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Il futuro è come il paradiso: tutti lo esaltano ma nessuno ci vuole andare adesso James Baldwin
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 28 OTTOBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Exploit delle Borse mondiali che ”festeggiano” la decisione Ue di incrementare di 1000 mld il Salvastati
Berlusconi riunifica i sindacati Di nuovo insieme: sarà sciopero contro i licenziamenti facili Monito di Barroso: «Ora mantenete la parola». Ma Bossi già litiga con Tremonti perché si è defilato dall’accordo. Bugia del premier: «La Merkel si è scusata». Ma lei: «Non è vero niente» Parla Natale Forlani
VISTO DALL’ITALIA
VISTO DAGLI USA
Ma Bruxelles non ci ha chiesto di far pagare i soliti noti
L’Europa ha un problema: l’Unione non esiste
di Rocco Buttiglione
di John R. Bolton
roviamo a dare una valutazione equanime delle misure proposte dal governo nella sua lettera alla Commissione Europea. Ci limitiamo, per questa volta a tre punti nodali: il Mezzogiorno, il mercato del lavoro ed il pubblico impiego. Il punto di vista che adottiamo è quello della economia sociale di mercato che è il punto di riferimento non solo del Partito Popolare Europeo ma anche del modello sociale europeo. Prima di entrare nel vivo della questione dobbiamo però fare una osservazione preliminare. La lettera è firmata dal premier ma non è stata approvata dal Cdm. segue a pagina 7
atrogenesi è una parola che deriva dal greco che descrive come le condizioni di un paziente possano peggiorare a causa dei trattamenti medici che ha ricevuto. E “iatrogenesi” è esattamente la patologia che oggi affligge l’Unione Europea a causa delle sprovvedute politiche fiscali della Grecia combinate con la mancanza di volontà, da parte dell’Ue, di affrontare la realtà. Ora i leader europei si stanno impegnando per mettere in pratica un altro accordo a breve termine, simile a quello Rube-Goldberg, che possa evitare il collasso delle finanze (o persino dei governi) degli Stati membri. a pagina 6
P
«Nuovo patto sociale per rilanciare il Paese» «È un errore continuare ad andare a chiedere sacrifici solo ai lavoratori a reddito fisso. Sono diventati capri espiatori»
I
Riccardo Paradisi • pagina 4
*****
di Francesco Pacifico
Parla Fiorella Kostoris
ROMA. Un successo, Berlusconi l’ha ottenuto: dopo anni di rottura tra i sindacati da ieri Cgil, Cisl e Uil sono tornati uniti. Uniti nel minacciare uno sciopero generale contro i licenziamenti indiscriminati in cui si fa riferimento nella lettera d’intenti che il premier ha sottoscritto all’Europa. D’altra parte, nel governo non tutto fila liscio: Bossi ieri se l’è presa con Tremonti, colpevole di non aver firmato la lettera all’Europa. Ma anche dall’Europa non arrivano grandi hurrà: il presidente della Commissione, Barroso, ha auspicato che alle promesse «seguano fatti concreti». a pagina 2
«Non manterranno alcun impegno» «Flessibilità in uscita? Resterà solo un’intenzione: in Italia queste idee sarebbero anche utili, ma chi le promuove è in minoranza» Errico Novi • pagina 5
Il Papa ad Assisi alla Giornata di dialogo per la pace nel mondo
Dopo l’alluvione, in Liguria si cercano ancora i dispersi
«Verità contro Violenza»
Viaggio nell’Italia in rovina
«La religione non sia motore di odio»
Alle Cinque Terre, distrutte dall’incuria
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Marco Ferrari
incontro di Assisi spinge a una riflessione sulla pace e sulla violenza, anche di matrice religiosa. Ma è anche e soprattutto una spinta al “cammino verso la verità”, facendosi «carico insieme della causa della pace contro ogni specie di violenza distruttrice del diritto». Lo ha affermato Benedetto XVI nel discorso che ha pronunciato a conclusione della mattinata di interventi delle varie personalità religiose e non, radunati per la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo. Il pontefice ha sottolineato che nel mondo attuale la pace è messa a rischio da due tipi di violenza: «Quella che fa uso della religione e quella che deriva dall’assenza di Dio». a pagina 10
na costa sfigurata, privata della sua bellezza, che sembrava eterna. Così appaiono dal mare Monterosso e Vernazza. L’Italia che si sgretola, che non regge l’urto delle piogge: dalle Cinque Terre a Pompei emette un solo grido d’allarme. I battelli salpano dalla banchina della Spezia con regolarità, due la mattina e due il pomeriggio. Non sono carichi dei soliti turisti americani avidi di sentieri di agavi ma di pacchi di pasta, medicinali, pane e bottiglia d’acqua. Raggiungono un paradiso perduto, le Cinque Terre. Sembra di essere tornati indietro di centocinquant’anni quando la ferrovia non esisteva e le strade collinari erano solo mulattiere sconnesse e dissestate. a pagina 8
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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
U
210 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’Italia È durata solo lo spazio di una notte la soddisfazione internazionale per gli impegni presi dal governo
Nessuno firma la lettera
Barroso dice: «Ora servono i fatti». Bossi se la prende con Tremonti. I sindacati annunciano lo sciopero e nasce una nuova fronda nel Pdl il retroscena di Francesco Pacifico
ROMA. Non si sa Silvio Berlusconi riuscirà a far ripartire l’Italia. Quel che è certo è che – con i provvedimenti annunciati all’Europa da qui al prossimo quindicennio – ha già ottenuto un risultato inaspettato fino a qualche giorno fa: unire i sindacati confederali, soprattutto sull’ipotesi di uno sciopero generale mai gradita da Raffaele Bonanni e Luigi Angelletti. Nel mirino ci sono soprattutto i progetti del governo per aggirare i paletti contro i licenziamenti e introdurre la cassa integrazione nel settore pubblico. Cioè la categoria più colpita dalle ultime manovre tra blocchi delle assunzioni, congelamento degli aumenti e prelievi straordinari sui redditi più alti. Il principale bacino di iscritti e di consensi per la Cisl. Così nel giorno in cui Susanna Camusso si accontenta di bollare il governo come «incapace di agire e di decidere, ma soltanto in grado di prendere ordini», sono Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti a sfoderare la minaccia dello sciopero generale. Perché – dice il leader Cisl – «cambiare l’assetto dei licenziamenti senza il consenso delle parti sociali. Ci sembra una provocazione mentre il Paese ha bisogno di coesione». Così nel centrodestra l’imperativo non è più soltanto quello di restare attaccati alle poltrone di
Il presunto «giallo» dello scambio di parole tra Berlusconi e la Merkel
«Angela mi ha chiesto scusa». «No, non ce n’era ragione» ROMA. Chiamiamolo un giallo. Quello delle scuse (smentite) di Angela Merkel a Berlusconi è il caso che ha tenuto banco ieri, scatenando ire, ironie o supposizioni in tutti coloro che da qualche giorno vivono con l’incubo della risatina di Merkel e Sarkozy ai danni del povero Berlusconi. Il fatto, detto in due parole, è il seguente: dopo la riscrittura da parte degli sherpa europei della lettera che impegna il governo italiano a una sorta di rivoluzione liberista, Bruno Vespa ha allestito un sontuoso salotto per festeggiare il premier. In questo contesto, Berlusconi ha rivelato che prima del vertice aveva «parlato con la Merkel: insistito sul fatto che non aveva nessuna intenzione negativa nei nostri confronti e anzi mi ha chiesto scusa». Unico neo del vertice, il fatto che Berlusconi non avesse ricevuto le scuse di Sarkozy: «Non c’è niente da fare – ha detto sempre in tv- il presidente francese è arrabbiato perché Bini Smaghi non si dimette dal board della Bce… e invece dovrebbe proprio dimettersi!», ha concluso bonariamente il premier.
Mentre gli intellettuali del premier studiavano altri colpi mancini all’indirizzo del presidente francese (il quotidiano da guerra di Giuliano Ferrara, per esempio, ha addirittura pubblicato due foto gemelle che smascherano la somiglianza galeotta tra Sarkozy e Stan
Laurel!), il clima generale tra i famigli del premier era comunque di grande soddisfazione. Forse la Merkel non sarà una venere, come ripete il Cavaliere, ma almeno sa stare al suo posto... Se non fosse che nella notte è arrivata la smentita: le scuse se l’è inventate Berlusconi. Nel senso che Steffen Seibert, portavoce di Angela Merkel, ha spiegato che «non ci sono state scuse, perché non c’è nulla di cui scusarsi». Il problema è che la smentita è arrivata via Twitter, strumento di comunicazione cui forse non tutti sono avvezzi, qui da noi. Magari non è tra i preferiti degli intellettuali del premiere... Comunque, con garbo, Steffen Seibert aveva aggiunto, comunque, che Berlusconi e Merkel «hanno avuto un colloquio buono e franco fra amici»: evidentemente in Germania conoscono le regole della diplomazia meglio che da noi. Resta il fatto che sovente il nostro premier scambia i suoi desideri con la realtà e quindi non è improbabile che il «giallo» - continuiamo a chiamarlo così… - sia più facile da risolvere di quanto non sembri. Nessun mistero, invece, sulla diatriba tra il premier e la Francia, invece: nessuno a Parigi ha smentito il fastidio per la permanenza di Bini Smaghi nel board della Bce, solo è arrivata una nota di disappunto da parte del presidente per una questione di forma: «Non so se la tv sia il modo migliore per far passare il messaggio».
governo. Ma di non passare la fine del mandato – e sempre che non si andrà a elezioni anticipate – gli ultimi anni del mandato sotto scacco della piazza. Il clima è sempre più pensante. In Transatlantico girano voci su un documento di deputati scontenti del Pdl che chiedono al premier un passo indietro. «Ma noi non c’entriamo», dichiara lo scajoliano Paolo Russo. Mentre lo scontento per eccellenza, Giulio Tremonti, fa sapere tramite i suoi uffici di non aver firmato la lettera d’intenti indirizzata a Bruxelles, perché non tecnicamente previsto, ma di condividere un documento, con norme impegnative e di difficile attuazione. Di conseguenza anche nel via libera della Ue al piano si sottolineano soprattutto le postille di José Manuel Barroso. Il presidente della Ue ha ribadito che «ora sarà importante verificare l’attuazione degli impegni» e che «la lettera contiene impegni formali, che il governo ha preso a seguito di contatti con delle forze di opposizione». Il clima è pesante: il consenso di Berlusconi crolla a picco, il Pd sembra meno vincolato di un tempo alle richieste dell’Europa, gli imprenditori e settori delle partite sembrano più propensi a dialogare con la Cgil. E la mente corre al 1994, quando più dell’avviso di garanzia della procura di Milano fu lo sciopero generale proclamato da Sergio Cofferati
la crisi italiana
28 ottobre 2011 • pagina 3
l’Europa
Le Borse brindano ai 1000 miliardi Nuovo, cospicuo stanziamento per il “Salvastati” e via libera al prestito bis per la Grecia ROMA. Con la nuova governance José Manuel Barroso tira un sospiro di sollievo: «Oggi l’Europa è più vicina alla soluzione della crisi finanziaria». Ma i mercati – più prosaici e più cinici – ieri hanno brindato a loro modo, perché è più basso del previsto il livello di ricapitalizzazione chiesto alle maggiori banche: 106,447 miliardi di euro il conto presentato dall’Eba contro il doppio ipotizzato dal Fondo monetario. E infatti si registrano un +5,15 per cento a Atene (dove le banche devono trovare 30 miliardi di ricapitalizzazione), +4,96 a Madrid (26 miliardi), + 5,49 a Milano (14,8 miliardi), +6,28 a Parigi (8,8 miliardi), +2,61 a Lisbona (7,8 miliardi) e + 5,35 a Francoforte (5,2 miliardi). Mentre l’euro segna un rimbalzo sul dollaro a 1,4148 e gli spread tra il Bund tedesco e i Btp italiani, i Bonos spagnoli e i francesi Oat si ridimensionano – anche per l’intervento della Bce – rispettivamente a 360, 325 e 89,4 punti base.
In attesa delle prossime mosse (il lancio degli Eurobond e le modifiche ai Trattati chiesti dalla Germania) proprio un approccio morbido sul rafforzamento del credito ha permesso un più ampio accordo sulle difese contro la speculazione, che l’Europa si dà con almeno un anno di ritardo: gli istituti dovranno trovare meno risorse per ricapitalizzarsi, ma in cambio accentano una minusvalenza del 50 per cento sui titoli di Stato greci posseduti. Questa sorprendente responbilizzazione permette alla Merkel di acconsentire al Fondo Salva Stati sia di estendere con leva finanziaria fino a 5 volte il suo patrimonio – e portare a mille miliardi la propria potenza di fuoco – sia di iniettare fondi direttamente nelle economie più deboli, che verranno usati per contro la riforma delle pensioni a licenziare il Cavaliere. Per questo rende la situazione ancora più ingestibile il gelo nei rapporti con Raffaele Bonanni. Cioè con l’uomo che in questi anni ha garantito al governo la coesione sociale, frenando le proteste degli statali e lasciando macerare la Cgil nello sterile isolamento voluto da Guglielmo Epifani. Si sono interrotte le linee di dialogo tra l’esecutivo e via Po assieme con la fine dei rapporti tra il segretario della Cisl e il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi: entrambi pensano che l’altro l’abbia tradito sulla querelle dell’articolo 8 pro Fiat. E si registra una certa freddezza anche tra il sindacalista abruzzese e Giulio Tremonti, dovuta forse all’indebolimento del ministro. Eppure il governo, se vuole facilitare i licenziamenti durante gli stati di crisi e ridur-
ricomprare bond spazzatura. Una serie di misure che potevano essere prese anche nei mesi scorsi e che avrebbero fatto risparmiare ai Paesi europei i circa 200 miliardi che si sono bruciati tra minore capitalizzazione delle Borse e maggiori interessi sul servizio. Un castello quasi perfetto che ottiene il plauso dei mercati, ma che reggerà soltanto se la Bce continuerà a spalleggiare le economie dalla crescita più debole, come Italia e Spagna. Ed è proprio questa la maggiore incognita sul futuro gli accordi presi dai governi europei nella notte tra mercoledì e giovedì. Nel suo ultimo discorso da governa-
Ricapitalizzazioni minori del previsto (solo 106 miliardi) per gli istituti bancari del Vecchio Continente tore di Bankitalia, Mario Draghi ha garantito una continuità all’Eurotower sulle misure non convenzionali, per «evitare che i malfunzionamenti sui mercati monetari e finanziari ostacolino la trasmissione monetaria». Parole che però non chiariscono fino a quando l’Eurotower continuerà a supportare le aste di Italia e Spagna: fino a quando non saranno operativi i nuovi meccansimi di difesa – come sarebbe pronta a concedere Angela Merkel – oppure fino a quando il Vecchio Continente tornerà a crescere a ritmi adeguati? Il quesito è dirimente per comprendere se porterà i suoi effetti l’ampliamento dell’Efsf. I meccanismi studiati dai leader dei Ventisette prevedono che il suo capitale sarà portato a 1000 miliardi at-
re il personale del pubblico impiego che assorbe l’80 per cento della spesa burocratica, sa che deve passare da via Po. Un po’ paventando le degenerazioni della piazza, un po’ riconoscendo modifiche alle leggi sui licenziamenti collettivi economici (quelle sì, senza reali tutele per i lavoratori), è su tutto questo che la maggioranza sta lavorando per fare pressioni sulla Cisl.
Quel che è certo è che il governo non ha la forza e la voglia di intaccare la giusta causa per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori e quelli disciplinari. Sul versante invece delle interruzioni di rapporto di natura economica la strada è quella di rafforzare l’istituto del risarcimento economico, come ventilò ai tempi della riforma che porta il suo nome, il giuslavorista Marco Biagi e
traverso due strumenti: da un lato saranno emesse polizze con garanzie fino al 20 per cento per le emissioni di titoli di debito dei paesi sotto attacco dei mercati, dall’altro, verranno creati uno o più fondi veicoli (Special purpose vehicles), che forti delle garanzie potranno giovarsi delle garanzie dell’Efsf raccoglieranno investimenti a livello internazionale, da girare poi alle economia dei Diciasette più deboli anche per comprare titoli di Stato di vecchia emissioni. Va da sé che è più raggiungere questi obiettivi – garantire i bond con maggiore rischio e convincere la Cina e gli altri emergenti a investire sul debito europei – se c’è la Bce all’occorrenza ad assorbire tutti titoli, che altrimenti sarebbero poco appetibili per i mercati. Non a caso il numero uno del fondo, Klaus Regling, già oggi è atteso a Pechino per illustrare le possibilità d’investimento. In quest’ottica va letta una telefonata fatta ieri da Nicolas Sarkozy al premier cinese Hu Jintao. E attraverso un portavoce del ministero degli Esteri l’ex Impero di mezzo auspicano «che l’intesa riporti la fiducia sui mercati» e si dice «pronto a cooperare con l’Europa sul fronte finanziario, commerciale e degli investimenti». Più attendista il vicino Giappone. Il ministro delle Finanze, Jun Azumi, ha fatto intendere che finché il ruolo della Bce resterà fumoso, Tokyo «esclude l’ipotesi di acquistare euro come strumento per finanziare gli investimenti nel fondo Salva-stati europeo».
All’implementazione del futuro meccanismo, alla conseguente capacità del Salva Stati di allentare la pressione sul debito sovrano, è legata anche la sostenibilità delle banche
la Confindustria di Antonio D’Amato. Spiega Maurizio Castro, senatore del Pdl e storico collaboratore di Biagi: «L’articolo 18 non protegge il 75 per cento dei lavoratori italiani. Chi ne usufruisce finisce per il 93 per cento dei casi a chiudere un accordo di natura economi-
europee. I maggiori istituti hanno avallato il taglio del 50 per cento del debito greco in loro programma, in cambio di due condizioni: uno stanziamento di 30 milioni da parte pubblica nel per ammortizzare gli effetti dell’hair cut, la possibilità di poter bussare di nuovo alle porte dei propri governi, per avere attraverso i veicoli speciali dell’Efsf, quelle risorse che non si riescano a recuperare sul mercato. Ma a ben guardare le raccomandazioni pubblicate ieri dall’Eba, si nota una “clausola di salvaguardia” strappata dai colossi del settore: «Il capitale bancario addizionale richiesto agli istituti di credito europei per coprirsi dal rischio sul debito sovrano ha natura temporanea e varia a seconda del livello dei prezzi dei titoli di stato sul mercato secondario». I 106,4 miliardi che il settore deve recuperare potrebbero anche diminuire sempre, perché legati all’andamento dei corsi dei titoli di Stato sul mercato secondario. E per questo che ieri la speculazione faceva incetta di titoli bancari. E continuerà a farlo fino a quando i grandi istituti non dovranno ammettere un taglio ai dividendi per i propri azionisti. (f.p.)
aumentare i risarcimenti che oggi, secondo le leggi 223 e 108, valgano meno di sei mensilità e rafforzare il ricollocamento con azioni di outplacement più incisive. A frenare invece la stretta sugli statali ci sono le carenze in organico degli uffici e l’assenza
«La lettera del governo è un patto scellerato sottoscritto tra Berlusconi e Bossi che in cambio della libertà di licenziamento non mette mano alla riforma delle pensioni», ha commentato Casini ca, perché i procedimenti durano almeno sette anni. Fuori da questi confini non ci sono tutele. Ed è su questo che dobbiamo lavorare». A quanto pare la soluzione è quella di estendere le tutele e gli ammortizzatori sociali ai lavoratori licenziati per causa soggettiva, soprattutto quelli collettivi: si vogliono
di dialogo tra il ministro competente, Renato Brunetta, e i rappresentanti della categoria. C’è chi dice che l’inquilino di Palazzo Vidoni possa mobilitare l’opinione pubblica, chiedendo se non sia inaccettabile la disparità tra il mezzo milione di dipendenti del privato in cassa integrazione e il tratta-
mento riservato nel pubblico impiego. In realtà si vuole soltanto incrementare l’uso della cosiddetta messa a disposizione: cioè la mobilità obbligatoria per collocare i lavoratori in esubero (chi rifiuta il trasferimento viene licenziato dopo 24 mesi). Ma per farlo si dovranno prima modificare le pianta degli organici. A peggiorare la situazione anche la necessità di trovare le risorse per sovvenzionare le misure espansive da inserire nel disegno di legge sullo sviluppo. All’interno del Pdl si sarebbe saldata un’alleanza tra alemanniani e il gruppo dei berluscones di Crosetto per accelerare sulle sanatorie – in primis il concordato fiscale studiato da Maurizio Leo – per recuperare almeno dieci miliardi. Ma da Bankitalia consigliano di «essere cauti’ nell’utilizzo dei condoni».
la crisi italiana
pagina 4 • 28 ottobre 2011
NATALE FORLANI
«Un nuovo patto sociale per rilanciare l’Italia» di Riccardo Paradisi l primo effetto dell’annuncio sui licenziamenti facili contenuto nella lettera d’intenti del governo all’Europa è stato quello di ricompattare immediatamente la triplice sindacale. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni supera in durezza di reazione la Cgil di Susanna Camuso: «La norma istituita dal Governo è una vera e propria istigazione alla rivolta. I licenziamenti facili dettati da motivi economici si abbattono solo sui più deboli e rappresentano un danno per il comparto del lavoro».
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Natale Forlani, già segretario confederale della Cisl e attualmente direttore generale del dipartimento immigrazione al Welfare, ragiona con liberal su questa prospettiva di riforma del mondo del lavoro che il governo avrebbe intenzione di realizzare entro il maggio del 2012. Sempre che questo governo ci sia ancora, chiaramente e sempre che abbia la forza di mettere in atto un provvedimento che sta già provocando una generale levata di scudi. «Parliamoci chiaro – dice Forlani – è evidente che un’azione in senso riformista nel lavoro va fatta, nessuno può immaginare che le cose possano rimanere così. Anche perché le estreme tutele garantite a quelli già protetti dall’articolo 18 lasciano scoperti e senza tutela l’altra metà del cielo del lavoro, soprattutto giovani precari e flessibili che non hanno nessun ammortizzatore. E siccome la coperta è corta una soluzione si deve pur trovare». «Ovvio, l’approccio giusto sarebbe aumentare la flessibilità del sistema lavoro sanando lo squilibrio delle attuali asimmetrie regolative senza penalizzare gli insider, senza cioè spalancare per loro le porte alla non occupazione». Il dato che ora rileva però Forlani è che se tu hai uno squilibrio tra tutelati e non tutelati il mercato si rifà su quelli che le tutele non ce l’hanno. «Del resto questo file è aperto dai tempi del libro bianco di Biagi mica da oggi. E il libro bianco è rimasto monco. Per non penalizzare gli insider, per non aver trovato una soluzione di sintesi, si è finito con l’esasperare la flessibilità. Che però, attenzione, qualche risultato l’ha dato. Dopo la Treu e la legge Biagi i posti di lavoro sono aumentati di tre milioni e mezzo. Poi certo con la crisi un trend che aveva comunicato ad essere positivo si è invertito. Questo flusso a termine s’è poi arenato con la crisi». Venendo al punto sui cosiddetti licenziamenti facili: insomma noi il problema dell’eccessiva rigidità del mondo del lavoro dobbiamo affrontarlo. Cum grano salis. Sicché puoi anche decidere, come consiglia Ichino che chi è entrato con l’articolo 18 resterà tutelato da quello scudo come diritto acquisito ma alle successive contrattazioni ti apri a una dinamica europea. E attenzione: nella normativa europea tu non puoi licenziare in maniera discriminatoria ma è tuttavia possibile sciogliere il rapporto economico per motivi economici previe delle indennità importanti, soprattutto in Germania, dove il ricollocamento di lavoratori ultracinquantacinquenni è assistito da aiuti di stato considerevoli.
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Questa cultura diffusa in Europa è uno dei motivi per cui negli altri Paesi lo sbalzo generazionale italiano è molto attenuato». Insomma servirebbe uno sguardo d’insieme, una strategia d’intervento il più possibile armonica e globale, che abbia la capacità e la forza persuasiva di coinvolgere culturalmente le parti sociali e politiche. Solo che, nota Forlani con realismo: «Niente di quello che verrà nella congiuntura attuale rientra nel riformismo di lungo respiro. La realtà è che fino ad oggi per colpa di veti incrociati, immobilismo abbiamo perso tempo prezioso. Ora siamo in emergenza e in emergenza le cose si fanno come si possono fare. Però bisogna stare molto attenti a un errore che può essere fatale, quello di prendersela sempre coi soliti capri espiatori che sono i lavoratori a reddito fisso e le pensioni di anzianità. Insomma devi creare un approccio culturale politico coerente. Non si possono chiedere sacrifici solo a quelli che hanno lavorato 40 anni. Se fai questo e poi, per dire fai i condoni, è chiaro che crei tensione ed esasperazione sociale. E non puoi nemmeno chiedere lacrime e sangue se non dai l’esempio. Se non combatti seriamente l’evasione fiscale e fai emergere il nero, se non abbassi i costi della politica e non asciughi il sistema a tre livelli: Stato, regionalità e municipalità. Quello che è sicuro è che noi non possiamo andare avanti con un rapporto tra gruppi organizzati e politica. È bene che noi ci abituiamo al fatto che non siamo soli nel mondo. Siamo il tre per cento della popolazione mondiale. Non la settima potenza mondiale che nessuno toccherà». Sarebbe meglio insomma che si avviasse una fase di ripensamento del modo di fare politica e concertazione sociale che parta dal pressuposto che i tempi sono cambiati, a cominciare dal dato che le casse dello Stato sono in rosso: «per affrontare questo cambiamento devi rivisitare il modo in cui tu stai in campo, chiedendo che anche al cosiddetta controparte faccia il suo ma senza esimerti dalla presa d’atto della realtà».
È un errore andare a chiedere sacrifici ai lavoratori a reddito fisso. Alla fine sono sempre loro i capri espiatori
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Ma come si diceva ora si è in una fase d’emergenza: «Quello che dispiace – dice Forlani – è che in questo parlamento c’era una commissione Lavoro -che poteva fare questa operazione in maniera bipartisan, penso a Ichino, Cazzola, Castro. Invece dobbiamo portare a regime ancora il libro bianco del 2001. E noi siamo ancora li. E rischiamo di rimanerci a lungo ancora. Non si riusciranno a fare le riforme senza un clima di coesione sociale e con i veti incrociati che attraversano entrambi gli schieramenti. Queste contraddizioni sono figlie d’una generazione politica che pensa lo Stato come arbitro supremo della concertazione generale. Non ha preso atto che lo stato non è più quello che conoscevamo vent’anni fa. Non è un caso che la governance della finanza, come dice la Chiesa cattolica, deve essere oggi mondiale. Ma la politica nazionale ha un ritardo d’elaborazione impressionante».
Due esperti a confronto
Licenziare: chi, quando, come?
28 ottobre 2011 • pagina 5
FIORELLA KOSTORIS
«Nulla di tutto questo, alla fine, sarà fatto» di Errico Novi
ROMA. C’è un precedente che dovrebbe suggerire il finale della storia. «È quello del 2001.Il governo Berlusconi provò già allora a modificare le norme sui rapporti di lavoro, senza riuscirci. Non ci riuscirà neanche stavolta». Fiorella Kostoris non ha dubbi. Condivide l’impressione che l’impegno di intervenire sui licenziamenti sia riconducibile alla categoria del velleitario. Perché «in Italia non siamo maturi per riforme simili. Alla fine i mercati ci colpiranno». L’economista della Bocconi non giudica negativamente la svolta sull’articolo 18 compiuta dall’esecutivo con la lettera d’intenti presentata l’altro ieri sera. Ma teme appunto che «resterà una lettera d’intenti e ci avvicineremo sempre più al fallimento». Ma l’idea stessa di avventurarsi in riforme simili, sotto la pressione ultimativa dell’Europa, non ne pregiudica la corretta realizzazione? Guardi, non credo si possa dire che il governo Berlusconi si proponga un simile obiettivo solo perché costretto dall’Europa. Casomai è un’aspirazione mai realizzata. Quindi l’analisi va capovolta: non ci sono riusciti nel 2001 e cercano di approfittare ora di questa sollecitazione che proviene da Bruxelles. La perplessità casomai è un’altra. Quale? Far approvare una legge sui licenziamenti è difficile. Non credo riusciranno nell’intento. È vero, c’è una proposta di legge che addirittura ridisegna il diritto del lavoro e lo semplifica che ha un senatore del centrosinistra, Piero Ichino, come primo firmatario. Ma Ichino rappresenta se stesso. L’opposizione è un’altra cosa. Quindi nessuna possibilità che una legge del genere vada in porto. Ci sono troppe persone che non ne vogliono sapere. Sia nella maggioranza che nell’opposizione. Diciamo pure che in Italia non c’è la maturità necessaria per modernizzare le regole. Però una revisione delle norme sui licenziamenti andrebbe accompagnata con una cornice di interventi sulla formazione, la flex security. Ma in parte questi strumenti già esistono. Ci sono, c’è la cassa integrazione. A cui molte imprese hanno già fatto ricorso nel biennio più difficile della crisi, cioè tra il 2008 e il 2009. E altre ancora se ne servono. Quindi a suo giudizio non manca nulla? Vede, quello che manca è la condivisione di un principio: ossia che tra la giusta causa di licenziamento possa esserci anche una causa meramente economica. Sono troppo poche le persone consapevoli in Italia, in grado cioè di chiedersi senza pregiudizi quale sia la circostanza in cui ha senso licenziare: deve esserci per forza una flagranza, cioè magari un dipendente colto con le mani nella cassa? O magari nel letto della moglie del capo? O piuttosto de’essere anche prevista la possibilità di licenziare per un’azienda che non può farcela a mantenere una certa forza lavoro altrimenti chiude? Insomma, lei considera giusto aver inserito quel passaggio sui licenziamenti nella lettera alla Ue. Ma appunto resterà una lettera d’intenti. Credo che
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sia un’idea giusta. E se mi chiede se ritengo che si tratti di una misura funzionale alla crescita, le rispondo di sì. Ma aggiungo anche che in Italia chi la pensa così è in minoranza. Spieghi perché considera giusta questa idea. Pensiamo a come hanno dovuto ristrutturarsi le aziende in questi ultimi anni. Molte hanno fatto ricorso alla cassa integrazione, hanno cioè utilizzato gli ammortizzatori sociali nella fase più critica. Nel 2010 si è vista una ripresa e una parte di queste aziende è riuscita a riassorbire chi era stato messo in cassa integrazione. Addirittura c’era la possibilità di assumere nuovi dipendenti. Ma il ricorso a contratti a tempo indeterminato è stato bassissimo. Perché farlo comporta il rischio oggettivo di rimettere l’azienda in pericolo: se ritorna una nuova fase negativa sei al punto di partenza: non puoi licenziare. E allora si preferisce ricorrere ai contratti a progetto, a forme di collaborazione o di assunzione a tempo indeterminato, pur di sfuggire al pericolo di vincolarsi. Ma questo governo è in grado di gestire processi di cambiamento così delicati? Non è che iper il fatto di aver commesso tanti errori si debba per forza giudicare sbagliata questa particolare posizione del governo Berlusconi. D’altronde si tratta di misure che incontrano il favore di settori pur minoritari del centrosinistra: penso a Ichino, a Treu. E in ogni caso credo sia sbagliato che in Italia ci sia un 80 per cento di lavoro dipendente con garanzie impossibili da ridiscutere e un 20 per cento che non ne ha affatto. E quindi come può finire questa storia sulla quale ci siamo esposti in Europa? Male. Nel senso che è in gioco il fallimento del Paese. Adesso c’è l’acquisto dei titoli di Stato da parte della Banca centrale europea. Ma non si dimentichi che gli aiuti arrivano a condizione che in cambio si dia qualcosa. Non a caso proprio dalla Bce è arrivata la lettera del 5 agosto. Nella stessa direzione sono andate le pressioni di Barroso e Van Rompuy. E sempre per questo motivo è arrivata la lettera del governo italiano di due giorni fa.Visto che far approvare una legge sui licenziamenti sarà impossibile, ci avvicineremo sempre più al fallimento. C’è il rischio di una forte mobilitazione dei sindacati. Tanto più che con la materia dei rapporti di lavoro l’esecutivo ha messo sul tavolo anche la mobilità degli statali. Guardi, anche qui, andrebbe chiarito che nella manovra il governo ha fatto cose assai peggiori sugli statali e non si è ribellato nessuno. Penso al blocco egli stipendi che non fa distinzioni tra chi lavora bene e chi non fa nulla e disattende la riforma Brunetta. Su quello però i sindacati non hanno fatto nulla. Si mobilitano adesso, certo sollecitati anche dalle misure sulla mobilità. Peraltro funzionali a criteri di efficenza e di equità. Ma sono d’accordo sul fatto che la concomitanza dei provvedimenti provocherà tensioni fortissime. Mobilitazioni ispirate alla solita posizione di conservazione, che pregiudicheranno il nostro futuro.
Flessibilità in uscita? Resterà una lettera d’intenti. In Italia queste idee sarebbero utili ma chi le promuove è in minoranza
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la crisi italiana
I leader continentali hanno provato a creare un polo alternativo agli Stati Uniti e hanno fallito. L’opinione dell’ex ambasciatore all’Onu
L’illusione d’Europa
L’Eurogruppo doveva accettare il fallimento greco e ripartire da nuovi e più restrittivi standard economici e finanziari. Hanno scelto di curare un paziente terminale e i risultati sono questi. Ora nel mirino c’è l’Italia: dimostri quanto vale atrogenesi” è una parola che deriva dal greco che descrive come le condizioni di un paziente possano peggiorare a causa dei trattamenti medici che ha ricevuto. E “iatrogenesi” è esattamente la patologia che oggi affligge l’Unione Europea a causa delle sprovvedute politiche fiscali della Grecia combinate con la mancanza di volontà, da parte dell’Ue, di affrontare la realtà.
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Ora i leader europei si stanno impegnando per mettere in pratica un altro accordo a breve termine, simile a quello Rube-Goldberg, che possa evitare il collasso delle finanze (o persino dei governi) degli Stati membri. Che possa funzionare a lungo la condivisione dei rischi e dei costi della malagestione greca e di quella di altri Stati è tutto da dimostrare. I terremoti continui che colpiscono le finanze europee sono direttamente collegabili ad alcuni difetti di base che si trovano alle fondamenta del “progetto europeo”. Non soltanto la valuta comune (l’euro) è difettosa nei concetti e nelle struttu-
di John R. Bolton re, ma anche il sogno politico più allargato di fare dell’Europa un polo alternativo agli Stati Uniti sul palcoscenico internazionale si è dimostrato un errore. I leader politici europei hanno più volte cercato di rendere il “campo base” di Bruxelles la sede di quel governo centrale necessario per creare un polo alternativo, ma la media dei cittadini europei non ha mai ritenuto fondamentale questo obiettivo. Al contrario, l’elettorato di sempre più nazioni europee – e non soltanto gli euroscettici di lungo periodo, i britannici – è divenuto sempre più dubbioso. Ogni sforzo compiuto dai centralizzatori europei al fine di superare i difetti del loro progetto non ha fatto altro che rendere più evidente che a Bruxelles si prendono decisioni basate su una scarsissima, se non addirittura inesistente, legittimità democratica. Inoltre, i goffi compromessi tipici dei dirigenti europei hanno creato invariabilmente istituzioni mastodontiche e inadeguate, che non hanno fatto altro che opporsi
ancora di più alla media della popolazione europea. L’attuale crisi dell’euro ha riportato alla luce questo continuo antagonismo fra leader con pretese globali e cittadini che vogliono semplicemente politici che, tramite processi democratici, prendano una strada proporzionata alle possibilità. Le decisioni che l’Europa ha preso riguardo i problemi dell’euro sembrano a un osservatore straniero complicate e arcane, ma il problema alla base di tutto è semplice. L’incapacità greca di ripagare i propri debiti ha
Prima l’Esfs, poi il “veicolo speciale”. Tutti rimedi inutili alla malattia
fatto emergere le politiche fiscali stravaganti di altri membri europei (Spagna, Irlanda, Portogallo e Italia). Di conseguenza, se la Grecia fallisse la crisi inevitabile di fiducia che ne seguirebbe potrebbe scatenare scosse mortali in tutta l’Eurozona, mettendo in serio pericolo l’intera economia continentale.
Invece di riconoscere che un fallimento greco, per quanto arduo, è l’unica maniera responsabile per trattare con un membro irresponsabile, i leader europei hanno cercato per quasi due anni di evitare l’inevitabile. Hanno cercato ovunque fondi per permettere alla Grecia di ripagare le proprie obbligazioni a breve termine. E per evitare futuri problemi causati dai nuovi debiti che si impilano ad Atene, la Grecia dovrebbe intraprendere delle dolorose misure di austerità che avrebbe dovuto applicare in maniera drastica diversi anni fa: in questo modo avrebbe evitato la crisi attuale. Sfortunatamente non esiste
tutto questo denaro, quindi l’Europa ha deciso di imporre alle banche private di tagliare il proprio profitto sui bond greci. Ma questo è un default in tutto il mondo, tranne che in Europa. Al momento è l’Italia l’economia più grande sotto la pressione della finanza internazionale, e i leader europei si stanno concentrando per convincere Roma a cambiare in maniera sostanziale la propria politica fiscale. Resta da vedere se l’Italia lo farà. Se le banche private vengono costrette ad accettare perdite così elevate, allora vuol dire che il debito sovrano che hanno in cassa vale ancora meno di quello che si pensa. E quindi la ricapitalizzazione delle banche è a rischio; servono enormi, nuovi capitali oppure una drastica riduzione fiscale per far tornare la finanza al suo ruolo di motore economico. Ancora una volta, non bastano i denari: quindi i leader europei hanno cercato nuove fonti prima usando la Banca centrale europea, poi un “Fondo di stabilità finanziaria” e oggi con un “veicolo speciale” che sia una “protezione” contro futuri fallimenti. Perché qualcuno do-
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Licenziamenti, Mezzogiorno, pubblico impiego: tutti i limiti degli impegni presi in Europa
È soltanto una lettera di sogni (e pagano sempre i soliti noti)
Il governo si impegna a smantellare il mercato del lavoro senza dire in che modo vuole ricostruirlo. E soprattutto con quali fondi potrà farlo di Rocco Buttiglione segue dalla prima Impegna solo la responsabilità personale di Silvio Berlusconi ma non quella della coalizione che lo sorregge. È sufficiente? Si tratta di misure controverse e difficili sulle quali (se veramente si ha intenzione di realizzarle) bisognerà affrontare una battaglia difficile in Parlamento e nel Paese. È in grado questa maggioranza di vincere questa battaglia? E, per di più, è davvero impegnata a farlo? Al primo punto la lettera mette la questione del Mezzogiorno. È sicuramente da approvare il proposito di centralizzare l’uso dei fondi europei, come si è fatto in Spagna. Le regioni si sono dimostrate di fatto inefficienti nella gestione di queste risorse, disperse in troppe opere che non hanno creato centri di sviluppo capaci di proseguire con le proprie gambe anche dopo la fine del sostegno europeo. Sì alla centralizzazione, per fare poche cose forti, capaci di spingere davvero lo sviluppo. Per esempio le grandi reti infrastrutturali materiali (autostrade, ferrovie, porti ed aeroporti) ed immateriali (centri di ricerca avanzata, punti di eccellenza universitaria). Non possiamo invece affatto essere d’accordo con la «riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale dei programmi comunitari». Oggi (grosso modo) per ogni euro di finanziamento europeo c’è un euro di finanziamento nazionale. Sostanzialmente quello che qui si propone è di sottrarre lo stato al suo dovere di cofinanziamento e quindi di dimezzare le risorse destinate allo sviluppo. In questo modo lo stato si sottrae al dovere di solidarietà e di impegno per l’integrazione nazionale italiana. L’Europa contribuisce in nome della solidarietà europea e l’Italia non contribuisce in nome della solidarietà italiana. È esagerato dire che si tratta di una misura antimeridionale, antinazionale ed anti italiana?
Veniamo al mercato del lavoro. Preliminarmente bisogna notare come il governo ha scambiato la rinuncia a toccare le pensioni di anzianità pagando con la libertà di licenziamento anche nella Pubblica Amministrazione. Quanto questo scambio, questo provvedimento isolato da una visione generale, sia convenuto ai lavoratori italiani, lo giudichino i lettori. Entrando nel merito, il governo si propone di facilitare i licenziamenti per ragioni economiche ponendo fine ad un sistema in cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato è, di fatto, indissolubile. È giusta l’idea che le imprese assumerebbero di più se potessero licenziare in caso di necessità. Si potrebbero riassorbire, in questo modo, tanti lavoratori precari. Tutto bene, dunque? Per nulla affatto, e per due ragioni. La prima è che si va ad incidere sul sistema dei diritti acquisiti. È bene farlo, perché i diritti acquisiti ingessano tutto il sistema ma bisogna farlo dopo un confronto approfondito con le parti sociali e soprattutto con i sindacati. La seconda ragione è
che non si può eludere la domanda: che ne è dei lavoratori licenziati? Devono morire di fame? Non è questo quello che ci chiede l’Europa. Leggiamo il punto corrispondente della lettera della Bce al governo italiano: «Bisognerebbe rivedere completamente le regole sulla assunzione e sul licenziamento ed istituire contemporaneamente un sistema di assicurazione contro la disoccupazione ed un insieme di politiche attive del mercato del lavoro capace di
Come si possono fare rivoluzioni simili senza coinvolgere l’opposizione e i sindacati? facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende ed i settori più competitivi». Traduciamo dal linguaggio dei tecnici in quello della gente comune. Il licenziato deve avere una indennità di disoccupazione adeguata al mantenimento suo e della sua famiglia, deve ricevere orientamento professionale per sapere dove nascono nuove opportunità di lavoro con qualifiche non troppo dissimili da quelle che possiede il lavoratore licenziato, in modo da non svalutare il suo patrimonio professionale, deve infine ricevere una formazione professionale personalizzata che gli consenta di acquisire quelle capacità professionali aggiuntive che gli permettano di accedere ai nuovi posti di lavoro. Di tutto questo nella lettera del governo non c’è parola. Proporre di facilitare i licenziamenti senza nemmeno impostare il problema delle garanzie da dare alla persona che viene licenziata è una provocazione contro i lavoratori ed i sindacati ed è il modo migliore per rendere intricata e difficile, forse impossibile, la necessaria riforma del mercato del lavoro.
La questione è resa ancora più complicata e difficile dal fatto che contemporaneamente si promette di fare approvare dal Parlamento norme che permettano i licenziamenti anche nel Pubblico Impiego. Anche qui non voglio negare pregiudizialmente che il tema esista e vada affrontato. Mi limito a domandare: con quali criteri? Il criterio della difficoltà e crisi economica nel caso dello stato non è così facile da applicare come nelle imprese private. E che ne è della funzione pubblica e delle garanzie che necessariamente la accompagnano? Certo, lo stato fa oggi molte cose che non sono propriamente funzione pubbli-
ca, ma non bisogna allora prima di tutto definire esattamente cosa è funzione pubblica e quali sono le aree di pubblico impiego che non sono esattamente funzione pubblica e nelle quali dunque si possono applicare più facilmente norme simili a quelle che valgono nel settore privato? E si pensa di poter fare questa rivoluzione nell’arco di pochi mesi e senza coinvolgere i sindacati? Non si cede qui senza riserve ad una posizione leghista ideologicamente e demagogicamente contraria al pubblico impiego? Le misure proposte corrispondono ad una ottica accentuatamente liberista che ignora la dimensione sociale dei problemi. La capacità di vedere questi problemi è invece ciò che contraddistingue la economia sociale di mercato.
Aggiungiamo una ultima osservazione, che è però la più importante di tutte. Nelle proposte del governo pagano sempre i soliti, cioè fondamentalmente i lavoratori dipendenti. Intendiamoci: è inevitabile che sia così. Il mercato del lavoro ha davvero bisogno di essere riformato e, comunque, i grandi numeri si fanno con i piccoli numeri ed è inevitabile che la gente comune sia chiamata a dare il suo contributo. Ma devono pagare solo i soliti? Non è giusto che, per una volta, paghino anche i ricchi? Le misure, alcune lodevoli, previste dalla lettera implicano la spesa di risorse considerevoli? Dove conta di prenderle il governo? Nella lettera il capo del governo si impegna ad accelerare i tempi della diminuzione del debito pubblico. Come conta di farlo? Pensa che basti istituire una commissione di saggi? Bisogna prevedere una tassa patrimoniale che chiami anche i ricchi a dare il loro contributo. Anche qui si vede la differenza fra una ottica di economia di mercato puro ed una ottica di economia sociale di mercato. Per essere completi dobbiamo aggiungere: con che faccia il Parlamento può chiedere al cittadino di andare in pensione più tardi e, comunque, di ricevere una pensione rigorosamente corrispondente ai contributi versati se i parlamentari possono andare in pensione con condizioni di straordinario La favore? riforma delle pensioni dei parlamentari deve avvenire in modo contestuale a quella delle pensioni dei cittadini e seguendo gli stessi criteri.
vrebbe crederci? Perché gli investitori privati dovrebbero fidarsi e mettere i loro soldi in questo veicolo? E se questo veicolo dovesse finire in panne, come è quasi inevitabile, gli europei cosa faranno, creeranno un quarto strumento per salvare chi sta fallendo? Ecco la definizione di iatrogenesi.
I commentatori europei hanno notato da diversi anni come stia crescendo un sentimento nazionalista in sempre più Stati membri dell’Unione. In alcuni casi queste tendenze sono visibili in quei partiti “populisti” che si oppongono all’immigrazione selvaggia e a tutte quelle politiche “comunitarie”. Spesso derisi come razzisti o xenofobi, questi partiti sono spesso confinati nello spettro dell’estrema destra europea. Ma anche in una larga fetta dell’elettorato “rispettabile” questi sentimenti stanno prendendo piede. Oggi in Germania, ad esempio, i cittadini che alcuni anni fa temevano all’idea di abbandonare la propria stabile valuta per un incerto “euro” oggi temono che la perdita della stabilità valutaria, e il rischio di inflazione che ne seguirebbe, possano creare le stesse circostanze che portarono alla caduta della Repubblica di Weimar e all’avvento di Hitler. Questi tedeschi non sono estremisti, non odiano i greci o gli altri stranieri come vorrebbe la sinistra che li osserva. Vogliono invece il contrario: una stabilità e una prosperità economica simile a quella che la Germania ottenne a caro prezzo dopo la Seconda Guerra mondiale. Quale dovrebbe essere il ruolo americano negli sforzi europei per salvare i propri conti? Nel migliore dei casi, molto limitato. Washington dovrebbe ovviamente essere preoccupata dagli effetti della crisi sulle istituzioni finanziarie Usa e per l’economia interna, che avrebbe problemi da un fallimento europeo: per questo vanno prese delle misure precauzionali. Ad oggi il coinvolgimento americano è stato per lo più indiretto, attraverso i finanziamenti del Fondo monetario internazionale. Al Congresso, però, cresce l’opposizione anche a questa forma indiretta di assistenza. Come abbiamo visto, la maggior parte di questo progetto europeo vuole creare un polo alternativo all’America. L’Europa può certamente provarci, ma non può pretendere che gli Usa l’aiuti in caso di fallimento.
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na costa sfigurata, privata della sua bellezza, che sembrava eterna. Così appaiono dal mare Monterosso e Vernazza. L’Italia che si sgretola, che non regge l’urto delle piogge: dalle Cinque Terre a Pompei emette un solo grido d’allarme. I battelli salpano dalla banchina della Spezia con regolarità, due la mattina e due il pomeriggio. Non sono carichi dei soliti turisti americani avidi di sentieri di agavi ma di pacchi di pasta, medicinali, pane e bottiglia d’acqua. Raggiungono un paradiso perduto, le Cinque Terre. Sembra di essere tornati indietro di centocinquant’anni quando la ferrovia non esisteva e le strade collinari erano solo mulattiere sconnesse e dissestate. Ma una volta giunti nella conca delle Cinque Terre ci si rende conto di ciò che può essere accaduto qui martedì pomeriggio. Sul mare increspato, come mine vaganti, vagano tronchi d’albero, legni, detriti di ogni tipo e pezzi di scafi di barche. Dal blu delle acque più limpide della penisola si è passati a una triste palude zeppa di relitti. La vita di tutti i giorni di famiglie normali è ora distesa su questa superficie d’acqua dove si possono persino vedere galleggiare fotografie e disegni di bambini.
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Ma i gommoni della Protezione Civile non hanno tempo di ricomporre i ricordi, cercano i cadaveri di chi è scomparso, corpi enfi d’acqua che forse il mare restituirà o forse no, dipende dalle correnti. Mentre a terra i parenti aspettano un esito infausto per sperare di avere una tomba per i loro cari che sono diventati nulla in un pomeriggio di tempesta piovuta dal cielo e giunta in paese delle loro spalle, la montagna franosa a cui sono appese tutte le antiche case, una incastonata all’altra, come un mosaico di pietre. A Monterosso e Vernazza la furia dell’acqua ha travolto i negozi, i ristoranti, il pastificio, il fornaio, la farmacia. L’acqua potabile, il gas, la linee telefoniche e l’energia elettrica non arrivano più nelle abitazioni. A Monterosso la melma tocca le insegne che indicano locali diventati più famosi a NewYork che a Roma,“Il gabbiano”, “La barcaccia”, “Al carugio”. Si cammina all’altezza delle finestre dei primi piani. A Vernazza si calpestano solo sassi e detriti discesi dalla montagna a formare una nuova pavimentazione. Le immagini più eloquenti della tragedia che ha colpito questa fetta d’Italia, al confine della Liguria e della Toscana, sono state scattate e riprese proprio qua, nelle Cinque Terre. Un filmino di pochi secondi ha fatto il giro di tutti gli utenti di YouTube: si vede un’ondata di acqua piovana che scivola giù sino al mare nella piccola arteria che attraversa il vecchio centro storico di Monterosso. E poi quella fotografia di Vernazza: la piazzetta del paese e la spiaggia sottostante diventate il letto di un torrente inarrestabile dove galleggiano le barche dei pescatori. Su internet, Facebook e Twitter, i social network testimoniano l’amore che vi è nel mondo per questo parco: «This makes me want to cry», mi viene voglia di piangere, scrive per tutti Alex da New York, profondo conoscitore di questi luoghi. Come ai tempi degli attacchi saraceni, l’unico rifugio possibile per gli abitanti di Vernazza è stata la chiesa, posta leggermente più in alto delle due file di case in cui è diviso il paese. Un’alluvione simile non si è mai verificata. Quella del 1958 non raggiun-
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Dopo la terribile devastazione e il drammatico bilancio in Liguria e Toscana, via
Il romanzo dell
Le Cinque Terre spazzate via, Pompei che continua a crollare: la cronaca dei disastri mette a nudo il rapporto perverso tra il nostro Paese e le sue bellezze di Marco Ferrari
Per Montale la natura «scarna, scabra, allucinante» fatta di sassi e ossi di seppia era già stata mortificata al tempo della speculazione edilizia se tanta ferocia. Gli eroi di questo disastro hanno volti semplici e parlate locali: Sandrino Usai, 39 anni, un volontario che ha cercato di aprire i tombini per fare defluire il fango a Monterosso; Giuseppe Giannoni, 60 anni, attaccato alle insegne del suo negozio di gelati e Sauro Picconcelli, 55 anni, scivolato via nel mare di Vernazza con tutti i souvenir che hanno riempito le case di inglesi, tedeschi e americani. In quei pochi minuti in cui la valanga d’acqua ha travolto le Cinque Terre, la Val di Vara, la Val di Magra e la Lunigiana la natura sembrava fregarsene di ciò che l’uomo ha fatto nel tempo per imbrigliarla. Per Montale questa natura «scarna, scabra, allucinante» fatta di sassi, ciottoli, ulivi e ossi di seppia era già stata mortificata al tempo della speculazione edilizia - così emblematicamente e minuziosamente descritta da Italo Calvino nel racconto omonimo del 1957 - al punto da farlo allontanare per sempre dal suo rifugio di Fegina, a Monterosso, da quella casa
dalle due palme storte, «la pagoda giallognola» con l’orto a cui si rimase per sempre attaccati, ma da cui bisognava fuggire per non restare vittime del peso della memoria. Montale si lamentava in anticipo di condomini, palazzi e alberghi che stravolgevano quell’angolo di Liguria, che aveva bisogno di delicatezza. La voce della poesia è stata messa a tacere dalla voce delle ruspe. In questo modo la Liguria ha perso negli ultimi venti anni il 45 per cento del territorio a favore del cemento. Incuria e condoni edilizi hanno fatto il resto. Un sistema che si è consolidato su due elementi preoccupanti: l’abbandono dell’entroterra e delle colline da parte degli agricoltori e la cementificazione costante e progressiva delle coste. Ciononostante si continua a costruire, come se il dissesto idrogeologico non fosse davanti agli occhi degli amministratori.
In questo paesaggio unico e irripetibile delle Cinque Terre c’è un problema in più, il mantenimento delle mille e mille terrazze di muretti a secco dove sono impiantate le viti. Quello delle frane causate dalla mancata manutenzione dei muretti è una questione a cui ci si è abituati. Si è anche cercato di sopperire affittando porzioni di territorio ad amanti del paesaggio, ma non è bastato. «Il territorio e le colline a corona dei
borghi - spiega Emanuela Cavallo, che ci occupa di questo settore al Comune di Monterosso - per resistere hanno bisogno di rimanere terrazzate. Le cosiddette piane non hanno solo una valenza agricola, ma hanno un’importante funzione idrogeologica di contenimento del terreno in quanto riescono a filtrare e drenare l’acqua piovana». È un dato di fatto a cui si è rimasti attaccati, da generazione in generazione. Poi con l’arrivo del turismo di massa e la scoperta, soprattutto da parte degli americani, di questo angolo di mondo, l’equilibrio si è spezzato. I giovani si sono dati al turismo, al commercio, ai servizi, orde di persone frequentano i sentieri, i paesi sono ingombri di gente, i battelli vanno e vengono strapieni. Ma questa volta sono stati soprattutto i torrenti a ribellarsi all’imbavagliamento a cui l’edilizia moderna li ha costretti. E così quando dalle colline di vigne, minuscoli rivoli si sono trasformati in un dirompente afflusso d’acqua, non c’è stato nulla da fare. I canali di una volta, infatti, sono stati tombati. Chiusi dal cemento, corrono sotto l’asfalto, sotto i piedi dei passanti. Quando l’acqua piovana aumenta, i rigagnoli della montagna non trovano sbocco, i detriti occludono l’accesso ai fiumi sotterranei e l’acqua trova sbocco solo in superficie. I piccoli carruggi di Monterosso e Vernazza, così caratteri-
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aggio nei luoghi e tra la gente delle zone colpite: «Ci viene voglia di piangere»
l’Italia in rovina
La Liguria, negli ultimi venti anni, ha perso il 45% del territorio in cambio di colate di cemento. L’incuria e i condoni hanno fatto il resto stici, ricchi di negozi, arcate, simboli di devozione, sono diventati il letto su cui l’acqua ha trovato modo di scorrere. Questa volta con un’irruenza che non ha precedenti nella storia delle Cinque Terre. A Vernazza il dramma è cominciato alle spalle del paese, su in alto, dove arriva l’arteria stradale. È crollato il parcheggio di Ria, poi tratti di strada, pezzi di asfalto che sono diventate schegge impazzate e che hanno travolto e trascinato con sé pali, viti, macchine, moto, lamiere di zinco. L’ondata si è trasformata in una specie di diga proprio all’imboccatura dell’abitato e lì ha atteso l’arrivo dell’acqua finché non ha ceduto diventando una bomba che ha percorso un chilometro invadendo la zona della stazione, coprendo la ferrovia e Alcune immagini delle zone liguri e toscane, gravemente colpite (quando non addirittura spazzate via) dal maltempo dei giorni scorsi
imboccando come una furia la via principale del borgo, una discesa ripida che giunge in piazza Marconi, proprio davanti al mare. Un’ondata inattesa che ha colto di sorpresa gli abitanti, i turisti, i commercianti. Soprattutto questi ultimi hanno lottato per difendere i loro negozi, proteggere e salvare la merce, ma è stata una battaglia inutile. Chi ha avuto la scaltrezza di correre via si è rifugiato nel ristorante di Gianni Franzi dove c’erano già un’ottantina di persone.
Lì, quel locale, ha una via d’uscita nel carruggio posteriore da cui la gente è riuscita a scappare e a raggiungere le parti più alte del paese. Non si può invece calcolare se qualche turista o visitatore sia rimasto vittima del crollo della strada e del parcheggio in alto, come la povera Giuseppina Carro, 81 anni, ancora data per dispersa. Di certo le auto hanno percorso la centrale Via Roma come bolidi impazziti cozzando di edificio in edificio. Per capire se dentro quel-
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le carcasse ci fosse altra gente ci vorrà il tempo di recuperarle tutte, quelle incastrate una con l’altra e quelle finite in mare. Negli occhi degli abitanti corrono ancora quei momenti drammatici in cui la piena ha travolto e sradicato ogni cosa, compresa la cisterna del Gpl. «Per fortuna - dice Mauro Basso della Pubblica assistenza - non vi è stata alcuna scintilla altrimenti le esplosioni avrebbero polverizzato l’intero paese». Adesso uno spettrale spettacolo domina la bellezza di questa perla delle Cinque Terre in attesa che via mare giungano le ruspe e i mezzi adatti a rimuovere i detriti. Su in alto il binario della ferrovia a monte e persino la galleria è ingombro di materiale da riporto che blocca la linea Genova-La Spezia e quindi la dorsale tirrenica. Non vi è neppure la certezza che il paese torni quello di prima, curato nei dettagli, con le pietre scure, i tabernacoli, le fontane, l’eco delle canzoni di Fabrizio de André che qui era solito consumare le sue estati. Il silenzio degli abitanti contiene il dolore della morte ma anche la dignità di riprendersi, di ricostruire ciò che è stato loro consegnato dalle generazioni precedenti e cioè un borgo che l’Unesco ha decretato essere Patrimonio dell’Umanità.
Ma a soffrire di più sono gli anziani che vedono le loro case e le loro cantine invase e devastate dal fango. Molti di loro lasciano le abitazioni, salgono sul vaporetto e vanno alla Spezia dai parenti per sottrarsi a ciò che ha creato l’Apocalisse. A Monterosso la spiaggia non c’è più. Resta la casa del doganiere cantata da Montale. Qui un cumulo di auto si è fermato sul bagnasciuga diventando un nuovo pontile, quasi un dissacrante monumento alla modernità. La gente spala come può per far defluire l’acqua dei canali. Ma il lavoro più grosso è oltre i ponti della ferrovia, davanti alla chiesa e oltre, lungo i due carruggi che portano ai pendii. Si sta tentando di creare quasi un alveo alla corrente d’acqua che non smette di giungere dalla collina. Poi si procederà a togliere i detriti, una massa inerme che giunge sino ai primi piani delle case rendendo impossibile entrare nei negozi, nei locali e nei ristoranti al livello della strada pedonale. I quattro striminziti rigagnoli che scendono a valle hanno creato un solco di melma che hanno riempito a tappo le imboccature posteriori del paese per poi diventare una deflagrante massa che ha invaso le strette vie cittadine. Il parco giochi che sta proprio davanti al Comune è una discarica a cielo aperto. Anche la chiesa parrocchiale con la caratteristica facciata del Trecento è stata invasa dalla melma che ha raggiunto persino l’altezza della fonte battesimale. La statua di San Giovanni Battista, patrono di Monterosso, è finita sul sagrato, distesa, ma subito è stata rialzata a simbolo della rinascita. All’interno ceri, panche e statue sono un solo magma indefinito che quasi rende sterile ogni preghiera. Il mondo introverso di Montale si è fatto catastrofe. I bossi ligustri da lui cantati sono diventati una pallottola piantata nel cuore di Monterosso. Quelle stradine erbose, fatte di pozzanghere, quelle viuzze di ciglioni, tra ciuffi di canne e filari di viti che rigogliose emettono grappoli d’uva sono franati travolgendo il paese dei limoni e degli orti. Quanto tempo ci vorrà per restituirci quei colori così forti e accesi?
società
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Il Papa va ad Assisi per la Giornata interreligiosa di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo
Verità contro Violenza «Terrorismo e adorazione del potere: ecco i nemici della vera religione» di Vincenzo Faccioli Pintozzi incontro di Assisi spinge a una riflessione sulla pace e sulla violenza, anche di matrice religiosa. Ma è anche e soprattutto una spinta al “cammino verso la verità”, facendosi «carico insieme della causa della pace contro ogni specie di violenza distruttrice del diritto». Lo ha affermato Benedetto XVI nel discorso che ha pronunciato a conclusione della mattinata di interventi delle varie personalità religiose e non nella basilica di S. Maria degli Angeli, radunati per la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.
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Il pontefice ha sottolineato che nel mondo attuale la pace è messa a rischio da due tipi di violenza: «Quella che fa uso della religione e quella che deriva dall’assenza di Dio». Ma è importante sottolineare che accanto alle “realtà di religione e anti-religione” che portano violenza, vi sono anche coloro che “cercano la verità, sono alla ricerca di Dio”. Essi sono importanti collaboratori del dialogo e della pace perché correggono
le pretese dell’ateismo, teorico e pratico, e spingono «i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile».
Nel suo magistrale discorso, Benedetto XVI valorizza in modo forte la novità di questo incontro di Assisi rispetto a quello di 25 anni fa. Allora, Giovanni Paolo II aveva invitato solo rappresentanti religiosi. Questa volta, il papa ha invitato anche rappresentanti non religiosi, ma profondi ricercatori della
simbolo vistoso di questa divisione era il muro di Berlino che, passando in mezzo alla città, tracciava il confine tra due mondi. Nel 1989, tre anni dopo Assisi, il muro cadde – senza spargimento di sangue». «La causa più profonda di tale evento – egli aggiunge - è di carattere spirituale: dietro il potere materiale non c’era più alcuna convinzione spirituale. La volontà di essere liberi fu alla fine più forte della paura di fronte alla violenza che non aveva più alcuna copertura spi-
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Sappiamo che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che il carattere religioso serve come giustificazione per la crudeltà. La religione qui non è a servizio della pace, ma della violenza
verità e attribuisce ad essi una funzione fondamentale. Il pontefice ha fatto anzitutto un bilancio dell’incontro di Assisi del 1986. «Allora – ricorda il papa - la grande minaccia per la pace nel mondo derivava dalla divisione del pianeta in due blocchi contrastanti tra loro. Il
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rituale. Siamo riconoscenti per questa vittoria della libertà, che fu soprattutto anche una vittoria della pace». Ma «a che punto è oggi la causa della pace?», si domanda Benedetto XVI. Il mondo – egli risponde – è ancora “pieno di discordia”, non solo per la presenza di guerre
qual e là nel pianeta, ma anche perché «il mondo della libertà si è rivelato in gran parte senza orientamento, e da non pochi la libertà viene fraintesa anche come libertà per la violenza». Il pontefice prosegue poi la sua riflessione nell’indicare due tipi di violenza. Il primo è «il terrorismo, nel quale, al posto di una grande guerra, vi sono attacchi ben mirati che devono colpire in punti importanti l’avversario in modo distruttivo, senza alcun riguardo per le vite umane innocenti che con ciò vengono crudelmente uccise o ferite. Agli occhi dei responsabili, la
grande causa del danneggiamento del nemico giustifica ogni forma di crudeltà. Viene messo fuori gioco tutto ciò che nel diritto internazionale era comunemente riconosciuto e sanzionato come limite alla violenza».
«Sappiamo - aggiunge - che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione per la crudeltà spietata, che crede di poter accantonare le regole del diritto a motivo del ‘bene’ perseguito. La religione
Un sondaggio Ipsos sottolinea: i fedeli disillusi dalla situazione attuale, aumenta la speranza per una formazione rappresentativa
I cattolici? In attesa di un vero Centro cattolici sono quelli che per natura ed educazione, direi per missione, tengono di più al bene comune, e sono anche pronti a dare del loro per il bene comune. Se cedono i cattolici, siamo allo sbando. È quindi un grido d’allarme quello che emerge dal sondaggio sul comportamento politico dei cattolici commissionato all’IPSOS dalla Fondazione Achille Grandi per il Bene Comune, emanazione delle ACLI. Ma trattandosi di cattolici al grido d’allarme non può non essere affiancata la speranza. Non a caso bene espressa già dal titolo della ricerca “Tra astensionismo e voglia di impegno”. Il dato infatti più rilevante è quello del crollo di fiducia anche tra i cattolici verso il mondo della politica e delle istituzioni, che raggiungono il minimo storico di consenso. Clamoroso il giudizio negativo sui partiti politici crollati di 18 punti percentuali in sei mesi
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di Osvaldo Baldacci dal 32% al 14% di gradimento. Giudizio negativo che ha coinvolto anche le istituzioni come Camera e Senato che hanno appena un terzo dei consensi fra i cattolici (e poco più di un quinto fra gli italiani) dimezzando gli apprezzamenti rispetto a sei mesi prima. Ancora non
punto di riferimento, mentre solo la Chiesa si mantiene stabile. Conseguenza di questo tsunami di sfiducia, gli italiani si rifugiano nell’astensionismo. E i cattolici? Sorprendentemente l’astensione viene scelta tra i praticanti in misura ancora maggiore che nel resto
Tra i credenti crolla la fiducia nei confronti dei politici e delle istituzioni: Berlusconi passa dal 50 al 22 per cento, mentre sale l’astensionismo. Buono il giudizio sulla formazione moderata resi noti i dati relativi a tutte le altre istituzioni, ma per il governo e personalmente Berlusconi, si confida che il gradimento è passato da 50 a 22 con tendenza a diminuire ancora. Perderebbe qualcosa persino il Presidente della Repubblica, nonostante il suo ruolo di
della popolazione. Un cattolico su due in questo momento non saprebbe chi votare, e forse non voterebbe. E allora che senso hanno iniziative come quelle di Todi? Sono perfettamente coerenti: infatti la differenza qualitativa tra l’astensionismo cattolico e quello dei secolariz-
zati sta nel fatto che i primi aspettano che maturi qualcosa di nuovo. Non vogliono rifuggire dalla responsabilità, ma non trovano ancora i canali attraverso cui esprimerla, e si sentono pesantemente traditi da ciò che c’è stato finora. È per questo che mi sembra sbagliata e – se mi è permesso – pigra una delle interpretazioni che è stata data a commento del sondaggio: i cattolici restano comunque bipolaristi. No, questa affermazione è fuori luogo. Si può dire che verso il bipolarismo o un altro sistema non ci sia tutta questa passione, ma certo è una forzatura dire che siano bipolaristi. Come si fa a dirlo quando la fiducia verso questi partiti è meno del 15%? Come si fa a dirlo quando l’astensionismo è al 50%? Come si fa a dirlo quando il 40% dei fedeli risponde a esplicita domanda dicendo che non affiderebbe le sue speranze per il futuro né al centrodestra né al centro-
società
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mona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso».
Proprio davanti a questo quadro di violenze derivate dallo stravolgimento della religione e dall’assenza di Dio, Benedetto XVI mette in luce un fattore importante: «Nel mondo in
“
polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri».
Questi cercatori della verità spingono le religioni a purificarsi: «Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo per i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile». «Per questo - ha concluso - ho appositamente invitato rappresentanti di questo terzo gruppo al nostro incontro ad Assisi,
Che gli atei non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti. La loro lotta interiore è anche un richiamo per i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio diventi accessibile
qui non è a servizio della pace, ma della giustificazione della violenza». Il papa sottolinea che «sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura». L’incontro di Assisi del 1986 voleva proprio esprimere il messaggio che la vera religione è un contributo alla pace e che ogni altro uso è un “travisamento e contribuisce alla sua di-
struzione”. Per questo, continua il papa, è importante un dialogo interreligioso per ricercare “una natura comune della religione, che si esprime in tutte le religioni ed è pertanto valida per tutte”. Tale “compito fondamentale” serve a “contrastare in modo realistico e credibile il ricorso alla violenza per motivi religiosi”.
Il secondo tipo di violenza “è la conseguenza dell’assenza di Dio”, che porta con sé la “perdita di umanità” . «Il ‘no’ a Dio – ha spiegato - ha prodotto crudeltà e una violenza senza mi-
sura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio». «Qui – ha aggiunto - non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della ”decadenza” dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mam-
espansione dell’agnosticismo vi sono persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio… Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono ‘pellegrini della verità, pellegrini della pace’». Esse – dice il papa – «pongono domande sia all’una che all’altra parte.Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che
sinistra? Come si fa a dirlo quando meno della metà dei restanti cattolici che dicono di voler votare danno la loro preferenza a uno dei due maggiori partiti attuali (e che quindi vuol dire che poco più di un praticante su dieci appoggia il PD e poco più il PDL)?
Certo, siamo onesti fino in fondo. Lo sconcerto c’è, ed è tale che non trova ancora uno sbocco. Il centro, che in qualche maniera dovrebbe essere il rifugio naturale di queste realtà, cresce costantemente, ma molto meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Qui però mi permetto di sollevare due riflessioni che potrebbero spigare questa crescita frenata. Primo: mi sembra abbastanza naturale che chi come i cattolici è abituato a fare scelte con serietà ed assunzione di responsabilità aspetti un attimo prima di regalare la propria fiducia. Chi per vent’anni, come tutti gli italiani, è stato abituato a una sorta di bipolarismo, e ancora oggi ne ritrova le eco sui mezzi di informazione, prima di fare il salto si prende una pausa di riflessione. Mi sembra del tutto naturale un passaggio attraverso il distacco, attraverso la ten-
”
che non raduna solamente rappresentanti di istituzioni religiose. Si tratta piuttosto del ritrovarsi insieme in questo essere in cammino verso la verità, dell’impegno deciso per la dignità dell’uomo e del farsi carico insieme della causa della pace contro ogni specie di violenza distruttrice del diritto. In conclusione, vorrei assicurarvi che la Chiesa cattolica non desisterà dalla lotta contro la violenza, dal suo impegno per la pace nel mondo. Siamo animati dal comune desiderio di essere “pellegrini della verità, pellegrini della pace”».
lici “astensionisti” sono il principale e vasto bacino di raccolta di consenso per il centro, ma bisogna cercarli attivamente, non aspettare di incassare da rendita di posizione.
tazione astensionistica, prima di indossare una nuova casacca.Tanto più quando si è rimasti scottati e si vuole ben valutare su quale treno si sale. C’è poi una paura atavica che impedisce un cambio radicale a chi si scrolla di dosso la vecchia posizione politica: chi si sente di centrodestra pur deluso da Berlusconi teme di finire in bocca a una sinistra che avversa, e viceversa i cattolici di centrosinistra non vogliono in alcun modo
correre il rischio di puntellare il nemico Berlusconi. Tutti discorsi che ci riportano al centro, e che quindi ci spingono a toccare il secondo punto della mia analisi. La convergenza al centro dei cattolici è a mio avviso coerente, inevitabile e probabilmente sarà improvvisamente superiore a quanto possano rilevare i sondaggi, ma non ci si può accontentare di un voto di riflusso, che sarebbe solo un pericoloso fuoco di paglia. I catto-
I cattolici (e non solo) sono stufi di grandi contenitori indifferenziati carichi di promesse di ogni tipo e poi indecisi a tutto. Chi vuole il consenso dei cattolici deve essere davvero impegnato nel difendere le loro istanze. Non gli interessi di parte (nel sondaggio si rivela che la maggior parte dei cattolici chiede alla politica di trovare una sintesi tra valori cristiani e laici), ma certamente una visione cristiana dell’uomo e della società in senso antropologico, sulla linea dei laici alla Benedetto Croce. Difesa senza esitazione dei valori non negoziabili, contributo fattivo della visione cristiana al bene comune, capacità di rinnovamento ed apertura alla società civile e ai movimenti cristiani: è questo quello che si aspettano dalla politica, e soprattutto dal centro, e quindi dall’UDC, gli elettori cattolici. Che sono oggi di nuovo una massa capace di fare la differenza.
mondo
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Il 31 ottobre finiranno le operazioni militari, mentre è caccia a Saif al Islam (che vuole L’Aja)
La Nato lascia la Libia Il Qatar si offre come guida di una nuova coalizione. E Parigi manovra nell’ombra per difendere alcuni interessi di Pierre Chiartano
ROMA. Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la fine della missione in Libia. L’operazione, autorizzata dalla risoluzione 1973, si esaurirà il 31 ottobre. Il comando Nato si era preso un giorno in più di tempo per valutare, perché era l’Onu in realtà che poteva mettere la parola fine all’intervento militare. E lo ha fatto ieri. Intanto è arrivata la proposta di un’altra architettura internazionale che vedrebbe la guida del Qatar per una nuova coalizione che garantisca la sicurezza in Libia nel periodo di transizione verso un nuovo governo. Ma non si capisce quali interessi possa rappresentare un Paese con una forza aerea costituita da 12 Mirage 2000 e 200 uomini delle forze speciali. Tutti già coinvolti nelle operazioni libiche. Chi ha invece deciso ieri è appunto il Palazzo di vetro. Il documento approvato, prevede che la missione dell’Alleanza atlantica si concluderà a fine mese, nonostante le richieste del Consiglio nazionale di transizione libica (Cnt) di prolungarla fino a fine anno. Una nuova coalizione guidata dal Qatar potrebbe sostituirla, secondo quanto ipotizzato mercoledì al vertice di Doha tra i capi di Stato maggiore dei Paesi intervenuti in Libia e il Cnt. Il quotidiano New York Times inoltre ha riportato alcune indiscrezioni secondo le quali Muammar Gheddafi aveva preso contatti con ex membri dell’esercito di Saddam Hussein e del partito Baath per rovesciare il governo dell’Iraq, che in risposta ha arrestato questa settimana oltre 200 sospettati del presunto colpo di Stato. Intanto, Forze speciali britanniche insieme con gli insorti libici sono impegnate per catturare Saif Al Islam, secondogenito di Gheddafi. Saif, secondo fonti del Consiglio nazionale di
transizione, sarebbe in fuga al confine con il Niger: sarebbe pronto ad arrendersi e a consegnarsi alla Corte penale internazionale. Il figlio del colonnello avrebbe richiesto un aereo per poter lasciare il deserto del sud della Libia e andare a consegnarsi alla Corte penale internazionale dell’Aia.
Saif al-Islam, 39 anni, è in fuga all’incirca da quando il padre è stato ucciso, una settimana fa. Ha fatto sapere di essere pronto ad arrendersi, come l’ex capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi, hanno sempre reso noto fonti del Cnt. Nei confronti di entrambi ci
trati alle 16 ora italiana di martedì per votare una bozza di risoluzione britannica, per la fine del mandato Onu che ha istituito la no-fly zone e che ha permesso alle forze stranierei di usare «tutte le misure necessarie» per proteggere i civili libici. È chiaro che l’abbandono repentino del campo sarebbe molto pericoloso. E un rappresentante del nuovo governo di transizione libico spiega il perché. L’attuale capo di Stato ad interim della Libia Mustafa Abdel Jalil aveva infatti chiesto alla Nato di continuare la sua campagna nel Paese fino alla fine dell’anno. Jalil aveva parlato durante una conferenza stampa a Doha. «Speriamo che la Nato prolunghi la sua permanenza sino al termine del 2011 per sostenere noi e gli Stati vicini», ha affermato Jalil. Tale richiesta mirava «a impedire il traffico illegale di armi in questi Paesi e a proteggere i cittadini libici dai pochi gruppi rimasti di truppe lealiste che si sono rifugiate negli Stati confinanti». Il Cnt chiedeva aiuto alla Nato anche per «la messa a punto dei sistemi di sicurezza e di difesa della nuova Libia».
Nonostante le richieste del Cnt, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la fine della missione a Tripoli. L’operazione, autorizzata dalla risoluzione 1973, è prossima alla fine sono mandati d’arresto per crimini contro l’umanità emessi dalla Corte penale internazionale. La fonte del Cnt ha affermato che Saif al-Islam non avrebbe lasciato la Libia e avrebbe trovato protezione presso un importante esponente dei Tuareg, che il figlio di Gheddafi aveva sostenuto finanziariamente in passato. Comunque il piano di cancellazione del mandato Onu è arrivato nonostante la richiesta del governo provvisorio libico per garantire la sicurezza alle frontiere. I 15 membri del Consiglio Nato si erano incon-
Qualche giorno fa Parigi aveva fatto una dichiarazione con cui sembrava archiviare l’operazione militare dell’Alleanza. Ma era un’affermazione di carattere politico per suggellare una “vittoria”dopo l’eliminazione del rais di Tripoli. L’operazione militare della Nato in Libia può dirsi ”finita”. Così ha detto il ministro degli Esteri francese Alain Juppe. «Penso – aveva detto il ministro da Parigi – che si possa dire che l’operazione militare della Nato è conclusa e che l’insieme del territorio libico è sotto il controllo del Cnt. Fatte salve determinate misure transitorie l’operazione della Nato è arrivata al suo termine. Quello che era il nostro obiettivo, ossia accompagnare le forze del Cnt nella liberazione del loro territorio è stato raggiunto». Una mossa che spianava la strada al progetto di coalizione a guida quatarina. Un’iniziativa singolare rispetto ai tradizionali equilibri che scaturiscono dagli interessi nazionali. L’Italia ha voluto dire la sua, ma probabilmente nel momento sbagliato. Alla fine della mis-
mondo L’Occidente deve dimostrare che il suo intervento è stato umanitario
La decisione è soltanto un punto di partenza C’è un Paese, davanti alle nostre spiagge, che deve essere ricostruito (non colonizzato) con il nostro aiuto di Aldo Bacci a Nato, l’Onu, l’Occidente, la Lega Araba, la comunità internazionale devono decidere della Libia. Qualunque formula decidano per aiutare il Paese africano, il punto fermo che deve essere considerato è che la (possibile) fine delle ostilità non è un punto di arrivo ma è un punto di partenza. La morte di Gheddafi non può essere considerata come uno “sciogliete le righe”, come il via libera al ritirarsi da un impegno che molti hanno mal digerito, e che troppi hanno spinto solo per motivi di interessi petroliferi ed elettorali. Se l’intervento militare in Libia è stato umanitario come doveva essere, questo è il momento di dimostrarlo. Il Consiglio nazionale di transizione ha chiesto alla Nato di prolungare la missione di altri due mesi, la Nato ha prima nicchiato e poi deciso per il no. Ma non è di burocrazia che stiamo parlando. È del senso del ruolo delle democrazie liberal-democratiche occidentali nel mondo. Per la Libia, dopo 43 anni di dittatura di Gheddafi, siamo al prologo di un nuovo inizio. C’è un Paese da ricostruire. Dal punto di vista delle infrastrutture (Gheddafi ne aveva fatte, ma in funzione degli interessi suoi e dei suoi protetti, non del popolo della Libia). Dai danni della guerra. Ma anche dal punto di vista delle istituzioni. La Libia di Gheddafi era infatti uno Stato senza istituzioni, basato su un sistema piuttosto particolare e comunque di facciata, visto da una parte il potere accentrato tutto nelle sue mani e dall’altra la grande evanescenza della presenza statale in molti ambiti. Non è automatica la costruzione di una democrazia liberale, funzionante, efficiente. Peraltro il Paese è tradizionalmente diviso in tribù e realtà locali molto diseguali, ha un’enorme estensione territoriale con una popolazione però concentrata in pochi punti isolati. È terra di grande immigrazione sia stabile che in transito. Ha grandi risorse ma non ben distribuite comunque mal gestite, tutte concentrate praticamente solo sugli idrocarburi da esportazione.
L
sione Unified Protector della Nato, «l’Italia è pronta a fare la sua parte confermando quel ruolo preminente che storia, geografia, cultura, le assegnano nei confronti del Paese amico». È quanto ha infatti affermato al Senato il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Decisivi, da questo punto di vista, saranno ovviamente l’orientamento e le eventuali richieste del nuovo governo libico e le coerenti decisioni degli Organismi Internazionali», ha sottolineato il ministro. «Terminato il momento del combattere si presenta ora il momento di ricostruire. Ricostruire una statualità, innanzitutto, in un Paese devastato da questi otto mesi di guerra civile, messo in ginocchio dal lacerante contrasto fra le forze lealiste e quelle insorte», ha spiegato La Russa. Peccato che i giochi sembrano ormai fatti. E l’Italia ne pagherà un prezzo.
Una nuova coalizione, guidata dal Qatar, per sostituire la Nato in Libia alla fine della missione Unified Protector. L’ipotesi era spuntata a Doha, dove mercoledì si era tenuta una riunione di comandanti militari di diversi Paesi (tra cui l’Italia) con il Consiglio nazionale transitorio libico per discutere del futuro della Libia, in particolare delle condizioni di sicurezza, considerate - nonostante la caduta del regime e la morte di Muammar Gheddafi - ancora precarie. A dare l’annuncio è stato il capo di Stato maggiore del Qatar, Ahmed Ben Ali al Atia, che ha spiegato che la forza multinazionale dovrebbe aiutare la stabilizzazione politica della Libia e l’addestramento sul terreno delle forze di sicurezza, ma – ha precisato – senza partecipare a operazioni di polizia. Un’ipotesi ancora in fase embrionale e a livello tecnico, su cui l’Italia – fanno sapere fonti diplomatiche – sta «valutando opportunità e modalità di una sua eventuale partecipazione». Potrebbe trattarsi di un numero ancora da definire d’addestratori, fanno sapere fonti della Difesa. Già nelle settimane scorse, d’altra parte, l’Italia aveva offerto aiuto nella formazione sul posto nel settore della sicurezza mentre dallo scorso mese di aprile sono a Bengasi dieci istruttori italiani che hanno operato assieme a colleghi britannici e francesi a sostegno delle forze del Cnt.
della Libia. E che non necessariamente hanno ancora gli strumenti di cultura istituzionale per risolvere le divergenze tramite processi pienamente democratici. Il rischio è che chi ha preso le armi per farsi valere, non abbia alcuna intenzione di metterle da parte accettando soluzioni non gradite. È addirittura un fatto psicologico prima ancora che politico. Ed è un fatto legato alla frammentazione tribale e geografica della Libia. Concedendo le massime lodi agli sforzi del Consiglio nazionale di transizione e dei leader libici, e auspicando che l’abbondanza di risorse possa portare a una ripartizione dei vantaggi tale da soddisfare tutti, non si può però ignorare che nella complessa situazione libica (come in quella degli altri Paesi mediorientali attraversati a diverso titolo dalla primavera araba) si inseriscono ulteriori rischi esterni, con i tentativi di inserimento di movimenti estremisti e di potenze straniere.
Non è questo il contesto in cui mollare tutto. Per la Libia, per la sicurezza dei paesi occidentali, per l’esempio ai Paesi vicini, e anche per ritrovare il rispetto a quelli che sono gli ideali ispiratori della nostra cultura. La vittoria di una guerra è sempre un punto di partenza e non di arrivo. La sfida più difficile è vincere la pace, e l’abbiamo visto molto bene in questi anni in Afghanistan, in Iraq, in Somalia, nei Balcani. Luoghi dove sono stati ottenuti dei risultati, ma a quale prezzo, in quanto tempo e con quale prospettiva di stabilità. Per la Libia vale lo stesso: quale berretto indossino i militari del prossimo futuro in Libia conta sì ma non è la priorità. L’importante è che la comunità internazionale sia presente accanto alla nascita della nuova Libia, la tenga nell’incubatrice del suo impegno e anche della sua supervisione. Con tutti i mezzi che saranno necessari. Aiuti umanitari, prima di tutto. Soprattutto aiuti civili per la ricostruzione e costruzione del Paese. Aiuti di supporto alle istituzioni. E ove occorresse anche un aiuto nel campo della sicurezza. Non possiamo risolvere tutti i problemi del mondo, ma non possiamo girarci sempre dall’altra parte, e tantomeno quando la sponda di cui parliamo è di fronte alle nostre spiagge.
Ci sono migliaia di miliziani esaltati per la morte del raìs, che vanno tenuti a bada per il bene del popolo e per la sicurezza
Il punto è che ora ci sono migliaia di miliziani armati, divisi e sovraeccitati che festeggiano la liberazione da Gheddafi ma non necessariamente hanno una idea comune di quello che deve essere il futuro
i che d crona
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cultura
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Tra gli altri reperti, il rotolo lungo trenta metri che fotografa l’area nel XVI secolo: 211 toponimi tradotti dall’arabo, dall’armeno, dal sogliano, dal greco e dal persiano
Un’Eurasia mai vista A Roma, alle Terme di Diocleziano, anteprima mondiale della famosa Carta del Paesaggio mongolo di epoca Ming di Rossella Fabiani n realtà ciò che balza subito agli occhi è quella visione unitaria dell’Eurasia su cui si basa l’attività stessa dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente - erede dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente fondato da Giuseppe Tucci nel ’33 - ribadendo quanto l’orientalista marchigiano, scriveva oltre mezzo secolo fa: «L’Asia e l’Europa rappresentano, fin dall’apparire e delinearsi dei primi moti umani, un’unità così compatta che non sembra più il caso di seguitare a discorrerne come di due continenti distinti e separati. Anzi v’è fra i due tale connessione e direi solidarietà che non si conosce avvenimento notevole accaduto nell’una parte il quale non abbia avuto risonanze più o meno immediate nell’altra; sicché piuttosto si dovrebbe parlare di un continente solo, di un continente euroasiatico».
I
E proprio all’orientalista italiano - che guidò l’Isiao dal ’47 al ’78 - è dedicato il “progetto mediatico”, come lo definisce Gherardo Gnoli presidente dell’Istituto, della mostra A Oriente. Città, uomini e Dei sulle vie della seta allestito nelle Terme di Diocleziano e dedicato al tema delle Vie delle Sete: attraverso percorsi che sono stati e continuano a essere un crogiolo di esperienze umane passate e presenti. Questi antichi percorsi hanno toccato città e terre sconfinate legandole tra di loro con invisibili - ma a volte visibilissi-
mi - fili di seta. Ecco Palmira, la città carovaniera nel deserto siriaco tanto vitale da essere soprannominata la Sposa del deserto dai viaggiatori e dai mercanti che attraversano il deserto per collegare l’Occidente (Roma e le principali città dell’Impero) con l’Oriente (la Mesopotamia con la Persia fino all’India e alla Cina) e la sua mitica regina Zenobia. Tur’Abdin, la regione montuosa del sud-est della Turchia che confina con la Siria, con i suoi numerosi mo-
L’esposizione è dedicata alle Vie della Seta: percorsi che furono e continuano a essere un crogiolo di esperienze passate e presenti nasteri - più di ottanta - e probabilmente il nome Tur’ Abdin deriva dal siriaco e significa “montagna dei servi di Dio”tanto che questo altopiano è considerato il cuore storico del cristianesimo siriaco. La gente originaria del Tur Abdin - viene detta gli “Aramaici”ma sono anche conosciuti come “Suryoye”o “Siriaci”- è di religione cristiana siro ortodossa e parla un dialetto della lingua aramaica. La conquista di Tiflis - il nome bizantino per indicare la città di Tiblisi, la capitale della Georgia - da parte dei Mongoli negli anni 1226-1227 è invece racconta-
ta da un cartaceo esposto proveniente dal «borgo benedetto di Alqos, villaggio del profeta Nahum, nei pressi del monastero di Rabban Hormizd il Persiano». Si tratta di un codice che proviene dal cuore stesso della Mesopotamia nestoriana (e poi caldea): il ridente villaggio di Alqos, adagiato sui contrafforti della“Montagna Bianca”- confine settentrionale della piana di Ninive, vicino alla frontiera storica tra Bizantini e Sasanidi oggi ultimo baluardo interamente cristia-
no in terra curda. Sovrastato dal celebre monastero di Rabban Hormizd (fondato nel VII secolo) e con ques’ultimo sede del patriarca nestoriano fra il 1555 e il 1804, Alqos è stato il più importante centro di copia e di diffusione del libro manoscritto presso la Chiesa caldea. Per i testi che veicola, il codice esposto è autorevole testimone di antiche e meno antiche devastazioni in quel crocevia di popoli e confessioni che fu la Ba Nuhadra, la piana di Ninive. Armati di una piccola lente di ingrandimento si può invece osservare l’essenza stessa della regalità
sasanide e lo stretto rapporto tra stato e chiesa raffigurati sul diritto e sul rovescio delle monete in oro, argento e bronzo che recano usualmente da una parte il busto del re volto a destra e dall’altra un altare del fuoco zoroastriano affiancato, a partire da Shapur I, da due figure stanti.
A partire da Kavad I è documentata l’aggiunta di simboli astrali con il sole, il crescente lunare e la stella. Protagonista è l’immensa estensione delle rovine di quell’area metropolitana chiamata dagli Arabi al_Mada’in (le città) che ha visto succedersi accanto alla capitale ellenistica, Seleucia, la città reale dei parti, Ctesifonte e poi la capitale sasanide fondata da Ardashir I, detta la bella” Kokhe. Le fonti ci dicono che dopo la conquista araba la Ctesifonte sasanide non venne abbandonata anche se la reggia venne smantellata e i mattoni cotti vennero riutilizzati nella costruzione della capitale Baghdad. Ma la protagonista assoluta di questa esposizione è la mappa mongola, tesoro di epoca Ming: oltre trenta metri di seta dipinta che fotografano la Mongolia del XVI secolo. Si tratta di una straordinaria “Mappa del paesaggio mongolo”, (Menggu shanshui ditu), considerato un documento unico e mai esposto prima. L’importante reperto, un rotolo lun-
go 31 metri, è stato rinvenuto e acquistato nel 2002 in Giappone - dove era giunto negli anni Venti del Novecento - dalla casa d’aste Beijing Sungari International Auction Co. in Giappone ed è stato custodito nei depositi del museo privato di Fuji Yurinkan come esemplare di pittura di paesaggio di epoca Qing (1644-1911). Lo stile pittorico risale all’epoca Ming (sarebbe stata realizzato tra il 1524 e il 1539) e raffigura luoghi e soggetti rinomati delle Vie della Seta, un territorio vastissimo che dal lembo più occidentale della provincia cinese del Gansu (Cina nord occidentale) arriva fino al Mar Rosso. Anzi, secondo l’esperto della School of Archaeology and Museology, dell’università di Pechino che l’ha studiata, Lin Meichun, in origine doveva misurare almeno 40 metri, descrivendo pure le terre che dalla Mecca arrivavano all’odierna Istanbul. Realizzata con inchiostro e colori su seta, la Mappa è ricca di 211 toponi-
cultura
La “Carta del Paesaggio mongolo”, Repubblica Popolare Cinese; un frammento di arazzo, centauro e cavaliere, II secolo a.C.; una lettera miniata in sogdiano di un’eminente personalità della Chiesa manichea, X secolo d.C.; una pietra tombale nestoriana con iscrizione in siriaco, XIII-XIV secolo
mi cinesi, molti dei quali traslitterati dal mongolo, dal persiano, dal sogliano, dall’arabo, dall’armeno, dal tocario, dall’uiguro, dal greco. Persino la Mecca (Tianfang) è presentata come una nobilissima città della Cina. Nell’antica Cina, erano diffusi due metodi per disegnare le carte geografiche. Il primo, noto come “calcolare miglia per disegnare quadrati”, il secondo, invece, è detto “paesaggio”. Per tecnica di composizione, la Carta del Paesaggio mongolo fu dipinta secondo i canoni di quest’ultimo metodo e come “paesaggio” si distende dal passo Jiayu, nell’attuale provincia del Gansu, fino a Tianfang, l’odierna Mecca in Arabia Saudita. All’inizio della dinastia Ming il confine occidentale della Cina correva lungo il fiume Tarim e la catena montuosa del Tianshan, nella provincia dello Xinjiang. Considerato che il passo Jiayu si situa come la località più orientale della Carta del Paesaggio mongolo, è plau-
sibile supporre che sia stata dipinta dopo il 1524, quando cioè l’impero Ming arretrò dalle “Regioni Occidentali” fino a quel passo. Inoltre, sulla Carta del Paesaggio mongolo non compare Yongxinghou dun, oggi considerata la prima torre di segnalazione della Grande Muraglia e costruita nel 1539 con un altro gruppo di torri di segnalazione a ovest del passo Jiayu. È verosimile credere che la Carta del Paesaggio mongolo sia stata disegnata prima della stessa costruzione della torre.
La scoperta poi di due riproduzioni silografiche della Carta del Paesaggio mongolo, risalenti all’epoca Jiajing della dinastia Ming ha fatto supporre allo studioso cinese Lin Meichun che l’esemplare esistente della Carta del Paesaggio mongolo possa essere in realtà mutilo, giacché rappresenta soltanto lo spazio dal passo Jiayu alla Mecca, mentre le due silografie in questione includono anche
quello dalla Mecca a Istanbul. Riguardo al nome della carta si deve notare che verso la metà della dinastia Ming il termine “mongolo” ricorreva per indicare i due eredi dei quattro grandi khanati dell’impero mongolo, vale a dire le tribù mongole e quelle sari-uigure del Khanato
Considerato un documento unico e mai mostrato prima, il prezioso reperto è stato rinvenuto e acquistato nel 2002 in Giappone Ögödei e i Timuridi, e pertanto lo spazio rappresentato dalla Carta del Paesaggio mongolo è proprio quello dei Mongoli d’epoca Ming. Il titolo del rotolo potrebbe allora essere quello originale, essendo assai improbabile che l’ipotetico mercante
28 ottobre 2011 • pagina 15
o collezionista ne potesse attribuire uno così pertinente. Un altro particolare della Carta del Paesaggio mongolo attrarrà l’attenzione dell’osservatore come pure dello studioso di storia della scienza. Nel XIII secolo, la città centroasiatica di Samarcanda è stata uno dei più rinomati centri di osservazione astronomica.Yelu Chucai e Qiu Chuji la visitarono rispettivamente nel 1220 e nel 1221, al seguito di Gengis Khan impegnato a sua volta nella conquista delle terre d’Occidente. Dopo la fondazione della dinastia Ming, l’impero timuride si affermò soprattutto in Asia centrale, elevando Samarcanda a propria capitale. Artefice di tale potenza fu Timur (Tamerlano), che muore improvvisamente nel 1405. A un suo nipote, Ulugh Beg, particolarmente dedito alla scienza e assurto al trono nel 1420, si attribuisce la costruzione di un grande e sontuoso osservatorio, posto a nord di Samarcanda. Nella Carta del Paesaggio mongolo, l’osservatorio di Ulugh Beg è posto a sud di Samarcanda ed è denominato Wangxing lou, letteralmente “Torre per mirare le stelle”. La posizione però non è quella corretta. Per situare la Mecca, città santa dell’Islam, al centro del mondo, le carte islamiche erano in genere disegnate con il sud verso l’alto, mentre quelle cinesi dello stesso periodo in senso contrario. Questo per dire che l’autore della Carta del Paesaggio mongolo può aver usato alcune carte islamiche, pur ignorando una tale evidente discrepanza. Inoltre così come l’architettura cinese appare assimilata a quella europea nelle rappresentazioni cartografiche di epoca medioevale, nella Carta del Paesaggio mongolo Samarcanda è assai simile nel disegno a una città d’epoca Ming. Le torri della cinta muraria somigliano a quelle della città di Pingyao delle dinastie Ming e Qing nella provincia dello Shanxi «e - suggerisce lo studioso cinese - anche la foggia dell’osservatorio della Carta del Paesaggio mongolo è probabile che sia la copia di un osservatorio d’epoca Ming e qualora fos-
se così, l’attuale ricostruzione dell’osservatorio nel sito di Zhougongmiao a Dengfeng, nella provincia dello Henan, potrebbe non essere appropriata». L’osservatorio di Dengfeng fu costruito nel 1276 dal famoso architetto Guo Shoujing per ordine dello stesso Kubilai Khan e continuò a svolgere la piena attività finanche nel periodo Ming. Attualmente ne restano soltanto le fondamenta e ciò che si vede è stato ricostruito a mo’ di piattaforma in muratura dotata di due vani per conservare diversi strumenti d’osservazione.
E ancora: in mostra oltre alla celebre Bibbia di Marco Polo (XIII sec.), si possono vedere la magnifica carta (XV secolo) realizzata dagli allievi della bottega di Fra Mauro (XV sec.), l’ecumene circolare detta Mappamondo Borgiano (XV sec), le Epistole di Giovanni da Montecorvino o.f.m. (1291-1292, 1305, 1306), la Relatio di Oderico da Pordenone o.f.m. (XIV-XV secolo) e una copia de Le livres des Merveilles di Marco Polo, con le note di Cristoforo Colombo, (c. 1483-1484). Altri pezzi notevoli, degli oltre 110 esposti in mostra, sono due pietra tombale nestoriane risalenti al XIII-XIV secolo, una con iscrizioni in siriaco, e un frammento di arazzo in lana con la figura di un centauro e cavaliere, tutte e tre provenienti dal Museo della regione autonoma uigura dello Xinjiang e mai usciti prima dalla Cina. L’esposizione, curata per la parte scientifica da Francesco D’Arelli e Pierfrancesco Callieri, fa parte del ricco calendario della Biennale internazionale di cultura Vie della Seta ed è ospitata fino al 26 febbraio in alcune Aule delle terme dioclezianee aperte in via eccezionale dalla soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma. Allestimento e percorso multimediale sono firmati da Studio Azzurro. Promossa dai ministeri degli Esteri e dei Beni culturali, nonché da Roma Capitale e Camera di Commercio di Roma, la Biennale è organizzata e coordinata da Zetema. Catalogo Electa.
ULTIMAPAGINA Traffico in tilt, interi quartieri bloccati, incidenti e feriti, ieri, per l’apertura di un megastore di elettronica
Roma impazzisce per uno di Gloria Piccioni
ROMA. «Trony, non ci sono paragoni!». E bisogna ammetterlo, è proprio vero. Cosa è paragonabile infatti al girone infernale che l’apertura del nuovo punto vendita di 5.000 mq di questa catena leader nel settore dell’elettronica e degli elettrodomestici, ha procurato ieri a Roma, nella zona di Ponte Milvio? L’annuncio già rimbombava nella capitale da giorni: locandine affisse in ogni dove, pubblicità in bella mostra sugli autobus. Tutto molto visibile dunque. E, naturalmente, promesse di affari stratosferici, offerte all’osso per festeggiare l’evento dell’apertura del più grande spazio di questo marchio (che in Italia ha 160 punti vendita). È stato così che molto prima delle prime luci dell’alba («dalle dita rosate» diceva Omero, ma l’impressione è che lividi artigli abbiano squarciato stamani il cielo di Roma Nord) migliaia di persone, letteralmente migliaia, sono convenute sul luogo dell’appuntamento, che altro non è se non una piccola strada, - via Riano, una traversa di via Flamina -, armati di speranza e della volontà di accedere al sacro luogo dove celebrare il favorito dei riti sull’altare del Consumo. C’è da scommettere che siano arrivati con dei mezzi - macchine, motorini - che in qualche modo, in una zona sempre congestionata, sia di giorno che di notte, avranno dovuto parcheggiare. Non nel parcheggio sottorraneo a pagamento, intendiamoci bene, che è rimasto deserto. Vedere per credere il reportage su youreporter.it (ma certamente non solo lì) di due ragazzi giunti in via Riano con la loro autovettura, che prima di rinunciare all’impresa hanno filmato la situazione: un coda chilometrica invadeva la strada da ogni dove e in ciascuna delle due direzioni percorribili, macchine selvaggiamente piazzate in divieto di sosta, transenne, persone coi sacchi a pelo. Le ragioni di tanta affluenza sono tante e variegate. Volendo cominciare da quelle pratiche, un accenno di catalogo è questo: lavatrici a 79,00 euro, computer portatili e televisioni in HD con schermo a 32 pollici a 99,00 euro, lettori dvd a 9,90 euro, macchine fotografiche digitali di marche al top a 49,00 euro, navigatori a 59,00 euro e così via scontando. Ma il piatto forte erano gli iPhone messi in palio a 399 euro, insieme ad altre offerte su smartphone. «Prezzi bomba» - anche solvibili a partire da aprile - ma pezzi contati. Quindi chi prima arriva meglio alloggia, secondo il vecchio adagio. Ma ciò che sorprende, e che accende inevitabili quesiti di ordine filosofico e teologico sulla natura umana, se non antropologico, economico e politico, è che a due ore dall’apertura la situazione non era affatto migliorata, anzi col risveglio della città tutto è precipitato. Così l’esito di questo delirio collettivo è stato che il traffico dell’intero quadrante di Roma Nord - Cassia, Flaminia, Corso Francia, Olimpica - è andato completamente in tilt, con ripercussioni su Salaria, Monti Tiburtini, XXI Aprile, San Giovanni, Prenestina, Tangenziale est. Per chi non lo sapesse, Ponte Milvio è un antico luogo storico dell’Urbe, dove nel 312 ebbe luogo la battaglia tra Costantino e Massenzio. Nel 2006 è ritornato ai clamori delle crona-
SCONTO clacson impazziti, fischetti di vigili, confusione di macchine rimosse, negozianti imbestialiti. Ma c’è stato di peggio: il continuo, quasi ininterrotto risuonare di autoambulanze perché sul fatidico luogo scorreva il sangue. Ebbene sì, anche le lame dei coltelli hanno luccicato tra la folla in coda per Trony.
Ottomila persone in coda vicino a Ponte Milvio fin dalla notte per accedere ai prodotti offerti sottocosto ai primi clienti. Paralizzate numerose zone limitrofe della città che per via dei lucchetti d’amore resi celebri da Federico Moccia in Ho voglia di te; anche quella una storia finita male, perché a forza di serrare lucchetti sul lampione centrale del Ponte, il lampione è crollato e adesso una quantità di pilastrini sono turisticamente adibiti allo scopo. Nella mattinata di ieri la piazza di fronte al Ponte era tutto un risuonare di
Allora, che morale ricavare da tutto questo? Rispondendo a un aforisma dell’indimenticabile Mafalda, protagonista dei fumetti di Quino, che si chiedeva dopo aver visto in tv l’ennesima pubblicità, cosa sarebbe successo «quando la società dei consumi arriverà alla sazietà dei consumi?», possiamo affermare che sazi ancora non siamo. Al contrario. La crisi che stiamo attraversando, che si sta abbattendo su di noi e sull’intero Occidente, ancora non ha prodotto frutti: dal letame non sono ancora nati i fiori, come prometteva De André. La crisi, invece,ci sta rendendo più famelici, affamati di stordimento, desiderosi di anestetizzare le preoccupazioni che dovrebbero spingerci verso maggiore consapevolezza e sobrietà con optional o placebo inadeguati a dare risposte, a segnalarci una via. E se ciò vale per i nostri governanti (scusi signor sindaco Alemanno, cosa succederà da ora in poi a Ponte Milvio, luogo già tragicamente trendy per i suoi wine bar e per i giovani chiassosi e a dir poco ubriachi che lì si danno convegno?), non vale di meno per noi. Certo, si può anche sostenere la necessità del superfluo, soprattutto sottocosto, ma quello che è purtroppo evidente è che nella società dei consumi l’essere umano si è bevuto il cervello. Del resto, recitano le Ecclesiaste, «infinito è il numero degli stolti».