essa da un annetto a questa parte sulla linea del segretario: ultimamente però l’alleanza non è più così salda, come sempre succede quando un animale politico con legittime aspirazioni di mi-

glioramento avverte nell’aria l’avvicinarsi delle elezioni. Nella minoranza interna si muovono poi diversi soggetti, enormemente presenti sui media ma abbastanza deboli quanto a truppe nel partito e voti nella società: i veltroniani (da Veltroni), i fioroniani (da Fioroni), l’area Marino (che appoggiò Ignazio Marino al congresso), i parisiani che un tempo si dissero prodiani, qualche cane sciolto.Tutta quest’ultima masnada è divisa su tutto, tranne sul fatto che Ber-

Nelle varie anime dei democratici, c’è unità solo su un tema: il segretario non può essere il candidato premier sani è un ostacolo alle sue aspirazioni (qualunque esse siano).

Solo avendo presente questa carta geografica si può venire al più recente dibattito con le competenze passive necessarie ad apprezzarne la follia. Prendiamo il povero Arturo Parisi: ora ha raccolto e trionfalmente consegnato le firme per tornare ad un sistema elettorale – il Mattarellum - che già nel 1998 costò la poltrona al suo mentore Prodi grazie al voto di sfiducia di uno dei suoi attuali alleati, Nichi Vendola. Anche il nostro, peraltro, da ministro della Difesa fu sfiduciato dalla sinistra pacifista in Senato, ma la sua fissazione è l’Ulivo: solo che per quella che viene chiamata eterogenesi dei fi-

Il Cavaliere maramaldeggia, rispolvera persino l’appello alla collaborazione istituzionale, seppur riveduto secondo il suo particolare schema: vorrei essere costruttivo, sono gli avversari a non volerlo. Certo, lo stesso presidente del Consiglio tentenna ancora sul suo famoso progetto di «dire la verità agli italiani». Sembrava che l’occasione potesse venire da un’apparizione a Porta a porta già fissata per domani, ma all’ultimo momento per «sopravvenuti impegni», come spiega la stessa redazione di Bruno Vespa, il premier dà forfait. Su tutto fa premio un equivoco clamoroso. Pdl, Lega e Pd sono improvvisamente entrati in una specie di frullatore che pare poter dare un solo risultato, le elezioni anticipate appunto; eppure tutto questo avviene non in virtù di un pericolo reale, perché è molto improbabile che i quesiti antiporcellum passino il vaglio della Consulta; ma poiché la decisione dell’Alta Corte rischia di arrivare in febbraio, cioè a ridosso delle ultime date utili per lo scioglimento delle Camere, la maggioranza potrebbe comunque risolversi per il ritorno anticipato alle Politiche, con una scelta prudenziale al buio. Nel Pdl non vogliono sentir parlare di mattarellum. Circolano piuttosto tesi favorevoli all’introduzione delle preferenze nel porcellum. È questa a quanto pare la sola modifica a cui i berlusconiani sarebbero disponibili, seppur con molte distinzioni (ieri Frattini ha detto che sarebbe un errore bypassare i quesiti, chiedendo di «rispettarli»). Ma intanto una simile modifica potrebbe non

ni, sta finendo a fare da levatrice ad una nuova Unione. È un cuor di leone: ieri ha chiesto le dimissioni di Bersani per non aver appoggiato il referendum, dopo un’ora ha detto che non intendeva proprio quello. Walter Veltroni, invece, fu il teorico della “vocazione maggioritaria”, del Pd che si presenta (quasi) solo alle elezioni, eppure è anche quello che fino a ieri accusava Bersani di aver isolato i democratici a sinistra. Adesso non più: oggi lo incolpa di aver allontanato l’Udc per essere andato alla festa di Italia dei Valori a Vasto (lo stesso partito che lui stesso ha portato in Parlamento). Ora vuole il governo di transizione e non gli piace neanche l’idea che qualcuno parli di elezioni: a gennaio di quest’anno, al Lingotto 2, diceva però che è «meglio votare che questo livido imbarbarimento della politica» eccetera. Il motivo te lo spiegano i suoi sottopanza dietro garanzia dell’anonimato: «Se si vota nella primavera 2012 allora Bersani è necessariamente il candidato premier, se invece si arriva al 2013 possiamo organizzare le primarie di coalizione: Bersani non è adeguato». Motivo: socialdemocratico, antico, gauchiste.

Anche Beppe Fioroni è agitato: l’ex ministro dell’Istruzione è cattolico, questa è l’unica cosa di lui che si sa con certezza, e per questo vuole l’alleanza col Terzo Polo e non gli è piaciuta la trimurti Bersani-Vendola-Di Pietro a Vasto. Non è chiaro cosa pensi di legge elettorale, forma partito, ricette economiche, eccetera ma nonostante questo è spesso sui giornali – col suo nome o coperto dall’ano-

bastare, sempre in astratto, a rendere superflua la consultazione, proprio com’è avvenuto per il nucleare. Inoltre, nella migliore delle ipotesi, le preferenze si infrangerebbero contro il muro della Lega.

E qui si arriva al punto decisivo. Maroni sarebbe anche favorevole a una revisione della legge elettorale attuale a colpi di preferenze. Assai meno i fedelissimi di Bossi. Il cosiddetto cerchio magico infatti continua a incassare scoppole ai congressi locali proprio a vantaggio dei maroniani. I quali hanno ”espugnato”da ul-

nimato – a dire cosa non va nel suo partito. Anche Dario Franceschini, infine, è timoroso per via dello spostamento a sinistra e s’è convinto di poter dire la sua in eventuali primarie: per questo anche lui sponsorizza il governo tecnico, ma in maniera più moderata rispetto a Veltroni. «Qua – spiega Pippo Civati, dell’area Marino – nessuno lo dice, ma non vogliono Bersani a capo della coalizione. Solo che non dicono neppure chi vorrebbero al suo posto. La discussione è paradossale: i nostri elettori ci rimproverano di essere troppo a destra, mentre i nostri dirigenti sono preoccupati di essere troppo a sinistra». Anche vicino a Bersani, comunque, si litiga: il responsabile economia Stefano Fassina, un ex Ds che conta molto poco, continua a criticare la lettera della Bce al governo come esempio di “neoliberismo” folle, mentre la stessa missiva è piaciuta ad Enrico Letta (anche altri, ovviamente, hanno voluto dire la loro). E Bersani? Che dice Bersani? Stavolta s’è incazzato parecchio: «Stupisce che ci siano dirigenti che, invece di valorizzare il lavoro del partito, lo azzoppano». Parlava di Parisi e del referendum, ma è un monito della reazione che aspetta anche tutti gli altri. Risultato finale: 0 a 0, visto che nessuno ha voluto votare sulla relazione del segretario.

Intervenuto a sorpresa all’happenig di partito domenica sera, Bossi infligge una scudisciata a Maroni: «Troppi di noi parlano a vanvera. Non c’erano nemmeno, quando cominciammo, quando avevamo solo l’appartamento messo a disposizione dalla Manuela», cioè da sua moglie. Ne ha anche per il presidente della Repubblica: «È facile dire da Napoli e da Roma che la Padania non esiste, ma tutti hanno capito che l’Italia non tiene più», ringhia il capo lumbàrd. E soprattutto, l’altro avvertimento a Maroni e compagni: «Se la Lega va da sola vince la sinistra». E allora: niente referendum che non a caso nel Carroccio piace solo a Maroni e ai suoi, niente preferenze perché metterebbero all’angolo il cerchio magico, ed ecco come viene fuori chiara e limpida l’unica vera opzione di Bossi: il voto ad aprile 2012.

Caos anche nella Lega, con Maroni favorevole alla consultazione e i bossiani spaventati dall’introduzione delle preferenze: anche per questo le elezioni si avvicinano tima la segreteria di Brescia. Con le preferenze i bossiani ortodossi andrebbero incontro a un tracollo: sul territorio appunto sono ormai in minoranza, basta vedere il numero di sindaci leghisti sempre più imbestialiti con il governo. Niente preferenze, dunque. E anche la sempre fantascientifica resurrezione del mattarellum non fa sognare il cerchio magico: sarebbe piuttosto funzionale agli uomini del ministro dell’Interno, che sognano una Lega sganciata da Berlusconi.

Tutto questo a Bossi non interessa. Non ora, quanto meno. «Noi cercheremo di mantenere i patti», dice il Senatùr dalla festa lumbàrd di Buguggiate, nel Varesotto.

Maroni a sua volta risponde rabbuiato all’uscita da via Bellerio: «Non ho mai detto che voglio le elezioni anticipate, sono fantasie dei retroscenisti. Ho detto solo quello che ho detto». Cioè che il referendum va ascoltato. Ma quando gli chiedono di commentare la battuta di Bossi sui leghisti che parlano a vanvera, saluta con un «state bene» e se ne va. A interpretare il quadro provvede Gianfranco Fini: parla a Matera con i giornalisti e dice che, certo, «il tema della legge elettorale esiste e il referendum ha posto la situazione sotto gli occhi di tutti», ma anche che lo sbocco è un altro: «Il governo è inadeguato ad affrontare la crisi e se il premier continua a dire che va tutto bene è meglio ridare la parola agli elettori».


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l’approfondimento

Il Pdl sembra voler cambiare la legge elettorale solo per evitare il referendum: ma la paura è nemica di regole giuste

La riforma impossibile

Resuscitare il Mattarellum è rischioso: servirebbe un nuovo sistema in grado di equilibrare rappresentanza e stabilità. Ma questo Parlamento ha la lucidità per progettarlo? Sembra di no, secondo Valerio Onida e Paolo Pombeni di Francesco Lo Dico

ROMA. Berlusconi definisce le fibrillazioni sulla legge elettorale «chiacchiere del teatrino della politica che va in scena tutti i giorni sui quotidiani, nelle tv e on line». Ma il milione e duecentomila firme depositate in Cassazione per abbattere il Porcellum hanno tutta l’aria di essere più minacciose di quei televoti che hanno fatto la fortuna dei suoi reality. Nel Paese reale incombe la mannaia benedetta del referendum, e il dibattito che ha seguito l’exploit referendario ha puntato un faro sulle contraddizioni interne di ciascun partito. Da Bersani che sostiene i quesiti, ma anche non firma, a Maroni che apre al referendum, ma anche alle elezioni anticipate, ma almeno per oggi forse no. E di «chiacchiere», nel teatrino della politica,

ne hanno sversato parecchie anche il ministro La Russa, che rilancia Porcellum ma anche preferenze, il suddetto ministro Maroni, il governatore pdl Formigoni e il padre della “porcata” Roberto Calderoli (che è stato costretto al gesto estremo, spiega, perché concusso da Silvio, da Fini e da Casini. La nostra solidarietà ministro, Lavitola continua). Al botteghino sono nomi che contano. E pazienza se molti fanno da spalla al primattore di questa legislatura. Teatrino o no, qualcosa si muove. E se il premier si dice compreso nel salvare il Paese da una crisi che lui stesso attribuiva alle invenzioni dei giornali (benvenuto nel club), il dibattito sulla legge elettorale lievita. Stabilito che gli italiani sono stanchi di eletti che non hanno votato, ci si chiede se il

ritorno al Mattarellum sia la scelta giusta. E se il referendum possa avallarne il ritorno, senza creare un vuoto normativo.

«Resuscitare la vecchia legge elettorale tramite referendum è rischioso», spiega Paolo Pombeni, docente di Storia dei

«Il Pd non vuole riscrivere le regole visto che con queste vincerebbe» sistemi politici europei presso l’università di Bologna. «E va detto inoltre», prosegue il politologo, «che anche la legge Mattarella non è delle migliori. È un sistema elettorale di com-

promesso, che risponde alla logica dei vecchi partiti. La vera soluzione sarebbe una buona legge elettorale, fatta per via ordinaria, in grado di contemperare la stabilità delle coalizioni e il diritto di rappresentanza di tutte le forze politiche. La soluzione dovrebbe essere trovata in Parlamento. Occorre una legge che consenta ampie coalizioni capaci di affrontare con serenità e coraggio lo stato di grave emergenza in cui è sprofondato il Paese. In questo senso, il sistema tedesco mi sembra la strada più opportuna: offre agli elettori la possibilità di scegliere gli eletti, ma allo stesso tempo coniuga l’istanza maggioritaria con quella rappresentativa propria della logica proporzionale». Una legge per via ordinaria. Ottimo. Chance realiz-

zative? «Pochissime», risponde Paolo Pombeni. «Una buona legge elettorale dovrebbe ridurre anche il numero dei parlamentari, rilanciare la libera competizione tra candidati, e sciogliere il Paese dalle catene del bipolarismo coatto. Temi sui quali è difficile trovare convergenza», argomenta il professore, «in un momento in cui si fa pressante l’idea di tornare a votare». Il calcolo pesa come un macigno. E più che al Pd, grava soprattutto sulle spalle di Berlusconi.

«Il cinismo potrebbe indurre il Partito democratico ad andare al voto con il Porcellum», argomenta Pombeni, «perché in questo momento vincerebbe ampiamente le elezioni. Viceversa, il Pdl dovrebbe pensare seriamente a un correttivo, perché uscirebbe dalle urne


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I “desiderata” della Cei sono chiari, se si leggono con attenzione le parole di Bagnasco e Crociata

La Chiesa vuole un laboratorio per tornare a parlare ai politici

Il primo passo verso la costituzione di questa nuova creatura deve essere fatto dalla galassia dell’associativismo, non dai vescovi italiani di Luigi Accattoli na settimana cruciale, l’ultima di settembre, per l’idea che il vertice della Cei va elaborando sui cattolici in politica: il lunedì 26 il cardinale Bagnasco lancia la formula “soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica” e il venerdì 30 il vescovo Crociata chiarisce che non può trattarsi di un partito ma di un “soggetto” che costituisca un “invito a convergere a partire da un patrimonio condiviso”. Vale la pena studiare le parole usate dai due: il progetto è in fieri e la sua comunicazione è ancora sperimentale, e dunque conviene procedere con cautela. Anticipo la conclusione della mia interpretazione: la Cei non vuole un partito dei cattolici, ma vorrebbe che si costituisse una rete di soggetti associativi interessati alla politica e disposti a dar vita a un laboratorio prepolitico che raccordi il “patrimonio condiviso” alle opzioni operative, che non potranno non essere molteplici e anche divergenti, ma arricchite dal confronto e informate le une delle altre. «Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte – ha detto il cardinale Angelo Bagnasco al Consiglio permanente dell’episcopato – la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che, coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita, sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie nè ingenue illusioni».

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Qualcosa di simile il cardinale aveva già detto ad Ancona giovedì 8 settembre, insistendo sull’avverbio “insieme” e già allora chiarendo che quel ritrovamento sui “valori”i cattolici lo dovevano compiere mirando a forme “storicamente possibili”. Con la prolusione della settimana scorsa Bagnasco pronuncia il sostantivo a cui mirava quell’auspicio: «Un soggetto culturale e sociale».“Interlocuzione con la politica” sta a dire che il costituendo “soggetto” non fa politica ma parla con i politici. Unità di “etica sociale” e di “etica della vita” vuol dire che vanno onorati sia i valori cari alla sinistra sia quelli della destra. Ricordiamo tutti la visita di Giovanni Paolo a Montecitorio, il 14 novembre del 2002, con quel messaggio così pregnante applaudito dal centrodestra su vita, famiglia, libertà educativa e dal centro sinistra su pace, solidarietà sociale, carceri. Ecco il punto: Bagnasco vorrebbe che i politici cattolici, trovandosi insieme in un momento prepolitico – di rete e di laboratorio – possano “coniugare strettamente” le due etiche, al fine di “rendere più operante la propria fede”. Più efficace, cioè, nell’ispirare l’azione concreta e meglio visibile sulla scena pubblica. Faccio due

esempi interpretativi, uno storico e uno attuale. Quello storico lo prendo dalla fugace rievocazione che ho appena svolto della visita del Papa polacco a Montecitorio e tocca la questione della pace. Quello attuale gira intorno al caso Berlusconi. Se i cattolici avessero avuto a disposizione, dieci anni addietro, un

I leader cattolici dovrebbero trovarsi insieme in un momento prepolitico di rete e laboratorio tale strumento di “interlocuzione con la politica”la questione della pace – 11 settembre, guerra afghana, attacco all’Iraq – avrebbe potuto essere affrontata in un ambito non direttamente politico ma affacciato alla politica e ne sarebbe venuta forza alle idee dominanti in campo

cattolico. Rete e laboratorio – dicevo – per usare espressioni più volte comparse nelle riflessioni del nostro episcopato: cioè collegamento, approfondimento, animazione. Credo sia chiaro se dico che allora la mancanza di un tale “soggetto” comportò debolezza.

L’esempio attuale è ancora meglio parlante. Un soggetto cattolico che possa mettere all’ordine del giorno – senza essere un partito – il sonno della politica di questo lungo tramonto berlusconiano, con le degenerazioni morali che toccano tutti gli schieramenti ma che più splendono in vetta, sarebbe oggi utilissimo perché il “patrimonio condiviso” ispiri l’azione, che poi ovviamente ognuno deciderà e svolgerà secondo le proprie opzioni di partito e di schieramento. Al segretario della Cei Mariano Crociata è toccato il compito di ricapitolare, dopo un dibattito di quattro giorni sulle parole del cardinale piegate – com’era prevedibile– alle più varie interpretazioni. C’era chi aveva visto tra le righe della prolusione l’auspicio di un nuovo partito cattolico: «Da parte nostra non c’è nessuna iniziativa volta alla costituzione, organizzazione, promozione di partiti». La prolusione del cardinale – ha detto ancora il puntuale segretario – «invita a rivitalizzare il giacimento culturale dei cattolici, quel patrimonio di valori diffuso che deve essere risvegliato e reinvestito per il bene del Paese». E come lo risvegli e lo reinvesti, se non promuovendo collegamenti e confronti? Resta da chiarire un punto cruciale: chi compie il primo passo verso la costituzione di quel “soggetto culturale e sociale”? Se lo compie l’episcopato avremo tempi rapidi ma conduzione pilotata e un eccesso di cautela per evitare il coinvolgimento della Chiesa nella politica. Se lo compie la galassia dei soggetti associativi cattolici avremo tempi più lunghi ma un migliore rispetto dell’autonomia del laicato e una maggiore aderenza al fattuale politico. Io sarei per la seconda opzione e inviterei chi si trova nel centro dello schieramento a non illudersi su una possibile investitura per posizione: non vi saranno investiture dall’alto, ma la realizzazione del nuovo “soggetto”favorirà comunque le opzioni di centro se davvero riuscirà a coniugare l’etica sociale e l’etica della vita, coniugazione che è nel dna di ogni centro cristianamente orientato. www.luigiaccattoli.it

con una sconfitta cocente. Se non per ragioni nobili, sia fatto almeno per calcolo: rinunciare alla legge Calderoli, oltre che una scelta salutare, è una scelta che conviene a tutti». Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha lanciato in questo senso un Porcellum (s)corretto con aggiunta di preferenze. «La trovo francamente una presa in giro. Nasconde la beffa, ma lascia il danno. Non è accettabile che la minoranza più forte, e non la maggioranza, possa continuare a presidiare oltre la metà della Camera con meno del trenta per cento dei voti». Più che a una possibile legge elettorale, quindi, il lodo Ignazio assomiglia alla legge di Murphy:“Se qualcosa può peggiorare, lo farà.

L’ipotesi di una nuova legge elettorale, incontra anche lo scetticismo di Valerio Onida, docente di Diritto costituzionale presso l’università degli Studi di Milano, già giudice costituzionale. «Se il referendum sarà considerato ammissibile, e sarà dichiarata legittima la reviviscenza del Matterellum», argomenta il giurista, «gli italiani avranno la possibilità di liberarsi di una legge elettorale di cui sono stufi. Ciò che importa è che i quesiti siano in grado di comunicare al corpo elettorale le finalità del referendum. Il ripristino del Mattarellum mi sembra d’altra parte l’unica strada praticabile, fatta salva la possibilità che il Parlamento resta libero di legiferare in materia, come lo è stato d’altra parte in questi anni, e come lo è stata la sinistra nel 2006». Quello del professore ha l’aria di essere un monito. «Nonostante l’unanime condanna della legge Calderoli», spiega Valerio Onida, «i partiti nutrono una certa affezione verso il Porcellum, così che il referendum è arrivato a scompigliare le carte. Nonostante l’indubbio vantaggio che il Pd trarrebbe dalle votazioni con il Porcellum, il partito non deve fare calcoli, ma pensare piuttosto al bene del Paese. Ed è abbastanza benigno il Mattarellum, o bisogna temere le antiche ammucchiate del post ’93? «L’Italia», risponde il professore concorde con Pombeni, «avrebbe bisogno di una legge elettorale in grado di produrre ampie coalizioni per fronteggiare tempi difficili». «La legge Mattarella», chiarisce Onida, «consente di costituire coalizioni preventive e lascia aperta la possibilità di non arroccarsi in contrapposizioni militari. Il bipolarismo non nasce ad arte, è solo facilitato o ostacolato da soluzioni che ne alterano la flessibilità. Ciò che lascia perplessi della Calderoli è semmai il bipolarismo truccato. Il premio di maggioranza va alla minoranza più forte». Sarà pure un teatrino dal finale a sorpresa, quello sulla legge elettorale. Ma anche le commedie più amare prima o poi finiscono: la fortuna è cieca, ma Silvio ci vede benissimo.


economia

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L’ad lancia la nuova politica sindacale della Casa. E annuncia che Mirafiori produrrà un nuovo Suv a marchio Jeep

Marchionne se ne va

La Fiat lascia Confindustria in polemica con l’accordo di settembre che non difendeva l’azienda dalle inchieste (e riabilitava la Cgil) di Francesco Pacifico

Il testo della lettera inviata dall’ad del Lingotto

ROMA. Una postilla di cinque righe – per quanto ambigua – è sufficiente per dividere le strade di Sergio Marchionne e di Emma Marcegaglia. A spingere Fiat a uscire dal recinto di Confindustria e a rimettere in discussione le certezze e le innovazioni realizzate in questi anni nel campo delle relazioni industriali. Ieri l’Ad del Lingotto ha reso pubblica la missiva, con la quale ha informato l’imprenditrice marchigiana della decisione della prima impresa manifatturiera del Paese di abbandonare la maggiore associazione datoriale italiana. Quindi – anche per sottolineare la sua buona fede – ha confermato di voler andare avanti con gli investimenti in Italia: a Mirafiori sarà assemblato un Suv Jeep e uno più piccolo marchiato Alfa, a Pratola Serra verrà assemblato il prossimo motore del Biscione.

«Cara Emma», mette nero su bianco il manager con il maglioncino blu, «ti confermo che, come preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, Fiat e Fiat Industrial hanno deciso di uscire

«Rispettiamo la scelta, ma non la condividiamo», dice Viale dell’Astronomia. Il titolo Fiat va a picco in Borsa da Confindustria con effetto dal 1 gennaio 2012». Alla base del contendere ci sono sempre l’accordo interconfedarale del 28 giugno 2011 e l’articolo 8 dell’ultima a manovra, attraverso i quali le parti prima e il governo poi hanno voluto mettere ordine sulle deroghe al contratto nazionale, blindandole dai i ricorsi giudiziari presentati davanti ai pretori del lavoro. Tema sensibile per il Lingotto, visto che gli investimenti in Italia sono legati proprio alla possibilità di regolare gli stabilimenti di casa (Pomigliano, Grugliasco e Mirafiori) con norme diverse rispetto al passato su temi quali orari di lavoro, straordinari, salari e diritto di sciopero. Per Marchionne le modifiche concesse lo scorso 21 settembre dalla Marcegaglia a Susanna Camusso all’accordo del 28 giugno – le cinque righe in una postilla avallate anche dalla Cisl e dalla Uil – finiscono per indebolire «provvedimenti che avrebbero risolto molti punti nodali nei rapporti sindacali garantendo le certezze necessarie per lo sviluppo economico del nostro Paese». Così salta «questo nuovo quadro di riferimento, in un momento di particolare difficoltà dell’economia mondiale», che «avrebbe permesso a le imprese italiane di affrontare la

Addio, cara Emma! Serve più flessibilità ara Emma, negli ultimi mesi, dopo anni di immobilismo, nel nostro Paese sono state prese due importanti decisioni con l’obiettivo di creare le condizioni per il rilancio del sistema economico. Mi riferisco all’accordo interconfederale del 28 giugno, di cui Confindustria è stata promotrice, ma soprattutto all’approvazione da parte del Parlamento dell’Articolo 8 che prevede importanti strumenti di flessibilità oltre all’estensione della validità dell’accordo interconfederale ad intese raggiunte prima del 28 giugno.

C

La Fiat fin dal primo momento ha dichiarato a Governo, Confindustria e Organizzazioni sindacali il pieno apprezzamento per i due provvedimenti che avrebbero risolto molti punti nodali nei rapporti sindacali garantendo le certezze necessarie per lo sviluppo economico del nostro Paese. Questo nuovo quadro di riferimento, in un momento di particolare difficoltà dell’economia mondiale, avrebbe permesso a tutte le imprese italiane di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti. Ma con la firma dell’accor-

do interconfederale del 21 settembre è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizione contraddittorie e addirittura con dichiarazioni di volontà di evitare l’applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ha fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’Articolo 8. Si rischia quindi di snaturare l’impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale.

Fiat, che è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale con 181 stabilimenti in 30 paesi, non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato. Per queste ragioni, che non sono politiche e che non hanno nessun collegamento con i nostri futuri piani di investimento, ti confermo che, come preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, Fiat e Fiat Industrial hanno deciso di uscire da Confindustria con effetto dal 1 gennaio 2012. Stiamo valutando la possibilità di collaborare, in forme da concordare, con alcune organizzazioni territoriali di Confindustria e in particolare con l’Unione Industriale di Torino. Da parte nostra, utilizzeremo la libertà di azione applicando in modo rigoroso le nuove disposizioni legislative. I rapporti con i nostri dipendenti e con le Organizzazioni sindacali saranno gestiti senza toccare alcun diritto dei lavoratori, nel pieno rispetto dei reciproci ruoli, come previsto dalle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. E’ una decisione importante, che abbiamo valutato con grande serietà e attenzione, alla quale non possiamo sottrarci perché non intendiamo rinunciare a essere protagonisti nello sviluppo industriale del nostro Paese. Sergio Marchionne

competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti». Lo scorso 18 giugno, Emma Marcegaglia (Confindustria), Susanna Camusso (Cgil), Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil) avevano concordato che «i contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie». Proprio per venire incontro alle esigenze di Marchionne, e di tutte quelle aziende che devono mostrarsi più flessibili in base alla domanda del mercato, avevano anche garantito di poter «definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». Poi, due settimane fa, anche per venire incontro a corso d’Italia, la postilla: «Confindustria, Cgil, Cisl e Uil concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti». Parole che non sembrano modificare i termini della questione, aggiunte a mo’ di scudo propagandistico per permettere ai sindacati di respingere deroghe sull’articolo 18, ventilate invece dall’articolo 8. Postilla dietro la quale i giuslavoristi della Fiat hanno invece visto una richiamo alla centralità di Confindustria e conferazioni nelle relazioni industriali, quindi un rafforzamento del contratto nazionale, che il Lingotto vuole superare. È per avere le mani libere e non subire vincoli che Fiat abbandona via dell’Astronomia. Anche perché il piano di investimenti in Italia – 20 miliardi e 1.300 milioni di vetture da costruire – regge soltanto se gli stabilimenti producono a pieno regime, senza scioperi e limitando pause e giorni di malattie. Ufficialmente Confindustria risponde a questo strappo con la stessa rigidità del Lingotto. Replica con un diplomatico «Prendiamo atto delle decisioni della Fiat pur non condividendone le ragioni, anche sotto il profilo tecnico-giuridico». Ricorda che «in termini di addetti il gruppo Fiat rappresenta lo 0,8 per cento dell’intero sistema associativo, mentre dal lato contributivo pesa l’1 per cento dell’intero sistema, per una somma pari a poco meno di 5 milioni di euro».


economia

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Qui accanto, la presentazione della nuova Fiat Freemont (primo prodotto della sinergia con Chrysler) al Salone di Francoforte. Nella pagina a fronte, dall’alto: Emma Marcegaglia, Sergio Marchionne e Maurizio Landini

La via di Torino all’autarchia globale Una decisione che di fatto conferma la strategia ormai tutta americana del Lingotto di Gianfranco Polillo a lettera di Sergio Marchionne a Emma Marcegaglia segna il definitivo divorzio della Fiat da Confindustria. Era stato un lungo matrimonio, durante il quale gli Agnelli avevano esercitato il loro fascino discreto sul mondo industriale italiano, con esiti alterni per le sorti dell’Italia. Basti pensare all’accordo sulla scala mobile, nel corso degli anni Settanta: quella firma posta in calce al documento da Gianni e controfirmata da Luciano Lama, era destinata a produrre un’indicizzazione dei salari operai oltre il 100 per cento. E l’avvio di un processo inflazionistico senza precedenti, che solo Bettino Craxi, quando era presidente del Consiglio, riuscì a modificare, alimentando ulteriormente la frattura che divideva il mondo socialista da quello comunista.

L

Oggi siamo esattamente agli antipodi. La rottura con Confindustria si consuma sul fronte delle relazioni industriali ma con un segno completamente diverso. Sergio Marchionne rifiuta l’accordo interconfederale del 21 settembre 2011 – come indicato testualmente nella lettera – che a sua volta ribadiva i contenuti di quello sottoscritto solo qualche mese prima: il 28 giugno. Ch’era successo nel frattempo? Il Governo, varando il decreto legge 148 del 2011 (l’ultima manovra finanziaria) era entrato nella materia, dando più spazio alla contrattazione aziendale di secondo livello, anche in deroga al contratto nazionale. Nel Soprattutto smentisce Marchionne e rivendica che «per effetto dell’accordo interconfederale del 28 giugno e dell’articolo 8 della manovra di agosto le imprese hanno quindi maggiori certezze riguardo alla loro operatività». In realtà dietro le quinte Emma Marcegaglia – anche attraverso le analisi del giuslavorista Arturo Maresca – ha provato fino all’ultimo a far cambiare idea a Marchionne, spiegando che soprattutto non ci sarebbero state repercussioni legali sulle deroghe al contratto di lavoro applicate negli stabilimenti di Pomi-

comma 3 aveva, inoltre, previsto specificatamente che le nuove regole si applicavano anche ai contratti collettivi aziendali approvati prima del 28 giugno a condizione che le stesse fossero state approvate dalla maggioranza dei lavoratori. Il caso Pomigliano D’Arco, Mirafiore ed ex Bertone. I teatri dello scontro più duro con la Fiom, messa in minoranza dai suoi stessi quadri – che avevano votato a favore nel referendum indetto – sconfessando il massimalismo dei propri dirigenti. Sembrava finita e invece non era così. Il nuovo accordo confederale - quello del settembre - ribadiva i termini di quello precedente. Ma essendo stato siglato dopo il varo della manovra, di fatto, ne smentiva i nuovi contenuti legislativi. Se si leggono le relative clausole si avrà contezza delle acrobazie verbali, colà contenute. Tante belle parole spese in difesa di una competitività teorica, ma nella sostanza continuo richiamo a diritti da difendere e valori da preservare. Insomma: tanta teoria, ma poca sostanza gestionale, in un momento in cui la grave crisi internazionale impone – come del resto sta avvenendo per le imprese minori – forti processi di riconversione produttiva ed una maggiore efficienza complessiva. Questa seconda virata a Sergio Marchionne non è piaciuta. Questione di metodo e

di sostanza. Basta con i balletti inconcludenti e nominalistici. Con la Cgil occorre un confronto duro, quando invece una parte del mondo industriale pensa solo a lisciarle il pelo. Ed ecco allora l’inevitabilità della rottura e la decisione di uscire dall’organizzazione il prossimo primo gennaio.

Ha ragione Marchionne? Lo sforzo fatto, nel varare l’articolo 8 del decreto legge, e le inevitabili mediazioni – tipico il ritorno ad un lessico antico quale «le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» – potevano spostare in avanti il fronte delle relazioni industriali. Si è, invece, verificato il contrario. La pressione della Cgil è aumentata, alimentando le prese di distanza di Cisl ed Uil, preoccupate di perdere consensi presso il mondo del lavoro. Risultato? Incertezze che rischiano di vanificare ogni cosa e inchiodare le aziende in un limbo senza speranza. Visto che è difficile crescere se si resta all’interno di settori che la concorrenza ha spazzato via o se le modalità organizzative delle strutture meglio collocate non possono mutare, se non dopo defaticanti discussioni che ne ritardano l’attuazione, aumentando le distanze con un mondo che corre ad una velocità impressionante.

Malgrado le rassicurazioni, è difficile non vedere dietro certe parole anche una valenza politica

gliano, Mirafiori e Grugliasco. Ma non potendo fare concessioni – la base preferisce non andare allo scontro con la Fiom – non ha ottenuto risultati sperati.

Difficilmente ci sarà un esodo da Confindustria, come paventato nei mesi scorsi dopo le prime uscite dall’Ad di Fiat: soprattutto le Pmi non hanno mai gradito lo strapotere del Lingotto, mentre ai vertici dell’associazione si rafforzano quegli ambienti da sempre legati alla concertazione (come i chimici di Giorgio Squinzi). Non caso in molti ve-

dono nella proposta della Marcegaglia sulla patrimoniale la merce di scambio per convincere i sindacati ad accettare la riforma delle pensioni. Eppure non sono escluse ripercussioni sulle relazioni industriali. Nota il parlamentare del Pdl Maurizio Castro, storicamente vicino al ministro Sacconi: «Cosa succederà quando gruppi stranieri o comunque abituati a rapporti più dinamici vorranno investire in Italia? Infondo la scelta di Marchionne è coerente dopo le dichiarazioni di Confindustria, forse persino piu’ pavide che timi-

In particolare la Fiat rischiava di essere la prima vittima di questo modo di procedere. Protesa, com’è, sul mercato internazionale, ogni lentezza organizzativa si traduce in una perdita netta e rischia di produrre un effetto domino.

Per Emma Marcegaglia, l’uscita della Fiat è una dura sconfitta. Si era prodigata per dimostrare le insufficienze della politica economica del Governo. Aveva suggerito rimedi – molti dei quali condivisibili – anche se non era sfuggita la valenza tutta politica del “manifesto delle imprese” e il gioco di sponda con settori dell’opposizione. Oggi tutto questo è meno credibile. E troppo facile la ritorsione. Invece di occuparsi dei temi alti della politica economica, avrebbe dovuto mettere ordine in casa propria. Abbandonare, da tempo, pratiche consociative e dire – con la stessa incisività usata nel documento – che senza un maggiore impegno individuale è difficile uscire da questa crisi. Non è solo la posizione di Sergio Marchionne. Nella famosa lettera con cui Draghi e Trichet invitavano l’Italia a fare di più, un lungo capitolo è dedicato proprio alle relazioni industriali. E gli accenti non sono poi così diversi da quelli usati dall’ad della Fiat. Forse il tono è più pacato, ma la sostanza rimane identica. Quindi? Va bene Marchionne, ma questo purtroppo non basta. La nuova frattura indebolisce un intero fronte e rischia di rendere più difficili ogni eventuale soluzione. de, in ordine all’applicazione del articolo 8 della manovra». In prospettiva del tramonto del centrodestra, sono in molti a vedere nelle parole dell’Ad del Lingotto una bocciatura preventiva a un’allenza tra le imprese e Cgil soprattutto se a Palazzo Chigi tornerà il centrosinistra. Perché, come segnale Giuliano Cazzola, «se la Confindustria diventa una succursale della Cgil e si mette a cavalcare l’antipolitica , che deve fare un’impresa multinazionale impegnata a sopravvivere nel mondo della competizione globale?».


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l motivo per cui nel 1948 il Premio Nobel per la Pace non fu assegnato fu che il Mahatma Gandhi era stato assassinato il 30 gennaio: due giorni prima della chiusura delle nomination. Ben sei lettere di designazione ne avrebbero fatto il sicuro vincitore, ma il regolamento non prevede premi alla memoria, e così l’unico modo che si trovò per onorarlo lo stesso in qualche modo fu quello di non dare il Premio a nessuno. Quando nel 1961 il segretario dell’Onu Dag Hammarskjöld morì in un incidente aereo mentre cercava di riportare pace nel Congo, il Nobel per la Pace gli fu però concesso a titolo postumo, spiegando che l’importante era appunto che il candidato fosse ancora vivo al momento della nomination: evidenti i dubbi di parzialità nei confronti di uno scandinavo; ma tant’è. Quell’unico Nobel postumo ha però ora avuto una replica con il canadese Ralph Steinman: che assieme allo statunitense Bruce Beutler e al francese di origine lussemburghese Jules Hoffmann ha ricevuto il Nobel per la Medicina, primo Nobel dell’annata 2011, quando era già cadavere. «L’emozione gli ha fatto un brutto scherzo», deve essere stato il primo pensiero che è venuto a molti, quando si è saputo che uno dei tre premiati era morto.

I

In realtà, era deceduto già il 30 settembre, all’età di 68 anni: ma non era stato ancora reso noto al grande pubblico, e presumibilmente neanche ai giurati di Stoccolma. Solo quando le agenzie e i siti Internet hanno diffuso la notizia, la Rockfeller University ha detto che il premiato non c’era più da tre giorni, per via di un cancro al pancreas che gli era stato diagnosticato quattro anni fa. Attenzione, però. I tre, ha spiegato il comitato di quell’università medica Karolinska Institutet che è incaricato di fare la scelta, sono stati premiati ”per le loro scoperte riguardanti l’attivazione dell’immunità innata”. Steinman, ha informato la Rockfeller University, era «riuscito ad allungare il decorso della malattia» proprio “«razie all’immunoterapia basata sulle cellule dendritiche» che lui stesso aveva scoperto. Insomma: si era già conferito da solo un Premio molto più importante del Nobel. La Medicina è Arte e non Scienza, spiegano infatti spesso i suoi luminari: perché ha lo scopo di guarire e far star bene il paziente, prima ancora di comprendere come funzioni la macchina umana. Un’impostazione certo non condivisa da tutti, ma che spiega ad esempio il perché il Premio Nobel sbrigativamente definito “della Medicina” abbia in realtà come propria definizione ufficiale quella di “Fisiologia o Medicina”: mettendo appunto assieme l’approccio scientifico con quello artigiano. Per ragioni analoghe, in quest’Arte la suggestione ha un ruolo altrettanto riconosciuto dei farmaci e della altre terapie, se riesce a far star meglio il paziente. Anche se poi lo stesso effetto placebo è studiato in modo scientifico. Questa concezione della Medicina come Arte prima ancora che come Scienza risale addirittura a due millenni fa, e allo stesso padre della Medicina Ippocrate. Che peraltro fu anche il primo a proporre comunque un approccio scientifico alla materia.

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Ricercatori di fama mondiale, sono stati scelti per il loro lavoro sui mecc

Bruce, Ralph e Jule Stoccolma assegna il Premio per la medicina agli immunologi Beutler, Hoffmann e Steinman. Anche se il terzo è morto lo scorso fine settimana di Maurizio Stefanini

Il Nobel era stato assegnato postumo soltanto una volta, e Gandhi non lo ottenne perché morì 2 giorni prima della fine del concorso Con l’essere il primo a spiegare che la malattia e la salute di una persona dipendono da specifiche circostanze umane della persona stessa e non da superiori interventi divini, ad esempio.

Con l’essere anche il primo a studiare l’anatomia e la patologia senza trascurare la dissezione dei cadaveri. Con l’aver inventato la cartella clinica, attraverso l’osservazione razionale dei pazienti attraverso il loro aspetto e i loro sintomi, e attraverso l’invenzione dei concetti di diagnosi e di prognosi. Ma soprattutto Ippocrate spiegava che l’intero stile di vita del malato permetteva di comprendere e sconfiggere la malattia da cui questo era affetto. Insomma: la cura ai nostri mali è dentro di noi. Un’antica intuizione, di cui le vicende della medicina moderna dall’invenzione del vaccino da parte di Jenner alla comprensione dei suoi meccanismi da parte di Pasteur hanno con-

fermato la verità. Certo, noi oggi non ragioniamo più nei termini di quella teoria umorale ippocratica, secondo cui sarebbe lo squilibrio tra sangue, bile gialla, bile nera e flegma a provocare i malanni. Sappiamo invece del ruolo di virus, bacilli e batteri: anche se molte cose ancora ci sfuggono, in particolare a proposito del cancro. Ma siamo comunque a conoscenza del fatto che l’organismo dispone di un’ampia rete di difese naturali contro il male, e che la medicina migliore è dunque quella che si basa su queste stesse difese: aiutandole e potenziandole. Ed è qui che andiamo appunto al sistema immunitario e ai tre premiati di ieri. Nato nel 1943 a Montreal, dopo aver studiato Biologia e Chimica alla locale McGill University ed essersi poi laureato in Medicina a 25 anni a Harvard, ricercatore alla Rockefeller University di New York 27enne, già a trent’anni Steinman aveva fatto la scoperta per cui gli hanno dato il Nobel. Anche se avrebbe dovuto aspettare altri 15 anni per diventare professore di Immunologia, e addirittura la morte per ottenere il riconoscimento.

«Steinman negli anni Settanta ha descritto per primo cellule ameboidi simili a polipi (chiamate dendritiche) che campionano il microambiente e

funzionano come sentinelle, cioè avvisano il sistema immunitario (in particolare i linfociti T, un tipo di globuli bianchi) a far partire la sua reazione verso gli ‘intrusi’», è una definizione scientifica. In effetti dendron in greco significa “albero”: una definizione dovuta al tipico aspetto ramificato. La sua ipotesi fu subito che queste cellule dendridiche potessero avere un ruolo importante della difesa dell’organismo, proprio perché in grado di attivare le cellule T. E sono queste cellule T le


il paginone

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canismi di difesa dell’organismo con cui hanno rivoluzionato la materia

es: gli immuNobel Come mai a Stoccolma ci hanno messo tanto per premiarlo? Purtroppo, i risultati degli esperimenti di coltura cellulare in cui Steinman dimostrava come la presenza di cellule dendritiche provocasse vivaci reazioni delle cellule T agli attacchi esterni furono all’inizio accolti con scetticismo. Solo insistendo riuscì infine a dimostrare che le cellule dendritiche hanno davvero la capacità di attivare le cellule T. Ulteriori approfondimenti suoi e di altri scienziati hanno continuato a far luce sul modo in cui il sistema immunitario acquisito decide se attivarsi o meno quando incontra varie sostanze, e si è scoperto che i segnali derivanti dalla risposta immunitaria innata e rilevati dalle cellule dendritiche sono quelli che controllano l’attivazione delle cellule T. Ciò consente al sistema immunitario di reagire nei confronti dei microrganismi “nemici”. Lo stesso meccanismo di fabbricazione dei vaccini ne è stato rivoluzionato. I vaccini sono infatti costruiti in base all’antigene: che sarebbe poi una proteina del microorgani-

Grazie agli studi con cui ha ottenuto il riconoscimento, lo scienziato defunto ha vissuto molto più di quanto il suo cancro facesse pensare smo da cui ci si vuole difendere. Ma per farli funzionare ci vuole poi una ulteriore sostanza che si chiama adiuvante, e che dal 1920 in poi è stata costituita dall’idrossido di alluminio in modo generalizzato. Proprio la scoperta delle cellule dendritiche ha permesso di studiare nuovi adiuvanti più specifici.

“chiavi” dell’immunità acquisita e la base per la creazione di una memoria immunologica nei confronti di diverse “minacce”. L’uomo sa da tempi remo-

La doppia elica del Dna, che fornisce “istruzioni” al corpo sulla prevenzione da malattie e virus. In alto, la medaglia del Premio Alfred Nobel. Nella pagina a fianco i tre ricercatori premiati: uno americano, uno belga e l’ultimo lussemburghese

tissimi, che chi sopravvive a una malattia una volta in genere non la riprende più, e il meccanismo del vaccino consiste appunto nel far prendere questa malattia in forma attenuata, in modo da poter sviluppare questa immunità senza troppi rischi. Ebbene: sono appunto queste cellule dendritiche l’”archivio” grazie al quale le difese dell’organismo riconoscono le impronte digitali della minaccia, e capiscono di averla già schedata e di disporre dei sistemi vincenti per distruggerla.

Metà del Premio, dunque, l’hanno data a Steinman: “per la sua ricerca sul sistema immunitario adattativo”. Che è la seconda fase della risposta di difesa dell’organismo: quella in cui i microrganismi vengono cancellati dal corpo. Ma l’altra metà l’hanno data a sua volta da dividersi a metà tra Beutler e Hoffmann: “per i loro lavori sul sistema immunitario innato”. Che rappresenta la prima linea di difesa: quella che scatta comunque, anche se la minaccia non è ancora conosciuta, e neanche presente negli archivi. Jules Hoffmann, il più anziano, è nato a Echternach, in Lussemburgo, nel 1941. Ma dopo aver studiato all’Università di Strasburgo e avervi conseguito nel 1969 il dottorato ha rinunciato alla cittadinanza originaria, per assumere quella francese. Formazione post-dottorato alla tedesca Università di Marburgo, è poi tornato a Strasburgo, dove ha diretto un laboratorio di ricerca dal

1974 al 2009. Sempre a Strasburgo ha anche lavorato come direttore dell’Istituto di Biologia cellulare molecolare, e nel 2007-2008 è stato presidente della Accademia Nazionale delle Scienze francese. Nel 1996 stava appunto studiando i moscerini della frutta e il modo in cui combattono le infezioni, concentrandosi in particolare sulle mutazioni a livello di numerosi geni. Tra questi il “Toll”: un gene di cui Christiane Nüsslein-Volhard, Premio Nobel del 1995, aveva già dimostrato che era coinvolto nello sviluppo embrionale. Infettando i moscerini con batteri o funghi Hoffmann scoprì che i Toll mutanti morivano perché non erano in grado di scatenare una difesa efficace. Dunque, questo gene è coinvolto nella rilevazione dei microrganismi patogeni. La sua attivazione è dunque necessaria, per una difesa efficace contro di essi.

Bruce Beutler, che è il più giovane dei tre, è nato nel 1957 a Chicago, dove si è laureato in Medicina nel 1981. Anche lui ricercatore alla Rockefeller University, è poi passato all’Università del Texas di Dallas, dove nel 1998 ha scoperto il recettore del lipopolisaccaride (Lps): componente della parete esterna dei batteri gram negativi, che appunto per la sua alta tossicità attiva il sistema immunitario. Lui stava invece esaminando tipi resistenti all’Lps, ed ha constatato una mutazione in un gene molto simile a quella del gene Toll nei moscerini della frutta. La chiave: il recettore simil-Toll (Tlr) si è rivelata la chiave. Quando si lega al Lps vengono attivati i segnali che causano infiammazione e, quando le dosi di Lps sono eccessive, lo shock settico. Dunque, quando incontrano i microrganismi patogeni mammiferi e i moscerini della frutta utilizzano molecole simili per attivare l’immunità innata. Dal 2000 Beutler è dunque andato al The Scripps Research Institute di La Jolla, come professore di Genetica e Immunologia. Proprio seguendo questo filone di ricerca nell’uomo e nei topi è stata identificata una dozzina circa di diversi Tlr, ognuno dei quali riconosce alcuni tipi di molecole comuni nei microrganismi. Per gli individui che possiedono mutazioni in questi recettori aumenta il rischio di infezioni, mentre altre varianti genetiche di Tlr sono associate a un maggiore pericolo di malattie infiammatorie croniche. Insomma, a spiegato il Comitato del Nobel, la ricerca dei tre premiati ha aperto la strada alla realizazione di nuovi farmaci e vaccini che consentono di combattere le deficienze immunitarie come l’asma, la poliartrite reumatoide o la malattia di Crohn.


mondo

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Nel 2009 sei ex feudi di Mosca (Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Moldavia e Bielorussia) puntavano con speranza a Bruxelles. Oggi non più

L’Ue non guarda a Est Travolta dalla crisi, l’Unione si dimentica le sorelle orientali. Sospese fra democrazia e dittatura di Enrico Singer è un’Europa che arranca sotto il peso della crisi dell’euro, la paura del default della Grecia e le divisioni interne, ma c’è anche un’Europa che sta peggio, che è già alla deriva tra speranze deluse e promesse mancate. È un pezzo dell’Europa orientale. Quella che non è entrata nella Ue, che in qualche caso s’illude ancora di poterlo fare, ma che – molto più realisticamente – ne resterà ancora fuori come ha dimostrato il secondo vertice del “partenariato orientale” che si è appena concluso a Varsavia con un fallimento mascherato a stento da diplomatiche dichiarazioni di buona volontà e dall’impegno a continuare il dialogo. Eppure quando nacque, soltanto due anni fa in un altro summit celebrato con grande fasto il 7 maggio del 2009 nel castello di Hradcany, a Praga, sembrava la strada maestra per realizzare, sia pure a piccoli passi, un nuovo allargamento dell’Unione europea a sei Paesi: l’Ucraina, la Georgia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Moldavia e la Bielorussia. Sei ex feudi di Mosca che – ognuno a suo modo e con pesanti limiti – volevano comunque stabilire un rapporto più stretto con la casa europea.

C’

una settimana dalle elezioni politiche che si terranno domenica prossima e a metà esatta della presidenza di turno della Ue che si concluderà a dicembre, si augurava di incassare un successo da questo incontro e ha fatto di tutto per riuscirci. Ma invano. Le posizioni sono rimaste distanti. Tra i leader dell’Unione spiccava la presenza della sola Angela Merkel, sempre attenta alla Ostpolitick, oltre a quella dell’ormai quasi-ex premier spagnolo Zapatero. Non c’erano né Sarkozy, né Cameron e l’Italia era rappresentata dal sottosegretario agli Esteri, Alfredo

Adesso molti si chiedono che fine faranno questi sei Paesi costretti in una specie di limbo dal quale sembra possibile soltanto un ritorno al passato piuttosto che un balzo in avanti. E, soprattutto, di chi è la colpa. Dell’Europa di serie A che è troppo preoccupata di non retrocedere e non vuole, o non può, prendere sul serio l’ipotesi di nuove adesioni, oppure di quella che cerca di uscire dal suo girone minore senza sforzarsi, però, di cambiare davvero passo? Come sempre, quando un meccanismo s’inceppa, le responsabilità non stanno da una parte sola.

Polonia e Ungheria speravano molto nel partenariato orientale. Ma invano. L’unica sponsor di peso è stata Angela Merkel

Uno degli analisti polacchi più esperti in materia, Jedrzei Winiecki, commentando l’incontro di Varsavia ha scritto sul settimanale Polityka che la colpa, in gran parte, è della Ue che non s’interessa più di tanto alla sorte di questa fetta di Europa e che, già due anni fa, partecipò al vertice di Praga «soprattutto per avere una foto con il nuovo presidente americano Barack Obama che era l’ospite d’onore di quell’incontro». Ma anche gli aspiranti partner orientali non hanno brillato. In Bielorussia, dopo una breve tregua, Lukashenko ha rispolverato i metodi delle Spetsnaz – le le forze speciali russe – per reprimere l’opposizione e ha rotto con l’Europa. In Azerbaigian, Ilham Aliev si è assicurato la presidenza a vita, ereditata dal padre in stile addirittura più nordcoreano che sovietico. L’Armenia insegue la strada del putinismo. In Georgia il presidente Mikhail Saakashvili, dopo la guerralampo con la Russia, ha gettato al vento i progressi democratici ottenuti con la “rivoluzione delle rose”. In Ucraina l’ex premier Julia Timoshenko è in carcere, in balia di un gruppo di giudici dipendenti dal presidente filorusso, Viktor Yanukovic. Ed anche il migliore allievo del gruppo, la Moldavia, è ancora invischiato nel conflitto con la Transnistria e deve fare i conti con tutti i ma-

Casa che ha già accolto altri pezzi dell’ex impero sovietico, a partire dalla Polonia e dall’Ungheria che sono i due maggiori sponsor di questo partenariato che, per il momento, non ha altre ambizioni se non quella di costruire un rapporto privilegiato di collaborazione con la Ue basato sul libero scambio, l’eliminazione o la riduzione dei costi dei visti, borse di studio per gli studenti e sostegno alle associazioni e alle fondazioni indipendenti per accelerare il corso della democrazia in società che, in fatto di diritti umani e politici, hanno standard ancora molto lontani da quelli occidentali. Il governo polacco, a

Mantica. La sedia vuota più ingombrante, però, era quella del presidente-dittatore bielorusso, Alexandr Lukashenko, che aveva inviato a Varsavia il ministro degli Esteri che, a sua volta, ha abbandonato platealmente il vertice nel bel mezzo dei lavori per protestare contro le critiche rivolte al regime.

A lato, festa folcloristica nei pressi di Minsk e, in alto, il presidente bielorusso Lukashenko. Sotto: il presidente Mikhail Saakashvili (Georgia) e l’ex premier ucraina Julia Timoshenko, adesso in carcere in balia dei giudici dipendenti dal presidente filorusso, Yanukovic. A destra: Ilham Aliev (Azerbaigian)

li di una neonata democrazia, in particolare con una corruzione generalizzata.

Se ognuno ha le sue colpe, ha anche qualche ragione. A spingere di più per trasformare il partenariato in un primo passo concreto verso l’integrazione sono i Paesi dell’Europa dell’Est già entrati nella Ue. Soprattutto i quattro – Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca – che si sono riuniti nel Gruppo di Visegrad, l’alleanza economica da poco trasformata anche in alleanza militare, e che sperano di rafforzare ulteriormente il loro peso a Bruxelles in particolare con la prospettiva dell’adesione dell’Ucraina. A questi si aggiungono gli Stati baltici (Lettonia, Lituania, Estonia), tutti accomunati da una netta avversione per la Russia che preferisce fare accordi economici ed energetici con gli altri Stati europei – che

si tratti della Germania, della Francia o dell’Italia – piuttosto che con loro. Nel bene e nel male, Mosca è il convitato di pietra in questa ennesima disputa interna alla Ue che si aggiunge, e in qualche caso s’intreccia, a quella ancora più evidente tra i 17 Paesi che hanno scelto l’euro come loro moneta comune e i 10 che sono rimasti fuori da Eurolandia. I russi considerano l’operazione-partenariato come un’intromissione in una loro tradizionale area d’influenza e cercano di ostacolarla con ogni mezzo. Prima di tutto con l’arma dei contratti per il gas e il petrolio e con le commesse per le due nuove pipeline North e South Stream che – tra l’altro – dovrebbero tagliare fuori proprio l’Ucraina dalle nuove linee di transito dei gasdotti per l’Europa occidentale. In seno alla Ue i più freddi di fronte all’ipotesi di un nuovo allargamento a Est


mondo

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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

d’Europa. Qui, tra i confini settentrionali con la Russia (la Bielorussia), il cuore centrale dell’Est europeo (Ucraina e Moldavia) e il Caucaso del Sud (Armenia, Georgia e Azerbaigian) l’Unione è in concorrenza crescente con altri Paesi che non condizionano i rapporti all’apertura dei mercati o all’adesione e al rispetto dei valori della democrazia e dei diritti dell’uomo. La Russia, la Turchia, l’Iran e la Cina stanno giocando una partita spregiudicata nell’area e non hanno le stesse regole della Ue. Per loro il fallimento del vertice di Varsavia è un evidente successo che aumenta le possibilità di penetrazione nell’Europa orientale. sono Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al vertice di Varsavia il più esplicito è stato il premier francese, François Fillon, che ha gelato le speranze di Ucraina e Georgia affermando che «non è il momento» di offrire questa prospettiva ai due Paesi che, pure, sarebbero i meglio piazzati nel gruppo dei sei nella corsa all’adesione. «Comprendo le loro aspettative, ma sarebbe controproducente lanciare ora il dibattito sulla forma definitiva dei rapporti tra Ucraina e Georgia da un lato e Unione europea dall’altro», ha detto Fillon senza troppi giri di parole.

Del resto Nicolas Sarkozy sostiene anche nel caso della Turchia che la Ue dovrebbe dire chiaramente ad Ankara che il massimo che potrà ottenere è la concessione di un «rapporto privilegiato»: figuriamoci con Paesi che oggettivamente contano molto meno sullo scacchiere internazionale, anche se fanno indiscutibilmente parte dell’Europa. Così il comunicato finale afferma che «i partecipanti al vertice di Varsavia riconoscono le aspirazioni europee e la scelta europea di alcuni partner e il loro impegno a costruire una democrazia più profonda e sostenibile». Nel documento vengono promesse risorse aggiuntive al bilancio comunitario del 2012-2013 da dedicare a questo processo e la creazione futura di uno “spazio economico” con la Ue, simile al patto di libero

scambio che è già operativo con Islanda, Norvegia e Svizzera da parte dell’Unione europea.

Ma che cosa ne pensano i sei Paesi interessati al partenariato? Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia e Ucraina, si sono almeno impegnate a «sottolineare l’importanza strategica” del rapporto con l’Unione della quale riconoscono anche il “ruolo rafforzato nella soluzione dei conflitti». La Bielorussia, dopo lo strappo del ritiro della delegazione dai colloqui, naturalmente non ha sottoscritto il comunicato finale e la Ue, per parte sua, ha inserito in questo documento la richiesta della liberazione immediata e della riabilitazione di tutti i prigionieri politici e ha espresso “profonda preoccupazione” per la repressione in atto. Le preoccupazioni europee, però, non riguardano la sola Bielorussia, ultima vera dittatura del Continente. È delicato anche il rapporto con l’Ucrai-

na, che vive sospesa fra aspirazioni europee e legami indissolubili con la Russia e che sta processando l’ex leader della “rivoluzione arancione”, Julia Timoshenko, che è in carcere da più di un mese. O con la stessa Armenia che mette in prigione i manifestanti e impone il bavaglio alla stampa, ha un Pil procapite più basso di quello dell’Angola e una casta di potere che viaggia in Porsche Cayenne. Problemi anche con l’Azerbaigian che è ricco di petrolio ma è controllato dal clan del presidente Aliev che non si fa scrupolo d’imprigionare gli avversari politici. Sarebbe ipocrita – oltre che impossibile – negare questi fatti e attribuire alla sola freddezza del nucleo forte della Ue la battuta d’arresto subita dal “partenariato orientale”.

Ma non si può nemmeno far finta di ignorare gli effetti dello stop nella marcia di avvicinamento alla Ue di questo pezzo

Per Mosca, in particolare, il disegno è già compiuto in Bielorussia ed è a buon punto in Ucraina dove i sondaggi d’opinione (che pure vanno presi con le molle) dicono che il sostegno all’adesione all’Unione è passato dal 65 per cento del 2002 all’attuale 51 per cento. Tuttavia è proprio Kiev la capitale che gioca su due tavoli tra Mosca e Bruxelles. Il presidente filo-russo Viktor Yanukovich spera ancora di poter firmare a dicembre, nel corso del vertice Ue che chiuderà la presidenza di turno polacca, un accordo di libero scambio che sarebbe il primo passo concreto del “partenariato orientale” verso una forma di associazione con la Ue. Molto dipenderà dall’esito della vicenda di Julia Timoshenko. Il presidente permanente del Consiglio Ue, Herman van Rompuy, ha detto che nel corso del summit di Varsavia la questione è stata «più volte» posta al presidente ucraino. E il primo ministro polacco, Donald Tusk, ha dichiarato che ci sono stati anche «alcuni segnali di buona volontà da parte delle autorità di Kiev» e che bisognerà vedere «come evolverà la situazione». Come dire che una condanna di Yulia Timoshenko metterebbe una pietra tombale sul futuro del “partenariato orientale”. Ma che nel caso contrario, almeno per l’Ucraina, la partita non sarebbe ancora finita.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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grandangolo Scenari foschi per l’intellettuale ed accademico mauritano

Attenzione, a sud del Sahara si rischia l’implosione

La guerra in Libia, la fragilità degli Stati del Sahel (piagati dal terrorismo e dalle organizzazioni criminali), la secessione del Sud Sudan e la possibile disintegrazione dello Yemen rischiano di creare una nuova enorme area di crisi, un gigantesco “triangolo di minacce strategiche” esteso dall’Atlantico al Mar Rosso di Sayyed Wild Abah leader dei paesi del Sahel africano hanno lanciato l’allarme riguardo alle possibili ripercussioni negative della guerra in corso in Libia sulla situazione della regione, la quale ha sofferto negli ultimi anni di una furiosa ondata di operazioni terroristiche che l’ha trasformata in uno dei principali focolai di violenza nel mondo. Si sono recentemente susseguite notizie secondo cui molte armi sofisticate, tra cui sistemi missilistici antiaerei, sono penetrate nella regione, sia intenzionalmente attraverso i resti delle milizie di Gheddafi ed i suoi mercenari tuareg ed africani sub-sahariani, sia attraverso le fiorenti vie del contrabbando la cui vitalità si è ulteriormente accresciuta in tempi recenti.

I

È noto che, fin dalla sua ascesa al potere nel 1969, Gheddafi ha desiderato occuparsi del settore del Sahel e del Sahara, ed ha avanzato una serie di iniziative politiche per unire la regione sotto la sua leadership. L’ultima di tali iniziative fu la creazione di un’organizzazione regionale chiamata “raggruppamento Sin-Sad” (in arabo le lettere “sin” e “sad” sono le iniziali delle parole “Sahel” e “Sahara” (Ndt.) ) che egli finanziò in toto e supervisionò personalmente. Per regione del Sahel intendiamo quel vasto spazio che si estende dal sud dell’Algeria (con le sue propaggini nel sud del Marocco) fino al Sudan, e comprende quattro paesi essenziali: Mau-

ritania, Mali, Niger e Ciad. Questa regione costituisce un’unità storica ed antropologica malgrado la molteplicità delle sue componenti etniche e culturali e la diversità della sua struttura geografica ed ecologica.

Questa regione, che si estende su una superficie di 8 milioni di chilometri quadrati, è imperniata su una fertile componente fluviale (i fiumi Senegal, Niger e Ciad) situata al centro di vaste estensioni desertiche e connessa a percorsi vitali che non sono mai realmente cambiati fin dal Medio Evo. Questi percorsi costi-

Il Raìs tentò di sottomettere Mauritania, Mali, Niger e Ciad sotto la sua leadership. Era una prospettiva, ora c’è il vuoto tuiscono una rete per il commercio carovaniero che unisce il Sudan occidentale alle città del Nord Africa, ma anche una via per i pellegrini diretti a oriente, ed un ponte per gli scambi culturali e di civiltà fra l’occidente islamico e l’oriente arabo.

Sorsero nella regione fiorenti imperi islamici che estesero la propria influenza a nord e a sud: lo Stato del Mali, l’impero del Ghana, lo Stato dei Songhai e quello degli Almoravidi. Al loro interno furono fondate antiche città come Touat, Chinguetti, Walata e Timbuktu, che per secoli hanno preservato il loro splendore scientifico e religioso. La regione del Fezzan, nel sud della Libia, appartiene allo spazio del Sahel che include l’intero “paese dei Tuareg” e le tribù arabe vicine negli Stati dell’Africa occidentale (Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso). Allo stesso spazio appartiene la regione sudanese del Darfur, strettamente legata al Ciad centrale.

Questi paesi, da sempre considerati fra i più poveri del mondo, non hanno suscitato alcun interesse internazionale prima della comparsa di tre fenomeni concomitanti negli ultimi cinque anni: la scoperta di enormi ricchezze minerarie e petrolifere destinate ad aprire nuovi orizzonti economici per questi paesi; la trasformazione della regione in un teatro di primo piano delle reti del contrabbando, del narcotraffico e del trasferimento della manodopera clandestina verso l’Europa; l’intensificarsi delle operazioni terroristiche che prendono di mira in particolare i turisti e gli occidentali residenti nella regione, dopo che il centro del salafismo combattente si è trasferito dall’Algeria nel deserto del Sahel

successivamente all’annuncio dell’adesione di tale salafismo ad al-Qaeda. Come chiarisce il ricercatore algerino Ali Bensaad, le reti del crimine organizzato e del terrorismo hanno adottato gli stessi percorsi nel deserto e si sono basate sugli stessi canali tribali tradizionali, mentre i deboli Stati della regione sono incapaci di controllare piste che non conoscono confini ufficiali e che sono sotto il controllo dei gruppi tribali che ne hanno ereditato il dominio. Ciò non significa che i gruppi terroristici e le bande del crimine e del contrabbando controllano di fatto la regione, ma che hanno tratto vantaggio dalle soffocanti crisi economiche e sociali che vivono questi paesi emarginati ed esclusi dai percorsi dello sviluppo e della modernizzazione e si sono adattati alle logiche di scambio esistenti nella regione da tempo immemorabile.

Ciò a cui la regione sta assistendo attualmente è la rovina dei fragili Stati nazionali del Sahel sotto il peso delle lotte intestine concentrate nei focolai beduini del deserto (la regione di Azawad nel Mali, Agadez nel Niger, e del Darfur nel Sudan), laddove si concentrano le ricchezze naturali che suscitano la competizione strategica fra le grandi potenze internazionali, cosa che non fa altro che complicare le problematiche e le sfide geopolitiche e di sicurezza per questi paesi. Non vi è dubbio che gli ultimi eventi libi-


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Il Colonnello al Foreign Office: pronto a essere un capo di Stato come Elisabetta II

Gheddafi voleva trattare e diventare un Re. Ma Cameron disse no di Martha Nunziata avid Cameron, il primo ministro britannico, spinse per l’azione militare in Libia, nonostante Gheddafi avesse informato segretamente Londra di essere disponibile a lasciare il potere in cambio di un ruolo formale nel suo paese, come quello della Regina di Inghilterra, Elisabetta II, secondo quanto rivela un’inchiesta del Guardian. Si legge nella versione online del quotidiano britannico che il Colonnello aveva inviato messaggi segreti al Foreign Office proponendo un processo politico mirato a trasformare il leader libico in un capo di stato svuotato dei suoi poteri. L’MI6, l’intelligence, invece, insieme ad alcuni ministri invitarono Cameron alla prudenza: «È meglio rimanere attaccati al diavolo che conosciamo». Ma il primo ministro britannico, come risposta, d’accordo con Sarkozy, decise di puntare forte sui ribelli in Libia, spinse per la risoluzione dell’Onu di autorizzare i raid per proteggere i civili. A questo punto la trattativa avviata in gran segreto dal Raìs era diventata irricevibile: nonostante Gheddafi avesse optato per una transizione pacifica. Ed il governo britannico aveva assicurato ai ribelli libici che avrebbe catturato in tempi brevi Gheddafi. Ma, invece, il Colonnello sembra essere scomparso nel nulla. Il Raìs ha fatto sapere di trovarsi ancora in territorio libico dove ha intenzione di morire «da martire». Ultima ipotesi anche quella prospettata dai ribelli: ovvero quella che sarebbe nascosto nei pressi della città di Gadames, nell’ovest della Libia; nel deserto al confine con l’Algeria, protetto dai Tuareg.

D

ci abbiano aggiunto nuove sfide a questo panorama già di per sé esplosivo. È inutile dire che il Sahel è strettamente legato ai focolai di tensione nel Corno d’Africa attraverso la disgregata area somala, che negli ultimi anni si è trasformata in un importante centro di operazioni di pirateria e terrorismo. In Somalia è sorto un secondo “Stato talebano” che a sua

Negli ultimi 5 anni l’area è diventata la patria del contrabbando e del terrorismo. Senza contare i giacimenti... volta potrebbe essere replicato in diverse zone del Sahel e del Sahara. Analogamente la “linea delle crisi” del Sahel è legata al focolaio di tensione yemenita attraverso il ponte del Corno d’Africa, e ciò porta alla formazione di un “triangolo di minacce”i cui lati si uniscono nell’Africa occidentale ed orientale, e nel sud-ovest della penisola araba. Senza dubbio lo scenario peggiore nel-

la regione sarebbe la disgregazione dell’unità yemenita, che attualmente è soggetta a minacce reali a seguito dell’incepparsi del meccanismo della rivoluzione pacifica e della comparsa di crescenti segnali di una militarizzazione della rivolta popolare e di forti richieste separatiste nel sud, mentre si teme la nascita di un terzo “Stato talebano” nel governatorato di Abyan (sulla costa del Mare Arabico), considerato uno dei centri attivi di al-Qaeda.

Sebbene lo scenario di una disintegrazione della Libia non sia uno scenario inevitabile, sussistono alcune ragioni di cautela derivanti dal fatto che alcune organizzazioni salafite estremiste hanno invitato a creare degli “emirati islamici” nella Libia orientale qualora dovesse ulteriormente inasprirsi la disputa politica che attualmente infuria tra i ribelli riguardo all’identità ed all’ispirazione religiosa dello Stato. Per altro verso le ripercussioni della secessione del Sud Sudan continuano a manifestarsi suscitando profonde preoccupazioni sul futuro di questa vasta entità statale la cui disgregazione ha posto difficili sfide al modello di Stato africano multietnico e multireligioso. Il presidente del Ciad, Idriss Deby, ha detto la verità quando ha affermato che la regola di rispettare i confini politici ereditati dal colonialismo ha costituito in passato l’unica garanzia per la sopravvivenza delle entità statali africane, in gran parte artificiali. Siccome questa regola è stata infranta in Sudan, d’ora in poi nulla impedisce il crollo delle entità statali africane, ed in primo luogo dei paesi del Sahel. Si può dunque concludere che il triangolo della prossima minaccia strategica sarà incentrato sulla regione del Sahel e del Sahara che si estende dall’Atlantico al Mar Rosso.

La Nato, intanto, ha accertato che sono scomparsi in Libia circa 10mila missili terra-aria che potrebbero essere finiti in mani sbagliate. I missili potrebbero costituire una seria minaccia per l’aviazione civile e potrebbero essere contrabbandati in altri Paesi e finire in mani sbagliate dal Kenya all’Afghanistan. E per questo che il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha chiesto al Cnt l’intervento di ispettori internazionali per seguire sul posto la questione. Altra preoccupazione è quella che sono state ritrovate nove tonnellate di proiettili d’artiglieria contenenti iprite, il letale “gas mostarda”, in un magazzino nei pressi di Sabha, nella

Libia sud occidentale. I proiettili sono stati forniti al regime di Muammar Gheddafi da un Paese asiatico. Tutte questioni che dovranno essere esaminate dagli ispettori internazionali. Ma intanto la Libia si prepara al cambiamento: Mustafa Jalil, il capo del Cnt, dopo diversi rinvii, ha annunciato la prossima formazione del nuovo governo provvisorio, in attesa dell’intera liberazione della Libia, prevedendo anche un dicastero «per i martiri e le vittime della guerra». Al momento, il premier del Cnt, Jibril, ha annunciato un rimpasto all’interno dell’ufficio esecutivo, che non tocca però né la sua persona né quella del ministro degli Esteri. A saltare è stato invece il vice presidente.

I ribelli, sempre ieri, hanno messo a segno un successo di grande importanza simbolica: dopo tre giorni di combattimenti i ribelli hanno espugnato Qasr Abou Hadi, il villaggio dove è nato l’ex leader libico Gheddafi. Si continua a combattere, invece, a Bani Walid e a Sirte. È scaduto, infatti, il cessate-il-fuoco di due giorni, che era stato proclamato dalle forze del Consiglio Nazionale Transitorio (Cnt), per consentire agli abitanti di Sirte di fuggire. La popolazione che è riuscita a scappate dice di non aver saputo nulla del termine di 48 ore concesso e che le sparatorie non si sono mai interrotte. Gli abitanti di Sirte sono circa settantamila, ma solo 10mila civili sono riusciti a fuggire dalla città e pazientemente attendono il loro turno, formando anche code chilometriche ai check point. Centinaia ammassati negli autobus, nei furgoni, nelle autovetture cariche di borse e valigie, in direzione Misurata. La Croce Rossa Internazionale ha rilevato una «situazione disperata» a Sirte, ed è stata l’unica ad essere autorizzata a entrare in città per portare cibo, medicine e aiuti agli abitanti, consegnando 300 kit per ferite da guerra e circa 150 sacchi per cadaveri. I residenti in fuga hanno dichiarato che la situazione nella città si è deteriorata al punto da ridurre al minimo le riserve di cibo ed esaurire le scorte di acqua e la fornitura energetica. E secondo Hichem Khadhraoui, inviato dell’ong riporta che la gente muore per la mancanza di cure mediche di base.


cultura

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Arriva in libreria “Grigioverde”, raccolta di scritti bellici firmati da uno dei più grandi giornalisti della storia d’Italia. Un uomo senza padroni

La guerra a colori Sopravvissuto a tre conflitti e alla prigionia, Ansaldo tratteggia con maestria il “secolo breve” di Massimo Tosti paragoni con il passato non sono quasi mai confortanti: ammesso che la partita sia alla pari, è la nostalgia a far pendere la bilancia a favore di chi non c’è più. I giornalisti di oggi dovrebbero compiere un atto di umiltà, ammettendo che le generazioni migliori se ne sono andate: non ci sono in circolazione i Montanelli, i Missiroli, gli Spadolini, i Barzini, i Buzzati, i Monelli, le Fallaci, i Longanesi, i Pannunzio di una volta. E nemmeno i Giovanni Ansaldo, un signore venuto da Genova, che attraversò tre guerre, uscì indenne dal regime fascista. Inizialmente avversato ferocemente (al punto da essere malmenato duramente dai facinorosi che facevano le poste ai giornalisti coraggiosi), poi affiancato, giusto in tempo per meritarsi prima l’internamento in un lager, e poi la prigione a Pisa, a Firenze e a Procida come collaborazionista, alla fine della Seconda guerra mondiale. Come bilancio finale, si può ben dire che non era stato servo di nessuno, ma aveva interpretato alla sua maniera la libertà di pensiero, e si era sempre reso utile ai lettori, con la sua straordinaria capacità di raccontare storie, traendone il succo profondo, quel che conferisce loro un significato. Qualità dei grandi giornalisti. Grigioverde è una raccolta di scritti sulle guerre (Le Lettere, pagine 134, euro 16,50) che aiuta a comprendere le pagine salienti del “secolo breve” che Ansaldo visse in prima persona. Le visse con quel tanto di cinismo e spregiudicatezza che sono caratteristiche essenziali dei cronisti di razza, o almeno di alcuni di essi. Giordano Bruno Guerri (che ha una qualche dimestichezza con la storia e con le biografie) lo ha raccontato così: «D’aspetto era un uomo qualunque, se non fosse stato

I

per le due file di denti lunghi e introflessi che richiamavano uno squalo. Squalo non era né mai si comportò da tale, ma capace di decisioni forti sì. Come giornalista fu uno dei migliori della prima metà del Novecento, ma gli mancavano l’estro di Longanesi (di cui fu molto amico e collaboratore) e la gioiosa scrittura di Montanelli, che tuttavia lo definì ‘forse il più grande giornalista d’ogni tempo, e non solo italiano’». La casa editrice Le Lettere ha il merito di aver riportato alla luce opere e scritti di Ansaldo: ha ripubblicato la sua biografia di Giolitti

smo mischiati insieme) legittima la nostalgia per i nostri antenati nel mestiere più criticabile del mondo.

I racconti di guerra di Ansaldo sono sorprendenti, mai banali, spesso carichi di provocazione. C’è, per esempio, una rievocazione del 24 maggio 1915, il giorno dell’entrata in guerra, quello in cui “il Piave mormorava calmo e placido ai passaggio dei primi fanti”, come fu celebrato da E. A. Mario nella più celebre delle canzoni patriottiche del tempo. «Un punto è da notarsi - scrisse Ansaldo molti anni più tardi - il 24 maggio, ad iniziare la guerra e a passare il confine fin dalla prima ora, ci furono pochi volontari. Questo compito toccò, per la massima parte, a soldati di leva, o richiamati. Tra gli ufficiali, v’erano molti vogliosi e volenterosi di guerra, ma non volontari in senso stretto. È che quelli che dovevano essere i volontari veri e propri non avevano fatto in tempo ad essere in prima linea, dove arrivarono soltanto in giugno, o più tardi, indignati del ritardo come di un sabotaggio burocratico e “disfattista”, e pur in tempo, in tempissimo, per buttare, in un balzo in avanti, la vita: proprio come un fiore». Gli esempi citati sono irriguardosi, come si conviene a un giornalista di razza: «Il primo e più famoso degli interventisti, il d’Annunzio, nella notte del 24 maggio perdeva una grande occasione della sua vita, trascorrendo le ore piccole all’Hòtel Regina a Roma. Così Mussolini e Corridoni, entrambi ancora a Milano, impigliati nelle difficoltà burocratiche per arruolarsi. Così Bissolati, che era al Deposito, così i deputati socialisti Bonomi e Canepa, che ave-

Le testimonianze sono sorprendenti, mai banali, spesso cariche di provocazione. C’è, per esempio, un 24 maggio 1915...

(intitolata “Il ministro della buona vita”, in polemica con Gaetano Salvemini, che l’aveva definito come “il ministro della malavita”), “L’eroe di Caprera”, “Gli anarchici della Belle Epoque”, “In viaggio con Ciano”, “L’ultimo Junker”. L’insieme di queste opere (storia e giornali-

Cartoline della Prima Guerra mondiale (collezione di Barbara Gentili Baldoni) A destra, la copertina di “Grigioverde” edito da “Le Lettere”. A sinistra l’autore, Giovanni Ansaldo, giornalista e testimone impareggiabile dell’epoca vano fatto domanda, ma erano ancora in attesa di chiamata; così tutte le decine di migliaia d’altri». Spietato è anche il resoconto riguardante la risolutezza dei comandi. «L’avanzata delle due Armate dell’Isonzo doveva essere la più celere possibile, e non lo fu. Questo, essenzialmente, per le preoccupazioni dei Comandi, che le strade fossero minate, che bocche di lupo e triboli e petardi fossero disseminati dovunque, che artiglierie pronte a fuochi di sorpresa fossero puntate da tutte le parti, e che le nostre truppe corressero rischio di saltare per aria. E le preoccupazioni dai Comandi di grande unità si erano diffuse fino ai minori, e già fin dal primo giorno, anzi fino dalla prima notte, furono frequenti i sospetti di agguati e di segnalazioni e di spionaggi temibilissimi, specie ad opera dei preti slavi, dall’alto dei campanili con segnalazioni luminose, o di dietro gli altari, con apparecchi telefonici clandestini. Fu questa, tra parentesi, la causa del fallimento dell’azione affidata alla divisione di cavalleria lanciata in avanti sul fronte della III Armata: quella divisione, per quanto composta di reggimenti eccellenti, diede risultati meschini. Essa passò il confine su due colonne, la mattina alle tre e mezzo; le pattuglie arrivarono soltanto verso le 13 a Cervignano, a pochi chilometri di distanza. Ci furono reparti di cavalleria raggiunti, nelle avanzate, da reparti di fanteria, che è tutto di-

re. Il temperamento del Comandante della divisione - Pirozzi - non era avventato come quello di un Murat».

E ancora: «Le mitragliatrici erano rare come gioielli; ce n’era una sezione di quattro per ogni reggimento di fanteria. E i fucilieri ne erano orgogliosi, come di cosa mirabile. Nel complesso tutti erano lieti di partecipare a quella grande avventura. Quell’agevole marcia iniziale pareva presagio di guerra facile e rapida, coronata di bandiere e di canti, e le colline del Carso erano ancora una linea azzurra all’orizzonte, là in fondo, e nessuno prevedeva che per più di due anni, su quei pendii tremendi, si sarebbe temprato e logorato, insieme, lo sforzo guerriero italiano». Il tono della narrazione potrebbe indurre a pensare che Ansaldo fosse un disfattista, che avesse risposto alla chiamata alle armi con lo scetticismo del non interventista, tirato per i capelli in un’avventura che non rico-


cultura

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utile alla restituzione, al termine del conflitto, dei beni confiscati. Era chiaro ed esplicito che la veridicità della denuncia sarebbe stata controllata dai secondini. Il tentativo di occultare preziosi o denaro avrebbe comportato conseguenze prevedibili, e nient’affatto leggere. Il buonsenso suggerì ad Ansaldo di denunciare «un orologio d’argento, ch’era tutto il mio bene, cui ero molto attaccato perché era l’orologio su cui si appuntarono le occhiate ansiose di mio padre, durante le sue ultime notti di vita mortal».

nosceva come propria. E invece no. Nella prefazione di Grigioverde Francesco Perfetti, direttore delle collane di Storia de Le Lettere, ricorda come Ansaldo (come tutti i giovani borghesi dell’epoca) riteneva che «l’intervento in guerra rappresentasse, o dovesse comunque rappresentare, la conclusione dell’epopea risorgimentale, il compimento dell’unità nazionale. I figli della borghesia italiana – soprattutto studenti universitari e giovani intellettuali raccolti attorno a circoli culturali irredentisti e nazionalistici di più o meno effimera vita e consistenza – la guerra la pensarono, la sentirono, la videro e la vissero in quei termini». In grigioverde, Ansaldo si comportò valorosamente come te-

stimonia il fatto che fu promosso prima tenente e poi capitano, ottenne anche due medaglie, e rimase invalido per il calcio di un mulo che gli frantumò un ginocchio. Ma, in grigiover-

Prima tenente e poi capitano, l’autore sul campo si comportò con eroismo: ottenne anche due medaglie de (annota ancora Perfetti) «dovette misurare la distanza fra ideale e realtà, soppesandola con la sua intelligenza ironica e critica e con la sua istintiva propensione verso un con-

servatorismo aristocratico percorso da sotterranee ma profonde venature scettiche». Nel 1935, Ansaldo (allora quarantenne) si arruolò volontario per partecipare alla guerra d’Etiopia. Fu destinato in Cirenaica. La proclamazione dell’Impero lo indusse a iscriversi al partito fascista, con una sterzata (scrisse una ventina di anni fa Marcello Staglieno, nell’introduzione a un altro libro di Ansaldo) che «non fu ispirata da bassi motivi», ma che si inserì in un moto di sostegno al regime sull’onda emozionale della vittoria in Africa. Era ancora fascista all’inizio del 1941, quando presentò una nuova domanda per partire volontario. Dirigeva allora il

quotidiano di Livorno (Il Telegrafo) e la sua domanda fu respinta. Era più utile al suo posto di lavoro che al fronte. Ma nel frattempo maturò la convinzione che l’Italia si stesse avviando sul precipizio.

Dopo il 25 luglio del 1943, si dimise dalla direzione del giornale e presentò una nuova domanda di arruolamento, che fu accolta venti giorni più tardi. Dopo l’8 settembre, rifiutatosi di aderire alla Repubblica Sociale, fu catturato dai tedeschi e spedito in campi di prigionia in Polonia e poi in Germania. L’ultimo dei ricordi di Ansaldo riguarda appunto la prigionia. Un ricordo tenero e ironico: si potrebbe persino definire pervaso di romanticismo. Dopo aver traversato mezza Europa, a bordo di un carro bestiame, con altri compagni di sventura, fu internato nel campo di concentramento tedesco di Tarnopol, quasi ai confini della Bucovica. Ai prigionieri fu chiesto se avessero indosso valuta o oggetti di valore. Poi gli furono consegnati dei formulari stampati da riempire con la denuncia particolareggiata di quanto avevano indosso. I formulari erano composti di una “madre” da consegnare ai responsabili del campo e di una figlia che, controfirmata dal comandante del campo, sarebbe stata riconsegnata loro, come documento

L’epilogo della storia merita di essere ricordato con le parole di Ansaldo. «Ricevetti in cambio la famosa figlia del formulario, con tanto di bollo con l’aquila hitleriana. La riposi nel portafoglio vuoto, ahimè, di valuta. Ogni tanto, durante quei due anni di tetra noia, quando facevo l’inventario delle mie cartuccelle, la tiravo fuori, sempre più logora nella piegatura, e la guardavo affettuosamente. Mi pareva di vedere, dietro ad essa, in trasparenza, il mio orologio d’argento e l’ombra del viso di mio padre. Si capisce che, a riaver questo, non ci pensavo più. Mai più davvero: più più più. Tutto ciò che nel frattempo avevo veduto e saputo mi rendeva sicuro che l’orologio era sprofondato nell’immane buco nero in cui stava precipitando tutta la Germania; e che quella ricevuta ne era come la fede di morte. Ed è con questo animo e questa rassegnazione, che l’ho riposta, ritornato a casa, tra le vecchie carte che sono come foglie morte. E guardandola fissa, ogni tanto, in trasparenza ... Ma ecco che ora apro il giornale e leggo questo comunicato dell’Ufficio stampa del Ministero della Difesa: “Si invitano i reduci della prigionia di guerra a presentare al più presto, e comunque non oltre il termine massimo del 31 dicembre prossimo (perché necessita di provvedere alla chiusura della gestione) la domanda per la restituzione di proprietà personali sequestrate all’atto o durante la cattura da parte delle potenze detentrici. Le domande dovranno contenere i dati necessari all’identificazione (paternità, classe, grado, numero di matricola avuto in prigionia, campo di concentramento). Le domande stesse dovranno essere corredate della ricevuta rilasciata dalle autorità militari del campo ... ”». «Resto strabiliato. Ma davvero, dunque, ora, la burocrazia militare italiana vuoI portarmi via anche l’ultima reliquia di ciò che mi portò già via la burocrazia militare tedesca? Ah, no! Ora non sono più prigioniero. Non cederò a queste lusinghe. La domanda non la farò. La ricevuta di Tarnopol, l’ultima reliquia del mio orologio, dell’orologio di mio padre, non me la lascerò portar via».



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