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Questa è la regola negli affari: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi» Charles Dickens

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 25 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Giornata tumultuosa per il premier che fa la spola tra il Quirinale e Palazzo Chigi per convincere i leghisti

In volo verso Atene Governo spaccato sulle pensioni. La Lega: «Pronti alla piazza» Berlusconi contro Merkel e Sarkozy: «Nessuno può darci lezioni». Ma entro mercoledì l’Unione europea aspetta risposte precise sulle riforme. E l’esecutivo è sempre più paralizzato SENZA TEMPO

Giallo sulla nuova bozza del dl

Decidere in fretta o dimettersi in fretta

Romani smentisce «Nessuna sanatoria»

di Gianfranco Polillo

Il testo, secondo voci riprese dall’Ansa, mirava a recuperare sette miliardi tramite i concordati: dal canone Rai alle tasse locali

hi in questi anni – e noi fra questi – si è battuto per un intervento più radicale sul sistema pensionistico italiano ha avuto la sua magra soddisfazione. Magra: perché l’ennesima brutta figura sul fronte europeo poteva essere da tempo evitata. Sarebbe bastato non sopprimere il cosiddetto “scalone” inventato da Roberto Maroni, quand’era ministro del Welfare o ripristinarlo, in questa legislatura. Forse non sarebbe stato risolutivo, ma almeno avremmo dimostrato un pizzico di buona volontà. Al tempo stesso se i sindacati – tutti i sindacati in competizione tra loro per accaparrarsi qualche etto di potere in più – non avessero peccato di scarsa lungimiranza, visto la pesantezza dei numeri, il passaggio che ci impone l’Europa poteva essere più graduale. Se lo stesso Giulio Tremonti non avesse continuato a ripetere che il nostro sistema era in equilibrio, al contrario di quanto avveniva in Francia o in Germania, forse, si poteva contrattare meglio. segue a pagina 2

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Francesco Pacifico • pagina 3

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A Todi è partita la Terza Repubblica

Il Senatùr pensa ai problemi interni

«Così torniamo uniti» E al diavolo l’Europa! «Questa battaglia è la panacea di tutti i nostri mali»: così il “cerchio magico” vuole spezzare l’assedio dei maroniani Errico Novi • pagina 4

Affluenza record: al suo partito oltre il 40%. Ora non è chiaro se il Paese resterà laico

Al Gannouchi conquista Tunisi Vince il padre della “democrazia islamica”: un segnale d’allarme? di Pierre Chiartano

Il Cnt e il Corano come “fonte del diritto”

a primavera araba è partita dalla rivolta tunisina, dall’odore acre di un giovane ambulante che si era dato fuoco, per protesta contro i soprusi del regime. È logico che gli occhi di tutti siano puntati sul risultato delle elezioni di domenica che hanno deciso la composizione politica dell’assemblea che scriverà la nuova costituzione. È il partito Rinascita di Rashid al Gannouchi che, a poche ore dai risultati definitivi del voto, sembra essere il grande vincitore di queste elezioni. a pagina 10

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

Dove ci può portare il “movimento dei movimenti”

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

Shari’a o Costituzione? Le ombre sul futuro libico di Vincenzo Faccioli Pintozzi Una folla di circa un milione di persone ha esultato alla proclamazione della liberazione della Libia a Bengasi, dove è iniziata la rivolta contro Gheddafi. Il leader del Cnt, prima di parlare, si era inchinato con devozione davanti a Dio. a pagina 11

NUMERO

207 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Rocco Buttiglione roviamo a capire cosa è successo veramente a Todi il 17 ottobre e quali sono le prospettive di evoluzione del movimento che lì è nato. Lo facciamo da osservatori partecipanti. Partecipanti perché siamo dei cristiani che fanno parte Che cosa del popolo cristiano che a unisce Todi si è riuni- i cattolici to. Siamo den- in cerca tro la medesi- di nuova ma comuniopolitica ne ecclesiale, abbiamo la stessa cultura, le stesse preoccupazioni e le stesse speranze. Osservatori perché facciamo politica e siamo in un certo senso la controparte davanti alla quale (speriamo non contro la quale) il movimento si costituisce. Molti si sono preoccupati di difendersi da questo movimento nel quale, forse anche al di là delle sue intenzioni, si intuisce e si teme un potenziale destabilizzante del quadro politico attuale. a pagina 8

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la crisi italiana

pagina 2 • 25 ottobre 2011

l’editoriale Quanto costa l’egemonia della Lega sul governo

Decidere (o dimettersi) in fretta di Gianfranco Polillo segue dalla prima Un susseguirsi d’errori che – salvo poche eccezioni e voci dissonanti tanto all’interno della maggioranza che dell’opposizione – hanno prodotto questo nuovo piccolo disastro. Alle notizie è stata soprattutto la Lega Nord ad agire in modo scomposto, prefigurando grandi rifiuti e manifestazioni di piazza. La lingua batte dove il dente duole, vista l’irriducibilità delle posizioni assunte, anche in occasione dell’ultima manovra. Una sconfitta, quella leghista, che rischia di diventare strategica e dimostra come la sua linea si sia progressivamente appannata. L’autonomia della Padania – se non addirittura la secessione – poteva avere un minimo di realismo in un collegamento più stretto con l’area della Mittle Europa. Quella zona vasta che va dalla Germania, all’Austria, ai Paesi Bassi ed al Lussemburgo. Di questa parte dell’Europa il Centro Nord fa parte non tanto per le tradizioni culturali – tutte italiane – ma per la relativa struttura economica. Un concentrato di aziende che operano soprattutto nel manifatturiero o nei servizi avanzati. Un reddito pro-capite tra i più elevati. Un tasso di crescita non difforme dalla media europea.

Da un punto di vista fantascientifico la Padania poteva essere come l’Austria, se non fosse scivolata sulla buccia di banana rappresentata proprio da un sistema pensionistico arcaico. Un concentrato di privilegi – in termini di pensioni d’anzianità – che non ha eguali nel resto del Paese. E che la Lega Nord ha sempre difeso, nella speranza di acquisire i necessari consensi. Oggi tutto questo appartiene al passato: non si può essere “nordisti”, quanto a livello di reddito e “meridionalisti” in termini di privilegi, quando si tratta di campare sulle spalle dello Stato centrale. Con lo scontro sulle pensioni questa contraddizione è emersa in modo inequivocabile ed ha spinto l’Europa a chiedere l’inevitabile omologazione. Brutta storia, quindi. Che ha penalizzato doppiamente il centro nord. Sarebbe da ingenui non notare un certo accanimento contro l’Italia. Le ragioni, specie politiche, possono essere molteplici. A noi interessa, invece, un dato strutturale. L’industria italiana, come molti anni fa quando iniziò il percorso dell’Europa monetaria, fa paura. Allora i francesi ci imposero un cambio eccessivamente elevato, dovuto solo al fatto che la politica monetaria italiana era più restrittiva rispetto ai nostri concorrenti. Attirava capitale dall’estero e questi flussi facevano salire il cambio nominale. Oggi il gioco si ripete. Nonostante o forse grazie alla crisi, il manifatturiero si sta riconvertendo. Il processo non è generalizzato, ma abbastanza esteso. Qualche anno fa producevamo soprattutto beni intermedi: componenti del processo produttivo che entravano a far parte della produzione francese o tedesca. Eravamo – come si dice in gergo – principalmente “terzisti”. Oggi la situazione è cambiata. La punta di lancia delle nostre esportazioni è data soprattutto dai beni strumentali: gli stessi che si producono in Francia e Germania. C’è quindi una più forte concorrenza, che l’Italia sembra reggere meglio di altri. Ed ecco allora la reazione. Una mossa obliqua, nella migliore tradizione della diplomazia occidentale, cui la Lega Nord ha, seppure inconsapevolmente, contribuito.

il fatto Il Cavaliere, pressato da Merkel e Sarkozy, non riesce a convincere il Senatùr. Per ora

L’orgoglio e la paralisi

Berlusconi «non accetta lezioni» ma litiga con Bossi. La Lega è «pronta a scendere in piazza», Casini e Bersani sono «preoccupati»: «Serve un esecutivo forte» di Marco Palombi

ROMA. Alla fine siamo tornati alle pensioni. Dove si stava un anno fa – decreto manovra del 2010 – e dove abbiamo passato tutta l’estate: l’Europa la pretende, il Pdl la vorrebbe fare, la Lega assolutamente no. Mentre andiamo in stampa non è ancora chiaro quale sarà l’esito della spaccatura dentro la maggioranza: se si arriverà al “modello 1994”, col senatur che sfiducia il Cavaliere, oppure se finirà con la solita ammuina di questi anni in cui dopo tanto sbraitare il Carroccio s’accuccia ai piedi del trono. La decisione doveva avvenire nel Consiglio dei ministri convocato per la serata di ieri, ma non è detto che sia successo davvero qualcosa: le voci dell’ultima ora parlano di una Lega intenzionata ad uscire dalla sala del Cdm al momento del voto o addirittura di una riunione in cui si parlerà solo, ma senza prendere decisioni, rinviate magari ad oggi. Il problema è che bisognerà comunque decidere in fretta, visto che domani Silvio Berlusconi è atteso col nuovo pacchetto di misure per la crescita a Bruxelles dalla stessa Commissione e dallo stesso Consiglio che l’hanno ridicolizzato domenica («mi hanno trattato come uno scolaretto»). Alla fine, forse, la maggioranza potrebbe uscirne puntando su un bel disegno di legge di riforma che stabilisca qualche nuova misura per poi affondare placidamente nella

palude parlamentare. Un segnale in questo senso potrebbe essere la dichiarazione che – proprio mentre incontrava Umberto Bossi a palazzo Chigi – il premier ha diffuso alle agenzie di stampa: «Nessuno nella Ue può dare lezioni agli altri partner», proprio quell’orgogliosa rivendicazione che il Cavaliere non aveva trovato il tempo o il coraggio di fare mentre era ancora faccia a faccia coi suoi colleghi. Conviene, comunque, andare per ordine.

La giornata del presidente del Consiglio era iniziata malissimo: gli erano toccate infatti alcune inutili riunioni coi leader del PdL e un colloquio di un’ora al Quirinale in cui Giorgio Napolitano gli aveva ribadito per l’ennesima volta che o il suo governo s’acconcia a fare quel che va fatto o è meglio che prenda la strada di casa. Il trattamento riservato domenica al premier italiano dai colleghi europei – e non si parla della spiacevole sceneggiata davanti alle tv di Sarkozy e Merkel, che comunque ieri hanno parlato di “equivoco” – ha scosso palazzo Chigi ma, soprattutto, il capo dello Stato. Mentre, però, il nostro s’impegnava ad approvare questo e quello in tempi da record, i patrioti padani sparavano bordate alzo zero proprio sulla riforma delle pensioni: «La Lega è sempre stata con-


la crisi italiana

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il retroscena

Il giallo dei condoni per lo sviluppo

Sanatoria per tutti: dal canone Rai alle tasse locali alle multe per i manifesti. Romani smentisce di Francesco Pacifico

ROMA Più condoni per tutti. Sembra questo lo slogan con il quale il centrodestra vuole concludere la sua stagione al governo. Perché nel centrodestra circolano ben dodici ipotesi di sanatoria fiscale. A fine serata si è anche detto che sarebbero state recepite nel testo del decreto sviluppo discusso ieri in Consiglio dei ministri assieme con il pacchetto pensioni, ipotesi smentita dal ministro dello Sviluppo. Vero o falso che sia, il tutto con buona pace di Giulio Tremonti, che si vanta di non aver dato drogato la crescita con incentivi pur si tenere sotto controllo il deficit, e dell’Unione europea, che ha chiesto al Belpaese misure serie per rimettere l’economia cenerentola dell’area, con il suo Pil a fine anno sarà in aumento soltanto dello 0,7 per cento. Quel che è certo è che per dare una svolta il Pdl non vuole affidarsi soltanto alle pensioni (la Lega accetterà soltanto interventi sulla reversibilità e sull’equiparazione dell’età di ritiro tra uomo e donna, forse uno scalone simile a quello di Maroni per alzare di un anno l’anzianità) e va oltre privatizzazioni e liberalizzazioni. Infatti vuole seguire la strada più rapida delle sanatorie fiscale. Anche perché soltanto con il concordato di massa si vogliono recuperare 7 miliardi di euro. Il doppio di quanto Tremonti ha recuperato con l’ultimo scudo fiscale. Oltre il concordato, che in maggioranza stanno studiando di rendere più appetibile per i contribuenti in difetto, il centrodestra per fare cassa guarda a sanatorie destinate a chi ha arretrati sul canone Rai come sulle multe locali o sulle imposte catastali e di registro. Al vaglio interventi ad hoc per la rottamazione dei ruoli, la chiusura

delle liti pendenti, la riapertura dei termini per gli anni pregressi, per la regolarizzazione delle scritture contabili. Va da sé che in questo marasma potrebbe rientrare anche una sanatoria per le multe comminate per i manifesti politici “selvaggi”. Sul versante fiscale, nel decreto, taglio del 2 per cento all’Irpef pagata dagli studenti lavoratori. Come richiesti dal neogovernatore Ignazio Visco, incentivi fiscali per l’assunzione di giovani e donne, agevolazioni per costruire asili nido aziendali, mentre i precari si vedranno congelata all’1 per cento l’Iva

Chissà cosa ne pensano a Bruxelles, dove ieri è stato mandato un chiaro messaggio a Roma. Attraverso un portavoce del commissario agli Affari economici Olli Rehn, la Commissione non soltanto ricorda di attendere il piano dell’Italia per la crescita, quindi replica indirettamente agli entusiastici annunci del Cavaliere di un intervento sulla previdenza, che «l’Italia deve presentare un piano chiaro anche nella tempistica per rafforzare il po-

Il testo diffuso nel pomeriggio (poi negato dal governo) prevede di recuperare sette miliardi attraverso dodici concordati che riguardano quasi ogni tipo di contenzioso sulla prima casa. Tassazione zero per i contratti d’apprendistato, forte sconti per le opere cantierabili e 25 milioni di euro per il fondo unico per lo spettacoloo, mentre cresce la platea dei soggetti potenzialmente destinatari di erogazioni liberali. Ritorna il bonus per l’efficienza energetica. Per gli enti locali risorse dalla vendita del patrimonio residenziale, con i ricavi vincolati agli investimenti in deroga al patto di stabilità. Sul versante della semplificazione viene estesa la Durc.

traria», apriva il coro Marco Reguzzoni, capogruppo alla Camera. «Vedremo, ma sulle pensioni abbiamo già dato», faceva eco Roberto Maroni. Più netta la vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, assai vicina a Bossi, nonché segretario generale del Sindacato Padano: «Adesso basta. È arrivato il momento di smetterla di mettere le mani nelle tasche dei lavoratori e dei pensionati. Bisogna fare sacrifici? Questo lo abbiamo ben chiaro e la nostra gente i sacrifici li sta già facendo. Ma se qualcuno pensa di andare a toccare ancora una volta i lavoratori e i pensionati sbaglia di grosso». La signora, peraltro, si dichiarava pronta a scendere in piazza e minacciava dimissioni in caso di cedimento del suo partito: «Se lo farete, manifesterete contro gli interessi dell’Italia», rispondeva compìto Franco Frattini. Proprio mentre si consumava l’ennesimo psicodramma nella maggioranza, Pierluigi Bersani e Pier Ferdinando Casini avevano un incontro privato a Bologna («Preoccupati per la situazione politica») e pezzi del Terzo Polo (Buttiglione, Bocchino) si dichiaravano pronti a votare una riforma delle pensioni, se ben fatta. Chiosa della Lega (Matteo Salvini): «Se Berlusconi chiede i voti ai democristiani, il governo è finito». Il tempo di alzare questo polvero-

ne era comunque servito ad Umberto Bossi per avere prima una riunione con lo stato maggiore leghista a Milano e poi a volare a Roma in compagnia di Ignazio La Russa, che portava avanti la trattativa per conto del Pdl.

Arrivato a palazzo Chigi, il Senatùr si chiudeva in una stanza con Berlusconi e Tremonti, proprio mentre arrivava nelle redazioni la nota del presidente del Consiglio: «Nessuno nell’Unione può autonominarsi

Se non bastasse ha anche minacciato di mettersi di traverso sui piani francesi per evitare una capitalizzazione coatta troppo onerosa per le banche e ha ricordato alla Germania che potrebbe porre il veto ai suoi tentativi di acconsentire gli aiuti ai Paesi in crisi soltanto in cambio di forme di commissariamento delle economie più indebitate.

ha alcunché da temere dalla terza economia europea e da questo straordinario paese fondatore, che tiene cara la cooperazione sovranazionale almeno quanto la sua orgogliosa indipendenza». Una difesa scritta (e diffusa a siderale distanza dai suoi sprezzanti colleghi continentali), che arriva all’inusitato vertice di sostenere che sono Parigi e Berlino i veri incubatori della crisi: «Quanto alle turbolenze da debito sovrano e da crisi del sistema bancario, in particolare franco-tedesco, abbiamo posizioni ferme»: l’euro è «l’unica moneta che non abbia alle spalle un prestatore di ultima istanza», che difenda la «sua credibilità di fronte all’aggressività dei mercati. Questa situazione - continua Berlusconi - va corretta una volta per tutte, pena una crisi che sarebbe crisi comune di tutte le economie europee. Stiamo facendo qualche timido passo avanti per un governo dell’area euro, ma resta ancora molto da fare». Infine, le colpe dell’Italia, che sono poi quelle di chi critica: «L’insieme della classe dirigente italiana, se vuol essere considerata tale invece che un coro di demagoghi, dovrebbe unirsi nello sforzo dello sviluppo e delle necessarie riforme strutturali sulle quali il governo ha preso e sta per prendere nuove decisioni di grande importanza». Salute.

«Nessuno nell’Unione può autonominarsi commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei. Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner», dice il premier commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei. Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner», buttava lì il nostro. Basta? Macchè: «L’Italia ha già fatto e si appresta a completare quel che è nell’interesse nazionale ed europeo, e che corrisponde al suo senso di giustizia e di equità sociale. Onoriamo il nostro debito pubblico puntualmente, abbiamo un avanzo primario più virtuoso di quello dei nostri partner, faremo il pareggio di bilancio nel 2013 e nessuno

tenziale di crescita dell’economia». Eppoi la Ue guarda a un pacchetto più complessivo, che spazia dalla previdenza, passa per le liberalizzazioni e le privatizzazioni, per arrivare fino alla riforma della giustizia, soprattutto per superare il vulnus del mancato rispetto che spinge molte aziende a non investire nel Belpaese. Silvio Berlusconi non ha gradito. E poco importa che abbia incassato una mezza retromarcia della Merkel dopo la gaffe di Sarkozy, con un suo portavoce pronto a spiegare che Berlino reputa l’Italia affidabile. In serata, e prima di entrare in Consiglio dei ministri, il Cavaliere ha diffuso una nota nella quale si replica a Parigi e a Berlino che «nessuno nell’Unione può autonominarsi commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei. Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner». Quindi ha rivendicato: «Onoriamo il nostro debito pubblico puntualmente, abbiamo un avanzo primario più virtuoso di quello dei nostri partner, faremo il pareggio di bilancio nel 2013 e nessuno ha alcunché da temere dalla terza economia europea».


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la crisi italiana

I bossiani ortodossi provano a spezzare l’assedio dell’ala maroniana

«Così torniamo uniti» E al diavolo Bruxelles! «La battaglia sulle pensioni è la panacea di tutti i nostri mali». I diktat della Lega solo per ragioni interne di Errico Novi

ROMA. Strana occasione. Imprevista. Cer-

sioni. Quella per esempio di incentivare «i contratti part-time alle donne che sono anche mamme e che con l’attuale struttura dei contratti sono escluse dal mondo del lavoro». Sarebbe questo il rullo compressore per spianare la strada alla crescita. È chiaro che neppure la Lega ci crede. Che gioca solo in difesa. E anzi, fa melina con la chiara consapevolezza di mettere così a rischio Berlusconi. «Questa storia delle pensioni sarà la panacea di tutti i mali interni del

tamente non calcolata. Certo è che dalle parti del Senatùr cominciavano a dubitare di poter estinguere le polemiche tra ortodossi (o cerchio magico che dir si voglia) ed eretici maroniani. Si rafforzava piuttosto la prospettiva di dover affrontare una campagna elettorale con un partito spaccato. O peggio con la minaccia delle scissioni. Le barricate attorno alle pensioni, invece, paiono destinate a ricompattare le due anime del Carroccio. Soprattutto perché offrono allo stesso Umberto Bossi un inatteso pretesto per far saltare il tavolo. E assecondare così le pulsioni centrifughe che covano nell’area vicina al ministro dell’Interno.

Già l’idea di una Lega che fa cadere il governo sulla previdenza è un paradosso. Nel senso che sono passati nell’ultimo anno e mezzo ben altri treni, sono scivolate via ben altre occasioni eventualmente utili a rompere con il Cavaliere: nodi come quello della legalità, degli scandali che hanno colpito il premier ed esponenti del suo partito. Finora il Senatùr ha sempre sopportato. Ha accettato di compromettere quote non irrilevanti di consenso per mantenere saldo l’asse con Berlusconi. Adesso si è sul

Cerchio magico ed “eretici” erano prossimi alla rottura totale per le “liste di proscrizione” sulle candidature alle Politiche, confermano fonti interne al partito punto di mandare all’aria la maggioranza e l’esecutivo in nome di una battaglia che non è esattamente il core business della Lega. E che fa vibrare assai meno le corde dell’elettorato padano rispetto ai comportamenti privati del Cavaliere, ai tentativi di proteggerlo dai processi o al debordare di sudisti “responsabili” nella maggioranza. Negli ultimi tempi d’altra parte non si era mai notata una così netta sintonia tra le due componenti del partito nordista. Dopo l’accenno del bossiano Marco Reguzzoni, che nel corso della Telefonata con Maurizio Belpietro ricorda l’ostilità padana a «qualsiasi ipotesi di riforma», arriva infatti il comunicato di Rosi Mauro, che suona come una sorta di ordine di servizio del capo: «Adesso basta, è arrivato il momento di smetterla di mettere le mani nelle tasche dei pensionati e dei lavoratori». La vicepresidente del Senato parla nell’altra sua ve-

ste ufficiale, quella di segretario generale del Sinpa, il sindacato padano. Ma la Mauro è soprattutto la principale custode dell’ortodossia bossiana. «Non parla se non ha il via libera dall’alto», confermano con tono disteso fonti interne.

Ci si sarebbe potuti aspettare forse che Maroni cogliesse l’occasione per distinguersi. E invece quello che Reguzzoni ha appena definito «uno dei ministri migliori e di maggior peso che questo governo ha» si mostra perfettamente allineato con la nota della Mauro: «Abbiamo la nostra posizione ed è molto chiara: abbiamo già dato, i pensionati hanno già dato». Segue l’accenno a uno spiraglio che in realtà non esiste, come si vedrà nel pomeriggio, con quel «vedremo in consiglio dei ministri, sentiremo quali sono le richieste e poi valuteremo». Arriva l’altro eretico Matteo Salvini qualche ora più tardi a formalizzare la minaccia di crisi: «Se il Pdl farà passare l’innalzamento dell’età pensionabile con i voti del Terzo polo, vorrà dire che non c’è più la maggioranza e quindi neppure il governo». Riemerge certo la storica intolleranza leghista alle indicazioni provenienti dall’Europa. Però la rapidità con cui il partito del Senatùr sbarra subito la strada alla riforma previdenziale suscita più di un sospetto. Colpisce pure il minimalismo con cui sempre Reguzzoni si lancia in ipotesi alternative evidentemente insufficienti a compensare un mancato intervento sulle pen-

ROMA. Giornata molto molto piena per il premier Silvio Berlusconi ieri. In diretta, in differita, in assenza e in tutte le forme. Se centrale è stato il tema del provvedimento sullo sviluppo e più ancora sulle pensioni, schiacciato tra l’umiliante ironia della conferenza Sarkozy-Merkel di domenica e la pressione dell’ultimatum europeo per avere provvedimenti concreto entro il vertice di domani, Berlusconi ha avuto anche tutte le attenzioni legate alle ultime decisive fasi del Processo Mills e per non farsi mancare nulla hanno continuato puntualmente a uscire le anticipazioni del solito libro di Bruno Vespa in cui il presidente del Consiglio parla con libertà. Le tante cose non sono però tra loro slegate, come potrebbe sembrare a uno sguardo poco attento. Nel nuovo libro di Vespa Questo amore, Berlusconi si chiede perché l’Udc non stia con lui: «Francamente non riesco a capire quali siano le vere motivazioni politiche che tengono l’Udc fuori dal centrodestra quando in Europa siamo entrambi membri del Ppe». A Vespa che suppone che «Casini si dica pronto a rientrare nel centrodestra a patto che Berlusconi se ne vada...», il premier risponde «è una condizione irragionevole, priva di qualunque senso». Eppure per capire il senso basterebbe guardare agli altri eventi del giorno, inesorabili realtà che banalmente erano state previste dall’Udc e che ora stanno arrivando al pettine, dichiarando la fine dell’era Ber-

lusconi. Lo ha ribadito per l’ennesima volta Buttiglione: «Lasciamo persino perdere giudizi di merito, però è evidente che il problema è che se uno vuole il bene del Paese, quando capisce che non può farlo e un altro sì passa la palla a quest’altro. Se ami l’Italia e sei in una condizione tale che l’unico servizio che puoi farle è farti da parte, lo fai». E che Berlusconi sia diventato un impedimento per risolvere i problemi dell’Italia è palese, lo dicono i fatti. Lo dicono le imbarazzanti risatine dei leader di Francia e Germania (d’altro canto il primo a parlar male dei leader europei e mondiali contro ogni protocollo è stato proprio Berlusconi). Lo dice il fatto che l’Europa ci sta commissariando economicamente, e lo può fare perché nella totale inerzia governativa tiene a galla l’Italia anche con interventi diretti di acquisto del nostro debito pubblico, e di conseguenza acquista il potere e l’impazienza di un creditore verso un debitore che non dà segni di aver compreso appieno la gravità della situazione. Lo dicono anche i processi contro il premier, sul cui merito non vogliamo entrare, e a proposito dei quali nessun moderato si può augurare che siano la strada per scalzare il premier. Però purtroppo ci sono, sono tanti e pesanti, e mettono Berlusconi in una situazione di difficoltà e di imbarazzo, assorbendo molte sue energie che vengono sottratte ai suoi doveri di presidente del Consiglio in una fase così grave di crisi del Paese. E co-


la crisi italiana

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Carroccio», sostiene ancora una fonte del partito di Bossi.

Ma perché il Senatùr mette con tanta leggerezza a repentaglio un’alleanza difesa contro il parere della base e di gran parte dei suoi deputati? Tutto si spiega con la scivolosissima china presa nei giorni scorsi dal dibattito interno. In particolare dopo che alcuni quotidiani, alcuni di destra come il Giornale e Libero, hanno svelato l’esistenza di “liste di proscrizione” per escludere i maroniani dalle candidature. È il punto di caduta, inevitabile e temutissimo, delle tensioni interne: il gotha del partito più fedele e vicino a Bossi terrebbe gli indesiderati fuori dalle liste in caso di elezioni anticipate. Si scatena un putiferio. Reguzzoni annuncia addirittura querela per gli articoli in questione, più di un maroniano, per esempio

Dietro il comunicato con cui Rosi Mauro pone il veto sulla riforma previdenziale c’è l’ok del Senatùr: «Lei non parla mai senza il via libera del capo»

Accordato il legittimo impedimento. E intanto si chiede: «Perché l’Udc non sta col centrodestra?»

Bloccatotra Vespa e Mills Il premier salta il processo e straparla nel nuovo libro del giornalista di Osvaldo Baldacci munque aprono uno spaccato che quanto meno getta ombre sul suo impegno per l’Italia, e non rassicurano sul fatto che la sua vita privata sia tale da non compromettere le istituzioni. Speriamo sia innocente di tutto, ma certo una cosa è se si difende nei processi, una cosa se impiega tutte le sue energie a difendersi dai processi, paralizzando la vita politica italiana. Sono solo alcuni dei motivi più che sufficienti per dire il motivo per il quale l’Udc non ritiene possibile oggi che l’auspicata riunificazione dei moderati possa avvenire sotto l’egemonia di Berlusconi. Il quale per altro in questi ultimi anni ha spesso ripetuto direttamente o per interposta persona il richiamo alla comune appartenenza al Ppe, ma per l’ennesima volta i fatti recenti dimostrano come quel Ppe gli serva solo alla retorica, ma nei fatti l’intruso nel Ppe è lui, che ben poco seguito ha dato a quei valori cristiani, liberali, conservatori ma anche radicati nel sociale che appartengono ai popolari europei. Troppo spesso ha confuso il popolarismo con il suo populismo. E ogni volta che si arriva allo snodo decisivo della serietà e della responsabilità, ecco che il premier si trova a fare i conti con le frange estreme del suo stesso parti-

to, nonché degli alleati, a partire dalla Lega, che minaccia la crisi ogni momento. Ed ecco che risulta evidente a tutti che la maggioranza parlamentare è raccogliticcia, al solo scopo di auto-perpetuare il governo Berlusconi e i posti in parlamento. Ma è chiaro che così non si governa. Un governo di minoranza che di volta in volta deve riacquistare l’appoggio esterno dei vari gruppi politici e di interesse. L’immagine è quella di un Berlusconi che giorno dopo giorno, sorridendo ostinatamente, tiene il dito nel foro sulla diga, ma la pressione gigantesca da un momento all’altro porterà al collasso più completo e disastroso. Come si fa a sostenere quello che peggiora la situazione del Paese e non la risolve? Come si fa ad aspettare l’una o l’altra catastrofe che spazzi via tutto, invece di lavorare responsabilmente al bene dell’Italia,“nave senza nocchiero in gran tempesta”?

Se non bastassero gli sconquassi economici e il caos politico, per Berlusconi arriva il momento in cui si vanno a concludere anche delicate vicende giudiziarie. Ieri, proprio per la complessa situazione politico-economica e il Cdm straordinario, il presidente del Consiglio

non si è presentato all’udienza del processo Mills. I giudici (giustamente) gli hanno riconosciuto il legittimo impedimento. Però hanno anche scadenzato le prossime tappe, che segnano inevitabilmente la via verso la conclusione di una vicenda che appare molto imbarazzante per il premier. L’interrogatorio di David Mills è stato posticipato al 28 novembre. Poi udienze 5, 10, 19, 22 dicembre e 9, 14, 16 gennaio quando potrebbe arrivare anche la sentenza. Il 5 dicembre è in programma l’interrogatorio dello stesso premier, ma l’avvocato Ghedini ha fatto sapere che «si deciderà se parlerà e, se lo farà, attraverso le dichiarazioni spontanee o facendosi interrogare». Si è poi lamentato della decisione di tagliare metà dei testimoni, i quali avrebbero senz’altro allungato l’iter del processo.

il deputato Nicola Molteni, si affretta a spiegare che non c’è nulla di vero, che «parlare di liste di proscrizione o di deputati eretici è solo una enfatizzazione». Però il tema esiste, proscrizioni o non proscrizioni. L’attuale delegazione leghista di Montecitorio è in larghissima parte schierata contro Reguzzoni (il documento di sfiducia al capoUmberto gruppo fu firmato da 49 comBossi ponenti su 59), è chiaro che le e Maroni, liste elettorali sarebbero state di nuovo uniti quanto meno ridiscusse. dal no alla riforma Ma basta mettere insieme delle questa vicenda con lo «stronpensioni. zo» affibbiato da Bossi al sinNella pagina daco di Verona Flavio Tosi, a fianco, pronto a ricandidarsi in città David Mills con una lista personale, per e Reguzzoni vedere materializzarsi un antico incubo padano: quello delle infinite micro-scissioni. Fenomeno tutt’altro che raro nella storia del Carroccio. Basti pensare alle epurazioni di Rocchetta o di Comencini in Veneto, alle leghe farlocche che spesso hanno giocato brutti scherzi al Senatùr. In un clima che vede i fedelissimi del cerchio magico costretti a bloccare i congressi locali e imporre i loro uomini per non perdere ovunque, si capisce come l’ipotesi di una scissione sia considerata al pari di una catastrofe.

Sarà sempre un caso, ma Vittorio Feltri ha dedicato il suo editoriale di domenica alle tensioni interne alla Lega. E i berlusconiani tremano per le conseguenze del niet sulle pensioni. All’ala ortodossa del Carroccio dev’esser sembrata fin troppo ghiotta l’occasione di ricomporre le divisioni interne sul tema delle pensioni. L’opportunità non è stata lasciata passare. E anzi viene custodita assai più gelosamente dell’alleanza con il Cavaliere.


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la crisi italiana

Un cronista della tv ellenica (che conosce bene anche la nostra realtà) ha pubblicato un saggio per certi versi inquietante

Una faccia, una razza

I greci lo dicono parlando di noi e di loro. Ma è proprio così? Un libro di Dimitri Deliolanes racconta la crisi di Atene ma sembra la nostra: governo senza credibilità, conti che non tornano, debito che sale. E l’Europa che comanda... di Maurizio Stefanini ome la Grecia, anche l’Italia fu nel mondo antico culla seminale della Civiltà Occidentale. Come la Grecia, anche l’Italia fu nel Medio Evo centro di un potere plurinazionale che rivendicava l’eredità romana e ellenica a un tempo, la Chiesa Cattolica e l’Impero Bizantino. Come la Grecia, anche l’Italia col cambiamento di centro del mondo coincidente con la scoperta dell’America perse l’indipendenza, e fu spesso ridotta a campo di battaglia tra stranieri. Come la Grecia, anche l’Italia nel XIX secolo tornò a essere Stato attraverso un moto di emancipazione nazionale che si richiamava appunto alle glorie del passato, e che trovò nelle opinioni pubbliche d’Occidente appassionata partecipazione. Qui, per un po’, i riscontri finiscono. L’Italia indipendente fu infatti dalle sue dimensioni e dalla sua posizione geografica risospinta a un ruolo di protagonista internazionale: anche se soprattutto come ultima delle Grandi Potenze, o prima delle Piccole. La Grecia è in-

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vece restata un piccolo Paese: sotto la media dello sviluppo europeo; spesso traumatizzato da eventi che l’hanno posta ai margini del Continente, fino al regime dei colonnelli; e soprattutto ancorata a un’economia asfittica. Al di là delle assonanze storiche, dunque, l’Italia, dunque, non può essere come la Grecia: non più di quanto il Regno Unito possa essere l’Irlanda, o la Francia il Belgio, o la Germania l’Islanda. Eppure, siamo stato proprio noi italiani a ritirare fuori questo spauracchio.

«Senza di me l’Italia finirebbe come la Grecia», ha proclamato infatti Silvio Berlusconi. «L’alternativa è veramente diventare come la Grecia», ha allora sentenziato in campo anti-berlusconiano Emma Marcegaglia. «L’Italia rischia di diventare come la Grecia», ha a quel punto avvertito il Fondo Monetario Internazionale. E Come la Grecia ha infatti titolato un suo libro (uscito per Fandango e che sta facendo molto discutere) Dimitri Deliolanes: corrispondente

in Italia da trent’anni per la Tv greca Ert, collaboratore di vari giornali italiani, e anche autore di una biografia di Berlusconi. E come la Grecia, anche l’Italia si trova ora a drammatico rischio di commissariamento da parte di un’Unione Europea che ormai impone diktat, e che quindi mette in crisi proprio quella scelta di tornare nazione di cui stiamo giusto celebrando i 150 anni. Il bello è che da noi era stata una parte dell’intelighentsia nazionale a sognare in qualche modo uno scenario del

«Papandreou paga per colpe di cui non è personalmente responsabile»

genere, nel pensare che euro e integrazione avrebbero definitivamente messo le briglie a una classe dirigente inaffidabile e irriformabile.

Tra coloro che più lucidamente lo hanno ammesso, ci fu in particolare Indro Montanelli. Senza occultare l’immensa differenza tra i due Paesi, Delionales spiega che in effetti è stato comune ai due Paesi il meccanismo che ha portato ad accumulare un enorme fardello di debito pubblico, a far crescere buro-

crazie inefficienti e ad accettare un alto tasso di corruzione ed evasione fiscale. «Duecento anni di regime clientelare», è addirittura la sua definizione della Grecia. L’Italia sta meglio perché la sua economia è comunque più grande, con un export molto forte; e sta assieme peggio, perché gli effetti del relativo botto sarebbe dunque per i suoi vicini peggiore, e anche il suo debito pubblico è sei volte più grande di quello greco. Se dovesse di nuovo essere esposta alla speculazione internazionale, non è che basterebbe una semplice iniezione di liquidità per salvarla. Nella comune pochezza delle loro classi politiche, Italia e Grecia hanno poi un’altra importante differenza. L’Italia, una ventina di anni fa ha già operato una riforma radicale del proprio sistema politico e partitico, passando dalla Prima alla Seconda Repubblica. C’è dibattito tra chi sostiene che semplicemente non è cambiato niente e chi dice che siamo addirittura peggiorati. Ma pressoché nessuno si azzarda


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La differenza tra il Paese reale (che si muove) e una politica sempre più lontana dai produttori

Perché, nonostante Berlusconi, possiamo evitare lo spettro-Atene La seconda industria dell’Europa, un patrimonio pubblico superiore al debito, esportazioni più mirate e... tutto quello che ignora Sarkozy di Francesco Pacifico

ROMA. Si sente il peso del ghigno di Sarkozy a domanda sulla sostenibilità (politica prima che economica) italiana – e ancora di più del suo tentativo di accumunare Roma e Atene – nella corsa tra lo spread del Btp e del Bund, ieri schizzato a 390 punti. Come se fosse naturale trattare la seconda economia manifatturiera (per quanto in lentissima riconversione) dell’Unione come un Paese che da almeno dieci falsifica i conti e che lega un quarto del suo Pil al turismo e ai noli marittimi. Attività crollate durante la crisi peggiore dell’era moderna.

Difficile dare torto al presidente francese, però, quando sottolinea che «la Spagna, grazie al suo governo, non è più nella prima linea» della speculazione. E fa intendere che Roma lo è, perché il suo esecutivo non ha seguito di Madrid, annunciando elezioni anticipate e un nuovo corso politico. Eppure viene da chiedersi fino a quando gli italiani dovranno pagare un prezzo più alto del

dovuto, perché sono guidati da un allegro e attempato signore, che tra i troppi difetti ha anche quello di scambiare i vertici internazionali per il Bagaglino. Sembrano lontane un secolo – ma era appena un anno e mezzo fa – le aste nelle quali il Tesoro riconosceva interessi negativi sulle emissioni. Soltanto a luglio – quando lo spread tra Btp e Bund è schizzato all’improvviso da 200 a 300 punti – ha visto crescere il nostro servi-

Torna sopra i 390 punti lo spread tra il Btp e il Bund. Ma non è troppo severo il giudizio dei mercati? zio al debito di una decina di miliardi rispetto alle previsioni. E nonostante un patrimonio pubblico grande più dell’indebitamento, ora ci rifinanziamo con un tasso al 6 per cento nonostante l’intervento della Bce. Cioè come un Paese da tripla. Ma se continua così, faremo troppa fatica a rifinanziare nel biennio titoli in scadenza per 680 miliardi di euro. E vanno peggio le Borse. Sempre nel terzo trimestre Piazza Affari, la peggiore d’Europa, ha bruciato il 20 per cento della sua capitalizzazione. E stando alle ultime ottave le cose sono andate peggio, visto che a metà ottobre il valore del listino ha raggiunto quota 359 miliardi di euro, circa 70 miliardi in meno rispetto allo scorso Natale e record negativo da quando c’è stata la fusione con il London stock exchange. Certo, i mercati vanno “tranquillizzati” e al Tesoro sembrano aver dimenticato come si colloquia con i grandi investitori e si incide sul sentiment degli operatori. Ma assodato che la maggiore criticità del Paese è Silvio Berlusconi, la questione si riduce da ideologico a prosaica, perché riguarda la messa in sicurezza del nostro risparmio: quegli 8.600 miliardi che sono il migliore ammortizzatore sociale a no-

stra disposizione e l’unica vera eredità che la generazione oggi al potere lascerà ai propri figli. Si sa, il debito si rimborsa con la crescita. E l’Italia – come ha ammesso il suo governo dimezzando le stime del Pil dopo anni di stucchevole ottimismo – diventa meno interessante sui mercati se a fine anno il Prodotto interno lordo salirà soltanto dello 0,7 per cento e l’anno prossimo appena dello 0,6. Ma davvero il Belpaese merita di rifinanziarsi al 6 per cento per pagare gli stipendi degli insegnanti e dei poliziotti, pur vantando il secondo avanzo primario del Vecchio Continente(+1,1 per cento), che per la cronaca è il doppio di quello francese?. Allo stesso modo non si spiega perché grandi e piccoli investitori di Piazza affari debbano registrare soltanto minusvalenze, quando il made in Italy, seppure con un’attività minore agli anni che hanno preceduto la crisi, segna un incremento tendenziale del 12 per cento in termini di ordinativi e del 4 sul versante del fatturato. Per non parlare della stabilità finanziaria, visto che le nostre imprese riescono a fronteggiare un livello di esposizione bancaria quattro volte quella dei francesi. Al riguardo è utile ricordare lo studio dell’ex vicepresidente dell’Iri, Riccardo Gallo, che la dice lunga sul deficit di competitività del Paese. Secondo l’economista il quale nelle maggiori aziende del Paese vige, nell’ultimo lustro, la pessima abitudine di lesinare investimenti e ammortamenti sulle forniture, per poi distribuire i risparmi come dividendi oppure destinandoli alla riduzione percentuale dei debiti finanziari.

L’Italia che ha affrontato la crisi era un Paese che non era ancora uscita dalla logica dell’industria pesante e dei mercati assistiti. Complici i giganti del credito che hanno massacrato chi accede al credito attraverso i fidi e i colossi nazionali che hanno ridotto le commesse alla filiera, le Pmi si sono dovute ingegnare per restare a galla. E come dimostrano le ultime rilevazioni Istat sull’export e sulla produzione industriale si registrano un’interessante riconversione fatta da quello che è il nucleo della nostra imprese. Soprattutto le realtà della meccanica hanno ripreso a correre dopo aver rifocalizzato la produzione sui beni di strumentazione (lasciando ad altri i beni intermedi), conquistato nuovi mercati oltre le solita Germania e Usa, legato l’organizzazione del lavoro alla domanda del mercato. Molte di queste “fabbrichette” hanno ridotto le ferie ad agosto e resteranno aperte a Natale perché hanno pieno il portafogli ordini (+58,2 per cento rispetto a un anno fa). E tanto basta per capire perché, nonostante Berlusconi, non meritiamo l’ironia di Sarkozy e il giudizio così duro dei mercati.

a dire che adesso va meglio di allora. Il sistema politico greco è invece sostanzialmente quello che si strutturò una trentacinquina di anni fa dopo la caduta dei colonnelli, ma secondo Delionales il primo ministro Yorgios Papandreou sta «pagando per delle colpe di cui non è personalmente responsabile». Anche se ne è invece responsabile, assieme al suo storico antagonista Nuova democrazia, il suo Movimento Socialista Panellenico, fondato da suo padre. «Ogni partito si è creato la sua clientela per vincere le elezioni. Chi viene eletto ricompensa il voto con l’assunzione nel settore pubblico. L’evasione fiscale e l’abusivismo edilizio rappresentano altre due piaghe dilaganti. Con l’entrata nell’euro questo sistema avrebbe dovuto avere fine, ma così non è stato». Come già Montanelli, Delionales dovrebbe dunque avere fiducia nel potere di commissariamento dell’Europa. Insomma, sono stati gli ultimatum europei a costringere Yorgis Papandreou a iniziare il risanamento.

Al punto in cui siamo arrivati, però, anche la classe dirigente europea meriterebbe di essere commissariata. C’è la gamba economica, ma non quella politica. E, a questo punto, potrebbe essere opportuno anche farci una nostra agenzia di rating europea come hanno fatto i cinesi, invece di dipendere dalle cervellotiche votazioni delle tre americane. Ogni decisione, come quella sugli eurobond, incontra resistenze paralizzanti. Si lascia che le situazioni incancreniscano, salvo poi imporre dolorosissime amputazioni. E secondo Delionales la stessa locomotiva Germania è lasciata allo sbando: per questo l’elettore tedesco si spaventa, e chiede poi ai suoi rappresentati di imporre a Club Med e Pigs misure draconiane. Che però in due anni invece di far migliorare la Grecia l’hanno solo fatta peggiorare, portando la macroeconomia a livelli estremi: -5,6% del Pil; 16% di disoccupazione Quanto all’ultima idea della Troika Fmi-Commissione-Bce, cioè comprimere il costo del lavoro, Delionales l’ha definita «un’idiozia bella e buona»: con tutti i Paesi vicini che lo hanno più basso in modo pressoché inarrivabile, con il rapporto sulla competitività presentato dalla Commissione europea a ottobre che neanche ne parlava, e con lo stesso modello tedesco che mostra come la competitività nasca dall’innovazione tecnologica e non dal taglio dei salari e dalla liberalizzazione dei licenziamenti. Proprio in Grecia, Aristotele aveva dimostrato per primo che il ceto medio è alla base della democrazia e dello sviluppo, E proprio in Grecia, le ricette economiche della Troika questo ceto medio lo stanno facendo scomparire.


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roviamo a capire cosa è successo veramente a Todi il 17 ottobre e quali sono le prospettive di evoluzione del movimento che lì è nato. Lo facciamo da osservatori partecipanti. Partecipanti perché siamo dei cristiani che fanno parte del popolo cristiano che aTodi si è riunito. Siamo dentro la medesima comunione ecclesiale, abbiamo la stessa cultura, le stesse preoccupazioni e le stesse speranze. Osservatori perché facciamo politica e siamo in un certo senso la controparte davanti alla quale (speriamo non contro la quale) il movimento si costituisce. Molti si sono preoccupati di difendersi da questo movimento nel quale, forse anche al di là delle sue intenzioni, si intuisce e si teme un potenziale destabilizzante del quadro politico attuale. Queste reazioni di difesa sono preoccupate più di stabilire cosa il movimento non è che non quello che è.

P

Si è detto che i movimenti e le associazioni di Todi non vogliono fondare un partito. È vero. È invece sbagliato dire che non fanno politica. La politica non appartiene tutta ai partiti. Esiste anche una politica dei cittadini, intesa come «prudente sollecitudine per il bene comune» (enciclica Laborem Exercens). È su questo terreno che si colloca il movimento di Todi. Esso coglie un disagio della società civile ed una mancanza di connessione e di dialogo fra società civile e società politica. Se non ci fosse questo disagio le associazioni ed i movimenti non avrebbero sentito il bisogno di ritrovarsi insieme. Niente nuovo partito (per il momento almeno) ma non si può nemmeno dire che va tutto bene e che per la politica tutto continua come prima. C’è un segnale chiaro di crisi e di insoddisfazione per il quadro politico esistente e per la situazione attuale della politica. C’è la percezione di una crisi che chiede, per essere superata, una politica diversa da quella che c’è ed una collaborazione fra tutte le forze politiche, privilegiando il bene comune su tutti gli interessi di parte. Qualcuno ha detto che i movimenti di Todi non chiedono la fine del bipolarismo. È vero, ma questo non vuol dire che il bipolarismo lo sostengano. Semplicemente a me sembra che il problema dei movimenti non sia affatto il bipolarismo, né pro né contro. Chiedono di ristabilire un rapporto corretto fra politica e società. Chiedono che la società possa liberamente scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. E chiedono un governo che si occupi efficacemente del bene comune del Paese. Se questo il bipolarismo è in grado di garantirlo allora viva il bipolarismo. Se no, al diavolo il bipolarismo. Certo questo sistema con questo bipolarismo non risponde alle attese ed alle speranze dei movimenti. Qualcosa di analogo si può dire per quello che riguarda Berlusconi e il berlusconismo. L’intenzione di Todi non è quella di attaccare Berlusconi ma certo neppure quella di difenderlo. I movimenti, piuttosto, si collocano dopo il berlusconismo. Pongono questioni e cercano risposte che vengono dopo la fine del berlusconismo. Non contro ma dopo. Un dopo, però, che è già cominciato e che è inutile cercare di frenare. Molto bene un gruppo di dirigenti del Pdl in una lettera ad Avvenire dice sostanzialmente: non chiedeteci di condannare Berlusconi (quelli di Todi non glielo chiedono), chiedeteci di andare ol-

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Esiste una politica che non appartiene ai soli partiti ma ai cittadini, intesa come p

Il movimento d

Linguaggio comune della fede, volontà di dialogo e di presenza costruttiva che attraversi la società. Un partito dei cattolici? Per ora no. Ecco cosa è nato davvero a Todi di Rocco Buttiglione tre Berlusconi, di mostrare che non siamo la corte di Berlusconi ma una forza politica fondata su valori e su principi che rimangono anche dopo la fine del berlusconismo. Attendiamo fiduciosi che gli amici del Pdl mostrino con i fatti di non essere la corte di Berlusconi. Molti hanno agitato lo spettro della Dc. Voci scandalizzate si sono chieste: «Ma non vorranno rifare la Dc?». Io ho l’impressione che ai movimenti di Todi della vecchia Dc non gliene importi nulla. Non la vogliono rifare ma non hanno neanche l’ossessione di non rifarla a nessun costo. Andranno per la loro strada e non si lasceranno fermare dalla preoccupazione che il risultato alla fine potrebbe forse per qualche aspetto somigliare alla Democrazia cristiana. Vediamo invece in positivo cosa è successo a Todi.

I movimenti si sono trovati per parlare insieme ed hanno verificato di parlare un linguaggio comune, e di avere attese e speranze comuni. Non era scontato. Una volta il cosiddetto mondo cattolico era diviso perché era attraversato da diverse opzioni ideologiche. La fede era debole e l’ideologia era forte. Davanti alle scelte difficili il rischio che la fedeltà all’ideologia o alla opzione politica prevalesse sulla fede era forte. Oggi è vero il contrario: i criteri e le visioni generate dal linguaggio della fede che unisce prevalgono sulle opzioni politiche che dividono. Si sono indebolite le ideologie, e la fede (forse) è diventata più forte. Parlando un linguaggio comune i movimenti hanno iniziato un percorso di ricerca comune. Non è poco. C’è una volontà di dialogo e di presenza comune nella società. C’è la percezione del fatto che questi movimenti e queste associazioni danno un grande contributo alla vita della società ma non contano rigorosamente nulla nel definire le linee politiche che la guidano. C’è poi la convinzione che la società stia andando a fondo e che i movimenti abbiano la forza ed il dovere di dare un contributo essenziale per salvarla. Ma come? Questo è il tema della ricerca.

La ricerca continuerà. Proviamo ora ad immaginare alcune piste lungo le quali la ricerca può svilupparsi ed alcune tappe possibili dello sviluppo che ci sta davanti. È necessario individuare alcuni obiettivi di una politica

Ai movimenti in realtà, della vecchia Dc non importa nulla. Andranno per la loro strada e non si lasceranno fermare dalla preoccupazione che il risultato potrebbe, forse per qualche aspetto, somigliare alla Democrazia cristiana della cittadinanza e di promuovere su di esse una mobilitazione. Le associazioni ed i movimenti di Todi coinvolgono milioni di persone. Bisogna coinvolgerle su obiettivi semplici e chiari che queste persone possano facilmente sentire come proprie. Penso a temi come la famiglia, il lavoro, la scuola, il diritto alla partecipazione politica... può essere una grande manifestazione, possono essere diverse manifestazioni. L’importante è che esse siano preparate su di una adeguata piattaforma di valori e di proposte e che dopo ci sia la capacità di interloquire con le forze politiche sulla base delle proprie proposte. Il movimento deve essere indipendente da tutte le forze politiche ma non deve essere equidistante. Deve essere capace


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prudente sollecitudine per il bene comune. È su questo terreno che ci collochiamo

dei movimenti

di registrare convergenze e divergenze e di premiare gli interlocutori con i quali giunge a convergenze, e di opporsi agli interlocutori con i quali si registrino delle divergenze. Solo così il movimento potrà avere un forte e vero impatto politico.

È importante il tema del sistema elettorale. Il movimento di Todi ha una forza potenziale tale da consentirgli di affermarsi con qualunque sistema elettorale. Il sistema elettorale può però avere una funzione decisiva nel determinare il modo in cui la forza del movimento potrà esercitarsi sulla politica italiana. Con il sistema attuale il movimento può registrare solo convergenze e divergenze con i partiti nel loro insieme. Sono infatti i partiti ad essere votati, con liste bloccate. Il movimento può, certo, scegliere un partito ma certo preferirebbe non doverlo fare, preferirebbe mantenere una certa distanza da tutti i partiti. Questo è più facile se c’è un sistema che consente

A sinistra, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. In alto, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. A destra, il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni

L’intenzione di Todi non è quella di attaccare Berlusconi ma certo neppure quella di difenderlo. I movimenti, piuttosto, si collocano dopo il berlusconismo. Cercano cioè risposte che vengono dopo la fine del berlusconismo stesso di scegliere (per esempio con le preferenze) la persona e non il partito. In questo caso il movimento potrebbe scegliere uomini che prendono impegno sui temi che gli stanno a cuore anche in diversi partiti o, al limite, in tutti i partiti.

Come reagirà la politica al porsi del “movimento dei movimenti cattolici”? L’Udc deve porsi immediatamente come interlocutore del movimento. Molti di noi vengono dalla medesima esperienza di fede e tutti noi veniamo dalla stessa visione antropologica che è propria dei movimenti. Dobbiamo dire con chiarezza che consideriamo positivo il loro protagonismo, che voglismo formulare i nostri programmi nel dialo-

go con loro e che vogliamo rinnovare le classi dirigenti attingendo a uomini loro per le nostre liste elettorali. Non intendiamo strumentalizzarli e non pretendiamo un monopolio della interlocuzione

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politica. Saremo lieti se anche altri accetteranno il dialogo con i movimenti. Noi comunque ci siamo. Un problema più complicato si pone per il Popolo della libertà. Il movimento dei movimenti si colloca, non polemicamente, su di un terreno che viene dopo il berlusconismo. È capace il Popolo della libertà di porsi su questo terreno? Roberto Formigoni mostra di comprendere bene la natura del problema quando fa capire che Berlusconi farebbe bene a passare la mano ad un governo di grande coalizione ed il Popolo della libertà dovrebbe offrire all’Udc di fondare insieme un partito nuovo, il partito del partito Popolare Europeo in Italia. Ma è disponibile il Pdl ad incamminarsi su questo percorso? O si ostinerà nel tentativo testardo di prolungare artificialmente, con costi altissimi per il paese, una stagione politica che è ormai definitivamente finita? Nessuno lo sa.

Il porsi del nuovo soggetto sociale e culturale cattolico interpella anche la sinistra. I primi commenti a Todi da parte della sinistra sono stati positivi. La critica a Berlusconi e la richiesta di una fase politica nuova dopo il berlusconismo ha fatto premio su tutto. La sinistra può prendere atto con soddisfazione anche di un altro elemento. I cattolici a Todi non hanno rivendicato semplicemente la difesa dei loro valori non negoziabili ma hanno rivendicato più in generale il diritto di dare un contributo decisivo per il bene comune, per la giustizia sociale e per tirare il paese fuori dalla crisi. La sinistra tuttavia non può eludere una questione decisiva. I cattolici di Todi affermano prima che una politica una antropologia, una visione sull’uomo. Da quella antropologia discende in modo indissolubile sia la difesa del povero che la difesa della vita. La difesa della vita non può essere autentica se non è unita alla difesa del povero, e viceversa. Chi è più povero di un bambino non nato? Il manifesto dei Quattro Intellettuali della Sinistra ha invitato bersani a rinunciare ad una presunzione di superiorità intellettuale per la quale i temi posti dalla cultura della vita non meritano neppure di essere presi in considerazione. Se la sinistra ne sarà capace anche con loro si potrà aprire un dialogo fecondo. Non è indispensabile che la sinistra adotti le nostre posizioni in bioetica. Sarebbe sufficiente che desse libertà di pensiero su questi temi al proprio interno. Nessuno può dire quanto lontano arriverà questa iniziativa di Todi. In un panorama politico e culturale desertificato essa può essere un ponte verso un necessario Risorgimento. Ad essa noi guardiamo con fiducia e con speranza.


mondo

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Occhi puntati per lo sviluppo dell’Assemblea costituente, che deve preparare le elezioni presidenziali e le parlamentari

C’è un profeta a Tunisi Chi è al Gannouchi, padre della democrazia islamica che ha ispirato anche Erdogan di Pierre Chiartano a primavera araba è partita dalla rivolta tunisina, dall’odore acre di un giovane ambulante che si era dato fuoco, per protesta contro i soprusi del regime. È logico che gli occhi di tutti siano puntati sul risultato delle elezioni di domenica che hanno deciso la composizione politica dell’assemblea che scriverà la nuova costituzione. È il partito Rinascita di Rashid al Gannouchi che, a poche ore dai risultati definitivi del voto, sembra essere il grande vincitore di queste elezioni. Le sue idee sono un mix d’islamismo e socialismo depurato, una formula che impressionò positivamente perfino Recep Erdogan – l’attuale premier turco – quando decise di fondare l’Akp, nel 2001, dopo lo scioglimento del movimento di Necmettin Erbakan. Idee tanto forti per la democrazia islamica da diventare una linea guida per il nascente Partito Giustizia e sviluppo turco. Un asse tra Tunisi e Ankara che diventerà sempre più forte e determinante e che renderà difficili i giochi per Parigi. E possiamo aspettarci un percorso politico dell’Ennahdah altrettanto determinato di quello dell’Akp.

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Anche le ansie sul radicalismo islamico preoccupano di più le cancellerie occidentali – un po’ lontane dalla realtà araba – di quanto non tolgano il sonno alle formazioni moderate d’ispirazione religiosa come Ennahdah (Rinascita), ora partito preponderante in Tunisia. Esistono poi due narrative della rivoluzione dei “Gelsomini”, termine che, proprio perché coniato in Francia, non piace alla maggior parte dei tunisini. Francesi che usciti dalla porta, come sponsor dell’autocrate Ben Alì, tentano di rientrare dalla finestra, cercan-

Attesi per oggi i risultati definitivi di Tunisi

Affluenza record, boom delle donne di Massimo Fazzi

TUNISI. Sono attesi per oggi i risultati ufficiali e la proclamazione del nuovo governo, ma il partito islamico di “al-Nahda”, guidato da Rashid Ghannouchi, è avanti in tutte le province tunisine, mentre al secondo posto si piazza il Partito del Congresso per la Repubblica (Cpr) di estrazione laica. Secondo gli ultimi dati dipsonibili, circa il 90% degli aventi diritto registrati si è presentato alle urne, per scegliere i 217 membri dell’Assemblea Costituente, che nominerà un governo ad interim, lavorerà alla nuova Costituzione e preparerà il terreno per le elezioni parlamentari e presidenziali, le prime dopo la caduta di Zine el Abidine Ben Ali. In tutto si sono registrati nelle liste elettorali 4,1 milioni di cittadini aventi diritto, mentre altri 3,1 milioni, pur potendo partecipare al voto, non si sono registrati, come riporta la tv satellitare al-Jazeera. Ali Marayedh, membro del comitato esecutivo del partito islamico tunisino an-Nahda, dichiara: «I risultati in varie regioni mostrano che al-Nahda è largamente in vantaggio, con consensi che oscillano tra il 25 al 50% a seconda delle regioni». Le operazioni di scrutinio proseguono e per ora non arrivano dalla commissione elettorale proiezioni ufficiali, ma le prime indiscrezioni sembrano confermare i pronostici. Anche Maya Jribi, portavoce del Partito democratico progressista, una delle formazioni laiche che hanno sfidato anNahda, ha ammesso il vantaggio del partito rivale. «È una svolta nella storia della Tunisia, che è sempre stata un Paese modernista e aperto, e ora fa una scelta larga-

Rashid Gannouchi, leader islamico in procinto di divenire il nuovo leader della Tunisia post Ben Ali. In alto, un momento del voto: boom di donne. Nella pagina a fianco il cadavere di Gheddafi

Stupore per la scelta delle urne che dovrebbe dare ai musulmani la maggioranza assoluta dei seggi per la Costituente mente islamica», ha detto alla radio France Info. Il segretario generale dell’Unione, Ahmed Inoubli, commentando i primi dati ha dichiarato che se l’Unione democratica unionista riuscirà a ottenere anche un solo seggio sarà “sufficiente”. Per l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea Catherine Ashton «le storiche elezioni per l’Assemblea costituente segnano l’inizio di una nuova era in Tunisia». Dall’Italia il ministro degli Esteri Franco Frattini ha espresso soddisfazione per “l’alta affluenza”. Il titolare della Farnesina ha voluto sottolineare come ci siano «state numerose donne» in fila per votare, questo «vuol dire che hanno capito che è giunto il momento di dire la loro. Li sosterremo con molta forza nella strada».

do di salvare parte della vecchia nomenklatura e d’influenzare il futuro quadro politico del Paese nordafricano. La prima narrativa è alimentata dai media occidentali e non solo.Vuole spingere verso un cambiamento che non sia antisistema, nel senso più ampio del termine. La secon-

menti religiosi. Un Islam che fuori dell’ombra della minoranza salafita, ultrafondamentalista, antioccidentale e lontana anche dal Corano, può dire molto in termine di morale pubblica, etica politica e formazione di una nuova classe dirigente. Gannouchi è un personaggio

Islam moderato, una formazione alle idee socialiste e studi filosofici: ecco le radici politiche del maître à penser tunisino di Ennahdah, avviato a determinare il futuro politico del Paese da è quella costruita, giorno dopo giorno, dalla gente comune che non ne poteva più del regime. E che vede ancora le stesse facce governare il Paese. E la stessa corruzione. Ora molti occhi sono puntati sulla Tunisia, ma non solo. L’America di Barack Obama, attenta e defilata militarmente, è prodiga d’iniziative economiche per aiutare la svolta democratica. E la Turchia non è da meno. L’Europa si sta svegliando dal torpore e cerca di avere un ruolo su quella sponda sud del Mediterraneo che fu già patria di Annibale. Solo che oggi l’Europa non vuole spargere sale sulla nuova Cartagine, ma semi di pace e democrazia. Gannouchi ben rappresenta la faccia della nuova Tunisia, colta e laica grazie anche all’influenza di Parigi, ma ricca di nuovi fer-

chiave per capire la complessità della situazione in Tunisia. Fondatore del partito islamista ha conosciuto le galere di Bourghiba e l’ostilità di Ben Alì. Dopo 20 anni d’esilio, a fine gennaio scorso, al termine della rivolta, è sbarcato all’aeroporto di TunisiCartagine. Ad accoglierlo c’era una folla di qualche migliaio di tunisini che inneggiavano il suo nome e un gruppo di “secolaristi” che manifestavano al grido di «no-sharia», la legge islamica. Un dualismo semplificatorio che non spiega tutto, ma qualcosa sì. Il pericolo islamista è presente in tutto il mondo arabo, Tunisia compresa, ma qui le chance che prenda piede sono poche. E spieghiamo perché. Primo, l’alta scolarizzazione impedisce che le scuole islamiche più fondamentaliste – le famose madrasse


mondo

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Un milione di persone in piazza per la proclamazione della liberazione

Shari’a o mezza shari’a? Le ombre sulla Libia

Il Cnt stabilisce la legge islamica come base del diritto E nel Paese si discute sulla fine cruenta del Colonnello di Vincenzo Faccioli Pintozzi na folla di circa un milione di persone ha esultato alla proclamazione della liberazione della Libia a Bengasi, dove è iniziata la rivolta contro Gheddafi. Il leader del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), Mustafa Abdul Jalil, ha chiesto a tutti i libici di «essere una sola carne, una sola nazione. Siamo divenuti fratelli come mai in passato». Abdul Jalil, che si era inchinato con devozione davanti a Dio prima di fare il suo discorso, ha anche spiegato che la nuova Libia avrà la sharia come sua fondazione: gli interessi delle banche saranno limitati e sarà tolto il limite al numero di mogli che un libico può sposare. Proseguono intanto le polemiche sull’esecuzione sommaria del rais. L’autopsia ha confermato che Gheddafi è stato ucciso per un colpo alla testa. Rimangono poi differenze fra i rivoluzionari di Misurata, che vogliono tenere esposto il corpo dell’ex dittatore e la tribù di Sirte che vuole seppellire il suo “martire”. Le tappe della nuova Libia prevedono entro otto mesi le elezioni per una Conferenza nazionale che a sua volta sceglierà un governo ad interim e una Commissione costituente per la nuova costituzione. Il testo sarà sottoposto a referendum e se passa, entro sei mesi vi saranno le elezioni politiche. Ma fin da ora si intravedono difficoltà: anzitutto come integrare le varie tribù; poi come disarmare i gruppi armati che hanno fatto la rivoluzione; come si prospetta la convivenza fra modernità e sharia. Le immagini scioccanti della morte di Gheddafi e della fine del suo regime gettano infatti un’ombra scura sul futuro di una possibile democrazia in Libia, dove il desiderio di giustizia, democrazia e diritti umani si mescolano a interessi locali e internazionali che avvolgono questo ricco Paese del petrolio. L’industrializzazione e urbanizzazione voluti da Gheddafi non hanno mai soppresso l’antica tradizione tribale, la loro struttura familiare e sociale, legata anche agli ordini sufi.

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– prendano piede, come è successo in India, dove il buon livello di educazione pubblica ha arginato e spento la diffusione dell’ultrafondamentalismo. In più il Paese è uno tra i più laicizzati di tutto il mondo arabo. Gannouchi intervistato dal Financial Times, subito dopo la fuga di Ben Alì, aveva dichiarato che Ennahdah avrebbe partecipato «alle elezioni legislative, ma non a quelle presidenziali». Un low profile funzionale agli interessi di bottega? Vedremo. Certo è che sono molti gli “islamisti” consapevoli di quanto sia importante uno Stato pluralista per la difesa del libero esercizio della fede. Se si guarda al modello “ateo” francese, ogni credente avrebbe qualche dubbio. Dubbi che svaniscono volgendo lo sguardo all’esperienza britannica e americana, dove lo Stato non è un nemico della religione.

Non solo, ma non è molto noto il legame forte che esiste tra Gannouchi e il premier turco Erdogan. E quando il leader del partito islamico tunisino afferma d’ispirarsi al partito turco, oggi al governo, Adalet ve kalkinma partisi (Akp) dice più che una verità. Il maitre à penser di Ennahdah ha viaggiato molto in Turchia recentemente, dando l’impressione – anche con numerose dichiarazioni – di voler prendere a modello l’esperienza turca del partito di Erdogan. In realtà è stato Erdogan a ispirarsi al pensiero di Gannouchi e alla sua esperienza legata all’ al Ittijihad al isla-

mi, un movimento non violento di «tendenza» islamica che fondeva fede ed idee “socialiste”. Un approccio laico alla politica che l’intellettuale tunisino aveva abbracciato durante i suoi studi di filosofia a Damasco, giunti alla laurea nel 1968. Un anno emblematico.

L’esperienza del nuovo partito a ispirazione religiosa gli era costata la galera a più riprese, una condanna all’ergastolo, torture comprese. Ma era stato liberato ogni volta, grazie anche alla mobilitazione dei movimenti laici tunisini. Un debito di riconoscenza che Gannouchi non ha dimenticato. Può essere quindi definito un buon rappresentante della corrente progressista del riformismo musulmano. Non solo, ma possiede una formazione culturale molto vasta che va dagli studi universitari di stampo tecnico a quelli umanistici. È quindi un intellettuale che potremmo definire, con una piccola forzatura,“all’americana”. Conosce bene quanto conti la cultura locale nell’interpretazione del Corano e quanto sia scivoloso nel confronto con l’Occidente parlare di sharia. Una parola che fa venire subito in mente donne velate, lapidazioni, un regime giudiziario medievale e limitazioni delle libertà civili. Fino ad oggi ha prevalso l’interpretazione “talebana” di questa parola. Non sapendo, noi occidentali, quanto il Corano promuova libertà, giustizia sociale e condivisione del potere terreno.

zia, ma con una leadership populista e personale - è emersa nella sua debolezza, senza lasciare spazio al dialogo e ricorrendo alla violenza. Il rifiuto di Gheddafi ad accettare le richieste popolari, insieme allo scoppio delle rivolte, ha portato all’intervento straniero in una specie di guerra dove l’interesse per le risorse petrolifere, i conflitti tribali, l’immigrazione, le tensioni interne alla stessa opposizione ha reso il tutto abbastanza incerto. Non va dimenticato che il successo militare dei ribelli è più frutto dell’intervento straniero che della forza delle truppe locali. È anche evidente che la sorte del governo ribelle è nelle mani delle 2335 tribù della Libia, specie nel momento attuale, in cui le tensioni sembrano emergere fra i ribelli stessi. Non va dimenticato che mesi fa, Mustafa Abdel Jalil, capo del Cnt, è stato costretto a dimettere l’intero comitato esecutivo, dopo l’assassinio del generale comandante Abdel-Fatah Younes, e questo aggiunge un altro segno alla confusione

Gli analisti molto scettici: «Se queste sono le premesse, il governo dei ribelli rischia di scivolare nell’autoritarismo dei musulmani»

Al contrario, essi hanno una grande influenza nella società e in diverse occasioni hanno giocato un ruolo politico importante. L’autoritarismo di Gheddafi ha stabilito una sorta di socialismo islamico in cui islam e socialismo sono stati piegati al suo potere. Al suo controllo politico, basato su una specie di accordo fra i gruppi tribali e la popolazione urbana, sono sfuggite alcune aree come la Cirenaica, dove è iniziata la rivolta politica e dove gruppi islamici fondamentalisti hanno mostrato la loro presenza, anche se sembravano essere stati banditi dal Paese. Il potere di Gheddafi - conquistato non con la democra-

che regna nella leadership.Tutto ciò rende ancora più precari e complicati i passi nell’era post-Gheddafi e apre molti interrogativi sull’intero processo democratico. Perfino il testo (bozza) della Costituzione libica fa affiorare gli stessi problemi. Ad esempio, l’art. 1 della bozza esprime il desiderio di democrazia che è stato alla base delle rivolte: «La Libia è uno Stato indipendente e democratico, il popolo è la fonte dell’autorità». E sottolinea con chiarezza: «Per i non musulmani, lo Stato garantisce la libertà di pratica dei diritti religiosi e il rispetto per il loro sistema di statuto personale». Allo stesso tempo, la bozza contiene la tipica contraddizione presente nella maggior parte delle costituzione arabe. E cioè, nello stesso articolo 1 si afferma: «L’islam è la religione dello Stato e la fonte principale delle leggi è la giurisprudenza islamica (sharia)». Non è dunque chiaro quale sarà la reale “fonte di autorità”. Ma il rischio che essa sia il Corano è altissimo. Con tutti i rischi del caso.


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Precisi, dotati di missili, i velivoli guidati a distanza sono i sistemi da combattimento del terzo millennio

La guerra dei droni Usati (armati) solo dagli Usa, presto potrebbero finire nelle mani sbagliate di Mario Arpino insostenibile leggerezza dei droni ed il loro fastidioso ronzio ormai non consentono ai terroristi di dormire sonni tranquilli. Ovunque essi siano. Si stima che con questo sistema subdolo e silenzioso ne siano già stati uccisi alcune centinaia, forse più di mille, anche se è difficile capire quanti di questi sono effettivamente tali – si presume la maggior parte – e quanti invece vittime di informazioni errate, o tardive, oppure di “danni collaterali”. Sono sistemi assai precisi, dotati di missili a carica esplosiva limitata, ma che in presenza di un’intelligence altrettanto precisa diventano micidiali. Grazie a tecnologie sempre più sofisticate questi mezzi – noti al grande pubblico come “droni”, ma che in realtà sono velivoli pilotati a distanza per uso militare e civile – stanno emergendo come i sistemi d’arma del terzo millennio. Se in campo civile

L’

trovano largo impiego per l’osservazione remota del territorio (calamità naturali, lotta alla criminalità, agricoltura, inquinamento, ecc.), è in campo militare che i ruoli sono sempre più estesi. Si va da impiego di carattere strategico – come avviene per il grosso e pesante Global Hawk americano – ospite in questi giorni a Sigonella da dove opera sulla Libia – o a carattere tattico, compito espletato egregiamente dai nostri ricognitori disarmati Predator e Reaper sulla Libia e in Afghanistan – e prima ancora in Iraq. Sono gli stessi modelli che, armati di missili aria-superfice, sono attualmente utilizzati su larga scala dall’Usaf e dalla Cia. L’impiego in missioni belliche – iniziato sperimentalmente dal repubblicano George Bush, ma ampliato su larga scala dal molto democratico Barack Obama, si sta ormai trasformando in nuova dottrina di impiego delle forze aeree, e se ne

Come funzionano

È nato il pilota virtuale con la licenza d’uccidere di Stranamore

prevede uno sviluppo tale da far si che la metà dei piloti oggi addestrati negli Stati Uniti siano destinati a divenire “piloti virtuali”, in posizioni operative a terra di guida, di controllo e, all’occasione, di apertura del fuoco mirato.

L’industria aeronautica, ovviamente, ha capito che in futuro ci sarà una minore richiesta di velivoli da combattimento pilotati e si è già buttata a capofitto sulla progettazione e la realizzazione di questi sistemi, originando una nuova competizione globale. Tra piccoli, grandi e medi, armati o solamente dotati di sensori, i prototipi – ve ne sono anche alcuni nazionali – si contano ormai a centinaia. Rammenta l’Herald Tribune che ancora si ricorda la meraviglia di alcuni visitatori americani quando, invitati nel novembre scorso da solerti operatori commerciali cinesi all’air show di Zhuhai, nella Cina oc-

cidentale, sono rimasti scioccati dalla presentazione di ben venticinque modelli di velivoli non pilotati, e dalla proiezione di un video che mostrava la distruzione di un mezzo corazzato. Successivamente, veniva proiettata un’animazione dove si vedevano alcuni di questi droni all’attacco di una portaerei americana. I visitatori – commenta l’Herald Tribune –

ono migliaia, minuscoli come insetti o grandi come un aereo di linea e costano da qualche centinaio a decine di milioni di dollari. Sono i velivoli senza pilota, o Uav - unmanned air vehicles, che hanno trasformato il modo di condurre le operazioni aeree e che, in prospettiva, potrebbero sostituire completamente l’uomo. E svolgeranno anche ruoli non militari, dalla sorveglianza dei confini, al monitoraggio ambientale, al controllo del traffico. Perché stanno diventando sempre più intelligenti, cominciano ad ottenere un livello crescente di autonomia e con l’avvento delle macchine di nuova generazione, saranno in grado di prendere decisioni autonome per realizzare la missione assegnata, mentre svolgeranno in misura crescente compiti di combattimento, con la diffusione degli Ucav, i fratelli “cattivi”dei robot da sorveglianza e intelligence che ormai tutte le forze aeree stanno immettendo in servizio. Gli Uav sono così numerosi da creare, in aree come l’Afghanistan, seri problemi di coordinamento e gestione dello spazio aereo, dove devono operare simultaneamente aerei ed elicotteri pilotati, missili e velivoli senza pilota.

S

Solo gli Stati Uniti ne hanno in servizio qualcosa come 5.000 unità. Molti di questi velivoli hanno capacità limitate

Sopra, un drone sorovola le montagne dell’Afghanistan, dove è largamente utilizzato. A destra: un centro di comando Uav. I piloti virtuali non devono necessariamente essere dei veri piloti. Sotto, Al Awlaki, il leader di al-Qaeda ucciso in Yemen da un drone Usa due settimane fa

in termini di carico utile (sensori come telecamere diurne e notturne, radar, sistemi di visione all’infrarosso, sistemi di intercettazione delle comunicazioni), di autonomia, di velocità. Ma la tendenza in atto è volta a realizzare macchine sempre più grandi e complesse che possano restare in cielo per giorni e giorni o addirittura settimane, diventando quindi una alternativa ai satelliti da osservazione, mentre simultaneamente stanno entrando in servizio anche nuovi dirigibili, anche questi senza pilota, che promettono di restare in azione per mesi o anni. I primi passi dei velivoli senza pilota hanno visto in realtà la presenza costante di…piloti in carne ed ossa. Solo che, invece di sedere nell’abitacolo dell’aereo, i piloti degli Uav operano da terra, davanti a consolles e grandi schermi e dispongono di comandi semplificati. Grazie alle comunicazioni satellitari chi controlla gli Uav può trovarsi in una base a migliaia di chilometri di distanza dal teatro operativo. Questa è una capacità che anche la nostra aeronautica militare ha sviluppato: i nostri Uav, Predator e Reaper realizzati dalla General Atomics statunitense, hanno un controllo locale per quanto riguarda decollo ed atterraggio, che avvengono da aeroporti tradizionali in Afghanistan, ma una volta in volo i velivoli possono essere controllati da un centro di controllo che si trova in Puglia, ad Amendo-


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nologico-industriale e di sicurezza a quello più propriamente giuridico, diplomatico, etico e delle relazioni internazionali. Oggi l’impiego di questi velivoli con armamento a bordo, largamente utilizzati dagli americani, è ancora un uso esclusivo. Seguendo ed ampliando concetti di George Bush, Barack Obama è andato molto oltre, stabilendo il principio che gli Stati Uniti sono autorizzati a operare con queste armi, anche attraversando senza autorizzazione i confini di paesi amici, per uccidere in modo mirato coloro che sono percepiti come nemici. Persino se si tratta – come è successo recentemente nello Yemen con il terrorista di al-Qaeda al-Awlaki e del suo

Tutti i Paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) possiedono la tecnologia necessaria per farli volare, e con ogni probabilità anche Pakistan, Iran e Giappone hanno allora compreso che, pur essendo la presentazione di carattere marcatamente commerciale piuttosto che rigorosamente militare, il monopolio statunitense in materia di velivoli armati a pilotaggio remoto stava arrivando al suo epilogo. È solo questione di tempo. Il dibattito attuale sui droni è salito di livello, e si è ormai spostato dal settore tec-

la, dove diversi equipaggi si alternano nel corso di una missione che può durare un paio di giorni o più. Ed anzi ormai il ruolo del “pilota”diventa sempre meno essenziale e si trasforma in quello di “gestore”della macchina, perché gli Uav sono sempre più in grado di decollare ed atterrare automaticamente. Ed infatti in diversi paesi chi pilota un Uav non necessariamente ha un brevetto di pilota o magari ha un brevetto basico per un aereo da turismo. Non possono essere sostituti invece gli umani che pianificano, gestiscono la missione, i i sensori, gli occhi di cui è dotato il velivolo ed eventualmente anche le armi. E qui la novità è rappresentata dalla possibilità di “passare”al momento opportuno il controllo degli aerei senza pilota… ad aerei o elicotteri pilotati. In pratica l’aereo pilotato diventa un “capobranco”che può ricevere i dati raccolti dal velivolo senza pilota, può cambiare la rotta o la quota o la velocità dell’aereo senza pilota, può dirgli cosa cercare, dove guardare e, prima o poi, sarà anche in grado di ingaggiare un eventuale bersaglio con le armi di cui gli Uav sono spesso dotati.

Già, perché non c’è voluto molto per capire che se mantenere uno sguardo costante su quanto accade, con discrezione (gli Uav sono silenziosi, possono volare anche a quote relativamente elevate e operare di giorno come di notte e

nella maggior parte delle condizioni meteo) è importante, così come lo è trasmettere in tempo reale i dati raccolti a chi ne ha bisogno grazie a sistemi di comunicazione di vario tipo, anche satellitari (e infatti cominciano ad esserci seri problemi di disponibilità di “banda” per trasmettere tutto quanto di interesse) è altrettanto critico poter intervenire immediatamente con le armi per attaccare un bersaglio, pianificato o di opportunità, senza dover aspettare l’intervento di un cacciabombardiere o di un elicottero da combattimento. E così sotto le ali degli Uav sono spuntati missili, bombe e razzi. Per lo più sono armi “leggere”

aiutante – di cittadini americani. C’è voluto, è vero, un permesso speciale della Suprema Corte, ma lo hanno fatto. Per ora solo gli Stati Uniti si sono dotati di questa sorta di “licenza di uccidere”, che anche Israele – ricordiamo il caso di Yassin, lo “sceicco cieco”- ha utilizzato nei casi estremi. Il tema del dibattito è questo: cosa succederà se altri paesi, che già

Per ora però si parla sempre di Uav da ricognizione e intelligence, relativamente lenti e con grande “persistenza” che , se armati, possono svolgere missioni hunter/killer (cerca e uccidi), ma che non sono progettati per azioni di attacco. Questo è il ruolo che spetterà agli Ucav, cacciabombardieri senza pilota, che hanno la velocità, l’autonomia, il carico bellico e le missioni oggi svolte da aerei d’attacco pilotati. E questi velivoli, con caratteristiche stealth, potranno operare in gruppo, si scambieranno informazioni, si aiuteranno a vicenda, reagiranno alle minacce, coordineranno il loro attacco, si riforniranno in volo da

Esistono varianti elicotteristiche, e modelli che possono essere lanciati a mano, sparati da un cannone o sganciati da un altro aereo. Per essere poi recuperati con paracadute o ganci speciali perché non si vogliono provocare vittime innocenti e si cerca di andare a colpo sicuro, ma troppo spesso si è persa una occasione unica solo perché lo Uav ha scoperto i “cattivi” ma non aveva niente per intervenire. Purtroppo l’Italia, che ha Uav armabilissimi, perché identici a quelli statunitensi impiegati in Afghanistan e Pakistan, per ragioni di “pruderie” politica volano disarmati. E questo malposto buonismo talvolta è costato caro ai nostri militari finiti in imboscate o coinvolti in scontri a fuoco.

aerei cisterna e torneranno alle basi, a terra o portaerei, se necessario lasciando ai controllori umani solo il compito di supervisione e di veto all’impiego delle armi. Gli Uav poi non necessariamente avranno bisogno di piste di decollo e atterraggio: ne esitano varianti elicotteristiche, oppure ve ne sono alcuni che possono essere lanciati… a mano, oppure con specie di catapulte, o sparati da un cannone, o sganciati da un altro aereo o Uav, per essere recuperati con paracadute, oppure con specie di ganci.

possiedono una base tecnologica idonea, imitassero Usa e Israele e decidessero di fare altrettanto?

È molto probabile che prima o poi succeda, perché i vantaggi che hanno reso così attraente per l’amministrazione Obama questo tipo di operazioni sono certamente appetibili anche per altri paesi che hanno problemi di terrorismo da risolvere. Gli analisti ne elencano una cinquantina che potrebbero, se lo decidessero, essere non lontani da questo tipo di capacità. Secondo i tecnici, infatti, armare velivoli già disponibili per sorveglianza, ricognizione od altri usi, anche civili, non sarebbe certo una sfida insuperabile, se non vi è la necessità di utilizzare per operazioni lontane sistemi di comando e controllo via satellite. Per esempio, tutti i paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) già oggi possiedono la tecnologia necessaria, e con ogni probabilità anche il Pakistan, il Giappone, l’Iran e le due Coree vi sono molto vicini. E perché mai, sia pure in modo più limitato e su distanze inferiori, queste capacità non dovrebbero essere conseguite anche dai maggiori gruppi terroristi? Qualcosa prima o poi potrebbe sfuggire di mano, anche senza voler arrivare al nucleare, ai missili o, magari, alla “bomba sporca”. Nessuno, per carità, crede davvero all’utopia della guerra etica. Ma, questo ormai appare certo, la strada che stiamo percorrendo non sembra ci stia portando verso un mondo migliore.

Gli Uav hanno forme sempre diverse. L’invasione delle macchine robotiche è dunque una realtà ormai comune, al punto che ci sono moltissimi paesi emergenti o di serie b che ormai realizzano propri progetti in questo campo, sia pure elementari. E gli Uav avranno un ruolo anche senza uniforme: nelle scorse settimane ad esempio la Regione Piemonte ha provato a far volare in uno spazio aereo civile nei pressi di Cuneo ben 3 Uav di tipo diverso, due dei quali realizzati da aziende del gruppo Finmeccanica ed uno da un piccola società. I velivoli sono destinati ad un sistema di monitoraggio regionale del territorio e dei confini. Un segno della sicurezza che queste macchine stanno raggiungendo. Anche se ovviamente problemi di dentizione ancora ci sono: qualche tempo fa ad esempio un Uav militare durante un volo di prova nella costa occidentale negli Usa… scappò ai suoi piloti e se ne andò a zonzo per un po’, puntando su Washigton prima che si riuscisse a riprenderne il controllo. Cose che capitano e che non fermeranno certo l’invasione dei robot volanti. I quali metteranno fine nell’arco di un paio di decenni alle aspirazioni di chi sognava una carriera da pilota. E prima o poi, finirà anche il “mestiere” del pilota civile. Gli aerei senza pilota in futuro saranno proposti anche per i voli passeggeri.


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Il Grand Palais ospita una mostra ricca di pezzi pregiatissimi: la nascita delle avanguardie storiche raccontata in presa diretta attraverso i suoi capolavori

Tra cubismo e dollari Parigi espone la collezione di Leo e Gertrude Stein. Ossia gli azzardi di Picasso e Matisse a inizio Novecento di Nicola Fano

PARIGI. Non so se avete presente Filippo Tommaso Marinetti. Un esagitato che in un paese normale avrebbe fatto una lunga gavetta psichiatrica; se non fosse stato per i suoi danari. Ne aveva molti. E li metteva a disposizione di intellettuali e artisti nei quali riconosceva tratti e follie che suscitavano in lui qualche interesse. Vedeva un pittore bravo e diceva: ecco questo è il futurismo! Vedeva un attore di genio e diceva: ecco tu sei futurista! In fondo, se nel mondo ci si ricorda di Filippo Tommaso Marinetti non è certo per i suoi zang tumb tumb né – tanto meno – per le auliche tragedie composte in ossequio del fascismo per accedere, finalmente, alla vetta dell’Accademia d’Italia. No. Lo ricordiamo perché sovvenzionò Umberto Boccioni. E, forse, anche perché diede occasionale ospitalità economica a Gino Severini. E a qualche altro talento; che forse avrebbe fatto da sé, comunque, la propria strada. Ebbene, un discorso simile può essere fatto per Gertrude Stein che pochi anni prima di Marinetti mise i suoi soldi (o, meglio, i soldi del fratello Michael) a disposizione di almeno due pittori di assoluto genio: Henry Matisse e Pablo Picasso. E tanti altri. Al mecenatismo di Michael, Leo e Gertrude Stein è dedicata una sontuosa mostra appena aperta al parigino Grand Palais che rievoca la memorabile collezione di quadri appartenuta loro negli anni parigini: Matisse, Cézanne, Picasso, l’aventure des Stein, viene da San Francisco e a febbraio andrà al Moma di New York. Ma chi erano “Les Stein”? Arrivati nella capitale francese nel 1902 dall’Inghilterra dove avevano studiato, gli Stein erano americani di nascita e reddito: il fratello maggiore Michael (il meno eccentrico dei fratelli) gestiva in Pennsylvania un ricchissima azienda ferroviaria e provvide sempre alla agiata vita parigina dei fratelli. Senza dimenticare che comunque Leo aveva una sua propria attività di critico d’arte né i guadagni notevoli, talvolta anche notevolissimi, che Leo e Gertrude fecero comprando per niente opere che poi rivendettero a ci-

fre esorbitanti. Ciò non toglie il merito a questi singolari personaggi che alleviarono la fame di Matisse e Picasso, comprando loro quadri e disegni in stock e così di fatto consentendo lo sviluppo ardito della loro arte. Tant’è, coi soldi di Michael, Leo e Gertrude di fatto orientarono un pezzo non indifferente dell’arte mondiale del primo Novecento. Nel bene e nel male. E se il bene è chiaro (coi soldi guadagnati Matisse, Picasso, ma anche altri grandi come ad esempio Juan Gris, poterono perseguire i rispettivi azzardi mantenendo poi fede alle rispettive intuizioni), il male è più sottile, come sempre. La vita di Picasso in questi anni (la frequentazione del maestro spagnolo con la scrittrice americana, almeno nella sua fase più significativa, va circa dal 1905 agli anni Venti) è tumultuosa: poverissimo ma estremamente determinato, il pittore vive con altri sodali (la compagna Fernande Olivier, Apollinaire, Gris, poi Braque, ma anche Matisse, appunto) un’avventura artistica totalizzante, straordinaria. Il gruppo di fatto vive in una mitica casa di legno, il Bateau-Lavoir, al numero 13 di rue Ravignan, nel cuore di Montmartre e Picasso dipinge i suoi splendidi monocromi (prima azzurri poi rosa) anche per risparmiare

un paio di opere del Maestro della luce.

Ebbene, Gertrude Stein entrò con vigore nel folle contesto creativo del Bateau-Lavoir come un elefante in una cristalliera. Intanto, accrebbe fino all’eccesso la rivalità tra Matisse e Picasso (i due pittori che ella più amava), poi si preoccupò di “educare” Picasso, costruendogli amicizie e maniere che gli consentissero di “entrare in società”. Insomma, non potendo, non volendo o non sapendo intervenire sulle ragioni artistiche di Picasso, si diede da fare per modificarne almeno le abitudini esterne. È vero che da questa “educazione sociale” Picasso trasse il suo iniziale successo, quello che gli consentì di spiccare il volo nei meandri del cubismo e poi delle sue successive trasformazioni, ma non è mai semplice tracciare i confini della correttezza di certe intromissioni. Provate a immaginare: un cenacolo di artisti certi delle loro ragioni ma incompresi dall’ufficialità. Vivono di espedienti, di poche tele vendute (le meno ardite) a mercanti distratti, di credito presso i commercianti della zona o dei cibi offerti con affetto dai vicini... si presentano due americani eccentrici che cominciano a pontificare, a comprare, a disporre, a pro-

I due fratelli furono i primi a “comprare” opere ardite, mettendo a frutto le ricchezze accumulate negli Usa: la loro parabola torna a far riflettere sul rapporto fra critica e creatività sui colori. Perché la fame era elemento primario della loro creatività: ne resta una splendida testimonianza nel libro che Fernande Olivier scrisse anni dopo, Picasso e i suoi amici. Il punto di partenza di questa avventura è nella pittura di Cézanne e sono proprio Picasso e Matisse, forse indirettamente, a spingere gli Stein a comprare

grammare... E a promettere fama e fortuna, e amicizie utili, articoli sui giornali, spazi nelle gallerie che contano... Non è tutto oro, naturalmente, ma Leo e Gertrude con i soldi di Michael hanno cambiato la vita di Matisse e Picasso. C’è una singolare foto, nella mostra al Grand Palais nella quale Matisse, ormai abbastanza famoso,

pranza alla tavola imbandita degli Stein. È impressionante la sua soddisfazione mista a gratitudine: oggi non possiamo neanche lontanamente supporre come la fame sia stata il motore principale dell’arte e della creatività, in genere, lungo il corso del Novecento fino al definitivo trionfo del consumismo, negli anni Sessanta. Ma, insomma, il senso della trasformazione (e della devastazione) nella Montmartre del primissimo Novecento a Parigi è chiara. Per dire: Picasso dedicò a Gertrude Stein un ritratto celeberrimo: la scrittrice è severa, realisticamente definita (fin troppo) ma con gli occhi vuoti, due buchi neri. L’effetto è inquietante. E ancora più significativo è considerare che proprio nello stesso 1906 in cui dipingeva questo ritratto, Picasso stava cominciando a elaborare l’azzardo che lo avrebbe portato, pochi mesi dopo, alle Demoiselles d’Avignon.

La ricca mostra al Grand Palais si articola sostanzialmente in tre sale straordinarie e im-

perdibili dedicate rispettivamente ai Matisse comprati dalla famiglia Stein, ai Picasso “giovanili”e a quelli cubisti, più altre diramazioni laterali o successive. Vale soffermarsi, naturalmente, anche sugli altri acquisti nel novero del cubismo (Gris, soprattutto) e infine altri spazi dedicati alle passioni successive soprattutto di Gertrude, a partire da Francis Picabia che, pure, le dedicò un famoso ritratto (molto vanitosa, la signora: accondiscendeva volentieri a far da modella). Se Leo Stein dedicò parecchio del proprio ingegno critico alla diffusione prima dei colori di Cézanne e poi di Matisse (di quest’ultimo soprattutto finendo per gestire l’intera opera, per alcuni anni), Gertrude s’applicò soprattutto al cubismo: restano fondamentali le sue riflessioni sulla pittura degli amici di quegli anni, disponibili anche in italiano in un libriccino stampato da Adelphi e intitolato semplicemente Picasso. Del resto lei stessa – anima forte della famiglia, vera e propria front-man del gruppo – accre-


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era chiara dominatrice. Al punto che l’opera letteraria più comunemente ricordata di Gertrude Stein è proprio L’autobiografia di Alice Toklas, libro complesso e stilisticamente forse superato, ma che suggerisce una sovrapposizione (molto letteraria) tra oggetto e soggetto: esattamente come propugnavano le avanguardie dell’epoca che soprattutto si preoccupavano di modificare il senso stesso di quella percezione e di quella relazione.

Il problema è sempre quello

Qui sopra e a destra, due donne di Matisse. A sinistra, il ritratto di Gertrude Stein di Picasso (sotto un suo studio per le «Demoiselles»). Nella pagina a fianco, Picasso ritratto da Juan Gris ditò l’idea che la sua scrittura fosse una sorta di proiezione letteraria del cubismo medesimo. Provate ora a leggere i suoi romanzi e vedrete la differenza che corre tra un’opera cubista di Picasso e le pagine della Stein. Un po’ la stessa differenza che passa tra un poema sperimentale di Marinetti e uno stato d’animo di Boccioni. Con

tutta la simpatia: difficile fare i paragoni, a posteriori. In effetti la mostra del Grand Palais ha soprattutto il merito di sottolineare la figura della Stein mecenate, senza dilungarsi troppo sulla Stein scrittrice in proprio. È straordinaria, per esempio, la scultura (pur essa celebre: ce n’è una copia a Manhattan, a Bryant Park) di Jo Davidson

del Novecento: il legame tra individuo e massa. Essendo diventato conflittuale il rapporto tra uno e il (presunto) tutto, l’arte si è sviluppata sulla spinta delle invenzioni degli individui mentre c’era chi si occupava di diffondere quelle idee presso la massa. Ovviamente guadagnandoci su qualcosa per la mediazione: è la legge vincente del capitalismo che, a dispetto del povero Walter Benjamin, ha saputo trarre vantaggio anche dall’arte fregandosene della “riproducibilità tecnica” che per Benjamin avrebbe dovuto invece consentire la penetrazione gratuita delle idee presso le masse. Michael, Leo e Gertrude Stein, a livelli diversi e con diversa soddisfazione (ma anche con diversa buona fede) hanno applicato le regole del capitalismo alle avanguardie. Chi abbia vinto (se l’arte o la spinta legata alla voglia di accumulo di capitali) è difficile dirlo. Soprattutto nel momento in cui una grande, bella mostra celebra i mecenati.

Il mecenatismo favorì anche l’attività di scrittrice della Stein che si è sempre presentata come la “modella perfetta” dei suoi artisti preferiti. Anche trasferendo gli azzardi pittorici in letteratura

i che d crona

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che ritrae ancora una volta Gertrude. È l’immagine possente di una massaia mancata, una donna-chioccia che cova le meraviglie delle avanguardie artistiche. Sì, perché è bello riflettere lungo questa bella mostra sul fossato che separa chi crea e chi specula sulle altrui creazioni: è la lunga diatriba fine-novecentesca sostenuta da chi ritiene che i critici, senza l’arte su cui applicare la propria capacità d’analisi, non avrebbero senso d’esistere. Né potrebbero – senza arte – esercitare la loro propria creatività. Ebbene: il caso di Gertrude Stein è il più spinoso, giacché lei fu una sorta di eterna modella, creazione continua dei suoi artisti preferiti. E il suo stesso anticonformismo non è chiaro se fu ispirazione o frutto delle avanguardie. Resta sicura l’immagine di una Gertrude Stein si presentava negli studi poveri dei grandi artisti facendo turbinare ricchezza accanto alla propria fidanzata-segretaria-manager, Alice Toklas, una donna sottomessa alla sua padrona di cui al tempo stesso

Resta il fatto, innegabile, che per raccontare i ghirigori degli Stein s’è dovuto portare al Grand Palais le opere di Matisse, Picasso e tutti gli altri, non essendo sufficientemente attraenti né i dollari ferroviari di Michael, né i saggi critici di Leo, né i romanzi di Gertrude. Ci sarà pure una ragione. O no? E la ragione è proprio nella meraviglia di alcune delle opere qui esposte: prendete due donne di spalle del periodo blu, prendete alcuni studi per Les Demoiselles d’Avignon, prendete un paio di violini, per parlare di Picasso; o prendete una Femme au chapeau di Matisse o anche una sola delle tre nature morte di Cézanne e avrete subito la dimensione (e la motivazione) del vostro viaggio della creazione del Novecento. Certo, gli Stein non erano Marinetti, ma è bello pensare a loro solo come transitori possessori di qualche Matisse Cézanne e Picasso, così come il chiassoso accademico italiano trascolora a fonte non solo di un Boccioni, ma addirittura anche di un qualunque Futurballa!

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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