2011_10_21

11021

he di cronac

Bisogna guardarsi dal giudicare

le società nascenti con idee attinte da quelle che non sono più Charles Alexis De Tocqueville

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 21 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

The End

Ucciso a Sirte il colonnello Gheddafi.

Secondo i ribelli era nascosto in una buca ed è stato giustiziato con un colpo alla testa.

Ora la Libia è davvero libera da pagina 2 a pagina 7

Nato nel 1949, è vice direttore generale dal 9 gennaio 2007. Ma a via Nazionale è arrivato nel 2004 come funzionario generale

Ha vinto Bankitalia

Alla fine Berlusconi ha dovuto cedere: Governatore sarà Ignazio Visco, un nome interno E i big del Pdl chiedono una svolta: «Riforme per la crescita subito, oppure siamo finiti» DIVISIONI

di Francesco Pacifico

Un governo fondato sui ricatti

ROMA. Un terzo incomo-

di Gianfranco Polillo difficile trovare le parole per descrivere quel che è successo nella nomina del vertice di Banca d’Italia. Si sono consumate in decine di editoriali in cui la vicenda è stata vivisezionata, cogliendone gli aspetti più grotteschi e le ferite recate al volto di una delle Istituzioni più prestigiose che l’Italia può vantare – anche per questo Mario Draghi siederà sullo scranno più alto della Bce – ed al Paese stesso. a pagina 11

È

Il premier a tutto campo: attacco alle tv

Silvio archivia il Pdl «Non significa nulla» «Pronti a vincere nel 2013.

Ma solo con l’Udc».

E sul nome: «È sbagliato» Franco Insardà • pagina 12

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

do che rassicura l’istituzione, piace ai mercati e soprattutto è l’uomo giusto al posto giusto, perché è nato e cresciuto a via Nazionale. Ignazio Visco è il nuovo governatore di Bankitalia, sostituisce Mario Draghi volato alla Bce. Ha avuto la meglio su Fabrizio Saccomanni e quel Lorenzo Bini Smaghi, che ha aveva soltanto le pressioni dei francesi per avere il posto che ricopre nel board della Bce e un mezzo avallo di Tremonti, che si è trovato senza candidato. Quella di Visco è vista come una vittoria sia da Silvio Berlusconi sia dall’intero Pdl. a pagina 10 205 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Tutto paralizzato e c’è persino un morto

Due ore di pioggia e Roma va in tilt: ma che Paese è questo?

Metro allagate, treni fermi, un anziano annegato. Neanche Napolitano riesce a partire...

Riccardo Paradisi • pagina 8 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30

la fine di Gheddafi

Prima di morire, il dittatore avrebbe urlato ai suoi carnefici: «Non sparate». Dopo essere stato ferito alle gambe, un colpo in testa

Il ragazzo e il Colonnello Un 18enne con una pistola d’oro: ecco come è morto Gheddafi.

Che, nascosto in una buca a Sirte, cercava la fuga a Misurata.

Sulla fine del dittatore versioni contrastanti fra la Nato e i ribelli, che annunciano: uccisi anche i figli Mutassim e Saif al-Islam di Vincenzo Faccioli Pintozzi

epitaffio peggiore è quello del premier italiano, Silvio Berlusconi, che sulla fine dell’amico Muammar Gheddafi non trova parole migliori di quelle che venivano sussurrate ai pontefici appena eletti: «Sic transit gloria mundi». Soltanto che parlare di gloria, nel caso della vita del dittatore libico, è troppo; e mettere a paragone il capo della rivoluzione Verde con un pontefice – fosse anche papa Borgia – è improprio.

L’

Comunque sia, Muammar Gheddafi è morto. Il leader libico, dato in un primo tempo per ferito dopo la sua cattura a Sirte, è deceduto dopo una“corsa”in ambulanza, che comunque lo ha depositato fià morto all’ospedale di Misurata. Il Colonnello, ci dicono delle cronache non troppo affidabili, è stato catturato durante la fuga dalla sua città natale, caduta sotto gli ultimi assalti degli insorti dopo un lungo assedio. Ma sarebbe stato un doppio raid degli elicotteri Nato, a supporto dei ribelli, a bloccare Gheddafi prima e a ferirlo mortalmente in un secondo tempo. Dopo la caduta di Sirte le notizie sulla sorte di Gheddafi si sono affastellate in maniera caotica, rimbalzando

sulle tv libiche e del mondo arabo, oltre che in rete. «Gheddafi è stato arrestato - aveva detto in un primo momento un comandante delle forze del Cnt - ed è stato gravemente ferito ad entrambe le gambe ma respira ancora». Altre versioni raccontavano che Gheddafi sarebbe stato catturato in una buca a Sirte e davanti ai combattenti del Cnt avrebbe urlato: «Non sparate, non sparate!». Con lui arrestato anche il figlio Muttasim, il potente capo dei servizi segreti dell’ex regime Abdallah Senoussi e il capo dei servizi di sicurezza Mansour Daou.

Al Arabiya riferiva anche che a Sirte sono stati fermati anche il ministro dell’Istruzione dell’ex regime Ahmed Ibrahim e uno dei consiglieri di Mutassim. Scene di giubilo, caroselli di auto, suono ininterrotto di clacson, uomini che ballano in strada con i mitra in pugno. Sono le prime immagini che provengono da Tripoli e da diverse città della Libia, alla notizia della cattura del colonnello. «È una grande vittoria per il popolo libico», ha dichiarato il ministro dell’informazione, Mahmoud Shammam. Sirte è caduta in mattinata: la presa della città si può considerare simbolicamente come la fine della guerra di liberazione del Paese.

Al Jazeera ha citato le parole del colonnello Yunus Al Abdali, capo delle operazioni militari in città «Sirte è stata liberata. Non ci sono più forze di Gheddafi in città. Stiamo dando la caccia ai suoi miliziani

Berlusconi: «Sic transit gloria mundi».

Clinton: «La guerra non è finita».

Il premier Jibril: «Ora ricostruiamo il Paese»

che tentano la fuga». Un altro comandante delle forze del Cnt che ha spiegato come l’attacco finale, iniziato verso le otto del mattino, sia durato circa una novantina di minuti.

Il Colonnello è morto, dunque abbasso il Colonnello. Ma anche se è controverso quanto e come si possa gioire per la fine di un dittatore – che non è finito ma è stato ammazzato, con delle modalità che non lasciano ben sperare per il futuro – rimane la curiosità di voler vedere anche nell’ultimo atto di questa guerra sporca l’importanza dei simboli.

Simboli che Muammar Gheddafi ha assurto al rango di slogan, nel corso di 41 anni di dominazione della Libia “liberata” dagli italiani. Quindi l’attenzione potrebbe spostarsi su Sirte, culla e tomba del raìs, dove in una buca si è consumato l’ultimo atto di questa tragedia che sembra farsa. Oppure sulla pistola d’oro che un ragazzo di 18 anni, un bambino secondo i canoni occidentali, ha sventolato con gioia evidente: l’arma che ha trapassato il cranio del leader della Rivoluzione verde. Uno dei più importanti porti libici, la cittadina è situata al centro del Golfo della Sirte. Nel passato è stato un centro di smista-

mento della carovane dirette nelle regioni dell’Africa centrale.

Ma Sirte è anche uno dei centri culturali più importanti dell’Africa settentrionale: qui sorge una delle più importanti università del continente nero, la al-Tahaddi. Il luogo di studio, che prende il nome dall’unità profilata da Maometto, è stata per molto tempo un altro simbolo gheddafiano: non unità nel senso di “Umma”, ovvero l’unione di tutti i fedeli dell’islam, ma unità politica dell’Africa in senso anti-coloniale e ferocemente anti-occidentale.

Un’unità effimera, mai veramente raggiunta: tanto che nessuna nazione africana avrebbe espresso il desiderio di ospitarlo, una volta iniziata l’operazione umanitaria con cui la Nato ha liberato la Libia.

Ora il premier che lo ha scalzato, Jibril, dice che vuole «ricostruire il Paese»; la Clinton annuncia che «la guerra non è finita»; la Nato esprime dubbi sull’intera operazione. E dopo mesi di fuga rocambolesca e altri di guerra guerreggiata, la storia finisce con un colpo in testa forse sparato da una pistola dorata in mano a un ragazzino.A Sirte, dove aveva costruito il suo sogno, ha trovato la morte.

Per il Generale Camporini il Paese scivolerà nell’instabilità

L’opinione di Karim Mezran, direttore del Centro Studi Americani

«La Nato se ne andrà, e comincerà la vendetta»

«No, andrà tutto bene.

Troppi soldi in ballo» di Luisa Arezzo

di Luisa Arezzo on vedo difficoltà al fatto che la Nato ponga fine alla sua missione in Libia. Una volta esaurita questa fase di combattimento, in cui c’era un buono e un cattivo, l’Alleanza non ha più un ruolo da svolgere. Non illudiamoci però che cessino le azioni violente in quell’area. È solo che questo non sarà un problema della Nato».

Così il generale Vincenzo Camporini, consigliere alla Difesa della Farnesina e già Capo di Stato Maggiore della Difesa.

Quanto tempo ci vorrà per andar via dalla Libia?

Dal momento che la partecipazione dell’Alleanza è essenzialmente aerea, giusto il tempo di rifornire di carburante gli aeroplani e ripartire.

Dunque pochi giorni, forse anche meno...

Sì. Poi però bisognerà vedere quale sarà il ruolo di mentoring, addestramento ed educazione che la comunità internazionale vorrà svolgere nei confronti della nuova Libia. Nel qual caso

«N

“

potrà essere necessaria la presenza di personale, sia civile che militare. Addestratori che guidino questo paese, essenzialmente privo di strutture, verso una forma istituzionale che sia in qualche modo compatibile con il dialogo con il resto del mondo.

Questa è però una decisione che passa per atti formali...

Non c’è il minimo dubbio su questo. Al momento il Cnt è l’interlocutore e speriamo che manifesti una solidità e coesione interna che vada al di là di quelle che sono le legittime differenze fra attori che sono portatori di esigenze diverse.

Cosa succede adesso in Libia?

Succede che adesso i libici non hanno più alcun paravento dietro il quale nascondersi e devono decidere come vorranno governare la Libia, ammesso che mantengano l’unità territoriale di questo scatolone.

Lei vede ancora possibile la spartizione fra Cirenaica e Tripolitania??

Sì, perché secondo me il problema non era Gheddafi. Il Raìs era semplicemen-

te l’esponente di un fazione piuttosto importante della Libia che non scompare con la sua morte, ma rimane con tutte le sue istanze e aspetattive.

Dunque adesso cosa accadrà?

Ci sarà una lotta politica fra tutte queste componenti, con esiti che al momento non ci è dato di conoscere. La separazione è una possibilità e all’altro estremo c’è l’eventualità di un accordo politico in grado di soddisfare la multiforme società libica Un problema è evidentissimo. Il paese è adesso armato fino ai denti. Come si fa a disarmarlo?

Questo è uno dei problemi più gravi che adesso bisognerà affrontare: Il rischio è che le varie fazioni, godendo della disponibilità di sistemi d’arma, anche di tipo pesante, possano instaurare una conflittualità permanente. Su cui la comunità internazionale non avrebbe nessuno strumento di intervento.

Una guerra civile?

Fra gli scenari possibili certo, la guerra civile c’è. Ma più che un vero conflitto

utto è cominciato a Sirte ed a Sirte tutto è finito. Simbolicamente, il cerchio si è chiuso. Ma una cosa la devo dire: come era stata sopravvalutata la forza di Gheddafi! E invece è venuto giù come niente. I suoi non hanno tirato giù un elicottero della Nato, né un aereo, non c’erano tutte quelle grosse armi di cui si parlava... non c’era niente».

A parlare così è l’accademico italo-libico Karim Mezran, direttore del Centro Studi Americani a Roma e docente di studi mediorientali alla John Hokpins University, che liberal ha raggiunto per commentare la morte del Raìs e la fine - almeno in questa forma - della guerra di Libia.

Gheddafi è morto. Come è morto?

Certamente non si è arreso. Alla versione che sarebbe uscito da un buco urlando «Non sparate!» io ci credo poco. La verità si saprà più avanti.

Forse la verità non si saprà mai…

Non è detto, c’era troppo gente. C’era l’elicottero della Nato, c’erano i suoi uomini, c’erano i ribelli: troppo testimoni

io immagino uno stillicidio permanente, atti di violenza con rivincite e vendette che impediscano la ripresa del Paese.

Qual è stato il momento di svolta di questa guerra?

Quando le tribù berbere hanno deciso di abbandonare Gheddafi e Tripoli di conseguenza è caduta. Cosa che altrimenti le forze del Cnt non avrebbero potuto ottenere.

Basta vedere quanto è stato difficoltoso prendere Sirte, che dal punto di vista tattico era ben più facile.

Il Paese che fu colonia degli italiani da ieri, con la morte di Gheddafi, entra in nuova era. Ci sarà posto per l’Italia secondo lei?

Non ho dubbi in proposito. Vicinanza fisica, interessi diretti: per l’Italia sarà agevole riprendere la posizione di partner commerciale preferito.

Se adesso la Libia precipitasse nell’odio - un sentimento evidente nelle immagini che sono circolate in queste ore, e la Libia scivolasse nell’instabilità permanente, verrebbe lasciata al proprio destino?

Questo lo chiediamo a Lady Ashton.

per riuscire a tenere un segreto.

Potrebbe essere stato giustiziato?

Tutto può essere, per carità. Ma credo che nessuno, in quel momento, potesse avere l’autorità di decidere la sua esecuzione. Chi se la piglia la responsabilità di farlo fuori? Con tutti gli occhi del Cnt e del mondo puntati addosso? No, Gheddafi è morto di suo, gli hanno sparato dall’elicottero Nato, hanno combattuto e poi è deceduto dopo le ferite mentre veniva trasportato in ambulanza.

Hillary Clinton ha detto «È un sollievo». L’apoteosi della real politik, non trova?

Soprattutto dell’ipocrisia.

Bè certo, a nessuno avrebbe fatto comodo un Gheddafi catturato vivo...

Gheddafi vivo sarebbe stato un problema. Immaginiamo la scena: «Lo processiamo a Misurata»; «No, a Zintane»; «No, ha fatto più morti a Bengasi»; «No, è meglio a Tripoli. Un disastro. E poi, ci sarebbero stati gli europei che avrebbero chiesto delle garanzie, e chi gliele avrebbe dovute dare? Gli islamici. Il Cnt sarebbe stato messo

« È ancora verosimile lo scenario della spartizione in Tripolitania e Cirenaica.

Vedremo se il Cnt saprà evitarlo»

”

«T

“

sotto accusa: «L’hanno picchiato»; «L’hanno ferito»; «Non lo curano». E poi Gheddafi vivo avrebbe avuto da raccontare molte cose.

Forse troppe...

Sì, ma piuttosto che ammazzarlo volontariamente adesso, sarebbe stato più semplice fargli bere una tazzina di caffé avvelenato in carcere.

Che cosa accadrà adesso in Libia?

Tutto il mosaico etnico che era stato tenuto assieme dal Raìs, adesso come si ricomporrà?

Nel migliore dei mondi, ora partirà un processo di riconciliazione. Le varie fazioni si riuniranno e decideranno di dare vita a un governo di unità nazionale.

Cosa mi fa essere ottimista? Ci sono un sacco di soldi in palio, qui nessuno vuole rompere il giocattolo o perdere queste risorse. E poi partirà il difficile processo di riconciliazione. Fino adesso, con Gheddafi vivo, era impossibile. Ora si metteranno d’accordo, vareranno un governo ad interim che nominerà un’assemblea costituente e piano piano si andrà avanti.

In questa delicatissima fase non ci sarà una notte dei lunghi coltelli? È già cominciata. Ci sono stati nei giorni scorsi molti omicidi.

Però spero di no perché il giocattolo è troppo importante, gli europei sono ancora lì e a meno che non ci sia un colpo di mano degli islamici che decidano di prendere il potere, cosa possibile ma al momento molto difficile, io penso che dopo questi primi, febbrili momenti, si incammineranno verso un accordo e un nuovo governo, perché quello che c’è da perdere è molto di più di quello che c’è da guadagnare.

E chi potrebbe guidare questo governo?

Jibril secondo me si tirerà indietro. I nomi che girano sono tanti. Ma più del “chi” guiderà il governo è importante l’equilibrio che si troverà al suo interno.

L’Italia che rapporti avrà con la nuova Libia?

Io non so se questo governo riuscirà a far cancellare la memoria del bacio a Gheddafi. Malgrado i proclami di Scaroni e Frattini, non sono molto ottimista.

Malgrado i proclami di Frattini e Scaroni, l’Italia non avrà vita facile.

Tutti i libici ricordano il bacio di Berlusconi al Colonnello

”

pagina 4 • 21 ottobre 2011

Nato in una tenda di pelli di capra da una coppia beduina, prese il potere nel 1969 con l’Operazione Gerusalemme heddafi è morto». Dopo una raffica di voci, precisazioni, smentite e una serie di foto col cadavere bene in vista, la conferma sulla sorte del Colonnello è arrivata direttamente dal Cnt, il Consiglio nazionale di transizione libico di Tripoli.

Secondo una prima ricostruzione, Muammar Gheddafi sarebbe stato catturato mentre stava fuggendo da Sirte, ultima roccaforte caduta nella mattinata di ieri nelle mani del Cnt dopo una battaglia di circa due mesi.

«G

Quando destituì Idris I, di anni ne doveva avere circa 27: la data di nascita esatta del Colonnello non si sa ma viene collocata attorno al 1942 E da Tripoli a Sirte, la notizia della fine del dittatore libico è stata salutata dai festeggiamenti dei ribelli: sventolio di bandiere, spari in aria e segni di vittoria. La parola fine alla vicenda di Muhammad Gheddafi come uomo e come leader politico è dunque arrivata. Il leader di una Rivoluzione, esautorato da una Rivoluzione dopo quasi 42 anni di potere e sei mesi di guerra civile. Il primo settembre del 1969 era, quando destituì il re Idris I in vacanza in Turchia per cure e lo annunciò alla popolazione parlando alla radio. “Operazione Gerusalemme” il nome di quel golpe. Fu Gheddafi a parlare alla radio, promettendo una società «in cui nessuno sarà

né padrone né servo». In quel momento grazie al petrolio la Libia ha già il reddito pro capite più alto dell’Africa, ma distribuito malissimo. La rivoluzione raddoppia i salari minimi e dimezza gli stipendi dei ministri, creando ospedali e ambulatori e promuovendo la partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle imprese.

Ma in quel momento Gheddafi è anche il primo antesignano di quella che sarà negli anni a venire l’agitazione integralista. Bandisce infatti l’alcool, chiude i casinò e i locali notturni, fa sparire i caratteri latini dalle insegne, fa vietare perfino l’insegnamento della lingue straniere nelle scuole. Fonte del diritto è proclamata la Sharia, anche se in seguito ci si renderà conto che il raís la interpreta a modo suo, escludendovi in particolare tutti quei “detti” attribuiti dalla tradizione al Profeta e che però non stanno nel corpus del Corano.

Chi allora faceva le elementari, oggi è un padre o madre di famiglia almeno cinquantenne. E la gran parte dei libici che hanno preso le armi contro di lui hanno trascorso l’intera loro vita sotto il suo regime.

Gheddafi quando prese il potere di anni ne doveva avere attorno ai 27: la data di nascita esatta non si sa, perché i suoi genitori erano due beduini analfabeti che lo fecero nascere in una tenda di pelli di capra nel deserto a venti chilometri da Sirte, e allora i nomadi si sottraevano all’obbligo della registrazione anagrafica. Ma viene collocata attorno al 1942: proprio quando in Libia infuriava la lotta tra Rommel e Montgomery. E ancora di più in un momento in cui la Libia era un campo di battaglia tra le forze dell’Asse e gli Alleati. Uno strascico di quella guerra Gheddafi lo dovette soffrire a sei anni, quando una

Vita, affari, crimini e misfatti di un raìs combattuto (e corteggiato) di Maurizio Stefanini mina italiana inesplosa scoppiò nel campo in cui stava giocando. Due suoi cugini morirono, e a lui rimase una lunga cicatrice sull’avambraccio sinistro.

Anche di lì deriva l’acerbo risentimento a lungo covato contro il nostro Paese.

Più tardi, tra i 4 e i 19 anni frequentò le scuole islamiche, prima a Sirte e poi a Sebha, capoluogo della regione desertica del Fezzan.

Era così povero che dormiva in moschea, per tornare con una camminata di 30 chilometri a dare una mano ai genitori nel week-end islamico, giovedì e venerdì. Una volta fu sospeso, per aver

invitato un’insegnante di madrelingua inglese ad andarsene dal Paese. Ma quando poi riuscì ad iscriversi all’Accademia militare di Bengasi proprio in Inghilterra fu mandato tra 1965 e 1966, a specializzarsi in trasmissioni.

C’è una doppia ironia, se si pensa al ruolo che Bengasi avrebbe avuto nell’insurrezione contro di lui, e alla sua lunga contrapposizione con gli anglo-sassoni culminata nella strage di Lockerbie. Ma le Trasmissioni gli furono utilissime per dargli il know-how in comunicazioni che gli permise di intessere la sua cospirazione, portarla al successo e prevalere poi tra gli altri cospiratori.

la fine di Gheddafi

Un’altra ironia della storia: Gheddafi ha cercato di evitare che l’Occidente appoggiasse la rivolta contro di lui spiegando che i suoi nemici erano agenti di al Qaeda, ma tecnicamente fu lui il primo antesignano dell’agitazione integralista degli anni a venire.

Proibì infatti l’alcool, chiuse i casinò e i locali notturni, fece sparire i caratteri latini dalle insegne, fece vietare l’insegnamento della lingue straniere nelle scuole, proclamò fonte del diritto la Sharia. Anche se in seguito ci si renderà conto che la interpretava a modo suo. Un consenso genuino, si disse, se lo procurò raddoppiando i salari minimi, creando ospedali e ambulatori e promuovendo la partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle imprese.

Anche se forse ora studi indipendenti permetteranno finalmente di discernere la verità dalla propaganda, in questo mito dell’adesione popolare.

Anche in campo internazionale Gheddafi parla di unità islamica, ma all’inizio è corteggiato da americani e italiani. Dai primi perché comunque il suo aggressivo anticomunismo frappone ostacoli oggettivi alla penetrazione dell’influenza sovietica in Africa e Medioriente. Dagli italiani, perché comunque il suo regime apre proficui spazi di affari e influenza alle imprese italiane, in contrapposizione alla posizione filo-inglese della monarchia.

Il feeling con l’Italia, attraverso i vari governi di vari colori, resterà quasi fino alla fine, malgrado l’espulsione dei nostri coloni. Ancora all’inizio della rivoluzione Berlusconi spiegherà che Gheddafi «non va disturbato», e solo quando si prospetta il rischio che l’appoggio franco-inglese ai ribelli scalzi le nostre posizioni ci decidiamo a cambiare Campo. Con gli Stati Uniti, invece, si precipita presto nella guerra fredda e addirittura calda. L’11 giugno del 1970 è a Tripoli il segretario di Stato Usa William Rogers, per trattare la richiesta di ritiro della base america-

na. Non però con il 28enne colonnello Muhammar Gheddafi, capo del golpe che il primo settembre 1969 ha destituito il re Idris I, che preferisce in principio restare fuori. Ma mentre i colloqui tirano per le lunghe e fuori dal palazzo la folla inveisce, a un certo punto irrompe nella sala: divisa kaki da combattimento, mano sul pistolone sfilato a metà della fondina.

Con un gesto che gli è ancora tipico quando discute, appoggia un piede sulla sedia mentre si tiene il mento con un palmo, e parla. «Rogers, io non so proprio che cosa lei stia cercando di trattare. Da questo momento lei ha tre ore di tempo per dirmi, con esattezza, quante settimane vi servono per sbaraccare e andarvene. Una settimana o due? Quanto? Naturalmente, ci pagherete l’affitto della terra dal ’54 a oggi, l’energia elettrica che avete consumato, l’acqua, le bollette del telefono, tutto per 16 anni. Intendiamoci: partono gli uomini, non le armi. Armi, aerei, carri armati, missili, apparecchiature se volete prenderli ce li pagate al prezzo di oggi e come se fossero nuovi di fabbrica. Qualcosa in contrario? Perché se c’è qualcosa in contrario lo dico al popolo, qui sotto, in piazza. E ci pensa il popolo a persuadervi».

Alla cacciata delle basi statunitensi seguono l’alleanza di Gheddafi con l’Urss negli anni Settanta, e poi negli anni Ottanta gli scontri aero-navali nella Sirte, cui Gheddafi risponde con la campagna terrorista culminata nell’attentato di Lockerbie del 1988 (270 morti, tra cui 200 americani). Sempre nel 1988 agenti libici compiono attentati a librerie Usa in Colombia, Perù e Costa Rica. Mentre l’anno successivo vengono presi a Chicago agenti libici che si preparano a colpire aerei con missili.

E azioni terroriste Gheddafi le organizza anche contro la Francia (nel 1989 c’è un attentato a un aereo francese in volo sul Niger per cui nel 1999 un tribunale francese condannerà sei libici), con cui ha combattuto una guerra per interposta persona in Ciad, un vero e proprio Vietnam libico tra 1980 e il1987 in cui un corpo di spedizione mandato in appoggio ai seguaci di Goukouni Oueddei in rivolta contro il regime filo-francese di Hissène Habré.

Sempre in quegli anni, Gheddafi aiuta vari gruppi terroristi. Ma la fine della Guerra Fredda, permette al raìs di riposizionarsi. Il rapporto degli americani con Gheddafi è speculare a quello di Gheddafi con gli italiani: un’ossessione che diventa quasi odio-amore. Gli italiani, in particolare, dopo averli cacciati come coloni il raís li richiamerà subito come tecnici e imprenditori, mantenendo il nostro Paese come suo primo partner commerciale.

Già nel 1972 l’Eni dà vita a una società mista col governo libico, la nostra tecnologia fornisce alla Libia non solo impianti petrolchimici, ingegneria del territorio e macchinari ma perfino armamenti, nel 1976 Gheddafi acquista il 10 per cento delle azioni Fiat, dando alla società torinese una straordinaria iniezione di fiducia e capitali in un momento difficile, e già nel 1978 si è ricostituita una comunità di 16.000 italiani che è tornata a essere la seconda del Continente dopo quella sudafricana.

Il 1978 è anche l’anno in cui va a Tripoli il presidente del Consiglio Andreotti, proprio con il fine dichiarato di convincere Gheddafi sulla bontà degli Accordi di Camp David.

Da ragazzo studiava a Sebha, ed era così povero da dormire in moschea. Tornava dai genitori nel week-end islamico percorrendo 30 km a piedi Anche gli americani all’inizio hanno continuato a puntare sulla Libia, perfino dopo la sommossa contro Rogers.

Per la mentalità dell’amministrazione Nixon in fondo un regime musulmano è comunque anticomunista, Gheddafi non manca di fare dichiarazione antisovietiche, specie in occasione di quella guerra indo-pakistana del 1971 in cui Mosca ha preso le parti di New Delhi contro il Paese islamico, e all’indomani del trattato tra Mosca e Bagdad del 1972.

Inoltre Gheddafi appoggia l’espulsione dei consiglieri sovietici decisa dal presidente egiziano Sadat in quello stesso 1972, e ancora nel novembre di

Nella pagina a fianco, dall’alto: 27 settembre 1969, un giovanissimo colonnello Gheddafi arringa la folla di Tripoli pochi giorni dopo il colpo di stato militare.

Gheddafi regala a Silvio Berlusconi l’ultimo fucile italiano in terra libica durante l’incontro del febbraio 2006.

Con Leonid Breznev a Mosca nell’aprile 1981.

Durante la celeberrima intervista a Oriana Fallaci del 2 dicembre 1979. Con Yasser Arafat.

Ottobre 2004: Nelson Mandela con il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Con Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri. Abbraccio con il presidente boliviano Evo Morales. Con Romano Prodi, presidente della Commissione Europea nel 2004

21 ottobre 2011 • pagina 5

quell’anno un editoriale dell’Observer definisce Gheddafi «il più grande flagello del comunismo internazionale dopo Foster Dulles». Poi i rapporti peggiorano. Lui non è comunista, ma nel frattempo predica una confusa terza via basata sul suo Libretto Verde, con un modello di democrazia assembleare e economia partecipata.

Dice dunque che è la sua l’unica alternativa al fallimento di comunismo e capitalismo, e spiega all’Occidente che è anche l’unico argine al contagio islamista. Finito sotto embargo internazionale per la sopra citata strage di Lockerbie, nel 1999 Gheddafi accetta infine di consegnare i due libici indicati come responsabili, e nel 2004 è riammesso nella comunità internazionale, dopo un’opera di mediazione in cui sono stati appunto parte importante i governi italiani sia di centro-sinistra che di centro-destra. Insomma, nell’anno 2010 Gheddafi è stato pienamente reinserito nel salotto buono della comunità internazionale. Il Regno Unito, addirittura, gli restituisce «per ragioni umanitarie» il responsabile di Lockerbie che detiene, e che è gravemente malato: un cinico scambio compensato con importanti concessioni petrolifere. Ma né gli Occidentali, né lo stesso Gheddafi avevano previsto la forza di contagio della Primavera Araba. Oltretutto, la sempre maggior invadenza dei suoi figli lascia intendere che il suo interminabile regime potrebbe addirittura sopravvivere alla sua morte, in un modo che forse altera gli equilibri tribali e di clan su cui si basa il suo potere.

Come spesso accade nelle rivoluzioni, è anche possibile che sia stato un certo successo del suo stesso modello a scavargli la fossa.

Un po’ come i rivoluzionari francesi di Tocqueville che rimproveravano a Luigi XVI di non aver portato fino in fondo le premesse centralizzatrici della monarchia borbonica, un po’ come i rivoluzionari ungheresi di Montanelli volevano costruire sul serio i soviet predicati dalla propaganda comunista, ci sarebbe forse da osservare che i ribelli libici hanno seguito un modello di auto-organizzazione per comitati che assomiglia in modo impressionante alla teoria che Gheddafi aveva predicato.

pagina 6 • 21 ottobre 2011

la fine di Gheddafi

La fine del Colonnello apre a una serie di incognite forse disastrose. Un’anticipazione dal numero di Risk da lunedì in edicola

Non sarà una Buena Sirte

Carlo Jean non festeggia, e in questo articolo spiega perché: una cosa sono le rivoluzioni, un’altra le rivolte.

In Libia se ne è verificata una che non promette nulla di buono e svela scenari prima impensabili agli islamisti di Carlo Jean ondata di proteste, dimostrazioni e rivolte, che hanno interessato ben 19 dei 22 Stati della Lega Araba, più che modificare, sta sgretolando i precedenti equilibri interni e regionali. Rispetto all’ottimistico termine “primavera”, mi sembra più realistico quello più sobrio di “risveglio”. Popolazioni abuliche e fataliste, tenute sotto un brutale controllo dalle forze di sicurezza di regimi autoritari o teocratici, si sono fatte sentire. È la prima volta che moti popolari hanno cacciato dittatori al potere da decenni. Il “risveglio” ha influito non solo all’interno dei singoli Stati e della regione nel suo insieme, ma anche sui rapporti transatlantici, su quelli all’interno dell’Ue e su quelli mondiali. Ma una cosa sono le rivolte. Tutt’altra le rivoluzioni.

Quest’ultime richiedono una completa sostituzione delle classi dirigenti ed un cambiamento delle elite dirigenti e del controllo politico, economico e sociale. Nel mondo arabo non è avvenuto. Se dovesse verificar-

L’

si, il potere verrebbe preso dagli islamisti, facenti parte della disomogenea galassia della Fratellanza Musulmana. Le rivolte sono state acefale. Non sono state preorganizzate da gruppi aventi interessi politici ben precisi, se non quello di cacciare il dittatore. È però pura fantasia che possano essere state del tutto spontanee. Non credo allo spontaneismo in politica e neppure in economia.

Nel mondo esistono sempre burattinai e burattini. Il ruolo giocato dal Qatar, tramite al-Jazeera e le sue ricchezze, non è stato improvvisato. Corrispondeva a ben precisi interessi dell’Emirato, tanto dipendente dagli Usa. Se e con quali obiettivi essi abbiano sostenuto le componenti islamiste delle rivolte resta alquanto misterioso. Improvvisato, non può esserlo stato neppure l’assalto improvviso e ben organizzato ai depositi di armi in Cirenaica.

L’organizzazione del “risveglio arabo” è stata trasversale, sostanzialmente priva di una gui-

da politica precisa e legittimata, eccetto nei paesi, come l’Egitto e la Tunisia, in cui le Forze Arate hanno mantenuto la loro unità e la loro fisionomia di corpo al servizio dello Stato, non del governo, cioè del dittatore di turno. In tali casi, esse sono divenute arbitre della fase di transizione, mantenendo un atteggiamento formalmente neutrale rispetto alle rissose fazioni politiche sorte dai movimenti di piazza. La loro conflittualità è elevata. Tutte cercano di occupare la maggior parte possibile di potere e di ricchezza. Benin-

complessa in Libia, ma è rilevabile anche in Egitto, in Tunisia e nella stessa Algeria. In tutti questi paesi si registra una convergenza fra i militari ed i Fratelli Musulmani. Per ora gli interessi comuni ad entrambi sono superiori alle loro divergenze. In seguito si vedrà. Potrebbero divergere e dar luogo a scontri anche feroci. Nei suoi oltre quarant’anni di potere, Gheddafi aveva distrutto le istituzioni pubbliche, sostituendole con una bizzarra forma di democrazia diretta, basata sui comitati rivoluzionari e sugli ac-

I moti popolari non sono stati preorganizzati da gruppi aventi interessi politici ben precisi, se non quello di cacciare il dittatore. È però fantasia pensare che siano state del tutto spontanee teso, la neutralità dell’Esercito ha un limite: vale finchè non vengono posti in discussione la sua unità, privilegi ed autonomia dalle autorità civili. La situazione è particolarmente

cordi con le tribù. Che i vincitori dell’insurrezione, profondamente divisi fra di loro, possano stabilizzare la situazione è un atto di fede nella potenza di Allah. La transizione è resa ovun-

que difficile dal fatto che la fratellanza Musulmana è divisa al suo interno da contrasti non solo di personalità, ma anche di strategia e di obiettivi.

Non per nulla, in Egitto, suo centro ideologico ed organizzativo, ha ritardato a lungo la decisione di costituire un partito politico, per timore di dividersi, e forse anche di avere troppo successo, provocando una reazione dei militari, come quella avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso in Algeria.

L’assenza in Libia di un Esercito nazionale, ma solo di milizie tribali e locali, permette però agli islamisti di agire con maggiore disinvoltura, poiché non devono temere una repressione militare. Il “risveglio” presenta caratteristiche differenti fra paese e paese. Con una semplificazione che certamente non rende giustizia alla ricca complessità del reale, si possono comunque raggruppare in varie categorie le forme che ha assunto nei vari paesi. Si sono registrate grosse differenza fra gli

21 ottobre 2011 • pagina 7

Nella pagina a fianco: i ribelli festeggiano a Sirte, uno dei terminali di arrivo del Grande fiume artificiale, gigantesco acquedotto che convoglia le acque fossili del deserto del Sahara. Un acquedotto che è stato per anni uno dei simboli del dittatore. Gheddafi è nato qui. In basso, Rasmussen

Stati dinastici e quelli autoritari (di fatto, divenuti quasi monarchie o dittature ereditarie); fra gli Stati-nazione e quelli premoderni, senza solide istituzioni centrali, ma costituite da tribù; tra i ricchi produttori di petrolio e i cosiddetti “deserti minerari”; fra gli Stati in cui esistono consistenti minoranze, escluse dal potere e dalla ricchezza (come le popolazioni berbere rispetto a quelle arabe o come i Tuareg del Sahara, che sembrano essere stati reclutati massicciamente da Gheddafi), e quelli monoetnici e monoculturali; tra gli Stati sunniti e quelli con forti minoranze sciite; e così via.

Ma gli Stati del “risveglio” e le modalità con cui si sono verificate le rivolte presentano numerosi aspetti comuni: la crescita demografica; l’alta percentuale di giovani; l’accresciuto accesso all’informazione (specie alla rete di al-Jazeera che, dal Qatar, ha sostenuto i movimenti islamisti che hanno partecipato alle sommosse destando il sospetto che seguisse una politica preordinata, sostenuta anche dagli Usa); la cospicua disoccupazione specie giovanile; la brillante crescita economica, verificatasi negli ultimi anni anche in Stati, come la Tunisia e l’Egitto, la cui economia non dipende dalle ricchezze petrolifere; la pervasiva influenza e il prestigio guadagnato dalla Fratellanza Musulmana, diffusa in tutto il mondo arabo; le sue divisioni e la segretezza che circonda le sue prese di decisione.

Il “risveglio” presenta poi, a fattor comune, il fatto di non essere – almeno per il momento né anti-americano né, entro certi limiti, anti-israeliano, ma di essere post-americano, postislamista e post-nazionalista, diretto cioè contro le classi politiche, militari ed economiche che erano state a capo della decolonizzazione e fautrici dell’unità araba. Anche al-Qaeda è stata colta di sorpresa. I valori di base che hanno mobilitato i giovani nelle “eroiche” fasi iniziali delle rivolte sono nazionali, non ecumenici. Nessuno ha parlato di Islam, di Califfato o dell’unità dell’Ummah, ma di dignità, giustizia, libertà e sicurezza sociale. Si è inneggiato molto anche alla democrazia, intendendola qualcosa di diverso da come la concepiamo in Occidente. Nell’Islam, la “legge di Dio”è superiore a quella degli uomini. Inoltre, molti più forti sono i legami tribali, etnici e familiari. La fedeltà verticale al clan d’appartenenza fa premio su quella allo Stato. I rapporti amche politici sono di appartenenza non di interessi. Per inciso, è un fenomeno che si registra anche in parte dell’Italia.

La maggior parte degli impieghi, come dimostra un recente sondaggio Arel, è trovato tramite “conoscenze”, non attraverso i servizi pubblici ed i centri pri-

Esiste la possibilità che si determini uno scenario di tipo iracheno. Esso preoccupa tutti, specie i partecipanti alla Kermesse degli Amici della Libia, avvenuta prima a Parigi e poi a New York vati del lavoro. Il “risveglio” è stato poi influenzato dal contrasto fra l’Iran e l’Arabia Saudita e dalla crescita del “neo-ottomanismo” turco, cioè dell’influenza economica ed etico-politica della Turchia. La Tur-

chia di Erdogan si è proposta come modello per le riforme istituzionali da adottare a seguito del collasso dei vecchi regimi o per evitare nuove rivolte.

Secondo gran parte dell’Occiente, “l’Islamismo secolare turco” costituirebbe un riferimento per l’assestamento istituzionale dell’intera regione. Lo sarebbe con riforme sia “dal basso” – negli Stati “risvegliati” – sia “dall’alto”, anche di quelli che fanno parte della “Sacra Alleanza” conservatrice a guida saudita, che si sforza di mantenere lo status quo, limitandosi a qualche riforma cosmetica, quale il voto alle donne nei maijlis comunali, deciso dal re

Abdullah e che tanto entusiasmo ha suscitato negli ingenui occidentali. L’Arabia Saudita considera un tradimento il comportamento del presidente Obama nei confronti degli alleati più fedeli degli Usa, in particolare dell’egiziano Mubarak. Offende il senso dell’onore e dell’amicizia, tanto forti nel mondo islamico. Per inciso, l’Italia non è stata da meno, rinnegando con giustificazioni alquanto “traballanti”e tesi bizzarre (è un eufemismo), la validità del trattato di amicizia con la Libia di Gheddafi. Si sta manifestando in molti paesi un fenomeno inquietante: la convergenza dei militari con gli islamisti. Il modello che sembra affermarsi non è quello turco, ma quello pakistano, attuato soprattutto ai tempi della presidenza del generale Zia. I militari non si sentono sufficientemente forti per mantenere il controllo delle proteste e rivolte. Si associano quindi con gli islamisti, che per le loro attività educative e sociali godono di elevato consenso popolare.

Il “risveglio” non è stato influenzato né da al-Qaeda né dall’Agenda for Democratization di Bush. Ha colto tutti di sorpresa, non tanto perché si sia verificato, quanto per la rapidità con cui il suo contagio si è diffuso e per l’imprevedibilità del suo successo. Determinante sugli esiti delle rivolte è stato il comportamento delle Forze armate e di polizia. In taluni paesi, come nella penisola arabica ed in Siria (almeno per ora), esse non si sono divise in fazioni contrapposte, ma sono rimaste fedeli ai regimi ed hanno represso le rivolte. In altri, come in Tunisia ed in Egitto, hanno mantenuto la loro unità, ma sono rimaste neutrali, permettendo la cacciata dei dittatori - o assumendone anche l’iniziativa - ma salvaguardando i regimi ed i loro privilegi, impedendo che le rivolte si trasformassero in rivoluzioni; in altri infine – come in Libia e nello Yemen - si sono divise: ne sono derivate guerre civili, dagli esiti finali sempre imprevedibili, data la possibilità che la vittoria di una fazione sia seguita da una guerriglia di lunga durata da parte di quella soccombente. Esiste cioè in essi la possibilità che si determini uno scenario di tipo iracheno. Esso preoccupa tutti, specie i partecipanti alla Kermesse degli Amici della Libia, avvenuta prima a Parigi il primo settembre e poi a New York all’Onu.

i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

“AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l.

Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni.

Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

il paginone

pagina 8 • 21 ottobre 2011

n temporale Federico, è solo un non temporale, devi farti impressionare da qualche tuono e un po’ di fulmini». Federico è mio figlio, ha due anni e mezzo, e guarda fuori dalla finestra preoccupato dall’intensità della pioggia e dal volume di lampi e boati che vengono dal cielo.

Non è persuaso delle mie rassicurazioni. Scettico continua a guardare fuori dalla finestra, inquieto anche del fatto che è proprio buio. È vero piove molto, il cielo è ancora scuro ma dopotutto è un temporale mica l’apocalisse. I bambini, diceva Hegel, sono dei prelogici impressionati dall’immanenza del dato immediato.

«U

Sono le otto del mattino, c’è il tempo per la colazione prima di fare il percorso che la famiglia – con rodata meccanica da travet - ripete ogni giorno feriale: auto guidata dalla mamma fino all’asilo nido dove scende Federico, poi fino alla metro, dove scende il papà per andare al lavoro, quindi, terzo tratto, la mamma prosegue fino a casa chiudendo il cerchio. È un meccanismo che funziona come i dolci alla ricotta e cacao dei film di Moretti. Sono pochi chilometri, ma alle nove del mattino per fare pochi chilometri a Roma, e in particolare sull’Appia, va considerato un tempo importante: diciamo che la media è di una trentina di minuti scarsi. Stamattina però il traffico è più intenso del solito e c’è un volume maggiore di sirene a tagliare l’aria. Sfrecciano almeno tre ambulanze e due auto dei vigili del fuoco. Il giovane Federico non smette di scrutare preoccupato il cielo e il traffico.

Continuo a rassicurarlo: «Non si deve avere paura del temporale, hai l’impermeabile rosso col cappuccio, le galosce blu, vedrai gli dico che non prendi nemmeno una goccia d’acqua». È quando scendo dall’auto per

Storia d’una giornata d’ordinara follia nella Capitale. Dove basta una notte di cat

Il Paese dove si mu Una vittima, un disperso, traffico impazzito e metro allagate. A Roma ci vuole poco a scatenare un cataclisma.

E Alemanno se la prende con il meteo... di Riccardo Paradisi prenderlo dal sedile posteriore e la mia gamba affonda in quasi mezzo metro di pozzanghera che comincio anch’io ad avere qualche strana sensazione.

Non ci bado troppo, il tempo stringe. C’è da assicurare il piccolo alle cure delle maestre dell’asilo e proseguire il percorso.

«Buongiorno – ci dice una di loro – brutta notizia stamattina: l’asilo è chiuso». Mia moglie si incurva in avanti come per un colpo ricevuto. Chiediamo il

pieri e il buco nel tetto. La giornata sta diventando complicata, l’umore nero. Per un travet con tempi compartimentati inconvenienti di questo tipo vengono registrati come attentati a un ritualismo ormai rodato. Si diventa persino superstiziosi: ”Chissà cos’altro potrà capitare ora”. E si diventa irritabili. Anche verso il bambino. Disturba la sua percezione solo estetica del mondo, la sua sovrana insensibilità sociale. Si risale in

All’Infernetto è annegato un uomo, Napolitano non riesce a prendere l’aereo per Pisa, il sindaco chiede lo stato di calamità e dichiara che questo nubifragio è stato come un terremoto motivo. «L’asilo è allagato, il tetto non ha retto». L’eroica resistenza delle maestre, che stanno lavorando da un mese senza stipendio e sono a corto di materiale primario, non può arrivare a rimediare i cedimenti strutturali. «Abbiamo chiamato i vigili del fuoco che stanno arrivando». Federico vorrebbe vedere l’arrivo dell’auto dei pom-

macchina mentre la mamma ricalcola la giornata come un gps: appuntamenti di lavoro, commissioni, spesa; tutto è destinato a saltare o a essere fatto in modo diverso, possibile anche ricorso alla baby sitter.

Questa sarà una giornata destinata a costare anche in termini economici. E c’è la crisi, si eviterebbe volentieri…È su questa

linea di pensieri che s’arriva alla fermata della metro. Il papà saluta mamma e bambino, scende le scale per raggiungere banchina e treno.

Ma i cancelli della metro sono chiusi. “Fuori servizo” recita un cartello, è tutto allagato. Risali di corsa e insegui l’auto di tua moglie, ce la fai ad essere avvistato e risali a bordo.

L’obiettivo è la prossima fermata della linea A: Ponte lungo, poco prima di San Giovanni.

Una manciata di chilometri, ma il traffico non scorre d’un palmo: s’è formata una colonna compatta e immobile d’automobili, nemmeno gli scooter riescono a farsi largo, c’è un ambulanza ferma nella corsia opposta con la sirena spiegata mentre un auto dei vigili del fuoco cerca di farsi largo nella nostra. Il bambino è in uno stato di trance, eccitatissimo. Dopo quaranta minuti di immobilità nel traffico si libera dal sedile posteriore e si tuffa davanti cercando d’aprire lo sportello dell’auto. È necessario ricorrere ad ogni diversivo per cal-

marlo promettendo - in giocattoli e concessioni - il corrispettivo dei milioni di posti di lavoro garantiti dal premier nella campagna elettorale del 2006. Intanto dal radiogiornale arrivano notizie che suonano come l’invasione degli alieni annunciata da Orson Wells ai microfoni della Cbs il 30 ottobre del 1938. Sembra che all’Infer-

Parla Giuseppe Romano, dirigente dei Vigili del Fuoco: «È ora di pensare alla prevenzione»

«Ai temporali si può rispondere» Francesco Lo Dico

ROMA. Una capitale messa in ginocchio da un nubifragio. Stazioni metro allagate, vie cittadine come la Tiburtina trasformate in enormi fiumane degne di Apocalypse now. C’è scappato persino il morto. «In un tessuto urbano segnato dal tempo come quello della Capitale», spiega a liberal Giuseppe Romano, dirigente nazionale del Corpo dei Vigili del Fuoco di stanza all’Aquila dallo scorso luglio, «piogge molto concentrate possono arrecare questo tipo di danni, ma in chiave di prevenzione e limitazione dei disagi, è chiaro che molto può essere detto e fatto». Ma è accettabile che Roma soc-

comba per un giorno intero a causa della pioggia? «Negli ultimi anni il clima italiano si è prestato a una progressiva tropicalizzazione che ha reso pos-

“

Paese. Sono state concepite molti anni fa e in questo senso risultano ormai datate perché non sono state progettate per sopperire a eventi naturali parti-

Le infrastrutture del Paese sono state concepite molti anni fa e risultano ormai datate, perché non sono state progettate per sopperire a eventi naturali particolarmente violenti sibili piogge più intense ed estati particolarmente afose. Questo tipo di evoluzione climatica ha naturalmente messo in crisi le infrastrutture del nostro

”

colarmente violenti come l’ultimo nubifragio che ha colpito Roma». Ma questo vuol dire dunque che dobbiamo tenercele così come sono? «È chiaro -

spiega Romano - che molto può essere fatto e che si potrebbe provvedere a sanare innanzitutto le zone maggiormente a rischio: intervenire sulla viabilità laddove risulti problematica, regolarizzare il manto stradale, revisionare l’impianto fognario che specie a Roma risente particolarmente, per via dell’antica data di costruzione, di fenomeni piovosi ingenti». L’adeguamento della Capitale a fenomeni naturali così disastrosi è senz’altro la prima rifles-

il paginone

ttivo tempo per mandare in tilt l’intera città e i suoi abitanti

uore di pioggia

21 ottobre 2011 • pagina 9

del bambino come di un essere perverso polimorfo. E per questo s’è attirato addosso molte accuse di vario livello. Non tutte fondate.

Il tempo passa l’acqua rifluisce.

Sembra che la successiva fermata della metro sia agibile.

Cancelli aperti, stazione aperta.

Saluto dalla strada la famiglia e mi incuneo. Vedo volti come di sopravvissuti, felici di aver raggiunto una fermata. L’arrivo del treno è accolto come un evento salvifico, epocale. Manca poco che non scatti l’applauso. Un ragazzo inglese mi chiede cosa stia succedendo, perché non funziona niente. Allargo le braccia e non rispondo. Non vorrei essere accusato dalle truppe capitoline d’intelligenza con un’agente della perfida Albione in vena di provocazioni.

Arrivo al giornale con due ore di ritardo. Non sono il solo. Saranno almeno un milione di romani ad aver vissuto la mia mediocre odissea. In successione arrivano altre notizie: pare che oltre al morto dell’Infernetto vi sia un disperso e sembra che Alemanno sia apparso davanti alle telecamere con la tuta della protezione civile accusando i metereologi di non aver previsto il nubifragio: «Hanno parlato solo di forti temporali» dice.

Era dai tempi del colonnello Bernacca che sulla categoria

che a capriccio determinava il tempo e la fortuna dei campi.

Ma se anche i metereologi l’avessero previsto il nubifragio non sarebbe cambiato granché.

Roma ha un milione di caditorie intasate dalla caduta delle foglie; che faceva l’amministrazione le ripuliva in una notte?

Peraltro il 22 novembre 2010 per un forte temporale correttamente previsto molte stazioni metro della linea B risultano allagate e così lo scorso 19 settembre quando a subire l’inondazione e ad andare in tilt è il largo tratto della linea A della metropolitana da San Giovanni fino a Colli Albani: inagibile.

Insomma a Roma pare che basti poco per andare in emergenza. Ma queste sono chiacchiere.

La verità è che aveva ragione il buon Federico a preoccuparsi per il temporale, pardon, del nubifragio. Giambattista Vico diceva che gli antichi, quando sentivano rombare il tuono, esclamavano, prede di meraviglia e terrore: “È Giove”. Noi moderni pensiamo all’elettricità ma, obiettava Vico, non è detto che abbiamo guadagnato qualcosa in conoscenza effettiva rispetto ai più ingenui nostri antenati. Anche Vico aveva ragione. E così la prossima volta che mio figlio guarderà preoccupato il cielo in tempesta so-

Roma ha circa un milione di caditorie intasate dalle foglie e dalla spazzatura. Se anche fosse stato previsto il nubifragio l’amministrazione non avrebbe potuto pulirle in una notte netto sia annegato un uomo in un seminterrato, che il presidente Napolitano non riesca a prendere l’aereo per la sua visita istituzionale a Pisa, che il sindaco di Roma Alemanno abbia detto che questo nubifragio è stato per la capitale come un terremoto. Borges in fondo ci aveva avvertito che la realtà appartiene al genere fantastico.

Del resto non gli hanno forse negato il Nobel?

Scendo a un’altra fermata della metro ma la scena è come quella precedente: cartello ”Fuori servizio”, stazione allagata. Risalgo di corsa e corro verso l’auto. Sotto la pioggia. Mio figlio ride, evidentemente crede si tratti d’un gioco rappresentato in grande stile e con ampio

schieramento di mezzi: papà scende dall’auto, apre il suo ombrello tascabile e inutile, percorre qualche decina di metri con le gambe nell’acqua, entra in un buco nella strada e poi risale per rientrare in macchina con limpermeabile inzuppato, soffocando maledizioni e bestemmie. È una cosa che lo diverte molto. Freud ha parlato

sione di buon senso che viene in mente. Non fosse che il sindaco Alemanno ha detto che i lavori costerebbero moltissimo... «Bisogna ammettere che non esistono interventi a costo zero. Non si può fare quindi molto altro che tamponare le falle provocate di volta in volta dalle varie emergenze. Interventi infrastrutturali seri, operazioni di messa in sicurezza di spessore credo siano per il momento fuori portata, rispetto alla situazione del Paese».

Niente soldi per la sicurezza delle nostre strade, d’accordo. Ma è possibile che non si possa fare un’opera di prevenzione migliore di quella che c’è stata, o meglio non c’è stata, nella Capitale? «Non sono in grado di valutare l’efficacia della risposta al nubifragio né l’efficacia della prevenzione di quest’ultimo episodio in quanto non ho avuto parte diretta nelle cose. Posso dire però che in genere i radar meteorologici consentono di prevedere con un

dei metereologi non piovevano queste maledizioni. Ce l’avevano con lui i villeggianti delusi da una cattiva previsione per il week end e soprattutto i contadini che lo esecravano perché non mandava la pioggia o il sole a seconda delle necessità di raccolto.Visto insomma ora come un menagramo ora come una specie di demiurgo cinico

buon anticipo la quantità d’acqua che potrà riversarsi in un determinato posto. Pressappoco, si parla di circa sessanta minuti di anticipo, che possono risultare molto preziosi nell’affrontare i disagi nelle zone a rischio». E che cosa, chiediamo, può essere fatto con un minimo di preparazione?

Scene di Roma allagata. Un auto sommersa e la metro chiusa. A fianco il comandante dei vigili del fuoco Giuseppe Romano

«È possibile predisporre innanzitutto opportune segnaletiche sulle vie d’afflusso alla città. Indicare per tempo agli automobilisti l’arrivo di un violento nubifragio significa scremare gli arrivi nelle arterie cittadini, e distribuire l’accesso alle stesse attraverso percorsi alternativi. Le auto instradate su piste precise consentono di limitare il tilt del traffico, e attenuano lo stato ansiogeno di chi guida riducendo il rischio di panico e di manovre azzardate figlie della confusione. E poi sarebbe ora di attivare un servizio di allerta via Sms. Costerebbe qualcosa, ma risulterebbe davvero utile». Nel mo-

pra Roma non tenterò più di rassicurarlo con il sussiego dell’adulto tecnologico che guarda il mondo dall’alto dei suoi sei secoli di razionalismo. Un temporale, a Roma, non è solo un temporale: è un terremoto, una calamità naturale, un cataclisma sociale. Per non dire che Bernacca su dal cielo deve ora disporre di mezzi eccezionali.

mento apicale del nubifragio, sono arrivate ai vigili del fuoco più di duemila chiamate. Ma sono abbastanza le unità di soccorso, rispetto ai numeri colossali della città?

«Questo delle telefonate è un punto nevralgico, sul quale l’Italia rimane molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. L’Europa ha da tempo stabilito che in ciascuna nazione debba vigere un numero di soccorso unico per il semplice principio che una persona in difficoltà, non deve trovarsi nell’ulteriore disagio di ricordare quale numero telefonico digitare. Abbiamo il 112, il 113, il 115, il 118: sono davvero troppi numeri per un individuo che si trova presumibilmente in una condizione di emergenza. Occorrerebbe quindi attivare un numero unico, capace di smistare le telefonate al tipo di soccorso richiesto. Questo non costerebbe davvero. Ma non è stato ancora fatto e l’Europa continua a tirarci le orecchie».

economia

pagina 10 • 21 ottobre 2011

I mercati continuano a penalizzare Piazza Affari. Lo spread tra Btp e Bund supera la soglia psicologica di 400 punti

Ha vinto Bankitalia Ignazio Visco sostituirà Mario Draghi, ma la maggioranza ha gestito male la vicenda di Francesco Pacifico

ROMA. Un terzo incomodo che rassicura l’istituzione, piace ai mercati e soprattutto è l’uomo giusto al posto giusto, perché è nato e cresciuto a via Nazionale.

Ignazio Visco è il nuovo governatore di Bankitalia, sostituisce Mario Draghi volato alla Bce. Ha avuto la meglio su Fabrizio Saccomanni e quel Lorenzo Bini Smaghi, che ha aveva soltanto le pressioni dei francesi per avere il posto che ricopre nel board della Bce e un mezzo avallo di Tremonti, che si è trovato senza candidato. Quella di Visco è vista co-

le di Umberto Bossi pronunciate ai giornalisti alla fine del vertice tenutosi a Palazzo Chigi: «Anna Maria Tarantola nuovo governatore? No, sono cazzate». Al di là del gergo, non è certo il modo giusto con il quale un ministro della Repubblica può trattare il responsabile del settore vigilanza di via Nazionale.

A sintetizzare bene la situazione ci pensa Pier Luigi Bersani. Il leader del Pd, oltre a smentire che l’opposizione è stata coinvolta nella nomina, ha parlato di «una vicenda veramente indeco-

Il nuovo numero 1 di via Nazionale è nato e cresciuto nell’istituzione, ma il Consiglio superiore fa sapere: valuteremo con rigore indipendenza, autorevolezza e autonomia me una vittoria sia da Silvio Berlusconi sia dall’intero Pdl. Il premier invierà oggi inviato la lettera al Consiglio Superiore con l’indicazione del prescelto. Ma questo non basterà a placare le ire dell’organo.

Rompendo l’usuale riserbo, ha diffuso una nota, nella quale si dice che la gestione di questa partita «non è stata piacevole: in genere queste decisioni si prendono rapidamente per evitare la ridda di voci». Dal Consiglio si esprime «preoccupazione per come si sono svolte le cose». Si aggiunge che «indipendenza, autorevolezza e autonomia sono i tre elementi che valuteremo. E lo faremo con grande rigore».

A far considerare colma la misura sono state, soprattutto le paro-

rosa che ci indebolisce agli occhi europei e agli occhi del mondo».

Una vicenda da quale il premier in ogni caso esce distrutto, perché resta ingestibile: così come la tensione nella maggioranza si avvicina al punto di ebollizione, così a livello internazionale crolla la fiducia degli investitori verso il Belpaese.

Complici l’ennesimo tentativo della Germania di ritardare il salvataggio della Grecia e l’ampliamento della dotazione del fondo Salva Stati e le voci (poi smentite) su un rinvio al Consiglio d’Europa di domenica, ieri lo spread tra il nostro Btp e i Bund tedeschi hanno superato quota 400 punti base. Quella che, secondo gli esperti, segna un livello di servizio al debito insostenibile rispetto alla crescita ita-

liana: non che il Belpaese rischi l’insolvibilità, però per pagare le cedole ai suoi sottoscrittori non avrà più risorse disponibili da investire nella ricerca o per aiutare le imprese e le famiglie.

Una situazione che si è trasferita in tutta la sua drammaticità sui mercati. Con gli operatori hanno alleggerito le loro esposizioni sui principali titoli bancari, a Milano – maglia nera d’Europa – il Ftse Mib è crollato del 3,78 per cento.

Performance negative anche a Francoforte e Parigi (-2,5 per entrambe) e Londra (-1,2).

Il bollettino di guerra di ieri dice che soltanto nella seduta ieri gli indici del Vecchio Continente (1,54 per cento per lo Stoxx 600) hanno bruciato quanto servirebbe per salvare la Grecia: 97 miliardi di euro, dei quali 11,3 miliardi soltanto a Piazza di capitalizzazione.

A stare a sentire quelli del cerchio magico del premier, Berlusconi rinvierebbe all’infinito una decisione. È convinto che continuare a essere il king maker sui principali snodi economici del Paese (la scelta del nuovo governatore come le misure da inserire nel decreto Sviluppo) sia il migliore scudo difensivo alle inchieste aperte contro di lui su tutto il territorio nazionale. Per non parlare della moral suasion su parti della sua maggioranza e sul Quirinale per fare accettare la riforma delle intercettazioni.

Ma a rompere le uova del paniere ci ha pensato Nicolas Sarkozy, pronto a denunciare al prossimo Consiglio d’Europa le indecisioni dell’alleato italiano e a svelare ai grandi del Vecchio

I big del Partito scrivono dal Foglio a Berlusconi

Il Pdl: «Muoviamoci» ROMA. Nonostante sia stata proprio la loro maggioranza a non riuscire ad approntarlo, il decreto sviluppo «non è più rinviabile». Insomma, «è opportuno che trovi le coperture finanziarie per rilanciare l’economia italiana». E ancora: «Non si possono ignorare le firme dei cittadini contro il “Porcellum”». Insomma «non c’è più tempo da perdere: governo e Pdl hanno il dovere di rischiare». Con queste parole Gianni Alemanno, Andrea Augello, Renato Brunetta, Mara Carfagna, Fabrizio Cicchitto, Guido Crosetto, Franco Frattini, Roberto Formigoni, Giancarlo Galan, Maurizio Gasparri, Maurizio Lupi, Alfredo Mantovano, Giorgia Meloni, Stefania Prestigiacomo, Gaetano Quagliariello aderiscono all’appello del di-

rettore del Foglio, Giuliano Ferrara, al premier Silvio Berlusconi. «Pensiamo - affermano ministri e parlamentari Pdl - che il governo e il Popolo della libertà abbiano oggi più che mai il dovere di rischiare.

In una fase così delicata per le sorti dell`economia nazionale, e considerate incertezze e prospettive nel sistema politico italiano, è in ogni modo necessario impegnarsi, senza perdere altro tempo, in politiche di crescita e di sviluppo.

Non sono ulteriormente rinviabili interventi legislativi che rispondano alle sollecitazioni delle istituzioni europee e della Bce, le quali chiedono all’Italia rigore nei conti ma anche provvedimenti che incidano positivamente sul prodotto interno lordo».

economia

21 ottobre 2011 • pagina 11

La credibilità internazionale viene colpita (di nuovo) in un momento pessimo

Un balletto degno del Paese del baratto

Le procedure istituzionali sembrano essere state totalmente stravolte: l’ennesimo segno negativo di Gianfranco Polillo difficile trovare le parole per descrivere quel che sta succedendo nella nomina del vertice di Banca d’Italia. Si sono consumate in decine di editoriali in cui la vicenda è stata vivisezionata, cogliendone gli aspetti più grotteschi e le ferite recate al volto di una delle Istituzioni più prestigiose che l’Italia può vantare – anche per questo Mario Draghi siederà sullo scranno più alto della Bce – ed al Paese stesso. La cui affidabilità internazionale, in un momento così difficile per il permanere di una crisi dagli sbocchi imprevedibili, non avrà certo un giovamento.

Hanno, invece, prevalso logiche da strapaese.

Ambizioni individuali e schermaglie politiche, con la coda di dichiarazioni irricevibili, che hanno mortificato quei civil servant – che sono la maggioranza - che hanno sempre cercato di legare la loro esperienza professionale a qualcosa di più alto. Anche a costo di dover svolgere, nell’interesse dell’Italia, un ruolo di minor prestigio personale.

Si dice che gli uomini riflettano le culture dei luoghi che sono costretti a frequentare.

Quando questo avviene, la legittima competizione si nuove entro regole definite e nel rispetto dei tempi necessari. Questo è quanto accade per gli Organi costituzionali, ad esempio, dove la scelta del vertice non può prescindere dalla una funzione di leadership e da una perfetta conoscenza della sociologia dell’apparato chiamato a dirigere. Pena un susseguirsi di disfunzioni destinate inevitabilmente a mettere sabbia negli ingranaggi, per quanto oleati essi siano. Ragioni di buon senso e di alta amministrazione, che privilegiano la continuità, ma anche la rapidità del ricambio se la scelta iniziale si dovesse dimostrare, in seguito, inadeguata. Nulla di questo sta avvenendo.

Il precedente di Mario Draghi, non fa testo. La Banca usciva da una bufera e da un polverone, che solo il tempo diraderà. Era giusto pensare a una discontinuità per ricomporre un gruppo dirigente non allineato che, a torto o ragione, aveva subito un trauma ed una disarticolazione. Ma proprio l’opera di Mario Draghi, con la sua intelligenza e forte personalità, era riuscita a ricomporre il quadro, promuovendo le nuove leve a posti di responsabilità.

Oggi lo scenario cambia nuovamente, aprendo la strada a incognite insondabili. Eppure le procedure per la nomina del nuovo Governatore erano blindate. Un atto complesso: delibera del Consiglio dei Ministri, proposta di competenza del Presidente del Consiglio, parere del Consiglio superiore della Banca e decreto del Presidente della Repubblica, non certo relegato ad una funzione meramente notarile. Bastava seguirle rispettando lo spiri-

È

Continente la promessa fattagli dal governo di Roma di spingere Lorenzo Bini Smaghi alle dimissioni dalla Banca centrale europea. Quel posto nel board della Bce, ora occupato dall’ex responsabile dell’ufficio studi di via Nazionale, spetterebbe per consuetudine ai francesi, che non sono più rappresentati all’Eurotower dopo l’addio alla presidenza di Jean Claude Tri-

chet. E, si sa, l’Eliseo non vuole affrontare la coda decisiva della trattativa sulla governance europea senza un suo uomo a Francoforte.

Ma Bini Smaghi conferma che non vuole dimettersi per salvaguardare l’autonomia dell’istituzione. Una scelta che non convince Angelo De Mattia, già vicedirettore di Bankitalia ai tempi di Antonio Fazio: «Non vuole fare un passo indietro e trova la sponda nella posizione dei francesi. Sfruttando le pressioni dell’Eliseo finisce per capitalizzare la sua posizione».

De Mattia sottolinea che, «a meno che non ci siano sviluppi dell’ultimo momento, lui dice che resta. Però vorrei ricordare che dopo alcune oscillazioni, era arrivato a dichiarare ufficialmente che si sarebbe dimesso sua sponte a fine anno. A parte che mi sembra sproporzionato richiamarsi all’indipendenza della Bce, la parola data per un banchiere centrale è una ragione di vita, vale più dell’oro custodito nelle caveau delle banche centrali».A differenza delle candidature di Fabrizio Saccomanni e di Vittorio Grilli quella di Bini Smaghi raccoglie meno consensi dentro le mura di Bankitalia.Viene vista con un certo dissapunto la scalata alla poltrona di governatore di chi è più giovane degli attuali reggenti di via Nazionale (lo stesso Saccomanni, la Tarantola o Ignazio Visco) e si ricorda soprattutto dei suoi trascorsi all’ufficio studi una certa rigidità.

to oltre che la forma dei diversi passaggi. Ma se questo non è avvenuto, le cause sono ben più profonde. Non siamo di fronte ad un semplice contrasto tra esponenti di Governo: nella Prima Repubblica – si ricordi il conflitto tra Andreatta e Formica – era la regola costante.

Poi, però, interveniva il Presidente del Consiglio, fino all’estremo limite della crisi di governo. Siamo invece di fronte a uno stravolgimento dei compiti istituzionali.

Una delega enorme e permanente attribuita al Ministro dell’economia, che di fatto ha esautorato i poteri del premier e, come tale, si è comportato anche in questa vicenda.

Paradossalmente è difficile dargli torto. Se finora ha guidato, in perfetta solitudine, la politica economica perché avrebbe dovuto rinun-

In questa brutta storia hanno prevalso logiche da strapaese, che hanno mortificato quei civil servant sempre impegnati per il bene comune ciare a quest’atto di alta amministrazione?

Come si vede, i problemi sono ben più seri di quanto a prima vista possa apparire. Emergono, oggi, in tutta la loro crudezza grazie alla cartina al tornasole della crisi. Quando le cose vanno, i profili istituzionali entrano in un cono d’ombra. Ma in una situazione d’emergenza la loro presenza ridiventa essenziale sia per l’ordinaria sia per la straordinaria amministrazione. Più complesse sono le scelte da compiere, maggiore deve essere il coinvolgimento delle forze in campo, al fine di evitare soluzioni non condivise che possono portare all’errore. La cornice istituzionale minimizza il rischio. Rende possibile il confronto delle idee. Consente di valutare al meglio i pro e i contro. E quand’anche la soluzione non soddisfa, si è comunque approntata una rete di sicurezza che smonta le proteste dei dissidenti.

Certo tutto è più faticoso. Anche se si possono ridurre al minimo gli inutili rituali del vecchio parlamentarismo. Ma queste sono le regole della democrazia: «La peggior forma di governo – come diceva Winston Churchill – eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora».

politica

pagina 12 • 21 ottobre 2011

Indicata una possibile dead line per evitare il rischio delle elezioni anticipate

Licenziato il Pdl Il premier riunisce il suo gruppo a Montecitorio ed esordisce con una delle sue barzellette. Poi aggiunge: «Cambieremo il nome del partito per il 2013» di Franco Insardà

ROMA. Prima Cicchitto ha spiegato che il Pdl «deve fare le riforme, se vogliamo resistere fino al 2013», poi Alfano ha annunciato che «il centrodestra non muore per il porcellum e che sposa il referendum». Quindi è toccato a Berlusconi che, secondo alcuni presenti, avrebbe raccontato: «Silvio Berlusconi cade dal sessantesimo piano di un grattacielo e, una volta in aria, comincia a gridare “ahhhhh” e a muovere le mani. Poi al diciottesimo piano vede in una finestra una donna nuda e strilla “ohhhhh”». Ed è scattata la risata (più di disperazione che di circostanza) in una riunione del gruppo del Pdl alla Camera, con la quale il Cavaliere ha provato a dimostrare che non è finita la sua stagione politica.

Convinto come si è detto che «bisognerà cambiare il nome del Pdl, perché l’acronimo non ha più appeal. Tra le cose

sibile che in uno Stato moderno il premier non possa dimissionare i ministri e che questi possano ridere in faccia al presidente del Consiglio».

Aggiungendo di volere inserire nella legge elettorale le preferenze, ribadendo che resisterà fino al 2013 e di non aver mai pensato al voto anticipato: «non mi hanno abbattuto fino adesso le inchieste giudiziarie, figuriamoci se mi abbatteranno ora. Mi hanno colpito giudiziariamente, fisicamente e patrimonialmente. Ho dovuto consegnare i miei soldi alla tessera numero 1 del Pd. Le inchieste su presunti scandali sessuali sono fondate sul nulla. Mi accusano per normalissime cene e per quei quattro salti che seguivano a cui io non ho nemmeno partecipato. In mia presenza e nelle mie case non è mai accaduto niente che non fosse corretto, niente che fosse licenzioso. Ci sono cinque per-

Il presidente del Consiglio rivela ai suoi deputati la strategia da adottare con i centristi: «Dobbiamo tenere un dialogo aperto con l’Udc, se ci alleiamo possiamo vincere tra due anni» buone che ritengo di aver fatto c’è di aver dato vita con il Pdl al partito dei moderati italiani nell’ambito della famiglia del Ppe», annunciando che presto potrebbe cambiare il logo «ma non sarà “Forza Silvio”». Rassicurando i suoi di non aver «mai pensato al voto anticipato, né a una lista personale».

A proposito di elezioni il presidente del Consiglio si è dichiarato disposto ad approvare una modifica della legge elettorale che «renda inutile il referendum e inserendola nella riforma dell’architettura dello Stato». Poi si è soffermato sui suoi poteri: «Non è pos-

sone che hanno raccontato il contrario, per ragioni non certo nobili, ma io ho decine di ospiti che racconteranno quello che è successo davvero. Mi hanno accusato di tutto, l’unica accusa che non mi hanno ancora fatto e di essere gay... ».

Frase questa che ha scatenato subito le reazione del mondo omosessuale. Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center: «Sorvoliamo e stiamo alla dichiarazione di Berlusconi pensando cosa accadrebbe nella compagine di governo qualora il premier fosse gay. Sicuramente si porrebbe un problema di coscienza per Carlo Gio-

Il Cavaliere continua a sbagliare tutto: i modi, le parole, le strategie

E se l’Udc vincesse senza Berlusconi nel 2012?

Tre errori del premier: la convinzione di votare nel 2013, comandare in casa d’altri e non capire di essere al tramonto di Giancristiano Desiderio erlusconi è il problema, non la soluzione. Certo, il signor problema può anche indicare la soluzione, ma con la consapevolezza che il fatto da superare che non va è lui e non altri. Dunque, quando ieri il presidente del Consiglio ha riunito alla Camera i parlamentari del Pdl e detto loro «ci alleeremo con l’Udc e vinceremo ancora una volta le elezioni nel 2013» è chiaro che non ha indicato una soluzione ma ha riproposto ciò che è già finito da un pezzo: la fine del berlusconismo. Ha sbagliato tutto: i modi, le parole, la strategia. Per tre motivi: primo perché non è detto che non si vada a votare prima; secondo perché pensa di comandare in casa d’altri; terzo perché Berlusconi per i moderati è uno svantaggio. Vediamo. Prima di tutto i tempi. Il premier ha riunito i suoi per dimostrare che ha ancora in mano la situazione mentre proprio i suoi hanno da tempo la testa altrove. A Roma e dintorni si susseguono cene e cenette tra esponenti del Pdl e circola persino il nome di un probabile nuovo governo: il governo Schifani.

B

nerale». In realtà, l’incontro ha avuto il chiaro scopo di dimostrare ai suoi stessi uomini che “Silvio c’è”. Il problema, però, stavolta è proprio questo e la canzoncina «meno male che Silvio c’è» è diventata una sorta di contrappasso. Berlusconi ha indicato la scadenza naturale della legislatura per andare a votare perché, in fondo, non dovendo in quel caso decidere nulla è per lui l’unica cosa che può far finta di decidere.

L’errore più grossolano è l’ingerenza a casa d’altri: «Ci alleeremo con l’Udc». Il buon vecchio Mastella direbbe che ci si sposa in due e i moderati hanno messo da tempo questo punto fermo: con Berlusconi non si va da nessuna parte. Figurarsi, allora, se può essere proprio il capo del governo a dettare linea, modi, tempi di un’eventuale alleanza politica il cui presupposto è proprio la fine conclamata del berlusconismo. Cose così grottesche capitano a chi non vuole prendere atto che il proprio tempo è scaduto da un pezzo e così continua a giocare, mentre tutti gli altri lo guardano e si guardano tra loro dicendosi che ci vuole un po’ di pazienza: «Vedrete, capirà anche lui che sta giocando da solo». In questo caso Berlusconi scherza con il suo destino: non comanda più a casa sua e racconta la favola di comandare a casa d’altri.

Un capolavoro di fantasia politica che solo lui può mettere in scena. Mentre i suoi stessi stru-

Cose grottesche come quella di ieri capitano a chi non vuole prendere atto che il proprio tempo è scaduto da un pezzo

La riunione voluta da Berlusconi, dunque, in apparenza risponde all’esigenza di controllare e quasi militarizzare i suoi deputati e le sue deputate a Montecitorio: lui stesso ha detto «ora stabilirò qui a Montecitorio il mio quartier ge-

politica

21 ottobre 2011 • pagina 13

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Ieri ha annunciato che ha intenzione di cambiare nome e simbolo al proprio partito (logo a fianco).

Inoltre ha chiesto il sostegno dell’Udc. In basso il leader dell’Unione di Centro, Pier Ferdinando Casini, che ha più volte ripetuto di non essere interessato

menti - i sondaggi - ci dicono e gli dicono che il suo gradimento è ai minimi storici e politici, lui si gasa anticipando la vittoria elettorale del 2013. Con chi? Con i moderati. Qui il capolavoro sconfina nel teatro dell’assurdo. Chi, infatti, ha stabilito con convinzione che i moderati dovevano uscire dal centrodestra? Chi li ha messi alla porta nel Pdl? Chi ha rotto ogni tipo di alleanza politica? Il terzo errore di Berlusconi, che ieri si è manifestato limpidamente ben al di là delle sue intenzioni, è proprio questo: lui stesso non riesce a capire che ormai, anche al di là dei sondaggi, proprio lui, Berlusconi, è diventato per i moderati uno svantaggio.

Lasciamo perdere gli scandali sessuali che, tutto sommato, quando non sono in contrasto con alcuni impegni istituzionali - è accaduto anche questo - non contano granché. Ma il buongoverno, ecco questo è il punto, il buongoverno dov’è? Ieri, ad esempio, Berlusconi ha dato suggerimenti televisivi ai deputati del Pdl e ha detto loro che all’avversario politico non bisogna dare del “tu” ma del “lei” per evitare di far passare l’idea dell’eccessiva confidenza; inoltre, ha detto che il linguaggio del corpo è fondamentale e quindi quando parla l’avversario bisogna sempre e comunque scuotere la testa e dire no. Se c’è una cosa che non è moderata è proprio questa: l’avversario ha sempre torto per definizione. All’inverso, se c’è una cosa che è moderata e liberale è la capacità di riconoscere che l’avversario può avere una buona idea o buone ragioni. Anzi, i moderati sanno per esperienza di non avere la verità in tasca, di non essere i risolutori di tutti i problemi della nazione e che un’idea stramba di tale genere è appunto un’idea stramba che in politica, come in alcun altra attività umana, non può albergare. Questa idea è stata sopportata per un po’, forse per un bel po’ e anche per troppo tempo.

E tuttavia, fu messa sotto critica nello stesso centrodestra quando si disse che era tempo di passare dall’avventura all’istituzione e si prese come modello di riferimento il partito popolare europeo. Niente da fare, non ci fu verso: si preferì pensare che la giovane democrazia dell’alternanza potesse vivere solo e soltanto con una certa dose di populismo e “cesarismo”. Ma, Cesare, perfino Cesare, fu tradito.

vanardi, che a quel punto non potrebbe far altro che rassegnare le dimissioni da sottosegretario alla famiglia. Quindi per il bene del governo e di Giovanardi è meglio che Silvio Berlusconi pensi a “Forza Gnocca” e non a “Forza Gay”».

Ma l’obiettivo dichiarato è quello di arrivare indenni a Natale, al massimo a gennaio.

Davanti ai deputati del Pdl Berlusconi indica una sorta di “dead line” per evitare il rischio elezioni. Come ha spiegato Angelino, bisogna arrivare fino a gennaio, poi «il voto anticipato non è più un rischio», avrebbe avvertito il Cavaliere secondo quanto riferito da alcuni presenti. Il presidente del Consiglio, dunque, non molla e avrebbe rassicurato cosìi suoi, rievocando la discesa in campo nel ’94: nonostante le inchieste giudiziarie, sono ancora qui, vivo e vegeto e ho voglia di combattere, ho fatto benissimo a scendere in campo. Il leader del Pdl se la sarebbe presa con la sinistra: abbiamo ancora la possibilità di evitare una vittoria della coalizione di centrosinistra, che non sarebbe in grado di guidare questo Paese.

Il Cavaliere ha dato la netta sensazione di essere proiettato alla campagna elettorale nel

nanti: stiamo lavorando per cambiare il panorama dell’attuale televisione». Un Berlusconi tanto concentrato sulla competizione elettorale da non nascondere la sua intenzione di corteggiare Pier Ferdinando Casini: «dobbiamo tenere un dialogo aperto con l’Udc, se ci alleiamo possiamo vincere tra due anni». Se non bastasse ha snocciolato l’ultimo immancabile sondaggio: «Il Pdl è al 27 per cento, gli indecisi da conquistare sono stimati a circa il 40 per cento, finiamola con questo pessimismo, in questo momento siamo sopra al centrosinistra del 4». E, sulla scia dell’ottimismo ridanciano, si è lasciato andare a un «lunga vita a Beppe Grillo, se continua così ci fa vincere, visto che il 95 per cento dei suoi elettori sono voti sottratti alla sinistra». L’idea di vittoria lo proietta sul suo Milan: «Visto ieri che bel Milan? Quando torneranno anche Seedorf e Pato non ce ne sarà più per nessuno».

Se anche la politica fosse come il calcio, sarebbe più facile per il premier allestire una squadra più competitiva. «Credo che alternative per palazzo Chigi dentro il centrodestra e con una maggioranza di centrodestra già esistano e Berlusconi per primo dovrebbe con-

Il premier si sfoga: «In mia presenza e nelle mie case non è mai accaduto niente che fosse licenzioso. L’unica accusa che non mi hanno ancora fatto è quella di essere gay…»

2013, tanto che ha dispensato consigli sulla comunicazione ai suoi che vanno ospiti nei talk show, chiedendo, soprattutto, di «evitare di dare del tu all’avversario in video», perché la troppa confidenza potrebbe dar luogo all’effetto teatrino.

Invitandoli a usare il linguaggio del corpo per contraddire l’avversario, per esempio scuotendo la testa. La Ravetto è stata bravissima l’altra sera da Paragone all’Ultima Parola, ma non scuoteva abbastanza la testa quando parlava l’opposizione, prestava troppo attenzione». Chiosando poi: «Alcune trasmissioni tv sono alluci-

siderarle. Alfano è la migliore di esse». È quanto dice Marcello Pera nel libro “Presidente ci consenta” di Angelo Polimeno, tra poco in libreria.Secondo l’ex presidente del Senato ci si « dovrebbe pensare prima che l’agonia produca gli ultimi rantoli, come sarebbe un governo indicato dal Presidente della Repubblica. Quello spazzerebbe via tutto: Pdl, centrodestra, bipolarismo, alternanza, classe politica incipiente. E non produrrebbe alcun risultato serio neppure in termini di misure economiche: i veti di una parte si sommerebbero ai veti di un’altra».

cultura

pagina 14 • 21 ottobre 2011

Convergenze, scelte, visioni (e divisioni) di due politici seri che con il loro contributo hanno fatto grande il nostro Paese

Attilio & Alcide Gemelli diversi Dal Ppi alla Dc: gli intensi ma delicati rapporti tra Piccioni e De Gasperi di Gabriella Fanello Marcucci ella memoria dei più se si parla del secondo dopoguerra, indipendentemente dagli orientamenti politici, è presente in primo luogo De Gasperi. Questo non solo per le cariche da lui ricoperte (come ministro degli Esteri e poi alla presidenza del Consiglio) ma soprattutto per la sua figura carismatica che ha saputo ridare fiducia agli italiani coinvolgendo tutti e ciascuno nella colossale impresa della rinascita del Paese.

Gli altri esponenti politici ed istituzionali, in particolare quelli appartenenti alla Dc appaiono, nell’immaginario collettivo, come satelliti orbitanti attorno al pianeta De Gasperi. Sì e no se ne ricordano i nomi, spesso sottolineandone vere o presunte negatività e dimenticandone le molteplici azioni positive. Si sa, il bene non fa notizia.

N

Attilio Piccioni, per i pochi che ne conoscono il nome, è ricordato come il “vice” di De Gasperi: “vice” segretario politico, “vice” presidente del Consiglio... Questo è vero, ma non è tutto. Si dimentica, infatti, che egli fu segretario politico della Dc dal settembre ’46 al gennaio ’49 e fu il primo artefice della vittoria del 18 aprile, vittoria non solo di un partito, ma della democrazia e della scelta occidentale dell’Italia. Si dimenticano, anche, i suoi incarichi ministeriali del periodo degasperiano (ministro della Giustizia e ministro degli Esteri) densi di proposte e di prospettive, a cui non seguirono gli esiti per la effimera durata degli esecutivi italiani. Si dimentica che più volte presidente del Consiglio incaricato, per alterne vicende declinò l’incarico. E si dimenticano i successivi ruoli, politici, parlamentari e ministeriali da lui ricoperti fino alla sua scomparsa. Ma non è di questo che qui si vuol parlare (per una più completa ricostruzione della vita e dell’opera di Attilio Piccioni, si rimanda al libro Attilio Piccioni, la scelta occidentale, liberal Edizioni, ndr).

Quanto invece di un’ulteriore definizione che si attribuisce a Pic-

cioni, accanto a quella di “vice” (reale e non offensiva) e cioè quella di“seguace”di De Gasperi.

Anche questa definizione non è offensiva, ma non è reale. Occorre dunque ripecorrere la vita dei nostri due a partire dal 1919. Il 18 gennaio, Sturzo fonda il Partito popolare italiano, sia De Gasperi sia Piccioni sono tra i primi iscritti. De Gasperi non ha ancora un riferimento territoriale, perché l’annessione del Trentino

Il 18 gennaio ’19, Sturzo fonda il Partito popolare italiano.

Entrambi sono tra i primi iscritti. Ma si incontrano davvero per la prima volta durante il congresso di giugno a Bologna

all’Italia non è ancora formalizzata. Piccioni è tra i più attivi iscritti della sezione di Torino, e fa propri i problemi dei ceti emerginati. Il Ppi nel giugno tiene a Bologna il suo primo congresso, Piccioni è delegato della sezione di Torino. De Gasperi viene invitato da Sturzo a presiedere il congresso, come leader delle “terre redente”. È dunque a Bologna che Piccioni e De Gasperi si incontrano per la prima volta, ma quasi certamente non hanno occasione di parlarsi.

Nel 1920 il Ppi tiene a Napoli il secondo congresso, Piccioni è ancora delegato di Torino e sostiene, intervenedo più volte, un odg presentato dalla sinistra accolto poi come raccomandazione. De Gasperi presenta un odg per sollecitare procedure e adempimenti per le “terre redente”. Anche a Napoli dunque non risulta vi sia una convergenza o un confronto diretto tra i due. A Napoli De Gasperi è eletto consigliere nazionale nella lista di maggioranza, Piccioni in quella di minoranza. È dunque nel Consiglio nazionale, nel settembre 1920, che Piccioni e De Gasperi si ritrovano, mentre Torino sta vivendo l’occupazione delle fabbriche. Piccioni interviene invitando i popolari a scegliere se «fiancheggiare la forza lavoro o il permanere della forza capitale». Sturzo subito dopo afferma che occorre partire dal quesito posto da Piccioni affermando la soluzione mediana della cooperazione tra lavoratori. Nel novembre 1920 Pic-

Premiato il libro dedicato a uno dei padri della Repubblica

Il “Basilicata” alla biografia della Fanello Marcucci l libro di Gabriella Fanello Marcucci, Attilio Piccioni, la scelta occidentale (liberal edizioni), è stato assegnato il Premio speciale Basilicata istituito per il quarantennale che si celebra quest’anno. Per la sezione della Saggistica gli altri premiati sono: Francesco Barbagallo con Storia della Camorra (Editori Laterza), Francesco Manfredi con il saggio Avigliano. Storia urbana territorio architettura arte (Politeia Edizioni), Giovanni Girone per Beniamino Mazzilli. Protagonista di merito della crescita economica e sociale del Mezzogiorno (Cacucci Editore), Gabriele Scarcia per Il più tristo di tutti (Laterza), Gerardo Messina con Augusto Bertazzoni. Un vescovo tra la gente (edizioni Paoline), Maurizio Franzini per Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili (Università Bocconi Editore). Un premio speciale per i 150 anni dell’Unità d’Italia è stato attribuito al volume della Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011 ( Il Mulino).

I premi per la Narrativa e la Letteratura spirituale sono stati attribuiti dalla giuria presieduta da Leone Piccioni a: Maria Pia Ammirati per Se tu fossi qui (Cairo Editore), Anna R.G. Rivelli per Il ragno (Tracce editore), Ferdinando Camon - premio speciale alla carriera - per La mia stirpe (Garzanti), Dino Rosa per Cercando la vita (Iride Edizioni). Dario Antiseri per l’opera omnia vince il Premio della sezione della Letteratura Spirituale e Poesia Religiosa.

La cerimonia di premiazione della XL edizione del Premio Letterario Basilicata si svolgerà domenica 23 ottobre nell’Auditorium del Conservatorio di Musica “Gesualdo da Venosa”a Potenza, alle ore 18,30.

A

cultura A fianco, Piccioni insieme con De Gasperi. In basso a sinistra, Piccioni con Andreotti e con Aldo Moro. In basso, la copertina della biografia di Gabriella Fanello Marcucci “Attlio Piccioni, la scelta occidentale” e, a destra, quella del volume di Aldo Ricci “La breve età degasperiana, 1948-1953” eletti alla Camera. Nel ’22, dopo il precipitare della situazione per la debolezza dei governi liberali e del re, Mussolini, incaricato di formare il governo, invita il gruppo parlamentare popolare a parteciparvi. De Gasperi come presidente del gruppo, e Stefano Cavazzoni come segretario, pongono delle condizioni (che poi Mussolini non rispetterà) e aderiscono alla proposta. Sturzo ne è informato quando l’impegno è di fatto preso. Si crea così una frattura tra partito e gruppo parlamentare. Nel dicembre 1922 sul pensiero popolare Piccioni dicendo del rifiuto che i popolari avrebbero dovuto dare all’invito di Mussolini afferma: «Sarebbe stato non soltanto logico, ma doveroso (...) sarebbe stata una conseguenza diretta della impostazione antifascista che il partito nostro (...) aveva recentemente e ufficialmente dato alla propria azione».

Nel ’23, al quarto congresso del Ppi, Piccioni è tentato di votare contro l’odg di De Gasperi che chiede il via libera alla partecipazione al governo Mussolini.

Sturzo riesce però a farlo recedere cioni viene eletto consigliere comunale di Torino e diviene assessore al Lavoro. Nelle elezioni politiche del 1921 De Gasperi è eletto per la prima volta deputato italiano, ed assume la carica di presidente del gruppo popolare. Al terzo congresso del Ppi, aVenezia nel settembre ’21, Piccioni è tra i quattro popolari che presentano un documento nel quale, con circostanziate motivazioni, affermano di aderire alla maggioranza sturziana. In quel congresso si discute sulla proposta di Sturzo sull’istituzione dell’“ente regione”: su di essa c’è una converganza di posizioni da parte di De Gasperi e Piccioni.

Nel 1920 Piccioni fonda il settimanale Il pensiero popolare dove tra i primi in assoluto prende posizione contro il fascismo, quando ancora solo pochi ne prevedono gli esiti. Tanto più ne rileva la pericolisità nel 1921 quando 35 fascisti, facilitati da Giolitti, sono

È a Torino che Sturzo pronuncia il 20 dicembre 1922 un discorso antifascista; è a Torino che si tiene il quarto congresso del Ppi nell’aprile 1923.Tutte e due le iniziative sono organizzate da Piccioni. Al quarto congresso Piccioni è orientato a votare contro l’odg presentato da De Gasperi che chiede di approvare la partecipazione al governo, e recede solo perché Sturzo personalmente glielo chiede, affermando che comunque «la tempesta verrà».

Piccioni però non colpevolizza De Gasperi per la sua difficolà di immettersi nelle caotiche istituzioni italiane: ne scrive sulla Rivoluzione liberale di Gobetti. Si potrebbero ripercorrere ancora le vicende del Ppi: l’uscita dei popolari dal governo, le dimissioni di Sturzo dalla segreteria, il suo esilio, le elezioni del ’24, l’uccisione di Matteotti, nel ’25 l’ultimo congresso del Ppi, la vitalità del Ppi fino allo scioglimento dei partiti, l’arresto e la detenzione di De Gasperi. Ma sarebbe inutile al fine di sostenere il ruolo di Piccioni come “seguace”o come collaboratore di De Gasperi. Diverso è il discorso nel secondo dopoguerra. Alla rinascita della Dc (non è qui il il luogo per ricostruirne le fasi), nel confronto tra i partiti, la statura di De Gasperi emerge, e cresce attorno a lui una stima al di là delle divisioni politiche. In questa fase, dunque, i popolari e i democristiani della prima ora, fanno quadrato attorno a lui sostenendone in ogni modo la leadership. È così che Piccioni e altri dc (si potrebbero fare anche i nomi) assolvono quei ruoli che permettono a De Gasperi di governare, non in una visione di partito ma per il bene del Paese.

21 ottobre 2011 • pagina 15

De Gasperi “riletto” attraverso il suo costante e profondo impegno

L’equilibrista saggio che portò l’Italia nel futuro Un libro di Aldo Ricci ripropone tutti gli elementi centrali della personalità dello statista democristiano di Gabriella Mecucci l giudizio pronto e netto, la prudenza e la capacità di mediazione, la responsabilità ed eticità della politica: è questo mix che fa di Alcide De Gasperi uno straordinario statista. Un uomo capace di governare l’Italia distrutta dalla guerra e di portarla fuori dalle secche, dandole un volto inconfondibile nelle alleanze internazionali e interne, nella costruzione della democrazia e nel ruolo dello Stato, nell’intervento in economia. Attraverso una lettura attenta dei verbali del governo e dei discorsi del suo capo, Aldo Ricci racconta in un denso saggio, edito Rubbettino, La breve età degasperiana 1948-1953. I rapporti con gli Alleati del leader democristiano, «già con i governi Parri e Bonomi furono decisivi spiega l’autore - per delineare quelle che sarebbero state in seguito le linee della politica estera italiana». De Gasperi era «necessitato e convinto» sostenitore della scelta di «puntare sugli Stati Uniti come unica opzione possibile per far riconquistare all’Italia uno status internazionale di nazione indipendente». Il viaggio in America del ’47 portò i primi frutti di questo orientamento: gli aiuti economici varati da Washington senza i quali l’Italia non ce l’avrebbe mai fatta ad uscire dalla crisi. Qualche mese dopo nella primavera - seguì la rottura politica con le sinistre.

Così - sostiene con ragione Ricci - maturarono le condizioni per il grande successo della Dc nelle elezioni del ’48. Due scelte quelle degasperiane nette e coraggiose. Ma, subito dopo il 18 aprile, emergerà anche la componente più prudente e mediatrice dello statista. L’occasione sarà il momento altamente drammatico dell’attentato a Togliatti.

I

somma, una politica difficile, un esercizio di equilibrio costante. Del resto, se è vero che tutti i comunisti erano antisistema, nel Pci convivevano due linee: una insurrezionalista e l’altra, che alla fine prevalse, anti insurrezionalista. E l’Urss cercò persino di liquidare Togliatti portandolo al Cominform e costringendolo a lasciare la segreteria del partito a Secchia più incline alla battaglia extraparlamentare. Il Migliore sbarrò il tentativo di Mosca che pure aveva avuto l’appoggio della Direzione del Pci.

Le prudenti scelte degasperiane favorirono probabilmente il mancato slittamento dei comunisti italiani su posizioni più pericolose per la democrazia. Il terzo punto importante del libro di Ricci è rappresentato dalle scelte economiche dell’era degasperiana: quel mix di incentivazione al privato e di intervento pubblico che fece crescere l’Italia con i ritmi con cui oggi si sviluppa la Cina. E poi ci sono alcune grandi riforme. Su tutte la riforma agraria per fare la quale De Gasperi entrò in rotta di collisione nientemeno che con Sturzo. Eppure, nonostante le difficoltà e l’opposizione dei proprietari terrieri e dei liberali, lo statista democristiano sollecitò Antonio Segno a farla.

Accanto a questo provvedimento, gioverà almeno segnalarne altri tre: gli interventi per la casa, la creazione della Cassa del Mezzogiorno e la riforma fiscale di Vanoni. Da ultimo, ma non per ultimo, il ruolo importantissimo svolto dall’etica cristiana nella politica degasperiana.

Ricci riporta a questo proposito il giudizio di Benedetto XVI: «Docile e obbediente alla Chiesa, fu però autonomo e responsabile nelle sue scelte politiche, senza servirsi della Chiesa per fini politici e senza mai scendere a compromessi con la retta coscienza. Spiritualità e politica furono due dimensioni che convissero nella sua persona e ne caratterizzarono l’impegno sociale e spirituale». Non vi è politica degna di questo nome - è questo il senso del messaggio ratzingeriano - che possa prescindere dall’etica, principio questo al quale De Gasperi si è sempre uniformato. Il libro di Ricci ripropone tutti gli elementi centrali della personalità dello statista democristiano. A lui oggi vengono dati ampi riconoscimenti da tutte le parti politiche. Persino da quelle che lo avversarono. De Gasperi non è stato solo un grande uomo di governo, ma ha interpretato nel modo più completo quello che deve fare una classe dirigente: indicare e prefigurare il futuro, e dare con il proprio esempio valori alla società. Cose di cui l’Italia oggi ha profondo bisogno. Per questo si è tornati a riflettere sulla sua “breve età”.

Non fu solo grande uomo di governo, ma seppe interpretare quello che deve fare una vera classe dirigente: prefigurare il domani

De Gasperi aveva ben chiara la natura potenzialmente antisistema del Pci e aveva ben presente il peso delle lotte sociali fortemente politicizzate. Non sottovalutava nemmeno i rischi di una nuova guerra, di cui la Corea poteva rappresentare un’avvisaglia, tantoché fece senza indugi la scelta di entrare nella Nato, non senza tentare però di evitare - senza riuscirci - gli automatismi nell’intervento bellico. Detto ciò De Gasperi, dopo i colpi sparati da Pallante - sebbene nella seduta immediatamente successiva del suo Gabinetto parlasse di «un piano sovversivo generale» - in pubblico preferì esprimersi con toni più bassi e di mediazione. Lucidità, unita ad accortezza e moderazione. Del resto, allora come in futuro, da una parte non escluse l’ipotesi di mettere fuorilegge il Pci, dall’altra tentò quanto più possibile di conservare l’assetto costituzionale che teneva dentro il sistema il Pci. In-