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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 8 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Governare pesa, ma è necessario»: solito comizio del Cavaliere prima della partenza per il week-end russo

Tanti auguri,amico criminale Berlusconi vola a festeggiare Putin. Ricordiamogli chi è il tiranno russo Più di cento giornalisti uccisi (a cominciare dalla Politkovskaja), i massacri in Cecenia, l’impunità per gli oligarchi e il carcere per Khodorkovsky: tutte cose che per il premier non contano niente CATTIVE COMPAGNIE

La denuncia di Yulia Latynina di “Novaja Gazeta”, considerata l’erede della reporter vittima del regime

Perchè non fa un salto a omaggiare anche Gheddafi?

«Che bel regalo cinque anni fa: l’assassinio della mia amica Anja!» «Il rapporto tra i due leader non dipende solo dagli affari, ma anche dal comune disprezzo per i diritti umani»

di Giancristiano Desiderio ladimir Putin compie 59 anni e Silvio Berlusconi che è un suo carissimo amico è andato a Pietroburgo per festeggiarlo. Il premier è lì in doppia veste: come amico e come presidente del neonato partito Forza Gnocca.

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Luisa Arezzo • pagina 3

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Mentre anche Fitch declassa il debito dell’Italia

Il premio a due liberiane e a un’attivista di Sana’a

Gioventù bruciata

La pace è donna

Draghi: «Oggi sono loro i veri poveri»

Nobel all’Africa e alla piazza dello Yemen

Un sistema alla fine

L’attenzione al mondo arabo

Il primato della società civile

Un omaggio alla Primavera

di Enrico Cisnetto

di Martha Nunziata

uesta volta non andrà come 17 anni fa, quando le parti sociali e la gran parte dei corpi intermedi rimasero indenni dallo tsunami che si portò via la Prima Repubblica. No, stavolta la fine della Seconda Repubblica – ormai prossima, qualunque sia la modalità del “the end”– segnerà la condanna non solo dei partiti (ammesso, e non concesso, che per quelli esistenti si possa usare tale definizione), ma anche di quell’enorme baraccone di soggetti, fatto di grandi apparati e di piccole sigle, che è la rappresentanza sociale. a pagina 7

l Nobel per la Pace 2011 è stato assegnato a tre donne: a Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, alla connazionale Leymah Gbowee e alla yemenita Tawakkol Barman. Un premio dato alle donne che lottano per la pace e per i diritti umani calpestati soprattutto in Asia e in Africa. Tre donne, attiviste dei movimenti per la democrazia, premiate, «per la loro lotta non violenta per la sicurezza delle donne e il loro diritto alla piena partecipazione al processo di costruzione della pace», ha scritto la Commissione nella motivazione. a pagina 24

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Il governatore rilancia l’emergenza crescita. Mentre il Pdl pensa di fare sviluppo con il condono: «Opzione possibile», per Cicchitto e Gasparri

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

Francesco Pacifico • pagina 6 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

196 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Il riconoscimento va a Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, all’avvocatessa Leymah Gbowee e a Tawakkol Karman Maurizio Stefanini • pagina 24

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il commento

prima pagina

pagina 2 • 8 ottobre 2011

Il fardello del potere e le cattive compagnie

Perché non fare un party anche con Gheddafi? di Giancristiano Desiderio ladimir Putin compie 59 anni e Silvio Berlusconi che è un suo carissimo amico è andato a Pietroburgo per festeggiarlo e partecipare al party. Il presidente del Consiglio è lì in doppia veste: come amico e come presidente del neonato partito Forza Gnocca. Putin, che ha uno stile pubblico e privato non dissimile da quello del Cavaliere, lo attendeva con ansia. Credeva che i tanti impegni e le preoccupazioni per una situazione internazionale delicata avrebbero potuto consigliare al capo del governo italiano di restare a Roma a lavorare. Ma il suo “amico Silvio”lo ha rassicurato al telefono: «Stai tranquillo,Vladimir, registro un messaggio per gli italiani e sono da te, sono o non sono il presidente di Forza Gnocca?».

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Così, mentre i telegiornali trasmettevano il video pubblicato sul sito dei Promotori della Libertà, il presidente del Consiglio era già sull’aereo in volo verso il “caro amico Putin”. Che cosa sapremo mai del party per festeggiare il presidente russo? Dobbiamo attendere le fotografie che forse scatterà Yana Lapikova che ha 26 anni: è bellissima, è un’ex modella in lingerie, è ex candidata al titolo di Miss Mosca ed è soprattutto la fotografa personale di Putin. Il suo curriculum come fotografa non è lunghissimo, data l’età; ma gli uomini del presidente hanno fatto sapere che «è bravissima e il suo passato da modella non ci interessa affatto». Anzi, Putin da un po’ di tempo, da quando si è separato dalla moglie Ljudmila, preferisce soprattutto frequentare le modelle, che siano o no fotografe. Il nostro presidente del Consiglio, dunque, avrà avuto i suoi buoni motivi a registrare in gran fretta il video per i Promotori della Libertà. Lo hanno visto scendere le scale di Palazzo Grazioli a passo di marcia. Il decreto per la crescita economica può attendere, ma il party di Putin no. Sono amici per davvero, soprattutto se c’è di mezzo Forza Gnocca. È un po’ come al tempo della giovinezza e il Cavaliere ripete i versi del Magnifico «quanta è bella giovinezza, che sì fugge tuttavia, chi vuol esser lieto, sia; del doman non v’è certezza». Lui, in verità, non è tanto giovane e quanto alla certezza del domani ha blindato tutto dicendo che il potere è un “fardello” di cui farebbe volentieri a meno ma a lui e al suo governo “non c’è alternativa” e quindi si sacrifica per tutti noi. Per ora, si sacrifica a Pietroburgo ma viene da chiedersi: perché a festa finita, Berlusconi non vola in Libia per un saluto all’altro suo amico, il colonnello Gheddafi? I veri amici si vedono nel momento del bisogno. E non solo: Nella sua ultima apparizione romana, Gheddafi volle per sé centinaia di donne, 700, alle quali spiegare la sua visione religiosa e politica della condizione umana: «Le donne sono le rose e gli uomini sono il grano, non possiamo trattarli allo stesso modo». Le donne del presidente Berlusconi - c’erano Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Stefania Prestigiacomo, Michela Brambilla, Daniela Santanché - assentirono. È anche possibile, visti gli ultimi avvenimenti internazionali in Libia, che Gheddafi sia un po’ arrabbiato con il suo amico Silvio, ma il presidente del Consiglio sa che in politica e negli affari di Stato l’amicizia viene prima di ogni altra cosa e se si presenterà da Gheddafi per riferirgli dei festeggiamenti russi di Vladimir senz’altro sarà accolto a braccia aperte. Poi, una volta conclusi questi viaggi di Stato, il presidente di Forza Gnocca potrà nuovamente prendere sulle spalle il “fardello”di Palazzo Chigi.

il fatto Dal primo vertice del 2001, una lunga sequela di incontri particolarmente cordiali

In ginocchio da te

Gas, petrolio e uranio, ma anche «lettoni» e ragazze: il rapporto tra Berlusconi e Putin è antico. Ma soprattutto molto, molto chiacchierato. A Washington di Enrico Singer Ferragosto ci aveva rinunciato. C’era troppa attenzione mediatica attorno ai tagli che il governo stava preparando per inseguire il pareggio di bilancio e i due giorni di vacanza nella dacia di Putin sul lago Valdaj – già organizzati in gran segreto fin nei minimi particolari – furono sacrificati. A malincuore. Ma alla festa di compleanno dell’amico Putin, no, non poteva mancare ed è partito. Per la verità, l’emergenza economica generale non è molto cambiata. Anzi, di mezzo ci sono stati un paio di downgrading della sostenibilità del debito dell’Italia, si comincia a parlare di una manovra aggiuntiva e, sul fronte politico, l’ipotesi più suggestiva – ancorché lanciata, naturalmente, «per scherzo» – sembra quella di cambiare il nome del Pdl in Forza gnocca. Di fronte ai 59 anni dell’uomo forte del Cremlino, però, tutte le priorità finiscono in soffitta. Silvio Berlusconi è andato a festeggiare a San Pietroburgo il leader russo nella sua residenza privata. E questo conferma, ancora una volta, quanto sia speciale il rapporto tra Berlusconi e Putin che è stato costruito con un numero-record di incontri, tra ufficiali e informali, e con un lungo elenco di doni tra i quali spicca il famoso “lettone” regalato dal leader russo e finito in tutte le cronache del bunga bunga. Un rapporto speciale che passa anche attraverso reciproci scambi di dichiarazioni d’appoggio perché se, in uno dei rapporti resi pubblici da Wikileaks, Berlusconi è dipinto dalla diplomazia americana come il «portavoce di Putin in Europa», il premier russo – appena due settimane fa – ha difeso pubblicamente l’amico Silvio definendolo uno «statista responsabile» e liquidando tutte le critiche a proposito del

A

suo «particolare rapporto con il gentil sesso» come «rimproveri che nascono dall’invidia».

La festa di compleanno, così, è l’ultimo episodio di una frequentazione che dura ormai da più di dieci anni tra nuotate nel mare della Sardegna, gite in idrovolante (sempre sul lago Valdaj nel 2010) e cene a base di vodka e caviale a Mosca, San Pietroburgo e Soci immortalate da centinaia di foto (quella più curiosa li vede coperti di pellicce e colbacchi). Nel 2001, con tre incontri, s’instaura subito un buon feeling. Nel 2003, dopo un colloquio a Mosca, Berlusconi e Putin sono già grandi amici e consumano un aperitivo al gelo (23 gradi sotto zero) tra i pini e le betulle della foresta di Zavidovo, la tenuta di caccia presidenziale che tanto piaceva a Krusciov e a Breznev che andavano lì a sparare a cervi e cinghiali. Pochi mesi dopo, dal 29 al 31 agosto, Berlusconi ricambia e invita Putin in Costa Smeralda. L’allora presidente russo viene scarrozzato su vetturette elettriche da golf ad ammirare le meraviglie di Villa Certosa: dal teatro greco, al vulcano artificiale, al giardino dei mille cactus. Anche Putin, però, non scherza e porta con sé tre gioielli della flotta russa: un incrociatore lanciamissili, un cacciatorpediniere e una nave appoggio. In «visita di cortesia» alla Marina militare italiana, dice Mosca, ma più probabilmente in missione di sicurezza. A fine agosto del 2005 tutti a Soci. A metà aprile 2008 tornano a vedersi in Sardegna. Berlusconi riceve Putin nella sua residenza estiva a Porto Rotondo (il presidente russo è il primo ospite internazionale a salutarlo dopo la rielezione) e, durante la conferenza stampa, inciampa in una gaffe, una del-


l’intervista

«Noi non scorderemo mai Anja» Yulia Latynina: «Non solo il bunga bunga, i due hanno la stessa visione del potere» di Luisa Arezzo o, il bunga bunga party a Mosca mi era sfuggito!» esordisce fra lo sbalordito e il divertitoYulia Latynina, penna d’eccezione di Novaya Gazeta e considerata per i suoi articoli sulla corruzione del potere in Russia e la sua battaglia per la libertà la vera erede di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa esattamente cinque anni fa nell’ascensore di casa sua, forse per fare un regalo proprio allo “zar” di cui era - a livello mediatico - la principale spina nel fianco. Insignita di vari premi internazionali per le sue indagini, tra cui nel 2007 quello intitolato a Maria Grazia Cutuli (l’inviata del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan nel 2001), e nel 2008 il Freedom Defenders Award consegnatole da Condoleeza Rice, Latynina è nata a Mosca in una famiglia di scrittori ed è autrice di più di venti libri, molti ambientati in Cecenia, come Non è tempo di gloria.

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Putin non sono soltanto amici, ma due facce della stessa medaglia, quella che vuole governare senza democrazia. Certo, la storia italiana e la democrazia italiana sono molto diverse dalle nostre, diciamo pure che voi una democrazia l’avete avuta e noi ancora no. Ma non c’è dubbio che i due condividano un stesso sogno di governo». Yulia Latynina è molto chiara: «Noi sperimentiamo questa finta democrazia - perché come tale viene venduta da molti anni. L’Italia sembra essere stata sopraffatta da un nuovo modello di governo in cui non si pensava potesse cadere. La vera differenza fra me e lei continua la Latynina - è che lei adesso potrà scrivere un articolo non esattamente favorevole a Mr. Berlusconi e io invece nel mio paese non potrò fare altrettanto con Mr. Putin».

Scrittrice e giornalista, Yulia, 44 anni ben portati, è una delle poche voci d’opposizione rimaste nel Paese

È appena atterrata a Mosca, ed è già tarda sera quando la raggiungiamo al telefono, così si era persa le ultime novità. «Sia chiaro - dice - Putin può festeggiare con chi desidera, o meglio: non mi interessa poi tanto con chi festeggia. Di tutti i soprusi di cui si macchia, di tutte le critiche che gli possono e gli dovrebbero essere mosse, quella di fare festini in bunga bunga style è la più superflua». Su questo non ci piove, ma non è il festino a essere messo sotto inchiesta, quanto una discutibile amicizia. «Ah, su questo non c’è davvero dubbio - sbotta Yulia Latynina - Silvio Berlusconi e Vladimir

Come dire: l’appuntamento del 2012 è soltanto formale, la sostanza dice ben altro, e cioé che in tutti questi anni ha regolarmente svolto le funzioni che avrebbero dovuto essere di Medvedev.

così, come se fosse un caso ipotetico, fa un po’ impressione.Yulia non è lontana dal vero e forse non può nemmeno immaginare quanto si sia avvicinata alla realtà della situazione italiana.

«In Russia non esiste la democrazia, nulla cambierà. Putin è salito al potere grazie ad un patto di onore con un piccolo gruppo di potenti e adesso è diventato il loro leader indiscusso. Ma il potere è come dire - determinato a tavolino - ecco perché in Russia di tutto si può parlare fuorché di democrazia. Non solo: una volta salito al potere, egli ha condiviso con i suoi amici i posti chiave. È come se Berlusconi avesse assegnato ai suoi fedelissimi gli incarichi più importanti, ministeri e banche, tanto per cominciare». Sentirselo dire

Ma Yulia non è solo una testimone della difficile situazione russa, è anche una strenua combattente alla ricerca della verità sulla morte della sua collega e amica Anna Politkoskaja. «Non eravamo particolarmente amiche - dice con una voce un pochino più sottile - eravamo delle buone colleghe». Resta però il fatto che lei è stata l’unica penna di peso a denunciare in maniera chiara e netta il mandante dell’omicidio: «È sicuramente partito da persone vicine all’ex presidente della Cecenia, Alu Alkhanov, e al suo successore Kadyrov. E Alkhanov non è stato né interrogato, né indagato». Figuriamoci Kadyrov... Dopo i recenti omicidi, molti colleghi, per paura, preferiscono tacere, o moderare i toni, ma Yulia, 44 anni ben portati, è una delle poche voci d’opposizione rimaste in Russia che continuano a criticare lo strapotere di Putin.

Una considerazione amarissima, che la lunga lista di giornalisti uccisi in questi anni a Mosca (vedi pagina 4) rende ancora più lugubre. Ma che non ci fa certo trarre un sospiro di sollievo, anzi. Rattrista ancor di più immaginare il nostro Premier alla Corte di uno “Zar”implicato - mai direttamente, per carità, ma attraverso amici e amici degli amici - in molti casi irrisolti. Una situazione destinata a continuare ancora, visto che nel 2012 ha già annunciato di volersi candidare al Cremlino scambiandosi la poltrona con il suo amico/nemico di sempre: Vladimir Putin. «La correggo - dice la Latynina - Putin non diventerà presidente. È sempre stato presidente».

le più clamorose tra le sue tante. Le domande della stampa si susseguono rapidamente finché una giornalista russa della Nezavisimaya Gazeta si rivolge al capo del Cremlino chiedendo notizie del suo presunto flirt con l’ex ginnasta e deputata Alina Kabaeva. Il leader russo smentisce seccamente: «Non c’è una parola di verità». E Berlusconi mima con le mani un mitra e indirizza una raffica virtuale verso la cronista. Putin sorride e annuisce. Ma è anche molto imbarazzato perché di giornalisti uccisi davvero – come Anna Politkovskaja che lavorava in quello stesso giornale – in Russia ce ne sono stati parecchi. Nell’ottobre del 2009 – allora il compleanno di Putin era passato da qualche giorno – si svolge un vertice a sorpresa nella dacia presidenziale sul lago Valdaj. La visita viene definita «privatissima» dall’entourage del premier, ma quello che doveva essere un viaggio informale si trasforma in un vero e proprio bilaterale, con tanto di colloqui con amministratori e dirigenti di azienda, numerosi dossier delicati sul tavolo e persino una teleconferenza con il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, sul progetto del gasdotto South Stream che è quello che interessa l’Italia e, in particolare, l’Eni. Anche durante questa visita – che complessivamente dura tre giorni – c’è una parte ludica. Putin riporta Berlusconi a San Pietroburgo alla guida di un idrovolante Be-200, fiore all’occhiello dell’industria aeronautica russa. Fa freddo, c’è una bufera di neve e Putin regala all’amico Silvio un giubbotto militare. Nel gennaio del 2010, qualche settimana dopo l’aggressione subita a Milano in piazza Duomo il

13 dicembre del 2009, Berlusconi farà la sua prima uscita pubblica in un centro commerciale indossando proprio quel giubbotto della Marina russa.

Ma la missione segreta dell’ottobre 2009 scatena anche polemiche. Francesco Rutelli, che era a capo del Copasir, definisce «incredibile» che Berlusconi partecipi a «un vertice non pubblicato sul sito di Palazzo Chigi, che dobbiamo apprenderlo da San Pietroburgo e che addirittura cancelli la colazione ufficiale con il re di Giordania accampando un torcicollo e pochi minuti dopo parta per un viaggio in Russia». Un anno dopo, nel

In molti la considerano l’unica vera erede di Anna. «Non mi sento l’erede di nessuno, e men che mai di Anna», dice subito la Latynina. Però anche lei non ha paura, eppure sarebbe lecito avrene, no? «Qui non sai mai quello che ti può succedere, ma sono convinta che il Cremlino non abbia bisogno di una nuova Politkovskaja. Anche se in Russia è difficile fare previsioni». più fiducia in lui, che è un tycoon, piuttosto che nei politici europei… L’ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il suo governo crede che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti sui gasdotti costruiti da Gazprom insieme all’Eni…».

I contatti diretti, intanto, continuano. Nell’aprile del 2010, Berlusconi e Putin si ritrovano in Italia. Il leader russo viene ricevuto a Villa Gernetto di Lesmo, acquistata dal premier che intende farne la sede di una Università del pensiero liberale. Nella conferenza stampa finale Berlusconi annuncia che Putin «sarà il primo professore» di questa scuola di formazione dei quadri del Popolo della libertà di cui, per la verità, non si sono più avute notizie certe. Ma il succo dei colloqui a Villa Gernetto, ancora una volta, è il tema dell’energia. Il gas (le importazioni dalla Russia coprono il 30 per cento del fabbisogno italiano), il petrolio (il 18 per cento del totale) e anche il nucleare. Ma anche in quest’ultima apparizione di Putin in Italia c’è un aspetto segreto e incontrollabile che coinvolge addirittura Ruby Rubacuori. Secondo le carte e le intercettazioni del tribunale di Milano la giovane rimase ad Arcore tra il 24 al 26 aprile mentre Berlusconi svolgeva «alcuni compiti istituzionali». Il 24 sera incontrò Giorgio Napolitano alla Scala affermando di essere «radioso», mentre il giorno dopo ricevette Vladimir Putin invitandolo ad una «cena informale» ad Arcore. Stando ai tabulati, anche Ruby sarebbe stata a Villa San Martino con Berlusconi e Putin al tavolo di quella cena. E a poche stanze dal famoso “lettone”.

Battute di caccia e viaggi in idrovolante, poi scambi di caviale e cenette private: ma dietro all’apparente simpatia personale ci sono interessi molto solidi, che hanno poco a che spartire con i problemi generali dei due Stati novembre del 2010, arrivano le rivelazioni di Wikileaks sui rapporti dell’ambasciata americana a Roma che affrontano proprio il tema delle relazioni speciali tra Berlusconi e Putin. Eccone alcuni stralci. «Putin ha avuto più incontri bilaterali col premier italiano che con qualsiasi altro leader mondiale… È stato il primo a incontrare Berlusconi dopo le elezioni del 2008, andando a trovarlo in Sardegna addirittura prima che giurasse… Durante la crisi della Georgia, Berlusconi ha parlato con Putin ogni giorno per una settimana… La base di questa amicizia è difficile da stabilire ma molti interlocutori ci hanno detto che Berlusconi crede che Putin abbia


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l’approfondimento

Il compleanno dell’uomo forte di Mosca è anche il quinto anniversario dell’omicidio di Anja Politkovskaya

La Spoon River dello Zar Nell’era di Vladimir fare il giornalista è un lavoro pericoloso. Dal 1999 a oggi, almeno centodieci reporter e operatori tv sono stati uccisi. E un solo caso è stato risolto (ma il killer è già libero). Viaggio nel Paese senza libertà di stampa di Laura Giannone ono almeno 110 - fra giornalisti, operatori Tv, blogger e avvocati dediti alla ricerca della verità su richiesta delle famiglie delle vittime - le persone uccise o morte in maniera sospetta (suicidi, incidenti d’auto quando non d’aereo, avvelenamento) da quando Putin è salito al potere (dicembre 1999). Una cifra che mette i brividi, soprattutto se confrontata con i casi finora risolti dalla polizia: uno. Un’amara verità figlia di indagini mai cominciate, grazie alla formula evita-grane immaginata dai detective russi e che classifica questi delitti come connessi «alla vita privata del giornalista e non alla professione». Una dizione, secondo l’associazione internazionale “Comitato per proteggere i giornalisti” (che classifica la Russia, dopo l’Iraq e l’Algeria, il terzo Paese al mondo più pericoloso per i reporter), creata dai superiori per evitare di disturbare «qualcuno troppo in alto». Madrina di questa lugubre lista di delitti

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irrisolti è Anna Politkovskaja, di cui si celebra - nello stesso giorno del compleanno di Putin (la data non è casuale: secondo i colleghi di Novaya Gazeta l’omicidio è stato un vero e proprio regalo per Vladimir) la quinta ricorrenza della morte. Quando venne freddata a colpi di pistola nel vano ascensore di casa sua, migliaia di telegrammi provenienti da ogni parte del mondo inondarono la redazione del suo giornale. Migliaia, firmati da nomi altisonanti e semplici cittadini, che in Anna vedevano un simbolo della liebrtà di stampa.

Nessuna autorità, invece, inviò una parola di condoglianze alla famiglia e ai colleghi di Novaya Gazeta. E Putin taceva. Soltanto dopo tre giorni, messo alle strette da un giornalista tedesco a Dresda che gli chiese se l’omicidio di Anna dovesse essere interpretato come un macabro regalo per il suo compleanno, l’allora presidente fu costretto a parlare. E lo fece

rispondendo freddamente che «l’influenza di Anna nella vita politica in Russia era insignificante». La Politkovskaja era il terzo giornalista ucciso fra i redattori di Novaya Gazeta. Prima di lei, a maggio del 2000, Igor Dominkov fu aggredito da sconosciuti e morì dopo un mese. Secondo il direttore della testata, Dmitry Muratov, Dominkov venne scambiato per Oleg Sultanov, che a quell’epoca lavorava a una serie di articoli sul gigante petrolifero

Paul Klebnikov era il direttore di Forbes Russia: morì la sera del 9 luglio 2004

Lukoil e viveva nello stesso palazzo di Dominkov. Nel luglio del 2003 morì in modo misterioso Yuri Shchekochikhin, giornalista e deputato che si occupava di corruzione. Yuri morì, così almeno fu detto ufficialmente, in seguito a una violenta reazione allergica, versione che però non convinse affatto i suoi colleghi di Novaya Gazeta: il giornalista aveva infatti presentato sintomi simili a quelli che manifesterà nel novembredel 2006 l’ex tenente co-

lonnello dell’Fsb Aleksander Litvinenko, avvelenato con del polonio-210. Nel gennaio del 2009 «Novaya Gazeta» ha perso il suo quarto giornalista: Anastasia Baburova.

La giovane venticinquenne che collaborava con il giornale fu uccisa assieme a Stanislav Markelov (trentaquattro anni), noto avvocato difensore dei diritti umani, in pieno giorno e in una delle strade più affollate del centro di Mosca. Markelov usciva dalla sede del Centro stampa indipendente di via Prechistenka, usato dai rappresentanti dell’opposizione e dagli attivisti per i diritti umani per le loro conferenze stampa. Aveva appena annunciato un ricorso contro la scarcerazione anticipata dell’ex colonnello dell’esercito Yuri Budanov, condannato a dieci anni nel luglio del 2005 per aver violentato e strangolato cinque anni prima Elza Kungayeva, una ragazza cecena (di cui lui rappresentava la famiglia). Fra gli altri omi-


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La celebre attrice porta a teatro «Donna non rieducabile», monologo dedicato alla cronista

«Una lezione di coraggio. Quello che oggi ci manca»

Ottavia Piccolo: «Lei ha sempre puntato sull’impegno e sulla ludicidità. Per noi è un esempio: ecco perché piace tanto al pubblico italiano» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Sono passati cinque anni dalla morte di Anna Politkovskaja, ma il suo coraggio e la sua onestà continuano a vivere dopo di lei. Pur di raccontare ciò che ha visto, la giornalista russa ha sacrificato la sua vita. In un momento tanto difficile per l’informazione, la sua figura ci ricorda che il diritto di sapere dipende dal dovere di informare. Tutti noi abbiamo ancora tanto bisogno di Anna. È un simbolo che deve aiutarci a non rassegnarci». Regina del teatro italiano, Ottavia Piccolo calca da qualche anno le scene di tutta Italia con l’intensa intepretazione di un monologo di successo (meritatissimo, e incoronato da ben tre premi Enriquez) dedicato alla giornalista della Novaja Gazeta. Scritto da Stefano Massini, per la regia di Silvano Piccardi e le musiche a cura dell’arpista Floraleda Sacchi, Donna non rieducabile è al Teatro India di Roma fino al 9 ottobre. E nonostante veleggi ormai verso le cento repliche, sarà ancora a Perugia, Bergamo, Cagliari e molte altre province d’Italia. Ottavia, che cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di raccontare Anna Politkovskaja? Nel tempo di internet l’informazione è in apparenza sempre più libera e sfuggente alle maglie del potere. Ma anche se in parte è così, è cresciuta molto anche la possibilità di manovrarla ad arte. Raccontare ciò che si vede senza sconti, senza paura delle conseguenze proprio come faceva Anna Politkovskaja, è stato e resta pericoloso ancora oggi. E qualche volta, come sappiamo bene anche in Italia, ci si rimette la pelle. “Donna non rieducata”si compone di alcuni estratti della sua attività giornalistica. Ma che cosa ti ha colpito di lei in quanto donna? La sua apparente tranquillità. Una specie di quieta ostinazione che la portava in terre pericolose in cui sapeva benissimo di essere una presenza scomoda. Sapeva anche di non poter fare altrimenti. La forza della verità, la voglia di raccontarla, l’ha indotta a non tirarsi mai indietro. Non solo a parole, ma anche con i fatti. Ha salvato molte vite senza mai un accenno autoreferenziale. Anche lei, come Perlasca, ha salvato vite umane pensando che al suo posto tutti avrebbero fatto la stessa cosa. Nonostante gli orrori di cui fu testimone, dai desaparecidos ceceni alle torture, Anna aveva ancora grande fiducia nell’umanità. Non si era mai data arie. Era una donna riservata ma caparbia.Viveva il suo mestiere come una specie di obbligo. Era nata a New York, aveva passaporto americano e un nome ormai consolidato che le avrebbe

permesso di condurre una vita serena. Eppure continuò a considerarsi una persona normale, che si limitava a fare il suo mestiere. Quanto bastava perché il Cremlino la definisse iuna “donna non rieducabile”.

«Il nostro Paese ha sete di verità. Anja è diventata un simbolo che ci aiuta a non rassegnarci» Ciò che addolora è che dai suoi scritti non traluce mai accanimento ideologico. Raccontava ciò che vedeva con rigore e lucidità perché non ancorava la sua libertà di pensiero al pregiudizio. La forza dei suoi scritti è tutta nei fatti che racconta.

Che cosa direbbe di quello che accade oggi, se fosse ancora viva? Devo rivelare una cosa. Sua figlia Vera mi ha confessato di recente che aveva strappato alla madre una promessa. Vera si fece giurare che non appena fosse rimasta incinta, Anna avrebbe lasciato la Cecenia per starle vicina. Non ci fu il tempo. Quando Vera seppe di aspettare un figlio, la promessa di Anna fu spezzata da due colpi di pistola. Da quel giorno a oggi le indagini hanno fatto qualche passo in avanti seppur tra grandi ostacoli. Sapremo mai la verità? Credo che la verità sulla sua morte resterà insoluta, come insolute restano tante vicende oscure che ancora oggi interrogano l’Italia, da Piazza Fontana a Ustica. Forse è questa inquietudine, questo senso vischioso di mistero, che spiega la grande attenzione che l’opinione pubblica italiana ha riservato alla giornalista russa. Da noi i segreti di Stato sono una specie di format. Ma quando smetti i panni di attrice, e diventi anche tu un po’ spettatrice, che cosa vedi negli occhi di chi ha sentito il monologo? Molti vogliono conoscere altri dettagli, chiedono chiarimenti, cercano risposte al loro stupore o testimoniano il loro rammarico. Mi accorgo che gli italiani hanno tanto bisogno di verità. La gente ha bisogno di sapere. “Bisogno”. Una parola che assomiglia a un doppio schiaffo. A chi dice che “la cultura non si mangia”e che gli italiani vogliono solo le veline perché tanto la maggior parte ha la quinta elementare. L’attenzione ricevuta da “Donna non rieducabile” dice che il teatro civile, come la tv cosiddetta impegnata, è vivo e coinvolge persone di ogni genere ed estrazione sociale. La gente si accorge di aver bisogno di piccole schegge di verità da fare stridere nei placidi ingranaggi della quotidianità. Eppure qualcuno maligna. Maligna anche tu. Qualche solone dice che raccontare vicende come quelle della Politkovskaja, significhi mercificare la cultura. Io preferisco la gente che sgomita in piazza per ascoltare un premio Nobel, piuttosto che quella che si scalmana per i provini del Grande Fratello. La Politkovskaja e il Grande Fratello, due modi di raccontare la realtà? C’è un raccontare, come quello di Anna, che equivale ad agire. È un non lasciare che le cose, o parte delle cose, accadano.

cidi più clamorosi, quello di Ivan Safronov, giornalista di Kommersant. Era il 2 marzo 2007 quando venne trovato morto nel cortile sotto casa. La milizia disse subito che si trattava di un suicidio, il giornalista si sarebbe buttato dalla finestra del quinto piano, ma la cosa lasciò tutti – colleghi e parenti – increduli. Prima del presunto suicidio, Safronov era andato a fare la spesa al supermercato: la busta della spesa con le arance, lo yogurt e il formaggio era stata trovata sul pianerottolo tra il quarto piano, dove viveva, e il quinto, da dove si sarebbe buttato.

Il 31 agosto 2008 fu ucciso il giornalista Magomed Yevloyev,che nel suo sito www.ingushetiya.ru denunciava la dilagante corruzione in Inguscezia, amministrata dall’ex generale del Kgb Murat Zyazikov. Yevloyev e Zyazikov si erano incontrati in aereo e avevano avuto una discussione. Una volta atterrato in Inguscezia, il giornalista fu arrestato dalle guardie del presidente, fatto salire in macchina e freddato. L’ufficiale di polizia che l’ha ucciso è stato condannato per omicidio non colposo a soli due anni di carcere leggero, ed è già in libertà. A novembre del 2009, con modalità quasi identiche a quelle del caso Safronov, la giornalista Olga Kotovskaya, dell’enclave russa di Kaliningrad, morì precipitando dal quattordicesimo piano di un palazzo. La sua morte fu in un primo tempo rubricata come suicidio, ma una settimana dopo gli investigatori cominciarono a seguire la pista di un possibile omicidio. Il movente non mancava: la Kotovskaya era “caduta” dalla finestra proprio il giorno successivo alla sua vittoria in tribunale dopo una lunga lotta giudiziaria per riguadagnare il controllo del canale regionale Kaskad, che aveva fondato negli anni Novanta, famoso per la sua obiettività e per le critiche alle autorità locali. Questi sono soltanto alcuni dei casi più clamorosi, conclusi con la morte di stimati giornalisti, ma ogni anno decine di cronisti sono aggrediti, picchiati o minacciati a causa della professione che svolgono.Tutte queste morti e violenze sono ormai talmente comuni nell’era di Putin che le notizie non hanno più presa sull’opinione pubblica, anche perché quasi completamente ignorate dai media nazionali. In televisione questo genere di notizie non occupa mai più di un minuto di telegiornale e sulla carta stampata è relegato tra i trafiletti di terza pagina. Perché sotto Putin televisione e giornali hanno imparato a captare molto bene gli umori del potere e sanno per esempio che cercare il motivo per cui un reporter è stato ucciso non è cosa gradita al Cremlino.


Nuovo declassamento del debito italiano: Fitch porta il rating da AA- a A+. «La crisi dell’Eurozona ha reso Roma più instabile»

Gioventù bruciata

Lezione di Draghi sui dissesti della società italiana: «Subito riforme per la crescita. Altrimenti i giovani sono persi definitivamente» di Francesco Pacifico

ROMA. «La crescita economica non può fare a meno dei giovani né i giovani della crescita. Si stanno sprecando risorse preziose; stiamo mettendo a repentaglio non solo il loro futuro ma quello del Paese intero». Nel giorno in cui fitch abbassa il rating sul debito italiano (da AA- a A+), Il Tesoro apre un’apposita casella di mail per ricevere mail sulla valorizzazione del patrimonio pubblico; il ministro Fitto ammette che «sarebbe sbagliato escludere a priori» un condono e Mario Draghi indica al governo le priorità per il decreto sviluppo. La Commissione europea si dice «non preoccupata» per l’ennesimo slittamento del 20 ottobre. Il governatore uscente di Bankitalia invece chiarisce che è un’occasione irripetibile non soltanto per le sorti del governo. «La priorità assoluta», ha detto partecipando al seminario organizzato all’abbazia di Spineto dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, «è quella di uscire dalla stagnazione riavviando lo sviluppo con misure strutturali». Per aiutare i padri e soprattutto i figli «occorre rimuovere una serie di vincoli e restrizioni alla concorrenza e all’attività eco-

nomica. Definire un più favorevole contesto istituzionale per l’attività delle imprese, promuovere una maggiore accumulazione di capitale fisico e di capitale umano».

Una linea ambiziosa, troppo per un esecutivo ancora incerto sul da farsi. Nelle stesse ore a Roma, ospiti del coordinatore Paolo Romani, al ministro dello Sviluppo si è tenuta la prima riunione del tavolo che dovrebbe rimettere in moto il Paese: con lui Renato Brunetta, Altero Matteoli, il sottosegretario dell’Economia, Luigi Casero al posto di Giulio Tremonti e tanti esperti di politiche di sviluppo. Mentre Franco Bernabé gli faceva sapere di non occuparsi più di banda larga – «Il tavolo governativo sulla rete potrebbe rischiare di diventare come un condominio litigioso» – il ministro dello Sviluppo prometteva sia una reale e ampia collegialità sia «una piattaforma a costo zero». Ed è difficile aspettarsi qualcosa di diverso se – come si è inteso nel dibattito tra ministri ed economisti – il secondo partito della coalizione non vuole toccare le pensioni, i dicasteri non vogliono cedere un altro euro dopo due

manovra lacrime e sangue e nuove tasse finirebbero soltanto per deprimerla l’economia. Gli esperti convocati da Romani avrebbero fatto notare che i condoni si traducono sul lungo periodo in aggravi burocratici, generando altri costi, quindi più disavanzo. Di conseguenza non resta che concentrarsi su un piano di dismissioni del patrimonio pubblico – ma gli effetti non sono immediati – e sulle liberalizzazioni e le semplificazioni, alle quali stanno lavorando Brunetta e Calderoli e che hanno il pregio di essere a costo zero. L’agenda Draghi invece prevede misure per «favorire i processi di riallocazione dei lavoratori tra imprese e settori per cogliere più prontamente le opportunità di crescita sui mercati globali; ridurre il grado di segmentazione del mercato del lavoro, oggi diviso in settori protetti e non protetti, intervenendo sulla regolamentazione delle diverse tipologie contrattuali ed estendendo la copertura degli istituti assicurativi».

Un insieme di interventi che – uniti a una vera riforma dell’università – avrebbero ripercussioni soprattutto sulle «oppor-

tunità economiche e professionali dei giovani. Rimuovere gli ostacoli all’attività economica riducendo i costi di apertura e di gestione delle nuove imprese promuovono anzitutto la partecipazione economica delle nuove generazioni». Davanti ai parlamentari radunatisi nel Senese, Draghi ha ricordato che «allentare le diffi-

coltà di accesso al capitale di rischio, promuovendo lo sviluppo delle attività di venture capital significa in primo luogo aiutare la nascita e sostenere l’espansione delle imprese giovani a più alto potenziale innova-

tivo. Ridurre la segmentazione del mercato del lavoro consente di riequilibrare le opportunità occupazionali e le prospettive di reddito, oggi fortemente sbilanciate a favore delle generazioni più anziane.Valorizzare le capacità e le competenze dei nostri studenti, riducendo il divario con i coetanei dei principali Paesi europei, migliora la competitività e la capacità propulsiva delle imprese che li occuperanno, o che da essi verranno fondate». Più in generale per il governatore «è necessario favorire i processi di riallocazione dei lavoratori tra imprese e settori per cogliere più prontamente le opportunità di crescita sui mercati globali; occorre ridurre il grado di segmentazione del mercato del lavoro, oggi diviso in settori protetti e non protetti, intervenendo sulla regolamentazione delle diverse tipologie contrattuali ed estendendo la copertura degli istituti assicurativi. È indispensabile proseguire nell’azione di riforma del settore dell’istruzione per incrementare lo stock di capitale umano, oggi inferiore in quantità e qualità rispetto ai paesi con cui competiamo sui mercati.


la crisi italiana

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Il primato della società civile

A questo punto, solo una mobilitazione “straordinaria” può battere il modello-Berlusconi di Enrico Cisnetto uesta volta non andrà come 17 anni fa, quando le parti sociali e la gran parte dei corpi intermedi rimasero indenni dallo tsunami che si portò via la Prima Repubblica. No, stavolta la fine della Seconda Repubblica – ormai prossima, qualunque sia la modalità del “the end” – segnerà la condanna non solo dei partiti (ammesso, e non concesso, che per quelli esistenti si possa usare tale definizione), ma anche di quell’enorme baraccone di soggetti, fatto di grandi apparati e di piccole e minuscole sigle, che è la rappresentanza sociale. La quale in questi anni si è tanto più gonfiata dimensionalmente e tanto più resa autoreferenziale quanto più ha perso rappresentatività, ruolo, potere reale. Per questo non stupiscono i mal di pancia di Confindustria, che dopo un primo regolamento di conti dentro l’establishment – la giubilazione di Geronzi da Generali – sembra essere diventata il parafulmine su cui si scaricano tutte le (inevitabili) tensioni del capitalismo italiano. In attesa che, con un crescendo rossiniano, il turbinio dell’uragano torni nelle (sempre meno) ovattate stanze dei “salotti buoni”, peraltro ormai ridotti a tinelli con uso di cucina, e metta in discussione gli equilibri in Mediobanca, e dunque anche in Generali, in Rcs, nelle banche, nelle società pubbliche e in quelle non del tutto ex pubbliche.

Q

Ma non tirino un sospiro di sollievo né le altre associazioni padronali, né i sindacati e neppure tutti gli altri soggetti che formano il (fin troppo) vasto esercito delle varie forme di rappresentanza degli interessi. Perché al di là della cronaca, il vero motivo per cui cadrà l’attuale regime politico sta nel combinato disposto tra la crisi strutturale dell’economia, che in Italia somma motivi Questi interventi si rifletterebbero in un miglioramento anche delle opportunità economiche e professionali dei giovani. Rimuovere gli ostacoli all’attività economica riducendo i costi di apertura e di gestione delle nuove imprese promuovono anzitutto la partecipazione economica delle nuove generazioni. Allentare le difficoltà di accesso al capitale di rischio, promuovendo lo sviluppo delle attività di venture capital significa aiutare la nascita e sostenere l’espansione delle imprese giovani a più alto potenziale in-

Se il ceto medio e quello industriale ritornano alla propria identità, potranno forse guidare la svolta

per molti versi marcio, del potere economico. D’altra parte, l’errore non è di adesso, ma di molti anni fa. Ancorché sbagliata, la scelta di un sistema politico bipolare, fortemente voluta da Confindustria che appoggiò Segni e indusse i giornali dell’establishment a schierarsi per il maggioritario, avrebbe dovuto indurre tutte le rappresentanze di interessi a rompere ogni tipo di cinghia di trasmissione con i nuovi attori della politica. Invece, essendo una scelta costosa in termini di rendita personale dei gruppi dirigenti, per miope convenienza tutti scelsero una nuova forma di collateralismo, scoprendo troppo tardi che in quel modo i corpi intermedi non contavano più nulla, perché Berlusconi se li era mangiati nella sua constituency elettorale – come fai ad avere voce e ruolo se il leader populista parla direttamente con i tuoi iscritti? – mentre a sinistra la fine del partito guida e la conseguente frantumazione ha spinto alcuni mondi (per esempio la cooperazione) a “mettersi in proprio” e altri, Cgil in testa, a irrigidirsi nello sterile schema dell’anti-berlusconismo.

pioppatole da un Marchionne alla perenne ricerca di alibi per far lasciare l’Italia alla Fiat intestando la colpa ad altri, scelta “politica” che ha indotto anche altre imprese a lasciare la “casa comune” degli industriali italiani. Né ci ha colpito più di tanto – salvo lo stile – il tentativo di smarcamento di Della Valle, che non a caso è avvenuto nelle stesse ore in cui si consumava il suo mancato ingresso nel cda di Mediobanca e la conseguente sua uscita dal patto di sindacato della banca che non l’ha voluto nel board. Anche le grandi manovre per la successione, che vedono affiancarsi al nome di Squinzi quello di Bombassei tra i possibili candidati, sembrano iscriversi a questo grande tourbillon che scuote il grande albero,

Risultato: ruolo e potere zero, scollamento dalla base, impotenza di fronte al declino. Così quella parte della società civile che vive nel mercato, siano essi imprenditori, lavoratori autonomi o lavoratori dipendenti, ha sviluppato anticorpi in proprio, senza bisogno di rappresentanze, che peraltro non ha. Mentre quella parte – la maggioranza? – che vive in una dimensione protetta se non avulsa dal mondo che cambia, al pari della politica ha consumato tutte le risorse, quelle che c’erano e quelle certificate dal debito pubblico. E ora che il barile è stato raschiato e non c’è rimasto più nulla, i “protetti” o fanno finta di niente coltivando la speranza che la pacchia possa in qualche modo continuare o tardivamente,

endogeni ed esogeni, e il crollo verticale del vecchio impianto istituzionale. Una crisi di portata tale da mettere in discussione tutto e tutti, niente e nessuno esclusi. Non sappiamo se il “dopo”, la Terza Repubblica, sarà meglio o peggio di quel che sta per scomparire, ma una cosa è certa: nulla rimarrà come prima. E guai ad illudersi che non sia così, il rischio di rimanere sotto le macerie di un sistema paese destinato per forza di cose a crollare, sarebbe altissimo.

Con questa premessa, non stupisce certo vedere il repentino cambiamento di linea da parte di Confindustria nei confronti del governo – per carità, meglio tardi che mai, ma vi siete accorti solo ora di come stanno le cose? – né assistere al calcio nel sedere ap-

novativo. Ridurre la segmentazione del mercato del lavoro consente di riequilibrare le opportunità occupazionali e le prospettive di reddito, oggi fortemente sbilanciate a favore delle generazioni più anziane. Valorizzare le capacità e le competenze dei nostri studenti, riducendo il divario con i coetanei dei principali paesi europei, migliora la competitività e la capacità propulsiva delle imprese che li occuperanno, o che da essi verranno fondate». Il banchiere ha provato a suggerire alla politica una diversa

chiave di lettura della realtà del Paese. A un governo che ha aumentato la cassa integrazione con i soldi della formazione e che ha reintrodotto le tariffe

e anche un po’ pateticamente, cercano una legittimazione “oppositiva”. Ma non c’è più alcun margine di manovra, per i “protetti” e le loro rappresentanze il tempo è scaduto. L’unica incertezza, invece, riguarda i “non protetti” e ciò che sapranno fare in una fase così difficile. Essendo tendenzialmente degli individualisti, se cadranno nell’errore di rinchiudersi nella propria dimensione, personale e professionale, inevitabilmente la Terza Repubblica sarà preceduta da una lunga e convulsa fase di transizione e avrà vita grama.

Se, al contrario, avranno consapevolezza del loro essere ceto sociale – coscienza di classe, si sarebbe detto una volta – e sapranno fare squadra, allora saranno molte le chance che il Paese avrà di salvarsi e riconquistare il suo futuro. Molto dipenderà dai più giovani. Se sceglieranno di vestirsi da “indignados” non andranno, e di conseguenza non andremo noi, da nessuna parte. Se invece faranno iniziative di proposta come quella che sabato 15 ottobre partirà a Roma sotto le insegne di “Outsider-Il partito degli esclusi”, capitanata dal presidente dei Giovani di Società Aperta, Luca Bolognini, allora la fiammella della speranza potrà alimentarsi. Ragazzi, come vi ha esortato Steve Jobs, siate “affamati” di cambiamento. (www.enricocisnetto.it)

termini reali senza essere compensati da una più rapida progressione salariale nella successiva carriera lavorativa». E seppure si è registrata una

Paolo Romani ha insediato il tavolo per discutere delle misure del decreto sviluppo. Assente Tremonti. Ma nel governo l’unica certezza è quella di voler reperire fondi con un condono minime dell’avvocatura, ha voluto ricordare che «dai primi anni novanta i salari d’ingresso dei più giovani si sono ridotti in

«maggiore probabilità di accesso al primo impiego per coorti di giovani sempre più istruite», questa «è stata però controbi-

lanciata dal rallentamento della crescita economica e della produttività». È da questo che nasce la precarizzazione. Contro la quale la famiglia «costituisce anche un riparo dalle temperie della economia. Ma se il miglioramento del proprio tenore di vita non avviene tramite l’accumulazione di risorse collegate al proprio lavoro come accadeva più frequentemente cinquant’anni fa, quando i patrimoni familiari erano modesti e i tassi di crescita del reddito elevati si generano problemi di equità».


la crisi italiana

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Cavaliere in affanno, le tensioni sul decreto sviluppo rischiano di saldare il dissenso dei ministri a quello di Scajola

Un condono ci salverà

Lite nella maggioranza sulla sanatoria: Cicchitto e Gasparri aprono, Palazzo Chigi dice no. Ma resta un’ipotesi sul tavolo di Errico Novi

ROMA. Non è il discorso all’Italia di cui si era parlato nei giorni scorsi. Nulla a che vedere con quel «dirò la verità al Paese» pronunciato dal premier durante il tira e molla con i pm di Napoli. Un attimo prima di involarsi per San Pietroburgo dall’amico Putin, Silvio Berlusconi si limita al consueto messaggio sul sito dei Promotori della libertà. A parte il mistero di un destinatario abituale quanto virtuale (l’organizzazione dei “promotori”non si è quasi mai manifestata in carne, ossa e bandiere, Michela Brambilla a parte), il presidente del Consiglio offre il consueto canovaccio sul «potere del premier che in realtà non esiste proprio» e sulla missione del governo come «grande sacrificio personale». Se non fosse, aggiunge Berlusconi con un altro mantra, che «una crisi di governo sarebbe l’unica cosa di cui l’Italia avrebbe bisogno in questo momento». Solo un accenno al decreto sviluppo: «Da alcuni giorni non faccio altro che ascoltare i miei ministri per mettere a punto misure efficaci sulla crescita», dice il presidente del Consiglio. Che poi nel pomeriggio manda un messaggio anche alla festa della Dc di Rotondi a Saint-Vincent per assicurare che il provvedimento arriverà «entro metà ottobre»

gerà anche chi verrà dopo di me». Detto ai suoi più fan più irriducibili – seppur virtuali – l’accenno è significativo: Berlusconi vuole gradualmente abituare l’elettorato al’idea che non sarà lui il futuro candidato premier. Lo fa con imbarazzata nonchalance. D’altronde gli ultimi sondaggi sul grado di fiducia mettono il Cavaliere in coda a tutti gli altri leader. Significativo soprattutto il quadro fornito ieri fa Crespi ricerche: in cima alla classifica

Napolitano: «Sbagliata una visione miracolistica del federalismo. E basta col considerare la politica come una cosa sporca»

Nessun accenno al condono fiscale ed edilizio che in mattinata Gasparri e Cicchitto non avevano affatto escluso. Qualche minuto dopo però è l’ufficio stampa di Palazzo Chigi a dover intervenire: «Nessuna ipotesi di condono è stata mai presa in considerazione dal governo, indiscrezioni del genere vengono escluse nel modo più totale». Qualcuno però nella maggioranza aveva già preso gusto alla cosa, così come dall’altra parte Di Pietro già si era sbilanciato sulla sanatoria, da lui definita «tomba della democrazia». Berlusconi d’altronde nel suo messaggio ai Promotori si era tenuto sul generale più che sul merito del decreto. E casomai aveva privilegiato la difesa dell’esecutivo a prescindere, con assioma finale: «Non c’è alternativa a questo governo». È un premier che dà l’impressione di giocare in difesa su tutto. Già la scelta di parlare mentre è ancora in corso la bufera su «Forza gnocca», e già monta la polemica per il volo a casa Putin, sa di toppa cucita faticosamente tra uno strappo e l’altro. In un passaggio in cui invoca l’urgenza della legge sulle intercettazioni e la riforma della giustizia, il premier precisa che «se ne avvantag-

passa Pier Ferdinando Casini con il 41 per cento, segue la triade del centrosinistra Vendola-Bersani-Di Pietro tra il 39 e il 36, poi Fini al 35, mentre il primo espo-

nente della maggioranza è Alfano, ottavo, con 26 punti percentuali. Berlusconi è a quota 22 ed è persino in lieve risalita, come il governo. Ma siamo sempre in zona retrocessione.

I dati di Crespi non incoraggiano neppure a immaginare tempi più quieti all’interno della maggioranza. Soprattutto se si pensa alla rottura annunciata da Claudio Scajola. L’ex ministro è in fase di distacco soprattutto per i metodi bulgari imposti da Verdini e La Russa. Il suo dissenso è legato senza dubbio anche all’anchilosata azione dell’esecutivo. Ma l’innesco principale viene dai colpi bassi del vertice pidiellino nei confronti delle minoranze interne. Ai congressi provinciali compaiono improvvisamente truppe di iscritti assoldate apposta per alterarne l’esito. L’inasprimento dei metodi è direttamente proporzionale alla flessione della leadership berlusconiana. Più il Cavaliere si indebolisce, più i custodi del

Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, esponenti di punta del Pdl. A sinistra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nella pagina a fianco, Maria Stella Gelmini partito-apparato si irrigidiscono nella difesa del loro potere. A cui non resta che l’arma del terrore, indebolitasi la sacralità della superiore investitura.

Ecco perché un Berlusconi che continua a calare nei sondaggi incoraggia l’instabilità della maggioranza. Lui stesso lo sa. E cerca di tamponare la falla degli scajoliani con un passagio sull’obiettivo del Ppe italiano. Progetto a cui dovrebbe lavorare un Alfano sempre meno brillante nell’iniziativa. «Vanno

Scontro sull’affluenza, gli organizzatori parlano di 100mila ragazzi in tutte le piazze italiane

Lezione in Piazza contro la Gelmini Giornata di proteste: tensione a Roma, a Milano lancio di uova sulle banche di Marco Palombi ltre 100mila studenti sono scesi in piazza in oltre 90 città italiane per la giornata di mobilitazione nazionale indetta dall’Unione degli Studenti (sindacato delle scuole superiori), a cui si sono uniti gli universitari di Link e tutto il movimento studentesco». Diciamo subito che il riassunto diffuso via comunicato stampa dalla Rete della Conoscenza non è proprio aderente alla realtà: la partecipazione è stata decisamente inferiore (anche perché a sfilare erano solo le sigle “di sinistra”) e gli stessi cortei – nonostante i peana intonati alla “meglio gioventù”italiana dalla totalità del centrosinistra – sono stati solo l’ennesimo battaglia di una guerra finta.

«O

Le manifestazioni sono esibizioni di forza: funzionano se producono numeri capaci di abbattere il muro del potere o se hanno alle spalle il respiro lungo di una vastità di interessi reali arrivati a coscienza. Ecco, forza numerica

poca, movimento sociale dietro “l’avanguardia” studentesca ancora meno. «Siamo gli indignados italiani», dettavano ieri ai giornalisti alcuni dei partecipanti, sperando che il riferimento ad un brand di ampio successo cronistico gli regalasse quel tanto di storia che gli manca. In realtà, come ha spiegato un sondaggio del sito “skuola.net”, due studenti su tre non avevano nemmeno mai pensato di aderire ai cortei di ieri il 43,7% accampando il francamente stantio refrain reazionario per cui «non si può perdere un giorno di scuola» – e solo uno su cinque aveva aderito (e ancor meno perché convinto che un corteo sia il mezzo giusto per cambiare l’istruzione in Italia). I motivi per protestare, ovviamente, non mancano: «Strutture fatiscenti, classi pollaio, plessi accorpati, pochi insegnanti, didattica antiquata, aumento dei costi a carico di studenti e famiglie». E ancora: «Le aule scolastiche cadono e pezzi e 200mila studenti universitari rischiano di perdere la borsa di studio - spiegano

gli organizzatori - Con la scusa della crisi, il governo sta scaricando sulla nostra generazione tutto il peso dell’austerity: ormai si parla solo di spread e di vincoli di bilancio». Curioso però che, proprio ieri, sia stato un simbolo della tecnofinanza come il quasi banchiere centrale europeo Mario Draghi a dire parole nettissime sulla condizione dei giovani in Italia: «Sono loro che subiscono i contraccolpi più forti della crisi del 2008 e specialmente nel nostro paese le loro prospettive di reddito sono più che mai incerte: stiamo mettendo a repentaglio non solo il loro futuro, ma quello del Paese». Basta? Macché: «C’è un problema di inutilizzo del loro patrimonio di conoscenza, della loro capacità di innovazione. La scarsa crescita dell’Italia è anche riflesso delle sempre più scarse possibilità offerte ai giovani». E ancora: «Se il miglioramento del proprio tenore di vita non avviene tramite il proprio lavoro si generano problemi di equità», perché significa che «il livello


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del fatto che «il capo dello Stato nomina i ministri ma il presidente del Consiglio non può dimetterne alcuno». Frase che pare fatta apposta per accreditargli nuova insofferenza verso Tremonti. Evidentemente la partita sul decreto sviluppo non è blindata come la scelta di Romani quale responsabile del provvedimento farebbe ritenere. Non solo resta il giallo sul condono, ma permangono le inquietudini di mezzo Consiglio dei ministri che vorrebbe poter portare a casa qualcosa e invece già intravede l’ennesima delusione. Se anche stavolta i dicasteri restassero a bocca asciutta o fossero invece costretti solo a ingoiare i «tagli lineari» evocati l’altro ieri da La Russa, ci sarebbe il rischio di una pericolosissima saldatura con il dissenso scajoliano.

superate le divisioni tra le forze politiche moderate», dice il Cavaliere nel messaggio ai Promotori, «bisogna rafforzare la grande alleanza di centrodestra, che è un’alleanza ispirata ai valori e al programma del Partito popolare europeo». Appelli che però suonano mai abbastanza incoraggianti per i moderati che non fanno parte della maggioranza, giacché in casi simili pare che Berlusconi dica sempre: noi abbiamo già tutti i requisiti per rappresentare il popolarismo europeo in Italia, ad altri

spetta decidere se aggregarsi o no. Poco comunque anche per rasserenare Scajola e Pisanu. Idem dicasi per un Frattini avvilito dalla battuta su “Forza gnocca”(«C’è qualcosa che non va, bisognerebbe far comprendere al presidente qual è il momento per fare una battuta e quando invece non bisognerebbe farla») e per una maggioranza piuttosto smarrita rispetto al decreto sviluppo.

Nella parte del messaggio più improntata al rammarico, il premier si lamenta

Vero è anche che i tempi per un nuovo governo si assottigliano rapidamente. Difficile ipotizzare che un esecutivo di responsabilità nazionale possa insediarsi e preparare almeno un quadro di riforme da completare nella successiva legislatura se la svolta non si compisse entro il mese di novembre. Difficile dire se nelle riflessioni di Napolitano si aggirassero anche simili aspetti, quando giovedì scorso da Biella il capo dello Stato ha evocato il “governo di tregua” di Giuseppe Pella. Sta di fatto che Napolitano cerca almeno di rimettere in cornice le poche cose finora effettivamente prodotte dalla legislatura attuale. A cominciare dal federalismo: «Darne un’interpretazione miracolistica è sbagliato, e complica la sua attuazione che richiede tenacia e pazienza e non una strategia a zig zag». Il Capo dello Stato deve assumersi la difesa della politica nel suo insieme quando dice che essa è «entusiasmante ma se la si definisce sporca e poi la si lascia fare agli altri, gli altri la fanno davvero sporca». Principi cardine in un quadro dove tutto pare frantumarsi.

e di cronach

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di reddito dei figli è legato a quello dei genitori». La vecchia questione dell’ascensore sociale.

Strumenti di protesta e analisi della realtà da parte degli studenti, però, sono quelli che sono, vale a dire vecchi almeno quanto la questione dell’ascensore sociale. Il linguaggio del corteo racconta di vecchi simbolismi anni 70 («siamo tutti antifascisti», urlavano a Roma), situazionismo d’accatto, qualche tocco di aggiornamento desunto dalle pratiche di quel popolo altermondialista che si manifestò a Seattle e morì un paio d’anni dopo a Genova. Nel mirino ci sono il potere politico, certo, gli eterni “celerini”, ma pure le banche e la finanza. La cronaca dei cortei di ieri ne è la dimostrazione: si è cominciato all’alba, nella capitale, facendo suonare decine di sveglie davanti a palazzo Chigi per dare, appunto, una svegliata al governo; poi i tradizionali cortei lungo tutta la penisola - con i tradizionali litigi per prenderne la testa tra i vari gruppuscoli - che non si sono fatti mancare qualche blitz contro obiettivi simbolici tipo banche d’ogni ordine e grado (colpite con uova e vernice, in genere), l’agenzia di rating Moody’s (a Milano dove

sono più avvezzi alle diavolerie della finanza) e ovviamente ministero dell’Istruzione, le sue sedi regionali, le istituzioni in genere e persino l’innocua sede della Lega nord di Trieste. Nella capitale e nel capoluogo lombardo, poi, ci sono stati anche i necessari momenti di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine: fumogeni, petardi, palloncini di vernice e, a Roma, l’occupazione di strade e di un binario della stazione Ostiense al grido di «se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città» (non è mancata nemmeno qualche calcio ad un auto blu che fa tanto anti-casta). Magari funziona pure, almeno a giudicare dal plauso arrivato da Nichi Vendola, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, parlamentari sparsi del Pd (Pierluigi Bersani, per ora, manca all’appello) e detratta la scontata indignazione dei berlusconiani di complemento che ormai i cittadini italiani quasi al completo cominciano a considerare una sorta di medaglia al valor civile. Siccome, però, anche la burocatja italiana è sempre uguale a se stessa e vive ancora negli anni ’70, la polizia ieri nella capitale ha provveduto a identificare decine e decine di persone che saranno

presumibilmente denunciate per interruzione di pubblico servizio (la stazione) e corteo non autorizzato: d’altronde Gianni Alemanno, come Johnny Stecchino per Palermo, pensa che il problema più grande di Roma sia il traffico. L’happening degli studenti, in ogni caso, è appena all’inizio, dicono loro: «Adesso non ci fermerete più», sostenevano ieri pomeriggio preannunciando nuove iniziative già nella giornata di oggi, quando affiancheranno la manifestazione degli impiegati pubblici della Cgil «per unirci a tutti gli altri pezzi di questo Paese che non ne possono più di questo governo e che vogliono ripartire da scuola, università, ricerca, welfare e servizi pubblici per uscire dalla crisi».

I collettivi universitari, sulla stessa linea, promettono un “autunno rovente”, ché caldo ovviamente non gli basta, e la “mobilitazione permanente” che evocano ogni anno senza riuscire né ad alzare la temperatura, né a rendere permanente altro che qualche gruppetto di militanti. Un paragrafo a parte merita, infine, la sparizione del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, da ieri in possesso di un nuovo portavoce - Antonio Bettanini, ex consigliere di Frattini, già al servizio di Claudio Martelli - dopo la figuraccia sul tunnel per i neutrini da Ginevra al Gran Sasso che ne ha azzerato la residua credibilità.

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economia

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Dietro al caso Edison-A2A, una strategia imprenditoriale (del Pd) uello del business dell’elettricità (prescindendo dall’Enel che da prim’attore fa corsa a sé), è un gran calderone in piena ebollizione. Con nel sottofondo manovre politiche finalizzate (sotto l’egida del Pd) a creare una megazienda del Nord-Ovest che controlli produzione e distribuzione. Boccone grosso ed appetitoso, al quale stanno lavorando i sindaci di Milano, Torino e Bologna, tutti di centrosinistra dopo l’inatteso successo di Giuliano Pisapia nel capoluogo lombardo.

Q

Cominciamo col dire un paio di cose, basilari. Dopo la nazionalizzazione delle società elettriche negli Anni Settanta, oltre all’Enel (fondata ad hoc), restarono in vita le aziende elettriche dette “municipalizzate”, cioè di proprietà pubblica attraverso i Comuni. Un dualismo che non portò in realtà benefici ai consumatori poiché, smentendo le promesse, le tariffe non subirono alcuna riduzione. In una fase successiva, si procedette ad una sorta di liberalizzazione del mercato. Oltre all’Enel vennero quotate in Borsa un gran numero di “municipalizzate”. Tuttavia la maggioranza di controllo restò nelle mani pubbliche. Illuminante il caso dell’Enel, che conta circa un milione e mezzo di piccoli azionisti, ma la cui maggioranza appartiene al ministero dell’Economia ed alla Cassa Depositi e Prestiti. Una miriade di “municipalizzate”a loro volta si compattano, entrando in Borsa.Tre i casi più significativi: l’Aem milanese che nel frattempo ha esteso la sua sfera operativa («Produzione, vendita e distribuzione del gas, gestione dei rifiuti, teleriscaldamento, gestione del ciclo idrico», si legge nella ragione sociale), si sposa con la consorella bresciana dando vita alla A2A. Il bilancio riporta 6 miliardi di ricavi, 308 milioni di utili, un indebitamento di 4,3 miliardi, oltre 12mila dipendenti. Poi l’Iren, parto dell’aggregazione della torinese Aem con la genovese Amga che attrarrà nell’orbita l’Agac di Reggio Emilia, l’Amps di Parma, la Tesa di Piacenza. Quindi la bolognese Hera, che opera a Bologna e nell’Emilia Romagna ed a Pesaro-Urbino. Sempre bilanci floridi: 1,7 miliardi di ricavi per l’Iren, 3,7 per Hera. Lo sbandierato intento è di razionalizzare i servizi e ridurre i costi. I consumatori non vedono tangibili benefici in bolletta, ma le varie società sono divenute centri di potere per le amministrazioni locali. Sovente con un moltiplicarsi di aziende collaterali e relativa inflazione dei consigli d’amministrazione. Potere & Poltrone,

Il federalismo vuole nuova energia Una «supermunicipalizzata» al Nord per gestire l’elettricità. Contro la Lega di Giancarlo Galli

insomma. Dall’inizio del nuovo secolo, è tornato d’attualità il nucleare, accantonato a seguito della tragedia di Cernobyl, Ucraina. In contemporanea, ritorno sulla scena della Edison (siamo nel 1994), che presenta non poche novità. Quotata in Borsa dove ha vita non facile, è controllata dalla Transalpina di Energia srl (Società e responsabilità limitata!). I vertici vedono la coabitazione degli italiani, in primis l’A2A lombarda, con i potenti francesi di Edf, Electricité de France. Quel che bolle in pentola è affare grosso, anche se è preferibile non manifestamente dichia-

La distribusione dell’energia è da sempre un grande affare. Qui, dall’alto, Piero Fassino, Giuliano Pisapia e Merola, rispettivamente sindaci di Torino, Milano e Bologna

mai nata. Trattative difficili e scabrose, continuamente rinviate fra proposte subito affossate da repentini ripensamenti. A marzo, il presidente di A2A ed Edison Giuliano Zuccoli, manager portato in palmo di mano dalla sindachessa ambrosiana Letizia Moratti, sembra aver trovato la quadratura del cerchio: questo a me, questo ai francesi…

Le elezioni sono però alle porte. Potrebbe essere motivo di polemiche sgradevoli un annuncio alla vigilia del voto. Rinvio. Comunque nella «certezza demoscopia» (sic!) che

L’intesa prevede il 28% della nuova società a Milano e Brescia, il 10% a Genova e Torino, il rimanente 20% a Bologna, Reggio e Parma rarlo: centrali nucleari. Materia che vede i francesi all’avanguardia mondiale. Problema spinoso ed irrisolto: chi comanda nella Transalpina ed a cascata in Edison? Discussioni e risse all’ombra dei salotti buoni. Tant’è che ci si orienta per una separazione consensuale, a coprire insanabili divergenze. Col disastro atomico in Giappone, il nucleare essendo rinviato ad altre stagioni. Forse per sempre. A2A ed Edf, nonché altri soci minori, non hanno più motivi per convivere. Si tratta dunque di spartire il patrimonio della famiglia

donna Letizia verrà trionfalmente rieletta al primo turno. Giuliano Pisapia, candidato delle opposizioni, è infatti considerato battuto in partenza.“Il signor Nessuno”, azzarda qualche berlusconiano maldestramente, vendendo in anticipo la pelle dell’orso. Errore macroscopico! Più che sconfitta, donna Letizia è umiliata dall’elettorato milanese. Probabilmente le vicende elettriche hanno avuto scarsa influenza nella debacle del centrodestra, favorita da un inspiegabile disimpegno sul terreno della Lega di Umberto

Bossi, ma le conseguenze sono inevitabili. La poltrona, data per solidissima, di Giuliano Zuccoli prende a vacillare, e si preannuncia un prossimo cambio della guardia in A2A. A loro volta, i francesi di Edf un giorno dicono bianco, un altro nero, infine grigio. Di rinvio in rinvio, in uno scenario nebbioso, prende corpo un progetto alternativo, che va ben oltre il divorzio con Edf. Giuliano Pisapia, che rifiuta di finire logorato in una guerra di trincea con Edf, s’è accordato coi “compagni-sindaci”di Bologna, Genova, Torino: perché non creare una multiutility del Nord-Ovest cui partecipino con pari dignità A2A, Iren ed Hera? Sarebbe un polo energetico “sovramunicipale” con oltre 11 miliardi di ricavi, 23mila dipendenti, in grado di attrarre altre municipalizzate.

A “liberal” risulta una bozza d’intesa che assegnerebbe il 28 per cento della nuova società ai Comuni di Milano e Brescia, il 10 per cento a Torino e Genova, il 20 a Bologna, Reggio Emilia e Parma. In Borsa resterebbe poco più o poco meno del 40 per cento, onde non deprimere il morale dei piccoli azionisti (che sono pure elettori, non dimentichiamolo). Sarà un caso che le azioni delle società interessate, pur in un periodo per tutti difficile, hanno registrato in Borsa performances negative accentuate? Spiegabile: sino a qualche tempo fa si presagiva una vendita dei Comuni delle loro partecipazioni, per fare cassa. Ora, sul triangolo Milano-Torino-Bologna, si pensa piuttosto a “comunalizzare”. Comprensibile sotto un’ottica finanziaria. Le aziende elettriche sono galline dalle uova d’oro: gettito sicuro e tariffe che includono la rendita di posizione dell’azionista di controllo. Quindi una buona sorgente di reddito per le municipalità, quasi manna dopo i tagli con machete di Giulio Tremonti. Resta però l’interrogativo politico su questa ennesima anomalia, prossima alla schizofrenia, del “Sistema Italia”: il governo centrale punta al «Vendere, vendere, vendere!». In tale logica, c’è chi chiede pure la dismissione delle partecipazioni statali in Eni, Enel, Finmeccanica. Insomma, mancando un minimo di sintonia fra Governo ed amministrazioni locali, c’è pertanto da chiedersi se, continuando a marciare in ordine sparso, non stiamo accelerando la disgregazione del tessuto economico di un Paese, la nostra cara Italia, che al contrario esigerebbe comunanza d’intenti in una strategia condivisa. Davvero un poco edificante spettacolo, ma è quel che accade in assenza di un regista.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

NOI E DIO

Riflessioni sulla religione nel XXI secolo

di Pier Mario Fasanotti a oltre un decennio sentiamo ripetere questa frase: «Il l’Università San Raffaele di Milano, ha appena pubblicato da Garzanti un posecolo XXI o è il secolo della religione oppure non è». Una dichiaderoso, e limpidissimo, saggio intitolato Io e Dio (468 pagine, 18,60 euro). razione che ha qualcosa di fastidiosamente radicale, una Contiene pietà, dottrina, comprensione, coraggio di contestare, diIl filofoso sorta di angolo appuntito che non ammette altri percorsobbedienza, amore per il vero, sapienza filosofica. Se consideVito Mancuso, si intellettuali e spirituali. Più morbidamente, ossia più reariamo questa opera un mero oggetto, per assurdo sarebbe in un saggio che contiene listicamente, si potrebbe dire che questo secolo, almeil corpo contundente ideale da lanciare in faccia agli no nei primi diieci anni che ci vedono testimoni ottusi non credenti e a coloro, cattolici imbalsadottrina, sapienza, comprensione, storici, è l’epoca in cui tornano prepotentemati, che si trincerano comodamente nell’asdisobbedienza e amore per mente antiche domande. Le quali si incontrasurda convinzione che tutto dev’essere indiil vero, invita i cristiani a una svolta: no, o si scontrano, con le domande scaturite da scutibile pur di non smuovere emotività, ragione e un’evoluzione social-culturale che sarebbe cosa da ottuvita contemporanea. Non credo di essere un «tifoso» di passare dal principio-autorità si ignorare (esistono coloro che lo ignorano: i religiosi per Mancuso, ma credo che il suo libro costituisca un ottimo fonal principio mera sottomissione, i fondamentalisti, i nostalgici che celano così damento dei ragionamenti sul rapporto tra noi - «io» e società - e autenticità insicurezze e interrogativi angoscianti). il Creatore. Mancuso insiste su un fatto, che deriva da un’attenta osserUno dei più apprezzati teologi di oggi,Vito Mancuso, docente di Filosofia alvazione del mondo occidentale.

D

Parola chiave Arte di Franco Ricordi L’America secondo Arbasino di Leone Piccioni

IL PAGINONE

18 voci contro la secessione di Gabriella Mecucci con un testo di Luigi Einaudi

Nei misteri di Kavafis di Filippo La Porta Irretiti da Jane Eyre di Anselma Dell’Olio

Schnabel e Lartigue, l’ombra e la grazia di Marco Vallora


noi e

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Il punto di vista di Satana-Twain arcastico, blasfemo (a una prima lettura), graffiante, sarcastico: ecco lo scritto postumo di Mark Twain (all’anagrafe Samuel Langhorne Clemens). L’autore di Tom Sawyer, considerato uno dei più grandi scrittori americani, prende carta e penna nel 1910 (poco prima della morte) e immagina che l’arcangelo Satana, «espulso» dall’empireo, abbia curiosato tra gli abitanti della terra e abbia spedito undici lettere ai «colleghi» Michele e Gabriele. È un pamphlet contro l’idiozia dell’uomo che crede nel Creatore, o perlomeno a quel tipo di Dio. La figlia di Twain, l’ottantenne Clara Clemens dopo vari rifiuti per il timore che lo scritto paterno ne offuscasse la fama, si arrese e nel 1962 dette il consenso perché Letters from Earth venissero alla luce: «Twain - ammise - appartiene al mondo». Queste lettere al veleno sono ora proposte dall’editore Piano B (Lettere dalla Terra, 91 pagine, 10,00 euro). C’è da considerare il fatto che Twain, nei suoi ultimi anni, era fiaccato dal dolore per la perdita dei figli e dalle difficili condizioni economiche. Questo spiega tanto livore. Ma non spiega tutto. Anche perché Twain, credente scettico, non ha certo corretto radicalmente la sua natura di scrittore graffiante, istrionico, irriverente. Il suo Satana comincia col descrivere la creazione dell’universo. Per mano di Dio lo spazio, prima vuoto e buio («un posto tranquillo, anche comodo»: commento dell’angelo decaduto per la sua irriverenza e disobbedienza), si va popolando di astri, soli, uomini e animali. Twain gli fa dire: «Che idea fantastica! Dall’Intelletto Supremo non è mai scaturito niente di paragonabile. Una Legge - una Legge Automatica, esatta e invariabile - che non ha bisogno di controlli, né di correzioni o riadattamenti per tutto il corso dell’eternità». Eccola qui, la Legge della Natura. L’essere Divino spiega che nessuna creatura può opporsi a questa legge. Satana osserva che tutti si azzannano, ognuno ucci-

S

Ossia che navighiamo nel gran mare della perplessità. Poco importa se i numeri sondaggistici indicano che si dichiarano credenti il 75,4 per cento degli europei e l’83 per cento degli americani. Certo, questo può significare che la maggioranza della popolazione «immette fili celesti nel tessuto mentale» senza per questo rinunciare all’uso libero della ragione nello sbrigare le faccende materiali ed etiche. Il presidente Usa Barack Obama ha detto: «Io sono cristiano per scelta». Posizione ben diversa da quella di chi segue il gregge che fa di un comportamento una comodità, se non una moda cui essere sempre ossequienti (aggettivo molto sgradito a Mancuso).

Ci troviamo insomma in una sorta di terra di nessuno - malgrado i numeri che da soli significano ben poco - in una condizione scomodissima che è riassumibile con quanto scriveva Dante: «a Dio spiacenti ed a’ nemici suii» (Inferno III, 63). Il termometro spiritual-sociale dei nostri tempi si ostina a fermarsi su quella tacca accanto alla quale c’è scritto «perplessità». Una situazione simile a quella prodotta dall’aver 37 gradi di febbre: non si è malati, ma nemmeno si è in buona salute. A proposito di perplessità, Mancuso ricorda Mosé Maimonide, nato nel 1138 nella Cordova (Andalusia) musulmana che controverse tradizioni dipingono come luogo di armonia tra diverse religioni. Maimonide fuggì proprio per le persecuzioni religiose. Detto tra parentesi: spesso le religioni possono assumere tendenze assai diverse a seconda del carattere e agli interessi di chi le professa. Ebbene, il dotto Maimonide scrisse La guida dei perplessi. Titolo quanto mai attuale oggi che si cerca un punto fermo per vincere la perplessità della mente «alle prese con le onde della vita». Si rivolgeva a coloro che avevano praticato filosofia e scienze, ma credevano anche nella Legge, rimanendo perplessi dinanzi ai suoi significati. Se i sapienti di allora erano minoranza frastornata, oggi, sapienti o (molto) quasi sapienti, sono la maggioranza. Da un lato c’è «il patrimonio dottrinale ed etico del credere in Dio e nel divino», dall’altro lato esiste - e con essa occorre fare continuamente i conti - «l’esperienza del mondo come vita quotidiana e come sapere». Perplessità deriva dal verbo plectere, intrecciare, tessere. I fili di un tessuto si dicevano plexi quand’erano giusti, perplexi quando risultavano confusi e intricati. Se ci esponiamo all’«esposizione» del Sommo Bene e insieme alla quotidianità del mondo, ci sono diversi pensieri che anno IV - numero 34 - pagina II

dio

de l’altro, insomma sono tutti assassini. Ma come? Non sono da condannare, Divino? Risposta: «No. È la loro legge di natura. E la Legge della Natura è sempre la Legge di Dio». In ogni creatura vengono instillate, con diverse gradazioni e sfumature, tutte le Qualità Morali: dal coraggio alla viltà, dall’onestà all’astuzia, dall’amore all’odio, dalla lussuria alla pietà. Di qui la distinzione tra buoni e cattivi. «L’uomo è un esperimento». Satana vagabonda tra gli umani e scrive lettere-reportage piene di stupore e indignazione. Proprio imbecille l’uomo che crede che nel paradiso sia bandito il sesso e questo sia stato sostituito dalla preghiera. Nella Terra il bianco odia il nero e tutti odiano gli ebrei, eppure nell’aldilà cantano e si abbracciano tutti fraternamente. È insomma questo, scrive Satana, «il Dio di questa razza». E poi: «S’inventa un paradiso senza uno straccio di intelligenza… questo sincero adoratore dell’intelletto ha inventato una religione e un paradiso che non prevedono alcun riconoscimento a questa dote… che non viene neppure nominata». L’ex arcangelo passa poi in rassegna, a partire dal Diluvio Universale e dall’Arca di Noè, le incongruenze che si trasformano in atrocità. Già, perché salvare la mosca tse-tse che fa tanto soffrire i poveri africani? E tutti coloro ai quali di fatto fu imposto il divieto di salvarsi su quel famoso barcone? «Dio ce l’aveva proprio con quei piccoli e poveri innocenti, e li affogò tutti». Un Mark Twain inedito, che punta il dito contro la divinità cui crede l’uomo, pazientemente e masochisticamente. È l’invettiva d’uno scrittore ferito a morte da lutti e indigenza. (p.m.f.)

stentano a divenire plexi. Dostoevskij diceva: «È terribilmente difficile lottare contro questi doppi pensieri». C’è chi sostiene, confortando se stesso, che Dio è tornato. Su un muro della metropolitana di New York apparve un giorno questa scritta: God is the answer (Dio è la risposta). Poco dopo qualcuno aggiunse sotto: What was the question? Mancuso annota: «È stata una fortuna che da quelle parti non passasse Martin Heidegger perché non avrebbe perso l’occasione di scrivere una frase che avrebbe steso tutti: «Più saggio rinunciare non soltanto alla risposta, ma alla stessa domanda». Secondo l’autore di Io e Dio a essere tornato davvero «è il Dio umano troppo umano, che è solo un’invenzione dell’uomo, un buon collante sociale, funzionale al potere della politica». In realtà, egli sostiene, «il Dio della tradizione non può più tornare». Non torna il Dio del De civitate Dei di Sant’Agostino che guidava le sorti dei popoli verso la piena sottomissione alla Chiesa di Roma. Così non può tornare, o è impossibile parlarne, il Dio della Provvidenza storica «se solo pensiamo ai milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste». Scrisse Primo Levi: «Se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza». Per Mancuso è innegabile che sia in corso «una rinascita religiosa o forse meglio spirituale, ma, ecco il punto, la qualità della religione che si va maggiormente diffondendo non è capace di interpretare il mondo reale e per questo non sa produrre cultura».

Una mancanza di fondamento che indurrebbe Gesù a ripetere che si tratta di una casa fondata sulla sabbia. Mancuso insiste: «Per questo la religione oggi perlopiù è vissuta come chiusura e come difesa, e ha un timbro conservatore, integralista, fondamentalista». Se la religione non sa dialogare con la cultura, o addirittura si pone come «rifugio identitario», aumenta lo sbandamento dinanzi all’«immensa crescita del sapere e della tecnologia a disposizione dell’uomo». E ancora, andando direttamente e brutalmente al nocciolo della questione: «La conseguenza di una religione senza cultura è una civiltà senza religione, cioè senza coesione interna». Certo, sono possibili, sono viventi, «un’etica e una spiritualità a livello di singoli individui, ma non a livello di società e interi popoli». Einstein disse: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa». Ci vuole una fede «più umana». Che significa? L’atto di fede come insegna il Concilio Vaticano I è un obsequium intellectus et voluntatis. Attenzione, però: l’os-

sequio non può riguardare l’intelligenza, ma solo la volontà. Scrive Mancuso: «Quando l’intelligenza riconosce la verità, non c’è nessun obsequium o sottomissione da parte sua perché essa è fatta in modo tale da cercare la verità, e trovandola vi si lega da sé».Tipico dell’intelligenza è il respectus, ossia riguardo, considerazione, stima. È subordinazione «spontanea». Obbedire a chi merita è un grande piacere. E non è vero che l’uomo è «anarchico»: è costituzionalmente «alla ricerca di un principio a cui legarsi, principio come arché, come inizio, fondamento e fine». Se il Concilio di Trento puntava tutto sulla volontà, pensata come atto che dirige l’intelligenza ad aderire a cose che da sé non capisce, ecco che si spiega quanto scrisse Simone Weil: «Quando leggo il catechismo del Consilio tridentino, mi sembra di non avere nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è mia».

Si tratta, conclude Mancuso sfidando l’immobilismo di una certa religione, «di passare dal cristianesimo identitario al cristianesimo dialogico. Definisco “identitario”il cristianesimo che identifica la verità del mondo e della vita con la propria identità, da intendersi come dottrina garantita dal Magistero pontificio». Questo cristianesimo identitario l’autore lo considera sempre più diffuso, in crescita. E spiega: «Definisco “dialogico”il cristianesimo che concepisce la verità del mondo e della vita come più grande della propria identità, perché pensa la verità non in termini di statica dottrina ma come processo dinamico e relazionale sempre in atto, come logica della vita concreta». Il cristianesimo vissuto e praticato secondo i dettami dell’amore di Gesù è bussola che consente di vivere in armonia e al tempo stesso di «immettere più armonia e più organizzazione nel processo vitale: chi vi aderisce desidera essere prima di tutto e alla fine di tutto un uomo, e interpreta il senso del suo essere cristiano come finalizzato a essere uomo nel modo più autentico possibile». Mancuso ha il coraggio di sostenere una posizione scomodamente nuova: passare dal principio-autorità al principio-autenticità. Occorre farlo in fretta e in profondo: «Non si tratta di essere cattolico; si tratta molto più radicalmente di coltivare una libertà che senza etichette e forzature cerchi di vivere e pensare alla vita alla luce del principio ontologico e morale dell’amore, con tutto lo spirito di verità e di sincerità di cui si è capaci». In altre parole seguire il messaggio di Gesù-Yeshua.


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ARTE onostante la fioritura dell’Arte nella storia dell’umanità, anche in virtù della forte considerazione da parte della scienza estetica, crediamo che il XXI secolo possa incamminarsi in una sorta di «fase 2» di ciò che Hegel per primo chiamò «Morte dell’Arte». Non si tratta di pessimismo, ma di una constatazione più che mai realistica, accompagnata da una riflessione su quella che Nietzsche definì, assai felicemente, come «la vera attività metafisica dell’uomo». Su questa scia Martin Heidegger parlò del senso «inaugurale» dell’opera d’arte, affiancando la sua riflessione ontologica proprio a quella «messa in opera della verità» rappresentata dall’apertura di un mondo che viene alla luce soltanto nell’impatto fra l’uomo e l’esperienza artistica. Se dunque la crisi dell’arte moderna è stata intravista già nell’Ottocento, e poi decantata in tutti i modi nel Novecento (si pensi soltanto al movimento delle Avanguardie), negli anni Duemila potrebbe verificarsi qualcosa di ancor più inquietante, e tutt’altro che favorevole a questa fondamentale espressione del genere umano. Si è infatti spesso attribuito all’arte di ogni tempo un valore essenzialmente anarchico, non in senso politico, ma appunto ontologico: l’arte non tollera prescrizioni da parte di nessuno, e da sempre è anche in grado di criticare tutte le forme di potere che possano opprimere l’uomo. L’arte, scrive sempre Nietzsche, arriva proprio nel momento del naufragio, «come una maga che salva e risana». Ma proprio questo implica un suo assoluto distacco da tutte quelle che possono essere le prerogative dei poteri attraverso cui l’uomo ha, in un modo o nell’altro, organizzato la propria convivenza da sempre.

N

Così l’arte può anche avere una ispirazione politica, ovvero religiosa, o anche scientifica se si vuole, come nel caso degli artisti del Bauhaus. Tuttavia essa non tollera che le suddette categorie possano assurgere in quanto mandatarie della sua espressività, ed è sempre in grado di contraddire se stessa, insieme alle sovrastrutture che possono opprimerla. L’artista è in tal senso considerato un uomo libero, creativo e, per Kant, disinteressato; anche se non è mancato il rovescio della medaglia, l’artista in ogni caso «fallito», come scrive Beckett, forse perché si oppone a una dinamica, anche nel senso temporale del termine, che risulta alternativa a tutte le attività in qualche maniera «costruttive» ovvero «identificate» dell’uomo: è una polemica che risale a Platone, alla sua celebre «cacciata degli artisti dalla Repubblica», che riguarda anzitutto i poeti drammatici; e che avviene ben tre volte, nel III, V, e risolutivamente nel X libro del suo capolavoro. Platone si oppone all’artista «imitatore», quindi al drammaturgo, che non si qualifica socialmente nella sua identità, ma rischia di contaminare, attraverso la sua forte quintessenza dionisiaca, l’intera organizzazione sociale. Il bando platonico, non a caso, viene seguito da S. Ago-

Non tollera prescrizioni, è in grado di criticare ogni forma di potere, nel momento del naufragio è «come una maga che salva e risana». Ma un nemico sta per decretarne la fine nel corso del XXI secolo...

L’altra faccia della mimesis di Franco Ricordi

La forsennata spettacolarità che caratterizza questo nostro tempo è contraria alla sua essenza che in ogni forma espressiva si rivela come interpretazione dell’uomo e della natura. Così l’offensiva mediatica pretende di assorbirla, di farsi arte essa stessa stino, Boezio,Tertulliano e da tutta la patristica altomedievale. E in qualche maniera si ripete anche nell’Illuminismo. Tuttavia, per nostra fortuna, l’antichità ci offre anche il contrappunto, la grande Poetica di Aristotele, che riesce in poche pagine a rovesciare completamente i punti di vista. Aristotele non solo non condanna la mimesis, ma al contrario erge la poesia - in particolare quella drammatica - per la prima volta alla sua superiorità nei confronti della storia, dunque della stessa politica. Così, sull’esempio dei grandi drammaturghi antichi, e nel riscontro ontologico

che ne fa Aristotele, si sviluppa semplicemente l’intera storia dell’arte che in ogni caso, anche quando non si dà come poesia drammatica, si configura nei termini della mimesis. È quello che viene ribadito anche dall’ontologia ermeneutica del Novecento, con Gadamer in prima fila. In sostanza si potrebbe affermare che in ventiquattro secoli di storia dell’arte vi sia stata una guerra continua fra i suoi sostenitori e i suoi detrattori, tra la straordinaria fioritura di alcune epoche e ai momenti di buio totale che sono seguiti. E pur essendo ormai l’arte considerata come

una istituzione, e pur non essendoci più autorità politiche o religiose che possano contrastarla in maniera diretta almeno nell’Occidente, in realtà si può facilmente intravedere un nemico molto più grande e più subdolo, proprio perché nasce all’interno di quella che potrebbe apparire come sfera artistica, ma che in realtà ha appiattito e mistificato proprio il principio dell’arte stessa, appunto la mimesis: questo nemico è la spettacolarità della nostra epoca. Essa non ha nulla a che vedere con la mimesis, anche se rischia di apparire come una mimesis; chi partecipa al Grande Fratello, chi sta su facebook (quindi noi tutti, intendiamoci), chi fa politica in televisione, chi insomma sempre più «appare» nella nostra società non è un artista, non sta interpretando qualcosa di «altro da sé» (quello su cui si scagliava Platone, tanto più ingenuamente ripreso e contraddetto dal sistema di Bertolt Brecht, che ha commesso lo stesso errore scagliandosi proprio contro quella che lui chiamava «drammaturgia aristotelica»).

Chi «appare» oggi, e fa di tutto per apparire e in maniera anche professionale cura l’immagine di questo apparire, quindi interpreta se stesso, non certo quell’altra entità in cui consiste l’interpretazione, la mimesis. Tutta questa forsennata spettacolarità dell’uomo che include la stessa Natura, e che appare ormai come spettacolo anche nei suoi minimi dettagli, è contraria al principio dell’arte che, in ogni sua forma espressiva, si rivela come interpretazione dell’uomo e della Natura, linguaggio che fa propria in maniera assolutamente originale l’esistenza. Ma l’apoteosi dell’apparire - e la consustanziale corsa verso tale mondo dell’immagine - rischia non solo di appiattire ma addirittura di negare la possibilità di autentico riconoscimento dell’arte e della sua quintessenza che, se ha sempre avuto grandi oppositori ideologici, oggi si trova a dover combattere contro qualcosa che non la condanna per principi morali o intellettuali; l’offensiva mediatico-spettacolare non si scaglia contro l’arte, che potrebbe a sua volta ribellarsi per non morire: essa pretende di assorbire l’arte, di essere arte essa stessa, assurgendo a vera mandante di ciò che, inevitabilmente, non può vivere senza esteriorità. Pertanto, più che di «Morte dell’Arte» o di benjaminiana perdita dell’Aura nell’epoca tecnologica, si dovrà argomentare di una sua possibile «fine nel tempo»: il vecchio detto della nonna che diceva «impara l’arte e lasciala da parte» non si potrà più riferire a una sua concezione da hobby, ma a una sua impossibilità di coniugarsi nel tempo e nello spazio - come nell’opera d’arte vivente - e che sarà sempre più fissato, fermato e falsamente immortalato dalla sua decantazione in uno schema che proverrà da un totalitarismo che si oppone a essa anzitutto, alla sua quintessenza; un totalitarismo spettacolare, non ideologico, ma proprio per questo contrario all’essenza dell’arte.


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Pop

musica

di Bruno Giurato

Dalle stelle alle stalle: NON SPARATE SU VASCO

di Stefano Bianchi ll’inizio pensava di trascorrerci le vacanze, in Spagna. Invece s’è sistemato là per tutta la vita: complice, non nel bene ma nel male, una donna. Ma procediamo con ordine. Dalla minuscola città natìa di Paxton, nel Nebraska, Josh Rouse si mette fin da piccolo a girare il Midwest perché papà fa il militare in carriera e spesso gli cambiano destinazione. Ha orecchio per la musica, Josh: suona il trombone, scopre il soul e il rock, va matto per Neil Young, Smiths, Cure e U2, prende qualche lezione di chitarra dallo zio e a diciott’anni comincia a comporre canzoni. Quando si ferma a Nashville, nel Tennessee, ha le idee ben chiare: suonare e cantare folkrock derapando nell’alternative country, con un debole per Paul Westerberg e un brivido di goduria ogni volta che ascolta i Pearl Jam in chiave acustica. Nel 1998, il cantautore con la faccia da nerd debutta con Dressed Up Like Nebraska, nel 2000 e 2002 mette in fila Home e Cold Blue Stars, l’anno successivo pubblica 1972: titolo che sintetizza la sua data di nascita, polpa sonora inaspettatamente soft rock stile Elton John e James Taylor. Dopodiché Rouse va in crisi: non musicale, matrimoniale. La moglie lo molla e lui anziché piangersi addosso raccoglie chitarra e bagagli e vola in Andalusia, a Puerto de Santa Maria, ipotizzando lunghe vacanze disintossicanti, concretizzando una nuova vita e infine realizzando, nel 2005, Nashville: disco tutt’altro che country per dire bye-bye all’America, all’ingrata lei e alla vecchia casa. Josh, oggi, è un uomo rinato e felice che vive nei dintorni di Valencia, si

ncredibile come il buon Vasco Rossi nel giro di un paio d’anni sia passato dalla santificazione ad angolo giro allo stato di animale rognoso ed esecrando, specialmente sul web. In questi giorni l’episodio Nonciclopedia cioè il fatto che il signor Rossi abbia querelato e in sostanza provocato la chiusura di un sito satirico - ha scatenato gli sberleffi della rete. Già in passato c’erano state reazioni non felicissime alle sue altrettanto infelici uscite internettiane (i famosi clippini sulla sua pagina facebook). Perfino Gian Paolo Serino, direttore della sua rivista letteraria Satisfiction, aveva, con mossa inaudita, licenziato l’editore. E prima ancora c’erano stati i flop dal vivo e l’orrenda cover dei Radiohead. Un paio d’anni, insomma, di via crucis vascorossiana, dopo che il rocker di Zocca era stato incensato su tutti i giornali per lustri. Ora, va bene: se l’è cercata, va bene che un filino più zitto poteva stare, invece di trasformarsi in rockstar in mutande, che sproloquia su internet tra un caffè, una sigaretta e una corsa alla toeletta. Ma c’è un ma. Se è vero che un cantautore è un tizio che di mestiere scrive canzoni, e da quello dovrebbe essere giudicato, allora bisogna dire che Vasco, l’animale esecrando, di ottime canzoni ne ha scritte una valanga. Più di tanti cantautori più intellettuali e snob di lui. Albachiara, Ogni volta, Anima Fragile, Fegato spappolato, Vita spericolata, Sally, Senza parole, per dire le primissime che vengono in mente. E la vena creativa è andata avanti per trent’anni, mica per due. Vasco non è Ligabue e non è Zucchero, e nemmeno De Gregori. Perché ha prodotto molto più di loro, con più qualità e più a lungo, e non parliamo di Morgan. Poi sarà pure un po’ svampito. In fondo, se lo può permettere. Lui.

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Il canzoniere hermoso di Josh Rouse

Jazz

zapping

gode ogni pomeriggio la siesta ed è tutt’uno con Paz Suay, la nuova compagna con cui ha inciso il mini album She’s Spanish, I’m American. Nel frattempo, da Subtitulo (2006) a El Turista (2010) passando per Country Mouse City House (2007), le sue canzoni si sono messe a metabolizzare ritmi jazzy, afrori latinoamericani e pop sotto l’elegante dicitura easy listening. Lui, etichettato world music crooner dai critici modaioli, ci sguazza eccome in quei ritornelli leggeri come piume e profumati come uno sherry imbottigliato a Jerez de la Frontera. Non sfugge all’orecchiabile regola Josh Rouse And The Long Vacations, lungo appena venticinque minuti (meglio lavorar di sintesi, piuttosto che sbrodolare a vanvera) che vede il singer-songwriter suonare insieme a Fuertes Xema e Caio Bellveser (i Long Vacations) con l’aggiunta di Raúl Fernández (pianoforte e moog), Paco Loco (chitarra baritono), Robert DiPietro ed Esteban Per-

les (batteria e percussioni). «Quest’album è un concentrato di brevi, coloratissime canzoni influenzate dai raggi del sole e da un sano umorismo», ha specificato Josh pensando a tutto quello che stavolta s’è inventato: il latin pop vacanziero di Diggin’ In The Sand, tratteggiato dal suono gioviale di un mandolino e interpretato alla Simon & Garfunkel; la melodia sdrucciolevole di Movin’On; lo swing di Lazy Days, con quell’armonica sopraffina e il pensiero che corre a Sunny Afternoon dei Kinks; il tropicalismo di Oh, Look What The Sun Did con tanto di battimani flamenco; la bossa nova di Fine Fine e Disguise, liberamente ispirate a Stan Getz, João Gilberto e Antônio Carlos Jobim; il morbido sussurro di Friend, quasi blues, accarezzato dallo xilofono e dalla chitarra acustica; l’amoreggiar di voce e pianoforte che scandisce la magia di Bluebird St.; il ritmo in levare di To The Clock, To The City, con le sue brezze cameristiche. Hasta luego, Josh. A te e al tuo canzoniere così hermoso. Josh Rouse, Josh Rouse And The Long Vacations, Bedroom Classics/Audioglobe, 9,90 euro

Falzone & Co. intorno a Ornette Coleman

ino a poco tempo fa, dopo la scomparsa di Nunzio Rotondo, Oscar Valdambrini e Sergio Fanni, i solisti italiani di tromba erano tre, Enrico Rava, Flavio Boltro, Fabrizio Bosso, anche loro piemontesi, come Fanni e Valdambrini. Oggi a Rava, Bosso e Boltro, bisogna aggiungere il siciliano Giovanni Falzone, le cui qualità sono ben conosciute non solo dagli appassionati di jazz, ma anche da coloro che frequentano regolarmente i concerti da Camera dell’Orchestra Sinfonica di Milano, dove alcune sue composizioni, In Good Faith Suite o Suite Contemporanea per tromba gruppo jazz e piccola orchestra, sono state eseguite nelle stagioni 2002 e 2003. Nel novembre 2002 ha anche firmato un contratto discografico triennale con la prestigiosa Blue Note e, oltre a dirigere i «Corsi di improvvisazione e Pronuncia Jazz per Strumenti a fiato», e a suonare regolarmente con l’orchestra sinfonica Giuseppe Verdi di Milano, Falzone è di-

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di Adriano Mazzoletti rettore artistico del Teatro No’Hma fondato a Milano da Teresa Pomodoro. L’infaticabile trombettista e compositore ha realizzato recentemente un nuovo cd pubblicato da Parco della Musica Records, la giovane etichetta discografica dell’Auditorium della Musica di Roma, interessata a promuovere il jazz italiano. A queste brevi note biografiche se ne dovrebbero aggiungere altre, ma è il disco Around Ornette, appena pubblicato, che ha suscitato un notevole interesse, paragonabile a Suite for Malcolm X uscito a nome del sassofonista Francesco Bearzatti che si ascolta anche in questo cd. Falzone, al quale sarebbe doveroso aggiungere Luca Aquino altro giovane solista di trom-

ba, è strumentista di classe che dedica questo nuovo album al musicista più innovativo degli ultimi Ornette cinquant’anni, Coleman. La musica di Coleman, Don Cherry, Sam Rivers, Archie Shepp e degli altri esponenti del free jazz è stata al suo apparire motivo di aspre discussioni, soprattutto in Italia, a causa delle pessime imitazioni di alcuni dilettanti, spesso incapaci, che ne vollero fare quasi un manifesto politico. Nel caso di Falzone, di Bearzatti, del trombonista Beppe Caruso, del batterista Zeno De Rossi e di Paolino Dalla Porta, contrabbassista che tanto ha collaborato con Giorgio Gaslini, padre del jazz moderno italiano, la perfezione

strumentale è ineccepibile e il rapporto con la musica di Ornette Coleman, non è imitazione, ma ispirazione. Lo stesso Falzone, nelle note di copertina, ha voluto spiegare il quadro sonoro della sua musica: «Sono otto movimenti: quattro brani di Coleman, intrecciati a quattro mie composizioni fra cui Bourbon Street, dedicata a New Orleans e al forte legame con la matrice blues che ho sempre avvertito nel suono di Ornette. Ho sempre sostenuto che se è vero che in tutte le cose esiste una radice, io da lì voglio partire per delineare il mio personale tragitto». Musica intensa e incalzante, questa eseguita dal Quintetto di Falzone in cui i temi ben conosciuti di Ornette Coleman, Lonely Woman, Free, Blues Connotation e Congeniality si fondono in modo perfetto con le composizioni dello stesso Falzone. Giovanni Falzone Quintet, Around Ornette, Parco della Musica Records


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arti Mostre

ì, in fondo fa piacere verificare che la critica, quando parla schiettamente, al di là dell’infiacchita, complice adesione al «politicamente corretto», che è culturalmente l’equivalente dello sfacelo politico-civile, cui quotidianamente assistiamo («civile» è uno degli aggettivi più detestabili, quando si usa per un artista o una mostra, ma questa volta ci voleva!), ebbene non dispiace constatare che una critica, che fa seriamente il proprio lavoro (di cernita, ovvia, di misurazione, di valutazione obiettiva e magari anche un po’sincera e coraggiosa della situazione in atto) alla fine smuove qualcosa e provoca una (piccolissima, ma significativa, viva almeno) reazione. Di adesione o sia pure di irritazione, che va ancor meglio, si vede che il bersaglio marcio è stato colpito. Non per parlare di sé, ma per scendere a fatti concreti. M’è capitato di scrivere un pezzo di valutazione obiettiva, si spera, sulla mostra gemellata milanese, allo spazio Forma, dedicata a Lartigue e Schnabel (significativamente mi viene naturale rovesciare i termini del titolo, e non solo cronologicamente. Per me, il vero protagonista è il francese, purtroppo ridotto in una stanza meno glamour, per dare più spazio al gaucho americanone, che gira nei salotti in pigiama, e questo dice già tutto della sua poetica e della sua «eleganza»). Così, avendo denigrate le polaroid «furbastre» di Schnabel, che appaiono a prima vista abilmente prensili, ma che guardate meglio «non sono davvero niente di che», abbiamo ricevuto un plebiscito di «grazie, finalmente!», anche da artisti di rilievo (si vede che di questi bluff mercantili non se no può davvero più!) e già attendiamo gli inevitabili mugugni di galleristi-amici («ma perché ce l’hai proprio con lui»), mercanti di gusto sano (quando collezionano pro domo lo-

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mo immaginare che stuolo di valletti e assistenti e domestici al seguito, altro che «l’intimità domestica» e le immagini segrete rubate alla sua privacy, di cui blaterano i critici (tanto per poterlo accoppiare a quel mago del volo e della familialità, che è Lartigue). Intendiamoci: ovvio che se hai tanti dollari e mezzi, se viri furbescamente in seppia d’antan le tue fotone, se fai scorci astuti in ambienti chic, dove magari campeggia una tua opera, tra tante tavole da surfun mercoledì da tigrotto, e con su scritto Je ne... (che è già tutto un programma), qualcosa di piacioso di gusto «danzando sotto le stelle» o Interiors-ton sur ton Woody Allen, vien pur fuori, ma appunto, caveat, questa facilità iper-dilettantesca e hollywoodiana! Senza moralismi: quello che irrita è che ruba delle vecchie immagini di Alienati veri, che han sofferto (in stile Clérimbeau o Jean Clair, che lui, se mai lo conosce, affetterà di trattare da vecchio coglione), li sputa fuori dalle polaroid e ci fa i dollari... No, allora preferiamo mille volte l’amateur della leggerezza e della levità domestica, Lartigue, che riesce a far arte con un semplice tuffo fermato nell’aria (altro che superficiale surf californiano: si guardi la profondità della tecnica lenticolare!) e della polvere istantanea d’un incidente di triciclo o del domestico teatro d’una capriola, un’inquadratura che riverbera insieme, baudlerianamente, il sortilegio dell’eterno e della moda effimera (impressonista, Belle Epoque, Déco) perché qui tutto si mescola. «Materia e memorie», per dirla col suo contemporaneo Bergson.

Schnabel/Lartigue

Archeologia

l’ombra e la grazia di Marco Vallora ro) ma che ahimé devono o vogliono cavalcare, nelle loro gallerie-show room, questi ronzini zoppi e pur milionari. Dunque vale ancora protestare, anche in nome di artisti che non meritano di bagnare questo calderone, in cui tutto quanto fa cassetta o audience, dovrebbe autenticamente valere, e ottenere il nostro plauso - alla fin fine prezzolato. Capiamo le esigenze di «mercato» e di «audience», d’un ente serio come quello di Forma (Schnabel «tira») che però è abituato alle mostre storiche, e dunque poteva evitare questo scompenso ingiusto: un vero maestro non si umilia. Certo, Schnabel, che è contemporanemente

anche al Correr di Venezia, con quadroni (o teleri, visto che siamo a Venezia e la Curiger scopre l’altro ieri Tintoretto e lo porta pimpante in Biennale) o imbrattate-tele, che dir imbarazzanti o fanfarone o micidiali, è dire poco. Certo, talvolta una, azzeccata, gli scappa pure, è umano, come una pipì ben centrata (vedi per esempio «l’attacco» canoviano, giù nella sala delle Colonne). Allora, va da sé, per Forma, l’esigenza era di accasare nei saloni regi anche queste gigantesche polaroidone, biffate alla meglio di bistro violetto orinato, che sfruttano un’apparecchio vintage, grande come un frigorifero, e allora possia-

Polaroids di Julian Schnabel e La scelta della felicità. Fotografie di Jacques Henri Lartigue, Fondazione Forma per la Fotografia, Milano, fino al 20 novembre

Tra Clio e Melopomene, ecco il volto di Virgilio l cantore torna nella sua Mantova. Virgilio, volti e immagini del poeta è la mostra che sarà inaugurata il prossimo 15 ottobre a Palazzo Te e che sarà successivamente esposta a Tunisi, in occasione della riapertura del rinnovato Museo del Bardo nel mese di marzo 2012. Forse nessuno scrittore classico ha avuto la notorietà di Virgilio. Celebrato come autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche, è stato scelto da Dante come guida nella Divina Commedia, affascinando in ugual misura Petrarca e Boccaccio, Ariosto ed Eliot, soltanto per citare qualche nome. Senza tacere della sua fama di profeta, mago, nume propiziatore, nomea che per secoli si è accresciuta a Napoli, circondando il poeta e la sua tomba di infinite leggende. Di Virgilio, a Palazzo Te, vengono indagati soprattutto l’uomo e la sua fama. Dell’uomo si cerca di scoprire il volto, partendo da un documento che per la prima volta esce dal Museo del Bardo di Tunisi: il mosaico rinvenuto nel 1896 negli scavi di Hadrumentum dove Virgilio è ritratto tra due Muse. Si tratta di un evento straordinario reso possibile grazie agli sforzi congiunti del sindaco

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di Rossella Fabiani di Mantova Nicola Sodano, del presidente di Palazzo Te Angelo Crespi, del curatore Vincenzo Farinella e della responsabile del museo mantovano Daniela Sogliani, che hanno raggiunto a Tunisi un accordo storico che prevede la concessione eccezionale da parte del Museo del Bardo del mosaico tardoantico, raffigurante Virgilio fra le Muse Clio e Melopomene, che viaggia per la prima volta fuori dai confini della Tunisia e che rimarrà a Mantova per l’intera durata della mostra, affiancando una collezione di «ritratti» moderni del poeta rappresentati da sculture, dipinti, monete e affreschi. Palazzo Te, a sua volta, ha acconsentito al trasferimento in Tunisia di gran parte delle opere esposte a Mantova. Il mosaico di Virgilio, che conserva un’eco delle reali fattezze del sommo poeta, rappresenta senza dubbio il pezzo forte dell’esposizione. E da una testimonianza così antica e inarrivabile a un monumento recente: quello che nel 1927 Mantova gli ha dedicato, in mostra con i bozzetti di Giuseppe Menozzi, affianca-

ti da altri progetti ideati da artisti del primo Novecento, tra cui Duilio Cambellotti. In mostra anche reperti e testimonianze uniche, dalla scultura del Virgilio in cattedra, emblema della Mantova medievale, alla bizzarra iconografia della «testa di Virgilio nella vasca» elaborata in area mantegnesca e ripresa da Giulio Romano, a una serie di grandi tele sei e settecentesche che raccontano episodi dell’Eneide e della Divina Commedia. Alcune di queste tele sono poco note, come quelle di Filippo Napoletano e Rutilio Manetti provenienti dagli Uffizi e dalla Pinacoteca Nazionale di Siena, o non sono mai state esposte, come La morte di Didone di Pietro Testa o il dipinto rococò di Sebastiano Conca. Poi l’interesse per Virgilio in epoca neoclassica con una tela preromantica di Hubert Robert, che documenta come la fama del poeta mantovano fosse radicata in tutto il Continente. E ancora: monete che ne trasmettono l’effigie, medaglie e illustrazioni a stampa. Queste ultime, veramente numerose e importanti, diffondono e confermano ciò che è proiettato nell’immaginario delle storie virgiliane. In mostra, alla celeberrima edizione di Strasburgo del 1502 - curata dall’umanista Sebastian Brant qui proposta nella sua prima edizione impreziosita da xilografie acquarellate - viene affiancata l’edizione manierista basata su disegni del Beccafumi di recentissima scoperta.


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il paginone

Da De Amicis a Vanoni, da Olivetti a Saraceno, da Gobetti a Gadda a Giannini. Lo sviluppo del Nord e i mali del Sud nell’analisi di un gruppo di intellettuali, politici, sindacalisti e imprenditori italiani vissuti nell’arco di oltre un secolo, raccolta da Sergio Zoppi in “Diciotto voci per l’Italia unita” di Gabriella Mecucci iù volte, da parti diverse e con motivazioni talora opposte, le sorti del Nord e del Sud d’Italia sono state viste come contrapposte. Come se i finanziamenti al Sud danneggiassero il Nord, o come se - atteggiamento speculare - il Nord, più forte, riuscisse comunque a drenare ricchezza del Mezzogiorno. A mettere in atto uno sfruttamento indiretto. L’essenza di queste critiche è la seguente: gli interessi di un’area sono in contraddizioni con quelli dell’altra; è inutile cercare di tenerle insieme. Tesi questa che, con argomentazioni radicalmente divergenti, è stata sostenuta dai diversi separatismi del Novecento: da quello siciliano a quello padano. Ma è esistito anche un forte movimento, molto robusto intellettualmente, che ha sempre scommesso sul fatto che lo sviluppo di un’area facesse bene anche all’altra. Che lo sviluppo del Settentrione fosse una buona medicina per curare i mali del Meridione. E viceversa.

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Lo spiega bene l’articolo di Luigi Einaudi, in parte pubblicato in questa pagina. Lo spiegano 18 fra intellettuali, uomini politici, sindacalisti, imprenditori. Alcuni cattolici, altri liberali e socialisti. I loro saggi sono contenuti in un libro a cura di Sergio Zoppi, dal titolo: Diciotto voci per l’Italia unita, edito da il Mulino (450 pagine, 32,00 euro). Gli autori in questione sono di straordinaria qualità: Antonio Mordini, Edmondo De Amicis, Leopoldo Franchetti, Giuseppina Le Maire, Piero Gobetti, Giuseppe Donati, Luigi Einaudi, Giuseppe Cenzato, Rodolfo Morandi, Ezio Vanoni, Adriano Olivetti, Giulio Pastore, Pasquale Saraceno, Giorgio Seriani Sebregondi, Mario Romani, Carlo Emilio Gadda, Massimo Severo Giannini, Danilo Dolci. Rappresentano un puzzle di posizioni anche oggi (purtroppo) di grande attualità davanti a certe anno IV - numero 34 - pagina VIII

chiassose polemiche leghiste e in presenza di una crisi economica pericolosissima. Ezio Vanoni, democristiano di sinistra, artefice della prima riforma fiscale del dopoguerra, è molto preciso quando spiega che è interesse anche del Nord che il Sud si sviluppi. Scrive fra l’altro: «Sotto questo profilo, la necessità di elevare il livello di vita della popolazioni meridionali non costituisce soltanto una esigenza morale e politica, ma il presupposto per un ben ordinato progresso economico dell’intero Paese… Lo squilibrio regionale dei redditi è infatti un fattore di instabilità economica che si ripercuote necessariamente sull’attività produttiva delle altre zone, in particolar modo sull’attività industriale, in quando non permette di contare su un livello medio di consumi». Quindi, occorre puntare allo sviluppo del Sud se si vogliono favorire le imprese anche del Nord. Come

Uomini contro investire per ottenere un tale risultato? «I capitali - risponde Vanoni - devono essere privati» e l’azione dello Stato al Sud «dovrà essere diretta soprattutto a modificarne le condizioni ambientali, le quali rendono talvolta impossibile e spesso non redditizio l’investimento privato, almeno in termini relativi». Le cose non sono andate esattamente così: spesso ci sono stati sprechi e errori. L’im-

postazione di Vanoni però risulta tuttora di grande attualità e andrebbe perseguita.

G i u l i o P a s t o r e , fondatore della Cisl e ministro nei governi Fanfani, insiste sullo stesso tasto in chiave storica: «Il mancato sviluppo del mercato meridionale, nei primi novant’anni di vita nazionale, è stato insieme causa ed effetto dello sviluppo tardivo e distorto dell’in-

dustria italiana, territorialmente ristretta, settorialmente squilibrata, esposta a frequenti crisi di crescenza, dipendente in larga misura dalla protezione doganale e dall’aiuto statale e più dalle prospettive dell’esportazione che dalla crescita, assai lenta, del mercato interno». Un problema questo che, anche se sotto forme diverse, si ripresenta anche oggi, quando cresce l’export cresce, e i guai nasco-

Il Mezzogiorno e il tempo lungo di Luigi Einaudi Per gentile concessione dell’editore il Mulino, pubblichiamo un brano di un articolo di Luigi Einaudi uscito sul Corriere della Sera nel 1960, tratto dal libro curato da Sergio Zoppi Diciotto voci per l’Italia unita. l reddito lordo pro capite nelle regioni centro-settentrionali era nel 1950 di 361 e crebbe nel 1958 a 528 mila lire con un aumento assoluto di 167 mila lire: laddove lo stesso reddito lordo nelle regioni meridionali da 224 mila lire nel 1950 crebbe solo a 320 mila, ossia di 96 mila lire. I settentrionali migliorarono nel frattempo il reddito a testa di 167 mila lire; i meridionali di sole 96. A tanto giovarono i capitali investiti dalla Cassa del Mezzogiorno? A crescere i redditi individuali nel Sud meno di quanto, senza largizioni statali partico-

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lari, crebbero nel Nord? In verità quegli aiuti, osservano taluni, non si formarono nel Mezzogiorno, ché le commesse di materiali, di macchinari, la richiesta di beni di consumo, particolarmente durevoli, l’impiego di tecnici e di dirigenti profittarono soprattutto all’economia del triangolo settentrionale, sicché i denari della «Cassa» finirono per rifluire al Nord, lasciando in secco le zone centro-meridionali. L’osservazione non calza: ché, se non sbaglio, il triangolo industriale incassò denaro, ma diede macchinari; i suoi tecnici furono pagati coi denari della «Cassa», ma prestarono servigi. Si trattò di uno scambio fra valori reputati equivalenti: i venditori non perdettero, ma neppure gli acquirenti. Come in tutti gli scambi economici, si deve presumere che entrambi i contraenti, Nord e Sud, abbiano guadagnato.

Se si fa astrazione di siffatto argomento, dal vago sapore mercantilistico (un Paese si arricchisce, locupletandosi di moneta o trattenendo in Paese moneta) fa d’uopo osservare che le cifre possono essere diversamente interpretate. È vero che i redditi settentrionali crebbero a testa da 361 a 528 e cioè di 167 mila lire; e quelli meridionali da 224 a 320 ossia di sole 96 mila lire; e che 167 è maggiore di 96; e che la distanza fra le 528 settentrionali e le 320 meridionali del 1958 ossia 208 mila lire è maggiore della differenza fra le rispettive 361 e 224 del 1950 che è di sole 137 mila lire; e che quindi il distacco fra il Nord ed il Sud è nell’intervallo di tempo cresciuto. Ma è vero altresì che l’aumento proporzionale o percentuale fra le 361 del 1950 e le 528 del 1958 fu nel Nord del 35,1 per cento, laddove la differenza fra le 224 del 1950 e le 320 del


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Appuntamento all’Istituto Sturzo Edmondo De Amicis, Leopoldo Franchetti, Antonio Mordini, Giuseppina Le Maire, Piero Gobetti, Giuseppe Donati, Luigi Einaudi, Giuseppe Cenzato, Rodolfo Morandi, Ezio Vanoni, Adriano Olivetti, Giulio Pastore, Pasquale Saraceno, Giorgio Ceriani Sebregondi, Mario Romani, Carlo Emilio Gadda, Massimo Severo Giannini e Danilo Dolci. Non meridionali di nascita ma tutti votati ai problemi del Mezzogiorno. Questo il fil rouge che lega questi autori prescelti da Sergio Zoppi che ha raccolto in Diciotto voci per l’Ita lia unita , (il Mulino, 450 pagine, 32,00 euro) alcuni loro testi sulla «questione meridionale». Intellettuali, politici, sindacalisti, imprenditori che rappresentano posizioni diverse (cattolici, liberali, socialisti), tutte di grande utilità per riflettere sull’attuale contingenza politico-economica. Il volume, promosso dalla Svimez per i tipi del Mulino, verrà presentato giovedì prossimo, 13 ottobre, alle 17 a Roma, all’Istituto Luigi Sturzo (via delle Coppelle 35). Oltre all’autore, interverranno Raffaele Bonanni, Stefano Folli, Adriano Giannola, Francesco Rutelli.

o la secessione no dalla flessione dei consumi dovuta alla crisi. Ma diamo la parola a Pasquale Saraceno che alza già negli anni Ottanta lo sguardo verso l’intera Europa e verso tutte le sponde del Mediterraneo. Scrive: «Le regioni centrali europee, comprese quelle settentrionali italiane, per il loro raggiunto benessere economico e per le loro prospettive di declino demografico sono naturalmente

orientate verso l’obiettivo della stabilità, piuttosto che verso quello dello sviluppo. Le regioni periferiche e quelle mediterranee in particolare, con la loro offerta di lavoro ancora in forte aumento e con i loro ritardi strutturali, sono, o dovrebbero essere, interessate invece al prevalere di una combinazione di obiettivi, nella quale lo sviluppo abbia maggior peso di quanto oggi non abbia. Rende-

1958 fu nel Sud del 42,8 per cento.Val di più, nel correre, l’aumento assoluto o l’aumento proporzionale? A guardare le cose da vicino - e cosa sono otto anni nella storia se non un tempo breve? pare corra di più l’aumento assoluto. A guardarle nel tempo lungo, come prognostico per l’avvenire, sembra corra di più colui che più avanza proporzionalmente. Chi corre, aumentando il passo del 43 per cento ogni otto anni, è sicuro di raggiungere colui il quale aumenta il passo, nello stesso tempo, solo del 35 per cento. Occorrerà all’uopo un tempo non breve; e chi si lamenta di non aver raggiunto la meta in otto anni va contro la logica. Sempre accade che gli avanzamenti economici siano disuguali; e c’è chi arricchisce di più e chi di meno. Se tutti avanzano, non ha ragione di lamentarsi colui il quale, pur procacciando il meglio, non riesce a mantenere il passo con i più abili corridori. Se i più abili e fortunati rimanessero fermi o retrocedessero, i ritardatari precipiterebbero. Nelle contrade che impoveriscono o stagnano, i poveri vanno a fondo.

re conveniente l’impiego di capitali e di risorse imprenditoriali europee ed extraeuropee in tali regioni è la condizione necessaria perché quella combinazione sia accettata da tutti».

Saraceno annoverava fra quelle «regioni mediterranee» che avrebbero dovuto mettersi in condizione di ricevere capitali esteri anche ampie zone del nostro Mezzogiorno. Su questa

La disputa odierna richiama il ricordo della controversia fra Antonio Scialoja, fuoruscito napoletano e professore di economia nella università torinese ed Agostino Magliano (divenuto poi Magliani e per lunghi anni Ministro del Tesoro con Depretis nell’Italia unita), funzionario non ultimo nel dicastero finanziario del reame di Napoli. Tenui le imposte, moderato il debito pubblico, usitate le monete d’oro e d’argento nel comune commercio, non numerosi gli impiegati statali, ben remunerati i magistrati, il bilancio dello Stato in avanzo, diceva il Magliani, il quale raffrontava il moderato regime napoletano alle imposte dure piemontesi e all’incremento rapido del debito pubblico nel regno sardo. Sì, è vero, replicava lo Scialoja, in Piemonte le imposte sono dure e crescenti, più che a Napoli; sì, il debito pubblico cresce perché il bilancio sardo si chiude da anni in disavanzo. Ma qui si ampliano i porti di Nizza e di Genova e si crea quello della Spezia; qui si costruiscono ferrovie e se ne meditano altre; qui si intraprende l’opera gigantesca del traforo delle Alpi. Qui ferve la vita

È antistorico immaginare di spezzare il Paese. La Prima Repubblica lo aveva capito bene, nonostante i suoi errori linea lo Stato nazionale poteva fare molto, ma purtroppo - ecco la tesi di Saraceno - aveva anche sbagliato molto: «Si continuano a praticare ampiamente interventi che, magari inizialmente formulati in nome dello sviluppo o dell’equità o dell’emergenza, hanno invece finito

industriale e l’agricoltura compie progressi notabili. (…) Senza opere siffatte, le quali costano imposte e non fruttano nulla, i proprietari di terra non seminerebbero, gli imprenditori non azzarderebbero i risparmi non ancora esistenti, i lavoratori rimarrebbero disoccupati. Su queste opere (cosiddette sovrastrutture) fondamentali, che stanno alla base di ogni società civile, se ne innestano altre, che son quelle di cui abbisogna il Mezzogiorno: rimboschimento per assodare la terra che lungo tutto l’Appennino è uno sfasciume, che se ne va a mare; bonifiche per recuperare la terra malarica e paludosa, strade per consentire ai coltivatori di vendere i loro raccolti e perciò produrli; e soprattutto scuole per trasformare il lavorante, pronto a far tutto e quindi disadatto a qualunque occupazione specifica, in lavoratore di mestiere, che tutti a gara si contendono (…) Stanziare miliardi e pretendere che rimboschimenti, strade, bonifiche e scuole diano frutti copiosi immediati in dieci o anche in vent’anni è mera illusione quando non sia mero imbroglio demagogico.

con l’essere meri trasferimenti a favore di attività senza prospettive o di soggetti tutt’altro che socialmente deboli». Nel libro di Zoppi a sostegno dell’unità del Paese, scende in campo anche un personaggio che di mestiere non faceva certo l’economista. Si tratta di Carlo Emilio Gadda, grande scrittore, dirigente Rai, ingegnere e «settentrionalista». Nel suo saggio polemizza con il «separatismo» siciliano con un tono unitario ma non senza qualche accento paraleghista ante litteram. «Sta di fatto scrive l’autore del Pasticciaccio brutto di via Merulana - che oltre un milione e mezzo di Siciliani e loro prole vivono oggi sul “continente”: lucrando emolumenti per lo più legittimi negli uffici, nell’amministrazione dello Stato, nei commerci, nelle organizzazioni e nelle industrie del Nord. I separatisti e le folle di seguaci tengono conto di ciò? Loro si separeranno: e noi… non potremo separarci. Protestano che noi li “sfruttiamo”. Dicono di averci in casa loro limoni e di esportare citrato, come è vero, solfo, aranci e vini: che rendono “attiva”la loro particolare e regionale bilancia. Ho i miei dubbi sulla eventualità di un miglior tono economico della Sicilia separata». Sempre brillante l’ingegner Gadda e interessante l’intero dibattito - tutto teso in direzione dell’unità nazionale - riportato da Zoppi. Alcuni argomenti su quale sviluppo occorra, sono ormai caduchi. Ma i temi di fondo e la passione messa in questo confronto restano di grande attualità. L’Italia è un Paese che non può essere spezzato. La «secessione» - lo ha affermato di recente il presidente Giorgio Napolitano - è una proposta «antistorica». La Prima Repubblica lo aveva capito bene, anche se per irrobustire l’unità del Paese spesso mise in campo politiche carenti. E talora sbagliate.


Letteratura

MobyDICK

pagina 18 • 8 ottobre 2011

libri

Alberto Arbasino AMERICA AMORE Adelphi, 867 pagine, 19,00 euro

arratore, saggista, autore di libri di viaggio e di poesia Alberto Arbasino resta per sempre la testimonianza ricca e profonda di una grande competenza e passione letteraria. La sua prosa sempre misurata e sorvegliata anche quando si accendono lampi di polemica o notazioni suggestive sul paesaggio, si impone in maniera straordinaria per il suo tono tra ironico e sentimentale. Non manca certo a lui il coraggio del giudizio anche più impopolare, che talvolta prende di sorpresa anche noi. Arbasino e l’America: un libro edito da Adelphi intitolato America amore supera le 850 pagine. Ricordiamo il percorso delle nostre prese di contatto e del nostro amore per la letteratura americana, per il suo cinema, per la sua democraticità. Imparammo qualcosa già nel 1935 quando Soldati scrisse America primo amore e poi nel ’39 con Cecchi che ci dette America amara: nei due libri c’era da una parte le lucentezza dell’entusiasmo giovanile e dall’altra le luci e le ombre della società americana. E non possiamo dimenticare la data del 1941 quando, soprattutto per opera di Vittorini, apparve l’antologia Americana: un’ampia scelta della letteratura degli Stati Uniti. Parrà strano che sotto il fascismo, mentre eravamo in guerra contro gli Stati Uniti, apparisse questa importante antologia e, infatti, fu subito sequestrata. Ma un anno dopo, grazie a una prefazione molto abile anche politicamente di Emilio Cecchi, Americana uscì. Da allora molte furono le traduzioni dei maggiori libri degli americani, compresi quelli più attuali. Ma Faulkner si leggeva già tradotto nel ’35. E ora eccoci a questa specie di bibbia americana che si deve ad Arbasino. Ci sono molti ritratti, interviste, viaggi di città in città, una grande attenzione ai problemi sociali e culturali del Paese. Arbasino - si sa - debuttò già nel ’57 con Le piccole vacanze; si ripetè nel ’59 con L’anonimo lombardo giungendo nel ’63 a quello che resta forse il suo capolavoro, Fratelli d’Italia. Ritratti politici in America amore e si può citare quello di Kissinger, che sa prevedere molti avvenimenti successivi al suo incontro con Arbasino. Ci sono anche pagine sul viaggio a New York di Kruscev con tutta la curiosità e le animosità suscitate. Tra le città visitate nella West Coast ecco Los Angeles e subito dopo le belle vedute di San Francisco. Nella parte del libro in-

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L’America secondo

Arbasino Paesaggi, ritratti politici, notazioni sociali, giudizi coraggiosi nella bibbia americana dell’autore di “Fratelli d’Italia”

Esordi

di Leone Piccioni

titolata Off - off ecco i «Ritorni a NewYork» e «D’estate a Manhattan». S’è detto della capacità lirica di Arbasino anche davanti ai paesaggi, ma questa volta pare preponderante in lui l’annotazione sociale, politica e culturale in genere: con più interesse per il teatro che per il cinema, se Hollywood ha perso molto del suo fascino. Ma forse la parte più importante del libro è quella dedicata agli scrittori americani. Ci vorrebbe molto più spazio per descriverla. Ricordo le pagine su Saul Bellow e le coraggiose limitazioni messe avanti da Arbasino su autori come Hemingway, Henry James, Arthur Miller e specialmente - ci ha stupito e andremo a rileggerlo - su Salinger. Molto bello e positivo lo scritto dedicato a Fitzgerald che pare riscuotere le maggiori simpatie di Arbasino. Anche di Truman Capote scrive con simpatia (lo ha anche incontrato in Italia con amici italiani sulla barca degli Agnelli e altrove) ma rimanda al suo più completo saggio-ritratto apparso sul «Meridiano» Mondadori dedicato a Capote. Di scritti molto lunghi mi sono dovuto occupare molto rapidamente. Ma ci sono due sole paginette su Ezra Pound e i suoi silenzi, anche in un libro così ampio. Pound - si sa negli ultimi anni rifiutava di parlare, «però il suo sguardo risultava il più curioso e vivace nel seguire con rapidità impercettibile ogni moto o cenno di tutti gli astanti e passanti, con un humor represso e tuttavia evidente che illuminava il rosa delicato della carnagione attraverso i peli della barba “patriarcale”». Pound aveva 86 anni quando Arbasino lo incontrò. Arbasino trova tuttavia il coraggio di fargli la più banale delle domande: «Vedendolo sorridere non sono riuscito a trattenermi e gli ho chiesto cosa fa tutto il giorno, cosa gli piace e gl’interessa. Prontissimo, quasi sillabando, quasi scoppiando a ridere, risponde benignamente: Nothing».

Una voce narrante dall’alto dei cieli

a molto piacere apprendere che un narratore nato nel 1942 abbia vinto il Prix Goncourt 2011 du premier roman. E che la sua opera sia un best seller in Francia. Si aggiunga che questo dovrebbe essere una sorta di monito dinanzi al neo-giovanilismo che sta alla base di alcune scelte editoriali (soprattutto italiane) che, per dirla in breve, poggiano sull’assioma: «Se hai 25, 30 anni al massimo, va bene, altrimenti sei una cellula grigia, e difficilmente vendibile». Parliamo di Michel Rostain, autore di Il figlio (Elliot, 142 pagine, 15,00 euro). Rostain è regista teatrale e operistico e per diversi anni ha diretto il teatro di Quimper. La vicenda è commovente, ma procede sempre lungo il tracciato dell’analisi lucida, a volte ironica. Lion, il «figlio» in questione, è un ventunenne che muore per meningite folgorante (purpurea fuliminans). Ed è lui a parlare da un non ben definito «lassù», a spiare e a commentare, talvolta in modo paternalistico, il pianto dirotto del padre, la tenuta emotiva della madre e il viaggio luttuoso di entrambi che, in ossequio alle sue ultime volontà, finirà sulle coste dell’Islanda per spargere in mare una parte

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di Pier Mario Fasanotti delle polveri del ragazzo cremato in Francia. Lion si adombra un poco constatando che il padre annusa come reliquia i suoi ultimi oggetti, che scatta oltre cinquanta foto al suo cadavere, che moltiplica a furia di pixel le sue fotografie. E piange a dirotto, trascinato da un lutto che fa da levatrice a molti suoi problemi intimi e da diversi anni oggetto di psicoanalisi. Ammirazione la esprime verso la mamma: «Ha assaporato ogni goccia delle gioie inenarrabili delle cure materne e paterne quando ero appena nato. Che fortuna poter vivere insieme alla vita». Il padre è creatura contorta, è uomo convinto «da bravo stoico moderno» che la vera felicità risieda nell’istante che si vive. E quindi avverte gli altri di non disturbarlo nel lutto, traendo per assurdo fonte di felicità intima nell’accarezzare mentalmente il figlio. Lion passa in rassegna lo sbigottimento dei genitori dinanzi alla sua improvvisa febbre alta, alla comparsa delle macchie scure dovute al meningicocco. Affannata ricerca del padre di un segno, di una pur piccola volontà di morte di

Lucido e ironico il romanzo del regista teatrale Michel Rostain, vincitore del Goncourt 2011

Lion, il quale aveva poco prima preso appuntamento da una psicologa, ma nello stesso tempo s’era abbonato a Le Monde. C’è stordimento sotto il cielo che ha accolto Lion. Vale la frase di Bergman: «In materia di sentimenti siamo analfabeti». Così come suona disperatamente vero l’esergo posto all’inizio d’un capitolo: «Allora… le volte che mi viene il pensiero di una mancanza la devo chiamare presenza? Giusto, così a ogni mancanza dai il benvenuto, le fai un’accoglienza» (Erri De Luca). Lion «vede» anche i sogni del padre: i cosiddetti «eventi notturni», come li chiamava Victor Hugo. Non si scandalizza dinanzi alle tracce di erotismo. Come ridacchia ricostruendo le ore di fretta e di goffaggine del papà che, allertato dalla moglie, lascia il carrello della spesa al supermercato, corre in farmacia, per poi reimpossessarsi della spesa. Tempo sottratto alla dolcezza dell’ultimo contatto. Ma Lion ricorda anche quando avevano parlato di tutto, partendo da un’occasione calcistica. Filo diretto spezzato: «Solo chi ha perso un figlio può comprendere appieno il dolore della via crucis che un tempo si seguiva nelle chiese». Ma oggi vince la banalizzazione della morte. Padre e madre pensano alla medesima cosa: «Non sarò mai più veramente felice».


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poesia

8 ottobre 2011 • pagina 19

Nei misteri di Kavafis di Filippo La Porta uesto componimento del 1913 esemplifica bene la qualità specifica della poesia di Kavafis: potremmo dire che è una «poesia da camera», o da caffè (l’esatto opposto di quella enfatica, da palcoscenico o da gineceo, del suo coetaneo D’Annunzio): essenziale, intima, umile. Assomiglia a un esercizio spirituale stoico-epicureo, la prescrizione di un comportamento, di un modo di vivere, la vigilanza sulle molte tentazioni di autodissipazione. Almeno così spiega Pierre Hadot la funzione di quegli esercizi spirituali ellenistici, più intellettuali e razionali che mistici. Se leggi una qualsiasi poesia di Kavafis ti chiedi se ti trovi nel secolo terzo dopo o prima di Cristo, se sei contemporaneo di Nerone o della prima guerra mondiale: il tono, la visione del mondo, la presenza di dei, figure mitiche, personaggi dell’epica classica, la parentela con Omero. Ragiona e versifica come un greco antico (oltre al fatto di scrivere in neogreco e non in inglese, lingua che conosceva meglio), pur essendo nato ad Alessandria il 29 aprile 1863, poi in Inghilterra e di nuovo ad Alessandria a vent’anni, fino alla morte nel 29 aprile del 1923 (la simmetria di date ci evoca subito la misteriosa perfezione stilistica della sua poesia).

Q

C’è un componimento di Kavafis che potrebbe essere letto come una introduzione al linguaggio stesso della poesia: Nel mese di Athyr. Lo riproduco nella sua eccezionale particolarità grafica. Il poeta è intento a decifrare una iscrizione tombale semi-cancellata, relativa a un giovane cristiano che dovette vivere in età bizantina. Pian piano e faticosamente ne afferra il significato. È come quando ci apprestiamo a leggere una lirica e tentiamo di capirla, riempiendo gli spazi vuoti, collegando tra loro le parole, facendone vibrare la corda emotiva. E alla fine scopriamo che quella iscrizione funebre ci parla di un sentimento di amore, come quando una poesia apparentemente luttuosa si converte in un’adesione alla vita. «A fatica leggo sulla vecchia pietra/ SIGN(OR)E GESÙ CRISTO. La parola/ ANI(M)A distinguo./ NEL ME(SE DI) ATHYR LEUCI(O) SI SP(ENS)E./ Menzio-

il club di calliope

E se non puoi la vita che desideri cerca almeno questo per quanto sta in te: non sciuparla nel troppo commercio con la gente con troppe parole in un viavai frenetico. Non sciuparla portandola in giro in balìa del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti, fino a farne una stucchevole estranea.

nando l’età … ANNI VIS(SU)TO/ Le Kappa e Zeta dicono che si spense presto./ Dove la parte è guasta vedo COSTU(I)… DI ALESSANDRIA./ Poi vengono tre righe molto mutile, appena posso/ decifrare le parole NOSTRE L(A)CRIME, e DOLORE/ e ancora LACRIME e GLI (AM)ICI IN LUTTO./ Questo Leucio a me pare che fu molto amato./ Nel mese di Athyr Leucio si spense». La morte (il Grande Nulla) è un tema centrale, ma senza alcuna «interferenza» del cristianesimo: in quella estrema, esotica periferia mediterranea viene accolta come qualcosa di necessario. La visione di Kavafis è insieme tragica e serena. Appunto: greca e non cristiana, fondata sulla ferma consapevolezza che tutto dilegua, come la città di Alessandria per Antonio sconfitto in una celebre poesia: «avvicinati con passo fermo alla finestra/ (…)/ e saluta la tua Alessandria che tu perdi». Non ritiene che la morte sia «innaturale», ossia la conseguenza scandalosa del peccato, una violazione di qualche ordine cosmico-divino, ma benché «irrevocabile sventura» - l’altro lato della vita, l’ombra che la luce implica, un momento transeunte dell’eterno ciclo dionisiaco di creazionedistruzione-ricreazione (come è anche nella religione induista). Anche se un efebo canta la propria morte con tristezza, poiché gli ha sottratto la bellezza e l’ardore vitale (si chiama Iasìs, come uno dei ragazzi del romanzo postumo pasoliniano Amado mio), non c’è qui lamento o imprecazione contro la sorte: «Io, Iasìs, qui giaccio. Della metropoli/ per bellezza l’efebo celebrato/ (…) Passante, se tu sei/ di Alessandria, risparmiami.Tu ben conosci l’impeto/ e di che ardore in vita, di che somma voluttà siamo capaci». Ma la figura di Pasolini mi viene indirettamente evocata da un’altra poesia, Giura (1915): «Ogni tanto giura di cominciare una vita migliore./ Ma come viene la notte con i suoi consigli/ con i suoi mezzucci e

Costantino Kavafis

le sue malìe,/ ma come viene d’impeto la notte, allora/ il corpo che esige e reclama, a quella/ stessa fatale gioia egli, smarrito, fa ritorno».

Nella ritrattistica Kavafis è insuperabile, un vero romanziere mancato, un narratore miniaturista in versi. Ad esempio I giorni del 1896, che pure è in qualche modo imparentata con la precedente anche se scritta dodici anni dopo: «Si lasciò andare totalmente. Un’amorosa inclinazione/ tanto vietata e disprezzata tanto/ (eppure innata) fu all’origine:/ troppo virtuosa la società e ridicola all’eccesso./ Perdette pian piano il suo poco denaro/ poi il suo rango e la reputazione./ Sulla trentina, e mai un anno speso/ in un lavoro che fosse un lavoro/ (…)». Infine, ma è l’ultima analogia con Pasolini, anche Kavafis aveva una adorazione per la madre, a cui è idealmente dedicato un verso di Anna Dalassene (una delle ultime poesie), quando per onorare con maestà sua madre, appunto «la molto savia» Anna Dalassene, il figlio Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio nel 1081, usa molti elogi ma una frase più bella di tutte che «vale la pena qui riportare/ il mio, il tuo, queste fredde parole da noi mai pronunciate». Dunque un canzoniere non uniforme, benché potentemente unificato da una visione «greca» della realtà, incline a semplificare, a cogliere l’essenziale, senza abbellimenti (come ha sottolineato la sua traduttrice Margherita Dalmati): in esso trovano posto la poesia gnomica, il ritratto, l’istantanea, il frammento di diario. La poesia di Kavafis - che lui cominciò a comporre tardi, dopo i 40 anni - nasce misteriosamente dal passato, appartiene a una dimensione atemporale, metastorica, eppure parla direttamente agli uomini che, come noi, abitano la storia e il tempo.

in libreria

IL SÉ NEL MONDO DI DANTE MAFFIA

IN RICORDO DI VETTOR PISANI Attraverso ombre e glicini di spazi perduti tra mostri e glicini di giardini anneriti dal tempo e dall’incuria, ecco, Vettor, il tuo sguardo si erge dall’annoso leggìo su cui sei intento da più sere, scende la stessa sera calma e compatta nell’orto, le onde rumoreggiano sotto l’antico castello e le fere, gli squali, passano a debita distanza dalle case abitate… tu muovi passi verso il davanzale la tempesta lontana unisce aure e concordie e il gatto di casa, gira per pavimenti e maioliche di altri tempi nessuno è in casa tu sei assente e presente al mondo, una lampada lontana sul mare indica una tenebrosa e sicura presenza oltre orizzonti e infiniti lontani… di Francesco Serrao

di Loretto Rafanelli i può certo pensare, come osserva Enrico Ghidetti nella prefazione a La strada sconnessa (Passigli, 130 pagine, 15,00 euro), che Dante Maffìa intenda scrivere, libro dopo libro, una autobiografia in versi, ma ancor meglio si può dire che ciò che caratterizza il suo lavoro poetico sia il desiderio di esprimersi sulla vita, sulla natura del mondo, dell’uomo, e sulle mutazioni che la società ha vissuto e vive, soprattutto quella contadina del Sud. Allora l’autobiografia c’entra ma più che come rifugio, come occasione per poter parlare di ciò che lo circonda, di poter comunicare una propria visione, qualcosa che appare come una impellente, fisiologica, necessità (nella forma, quasi continua, del lungo poema). Si evidenzia nei versi del poeta calabrese-romano, uno spaesamento, una difficoltà a seguire il nuovo corso delle cose. E c’è quasi il desiderio di fermarsi e di dirsi estraneo a tutto. Maffìa ha un dettato melanconico (ma qua e là anche ironico) specie nelle belle poesie d’amore, dove amputati sono i sussulti di speranza («Lasciatemi amarla, fosse pure vento soltanto»). Forte poi è il ricorso a dei «frammenti di memoria», quelli dedicati alla madre e all’infanzia sono versi toccanti e tra i più alti: «Madre… fa’ che ti ritrovi/ fuori dall’ombra, in una radura/ mentre la primavera/ alza le sue vesti fanaticamente/ per abbeverarmi d’assenzio celeste,/ fa’ che risusciti/ la traccia concreta dell’amore». Maffìa con questa raccolta lascia ancora una volta la sua importante testimonianza poetica.

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pagina 20 • 8 ottobre 2011

di Jacopo Pellegrini

ella marca anconetana, laddove le colline digradano dolcemente verso il mare, sta Jesi, incantevole cittadina abbellita da un teatro raccolto e accogliente, una delizia per l’udito. L’edificio s’intitola a Giovanni Battista Pergolesi (1710-36), con Gaspare Spontini (17741851) una delle illustri personalità musicali nate in questi paraggi. È appunto la Fondazione che nel proprio nome riunisce i due compositori a organizzare sia un festival settembrino sia la tradizionale stagione lirica d’autunno. In apertura della quale s’è avuta la «commedia per musica» Lo frate ’nnamorato (1732), posta altresì a suggello delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita di Pergolesi; celebrazioni spalmate su due anni e vastamente articolate, tanto da includere l’esecuzione in loco dei lavori teatrali dovuti allo jesino e un bel numero di convegni in giro per il mondo (un primo raccolto di questa messe di studi è ora disponibile nel volume sesto del periodico «Studi pergolesiani»). Per il Frate la Fondazione Pergolesi Spontini, giustamente fiera dei suoi bilanci in attivo (nonostante un organico alquanto nutrito), ha incaricato della parte musicale Fabio Biondi, il complesso di strumenti antichi da lui fondato e diretto, Europa galante, e una compagnia di canto non gremita di voci attraenti o inappuntabili sotto il profilo tecnico, tuttavia composta di elementi ben preparati e disinvolti in scena. Spiace perciò rimarcare la dizione arruffona nelle signore (eccettuata la Cherici) e, in genere, la pronuncia non perspicua del napoletano antico. Giacché, come in tutte le commeddeie pe mmusica partenopee di primo Settecento (una forma di teatro in musica autoctona e ibrida, ove la Commedia dell’arte dà la mano all’opera seria e agli intermezzi comici, talora anticipando atteggiamenti e forme dell’opera buffa), anche in questa dovuta alla penna di Gennarantonio

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Festival

Classica

MobyDICK

spettacoli caci se non sempre raffinate Fabrizio Gobbi) ci trasporta ora all’interno ora sull’esterno d’un vicolo in una Napoli indecisa tra 1940 (le acconciature femminili) e 1950 (la vespa di Don Pietro), senza però trarne conseguenze significative sul piano dei rapporti interpersonali, dei gesti: gag risaputi, modi buffi tradizionali. Buon per lui che la gran parte dei cantanti sa come cavarsela (la Cherici e la Bove, servette indiavolate, Morace, maschera mobilissima). Il realismo dell’ambiente e della lingua già il libretto lo passa al setaccio di molteplici riferimenti «culti» (lo notò il compianto musicologo Francesco Degrada, estensore dell’edizione critica del Frate). La partitura sottolinea questo processo di stilizzazione, inquadrando volentieri (non sempre) sia le espressioni briose e vitali sia quelle meste (la proverbiale malinconia pergolesiana, appannaggio di Ascanio, Nena, Luggrezia) nelle tipiche forme tripartite dell’opera seria, le arie «da capo» o «dal segno». Biondi, che dirige suonando il violino o la viola d’amore, ha colto questa tendenza alla «razionalità», anche se poi i suoi stacchi di tempo e il suo fraseggio difettano in varietà e mobilità interna, dunque in teatralità. Forse anche per ciò un diaframma persiste tra questa musica, spesso innegabilmente bella, e l’attenzione continuata del pubblico.

Il Frate di Pergolesi catapultato nel ‘900 Federico alcuni personaggi - sei su nove - si esprimono in dialetto, altri in «toscano», vale a dire in italiano. Il trovatello Ascanio (Elena Belfiore, in abiti maschili) ama riamato due fanciulle romane, Nena (Biccirè) e Nina (Adamonyte), nipoti di Carlo (Alegret). Quando scoprirà che sono sue sorelle, convolerà a nozze con Luggrezia (Di Castri), figlia di Marcaniello (Alaimo) e sorella di Don Pietro (Morace).«La scena […] à Capo de Monte» (Capodimonte), prescrive Federico; l’argentino Willy Landin (regia e scene, costumi Elena Cicorella, luci effi-

Gare di Circo per under 21 sulle orme di Giulio Montico e come sosteneva Charlie Chaplin «un giorno senza sorriso è un giorno perso per sempre» allora tutti al Circo che oltre a strappare sorrisi di ammirazione è in grado di stupire e affascinare grandi e piccini. Un’occasione speciale è rappresentata dalla XIII edizione del Festival Internazionale del Circo «Città di Latina», l’unico che ha luogo in Italia e che coinvolge artisti provenienti da tutto il mondo, il solo in Europa in grado di confrontarsi con quello che si svolge a Montecarlo patrocinato dalla Principessa Stéphanie di Monaco. Artisti di 14 diverse nazionalità, 4 km di cavi elettrici e gruppi elettrogeni per 500 kw di potenza, un’area di 4.000 metri quadrati dedicati, ma soprattutto 9 sold out che corrispondono a circa 15 mila spettatori suddivisi su 9 spettacoli, questi i numeri dell’edizione dell’anno passato. Nato nel 1999 per opera di Giulio Montico (un artista a tutto campo che dopo l’esordio in qualità di domatore si af-

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di Enrica Rosso fermò nei maggiori Circhi italiani degli anni Settanta in qualità di acrobata) e proseguito con assoluta dedizione dagli altri membri della famiglia in particolare i figli Fabio e Fabrizio. Questa grande festa totalmente prodotta dall’Associazione Culturale «Giulio Montico» si pone il fine di restituire al mondo circense autorevolezza e dignità costruendo un avvenimento unico per portata e stanzialità. Il Festival che vede competere esclusivamente candidati under 21, si svolge tutti gli anni a Latina distribuito in un pugno di giornate: le prime tre di prove, le successive di esibizione di fronte a una giuria tecnica internazionale che designerà la rosa dei partecipanti alla serata finale tra cui verranno selezionati i vincitori. In palio oltre alla soddisfazione di portarsi a casa il premio, l’opportunità di essere scritturati da un grande circo. I

numeri in competizione saranno giudicati secondo criteri precisi: originalità della performance, coreografia, qualità e grado di difficoltà dell’esecuzione. Naturalmente non mancheranno gli ospiti di riguardo: quest’anno scenderanno in pista Rony Vassallo con i suoi 7 stalloni arabi dal mantello bianco accompagnato da 7 ballerine del Circo di Stato Bolshoi di Mosca; Paolo Casanova, in arte Carillon, il clown timido che fa danzare le bolle di sapone; Mr. and Mrs. Dittmar con il loro esilarante numero di coppia e infine Mike Togni affiancato da Manuela Barlay. Ma il piatto forte del Festival sono sicuramente i giovani artisti che porteranno l’entusiasmo, la passione, la grande tenacia e perseveranza, il desiderio di superare il proprio limite che c’è dietro ognuno dei numeri a cui potrete assistere.

Il tutto viene ospitato in una Cittadella del circo allestita per l’occasione. Uno spazio completamente realizzato con tensostrutture che comprende oltre al Chapiteau super tecnologico in cui si svolgono gli spettacoli, un grandioso foyer, palestre per gli allenamenti, un ristorante e varie altre aree tra cui il Circus expo, uno spazio espositivo di oltre 1.000 metri quadrati, in cui trova spazio una mostra mercato internazionale del collezionismo circense, oltre ad accogliere la prestigiosa partecipazione del Museo d’Arte Circense di Pietroburgo e del centro Educativo di Documentazione delle Arti Circensi di Verona. Da segnalare il progetto Migrantes che assicura ai partecipanti per l’intera durata del Festival assistenza pastorale continua.

Festival Internazionale del Circo, Latina, dal 13 al 17 ottobre, info: www.festivalcircolatina.com - tel: 0773 474000/331 9000333


Cinema

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8 ottobre 2011 • pagina 21

di Anselma Dell’Olio

ane Eyre di Charlotte Brontë è uno dei romanzi più amati e meno compresi. Ha tutti gli stilemi del melodramma gotico ottocentesca: un’eroina orfana senza protezione, un maschio virile angosciato e sfuggente, allarmanti rumori nella notte, un amore impossibile e una pazza omicida in soffitta. La struttura popolare, però, sostiene una radiografia etica-morale di un’epoca, che lo rende un classico della letteratura senza tempo, anziché una semplice ghost story riuscita. L’ho sempre preferito al romanzo-parente dello stesso anno (1847) Cime tempestuose, della sorella di Charlotte, che altri amano di più. La storia divorata da giovanissima dell’orfana Jane e dell’affascinante, scorbutico Mr. Rochester, è una scuola di vita di qualità. Pensavo di preferirlo al libro di Emily per averlo letto prima; invece le mie simpatie naturali restano non con lo sturm und drang del ragazzo selvaggio Heathcliff e la sua Cathy, ma con la cristallina bussola morale di Jane. Dal 1910 sono diciotto i film tratti da Jane Eyre. Il più memorabile resta La porta proibita (1943) con Orson Welles e Joan Fontaine. La sceneggiatura è di Aldous Huxley, raffinato intellettuale e letterato inglese riparato a Hollywood negli anni della guerra. L’ultimo è di Franco Zeffirelli (1996).

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Il regista di questo Jane Eyre è Cary Joji Fukunaga, il giovane americano che ha fatto uno splendido debutto con Sin Nombre (2008) sull’epico viaggio verso la terra promessa di El Norte di un gruppo di emigranti clandestini latinoamericani; i nostri registi incapaci di uno sguardo fresco sul tema, farebbero bene a studiarlo. Il copione di è di Moira Buffini, sceneggiatrice della sottovalutata Tamara Drewe, rivisitazione moderna di Via dalla pazza folla di Thomas Hardy. Nel suo Jane, mette l’accento su due persone sole, immerse in una natura ruvida, estrema come il loro destino. È sbagliato pensare che il racconto della Brontë sia roba per signorine svenevoli. La storia è di spessore, coinvolgente. Nel film dominano le immagini; quando usa le parole, sono quelle giuste. Mette al centro conflitti e solitudini, persone unite nell’anima, e diversissime per formazione, condizione sociale, temperamento e sesso. Sono ben scelti dal libro i duelli verbali con cui Jane rivendica la piena uguaglianza intellettuale e umana col padrone. (Che li ascoltino le querule damigelle di «Se non ora quando», femministe fittizie dal confuso pensiero che la dignità possa essere loro conferita da altri). Jane è, a suo dire, «piccola, povera, insignificante d’aspetto e di rango», ma sicura del proprio valore. È costretta a guadagnarsi da vivere come istitutrice, nell’Ottocento il destino di ragazze bene decadute, senza dote. Queste giovani ben nate e istruite andavano «a servizio» nelle case dell’alta società; insegnavano arte, musica, scienze e buone maniere agli eredi. Erano non di rado detestate e insolentite dai ragazzi, e trattate dai loro genitori come serve, o parenti povere mal tollerate. Era una sciagura necessaria per sopravvivere. Il percorso di Jane, però, è anche costellato d’incontri gentili. Il suo cuore non è indurito, lo sguardo largo sul mondo, l’indole atten-

Irretiti da

Jane Eyre

Dal 1910 sono diciotto i film tratti dal celebre romanzo di Charlotte Brontë. In questa nuova versione dominano le immagini, ma le parole sono quelle giuste. Perfetta Mia Wasikowska nei panni dell’eroina e convincente Michael Fassbender come torvo Mr. Rochester. Grande Judi Dench in un piccolo ruolo ta, duttile e orgogliosa. A 19 anni, terminati gli studi nel posto in cui era stata cacciata dalla zia meschina, trova il primo ingaggio a Thornfield Hall, magione imponente e lugubre come il suo mistero. Il regista e il direttore della fotografia Adriano Goldman onorano il clima buio e inquietante del romanzo, ma senza spingere sul melodramma gotico. Lo stile è carico di sentimento ma asciutto.

Mia Wasikowska è una perfetta Jane, dall’aspetto severo, aggraziato dall’intelligenza viva e disponibile. Wasikowska era la turbata ginnasta della mirabile serie tv In Treatment, già un’attrice fatta e finita a 15 anni. Michael Fassbender è un Rochester torvo, con un’accesa sensibilità irruvidita da scelte paterne grette alle quali non aveva saputo negarsi. Assume Jane per corrispondenza per educare Adéle, la bimba francese di una cortigia-

na, sua ex amante ora morta. Jane è a Thornfield tre mesi prima che lui rientri dai suoi frequenti viaggi. Il primo incontro tra i due è a sorpresa nei boschi: nessuno dei due sa chi è l’altro, quando la ragazza lo fa cadere da cavallo. Irritato e con la caviglia lussata, una volta a casa la convoca e le «ordina» di raccontare «la sua penosa storia. Le istitutrici hanno sempre una storia penosa da raccontare». Jane, piccata: «Sono cresciuta in una casa ancora più elegante di questa, e ho ricevuto la migliore istruzione possibile. Non ho una storia penosa da raccontare». Il padrone le chiede dei genitori; sono morti e lei non se li ricorda. Sempre cercando il punto dolente, l’uomo chiede chi l’ha cresciuta. «Mia zia, la signora Reed». «Perché non è rimasta con lei?». «Mi ha mandato via». «E perché?». «Perché ero di peso e le ero antipatica». Rochester ghigna: «E non ha un racconto

penoso, eh?». Si studiano in silenzio. «Ha uno sguardo assai diretto, signorina Eyre. Mi trova un bell’uomo?». «No, signore». «Perché? Cosa c’è che non va? Ho tutte le fattezze e tutti gli arti intatti». «Mi scusi, signore. Dovevo rispondere che la bellezza non è importante». «Non voglio trattarla da sottoposta». «Eppure lei mi comanda di parlare».

Il film parte con Jane in fuga da Thornfield, pazza di dolore per la tardiva scoperta che interrompe e impedisce il suo matrimonio. Vaga senza meta nella brughiera, senza riparo dalle intemperie. Trovata senza sensi dal bravo e rigido reverendo Saint John Rivers (Jamie Bell, l’aspirante ballerino in Billy Elliot, 2000) e le sue sorelle (il nome di battesimo si dice Singin nella curiosa pronuncia britannica). Accolta e accudita dai Rivers, poveri e affettuosi, Jane si riprende e s’integra nel loro focolare, senza nulla rivelare della sua vita precedente. È apprezzabile che il copione dia spazio a questa parte della storia, spesso ridotta al minimo. Ci sono tre figure nel libro, rappresentative di un modo di essere cristiano. La prima è l’untuoso ipocrita Mr. Brocklehurst (Simon McBurney), direttore baciapile dell’istituto che prende in consegna la piccola Jane (Amelia Clarkson) con l’intenzione di «rieducarla» secondo regole religiose distorte; la seconda è Helen Burns (Freya Parks, nel ruolo che era di Elizabeth Taylor adolescente nel film con Welles), la pia tisica che diventa la sua amica del cuore nell’orfanotrofio. Sopporta tutte le angherie che le sono inflitte nell’istituto dickensiano perché si sente imperfetta. Accetta ogni sofferenza e sopruso perché «mandato dal Signore», in cui lei confida totalmente. Poi c’è il misericordioso ed emotivamente stitico Saint John, che concepisce la fede cristiana come arido sacrificio. La sintesi che fa Jane dei principi religiosi è chiara nella risposta che dà, prima di penetrare il mistero di Rochester, di cui è già innamorata. Lui le chiede se è disposta ad aiutarlo, a fare di tutto per salvarlo, se necessario. «Sì, signore. Farei qualunque cosa per voi, qualunque… purché sia giusta». La governante Mrs. Fairfax, amica e generosa consigliera di Jane, è l’indispensabile Judi Dench; dimostra che, in mano a un’artista autentica, non ci sono piccoli ruoli, solo attori meschini. Sally Hawkins è la temibile Mrs. Reed; ricorda Agnes Moorhead, l’indimenticabile zia in La porta proibita. Da non perdere.


Babeliopolis

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ai come in questo momento gli extraterrestri, il luogo comune più luogo comune della fantascienza, sono di moda. Buoni o cattivi, belli o brutti riempiono il cinema e la televisione e addirittura la Mostra di Venezia non ne è stata priva anche con film italiani. Alieni diversi da quelli del passato, è ovvio, e spesso usati come simboli. Nulla di nuovo, ma mentre una volta tra gli scrittori o registi più progressisti venivano utilizzati per indicare, più o meno indirettamente, l’emarginato sociale, il disadattato mentale o proprio il matto, il negro, il pellerossa, oggi servono a indicare l’immigrato, l’extracomunitario, lo sradicato. Ovviamente sempre pronto a darci una lezione di civiltà, moralità e buon cuore. Quindi nulla di nuovo sotto il sole, anzi qualcosa di antico, pur se rivisto e corretto.

MobyDICK

ai confini della realtà

M

Ma il fatto singolare è che gli alieni sono anche alla moda, vale a dire che essi si adeguano alle mode dell’attuale momento storico e sociale. Infatti, la loro «missione» è cambiata. Una volta giungevano sulla Terra per ammonirci di non giocherellare troppo con l’energia atomica, mettendoci in guardia nei confronti della Bomba, oggi invece arrivano, o potrebbero arrivare, per ammonirci sullo scempio ambientale, sull’inquinamento, sulla perdita della biodiversità. Emblematico è il film Ultimatum alla Terra: quando apparve nel 1951 per la regia di Robert Wise, l’extraterrestre Klaatu ci redarguiva per gli esperimenti nucleari senza essere creduto; nel suo rifacimento del 2008 da parte del regista Scott Derrickson l’avvertimento riguarda, appunto, l’inquinamento e i disastri ambientali. Ora, questo mutamento di prospettiva ha assunto anche un aspetto scientifico, o presunto tale. Sulla autorevole pubblicazione americana con tanto di titolo latino, Acta Astronautica, tre esperti della Università di Pennsylvania e addirittura della Nasa hanno scritto un saggio secondo cui la nostra dissolutezza ecologica potrbbe indurre ipotetici alieni ad annientarci «al fine di rendere la galassia un posto migliore dove vivere». Infatti, si afferma, «abbiamo

Alieni

politicamente corretti di Gianfranco de Turris già alterato il nostro ecosistema in modi contrari all’etica di un extraterrestre “universalista”». Etica extraterrestre che i nostri tre autori, evidentemente, conoscono benissimo non potendo dubitare che possano esistere abitanti di altri mondi men che buonisti ed ecologisti a livello «universale», non prendendo quindi minimamente in considerazione l’ipotesi che invece possano essere cattivi, malvagi ed egoisti, dediti magari alla conquista selvaggia di altri pianeti spar-

tre esperti della Nasa che, sia detto fra noi, devono aver letto troppi romanzi di fantascienza e di ambientalismo fondamentalista… Però questa idea degli Ufo che ci sorvegliano dall’alto e si preoccupano delle sorti ecologiche del pianeta, non è del tutto nuova al di là della science fiction, e sta prendendo piede in una nuova branca della stessa ufologia che si collega alla famosa Ipotesi Gaia che James Lovelock avanzò nel 1979. Il principale esponente di questa nuova corrente

Una volta ci mettevano in guardia contro i rischi dell’atomica, oggi l’etica extraterrestre prende di mira la dissolutezza ecologica. Tanto che perfino tre esperti della Nasa ci invitano a «non mandare messaggi che rendano evidenti i nostri errori». Altrimenti... si nel cosmo… Sicché, concludono, «è prudente evitare di mandare messaggi che rendano evidenti i nostri errori» per evitare di attirare una loro pericolosa attenzione nei confronti di un piccolo mondo blu, terzo di un sistema solare alla periferia della nostra galassia. Una volta erano le esplosioni nucleari, oggi magari il famoso «buco nell’ozono» che si allarga sempre più per colpa nostra. Insomma, gli Ufo, o dischi volanti, ci sorvegliano per motivi diversi di quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, ma potrebbero attuare una cura profilattica contro quella peste del genere umano che dopo aver distrutto il proprio pianeta potrebbe esportare il contagio nella galassia tutta. E questo per «l’etica degli extraterrestri universalisti» proprio non va. Parola dei

di studioso dei «dischi volanti» è lo svizzero Fabrice Bonvin che l’ha spiegata in due libri, Ovnis, les agents du changement (2005) e Ovnis, le secret des secrets (2006), nei quali sostiene che tutte le manifestazioni ufologiche che noi conosciamo, direttamente o indirettamente collegate a questo fenomeno - oggetti aerei non identificati, entità, Mib o Uomini in Nero, mutilazioni di animali, rapimenti, contatti, cerchi nel grano - non sono altro che espressioni di Gaia, cioè della coscienza del pianeta così come ipotizzata da Lovelock. Il loro scopo è «l’elevazione della coscienza umana, che si esplica attraverso un accrescimento della nostra sensibilità alle questioni ambientali, e dà poi seguito ad atti favorevoli alla salute planetaria. È grazie alla densità simbolica e telepatica di queste apparizioni che Gaia influenza l’umanità verso questa presa di coscienza.Tali manifestazioni possono venire considerate come l’espressione di un meccanismo di difesa che Gaia attiverebbe nel momento in cui il suo sistema di sostegno alla vita e la sua vitalità risulterebbero attaccati. Queste apparizioni sono allo stesso tempo da considerare con un mezzo di comunicazione sofisticato e universale inteso a suscitare un cambiamento della specie umana favorevole al suo obiettivo

di conservazione della vita». Insomma, niente extraterrestri buoni o cattivi, niente astronavi di varie forme provenienti da altri pianeti, ma tutte manifestazioni «terrestri». Non è nuova l’idea che gli Ufo siano tali, cioè cose terrestri, non tanto nel senso che sono modelli di aerei sperimentali costruiti da Stati Uniti, Unione Sovietica o Gran Bretagna, ma nel senso che essi provengono dall’interno della Terra, nelle cui viscere vi sarebbero intere civiltà tecnologicamente superiori all’umanità che vive all’esterno. L’idea di un Mondo interno abitato non è nuova, ma nel caso degli Ufo si va dai superstiti di Atlantide ai superstiti del Terzo Reich: dall’interno del globo partirebbero i dischi volanti che ci sorvegliano o controllano.

Ma nel caso di Bonvin e dei nuovi ufologi-ecologi la cosa è ancora diversa: è la stessa Terra/Gaia a produrre queste manifestazioni, che hanno un collegamento anche con l’Inconscio collettivo di Jung, allo scopo di autoproteggersi. Le manifestazioni di Gaia per avvertirci dei pericoli che corriamo e che facciamo correre all’intero ecosistema terrestre diventano così sempre più complicate man mano che il pericolo aumenta: dai semplici avvistamenti Ufo dalla fin degli anni Quaranta coincidenti con l’inizio degli esperimenti nucleari, sino a fenomeni più complessi tipo i crop circles perché più complesso è diventato il nostro Immaginario collettivo, adattandosi quindi Gaia allo «spirito del tempo», o meglio della cultura del tempo. In parole povere, Gaia attinge all’Inconscio collettivo per produrre fenomeni di tipo ufologico man mano diversi e adatti alle diverse epoche. Insomma, le nostre menti vengono influenzate da Gaia per salvarsi. Il messaggio conclusivo però è lo stesso. Sia gli esponenti di civiltà galattiche ipotizzati sia dalla fantascienza che dagli esperti Nasa sopra citati che le manifestazioni ufologiche che Gaia ci induce a vedere, sia i dischi volanti reali che quelli simbolici, dicono la stessa cosa: state rovinando il vostro mondo. Una mescolanza di ufologia, ambientalismo estremo, religiosità New Age che fino a pochi anni fa non sembrava ipotizzabile, e che ha prodotto un risultato non certo originale, direi scontato. Insomma, un’ufologia politicamente corretta…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Con o senza referendum basta che si esca dalla palude CIAO STEVE, ANTICONFORMISTA DEL XXI SECOLO L’esistenza, l’impegno, il lavoro, la passione. Il desiderio di non mollare mai. Il discorso a Stanford e, infine, il grande, commosso, unanime e caloroso omaggio di tutto il mondo a un uomo nel giorno della sua scomparsa, al di là di ogni steccato ideologico, politico e religioso. Questa è l’immagine che rimane e permane in me (credo in noi) di Steve Jobs. Un esempio per tutti, per tutti quelli che, come me, più o meno giovani, sono ancora impegnati a raggiungere la meta in cui credono, quella che sognano e amano e per la quale non si fermeranno fino a quando non l’avranno trovata. Così nel giorno della morte di Steve Jobs, ho voluto rileggere le parole di un anticonformista a noi diLiberal, a me sicuramente più vicino, Renzo Foa. Renzo come Steve - entrambi vittime del male “cattivo” - anche se da ruoli, prospettive e dimensioni diverse, era un anticonformista. Nel suo ultimo libro In cattiva compagnia, Renzo Foa scriveva: «Il mondo è farcito di maestri di morale, di persone sempre pronte a dirti quel che devi pensare e come devi comportarti. Cioè il conformismo. Meglio allora, le cattive compagnie: rare, trascurate e spesso dimenticate; figure che ti propongono pensieri scomodi e sollevano problemi quasi sempre irrisolvibili». Così Steve a me oggi sembra dire che «un uomo non si misura per i titoli o per quello che è ma per quello che fa», e non a caso in psichiatria si definisce un uomo maturo chi è in grado di fare. Perché nella vita le sconfitte - amava ripetere il capo di Apple - sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo. E come non ricordare il suo discorso a Stanford: «... qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l’amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quello che amiamo. ...l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l’ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi». Io ci credo. Grazie ancora Steve e buon lavoro anche da lassù, dove qualcuno dice che ti sei solo trasferito. Vincenzo Inverso SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

LE VERITÀ NASCOSTE

Grandi manovre nel centrodestra, l’asse appena formatosi tra Pier Ferdinando Casini e Roberto Maroni non sembra avere dubbi in merito: avanti con il referendum e poi al voto. Nella Lega sembra essere in atto una sorta di scissione. Bossi e il suo delfino-trota sono davvero impossibili da digerire, almeno per quella parte di elettorato leghista ancora in possesso di intelletto e buonsenso. Inoltre la figura di Bossi risulta oramai troppo collusa con quella del premier, quindi destinata a tramontare con il berlusconismo. A porre la pietra tombale su un certo modo di far politica, le recenti decisioni della Camera che hanno impedito alla giustizia di poter procedere contro gli onorevoli Milanese e Romano. Il berlusconismo sembra davvero alla fine, questo è un fatto innegabile. Un segnale forte è giunto qualche giorno addietro dal cardinale Bagnasco, che ha redarguito la politica su come determinati comportamenti personali immorali non si addicano ad un uomo di governo; con chiari riferimenti al presidente del Consiglio. La Chiesa di Roma non poteva che prendere le distanze da Silvio Berlusconi. Ed è a questo punto che il ruolo di Casini diventa determinante, nel tentativo di collocare i cattolici verso nuove geometrie politiche, che gli consentano di essere tutelati e al contempo non umiliati da un premier dedito a festini di dubbia morale. Dal Pdl arrivano comunque, seppur tenui, ancora segnali di vita. La controproposta parte da Roberto Calderoli, nel tentativo di scongiurare il referendum contro l’attuale legge elettorale: attraverso un porcellum con preferenze per poi dare il via ad una cosiddetta “legislatura costituente”che dovrebbe mettere in atto la riforma federalista, nell’estremo tentativo di recuperare credibilità almeno nel nord del Paese. Il centrosinistra appare scettico sulla possibilità di avviare una fase costituente con l’attuale maggioranza e Di Pietro, promotore del referendum anti-porcellum, si trova in perfetta sintonia con Maroni e Casini. In effetti l’attuale maggioranza non possiede più i requisiti minimi di credibilità per portare avanti eventuali riforme costituzionali collaborando con le opposizioni. L’unica via d’uscita è quindi il referendum che conduca ad elezioni nel più breve tempo possibile.

Fabrizio Vinci

(risponde Errico Novi) Non sono del tutto d’accordo sull’idea che si possa parlare di “asse”, caro Vinci, semplicemente perché due leader politici (nel caso di specie Casini e Maroni) vedono la stessa via d’uscita. Semplicemente, illuminati dal buonsenso, concordano sull’idea che la volontà popolare non possa essere ignorata. Senza che per questo si debba parlare di sottili strategie definite a tavolino. Se la Corte costituzionale dichiarerà ammissibili i quesiti sulla legge elettorale (non è scontato) e se la consultazione vedesse la bocciatura del porcellum (a quel punto probabile), be’, il messaggio degli elettori sarebbe chiaro: bisognerebbe andare alle Politiche. Peraltro credo che gli elettori siano così esausti dello spettacolo in corso da desiderare ormai una svolta a prescindere, al limite anche un voto col porcellum. Detto questo, trovo la sua analisi equilibrata. Credo che la missione di Casini e dei moderati sia anche più impegnativa di come lei la rappresenta: qui si tratta di ricostruire il senso vero della politica in questo Paese. Mi permetta solo di avanzare un dubbio. Lei parla per esempio in modo sbrigativo di una Chiesa che doveva prendere le distanze da Berlusconi. Ma non le pare che semplicemente un cardinale senta il bisogno di ammonire da scadimenti della tenuta morale senza per questo entrare nel giochino della politica? Non ce l’ho con lei: credo però che la cosiddetta politica da retroscena abbia prodotto un’alterazione preoccupante. Tutto pare ridursi a intrigo, tramestio, cospirazione. Temo che noi giornalisti siamo responsabili di un simile travisamento. Abbiamo tradito la lezione montanelliana, quella che avrebbe dovuto insegnarci a semplificare per rendere più trasparente la realtà, non per avvolgerla in un velo opaco.

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Gli esperti di marketing definiscono “redemption” il tasso di risposta del pubblico a un certo stimolo: se per esempio vengono distribuiti 100 buoni sconto per l’acquisto di un prodotto a prezzo ridotto, e 40 di questi vengono effettivamente utilizzati, la redemption della campagna promozionale è del 40%. Ebbene, Harold Hackett, un signore canadese appassionato di esperimenti socio culturali, nell’epoca dei social network e dei canali televisivi interattivi, è riuscito a dimostrare che lo strumento di comunicazione più efficace è ancora il messaggio nella bottiglia abbandonato tra le onde. A partire dal maggio del 1996 Hackett ha liberato nelle acque dell’Atlantico oltre 4800 bottiglie di plastica contenenti un messaggio e da allora ha ottenuto ben 3100 risposte da tutto il mondo. Ora ha amici di penna in Africa, Russia, Regno Unito, Scozia, Francia, Bahamas... Hackett non ha inserito nei suoi messaggi né il suo numero di telefono né il suo indirizzo e-mail, ma solo quello postale. In questo modo si è assicurato che tutte le risposte gli arrivassero per lettera. Ogni bottiglia è numerata, così Harold sa a quale dei suoi messaggi si riferisce la risposta: alcune bottiglie sono state in balia delle onde per più di 13 anni prima di essere trovate da qualcuno.

A QUANDO L’INTRODUZIONE DEL QUOZIENTE FAMILIARE? Ho partecipato alla manifestazione dell’associazione nazionale famiglie numerose per protestare nei confronti del governo per i tagli introdotti con le due ultime Manovre; per ricordare ai nostri amministratori tutte le promesse mancate in questi ultimi tre anni e mezzo. Le famiglie, in particolare quelle monoreddito con figli come la mia, non sanno più come arrivare a fine mese. A questo esecutivo sono mancati sia il senso di responsabilità che il coraggio di introdurre riforme in grado di dare una boccata d’ossigeno, come l’introduzione del quoziente familiare, che l’Udc chiede a viva voce da anni.

Carlo Somma

LA PREVENZIONE NEI PAESI PIÙ POVERI

APPUNTAMENTI OTTOBRE VENERDÌ 14 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal

Atlantico, social network

Orso di mare Il caldo non perdona e quest’orso polare prova a rinfrescarsi con un bel tuffo, dando sfoggio delle sue eccezionali doti di nuotatore. In acqua, infatti, questi enormi mammiferi, che sfiorano talvolta gli 800 chili di peso, si sentono leggeri come piume e possono percorrere senza particolari difficoltà anche 300 chilometri, mantenendo una velocità costante di 9 chilometri orari

Mai gettare la spugna, mai pensare che non si possa far nulla. Sappiamo come da anni il pap test sia, nei Paesi più sviluppati, il principale mezzo di prevenzione per il cancro del collo dell’utero. Ma è bellissimo pensare come nei Paesi in difficoltà, grazie all’iniziativa dell’Oms, si possa lo stesso fare prevenzione semplicemente con l’aceto. Pretendere tanto sarebbe impossibile, fare qualcosa però può salvare lo stesso tante vite. Una goccia di acido acetico viene applicato sulla cervice da una semplice infermiera che abbia ricevuto il training necessario. Eventuali cellule tumorali reagiscono diventando bianche. Sul posto si effettua poi una sorta di crioterapia che aiuta le donne a liberarsi dalle fasi precoci del male. Dietro questo grande gesto umanitario uno studio sull’affidabilità della Johns Hopkins di Baltimora.

Alessandro Bovicelli


mondo

pagina 24 • 8 ottobre 2010

Il Nobel «vuole riconoscere il rafforzamento del ruolo femminile soprattutto nei Paesi in via di sviluppo»

La Pace è donna Oslo premia la presidente liberiana Sirleaf, la connazionale Gbowee e la yemenita Karman di Maurizio Stefanini vresti problemi a trattare con una donna presidente?». «Ma io non ti considero una donna». Fu lo scambio di battute che ebbe luogo subito prima delle elezioni che nel 2005 avrebbero portato alla presidenza della Liberia Ellen Johnson-Sirleaf, tra la stessa Johnson-Sirleaf e l’ex presidente ghanese John Kufuor. E lei rispose non arrabbiandosi, ma sorridendo lusingata. Così come è lusingata quando la chiamano “la lady di ferro liberiana”. Sei anni fa fu una sorta di “derby metallico”, e la “lady di ferro” prevalse sul “pallone d’oro”George Weah: già idolo dei tifosi europei grazie al suo passaggio attraverso Monaco, Paris Saint Germain, Olympique Marseille, Milan e Manchester City. Anche martedì prossimo lo scontro si ripete: nuove presidenziali, anche se stavolta Weah non sarà il principale sfidante della Johnson-Sirleaf, ma correrà per la semplice vicepresidenza, accanto a quel Winston Tubman che è nipote di quel William Tubman che fu tra 1944 e 1971 il presidente più a

«A

lungo in carica di tutta la storia liberiana.

Ma appena quattro giorni prima la presidentessa di ferro ha ricevuto il più clamoroso degli spot elettorali, attraverso il conferimento del Premio Nobel per la Pace. Per «la loro battaglia non violenta per la sicurezza del-

Prima donna della storia africana a essere eletta presidente, la Johnson ha dimostrato negli anni un coraggio e una voglia di giustizia che l’hanno resa un esempio le donne e per i diritti delle donne a partecipare alla costruzione della pace»: a lei; alla sua connazionale Leymah Gbowee, leader del movimento che ponendo fine alla guerra civile permise la sua elezione; e alla yemenita Tawak-

Un riconoscimento alle rivolte arabe

Così Oslo rende omaggio a un simbolo della Primavera di Martha Nunziata

kul Karman, che come inconsueta leader femminista e non violenta di un partito islamista in questo momento in lotta per la democrazia rappresenta un prudente appoggio alla Primavera Araba. Ma senza quell’investitura solenne che avrebbe potuto comportare il premio ai blogger pronosticato da molti.

Il fulcro, quindi, è nella storia liberiana. Una vicenda tormentata, che però il Comitato di Oslo intende ora evidentemente indicare come esemplare, del modo in cui il Terzo Mondo dovrebbe provare a uscire dai propri problemi. Nata nel 1938 nella capitale liberiana Monrovia, la “lady di ferro” ora Nobel per la Pace è figlia del primo deputato nella storia liberiana non americo-liberiano o congo: cioè, non facente parte di quella esclusiva élite composta da discendenti degli schiavi statunitensi liberati e riportati in Africa all’inizio dell’Ottocento a opera delle società antischiaviste (gli americo-liberiani) o di prigionieri delle navi negriere liberati dalle navi inglesi dopo la messa fuori legge della tratta e anch’es-

si sbarcati nella stessa zona. Americo-liberiani e congo insieme nel 1847 fondarono la prima repubblica africana indipendente dandole un nome che derivava dal latino liber, una capitale che aveva il nome dell’allora presidente americano James Monroe, una bandiera che era identica alla Old Glory salvo il particolare di avere una stella sola al posto di 13, e una lingua ufficiale che è tuttora un inglese con l’accento di Dixie. «Una copia in nero d’America e talvolta una caricatura», dicevano i corrispondenti all’ini-

zio degli anni Settanta: all’epoca in cui finiva per morte naturale la lunga presidenza del già citato William Tubman, il professore che aveva legato l’economia del paese al ferro e alle bandiere ombra; al suo posto arrivava il pastore battista William Tolbert, già vicepresidente dal 1951. Il partito unico, il True Whig, era al potere dal 1878.

Figlio di un capo tribale dell’etnia gola, il padre di Ellen era stato però poi portato a Monrovia da piccolo, e lì adottato da

l Nobel per la Pace 2011 è stato assegnato a tre donne: a Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, alla connazionale Leymah Gbowee e alla yemenita Tawakkol Barman. Un premio dato alle donne che lottano per la pace e per i diritti umani calpestati soprattutto in Asia e in Africa. « È un Nobel per le donne in generale ma in particolare per le donne in Africa», ha detto, Leymah Gbowee, soprannominata ”la guerriera della pace”. Tre donne, attiviste dei movimenti per la democrazia, premiate, «per la loro lotta non violenta per la sicurezza delle donne e il loro diritto alla piena partecipazione al processo di costruzione della pace», ha scritto la Commissione nella motivazione del premio. Il presidente Thorbjoern Jagland ha detto ai giornalisti « non possiamo raggiungere la democrazia e una pace durevole nel mondo a meno che le donne non ottengano le stesse opportunità degli uomini di influenzare lo sviluppo a tutti i livelli della società». Il Nobel per la Pace al femminile è un premio che soddisfa tutti. Anche quelli che fino a qualche giorno fa speravano ancora che la Primavera araba avrebbe ispirato il premio. Idea, questa, suggerita dalle parole del presidente del comitato Jagland, che alcuni giorni prima, a chi ipotizzava il premio ai leader della Pri-

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mondo

8 ottobre 2010 • pagina 25 La presidente liberiana Ellen Johnson-Sirleaf. Sotto l’attivista Leymah Gbowee, leader del movimento che ponendo fine alla guerra civile permise la sua elezione. Nella pagina a fianco la yemenita Tawakkul Karman Leymah Gbowee nasceva nella Liberia centrale, da una famiglia di etnia kpelle. E di nuovo Ellen fu ministro nel 1980, poco prima del colpo di Stato di Samuel Doe. Forse perché non era americo-liberiana o congo, fu uno degli unici quattro ministri a salvare la pelle, quando questo sergente di etnia krahan si fece strumento degli atavici risentimenti di quel 99 per cento di liberiani “indigeni” che l’élite aveva sempre guardato dall’alto in basso, organizzando un’ese-

La Gbowee, appena emigrata con la sua famiglia a Monrovia, disse di aver capito subito che servivano le donne per convincere gli uomini a smetterla di uccidersi

una illustre famiglia americo-liberiana. E anche la sua moglie e madre di Ellen, figlia di un tedesco e di una donna kru, era stata adottata da un’altra famiglia americo-liberiana. Insomma, pur non facendone parte come dna, la futura “lady di ferro” era perciò perfettamente integrata nella minoranza al potere. Infatti con Tolbert Ellen Johnson-Sirleaf, economista con master in Pubblica amministrazione ad Harvard, era già al governo: sottosegretario alle Finanze tra 1972 e 1973, proprio mentre

mavera araba, aveva risposto: «è abbastanza ovvio. Guardate il mondo oggi. Quali sono le forze più grandi che stanno spingendo il mondo nella giusta direzione?». Il messaggio della Commissione, in realtà, è stato addirittura più forte, perché ha voluto dare un segno, ovvero conferire il premio a quella parte del mondo dove il vento della primavera araba è ancora debole. E questo sostegno vuole riportare l’attenzione a tutti quei paesi dove non esistono i diritti fondamentali dell’uomo. Donne coraggiose premiate, come Tawakkol Karman, 32 anni,

ni: si è tolta il velo e non lo ha mai più rimesso, chiedendo alle sue compagne di fare altrettanto. Ed è anche militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione del governo guidato dal presidente Saleh, appena tornato in patria dopo il ricovero seguito ad un fallito attentato.

Da allora la coraggiosa reporter ha fatto molta strada: ha iniziato una pericolosa collaborazione con il Washington Post e con Facebook. Sulla sua pagina di Fb, ha

«Guardate all’Egitto, vinceremo». È con questo slogan che la giornalista yemenita (più volte arrestata) ha guidato la protesta. Una rivolta che ha assunto anche un significato di rivincita femminile esattamente come quelli del potere del presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, attivista yemenita per i diritti umani, divenuta in poco tempo la leader della protesta femminile contro il regime. Karman, giornalista, fondatrice dell’associazione «Giornaliste senza catene», ha tre figli e tanto coraggio: la sua è una lotta contro i pregiudizi di casta maschile dello Yemen. La giornalista ha infranto il proprio tabù nel 2004, mentre partecipava a un meeting per i diritti uma-

pubblicato le foto di Martin Luther King, Mahatma Gandhi e Nelson Mandela. Nel gennaio di quest’anno la giornalista era stata arrestata dalle autorità yemenite, costrette poi a rilasciarla sotto la pressione delle manifestazioni in suo sostegno, che hanno portato in strada migliaia di persone. Anche nello Yemen, peraltro, la conta delle vittime della repressione di Saleh è spaventosa: l’ultimo bilancio di Amnesty International parla di 1480 morti. Ma lo

cuzione in massa di politici per la quale ebbe cura di invitare i diplomatici stranieri. Anzi, Ellen fu nominata governatore della Banca centrale della Liberia, chiara dimostrazione che la fama di competenza di cui già godeva era superiore agli odi tribali. Ma lei iniziò a mostrare che in più aveva anche quel coraggio fisico e politico da cui la sua fama “di ferro”, dando le dimissioni per protesta contro le violazioni di diritti umani e la corruzione, e andando in esilio. Tra il 1982 e il 1985 è stata vicepresidente dell’Ufficio regionale africano della Citibank a Nairobi; tra il 1986 e il 1992 vicepresiden-

sguardo coraggioso delle donne yemenite si rivolge ad est: «Guardate all’Egitto, vinceremo ». È con questo slogan, infatti, che Karman ha guidato la protesta nelloYemen. Una rivolta che lì, in un paese dove le donne sono considerate cittadini di serie B, ha assunto grazie a lei anche un significato di rivincita femminile, oltre che di richiesta di riforme democratiche. «Dopo l’Egitto, tutti i dittatori della regione cadranno, e il primo sarà Ali Abdullah Saleh - diceva la Karman quando nel suo paese è esplosa la rivolta - L’Egitto ci fa da modello, perché Mubarak era il dittatore più forte nella regione. Ora crediamo di poter fare la rivoluzione anche qui». La sua lotta per i diritti femminili è d’altro canto molto difficile in uno Yemen rimasto nel più antico passato islamico. La società yemenita è fortemente misogina: la maggior parte delle donne non è libera di sposare chi vuole. Uomini di una certa età possono ottenere in spose delle bambine a scapito della legge yemenita, ma se per i primi viene imposto - raramente - il divorzio, per le giovani viene spesso introdotta la lapidazione. Ecco perché il Nobel alla Karman potrebbe davvero scuotere le coscienze di molti, costringendoli ad occuparsi anche di realtà scomode.

te dell’executive board della Equator Bank a Washington; tra il 1992 e il 1997 direttore dell’Ufficio regionale africano del Programma di sviluppo dell’Onu. E ha partecipato a una quantità di assisi internazionali sui problemi di pace, sviluppo e emancipazione femminile, compreso uno del 1999 incaricato di investigare sul genocidio in Ruanda, e uno assieme all’europarlamentare Emma Bonino contro le mutilazioni genitali femminili.

Intanto Doe era stato a sua volta travolto dalla rivolta etnica scatenata nel 1989 dall’americoliberiano Charles Taylor: catturato l’anno dopo, fu torturato a morte, e il suo cadavere esposto nudo. Sennonché a quel punto venne meno la coalizione antikrahan che aveva unito Taylor al suo luogotenente, il mano Prince Johnson. Iniziò così l’orgia di sangue che avrebbe insanguinato la Liberia fino al 1997, provocando 150 mila morti e mezzo milione di profughi, su una popolazione di poco più di tre milioni di persone. Proprio nel 1989 Leymah Gbowee era appena emigrata con la sua famiglia a Monrovia. Di fronte alla guerra, disse di aver capito subito che se si voleva che gli uomini la smettessero di ammazzarsi, bisognava che le donne si esponessero in prima linea. Si mise dunque a lavorare con i bambini soldato, e nel 2002 lanciò le Women of Liberia Mass Action for Peace. Movimento di donne cristiane e musulmane assieme, iniziò con sedute di preghiere e canti per la pace in un mercato di pesce. Poi si mise a fare marce e manifestazioni, fino a quando non costrinse Taylor a promettere che avrebbe partecipato a colloqui di pace in Ghana. Mentre le donne continuavano a manifestare di fronte al palazzo presidenziale, una delegazione fu allora spedita proprio in Ghana, per fare pressione sulle varie parti in negoziato. Simpatizzante per Taylor all’inizio, Ellen era stata però alle presidenziali del 1997 la sua principale avversaria, ottenendo alla testa del suo Unity Party il 9,6% cento dei voti, contro il più che sospetto 75,3% del signore della guerra. «Non ho paura degli uomini», diceva quando le chiedevano se non si spaventasse all’idea di dover gestire da donna un Paese già trasformato in mattatoio. «Non ho avuto paura di Taylor». Così nel 2003 sembrò sicura la sua nomina alla testa del governo nazionale di transizione formato, sotto le pressioni degli Stati Uniti e delle Donne per la Pace di Leymah, per porre fine alla ripresa guerra civile, mandando così Taylor in esilio in Nigeria. Invece fu scelto Jyude Bryant, il leader politico più debole. Lei ci riprovò però due anni dopo, e vinse. La prima donna della storia africana a essere eletta presidente.


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L’ex segretario della “gauche” Hollande è il grande favorito

Per chi vota (domani) Sarkozy?

Tutti pronti per le primarie socialiste. Ma il bebè presidenziale rischia di offuscarle di Antonio Picasso a guache en marche! Domani è il grande giorno per il Partito socialista francese. I suoi sostenitori saranno chiamati a scegliere il candidato che concorrerà alla presidenziali del 2012. Per la prima volta la Francia adotta un modello elettorale statunitense, le primarie, per aprire la campagna elettorale in vista delle elezioni del Capo dello Stato. La stampa d’oltralpe è in assetto di guerra. E attende con curiosità di seguire i comportamenti della sinistra più sofisticata d’Europa. Le voluminose rubriche riservate all’evento danno l’idea di essere più dei manuali di istruzioni per l’uso, anziché vere e proprie delle analisi. “Come si vota?” “Chi può votare?” “Quando?” Per certi aspetti, il Figaro sembra trattare gli elettori socialisti come dei novelli cittadini di un altrettanta neonata democrazia, che si recano per la prima volta alle urne. E questo non perché la testata sia storicamente più affine al lettore conservatore. Anzi, negli ultimi tempi, si è allontanata parecchio da questa linea. Lo stesso atteggiamento lo si riscontra su Le Monde. Questo sì socialista! Ben più austera è Libération, o Libé come la si chiama negli ambienti snob. Il quotidiano di tradizione comunista cerca di analizzare quel pro-

L

A sinistra: Nicolas e Carla Sarkozy con il pancione. Da oggi, ogni giorno è buono per la nascita dell’erede. In alto: i tre principali candidati alle primarie in vero stile Usa che i socialisti hanno organizzato: Martine Aubry, Francois Hollande e Segolene Royal

Sei i concorrenti alle primarie: François Hollande, Ségolène Royal, Martine Aubry, Arnaud Montebourg, Manuel Valls e Jean-Michel Baylet. Sarebbero stati sette con Dominique Strauss-Kahn gressismo che, perfino in Francia, vuole scimmiottare democratici e repubblicani made in Usa. E questo ai puristi della gauche transalpina non può che far accapponare la pelle.

I sondaggi prevedono un afflusso del 18% dei simpatizzanti del Ps. Non è una previsione confortante. Soprattutto alla luce di quegli oltre 4 milioni di spettatori che, mediamente, hanno seguito i lunghi confronti televisivi dei sei candidati. Del resto si sa: è piacevole seguire i dibattiti in tv. Meno sprecare la domenica per un voto. Anche in questo la Francia sta assomigliando sempre più agli Usa. La proiezione si scontra poi con la fresca vittoria socialista al Senato, due settimane fa. Possibile che, dopo un alloro così importante, la sinistra francese abbia nuovamente perso il proprio entusiasmo? Sono sei appunto i concorrenti a queste primarie: François Hollande, Ségolène Royal, Martine Aubry, Arnaud Mon-

tebourg, Manuel Valls e JeanMichel Baylet. Sarebbero stati sette, se Dominique StraussKahn, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, non fosse stato bruciato ancora prima di presentarsi ai blocchi di partenza. La vicenda Dsk pesa ancora sull’appuntamento di domani. C’è chi è convinto che l’economista ormai compromesso avrebbe davvero potuto sconfiggere i suoi rivali di coalizione e soprattutto mettere in difficoltà Sarkozy al voto del prossimo anno. Tuttavia, il Ps non più sperare in un recupero del suo, forse, personaggio più illustre. Il che gli impone di seguire una strategia anti Sarkò funzionale sì – le primarie hanno una loro efficacia propagandistica di base – ma con nomi sfibrati dal lungo presenzialismo.

François Hollande, 57 anni, è il favorito. France Soir prevede un 47% di preferenze in suo favore. Il suo nome è una garanzia. Ma fino a un certo punto. Ex segretario nazionale del


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Bloomberg – in questi casi è meglio rivolgersi a fonti straniere: sono meno parziali – ha scritto se c’è un candidato che queste primarie possono bruciare è proprio la Royal. Dispiace: 58 anni e già rischia la fine politica. Poi ci sono Arnaud Montebourg, giovane parlamentare con posizioni molto di sinistra, Manuel Valls, parlamentare centrista e sindaco di un paese in provincia di Parigi, e Jean-Michel Baylet, leader del Partito Radicale della Sinistra, l’unico non socialista a prendere parte alle primarie. Sono tutti e tre franchi tiratori, sulla cui vittoria si può puntare poco e incassare tanto. I primi due sono cavalli giovani e che quindi possono perdere domani, fare esperienza della batosta e ripresentarsi più rinvigoriti tra cinque anni.

Montebourg ha solo 49 anni, suo nonno materno era algerino e recentemente ha dichiarato che l’affaire StraussKahn ha macchiato l’immagine della sinistra francese. È decisamente un ragazzo senza peli sulla lingua. Nel 2007, promuovendo l’elezione della Royal ha criticato il suo datore di lavoro perché in conflitto di interessi (e affettivi) con Hollade. Montebourg ha detto che re e regina erano nudi. La dichiarazione gli è valsa all’inizio l’impiego, ma poi un importante ritorno mediatico personale. Ha votato in opposizione alPs ed ex compagno della Royal. Il Paese lo ricorda perché nel 2005 si fa capo della campagna referendaria per il sì alla ratifica del trattato per la Costituzione dell’Unione europea. La sua scelta spacca in due il Partito socialista e il fronte del no, guidato da Laurent Fabius, incassa la maggioranza. Passano due anni, arriva la separazione dalla Royal e, pochi il blog mesi dopo, lepolitique.com rivela la sua relazione con la giornalista Valerie Trieweiler. È il primo caso di effettiva intrusione dei media nella vita privata dei politici francesi. Con il senno di poi, è difficile trovare le differenze tra questo caso e quello di Strauss-Kahn.

Negli ultimi giorni, Hollande ha giocato carte pesanti. Si è espresso in favore di un’eventuale discussione in Senato del genocidio armeno da parte delle truppe dell’Impero ottomano. Il leader socialista è interessato a richiamare l’attenzione dell’influente lobby armena di Francia. Forse si sente già con le chiavi dell’Eliseo in tasca e quindi detta una bozza di politica estera. Così facendo però, ha suscitato il disappunto dell’ambasciata turca a Parigi. Spetta a Sarkozy ricucire,

ora. E al presidente, è noto, non pare vero di dare addosso ad Ankara. A otto lunghezze di distanza, con il 34% di voti previsti, troviamo Martine Aubry. Nata nel 1950, attuale sindaco di Lille. È ormai da dieci anni il primo cittadino di questo borgo industriale prossimo al Belgio. Figlia d’arte. Suo padre è Jacques Delors, l’ex presidente della Commissione europea. Non per questo, ma per le sue doti, è sulla breccia da esattamente trent’anni. Nel 1981, anno di ingresso di Mitterand all’Eliseo, la Aubry ha un posto di primo piano nella sinistra francese. Sostanzialmente è già passata alla storia. Suo è il testo legge che, nel 1997, ha ridotto a 35 le ore lavorative settimanali. Il che, se ci si ricorda il corollario di polemiche a livello continentale, non è così positivo. La sua forza sta nell’esperienza. Non conta il fatto di essere donna. In questo ha saputo giocare meglio la Royal.

Da notare però che, nei dibattiti televisivi, sia sempre la Aubry ad accogliere il maggiore carico di simpatie. Prima dell’estate inoltre, era lei a tener testa agli altri contendenti. Con Hollande che le mangiava la polvere appena dietro.

C’è solo una cosa che domani può offuscare la ribalta socialista. Il lieto evento della Premiere dame, già in clinica per il parto. La nascita del Delfino, o di una piccola Marianne, è prevista a giorni Adesso le parti si sono invertite. E con un delta non indifferente. Passiamo alla Royal a questo punto. Che dire di lei? Bella è bella. Telegenica pure. Però è la candidata sconfitta da Sarkozy nel 2007. Delle due l’una quindi: o è tenace, oppure è una minestra riscaldata. I suoi sostenitori l’hanno battezzata come la «Giovanna d’Arco del terzo millennio capace di risorgere dalle sue stesse ceneri».

C’è confusione tra mitologia è storia. È la Fenice a rinascere dal fuoco, non la pulzella d’Orleans. A parte questo, è fuor di dubbio la sua visibilità. Più volte ministro, membro dal 1988 dell’Assemblea nazionale e soprattutto quel precedente di già candidata all’Eliseo le permettono di essere la donna politica francese più popolare al mondo. Resta fermo, tuttavia, quel terzo posto concessole al momento dai sondaggi. Giorni fa l’agenzia

l’immunità di Chirac per gli scandali per cui l’ex presidente è indagato. Insomma, è un Danton, ma con molte vezzosità alla Robespierre. Giustizialista quanto basta per piacere ai giacobini. Ma anche sensibile alle istanze della piazza. Barricadiero, infatti, contro le banche e la loro crisi che in questo momento sta affossando la finanza europea.Valls è ancora più originale. Nato a Barcellona e naturalizzato francese dal 1982. La sua famiglia vanta intellettuali che hanno combattuto il franchismo e artisti di vario genere. Un cugino di Valls è il compositore dell’inno del Barcellona. Lui si sente di rappresentare l’anima più moderata del socialismo francese. Ha eletto Bill Clinton e Tony Blair a sue icone. Desidera sdoganare il Ps dalla sua storia, gloriosa sì, ma forse ormai troppo affettata.

«Per finirla con il vecchio socialismo ed essere infine di sinistra», Valls si presenta con

proposte in materia fiscale, sicurezza e immigrazione abbastanza impopolari. Questa estate ha anche proposto un governo di larghe intese con Villepin, Bayrou e Lepage. La sfilata di nomi si conclude con Jean-Michel Baylet, navigato uomo del giornalismo e della politica radicale francese. Bayle è nato nel 1946, quindi è il più anziano tra gli sfidanti. È il figlio dell’ex direttore della Dépêche du Midi, uno dei giornali più letti nelle città di provincia d’oltralpe. Baylet, per alcuni aspetti, è in grado di auscultare la pancia della sinistra francese meglio di chiunque altro. Tuttavia, la sua è una candidatura volta più a sparigliare le carte. Le sue proposte di un’Europa federale governata da un pletora di economisti ha un suo fascino. Ma è difficile che possa riscuotere presa tra gli elettori. Detto tutto questo, non è sicuro che già domani Sarkozy saprà il nome del suo avversario. Il regolamento del Ps prevede il raggiungimento della maggioranza assoluta per uno dei candidati. In caso contrario, il 16 gli iscritti al voto dovranno ripresentarsi per il ballottaggio. L’eventualità, per quanto prevista, non giova al partito. La mancanza, nell’immediato, di un nome da portare sugli scudi è sintomo di divisione all’interno del Partito socialista.

Già la partecipazione di ben sei candidati dovrebbe suggerire qualcosa. Il che, per chi vive all’Eliseo, non può che tornare comodo. Tanto più che Sarko è in crisi di popolarità. Si parla di un calo fino al 35%. Mentre l’Ump si sta ancora leccando le ferite per la perdita del Senato. D’altra parte, la guache vuole vincere disperatamente le presidenziali del prossimo anno. Dalla nascita della Quinta repubblica (1958), l’impresa è riuscita solo una volta. È vero che Mitterand, il Fiorentino, è secondo solo a de Gaulle per celebrità. Ma al Ps serve potere e non più fama. C’è solo una cosa che può offuscare la ribalta socialista domani. Il lieto evento di Carla. La première dame è già in clinica per il parto. La nascita del Delfino, o di una piccola Marianne, è prevista a giorni. L’Eliseo ha scommesso tanto su questa maternità. E se calcoli medici e fortuna sono in favore di papà Sarko, le primarie socialiste, così tanto americanizzate, potrebbero perdere la prima pagina per l’arrivo di un erede. Il tutto nel rispetto di una tradizione dinastica che fa del presidente della quinta repubblica francese un piccolo Bonaparte. Un ruolo, questo, che ancora de Gaulle aveva ritagliato per sé e che il Fiorentino sapeva recitare magistralmente. E che nessuno dei suoi successori ha saputo proseguire.


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grandangolo Reportage da Muree, enorme meta turistica dell’area

Sposarsi in Pakistan: viaggio al centro dell’islam

Nel Paese dei Puri la sposa decide il marito in base alle preferenze della sua famiglia, i musicanti suonano vestiti con il tartan scozzese e il divorzio esiste solo sulla carta. Ma questi non sono segnali di repressione religiosa o di bigottismo: al contrario, rappresentano una tutela e uno scudo sociale di cui tutti (anche i giovani) hanno bisogno di Antonio Picasso

MUREE (PAKISTAN) Rubeena ha ventitre anni e una figlia di due. È minuta. Avvolta nel suo salvar kamiz fucsia e giallo sembra ancora più giovane. Svelta nelle faccende domestiche, tiene la casa in maniera impeccabile. Un’eccezione in un Paese che ha serie difficoltà a definire una propria politica ambientale e igienica. Per responsabilità anche dei singoli cittadini. Rubeena è maestra di scuola. Anche questo la rende una mosca bianca. Il lavoro per le donne, qui in Pakistan, è poco frequente. Tuttavia, quello dell’istruzione è un settore a sé stante. Rubeena, infine, è stata abbandonata dal marito due mesi fa.

Il marito, Nisar, pare che fosse un funzionario di un’azienda farmaceutica. Ha (o aveva) 35 anni. I dubbi sul fatto che sia ancora in vita sono dovuti alla totale mancanza di tracce. La polizia non ha saputo contattarlo in alcuna maniera. Possibile che sia stato rapito o ucciso? «No! È fuggito». Dicono quelli che lo conoscevano meglio. Faceva il rappresentante a Muree, città piccola e isolata sulle montagne a est di Islambad. Tuttavia, è un centro urbano di notevole passaggio. Meta turistica dell’intero Paese, ma anche dalla Cina e dall’Iran. È sede di una serie di college privati, nonché di un centro di addestramento militare. Questo Mattia Pascal del Paese dei Puri se ne è andato lasciando circa ventimila euro di debiti tra i suoi parenti, amici e vicini di casa e abbandonan-

do moglie e figlia al loro destino. Un giorno Rubeena è tornata a casa da scuola e ha notato qualcosa di anomalo. Libri che mancavano, armadi vuoti, la dote di gioielli in oro portata da lei andata in fumo e sul tavolo del piccolo salotto circa cinquantamila rupie pakistane; quattrocento euro, forse qualcosa di più. Abbandono del tetto familiare: un classico dei tempi moderni.

Cosa succede però se il contesto è quello pakistano, repubblica islamica, dove la shari’a non è vigore, ma è implicitamente applicata? Qui vedove e don-

Dopo l’abbandono, la donna potrebbe cercare un nuovo compagno anche se il precedente fosse ancora in vita. Così lo punisce ne divorziate godono di una reputazione, agli occhi dell’opinione pubblica, appena appena migliore delle prostitute. Nel caso di Rubeena, la situazione è stabilizzata. La gente la compatisce. C’è chi la aiuta. L’impiego da insegnante le

permette di mantenere sé e la figlia. L’affitto dell’appartamento è stato coperto dagli amici (del marito) fino a marzo. «Poi me ne dovrò andare – spiega – poco male: questa casa è troppo grande per me e mia figlia. Troveremo una stanza singola». Sembra non aver paura. Quanto può resistere però questa situazione? Con il passare del tempo e i mormorii della gente, c’è il rischio che Rubeena passi per la ragazza madre della situazione. Tanto più che i trascorsi di Nisar non sono ottimi. L’uomo si era già sposato in passato. Ben due volte. A questo punto forse c’è un problema a monte. Una debolezza strutturale del Paese, che penetra nelle singole abitazioni. I matrimoni misti nell’islam sono la prassi. Anche quello di Rubeena e il marito, ovviamente, ha richiesto il nulla osta delle rispettive famiglie. È una tradizione che nessuno mette in dubbio. Non per paura di rappresaglie morali da parte delle autorità religiose. O per imposizione dei parenti.

l’esplicito consenso di entrambi gli sposi. Questo però, pur essendo un sintomo di cambiamento, non cambia ancora la struttura della prassi. Lo si vede nella cerimonia stessa. Una lista immensa di invitati a un pranzo pantagruelico, durante il quale uomini e donne sono divisi da un rigido paravento. Solo alla fine, gli sposi si mostrano insieme. Il tempo necessario per ricevere omaggi e doni dei suoceri e per scattare le foto di rito.

Bensì perché in seno alla società pakistana non esiste alternativa. «Per voi occidentali il matrimonio è l’unione di due persone – spiega il mullah del posto – per noi coinvolge due intere famiglie». È come se fosse un’alleanza clanica. Due più o meno grandi gruppi sociali decidono di intrecciare interessi, affari, ma anche sentimenti. Nell’evoluzione della società pakistana, infatti, non si può dimenticare che è ormai richiesto

Ogni Paese ha le proprie tradizioni e nessuno osa mettere in discussione queste. Soprattutto se nascono da un amalgama di costumi così sorprendentemente lontani tra loro. Peraltro, scene simili si possono rintracciare negli album di famiglia della Sicilia anni Cinquanta. O anche della bassa padana. Si aggiunga, inoltre, l’unanime approvazione di questi usi da parte di ragazzi e ragazze. «Cosa accadrebbe se mi sposassi con

Solitamente lo sposo ha un contegno per cui tutto parrebbe fuorché essere il giorno più bello della sua vita. La sposa, invece, segue un rigido protocollo di comportamento. Trucco pesante, abiti ricamati e impreziositi da gioielli che le impediscono i movimenti, occhi fissati al pavimento. Nota di ulteriore costume: gli orchestrali sono soliti suonare cornamuse e indossare tartan delle highlands scozzesi. L’impero britannico non ha lasciato al suo ex raj soltanto la lingua inglese e la guida a destra.


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Una Commissione vuole la pena di morte per il medico che lo ha dato alla Cia

E Islamabad studia le accuse contro il traditore di bin Laden di Massimo Fazzi na commissione d’inchiesta pakistana, che sta indagando sul raid americano contro il covo di Osama bin Laden, ha detto che un medico di Abbottabad deve essere condannato per tradimento contro lo Stato per aver organizzato una falsa campagna di vaccinazione nel tentativo di prelevare campioni di Dna del capo di Al Qaeda. Shakil Afridi è sospettato di lavorare per la Cia ed era stato arrestato dopo il blitz del 2 maggio, dove è stato ucciso lo sceicco saudita. Secondo un giudice della Corte Suprema, che guida la commissione, «se Afridi aveva delle prove sul terrorista e non le ha passate a Islamabad, ha tramato contro lo Stato. E per questo merita la morte». Questa posizione, che appare quanto meno incomprensibile per gli occidentali – secondo cui chiunque abbia tradito bin Laden è un eroe – è molto condivisa nel Paese. Basti guardare a quei partiti politici e religiosi che hanno proclamato uno sciopero nazionale per protestare contro la sentenza di morte di Mumtaz Qadri, l’assassino del governatore del Punjab Salman Taseer. Ieri Mumtaz Qadri ha presentato appello all’Alta corte di Islamabad contro la condanna a morte pronunciata dal tribunale antiterrorismo di Rawalpindi il primo ottobre scorso. L’avvocato di Qadri, Raja Shujahur Rehman, ha dichiarato in appello che il tribunale antiterrorismo non era l’autorità appropriata nel caso, che avrebbe dovuto essere trattato dalla corte federale Shariat. Secondo l’avvocato, il caso di Qadri non ricadeva sotto il codice penale pakistano perché aveva ucciso un blasfemo seguendo l’insegnamento dell’islam.

U

un giovane che alla mia famiglia non piace?» dice una promessa sposa di Muree. «E se tra i miei parenti e i suoi ci fossero dei problemi irrisolti? Sarei io stessa a mancare di rispetto ai miei genitori, unendomi con il nemico».

La ragazza fa pensare. Se non altro rimanda agli studi di letteratura inglese. O a Giovannino Guareschi, se si vola a quota italiana. «In questo Paese la famiglia ha un valore maggiore rispetto al

Tra i ragazzi questi usi non sono considerati arcaici: «Voglio unirmi con qualcuno che sia amico della mia famiglia» vostro. Fratelli, zii, cugini e amici fanno parte del gruppo». È il clan, sì. La conferma arriva nel momento in cui la ragazza cita gli amici. Persone per noi prossime, certamente, ma non così tanto da intralciare la nostra vita affettiva. L’amico in Pakistan, ma non solo qui, ha un potere decisionale che lo pone appena sotto un gradino del padre. Alle volte, neanche i parenti di sangue riescono a essere così influenti. Quando la catena organizzativa di un matrimonio è così lunga, e approvata in termini individuali, l’unione non può che essere combinata. Il ragionamento ha senso fino a quando non si affronta il problema della crisi familiare. Che succede con la coppia che scoppia? C’è il divorzio.

Sulla carta però. Perché all’uomo è concessa una libertà d’azione tutto sommato simile a quella occidentale. Men-

tre la donna è quasi sicuramente condannata al dramma. Vedi il caso Rubeena. Nisar l’ha abbandonata e adesso lei deve sopportare le critiche del’intera Muree. Da queste c’è il pericolo che si passi a ripercussioni più concrete: isolamento e rifiuto. Di lei e della bambina.

Forse la fretta di sposarsi, per procreare e assicurare la continuazione del patrimonio, non fortifica quell’unione familiare che è invece tanto sentita. Forse se si facessero prolungare i fidanzamenti, i giovani potrebbero rendersi conto di non essere fatti l’uno per l’altro. «Il Corano insegna che la moglie è la camicia che l’uomo deve indossare ogni mattina. E così il marito per la donna», spiega il Mullah. «Ognuno senza l’altro è come se fosse nudo, davanti ad Allah e agli altri uomini. E questo non è possibile». Bisogna sposarsi il più in fretta possibile quindi? Il mullah esprime il suo assenso muovendo lentamente la testa. Perché c’è anche l’eventualità che uomo e donna troppo maturi sia altrettanto emarginati come può accadere a Rubeena. E se poi le cose non funzionano? «Inshallah!» É il passepartout che i musulmani usano sia per i successi sia per le sconfitte. Il che però non è una risposta. Per Rubeena, tuttavia, le cose paiono risolversi in tempi brevi. Grazie alla sua giovane età, la famiglia sta scegliendo due pretendenti che le assicurerebbero nuove nozze e l’adozione della figlia. É un altro contratto deciso a tavolino. Ma per la ragazza è la salvezza. Resta da capire chi sarebbe il fortunato. In lista ci sono un pretendente che porterebbe con sé Rubeena e la bambina a Dubai, oppure un altro. Residente ad Abbottabad. Gli amici di lei optano per la prima soluzione, tanto più che le sue disponibilità economiche risultano ingenti. La madre non vuole che la figlia vada tanto lontano. Nel frattempo, Rubeena non si è ancora espressa. E se dicesse no a entrambi?

L’appello sostiene che Qadri non è responsabile di terrorismo, perché uccidere Taseer non era un atto di terrore; e l’avvocato concludeva che il tribunale aveva ignorato la giurisprudenza islamica. Shujahur Rehman ha dichiarato che «nessun senso di panico o di insicurezza è stato creato nel pubblico al tempo dell’uccisione; quindi non si può definire un atto di terrorismo, anzi, al contrario, la gente ha tirato un respiro di sollievo dopo l’uccisione del blasfemo». Centinaia di persone si sono radunate davanti al tribunale di Islamabad gridando slogan di appoggio a Qadri e di condanna del giudice. La discussione dell’ap-

pello è stata fissata per l’11 ottobre. Gruppi wahabiti e Deobandi hanno annunciato la loro adesione alla manifestazione promossa da altri gruppi e partiti islamici (circa 40 in tutto) contro il verdetto, definendo Qadri“un eroe islamico”.

Il gruppo islamico Sunni Tehrik ha offerto una grossa cifra come Dyat, “denaro del sangue” alla famiglia di Taseer per ottenere il perdono di Qadri. L’organizzazione per i diritti umani Masihi Foundation ha dichiarato: «Le condizioni in Pakistan stanno diventando critiche a causa del fanatismo crescente ogni giorno di più, che porterà a più violenza e caos. Se non siamo d’accordo con qualcuno, non è necessario essere violenti. Gli individui non possono arrogarsi l’autorità di giudicare chiunque, infedele o non musulmano. Qadri ha commesso un crimine odioso, e dei peggiori, un assassinio motivato da ragioni ideologiche. La vittima era il governatore del Punjab, che nell’osservanza del suo dovere pubblico aveva incontrato una donna condannata in base a una legge discriminatoria [Asia Bibi]. Siamo contrari in generale alla pena di morte; la gente deve rigettare la pena di morte in maniera non equivoca, specialmente per come è applicata in Pakistan. I liberali che si dicono contrari alla pena di morte, ma poi affermano che la appoggiano nel caso di Qadri, come eccezione, non sono in una posizione solida». Il vescovo di Rawalpindi-Islamabad, Rufin Anthony, ha dichiarato ad AsiaNews: «Qadri ha tradito la fiducia accordata e ha ucciso la persona che aveva giurato di proteggere. Sono sbalordito che un avvocato dica che il verdetto del tribunale è illegale e senza fondamento: uccidere una persona è giustificato? E quelli che affermano che Jinnah, padre del Pakistan, fu l’avvocato che difese un uomo nel primo caso di blasfemia, e cercò di salvarlo dalla pena capitale, devono ricordare alcune cose. Jinnah non fu l’avvocato di Din al processo, ma lo rappresentò in appello contro la condanna a morte; cercò di ottenere la compassione del tribunale a causa della tenera età del ragazzo; non difese l’azione di Ilam Din, cioè l’uccisione di Rajpal, e non disse che era giustificata».


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il personaggio della settimana È morto a 92 anni Wilson Greatbatch, “l’umile pensatore” che ha inventato il pacemaker

Il cuore del mondo Mentre l’intero pianeta piange la scomparsa di Steve Jobs, si spegne quasi nel silenzio uno degli inventori più prolifici del XX secolo. Che ha ridato la vita a milioni di persone di Vincenzo Faccioli Pintozzi William Greatbatch mostra lo schema con cui ha poi messo in pratica il pacemaker (nella pagina a fianco). L’inventore, 92 anni, stava lavorando a una cura per l’Aids. Aveva brevettato più di 350 invenzioni in campo medico, energetico e elettrico

ilson Greatbatch si definiva “un umile pensatore”. E in effetti non ha mai amato la luce della ribalta, con l’eccezione di quella universitaria. Eppure, con i suoi “umili pensieri” ha ridato la vita a milioni di persone in tutto il mondo. Mentre il mondo intero piange la dipartita di Steve Jobs – brillante, certo, ma pur sempre un venditore di computer – un uomo più rilevante per la sopravvivenza di moltissimi di noi si è spento a 92 quasi nel silenzio. Eppure il suo pacemaker dà il battito a buona parte dell’umanità. La sua morte è avvenuta lo scorso martedì ed è stata confermata dalla figlia, Anne Maciariello.

W

A Williamsville, nello Stato di New York, lo hanno pianto in molti: nel mondo gli hanno dedicato un poco di spazio nei giornali, ma niente di più. Gli americani lo hanno ricordato con una paginata sul New York Times e uno speciale su History Channel, ma di certo il presidente Obama – che pure avrà fra i suoi cari un cardiopatico, si presume – non è apparso in televisione per dire che se ne è andato un genio. Niente a che vedere con l’inventore dell’i-pod che, per quanto sia un aggeggio divertente, non ha mai ridato (o dato) la vita a nessuno. Niente a che vedere con l’i-phone o l’ipad, che ci hanno certo messo in mano un computer, ma che forse non sono propriamente delle tecniche per salvarci la vita e tanto meno l’anima.

Lo scienziato e inventore, invece, nel corso della sua lunga vita ha deposto oltre 325 brevetti. Fra questi vanno ricordate le batterie al litio, praticamente impossibili da scaricare, che hanno rivoluzionato l’impiantistica in campo medico e hanno risparmiato a milioni di pazienti altre operazioni per il cambio del “carburante interno”. Ma non si è fermato qui: sono famose le sue ricerche sul virus dell’hiv, che lo hanno portato a scoprire utili strumenti per le cure dei sieropositivi, e il suo impegno nel campo energetico. Con una canoa a energia solare ha superato le 160 miglia del Finger

Lakes per festeggiare il suo 72simo compleanno. Inoltre, negli ultimi anni della sua vita, ha investito tempo e molto denaro nella ricerca sui biocarburanti. Non solo: sempre negli ultimi due decenni di vita, decise che doveva stimolare le nuove generazioni alla ricerca e allo studio e – per conseguire questo scopo – decise di incontrare quanti più studenti delle scuole elementari possibili.

Anche quando la malattia e l’età gli resero impossibile muoversi con costanza continuò a correggere le tesi di laurea che riceveva. Greatbatch, una formazione da ingegnere elettrico, nei suoi ultimi anni aveva infatti un’ambizione: trovare una possibile cura per l’Aids, ed era a questo che stava lavorando, e trovare un’alternativa ai combustibili fossili che – nella sua stessa previsione – si esauriranno del tutto entro il 2050. La sua “creatura” più famosa già nel 1983 era stata consacrata dalla National Society of Professional Engineers, guadagnandosi un posto nell’Olimpo dei 10 più importanti contributi dell’ingegneria alla società. Il debutto del pacemaker risale al 1960: anno in cui è stato eseguito, al Veterans’ Affairs Hospital di Buffalo, il primo impianto di successo della macchina salvacuore su un uomo. Il battito cardiaco del “paziente zero”, un 77enne, divenne subito regolare. E l’uomo visse altri 18 mesi dopo l’operazione. Nel 2010 Greatbatch ha festeggiato il 50esimo anniversario del dispositivo medico. Oggi, centinaia di migliaia di persone ricevono un pacemaker ogni anno. Greatbatch nel 1998 fu ammesso nella “Hall of fame” degli inventori ad Akron (Ohio). Il papà del pacemaker aveva fondato anche una sua società, la Greatbatch Ltd un tempo Wilson Greatbatch Ltd - che produce batterie per i pacemaker impiantabili. Il dispositivo che oggi fa battere i cuori di milioni di pazienti gli è valso diversi premi, non ultimo il Lemelson-MIT Prize nel 1996, ricevuto all’età di 76 anni. Nelle sue memorie – “La creazione del pacemaker”, pubblicate nel 2000 – ricorda come il tempo e il ritmo di un cuore umano “sembrassero dei battiti ancestrali”. Questa impressione gli ricordò alcune conversazioni avute con diversi ricercatori sull’attività elettrica del cuore. Quella stimolazione elettrica, scrive, «mi fecero pensare che si poteva utilizzare proprio quelle miniscosse per com-


8 ottobre 2011 • pagina 31

Lutto continuo a Cupertino CUPERTINO. Oltre al funerale digitale globale c’è la veglia fisica, quella delle persone in carne ed ossa che continuano ad accorrere nei luoghi di Steve Jobs da quando la Apple ha dato l’annuncio della sua morte, nella notte fra mercoledì e giovedì. Da oltre 24 ore ormai al quartier generale del colosso informatico nella Silicon Valley, a Cupertino, si assiste a un pellegrinaggio di fedelissimi della mela. Chi lascia un fiore, un frutto, un biglietto, chi accende una candela e si filma insieme agli amici ovviamente con l’iPhone o l’iPad per ricordare questo momento di tristezza. Il brand è stato riadattato a lutto dai fan dell’imprenditore e visionario californiano, il guru della comunicazione portatile e della musica nell’era digitale: “iSad” twittano i ragazzi, lo scrivono sui cartelli per le strade o sulle magliette stampate all’ultimo minuto. Alla sede centrale della Apple tre bandiere sono a mezz’asta: quella americana, quella della California e quella della Mela azzurra in campo bianco. In pratica l’omaggio che si riserva a un capo di Stato.

pensare le mancanze del circuito cardiaco naturale». Ovviamente, non essendo un eremita, guadagnò bene (benissimo) dalle sue scoperte. Ma decise anche di investire i ricavati in altri progetti, ritenendo inutile la ricchezza fine a se stessa. Una delle sue ultime sfide fu quella di testare le tecnologie umane nello spazio.

diava l’uso dei transistor come rivelatori delle aritmie cardiache e, in uno dei suoi esperimenti, installò un resistore con una resistenza sbagliata; si accorse tuttavia che da quel lato venivano create pulsazioni identiche al battito cardiaco normale e che quindi il nuovo circuito avrebbe potuto essere utilizzato in caso di aritmie.

Sposato con Eleanor per più di 60 anni e papà di 5 figli, l’ingegnere elettrico che ha segnato una svolta nella storia della cardiologia nel suo passato ha

Wilson depositò il brevetto per il pacemaker il 22 luglio 1960. Guardava con interesse al lavoro della nuova generazione di inventori ai quali

Stava lavorando a una cura per l’Aids e su come rimpiazzare i combustibili fossili con quelli biologici anche militato in Marina, come cannoniere di retroguardia e bombardiere a tuffo durante la seconda Guerra mondiale. Appassionato di elettronica fin dall’età giovanile, infatti, fu radio-operatore nella Marina degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.

Laureatosi in ingegneria elettrotecnica alla Cornell University nel 1950, più tardi (1957) si perfezionò all’università di Buffalo. Non tutti sanno che l’invenzione del pacemaker impiantabile, e quindi del pacemaker in generale, avvenne in parte per caso. Greatbatch stu-

senso comune di religione. Partiamo con ordine. Premettendo un evidente rispetto per il defunto (che tutto era tranne che un chiacchierone) e rendendo omaggio alla sua sincera fede buddista (che pare abbia praticato con costanza e sincerità) è impossibile non registrare quanto accaduto nel mondo dopo la sua prematura scomparsa, provocata da un cancro al pancreas. I messaggi di cordoglio, le dichiarazioni di amore eterno, i roboanti proclami che hanno invaso Internet e che continuano a rotolare per tutto il Web sono incredibili. Rivestendoci di nuovo di rispetto, è sinceramente assurdo leggere «Steve, mi hai salvato la vita in un momento difficile»; «Ritorna, il mondo senza di te non è più lo stesso»; «Mi mancherai più di quanto mi manchi mio padre».

Anche perché, vale la pena sottolinearlo, il carismatico venditore di computer non era un logorroico e non aveva la smania dell’immagine. Complice anche il suo male, che negli ultimi dieci anni lo aveva costretto a cure e analisi continue, era apparso in pubblico soltanto per presentare i suoi prodotti. Oltre al famoso discorso di Stanford, che a sentire gli internauti straccia «Signor presidente, abbatta questo Muro»; «Ho fatto un sogno»; «Non chiedetevi cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il Paese».

lanciò anche una sfida, proponendo loro di lavorare alla fusione nucleare usando un tipo di elio che si trova sulla luna. Traguardi, progressi, successi costruiti con una vita di sacrifici e di genialità. Viene da pensare invece che il vero grande traguardo della sua esistenza terrena Steve Jobs l’abbia conseguito non nel campo della tecnologia, ma della società. E, come aveva previsto, è stato raggiunto in punto di morte.

La sua dipartita e l’isteria collettiva susseguente dimostrano infatti senza ombra di dubbio che Jobs ha ucciso il

Ecco, anche il discorso di Stanford (o il Testamento, come è già stato ribattezzato) ha avuto un risalto francamente eccessivo: utilizzare un claim pubblicitario per dire a dei giovani che il segreto dell’industria e del capitalismo sta nell’intuizione e nella voglia di rischiare è – come dire – un pochino banalotto. E che la morte sia la miglior invenzione della vita… non so, mi ricorda un predicatore della Galilea. In ogni caso, Jobs ha stracciato i santi e i profeti. Soltanto Giovanni Paolo II riuscì a fare meglio di lui, ma il messaggio del pontefice era un pochettino più complesso rispetto all’accattivante linea dello schermo dei Mac. Insomma, il vero risultato di Jobs è

stato mordere la mela proibita. Quello di Greatbatch è stato quello di salvare il mondo. E l’amore dimostrato dal mondo per Jobs non si è palesato per Greatbatch, anche se a leggere le due biografie si intuisce abbastanza presto quale dei due abbia dato di più all’umanità.

Da questo punto di vista, l’inventore/ingegnere/scienziato non aveva dubbi: «La mano di Dio si è posata su tutto quello che ho fatto, sia sui miei successi che sui miei insuccessi». Amava dire ai suoi studenti, o a quelli che visitava, che «nove idee su dieci si rivelano inutili o inutilizzabili, dal punto di vista scientifico o commerciale». Ma quando un esperimento si dimostra inutile, scriveva, «è per me impossibile dire se sia avvenuto un fallimento. Da come la vedo io, si tratta di un modo con cui Dio intende contribuire a un buon successo, forse da conseguire in un momento futuro». La fine delle sue memorie si conclude così: «Chiedere a Dio o agli uomini che un esperimento funzioni, che dia maggiore statura alla propria figura, che faccia ricavare un buon guadagno o l’approvazione del proprio mondo è come chiedere di essere pagati per un atto compiuto in nome dell’amore». Questo sì, assomiglia a un testamento. Certamente non si vuole fare un ragionamento moralista o moralistico, anche perché l’affetto non si impone e l’ammirazione non può essere provocata, tranne che in alcuni regimi dispotici. E quindi la diversità di trattamento è giustificabile, in un mondo come quello del XXI secolo. Ma fa riflettere il fatto che il design abbia preso il posto della funzionalità, che l’intrattenimento abbia soppiantato la medicina, che l’estetica - insomma - sia considerata molto più dell’etica. I due decessi addolorano allo stesso modo un mondo che non ha più eroi, governato dalle incertezze e quasi costretto a scegliere idoli di facile comprensione. Ma fra chi ha inventato l’i-pod e chi ha inventato il pacemaker, la scelta e l’amore dovrebbero premiare il secondo.



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