2011_10_29

Page 1

11029

mobydick

he di cronac

ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 29 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il premier insiste con Bini Smaghi perché lasci la Bce, poi dice: «L’euro non ha convinto nessuno»

Il grande bluff di Berlusconi Ecco come e perché il Cavaliere si prepara alle urne per il 2012 Alla Camera la maggioranza non c’è più. Ha già prenotato gli spazi pubblicitari. Sta lanciando il nuovo partito... Dice il contrario per tranquillizzare il Colle e i suoi: ma il piano è un altro I TRUCCHI DEL CAVALIERE

UN MESE DECISIVO

Ma lo sviluppo non ha bisogno dei licenziamenti

Fa passare quest’anno, poi si ricandida (e tanti saluti ad Alfano)

di Savino Pezzotta

di Enrico Cisnetto

Quando si afferma che la Commissione Europea ha approvato la lettera del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ho l’impressione che si compia soltanto una operazione di immagine. a pagina 9

Quello che per Berlusconi è tempo guadagnato, per l’Italia è tempo perso. E l’accoppiata Merkel-Sarkozy ha trovato un terreno d’interesse comune nell’accusare l’Italia. a pagina 4

MALE BORSE E ASTA DEI BTP

I VINCOLI DELL’INTEGRAZIONE

I titoli di Stato stanno bocciando le promesse

Barroso e Van Rompuy, i nostri nuovi leader ed è giusto che sia così

di Gianfranco Polillo

di Francesco D’Onofrio

Dopo l’euforia di ieri l’altro, dopo la lettera di buoni propositi, il risveglio è stato brusco. Perde la borsa di Milano, ma soprattutto il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni ha superato il tetto del 6 per cento. a pagina 6

La lettera di intenti del governo rappresenta un punto di approdo del processo costituente europeo che si sviluppa nel senso della riduzione della sovranità nazionale. a pagina 5

Benedetto e gli agnostici

Così il Papa vuol salvare anche chi non crede di Luigi Accattoli

A

Parlano Massimo Cacciari ed Enrico Morando

La fine di una lunga alleanza strategica

Il Pd potrà reggere unito in un governo di larghe intese?

E partì il grande gelo tra due vecchi amici, Bonanni e Sacconi

Il vero problema di Bersani è riuscire a tenere insieme tutto il partito di fronte alle pressioni dell’Unione per fare le riforme suggerite da Draghi e Trichet

Pensioni, articolo 8, regole sul lavoro: così è morto un legame dal forte significato politico. L’idillio tra il ministro e il leader della Cisl aveva permesso all’esecutivo di gestire la protesta

Riccardo Paradisi • pagina 8

Francesco Pacifico • pagina 6

se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

211 •

ll’indomani della quarta Giornata di Assisi per la pace conviene guardare alle novità che – secondo il costume di Papa Benedetto – sono maggiori di quanto appaiano. La preghiera silenziosa innanzitutto: quasi un passo indietro delle religioni sulla scena del mondo, ora che si sono fatte consapevoli del loro conflitto. Poi la presenza dei non credenti e la connessa mano tesa del Papa al“mondo in espansione dell’agnosticismo”. È la seconda volta in poco più di un mese che Benedetto parla con apprezzamento degli agnostici che sono in ricerca: l’aveva già fatto il 25 settembre dalla Germania. Conviene fare attenzione quando il Papa teo- In un mese, logo torna il pontefice su un’idea ha parlato e ne svolge una nuova due volte applicazio- a chi ne. Vuol di- si dice ateo re che sta lavorando sul tema, che magari ritroveremo – domani – in un documento o atto maggiore del Pontificato. I quattro “non credenti” invitati ad Assisi erano subito apparsi, fin dall’annuncio, interlocutori significativi a dispetto del numero: stavano a indicare un ampliamento della convocazione, quantitativamente ristretto ma simbolicamente largo. Quella presenza simbolica era intenzionalmente ancora più importante di quanto avevamo arguito dalle “note”preparatorie. a pagina 10

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto «Con la Lega siamo d’accordo: andremo a votare nel 2013», dice Berlusconi. Ma in realtà è tutto pronto per le elezioni ad aprile

Operazione Primavera

Maggioranza ai minimi, fronde interne, nodo Bini Smaghi da sciogliere: il governo non fa più nulla. La legislatura è finita la polemica di Errico Novi

ROMA. Grandi mobilitazioni in Parlamento? Neanche l’ombra. Entusiasmo per la svolta riformatrice del governo? Se qualcosa c’è, è proprio il minimo garantito. Il Pdl vibra in modo davvero impercettibile per il programma di fine legislatura presentato da Berlusconi in Europa. In attesa che il “pacchetto anti-crisi”arrivi la settimana prossima alle Camere, come il premier annuncia, nella maggioranza si nota una certa surplace. Alla tempesta di mercoledì sera, tra tonanti promesse di sviluppo e fulmini di guerra per i sindacati, segue un’atmosfera di sospensione. Berlusconi prova a ravvivare il fuoco intervenendo a un’iniziativa del Pdl a Roma sul commercio estero e alla “Telefonata” di Maurizio Belpietro su Canale 5. «Questo è un programma per i prossimi 18 mesi di governo», dice del piano presentato a Bruxelles. Mostra di credere negli impegni presi. Ma già qualche smottamento si intravede dietro il tono brutale con cui il premier torna sui licenziamenti. «L’obiettivo è incentivare le assunzioni. I dipendenti troveranno nello Stato, attraverso la cassa integrazione, la garanzia di essere remunerati e avere tempo di trovarsi un lavoro». Non esat-

Un altro smacco per il premier, dopo le scuse (inventate) della Merkel

La Germania elogia Napolitano «Speriamo che Roma sappia seguire il suo esempio» ROMA. Seconda puntata del grande gelo tra Berlusconi e la signora Merkel. Giovedì c’era stata la disputa sulle scuse inventate dal premier italiano e mai date dalla cancelliera tedesca, ieri è arrivata una nota che non consente equivoci né, tanto meno, gialli. Il (solito) portavoce del governo tedesco, ha ufficialmente spiegato che Berlino guarda con speranza al presidente della Repubblica Napolitano: è lui l’esempio che il governo italiano dovrebbe imitare. «Napolitano ha detto che, ora più che mai, ci troviamo in un mare in tempesta e tutti sulla stessa barca. Ogni Paese deve dare il suo contributo. E questo è il momento che l’Italia agisca nell’ambito dello sviluppo, delle riforme strutturali realizzando con risolutezza le decisioni annunciate» ha detto il portavoce dell’esecutivo di Berlino. E subito ha aggiunto: «Questo è il momento che l’Italia agisca nell’ambito dello sviluppo, delle riforme strutturali realizzando con risolutezza le decisioni annunciate. Non possiamo che esser d’accor-

do con Napolitano e confidare sul fatto che anche la guida dello Stato la veda così». Come sempre (come aveva già fatto l’altra notte quando aveva smentito le presunte «scuse» di Angela Merkel a Berlusconi, il portavoce tedesco ha generosamente proseguito con stile sulla presunta polemica

tra la cancelliera e Sarkozy da una parte e Berlusconi dall’altra: «Domenica ci sono stati buoni colloqui fra la cancelliera Angela Merkel e il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, anche alla presenza di Nicolas Sarkozy.

tamente una mano tesa ai sindacati, né l’annuncio di uno straccio di concertazione. Nonostante l’invito di Napolitano a collaborare su «obiettivi comuni di interesse generale».

Come possa mai riuscire il governo ad approvare norme difficili come quella sui licenziamenti non è chiaro. Un esecutivo che stenta a trovare i numeri in Parlamento anche su innocue mozioni, figurarsi se può sfangarla quando si tratta di ridiscutere l’articolo 18. E questa forse è la prova più inoppugnabile delle vere intenzioni che si celano dietro la lettera d’intenti alla Ue. In realtà si tratta di un prodigioso bluff. Di un colpo sparato in aria per farsi dire no, dichiarare l’oggettiva impossibilità di applicare le misure previste e andare al voto in primavera. Non si liquida la questione licenziamenti con una battuta, se la si vuole davvero affrontare. Si può dire anzi che l’aver messo sul tavolo la flessibilità in uscita è una mossa funzionale proprio al naufragio della legislatura. E il trucco funziona: la leader della Cgil Susanna Camuso già chiede a Bonanni e Angeletti di «ritrovare l’unità». Di Pietro annuncia un’iniziativa comune delle opposizioni per presentare una mozione di sfiducia. La proba-


la crisi italiana

29 ottobre 2011 • pagina 3

il retroscena

Aspettando il Generale Novembre Il prossimo mese è l’ultimo utile per formare un nuovo governo: nel Pdl lo sanno tutti... di Marco Palombi

ROMA. «Sono stato ricevuto a palazzo Grazioli: ho spiegato a Berlusconi che pur essendo il 28 ottobre, qualcuno vuole preparargli il 25 luglio». Francesco Storace estrae dalle memorie della sua giovinezza politica il paragone storico: il gioco è tra l’anniversario della marcia su Roma e la data in cui Benito Mussolini venne messo in minoranza nel Gran Consiglio del Fascismo da una congiura. Il riferimento, neanche troppo velato, è all’agitarsi di “scontenti” dentro al Pdl che giovedì ha portato alla diffusione di una lettera, di un pizzino, di uno scritto senza paternità certe in cui si chiede al premier “un passo indietro” per poter allargare la maggioranza e rispettare così gli impegni presi con l’Europa. I nomi su cui si appuntano i sospetti sono i soliti: Pisanu e i suoi amici, Scajola e i cosiddetti scajoliani (ieri il friulano Roberto Antonione è tornato a criticare l’ostinazione di Berlusconi), peones sparsi impauriti da una fine precoce della legislatura, i cavalli pazzi come il senatore Giuseppe Saro, friulano pure lui, che ha già dichiarato di «lavorare ad un governo di transizione».

Nessuno, però, ha rivendicato la paternità dello scritto, anzi dal partito di maggioranza relativa si sono dati da fare contro “la lettera anonima” (Cicchitto), scritta tempo fa e tirata fuori ora ad arte (un po’ tutti), «l’inedito di Pirandello che nessuno ha scritto e nessuno firmato» (Quagliariello), tanto che Luigi Contu, direttore dell’Ansa, bile durezza della risposta sindacale, soprattutto, sarà un alibi perfetto in Europa per giustificare il ritorno alle urne.

Sul tavolo dunque non c’è un piano di riforme. C’è semplicemente un bluff. Notevole. Utile anche a Bossi. Il capo della Lega ha qualche interesse ad accelerare la scadenza del voto. È ben noto quello più forte: l’opportunità di andare alle elezioni con l’attuale porcellum. Strumento indispensabile per tenere sotto controllo il partito. Limitare il peso dei maroniani e comunque sedarne le pulsioni centrifughe. Ancora Berlusconi insiste nel dire che non c’è nessun accordo con l’alleato per una fine anticipata della legislatura. «Sarebbe contro gli interessi del Paese», dichiara. Ma non sarà certo lui eventualmente ad assumersi esplicitamente la responsabilità di lavorare contro tali interessi. Dal suo punto di vista, saranno le

la prima agenzia a diffondere la notizia, ha dovuto replicare pubblicamente: «Il documento diffuso ieri è stato consegnato ai colleghi della redazione parlamentare da un deputato del Pdl al quale gli autori della lettera avevano chiesto la firma (…) Naturalmente l’Ansa tutela le fonti, spetta eventualmente ai promotori dell’iniziativa assumerne la paternità». Eventualità improbabile visto che – è l’ultima voce di Transatlantico – il documento è stato reso pubblico proprio per bruciarlo, per im-

Secondo molti, l’esecutivo rischia sul decreto Sviluppo che sarà votato dal Parlamento il 15 del prossimo mese paurirne gli autori, per esporli alla reazione di palazzo Grazioli. E infatti Denis Verdini ha già cominciato una delle sue usuali “investigazioni”, cui seguirà l’opera di convincimento coi mezzi soliti e hai visto mai che funzioni un’altra volta, visto che alla Camera i don Abbondio, com’è naturale, abbondano. È tanto vero che il Pdl non è affatto preoccupato: se nessuno ha firmato la lettera, spiegava una nota del partito, vuol dire che non ci sono scontenti. Anzi, per Berlusconi è addirittura «una bufala».

I dissidenti, gli scontenti, i malpancisti o comunque li vogliano chiamare i giornali, però, ci sono,

opposizioni in Parlamento e i sindacati in piazza. Sarà il fronte del no alla riforma dell’articolo 18. Da qui a qualche mese dirà che non c’è nulla da fare, questo Paese va riformato e per farlo serve una nuova investitura popolare.

Altra prova? L’impegno forse più significativo assunto con la lettera a Bruxelles è il piano di dismissioni per 5 miliardi di euro in tre anni. Bene: ma non è chiaro come lo si possa realizzare senza l’accordo di Tremonti, cioè senza il ministro dell’Economia. Il quale ha praticamente disertato la preparazione della lettera a Bruxelles e teme che altri nel governo possano spingere per privatizzazioni a prezzo di saldo. Quasi tutti gli impegni inseriti nella lettera ai partner europei sono dunque oltre la soglia del praticabile. L’unico sul quale l’esecutivo avrebbe trovato l’immediata disponibilità del Terzo po-

anche se i dirigenti del Pdl non li vedono. Basterebbe citare le recenti fuoriuscite da partito e maggioranza di Versace, Destro, Gava e Sardelli o le interviste critiche che si rincorrono tutti i giorni o ancora le parolacce che volentieri ci si rivolge tra colleghi. La paura dei peones in cerca di futuro è un fatto palpabile dentro l’universo concentrazionario del Parlamento: deputati e senatori di poco peso, senza padrini politici, sanno che la prossima volta per loro non ci sarà spazio visto che il Pdl è destinato a perdere almeno 150 posti tra le due Camere. Quelli che qualche peso (e voto) ce lo avrebbero, ma non sono nelle grazie dei sottopancia di Berlusconi, più che impauriti sono invece incazzati e si agitano in cerca di una soluzione. Hanno capito che la lettera a Bruxelles di Berlusconi è un manifesto elettorale e l’unica via d’uscita a loro disposizione è un “governo del presidente” - nel senso di garantito da Napolitano - che porti la legislatura in fondo consentendo a chi è destinato a sopravvivere al premier di riorganizzarsi e trovare una casa. Le occasioni per fare al Cavaliere lo scherzetto in Parlamento, d’altronde, non mancano già a novembre: alla Camera la famosa maggioranza numerica del governo esiste a fasi alterne visto che va sotto due volte al giorno anche su roba innocua come le mozioni. Sono tre, comunque, i provvedimenti che possono disarcionare Berlusconi. A breve ritornerà sul luogo del delitto il Rendiconto generale dello Stato, già

lo, un intervento serio sulle pensioni, è stato messo da parte, non a caso. In virtù di un «patto scellerato con la Lega», come lo ha definito Casini, e per spazzare via un dossier sul quale c’era il rischio che si aprisse un dibattito vero. Ad impegnare il Berlusconi capo del governo è in realtà solo il pressing congiunto con Parigi

bocciato a Montecitorio tre settimane fa: probabilmente l’opposizione farà un po’ di casino sulla scorrettezza regolamentare del governo e il clima infuocato potrebbe fare il resto. A ruota rispetto al Rendiconto e all’Assestamento di bilancio 2011, arriverà nella fossa dei leoni anche la legge di stabilità con tutti i suoi fastidiosi tagli ai ministeri: questo ddl potrebbe anche essere meno digeribile di come era sembrato all’inizio visto che i soldi (4 miliardi e dispari) che il Tesoro doveva distribuire ai ministri dal suo Fondo per le esigenze inderogabili sono – dice la lettera inviata all’Ue – “vincolati fino a giungo al raggiungimento degli obiettivi di bilancio”.

Il picco di massimo rischio è però l’ultimo, il testo fantasma denominato decreto Sviluppo: il governo dovrebbe vararlo entro il 15 novembre e nei corridoi del palazzo si dice che sarà quella il terreno dell’Armageddon.Verdini lo sa e già sviluppa la sua strategia sullo sviluppo della maggioranza.

sono quasi introvabili, da gennaio in poi. La macchina elettorale insomma gira già a regime, altro che programma di fine legislatura. Il segretario del Pdl Angelino Alfano, futuro candidato alla presidenza del Consiglio, tiene riunioni per allertare i big del partito in vista del voto. Come svelato dal Riformista, ha già chiarito al

A partire da licenziamenti e privatizzazioni (sgradite a Tremonti), gli impegni presi nella lettera alla Ue sono scelti apposta per non essere realizzati. E avere così l’alibi con Bruxelles per anticipare il voto per indurre Bini Smaghi a lasciare la Bce. A parte una curiosa battuta sull’euro che «non ha convinto nessuno».

Poi ci sono evidenze schiaccianti. A cominciare dagli spazi pubblicitari che il premier ha già acquistato in tutta Italia. I cartelloni di grosse dimensioni

sindaco di Roma Alemanno che dovrà restare in Campidoglio. Nella “Telefonata” con Belpietro, il Cavaliere è tornato sull’acronimo del Popolo della libertà che «non emoziona» e dunque sarà cambiato. Unica concessione: il nuovo brand non sarà «Forza Silvio». Più lampante di tutto è la ritirata

della maggioranza dal Parlamento. In risposta alle continue cadute, l’esecutivo dichiara ormai sistematicamente di «rimettersi all’aula». Persino su antichi cavalli di battaglia come il ponte sullo Stretto. È una tecnica studiata nelle settimane scorse, quando la fronda scajoliana pareva in grado di scardinare il governo. Inizialmente era circolata un’ipotesi leggermente diversa: ridurre al minimo il numero dei provvedimenti da discutere. Su quelli irrinunciabili, fiducia immediata, in modo da impedire che i dissidenti logorassero il premier a colpi di emendamenti, pur senza esporsi fino alla sfiducia. Adesso si è trovato il modo di neutralizzare anche gli atti di indirizzo: il governo annuncia puntualmente di rimettersi al Parlamento sovrano. Una ritirata impudente più che grottesca. Pensare di poter realizzare la rivoluzione liberale in tali condizioni è ridicolo.


pagina 4 • 29 ottobre 2011

la crisi italiana

La sfida (scorretta) di Merkel e Sarkozy poteva essere fatale al premier, ma lui è riuscito a galleggiare anche questa volta

L’illusionista

Far passare gli ultimi mesi dell’anno e ricandidarsi vincendo le primarie all’americana: ecco che cosa vuol fare Berlusconi (anche se dice il contrario). Perché non ha la maggioranza per mantenere le promesse che ha fatto all’Europa uello che per Berlusconi è tempo guadagnato, per l’Italia è tempo perso. L’accoppiata MerkelSarkozy, che resta divisa su molte questioni, ha trovato un terreno d’interesse comune nel coltivare l’idea di scaricare addosso a noi la colpa dell’impasse dell’eurosistema – che ha ben altre ragioni – e la totale assenza di credibilità del premier li ha favoriti nel fare questo giochetto. Di qui il diktat, espresso a Berlusconi dai due suoi colleghi e poi “rivestito” di una qualche formalità – ma siamo sempre ben al di là dei Trattati europei – da Commissione e Consiglio Ue. Il Cavaliere lì per lì c’è cascato come un pollo, dicendo a “Merkozy” che avrebbe fatto tutto quello che gli chiedevano, a cominciare da una riforma “vera”delle pensioni. Avrebbe potuto mandare Francia e Germania a quel paese per l’irritualità della condizione in cui con quel «avete 72 ore di tempo» stavano mettendo uno stato sovrano, e per di più il terzo nella classifica dell’euroclub, ma avendo la coscienza sporca per non avere fatto alcuna di quelle riforme strutturali di cui ci sarebbe stato

Q

di Enrico Cisnetto bisogno e sapendo che tanto con l’inquilino dell’Eliseo (Bini Smaghi) quanto con la cancelleria volgarmente apostrofata aveva peccati da farsi perdonare, il Cavaliere non ha avuto la presenza di spirito di rovesciare il tavolo. Anzi, ha giurato che avrebbe fatto i compiti a casa.

Poi, tornato a Roma, qualcuno gli ha spiegato che era meglio mostrare i denti, e con quasi 24 ore di ritardo ha fatto un comunicato di protesta per la pubblica irrisione dedicatagli dal duo.Tuttavia, quello sfizio non gli ha risolto il problema di Bossi, che sulle pensioni ha fatto il suo solito gioco del ricatto al rialzo, quello che in questi tre anni di governo (ma anche nell’altra legislatura) gli ha consentito di avere sempre di più «il coltello dalla parte del manico» (come dice lui stesso). Poi ha trovato la “quadra” (sempre per usare il linguaggio del capo della Lega): mandare a Bruxelles una bella letterina di Natale, piena di buone intenzioni ma nulla di più. Sapendo che quelli non avrebbero potuto far altro che abbozzare e

ringraziare. Magari ammonendo, come è effettivamente stato, che vigileranno affinché Roma passi dalle parole ai fatti nei tempi previsti. L’alternativa, infatti, sarebbe stata una bocciatura che avrebbe aperto un conflitto difficilmente gestibile, dando spago alla speculazione a danno non solo dell’Italia, ma anche e soprattutto dell’eurosistema. Qualcuno dice che la reiterata rigidità dei tedeschi è funzionale ad un disegno preciso: smontare l’euro per rifarne uno molto più marcocentrico, solo con i paesi virtuosi. A parte che si potrebbe obiettare che, se fosse, si tratterebbe di un disegno sbagliato, perché oggi non ci sono le condizioni per scindere gli interessi tedeschi (a cominciare da quelli delle sue banche) dal resto d’Europa, ma in tutti i casi questa ipotesi avrebbe dovuto comportare una risposta negativa alla lettera di Berlusconi, proprio per far saltare il banco.

non l’Italia. Intenzione legittima, sia chiaro, e pure buona. Nulla di cui scandalizzarsi, il gioco politico è sempre transitato anche attraverso coordinate internazionali. E poi, ai fini della transizione italiana verso la Terza Repubblica, meglio uno scenario del genere che una caduta del Cavaliere per ragioni giudiziarie o scandalistiche. Solo che in questi casi chi impugna la pistola deve saperla usare a colpo sicuro, se sbagli sei fregato. E così è successo ai “Merkozy”: pensavano che dandogli 72 ore di tempo per fare ciò che non è stato capace di fare in oltre otto anni di governo, Berlusconi alzasse le mani e si arrendesse, facendo quel “passo indietro” che nessuno in Italia, né le opposizioni né i mugugnoni della maggioranza sono riusciti a fargli fare. Invece lui ancora una volta si è messo d’accordo con Bossi e ha costretto l’Europa a concedergli tempo.

No, la verità è che, per ragioni diverse ma coincidenti nell’obiettivo finale, i “Merkozy” volevano far inciampare Berlusconi,

Molto probabilmente non saranno quei 18 mesi che ci separano dalla scadenza naturale della legislatura, ma per lui ogni

giorno in più di sopravvivenza è comunque ossigeno. Stefano Folli, con la consueta lucidità, lo ha spiegato molto bene ieri sul Sole 24 Ore: lo scambio di lettere con l’Europa non cancella l’eventualità di elezioni a marzo, anzi. Ma toglie spazio – ancora una volta, dopo i falliti assalti parlamentari del 14 dicembre 2010 e del 14 ottobre scorso – alla possibilità che alle urne ci porti non l’attuale esecutivo ma un governo con una più larga base parlamentare. E che questo sia lo scenario lo confermano le dichiarazione del premier di ieri, tutte incentrate a definire i termini con cui la sua parte politica si presenterà agli elettori. E quel riferimento alle primarie in stile americano, date non più come un’ipotesi ma come una decisione presa dal “capo”, stanno ad indicare che lui intende candidarvisi e che, ovviamente, le vincerà. A conferma di quanto abbiamo sempre sostenuto: nessun largo ai giovani, con buona pace di Alfano e coetanei. La spina da staccare, naturalmente, rimane in mano alla Lega, o meglio a Bossi e al suo“cerchio magico”, che finora sono riusciti a evitare il ventilato blitz interno –


29 ottobre 2011 • pagina 5

È inutile pensare che il valore dell’integrazione politica possa essere a “costo zero”

Ecco perché è Van Rompuy il nostro nuovo leader

La “lettera” d’intenti presentata dal governo dimostra come ormai la vocazione europeista comporti anche una certa perdita di sovranità di Francesco D’Onofrio a lettera di intenti inviata dal governo italiano a Van Rompuy e a Barroso rappresenta un punto di approdo del processo costituente europeo che si è andato sviluppando, soprattutto da Maastricht in poi, nel senso della progressiva riduzione della sovranità nazionale. Questo processo ha rappresentato - anche nel corso della cosiddetta Prima Repubblica - un punto fondamentale di discrimine per la formazione stessa della maggioranza di governo italiana, nel senso che nel contesto del processo europeistico la linea politico-economica nazionale ha sempre potuto discutere del “come” ma non anche del “se”della scelta europeistica. La stessa partecipazione del Partito Socialista Italiano a governi sostenuti e promossi dalla Democrazia Cristiana è stata per molti anni condizionata non solo e non tanto dal rapporto dello stesso Psi con l’Unione Sovietica, quanto dal rapporto dell’Italia con la Comunità Europea. Il rapporto tra Italia e Unione Europea non ha infatti costituito parte formale e sostanziale della stessa Costituzione italiana, perché questa è stata scritta tra il 1946 e il 1947 da soggetti politici che non avevano davanti a sé nessun processo di integrazione europea, neanche lontanamente paragonabile al processo che si mise in moto nel 1957.

L

Da allora in poi il contesto dell’integrazione europea si è venuto svolgendo lungo un asse politico-sociale sostanzialmente basato sulla espressione della “economia sociale di mercato”, che, a sua volta, ha assunto diverse declinazioni. Si è infatti sviluppato un modello anche formalmente socialdemocratico, nel quale il primato del “sociale” era di fatto garantito dallo Stato nella formula ripetutamente affermata “dalla culla alla tomba”; abbiamo altra volta visto attuarsi un modello più corporativo particolarmente forte nell’esperienza tedesco-occidentale; abbiamo infine assistito per molti decenni ad un modello italiano che ha oscillato da un lato tra Stato e mercato – secondo l’ispirazione socialdemocratica – e dall’altro tra Stato e società – secondo una indicazione prevalentemente proveniente dalla dottrina sociale della Chiesa. È stato infatti nel confronto tra queste diverse esperienze di economia sociale di mercato che l’Europa si è venuta progressivamente distinguendo dalla tendenza prevalentemente individualistica degli Stati Uniti d’America, che è stata forse non sufficientemente colta a causa del prevalere in quegli anni dell’alternativa sovietica agli Stati Uniti. Il processo di integrazione europea aveva pertanto finito con l’influire, anche se indirettamente, sugli stessi equilibri politico-sociali previsti dalla costi-

tuzione italiana, perché si trattava di un processo che poneva l’integrazione medesima persino al di sopra degli equilibri nazionali, ritenuti a loro volta persino “variabile indipendente”. L’europeismo di conseguenza ha finito con il costituire una sorta di premessa politicoistituzionale necessaria per la formazione stessa del governo nazionale italiano: si poteva discutere in vario modo ed in varia misura del come distribuire la

La rottura del Psi sulla nascita della Comunità, nel 1957, aprì le porte del primo centrosinistra spesa pubblica, ma non si poteva operare in senso anche formalmente antieuropeista. L’interesse nazionale – come anche recentemente ha ripetuto il Capo dello Stato – comprendeva pertanto la scelta europeistica intesa quale modo migliore proprio per tutelare l’interesse nazionale, prima ancora che quale scelta legata alle modalità di distribuzione del reddito.

La convivenza tra interesse nazionale e processo di costruzione europea è stata posta in discussione negli ultimissimi tempi, perché l’emergenza finanziaria originata negli Stati Uniti, per ragioni non sempre coincidenti con quelle che sono all’origine dell’attuale crisi europea, ha ridotto la potenziale distanza tra interesse nazionale e integrazione europea, rendendo il rapporto tra Roma e Bruxelles sempre più simile al rapporto tra chi è guidato e chi guida. Possono pertanto essere del tutto comprensibili le ragioni nazionali che inducono a ritenere utopistica la concretizzabilità in Italia degli obiettivi indicati nella lettera di intenti, ma non vi è dubbio che da Bruxelles si guardi all’Italia per scorgere se in essa vi è una adeguata - anche nuova - maggioranza parlamentare capace di sostenere gli obiettivi indicati come necessari. La situazione politico-istituzionale che questa lettera rende sempre più evidente è dunque quella della inscindibilità del governo nazionale italiano dagli orientamenti che l’emergenza europea ritiene oggi

indispensabili. Si può dunque certamente discutere del “se” le misure indicate da Bruxelles sono o meno quelle giuste per conseguire i necessari equilibri tra risanamento e crescita, ma non si può discutere se questi equilibri sono accettabili o meno, salva la decisione – del tutto ipotetica – dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. I tempi dell’emergenza europea non sono lunghissimi. Anche l’Italia non può attendere i lunghi mesi indicati dalla lettera di intenti.

ma anche qui vale lo stesso discorso fatto per il Pdl: è inutile lamentarsi del “patto della prostata”tra i due vecchietti B&B se poi chi ha interesse al cambiamento non ha il coraggio di esporsi – e hanno confermato l’appoggio a Berlusconi per motivi politici e non. Ma la Lega determinante è la più sicura garanzia che nulla di quella parte “liberale” o anche più semplicemente modernizzatrice dei provvedimenti promessi alla Ue si farà mai. Basta vedere la linea tenuta dal Senatur – verso la quale Maroni è stato colpevolmente acquiescente – sulla riforma delle pensioni. «Non possiamo farla, la gente ci ammazza», ha detto con il solito linguaggio da Bar Sport il ministro (si fa per dire) Bossi per difendere gli interessi di una minoranza (il 65%, che sta al Nord, degli italiani che hanno o stanno per avere i requisiti per prendersi quella pensione di anzianità che giustamente l’Europa ci chiede di abolire). Non a caso sulla previdenza quanto è contenuto nella lettera italiana alla Ue è solo la conferma di norme già esistenti e che spostano in avanti negli anni la soluzione del problema. D’altra parte, sulla previdenza la Lega è recidiva. È stato lo stesso Maroni, autore della riforma del 2004 che introduceva il famoso “scalone” – poi sciaguratamente abolito dal governo Prodi – a raccontare che quell’intervento sarebbe stato ben più incisivo se non fosse intervenuto Bossi, che preferì allungarne i tempi in modo che la sua entrata in vigore finisse a carico della legislatura che iniziava nel 2006. Ed è stata sempre la Lega – senza alcuna resistenza del Pdl, anzi – a non volerla più riattivare una volta che il centro-destra tornò al governo nel 2008, nonostante che uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di allora fu la (giusta) reprimenda contro il centro-sinistra che spese 10 miliardi per riaccorciare l’età di quiescenza.

Ecco, in attesa di una classe dirigente capace di governare assumendosi la responsabilità delle scelte necessarie (anche impopolari) prescindendo dai sondaggi – cioè l’esatto contrario della cifra dei protagonisti della Seconda Repubblica, nessuno escluso – al Paese toccherà vivere ancora nel marasma politico. Perché una cosa è sicura: le riforme fin qui mancate non sono un caso sfortunato, ma l’inevitabile conseguenza della mentalità dominate. Perché il refrain “sentiamo cosa vuole la nostra gente”non è un segno di sensibilità democratica, bensì un mantra ripetuto da chi non ha idee in testa ed è capace di conquistare il consenso solo vellicando gli istinti più qualunquisti e corporativi della società. Cioè proprio quello che occorre mandare in pensione subito se non vogliamo finire fritti in salsa greca. (www.enricocisnetto.it)


pagina 6 • 29 ottobre 2011

la crisi italiana

Pensioni, articolo 8, licenziamenti facili: così è morto un legame dal forte significato politico

Raffaele e Maurizio, il gelo tra due ex amici La ritrovata unità dei sindacati dopo la ”lettera” segna anche la fine dello storico rapporto tra Bonanni e Sacconi di Francesco Pacifico

ROMA. Più che un’alleanza politica si è rotta un’amicizia. L’amicizia tra un abruzzese cocciuto (e che in vent’anni di Sicilia ha imparato anche essere più orgoglioso del dovuto) e un veneto tormentato e pignolo nata negli anni della Biagi, nel gruppo di lavoro sorto intorno al giuslavorista ucciso dalle br per rendere meno rigido il mercato del lavoro e portare tutele a chi non le ha mai avute. Da quasi tre mesi a questa parte Raffaele Bonanni e Maurizio Sacconi non si rivolgono più la parola. L’uno si sente tradito dall’altro (e viceversa) sulla gestione dell’articolo 8 della manovra e sul congelamento del riscatto ai fini pensionistici degli anni universitari e del militare. Forse per non darla vinta all’ex amico, Bonanni rimpiange soltanto la fine del rapporto con Giulio Tremonti. Chiuso per causa di forza maggiore, perché il ministro dell’Economia è stato messo all’angolo dal suo governo. Eppure in via Po definiscono l’ex tributarista pavese «un uomo di parola, uno che nel bene e nel male non faceva sorprese. E se contasse come un tempo mai avrebbe aumentato l’Iva prima dell’approvazione della riforma fiscale. E mai avrebbe permesso l’inserimento nella lettera all’Europa di tante scempiaggini». Ma se è il titolare del Tesoro viene considerato un interlocutore privilegiato, in Cisl quello del Lavoro rientra nella categoria dei amici. Lo dimostra anche la prima crepa nel legame con Bonanni. Sull’articolo 8 in via Po ammettono di aver avallato (anche senza rivendicarla) la norma della manovra che blinda gli ac-

Da via Po chiedono «un governo più forte, che prima si fa e meglio è». E credono che Berlusconi lavorerà soltanto per le elezioni anticipate cordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori dai ricorsi della Fiom. Ma accusano il ministro di aver forzato la mano sull’affievolimento dell’articolo 18, sull’impossibilità a licenziare nelle aziende sopra i 15 dipendenti, ben sapendo che Bonanni è da sempre contrario.

Dal dicastero di via Veneto, invece, replicano che l’articolo 8 era la semplice trasposizione in legge di una delle richieste della Ue. Quelle che di lì a poco sarebbero state contenute prima nella lettera di Trichet e Draghi, quindi inserite negli impegni che mercoledì scorso Berlusconi è stato costretto a sottoscrivere a Bruxelles.

Un vero pasticcio poi la gestione dell’innalzamento dell’età pensionistica che si è provato a inserire sempre nell’ultima manovra. Sacconi ha detto pubblicamente di aver avvertito Bonanni e Angeletti del tentativo di congelare il riscatto universitario e quelli del militare. Dalle due confederazioni ammettono in parte la cosa, ma fanno trapelare che il ministro aveva parlato di 3mila o al massimo 4mila soggetti interessati dal provvedimento. Salvo poi scoprire dagli uffici dell’Inps che la norma avrebbe causato all’istituto soltanto 650mila cause destinate a essere perse, visto che non si può annullare in corso d’opera un diritto acquisito. In questa vicenda Bonanni non ha soltanto gradito che il ministro rendesse pubblica una chiacchierata riservata che sono di prassi nella Capitale. Ma soprattutto che mettesse in difficoltà con le rispettive basi i segretari dei sindacati riformisti. E tanto è bastato perché i due – che si sentivano quasi giornalmente – chiudessero ogni rapporto. Per dare un calcio a un’alleanza che durante l’ultimo triennio ha frenato la piazza e garantito la coesione sociale, soprattutto calmando le ire degli statali storico bacino di consenso

e di tessere della Cisl. Per spazzare via l’asse asse che ha ispirato la politica economica del governo, non a caso contrario a toccare le pensione, ma impegnato a contrastare l’evasione e a garantire risorse sui contratti aziendali, possibile trampolino di lancio per la cogestione da sempre ventilata dalla Cisl. Tutti questi fattori preoccupano non poco Silvio Berlusconi adesso che ha promesso all’Europa di facilitare i licenziamenti negli stati di crisi e introdurre la cassa integrazione tra gli statali. Perché se il richiamo della Camusso all’u-

opo l’euforia di ieri l’altro, all’indomani del vertice di Bruxelles e dell’“assoluzione”del governo italiano, il risveglio è stato brusco. Perde la borsa di Milano (-1,8, unica in negativo in Europa), ma soprattutto il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni, nell’asta di ieri, ha superato il tetto del 6 per cento. Valore emblematico se si considera che non si registrava dalla nascita dell’euro. C’è quindi una forte continuità tra il mercato primario – quello delle aste appunto – e quello secondario dove la trattazione è continua e riguarda titoli da tempo emessi. È qui che nasce lo spread (ieri a 384,4) ed è sempre qui che può intervenire la Bce, come prestatore in ultima istanza, per limare i rendimenti quando essi appaiono eccessivi. Una manovra che non ha del tutto convinto i “nuovi” investitori, che hanno preteso un premio per il rischio particolarmente salato.

D

Ieri l’altro si era tirato un sospiro di sollievo. Si pensava a qualcosa di più strutturale. Una lettura insufficiente. Com’è noto, a Bruxelles, l’affaire Italia aveva subìto un declassamento di fronte a problemi di ben altra portata. Si doveva decidere soprattutto di Grecia e delle banche. Era quindi inevitabile, dopo la lunga trattativa per risolvere entrambe le questioni, che al caso italiano si dedicasse una minore attenzione.Tanto – questo il ragionamento – la risposta sarebbe venuta, come in effetti è stato, dal mercato. Questa sommaria ricostruzione spiega meglio di mille parole l’andamento dei mercati. Giovedì, a galva-

nizzare i listini era stato soprattutto il piano per l’Eurozona finalmente concordato in nottata, che prevedeva la ricapitalizzazione delle banche di importanza sistemica, l’haircut (taglio dei capelli, vale a dire un soft default) sul debito greco al 5060%, e il nuovo ruolo per il fondo di stabilità europeo che grazie ad uno special purpose vehicle potrà raggiungere i 1000 miliardi di euro (dai 440 attuali). Una rete di sicurezza, quindi, che faceva ben sperare. Era quindi inevitabile che la stessa Italia fosse contagiata dall’euforia, se non altro in considerazione del precedente trend ascendente che aveva portato guadagni – seppure sui minimi – di oltre il 20 per cento. Una delle migliori performance europee.

Poi, come abbiamo già detto, una gelata. Dato preoccupante non tanto per l’anno in corso, ormai agli sgoccioli, ma per quello successivo, quando dovranno essere rinnovati titoli per circa 290 miliardi di euro. Se la struttura dei tassi d’interesse dovesse mantenersi a questo livello, sarebbero guai. La maggiore spesa ci costringerebbe a ulteriori manovre in un avvitamento senza fine. Da qui un primo monito. Giusto o sbagliato che sia il programma presentato dal governo, quelle norme devono essere approvate in fretta e nel rispetto delle scadenze concordate. Ma basteranno gli impegni del governo ad arrestare la slavina? Una risposta è quanto mai difficile, viste le contraddizioni in cui vive l’economia italiana: da un lato un’industria manifatturiera che si sta riconvertendo, in modo anche veloce;


la crisi italiana

29 ottobre 2011 • pagina 7

nità sindacale si somma alla minaccia di sciopero generale di Bonanni e Angeletti, allora riaffora lo spettro del 1994. Quando i due milioni di italiani portati a piazza San Giovanni da Sergio Cofferati contro la riforma delle pensioni riuscirono dove aveva fallito l’avviso di garanzia della Procura di Milano e fecero sloggiare da Palazzo Chigi il Cavaliere. In questo clima è facile capire come Raffaele Bonanni ha accolto gli impegni dell’Italia verso la Ue. E non soltanto perché la formula usata – «Anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato» – va ben oltre l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per incidere anche sulla legge 223 sui licenziamenti collettivi. Che per la cronaca garantisce ai dipendenti un obolo (neppure sei

L’esecutivo teme la rottura con il segretario della Cisl e prova a convincerlo con una serie di misure per aumentare le tutele dei lavoratori senza articolo 18

L’asta dei titoli pubblici, ieri, è andata malissimo: le promesse non sono bastate

Ma il mercato ci boccia I Btp a più del 6%: un ulteriore (grave) peso sul nostro debito di Gianfranco Polillo dall’altro una larga parte del Paese – a cominciare dai servizi sia pubblici sia privati – che sembrano immobili nella contemplazione del proprio ombelico. E poi il sistema bancario, che non accenna minimamente a cambiare le sue cattive abitudini. Oggi l’attivo delle principali banche italiane è costituito, per circa il 40 per cento – percentuale che varia di poco da istituto a istituto – dalle commissioni derivanti dalle gestioni patrimoniali. In pratica quella larga fetta di risparmio delle famiglie che cercano un ipotetico rifugio dalla falcidia dei tassi d’interesse. Non si dimentichi che il rendimento dei singoli depositi è quasi negativo, in termini reali. Lo stimolo a cercare qualcosa di meglio è quindi particolarmente diffuso, specie per coloro che non se la sentono, per motivi vari, di tentare la via dell’immobiliare. La maggior parte di queste gestioni, visto l’andamento delle borse e l’erraticità dei mercati, dà rendimenti minimi se non negativi (quando i titoli di stato italiano rendono le cifre che abbiamo indicato). Ed ecco allora l’esigenza di una disintermediazione. Si cessi di inseguire – se non si vuol rischia-

re – le economie emergenti e s’investi in nuovi titoli del Tesoro, riservati alle famiglie.

Maria Cannata, una sorta di “vestale” del debito pubblico italiano cui si deve la gestione delle aste, ha fatto una proposta intelligente.Vendere direttamente tramite internet i titoli alle famiglie, grazie a un meccanismo che farebbe risparmiare lo Stato e garantirebbe alle stesse un rendimento maggiore. Il risultato sarebbe una riduzione dell’offerta dei titoli sui mercati internazionali e quindi una riduzione delle curve dei rendimenti: poiché l’incontro tra domanda e offerta si collocherebbe in un punto di equilibrio più basso. Basterà? È solo un primo passo, che incontrerà il favore delle generazioni più giovani, ma che forse taglia gli anziani che sono poi quelli che risparmiano di più e vedono, con maggior preoccupazione, che le loro disponibilità finanziarie, quando non diminuiscono, crescono di ben poco. E allora perché non pensare a titoli specifici destinati alle famiglie, com’erano i vecchi certificati di deposito? Uno strumento particolarmente flessibi-

le, dal punto di vista della scadenza, in grado di venire incontro alle variegate esigenze della clientela. Come distribuirli? Le banche, ovviamente, non saranno felici. In questo caso le commissioni sarebbero minime. Un discreto haircut per quei dirigenti le cui retribuzioni variano in ragione del fatturato finanziario. Se l’ostilità rischiasse di far fallire l’esperimento, sarebbe necessario ricorrere a canali di distribuzione alternativi che già esistono, come le poste italiane, dove sarebbe possibile sottoscrivere i nuovi certificati. Avrà successo? Siamo abbastanza ottimisti. Salvo casi minoritari, le famiglie italiane non amano il rischio. Preferiscono avere un rendimento certo e costante. Finora hanno cavalcato l’onda solo su consigli interessati. Che hanno arricchito i frati ma impoverito il convento.

mesi di salario) e ai datori di scaricare tutti gli oneri sociali. Se il ministro e il sindacalista non si parlano, in questo ore gli sherpa dei due si stanno impegnando per farli almeno incontrare. Anche perché sul piatto il governo è pronto a mettere una proposta che la Cisl non può non valutare: rilanciare lo Statuto dei lavori ormai lasciato marcire nei cassetti, armonizzare le tutele superando le dicotomie tra dipendenti e autonomi e, soprattutto, non toccare l’articolo 18 per i licenziamenti discrimiRaffaele natori o disciplinari, superare il Bonanni reintegro in quelli economici e Maurizio con fortissimi risarcimenti o Sacconi sono azioni concrete per il ricollocastati grandi mento. Magari estendendoli amici, ma anche ai rapporti collettivi, verhanno rotto sante sul quale gli ammortizzasulle nuove tori sono nulli. regole Difficile dire come andranno le del mercato cose, fatto sta che Bonanni apdel lavoro pena può – l’ha ripetuto anche ieri a La 7 e a Radio Vaticana – sostiene che «questo governo non va: ce ne vorrebbe uno più forte, che prima si fa e meglio è». In via Po, dove si vantano di aver firmato il memorandum sul pubblico nel 2008 con un Prodi già condannato all’oblio, sono interessati soltanto alla governabilità. Non considerano – al momento – una soluzione credibile la piazza, anche perché sono ancora troppe le differenze con la Cgil.Temono che il Berlusconi che promette all’Europa decreti attuativi entro maggio sia lo stesso che vuole andare a elezioni anticipate ad aprile. Sanno che senza l’apporto di Tremonti, o di un ministro in grado di sostituirlo, la lettera all’Europa è un esercizio di stile. Per tutto questo l’elettore del Partito democratico Raffaele Bonanni suggerisce come soluzione un governo dei migliori, che eviti il voto e guardi ai centristi dell’Udc, non prescinda dai moderati del Pd come Fioroni e Marini (tra i pochi al Nazareno a non preferirgli la Camusso) e inglobi i riformisti del Pdl come Tremonti e il suo ex amico Maurizio Sacconi. Uno schieramento molto simile a quella Cosa bianca, che secondo rumors di palazzo starebbe contribuendo a costruire anche con la benedizione del cardinale Angelo Bagnasco.


pagina 8 • 29 ottobre 2011

la crisi italiana

Il dilemma del segretario è semplice: o stare coi moderati per seguire il dettato della Bce o rifare l’Unione e non governare

Ce la farà il Pd?

Molti si chiedono se Bersani riuscirà a portare tutto il partito dentro un governo di larghe intese. Rispondono Cacciari e Morando di Riccardo Paradisi l Pd sarebbe pronto, secondo il segretario Bersani, a un governo d’unità nazionale e a un patto di legislatura tra progressisti e moderati teso a fare le riforme per l’Italia. Riforme che il governo Berlusconi promette da anni ma che non ha la forza di realizzare. «Il centrosinistra - dice Bersani - rivolgerà un messaggio alle forze moderate per un governo di ricostruzione. Non sto parlando di un’ammucchiata ma di un incontro per un patto di legislatura su una dozzina di riforme».

esempio la lettera si pone un compito condivisibile, come quello sulla competizione tra gli istituti scolastici.

I

La parola d’ordine del prossimo giro – sostiene infatti Bersani – deve essere “ricostruzione”, per mettere mano a una legislatura costituente. Il segretario del Pd non limita lo sguardo all’Udc e al terzo polo: «Serve uno schieramento ampio, una convergenza forte, andando al di là delle barriere tra diversi: un centrosinistra credibile come forza di governo e un centro che faccia i conti con il populismo devono fare un patto di legislatura. Per questo parliamo di patto tra progressisti e moderati per una riscossa civica». Un’alleanza tra sinistra, Pd e terzo polo dunque, anche se «ciascuno con le proprie distinzioni» ma uniti su un programma comune: «Dal fisco alla lotta all’evasione, dalle liberalizzazioni alla politica industriale: noi abbiamo proposte precise. C’è già mezzo programma di governo». Il problema come sempre è l’altra metà. O se si vuole la possibilità effettiva di conciliare e fare sintesi tra moderati, progressisti sinistra radicale (Sel) e giustizialisti (Idv), di trovare un comune denominatore cioè tra forze politiche che si distendono su un arco che va da Gianfranco Fini a Nichi Vendola passando per il cattolico e centrista Casini al progressista Bersani. «Con Idv, Sel e socialisti stiamo lavorando ad una ricostruzione dal lato democratico e dal lato del patto sociale. Stiamo facendo importanti passi avanti su cose molto concrete per la definizione di un programma che credibile. E per assicurare questa credibilità stiamo ragionando su un preciso meccanismo: nella vita dei gruppi parlamentari dovrà

esserci un vincolo di maggioranza». Pur volenteroso nell’immaginare un ancoraggio moderato per i progressisti Bersani non scioglie l’equivoco del Pd: il legame con il populismo dell’Idv e il radicalismo di Vendola.

A ben vedere però il problema di Bersani non è solo la geometria variabile delle alleanze è anche il fronte interno al Pd. Un fronte carsico per ora, pudico nel manifestarsi – l’opposizione interna guidata da Veltroni è in sonno da lunghi mesi, concentrato a investire politicamente sulle lacerazioni del Pdl e della maggioranza – ma che inevitabilmente riemergerebbe in superficie al momento decisivo. Insomma sarà anche vero, come dice il segretario del Pd, che la lettera all’unione europea di Berlusconi è un elenco di sogni – o per meglio dire di incubi, soprattutto in riferimento al patto scellerato stipulato con Bossi per salvare le pensioni e favorire i licenziamenti – ma quella missiva ha creato più imbarazzi al Pd che al governo. Perché se Berlusconi da un lato tenta di arruolare il senatore Pd Pietro Ichino alla causa sui licenziamenti facili che invece contesta l’attacco rudimentale all’articolo 18 – è vero che Ichino ha più avversari a sinistra e

che a destra. Nel Pd e in particolare, in quello che una volta si sarebbe chiamato il sindacato di riferimento, la Cgil. Certo, la lettera di Berlusconi si sostanzia per ora «solo di parole, non c’è nessun atto, solo chiacchiere di cui è già da temere un effetto boomerang». Osservazioni e preoccupazioni sensate quelle di Bersani ma sono preoccupazioni reversibili alla sua parte. Alcune richieste europee - licenziamenti senza ammortizzatori a parte - sono esigenze reali che l’Italia dovrà in qualche modo assolvere. E

esecutivi che hanno fatto un buon lavoro e hanno un buon nome»? Forse no. Anche perché in Europa a lato delle “cose buone”si ricordano anche dell’esito che hanno fatto i governi Prodi per l’esplosione fatale di contraddizioni interne insanabili. Enrico Morando, esponente dell’area liberal del Pd, non sfugge al compito di pensare fino in fondo il problema che si pone di fronte al suo partito. E lo fa con un’analisi di scenario che tiene sullo sfondo la complessità del contesto politico economico europeo e naziona-

Per l’esponente liberal «serve un governo del Presidente per seguire l’Europa». Per il filosofo, i democrats hanno già scelto l’alleanza a sinistra se il Pd sulla lettera della Bce non è riuscito a prendere una posizione unitaria come si può pensare che riuscirà ad averla per aprire una stagione di riforme? E su quale piattaforma riuscirà a trovare un’intesa con i suoi alleati concorrenti Vendola e Di Pietro? Basta la presentazione del curriculum degli ultimi vent’anni rivendicando all’attuale centrosinistra tutti insieme «I governi Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema: che in Europa – secondo Bersani – sono conosciuti come

le «Mercoledì scorso l’Europa ha fatto un passo nella direzione di un maggiore coordinamento delle politiche economiche e di bilancio. E si tratta d un passo enorme. Ora è chiaro che l’Italia debba fare la sua parte. La lettera del governo italiano alla Ue consiste in un articolato sistema di impegni con precise scadenze. In parte si tratta di impegni sbagliati – i licenziamenti facili per esempio – ma in parte si tratta di cose serie e condivisibii. Sul passaggio riferito alle infrastrutture per

«Ora se Berlusconi» ha mandato quella lettera per usarla semplicemente come piattaforma elettorale allora il livello di irresponsabilità è spaventoso, perché se l’Italia non riuscirà a rispettare gli impegni o darà l’impressione di ciurlare nel manico le conseguenze saranno pesantissime. Se invece il governo si impegna in questa opera e non ce la fa qualcuno deve continuarla a portarla meglio a meta». Come? «Con un governo del presidente. Napolitano verifica se ci sono le condizioni per una maggioranza parlamentare larga che assolva agli impegni che ci siamo presi e nomina una figura competente e super partes. Ecco, il Pd dovrebbe a mio avviso battersi con decisione per questa soluzione. Dovranno essere gli altri a sottrarsi a questa responsabilità, non noi». E se invece si va a votare, come è presumibile e come si sta preparando a fare anche il Pd che infatti ha già acceso i motori per le primarie? «Se si va elezioni - ragiona Morando – il Pd dovrebbe proporre uno schieramento che possa costituire quello che Angelo Panebianco ha chiamato la ”coalizione minima vincente”. Un’intesa in grado di governare. Se invece si mette insieme quello che non può stare insieme allora non si va da nessuna parte. Perché non c’è solo il disaccordo sulle richieste della Bce ma anche sulla politica internazionale. L’idv ha puntualmente votato il contrario in questi anni rispetto all’orientamento del Pd su Afghanistan e Libia per esempio». Quello che per Morando è un timore per il filosofo Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia e padre costituente del Pd, è un’amara certezza. «Se si va a votare ora o fra un anno è pacifico che il Pd va con Sel e Di Pietro. Quelli guardano i sondaggi e sanno che perdono dieci punti se rompono con quell’area. Se la terranno stretta dunque. Non hanno il coraggio di rischiare e costruire una coalizione vera solo tra pro-


Il “libro delle promesse“ è pieno di contraddizioni che graveranno sul futuro

gressisti e moderati. E d’altra parte Casini non andrà mai nella coalizione con Sel e Idv. L’unica variabile che può scombinare questo gioco già segnato è un intervento di Napolitano che incarichi un Monti per fare un governo di scopo. Oppure che un Montezemolo scenda in campo e costringa tutti a ripensare le alleanze. Se queste due ipotesi non si verificheranno vedremo Vendola magari al governo fare le barricate sulla riforma pensionistica, del welfare e sulle liberalizzazioni. Altro che Lega». E l’Europa, a differenza delle stelle di Cronin, non starà a guardare.

Pierluigi Bersani è sempre più stretto nella morsa di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Per molti osservatori il leader del Pd ha scelto di allearsi con la sinistra in vista delle elezioni

Lo sviluppo non ha bisogno di licenziamenti facili

La “lettera” rilancia un liberismo esasperato, proprio mentre la crisi dimostra quanto possano essere negativi i suoi effetti di Savino Pezzotta uando si afferma che la Commissione Europea ha approvato la lettera del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ho l’impressione che si compia una operazione di immagine. È vero che il premier polacco Tusk ha detto: «Il piano di misure contenuto nella lettera, ha fatto un’ottima impressione ed è stata accolta con favore in Europa», ma occorre capire le ragioni di tali dichiarazioni.

Q

Il governo italiano si è presentato a Bruxelles con un testo diverso che ha dovuto cambiare fissando, sotto dettatura, le scadenze di attuazione: chiara dimostrazione che non si fidano, che gli impegni proposti sono generici e generiche restano le intenzioni e la capacità di agire. Quello che possiamo rilevare è che la fiducia dell’Unione nei confronti del governo Italiano non è piena né convinta, al punto tale che invita e incarica la Commissione «a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorarne l’attuazione». Se questo non è un commissariamento, poco ci manca, anche perché le date indicate sembrano a tutti di pura fantasia. Anche affermare che le Borse e i mercati abbiano apprezzato la lettera del governo italiano è una mistificazione perché sappiamo che, viceversa, è stata apprezzata la decisione del Consiglio d’Europa di stanziare 1000 Miliardi di euro per salvare il sistema finanziario europeo. Forse ai nostri governati e alla loro corte un poco di umiltà non farebbe male. Stante la situazione, nella lettera potevano essere scritte tante altre cose e all’Unione non restava altro che correggerle e mettere sotto osservazione la loro attuazione. Questo documento, però, ha almeno il pregio di evidenziare le debolezze del governo italiano e creare l’illusione che, adottando misure chiaramente liberiste, si possano affrontare i problemi del nostro paese. Proprio in questi giorni il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace ha elaborato e diffuso un documento in cui l’ideologia liberista viene molto stigmatizzata, ma da noi si persegue una strada che ha fatto tanti guai e che è stata causa di grandi sofferenze umane. Il contenuto della lettera mi sembra lontano da quella idea di economia sociale di mercato che dovrebbe invece animare la politica. Per avvalorare il mio giudizio basterebbe leggere quanto è stato scritto circa il divario nord-sud o la riduzione dei costi dei servizi. Dobbiamo dire che non è mancata la fantasia a chi ha esteso quella lettera! Sono promesse di intervento su temi mai abbozzati in questa legislatura: e ora, in pochi mesi, si pensa di poterli affrontare con un Governo costretto a presidiare l’Aula di Montecitorio per garantire la maggioranza!

- i Governi avevano adottato misure di stimolo come ad esempio il New Deal negli Usa. Ma per me è insopportabile è l’idea che i licenziamenti favorirebbero l’occupazione. Non ho capito perché sia stata introdotta una norma che nemmeno gli industriali avevano mai chiesto. Sembra quasi una rivalsa verso l’accordo Confindustria-Cisl-Cgil-Uil che sterilizza la più sfumata prospettiva contenuta nella manovra di agosto. Non si può dire che ce lo chiede l’Europa perché nella lettera spedita ad Agosto da Trichet e Draghi si legge: «Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento». La necessità di intervenire su questa materia esiste sicuramente anche per poter contrastare la precarietà. I licenziamenti per motivi economici esistono già oggi e sono regolati dagli accordi interconfederali ma prevedono tutta una serie di misure preventive, l’attuazione di ammortizzatori sociali e di accompagnato dei lavoratori, insieme all’obbligo del confronto con le organizzazioni sindacali. Non si comprende il senso di questa norma a meno che si voglia introdurre la “mano libera”. Cosa penseranno le migliaia di persone in cassa integrazione?

Sorge il dubbio che si rivoglia aggirare l’articolo 18 come con l’8 della manovra di agosto. Non sarebbe stato meglio che su materie che riguardano l’autonomia della parti sociali, prima di avanzare proposte, ci fosse stato un confronto con le parti sociali? Con i collegi di conciliazione e arbitrato per una necessaria riforma del processo del lavoro? Ma come sappiamo questo è un governo che ignora l’autonomia delle parti e il confronto. Pensare che si possano affrontare le questioni che la crisi sta ponendo senza ripristinare modalità di concertazione in forme adeguate al presente, mi sembra fuori da ogni logica di coesione sociale. Anche sull’apprendistato mi sento di avanzare alcune osservazioni. Non ho nulla in contrario verso questo istituto contrattuale ma, perché sia valido e non una forma per pagare meno i giovani, occorre rafforzare la parte formativa attraverso agenzie formative sottoposte a costante monitoraggio. L’innalzamento dell’età pensionabile è un problema ineludibile, ma non si deve porre come un automatismo. Deve essere articolato per situazioni lavorative e vincolato ad alcune condizioni: per le donne alla maternità; uscite dal lavoro anche prima del termine prefissato con il vincolo che il livello della rendita maturata sulla base dei contributi versati all’atto dell’abbandono del posto di lavoro non sia mai reintegrabile dallo Stato; lavoro flessibile per gli anziani (part Time). La crescita delle aspettative di vita richiede inoltre interventi per l’occupazione giovanile e un piano di utilizzo del lavoro degli anziani.Tutte cose che nella lettera non si vedono. Insomma, le contraddizioni presenti nella lettera, l’assenza di un progetto per il paese e per i giovani, la chiara volontà di caricare ulteriori pesi sulle spalle di chi già porta quelli della crisi, spero facciano nascere nei sindacati il desiderio e la volontà di unità. E nelle opposizioni la capacità di rintracciare e proporre un disegno alternativo di crescita e di sviluppo umano per il Paese.

La riforma delle pensioni è un nodo ineludibile, ma non prima di aver studiato soluzioni differenziate in base alle diverse realtà lavorative

Non possiamo nemmeno sottovalutare il fatto che tutto avviene in nome della stabilità finanziaria, obiettivo condivisibile ma impossibile da realizzare senza crescita. Al di là delle parole mirabolanti, la crescita resta affidata alla spontaneità del mercato, compito impossibile in tempi di crisi, di disoccupazione galoppante, di abbassamento dei redditi e innalzamento dei livelli di impoverimento. Già nel 1929 - per contrastare una crisi che forse, pur nella sua gravità, era meno pesate e sistemica dell’attuale


società

pagina 10 • 29 ottobre 2011

ll’indomani della quarta Giornata di Assisi per la pace conviene guardare alle novità che – secondo il costume di Papa Benedetto – sono maggiori di quanto appaiano. La preghiera silenziosa innanzitutto: quasi un passo indietro delle religioni sulla scena del mondo, ora che si sono fatte consapevoli del loro conflitto. Poi la presenza dei non credenti e la connessa mano tesa del Papa al “mondo in espansione dell’agnosticismo”. È la seconda volta in poco più di un mese che Benedetto parla con apprezzamento degli agnostici che sono in ricerca: l’aveva già fatto il 25 settembre dalla Germania. Conviene fare attenzione quando il Papa teologo torna su un’idea e ne svolge una nuova applicazione. Vuol dire che sta lavorando sul tema, che magari ritroveremo – domani – in un documento o atto maggiore del Pontificato.

A

I quattro “non credenti” invitati ad Assisi erano subito apparsi, fin dall’annuncio, interlocutori significativi a dispetto del numero: stavano a indicare un ampliamento della convocazione, quantitativamente ristretto ma simbolicamente largo. Ed ecco che dopo aver ascoltato l’interpretazione di quell’invito dalla bocca dello stesso Benedetto – durante l’assemblea di apertura della Giornata, in Santa Maria degli Angeli – dobbiamo dire che quella presenza simbolica era intenzionalmente ancora più importante di quanto avevamo arguito dalle “note” preparatorie. Dopo aver parlato della violenza che viene dall’abuso della religione – di chi cioè accampa ragioni religiose per muovere guerra – e dalla negazione della religione, per questo ha citato i totalitarismi del secolo scorso, Benedetto ha motivato a lungo l’invito rivolto ai rappresentanti di “un altro orientamento di fondo” che “esiste nel mondo in espansione dell’agnosticismo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio”. Queste parole di un uomo che è a sua volta in ricerca – e che tenta di descrivere un fenomeno,

Benedetto XVI ha voluto chiarire che è “nella preghiera del cuore” che si può incontrare Dio

«Così salverò gli agnostici» La loro presenza è stata la vera novità di Assisi di Luigi Accattoli tinuamente interrogare dalle ragioni della non credenza.

Egli cerca negli agnostici degli interlocutori nella ricerca di Dio, se non degli alleati nella resistenza all’aggressività dell’ateismo conclamato, che avverte in crescita. Ha detto l’altro ieri che i “cercatori della verità”che si collocano nell’area dell’agnosticismo “tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca”. Dunque ad Assisi non c’erano soltanto le religioni mondiali, ma c’era anche – idealmente – l’intera umanità che si interroga su Dio. E come Giovanni Paolo nel 1986 aveva chia-

È la seconda volta in poco più di un mese che il Papa parla con apprezzamento degli agnostici che sono in ricerca: segno che sta elaborando qualcosa, magari un documento, che spieghi il tema come quello dell’agnosticismo, ancora poco trattato dalla predicazione dei Papi – inducono a ricordare la riflessione già svolta da Benedetto durante un’omelia tenuta a Freiburg im Breisgau in occasione del viaggio di un mese addietro in Germania. “Agnostici – aveva detto allora – che a motivo della questione su Dio non trovano pace (…) sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine”. C’è da dire che abbiamo un Papa inquieto, che si lascia con-

mato le religioni a un impegno comune per la pace, così ora Benedetto ha chiamato a esso sia le religioni sia gli “uomini di buona volontà”, per usare un’espressione evangelica che fu cara a Giovanni XXIII. Ora ci è più chiaro come tra i responsabili curiali dell’evento di Assisi non vi fossero soltanto – come già 25 anni addietro – gli organismi che si occupano della Giustizia e della Pace, del dialogo ecumenico e di quello interreligioso, ma anche il Consiglio per la Cultura. E que-

sto ampliamento della ricerca degli interlocutori lo possiamo vedere in connessione il programma del Cortile dei Gentili, affidato a quello stesso dicastero. Quanto alla preghiera affidata a un “tempo di silenzio”, di sicuro Benedetto è stato mosso a tale scelta dall’avvertenza – che egli ha fortissima – che la preghiera in comune delle varie religioni sia un atto rischioso. Egli è anche convinto – lo disse più volte da cardinale – che siano da evitare anche il pregare nello stesso luogo o in contempora-

nea, seppure in luoghi separati: tutte forme che si erano sperimentate nelle precedenti giornate di Assisi (1986, 1993, 2002). Ma quella preghiera condotta nel silenzio e nella discrezione – in obbedienza al comando di Gesù: “Quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto” (Matteo 6) – a mio parere ha anche altre motivazioni, nella proposta papale. Ci vedo una similitudine con la preoccupazione manifestata tante volte da Benedetto perché si osservino mo-

Incontro con le delegazioni religiose

«Grazie per essere qui» Un uomo lungimirante con una proposta e un gruppo di interlocutori attenti a coglierla e ad accoglierla. Così è potuto accadere che Assisi diventasse la casa comune di chi è convinto che fede faccia rima con pace e valori e non con odio e pregiudizi. Il giorno dopo il grande raduno, è la Sala Clementina a contenere i sentimenti ancora “caldi”di chi è stato da poco protagonista con il Papa di un momento di dialogo. Benedetto XVI ha avuto parole di gratitudine per tutti: per la “presenza fraterna”dei fratelli e sorelle cristiani e per i rappresentanti del popolo ebraico, a noi – ha detto

– “particolarmente vicini”, come pure per tutti gli “illustri rappresentanti delle religioni del mondo” e per coloro, ha aggiunto, «che non seguono alcuna tradizione religiosa ma sono impegnati nella ricerca della verità e hanno voluto condividere questo pellegrinaggio come segno della loro volontà di collaborare alla costruzione di un mondo migliore». Incontri simili, ha osservato il Papa, sono per forza di cose “eccezionali e poco frequenti”, ma sono pure «una vivida espressione del fatto che persone di differenti tradizioni religiose vivono e lavorano insieme in armonia».

menti di preghiera silenziosa persino durante le liturgie di massa e perché si recuperi il momento dell’adorazione condotta facendo tacere ogni voce, di cui si è avuta una forte esperienza in occasione della veglia dei giovani nella Giornata di Madrid, il 20 agosto scorso. E ci vedo una scelta di discrezione verso il mondo dei non credenti.

Abbiamo visto che ad Assisi stavolta non c’erano solo i “credenti”e dunque sarebbe stato indiscreta – nei loro confronti – una qualsiasi forma di preghiera collettiva e proclamata. Ma forse il Papa voleva che si fosse discreti non solo verso i non credenti invitati all’appuntamento ma anche nei confronti del più vasto mondo secolare, al quale comunque si intende fare appello con un evento come questo. È come se proveniente da quel mondo il Papa teologo avvertisse una domanda come questa posta ai “religiosi”: “Come pensate di poter entrare in contatto con il divino? Lo farete con le cento forme delle vostre discordanti tradizioni?” A questa domanda sottesa a un tale raduno, Benedetto a mio parere ha voluto dare una risposta fattuale con quella modalità della preghiera svolta nel segreto di una stanza: “Il contatto con Dio lo cerchiamo nel segreto del cuore, ponendoci in silenzio di fronte al suo mistero”. È infatti nella preghiera del cuore che tutte le fedi si possono davvero incontrare. www.luigiaccattoli.it


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Dopo Hitler, Lenin e Hirohito, Sokurov chiude con “Faust” la sua tetralogia sul Potere

l Faust di Alexander Sokurov è un’opera di filosofia e d’arte cinematografica di alto livello, svettante. Mai era capitato di essere investiti da un’onda anomala d’immagini con tutta la pittura del mondo (Brueghel, Bosch,Vermeer e molto altro) accompagnato da una ben calibrata colonna wagneriana, effetti sonori stratificati ad arte e uso di lenti deformanti, grandangoli, chiaroscuri e una palette che va da un verde marcio a tutte le sfumature del fango, a una sinfonia di bianchi variegati e luminosi. Ai festival i film sono in originale. I dialoghi in tedesco sono fluviali e fondamentali; seguire i sottotitoli mentre gli occhi sono inondati di composizioni formali complesse e complementari, è una sfida a cui non tutti reggono. Molti sono usciti dal film al Lido barcollando, altri esaltati. Ero tra gli spaesati, ma avendo carpito il necessario per sapere che era obbligatorio rivederlo. Durante la consegna del Leone d’oro per miglior film al Lido, il presidente della giuria Darren Aronofsky (The Wrestler, Il cigno nero) ha detto: «Ci sono film che fanno piangere, ci sono film che fanno ridere, e ci sono film che, una volta visti, ti cambiano per sempre: Faust è uno di questi».

I

IL MALE SENZA REDENZIONE di Anselma Dell’Olio


il male senza

pagina 12 • 29 ottobre 2011

È innegabilmente un film impegnativo e molti hanno intuito il valore, sussurrando al capolavoro dopo aver sbuffato per 130 minuti. Ci sono persone che respingono un film che mette alla prova, anche se lo merita. (Aiutino: meglio conoscere il tedesco o vederlo in italiano). Lo script segue con molta libertà il testo classico e la leggenda popolare che ha ispirato Goethe; la differenza critica è nel finale. Il racconto è dello sceneggiatore, scrittore e poeta russoYuri Arabov; il copione è del regista e di Marina Koreneva, autrice dei dialoghi in tedesco, consulente letterario del progetto, specialista nei legami culturali russo-tedeschi. I dialoghi sono chiari, quando si riesce a seguirli e si capisce chi parla (il doppiaggio sarà un aiuto enorme). Allora si apprezza la cura meticolosa, la creatività con cui le parole assecondano e completano inquadrature tumultuose, vulcaniche, strapiene, mutevoli.

Sokurov chiude la tetralogia del potere con un personaggio letterario, dopo i tre film precedenti dedicati a Hitler (Moloch, 1999), Lenin (Taurus, 2000) e Hirohito (Il Sole, 2004). Faust dunque non può che essere la summa delle sue riflessioni sul potere, anzi il Potere al diapason della terribilità. Il Faust di Sokurov è sempre uomo di vasta cultura, dottore in medicina, avido di conoscenza con il bisogno di prendere il mondo in pugno. Si dice che il film legge tra le righe del testo di Goethe, ma è anche diverso. Qui il dotto ambizioso che si flagella con domande metafisiche, non sarà salvato per l’impegno a favore del bene, perché aspira all’infinito, come nel finale goethiano: questo Faust respinge il concetto stesso di redenzione. S’inizia con l’immagine di uno specchio (o schermo) appeso nel vuoto contro un cielo azzurro; poi lo sguardo si sposta su un globo, che si rivela essere il peloso testicolo di un cadavere che il dottore sta sezionando con il suo inquietante studente-assistente Wagner (Georg Friedrich). Il gabinetto del dottor Faust (Johannes Zeiler, perfetto) è buio, angusto, come quasi tutti gli ambienti del film. I personaggi sono spesso uno addosso all’altro: si spingono, si spintonano, sbattono uno contro l’altro in spazi strettissimi. Tutto è sporco, putrido, come commenta Faust stesso, ordinando al suo aiutante di pulire bene anche lo straccio. Le parole tra loro preparano il percorso che stiamo iniziando: «Ci ha insegnato tanto sulla struttura del corpo umano dottore, ma non dove si trova l’anima; è nella testa?». Il medico risponde che lì dentro c’è solo spazzatura. Faust è sempre tormentato da umori, è affamato; mangia da un piatto che gli dà l’assistente come un cane dalla ciotola. Annusa il piatto: «È formalina. Credi che io sia già morto?».Wagner giura che non l’ha fatto apposta. anno IV - numero 37 - pagina II

Il medico lo rintuzza: «E le more con l’acido fenico che mi hai scodellato ieri sera?». «L’acido fenico lenisce il dolore», risponde lo studente. Faust: «Sì, il dolore universale e il dolore dell’anima…». Wagner dice che dove stia l’anima lo sanno solo il Signore e il diavolo. «E dove si trovano questi due signori?». «Dio è ovunque». «E quindi da nessuna parte» tronca il dottore. È la premessa di un lungo, articolato, delirante viaggio, tosto e di valore. Faust passa dal gabinetto del padre, «dottore delle ossa», che sta tirando un povero cristo su una sorta di ruota. Il figlio lo apostrofa che così lo uccide. Il padre ammette che manda tanti al cimitero con le sue «cure»; ma non importa a nessuno perché sono poveracci. Poi passa alla visita ginecologica di una popolana, dalla quale estrae un uovo che lei, con sorriso ebete, mangia con gusto. Siamo in un Ottocento fantastico e anche veristico. I due gabinetti medici sono luridi antri; è istintivo trattenere il respiro per non sentirne l’olezzo. La storia si alterna tra alto (i discorsi filosofici, l’innocenza di Margarete) e il basso (le puzze, lo schifo, i cadaveri sventrati) con netta preponderanza delle cose meno edificanti. Faust ha bisogno di soldi per pagare i becchini che gli portano i cadaveri, per le sue ricerche, per tutto. Entra in un banco di pegni tenuto dall’Usuraio (Anton Adasinsky, inquietante), l’altro protagonista del film. Non è però l’ingannevole seduttore che insegnano a temere, un fascinoso incantatore. L’Usuraio è viscido, insinuante, strisciante, ributtante, deforme, facilmente riconoscibile, specie quando si spoglia: ha un pene rudimentale attaccato al sedere. È pervaso da borborigmi, peristalsi, affanni; quando ha il mal di pancia, Faust gli dice di non defecare vicino alla chiesa. «Certo che no, lo faccio dentro!»

redenzione forchettone (strumento mefistofelico) mentre il soldato schiamazza ubriaco in una taverna, senza conoscere la parentela con la donna che concupisce. Lo rivediamo verso la fine, in un arido paesaggio roccioso, impervio, infernale appunto, mentre litiga con altri combattenti. «Nemmeno nel sonno della morte dimenticano le loro guerre» sibila con disprezzo Faust.

dice con un ghigno. Il diavolo qui è l’incarnazione della parte ignobile dell’essere umano; non solo le sue bassezze morali, con tutti gli umori dell’uomo di genio di Aristotele, che aspira all’infinito ed è soggetto alle umiliazioni del corpo vile. Bramoso di tutto, Faust gli porta un anello pregiato, ma l’Usuraio rifiuta di prenderlo in cambio di denaro. È un tormentone del film, Faust che rinfaccia sempre all’Usuraio di non averglielo comprato; ma quello ambisce a prendersi ben altro, e lo sfotte per la sua petulanza in proposito nei momenti più impensati.

Proprio all’inizio Wagner sostiene che, secondo il popolo, dove sta il denaro c’è Satana. L’Usuraio è Lucifero? Sì, ma non è solo un essere che arriva per indurre in tentazione l’uomo famelico di tutte le lusinghe del mondo terrene, materiali e di dominio, di supremazia. È molto più vicino a Faust. Cercando ciò che ha in comune Faust con Hitler, Le-

nin e Hirohito, non è certamente la carnalità e nemmeno l’avidità di ricchezza. Il tentatore lo conduce subito in una specie di piazza sotto il livello della strada, piena di luce e di donne vestite di bianco che lavano panni chiari, ridono e scherzano. È il primo gradino della discesa. È lì che il dottore vede per la prima volta Margarete (Isolde Dychauk, diafana, luminosa fata slava). Lei sembra un dipinto di Vermeer, un’apparizione, con riccioli biondi che incorniciano il viso angelico; più tardi la sua espressione si trasforma in qualcosa di più terragno. Non è pura, solo non è mai stata messa alla prova. Cedere alla corruzione è un problema per l’anima sua e anche per quella di Faust, che seduce un’innocente, sostituendosi al confessore (corrotto dall’Usuraio per suo conto) per carpirle i segreti e affascinarla fingendo di leggere nei suoi pensieri. Dopo molti avvenimenti e a seduzione avvenuta, Margarete sparisce dal film; sappiamo dall’Usuraio che è finita male. Incontriamo più di una volta suo fratello Valentin, infilzato da Faust con un

Prima però, e dopo circa due terzi del film, il dottore firma il noto contratto, la penna intinta nel suo stesso sangue. Al termine rifiuta di onorarlo; alle rimostranze del suo «benefattore» per avergli dato tutto quello che ha chiesto, risponde seppellendolo sotto una gragnuola di sassi scaraventati con forza. Il diavolo geme e lo sfotte durante il lancio dei missili: «Brutto tiro!» ridacchia. E gli chiede chi lo nutrirà, chi lo guiderà fuori della landa desolata in cui si trova, tra geyser e pozze d’acqua fumanti, diaboliche, ribollenti, con davanti solo disabitate montagne innevate. «Non mi hai dato nulla!» urla l’ingrato. «Nemmeno i soldi per l’anello!». «Ti ho dato il prestigio!». Faust è sprezzante. «Di beni come questo, ci si può impadronire solo con le proprie forze!». Crede solo in se stesso, nella forza, nel trionfo della volontà, che lo collega al Führer, il primo protagonista della tetralogia. Il tormentato dottore si ritiene esente dalle regole, dal Peccato Originale. (All’inizio dice: «Le persone infelici sono pericolose!»). Dio non c’è; esiste solo il potere da esercitare sugli altri, la capacità di soggiogarli, travolgendo tutti e tutto con superiore determinazione. «Il giorno del giudizio, puoi anche presentarmi il conto» grida sarcastico all’Usuraio, prima di allontanarsi a grandi passi verso l’orizzonte. Il contratto non l’ha firmato con il Maligno, ma con il proprio ego smisurato, con la propria coscienza sfondata. È impensabile un demonio che ricorda alla preda di peccare, come fa l’Usuraio con Faust quando passa i confini della decenza; ma i rimasugli di una coscienza distrutta sì. Raccapricciante è la sequenza dell’omuncolo, una sorta di feto con la testa enorme e un sorrisone giulivo e sorpreso, fatto nel laboratorio di Faust; un cenno alle mostruose manipolazioni genetiche di oggi. In finale, la voce di Margarete raggiunge Faust in cammino. «Dove vai?» echeggia. «Dahin!» urla lui. «Weiter! Immer weiter!». («Di là, lontano. Sempre più lontano!»). E così finisce il prequel degli altri film della tetralogia. Se quelle sono opere pervase da calma, quiete e silenzi, Faust ti strapazza e ti frastorna a fin di bene, come un pupazzo in bocca a un cucciolo geniale. Si sa che la prima telefonata di Sokurov vittorioso a Venezia era a Vladimir Putin, forte sostenitore del film; una notizia che rallegra gli anticonformisti. Da non perdere.


MobyDICK

parola chiave

29 ottobre 2011 • pagina 13

PIOGGIA l calendario creato dalla Rivoluzione francese entrò in vigore il 24 ottobre del 1793 e fu utilizzato per oltre dodici anni, fin quando Napoleone non reintrodusse quello gregoriano, a partire dal primo gennaio 1806, nemmeno un mese dopo la vittoria di Austerlitz. Oltre a basarsi sul sistema decimale, con nove giorni di lavoro alternati a uno di riposo, riducendo le domeniche da 52 a 66, la creazione illuministica istituiva dal 20 gennaio al 18 febbraio un mese denominato Piovoso. La nostra impressione diffusa è che la pioggia arrivi ben prima, quando il clima estivo si rompe e finisce la buona stagione. È allora che arriva la pioggia, presenza benefica e inquietante. Solo l’abitudine ci libera dallo stupore per la pioggia. L’acqua che cade dal cielo ci sembra turbare un ordine, rompere uno schema, infrangere una certezza. L’aria sta in alto, le fiamme si sforzano di salire, mentre per sua natura l’acqua si scava una via verso il basso. Trovarla sopra di noi produce turbamento.

I

Conosciamo alla perfezione la meccanica del fenomeno, ma non ci lascia del tutto convinti. Perché l’acqua che viene dal cielo ha una sua mutevole personalità, ostile e benigna, fortemente evocatrice...

Abbracciati a Dio

Conosciamo alla perfezione la meccanica del fenomeno della pioggia. Sappiamo dell’evaporazione dell’acqua dal mare, del formarsi sopra gli oceani di nubi immense che viaggiano spinte dal vento fino quando un raffreddamento repentino non riporta il vapore di cui sono fatte alla forma liquida, lo fa condensare in gocce e precipitare sulla terra per raggiungere i fiumi che riconducono l’acqua al mare in un ciclo interminabile. «Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno», dice Qoelet. Ai bambini che fanno domande riguardo a questa manifestazione atmosferica della quale sono meravigliati mostriamo la pentola della cucina, dove l’acqua bolle, evapora e sale per raccogliersi in goccioline sotto il coperchio. Vediamo tutto questo insieme ai piccoli, ma come loro non restiamo del tutto convinti della spiegazione. La pioggia spesso ci sembra dimostrare una propria personalità. In città la percepiamo distante, scomoda, ostile. Intralcia i nostri spostamenti, fa scomparire i taxi e aumentare il traffico, ci bagna i piedi anche se tentiamo di ripararci sotto larghi ombrelli. Per renderla più accettabile ci devono dire che il suo passaggio lava l’aria delle metropoli e porta a terra i metalli velenosi in essa sospesi. In campagna o al mare riconosciamo la pioggia più amichevole. Il suo rombo sui tetti quando scroscia è di compagnia, fa apprezzare il riparo che ci protegge. Se ci coglie allo scoperto dà un tono avventuroso

di Sergio Valzania

La natura benedicente della pioggia ricorre di frequente nelle Scritture. Ma l’ammonizione più bella è quella di Cristo che esorta: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» al nostro passeggiare. Nella sua forma più mite, quella che Andrea Camilleri chiama azzuppaviddano, quando si presenta come una pioggerellina lieve, la consideriamo un ristoro per chi decide di attraversare la campagna a piedi in tarda primavera e in estate. Sa bene che presto tornerà il sole ad asciugare gli abiti bagnati. La natura benedicente della pioggia è radicata nella nostra consapevolezza di ex-contadini, urbanizzati da poche generazioni, che per lo scarto di pochi decenni non hanno partecipato a una processione destinata a propiziare la fine della siccità e per questo sorridono quando colgono alla televisione un riferimento alla danza della pioggia, con la quale in tempi e luoghi non lontanissimi si chiedeva la grazia dell’acqua che cade dal cielo a rendere ferti-

le la terra. L’alternativa consisteva in un’annata di fame. Nella Genesi l’azione creatrice di Dio si manifesta fin dall’inizio in relazione all’acqua, sopra la quale viene detto che il suo spirito aleggiava. Nel secondo giorno, dopo aver evocato la luce all’esistenza, Dio pone un firmamento per separare le acque dividendo quelle che si trovano sopra di esso da quelle collocate al di sotto. Non molti capitoli dopo scopriamo che la pioggia è capace anche di rivelarsi come la manifestazione del castigo di Dio, allo stesso modo nel quale prima aveva rappresentato la sua benedizione. Il diluvio cancella un’umanità infedele dalla superficie della terra e apre la strada a una nuova era, a fondamento della quale è posto l’arcobaleno, garanzia e memoria dell’assicurazione divina in

base alla quale non ci sarà un secondo diluvio a far scomparire la nuova umanità destinata a nascere dalla discendenza di Noè. La natura misteriosa della pioggia, che modifica le nostre percezioni sensoriali e ci trascina in una sorta di mondo diverso, viene colta da Gabriele D’Annunzio nella sua lirica più nota, a essa destina e pervasa di spirito panico. «Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove sui mirti divini» e «sulla favora bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude». Quello che ci viene descritto è un contesto di festa e insieme di illusione, di trasfigurazione della realtà fisica nella quale siamo soliti vivere. La pioggia ci rende estraneo il mondo al quale siamo abituati, lo trasforma per restituircelo diverso e rinnovato.

Dal punto di vista teologico risulta splendido a questo riguardo il celebre passo di Isaia, nel quale il Signore paragona la propria parola alla pioggia e alla neve e dice che esse «scendono dal cielo e non vi tornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11). Un passo che gli studiosi datano a cinque secoli prima della nascita di Cristo e al quale viene attribuita una grande valenza profetica, in consonanza con l’inizio del Vangelo di Giovanni «In principio era il Verbo». La pioggia intesa come benedizione del Signore ricorre di frequente nelle Scritture, che sono il testo sacro di una società di contadini, i quali sanno bene quanto essa sia importante per le coltivazioni e quanto il suo arrivo al momento giusto possa significare un anno di benessere. Il Salmo 68 recita «pioggia abbondante riversavi o Dio, rinvigorivi la tua eredità esausta», 147 invita a rivolgere al Signore un canto di ringraziamento perché «Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti». Ma l’ammonizione più bella e compiuta a proposito della pioggia rimane quella contenuta in Matteo 5,43, quando Cristo esorta «amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti». L’amore di Dio abbraccia tutti e tutti chiama a corrispondere al suo abbraccio.


pagina 14 • 29 ottobre 2011

MobyDICK

Pop

musica

Sguardo sulle macerie DEL ROCK ‘N ROLL di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi scoltando Biophilia, il nuovo disco dell’islandese Björk che ha un cognome, Guomundsdóttir, simile a uno scioglilingua, ho ripensato a quando l’ho intervistata. Nel giugno del 1995, anno d’uscita del memorabile Post che seguiva l’altrettanto straordinario Debut, lo scricciolo di Reykjavik mi dà appuntamento all’Hotel Cipriani, sull’isola veneziana della Giudecca. Chiacchieriamo, tutt’a un tratto mi pianta in asso con non so quale scusa, va in cucina e torna con uno scolapasta ben calzato in testa. Un folletto dagli occhi a mandorla: ricordo d’averla vista così, Björk. Un prodigio della natura che acciuffava la sua, di naturalezza, nei sogni delle fiabe e negli incubi della psicanalisi. Creare musica, consentendo alla sua camaleontica voce d’insinuarsi dentro versi ripetitivi come mantra, equivaleva a disintossicarsi attraverso stati d’animo ora tranquilli, ora insolenti come quello scolapasta a mo’ di cappello. Conservo sottolineata una frase, di quell’incontro: «Solo ora so di essere Björk. Di avere una personalità ben delineata. Sai, per una donna è fondamentale avere una personalità, mentre per voi uomini è diverso: c’è il tipo paterno, quello muscoloso, l’imbecille. La donna deve racchiudere in sé femminilità, dolcezza, coraggio e… istinto di sopravvivenza, soprattutto in un ambiente come quello musicale». Bene. Non solo è sopravvissuta agli squali, Björk, ma ha ribaltato il tradizionale concetto di musica utilizzando quei rumori che l’udito quotidianamente percepisce. Il pop, ci ha insegnato da Post in poi proseguendo con l’estroverso Homogenic, l’introverso Vespertine e ancora Medúlla e Volta, può tranquillamente convivere con lo squillo del telefo-

A

Jazz

zapping

empre più un campionario di sfascio il rock ’n roll. Dopo gli abbandoni di cui abbiamo parlato (Rem con foto pistolinica di Michael Stipe e Fossati per fortuna con disco dignitoso e foto con chitarra sottobraccio), il panorama di macerie s’ingrossa s’ingrossa. Dal New York Post veniamo a sapere che Rick Rubin, il leggendario barbutissimo produttore dei Beasie Boys e infiniti altri artisti, ha già un piede fuori dalla Sony: la multinazionale, che lo aveva messo sotto contratto pagandolo mille dollari per ogni pelo di barba, non lo regge più. E la Emi come se la passa? Male. Siamo alla terza tornata di trattative per vendere l’azienda. Appare sempre più probabile che venga venduta «a pezzi», scorporando la casa discografica dalla società che gestisce le edizioni musicali. Poi c’è il bollettino ospedaliero: la biografia delle rockstar assomiglia sempre più alla cartella clinica di un polo geriatrico. Steve Tyler degli Aerosmith è caduto in Paraguay: sarebbe scivolato mentre faceva la doccia nella sua camera d’albergo. E non si salvano nemmeno i giovani. Adele nel bel mezzo del suo successo è stata costretta a fermarsi a causa dell’emorragia che l’ha colpita alle corde vocali. Dopo aver cancellato le date del suo tour in America tutti speravano che si trattasse di un breve periodo di pausa, ma sembra proprio che non sarà così. E infine le consuete notizie di scioglimenti e mancate produzioni. Bono Vox si è dichiarato incerto sul futuro degli U2 e ha annunciato: «avremmo potuto già scioglierci», e naturalmente gli Oasis non si riuniranno, mai. E in mezzo a tutto lo sfascio l’unico fiore sarebbe l’ultimo disco di Celentano perché ci sono i Negramaro? Vabbè ci avviamo verso una settimana di casse spente, in attesa di un gran disco. Di musica classica.

S

La cosmogonia della techno Björk no, la sirena di un’ambulanza, il rumore di un’automobile: «Vita reale, gente, tempo: tutto quello che si muove intorno a me, influenza la mia creatività», mi ha spiegato quella volta rigirando fra le mani lo scolapasta. Biophilia, ennesima rivoluzione sonica di una donna rivoluzionaria, è un progetto multimediale che comprende il disco, applicazioni da scaricare su tablet e smartphone, concerti dal vivo dove presentare al pubblico strumenti inusuali (arpe gravitazionali, tesla-coil, sharpsichord, gamelesta) e seminari didattici. L’islandese tascabile, stavolta, ha collaborato con musicisti, scienziati, scrittori e inventori per dar vita a un viaggio alla scoperta dell’universo e delle sue forze fisiche, in particolare quelle dove s’incontrano musica, natura e tecnologia. Sicché tecno-naturalista è il suo nuovo repertorio, costruito sul canto nudo e crudo e so-

norità sempre più rarefatte che concedono pochi spazi alla melodia. Moon e Thunderbolt, ad esempio, vedono la voce incorniciata da ripetitivi pizzicati d’arpa e da scansioni ritmico/rumoriste. Crystalline, il pezzo più ritmato del disco, è quasi un blues elettronico da contrapporre alla cameristica e oscura Hollow, sgocciolante d’elettronica. E altrettanto antitetiche sono Dark Matter (pura cacofonia, del canto e del suono) e Virus (orecchiabile, morbida come una ninnananna), mentre Cosmogony svela un flusso melodico finalmente riconoscibile, dalle maestose aperture vocali/orchestrali; Sacrifice è dapprima scomoda e minacciosa, poi forsennatamente ritmica; Solstice è lenta, solenne, meditativa; Mutual Core, è la prova tangibile di come Björk riesca a essere pop nel cuore della sperimentazione, fino a raggiungere l’esplosività della techno. Perché la sua, ormai, non è solo e banalmente musica. È arte contemporanea. Björk, Biophilia, One Little Indian/Polydor, 14,99 euro

Zoot (Sims) & Bob (Brookmeyer) mezzo secolo dopo ra le centinaia di dischi che ogni mese si riversano negli scaffali dei negozi, una parte notevole è riservata a registrazioni provenienti da festival, trasmissioni radio e concerti che per la prima volta vengono pubblicati. Un’altra parte, significativa, è invece la pubblicazione su compact disc di vinili ormai fuori catalogo da tempo. È il caso di due dischi, veri e propri cimeli, pubblicati nel lontano 1958. Il primo, inciso il 23 ottobre per United Artist, aveva per titolo Kansas City Revisited con un complesso da studio comprendente Bob Brookmeyer, Jim Hall, Al Cohn e Paul Quinichette, emulo di Lester Young , intento a «rileggere» le grandi pagine del repertorio dell’Orchestra di Count Basie degli anni Trenta. Nella copertina, Bob Brookmeyer era visto di spalle, mentre il viso era ritratto nello specchietto retrovisore di un automobile. Il secondo, la cui seduta ebbe luogo il 27 dicembre, sempre per United Arti-

F

di Adriano Mazzoletti st, venne pubblicato sotto il nome del sassofonista Zoot Sims con il titolo Stretching Out. In copertina una splendida ragazza dai lunghi capelli color rame faceva bella mostra di sé. I due vinili non furono mai oggetto di riedizioni e solo ora una piccola casa discografica, la Phoenix Records, approfittando della legge sul pubblico dominio, li ha riuniti in un cd. Ciò che sorprende è che a distanza di oltre cinquant’anni, queste incisioni mantengono intatte quelle caratteristiche che erano tipiche del jazz dell’epoca: modernità di linguaggio nel rispetto della tradizione, senso profondo del blues, grande attitudine nell’improvvisazione e capacità strumentali. Nei due dischi è presente il trombonista Bob Brookmeyer, nel primo intento a dialogare con Paul Quinichette, mentre nel secondo la presenza della tromba Harry Edison, uno dei fedeli dell’or-

chestra di Basie, aveva richiesto precisi arrangiamenti a tre voci per le parti iniziali, finali e nei lanci ai vari solisti. Immagino che l’autore delle parti

scritte sia lo stesso Brookmeyer che in seguitò si rivelò arrangiatore e compositore assai abile. Poco tempo fa ho avuto occasione di ascoltarlo durante un concerto con la Pmjo (l’Orchestra del Parco della Musica di Roma) e malgrado l’età non più giovanile - aveva superato da qualche mese gli ottant’anni - le sue qualità, di strumentista e compositore e arrangiatore, che abbiamo conosciuto e apprezzato, non solo in questi dischi fortunatamente oggi ripubblicati, ma anche nei celebri gruppi di Gerry Mulligan, erano rimaste inalterate. Fra le pagine più interessanti e riuscite, in questo cd, le rivisitazioni dei capolavori di Basie, Jumpin at the Woodside, Blue and Sentimental, Moten Swing e dei grandi classici King Porter Stomp e Ain’t Misbehavin. Zoot Sims - Bob Brookmeyer, Strechting Out, Phoenix Records, Distribuzione Egea


arti Mostre MobyDICK

ell’ultimo dialogo con il lettore (se c’è) e con la pittura (se resta) ci è capitato di parlare non di tagli artistici, alla Fontana, ma di tagli tipografici (e, all’occasione, mi sarebbe piaciuto ricordare, con affetto e nostalgia, i drammi davvero ibseniani, immedicabili, che colpivano per giorni e giorni l’amico Siciliano, se per caso un suo giornale toccava una virgola soltanto d’un suo pezzo, che era poi anche una buona lezione per imparare a prendere tutto con molta maggior autoironia e non divinizzare la parola, incoronandola). Talvolta però, i tagli non giungono dall’alto e uno deve inevitabilmente o saggiamente autoinfligersi, per far tornare i conti, tagliuzzando qui e là la stoffa dell’articolo, per rientrare nelle gabbie tipografiche: e che angoscia, quando t’accorgi che lo spazio si sta consumando e hai detto ben poco. Così un codino mozzato del precedente articolo mi par utile ripescarlo, in corner, per traghettare a un altro discorso, che si sposava assai bene. Dunque, parlavamo di Giorgio Griffa, artista torinese aereo e non isolato, ma certo appartato rispetto alla linea vincente dell’Arte Povera, di nascita torinese, in questi giorni omaggiata un po’ dovunque, lungo l’Italia: da Rivoli a Bologna, da Genova a Roma e Napoli, laddove s’è irradiata la sua energia propulsiva. Ecco, proprio prima dell’auto-scure finale del pezzo, avrei voluto stabilire un paragone per me rilevante, per capire anche i segreti della torinesità artistica, impregnata talvolta di conoscenze eterodosse e di culture extra-artistiche (non ho dubbi che Griffa sia stato sollecitato dalla recente scoperta della teoria einsteiniana, che potrebbe andarsene in frantumi con la materia che corre più veloce della luce... e il nostro sguardo

29 ottobre 2011 • pagina 15

N

Archeologia

Coccodrilli e controcanti di Marco Vallora trafelato, allora?). Guardando le acrobatiche peripezie cromatiche dei segni zampillanti di Griffa, m’era venuto istintivo pensare che quegli insetti instabili e canterini (magari fossili, e con sonorità argentine) potevan esser considerati la risposta ironica e lieve, o meglio, il controcanto acuto ai pesanti tromboni o basso tuba striscianti, gravi, non coloristici, ma piombati, dei coccodrilli primordiali di Merz (divo scontroso dell’Arte Povera) con puntualmente i numeri in crescita di Fibonacci tra le ganasce. E così avrei voluto parlare dell’acrobatica e dispettosa scimmia-saltimbanco, aerea e capricciosa, di Goedel-Griffa (la simia naturae della tradizione caricaturale settecentesca, da cui Tiepolo e Diderot) in duello con i merziani rettili-Fibonacci, di solenne gravità speleologica,

arrampicati sin sulla Mole Antonelliana. E perché Goedel, allora, quello del principio d’incompletezza, caro a Griffa e citato dal felice intervento di Olga Gambari? Goedel, protagonista del divertente e un po’ sorpassato libro di Hofstadter Goedel, Bach, Escher (dunque più che di scimmia, avremmo dovuto parlare della tartaruga, in dialogo perpetuo con Achille). Bach, o della perfezione, con fantasia: stuttura perfettissima ma aperta. L’arte che non si conclude e non si spiega, che non si risolve come una cadenza esatta, e semmai costeggia l’altro principio dell’entropia, dell’indeterminazione di Heisenberg («rimesso in discussione dal gioco del caso»), che ci spiega che se «mettiamo le mani in un fenomeno», che sia con un microscopio o con un volgare occhietto, od occhialet-

to critico (od occhiaccio di legno, per dirla con Ginzburg) comunque condizioniamo quel fenomeno e non lo lasciamo più «indenne», quale era. Fondamentale tesi, per un fenomeno in fondo ancora così fresco e per certi versi aperto come quello dell’Arte Povera: è possibile storicizzarlo alla breve, alla sommaria, soltanto esponendo qualche pezzo «storico» (e qualche catalogo e documento, il che è già meglio) e lavandosene poi le mani, convinti d’aver fatto un buon servizio alla memoria e alla Storia, ed essere assolti, mentre non s’è fatto altro (forse) che affrettarne l’entropia, uccidendone la vitalità e vulnerando un’anatomia vivente, che forse non gradiva nemmeno un’intervento chirurgico, così imbalsamante e monumentalizzante? Ma questo, come si dice, è un altro discorso, che coinvolge non soltanto l’Arte Povera, ma anche altri movimenti d’avanguardia, e che potremo trattare volentieri con un po’ più di agio, dopo aver visitato le varie sedi disseminate. Mentre nel dialogo tra coccodrilli e tartarughe (lente ma astute), i neutrini scomposti di Goedel e i numeri che s’almanaccano di Fibonacci, sarebbe curioso indagare ancor meglio quel rapporto tra la levità d’un’arte, che non si vuol concludere e continua a interrogare, e invece il senso di gravità e densità d’un’arte povera (non solo di materiali, ma primaria, basale, nell’illusione di un ritorno all’origine) che ha caratterizzato la storia, sia pure convulsa e in diaspora, d’un movimento segnato dai massi incombenti di Anselmo, le stelle ermetiche di Zorio, le forme ghiacciate di Calzolari. Con i galoppanti numeri di Fibonacci, che girano in tondo sugli igloo circolari e montagnosamente «chiusi» di Merz.

Arte povera 1968, MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna, fino al 26 dicembre

Da Samarcanda a Dengfeng, per mirare le stelle econdo alcuni studiosi della scuola di archeologia dell’università di Pechino l’attuale ricostruzione dell’osservatorio astronomico nel sito di Zhougongmiao a Dengfeng, nella provincia dello Henan, potrebbe non essere appropriata. L’osservatorio di Dengfeng fu costruito nel 1276 dal famoso architetto Guo Shoujing (1231-1316) - noto anche al gesuita Matteo Ricci che ne vide la strumentazione astronomica esposta prima a Nanchino poi a Pechino - per ordine dello stesso Kubilai Khan e continuò a svolgere la piena attività finanche nel periodo Ming. Attualmente dell’osservatorio di Dengfeng restano soltanto le fondamenta e ciò che si vede è stato ricostruito a mo’di piattaforma in muratura dotata di due vani per conservare diversi strumenti d’osservazione. A questa conclusione sono giunti osservando una carta geografica di epoca Ming che raffigura la Mongolia (in questi giorni esposta a Roma nella mostra A Oriente). Nella carta in questione si può vedere l’osservatorio di Ulugh Beg posto a sud di Samarcanda e chiamato Wangxing lou, letteralmente «Torre per mirare le stelle». Curiosamente nella Carta del Paesaggio mongolo, Samarcanda è assai simile nel disegno a una città d’epoca Ming. Le torri della cinta muraria

S

di Rossella Fabiani somigliano a quelle della città di Pingyao delle dinastie Ming e Qing nella provincia dello Shanxi ed è probabile che anche la foggia dell’osservatorio riprodotto sulla carta mongola possa essere la copia di un osservatorio d’epoca Ming. L’osservatorio astronomico di Samarcanda fu voluto dal sovrano timuride che fu un vero e proprio scienziato astronomo, Ulugh Beg, nipote del condottiero Amir Timur lo zoppo, più noto come Tamerlano, nella prima metà del XV secolo. Il re, appassionato di matematica e studioso di scienze, lo fece costruire su

una piccola collina, non distante da Shahi-I-Zinda, il viale di tombe, tra il 1420 e il 1430. Attualmente questo grande planetario si può visitare soltanto in piccola parte. Si presenta esternamente come una sorta di ampio giardino, ricco di piante e circondato dalla vista panoramica della città vecchia. Un luogo tranquillo in cui fare una piacevole sosta. Ulugh Beg, molto probabilmente, è più famoso come astronomo che come re nei suoi quarant’anni di regno. Nel museo adiacente alla struttura si trovano esposte alcune miniature di Ulugh Beg, vari manufatti rinvenuti durante gli scavi archeologici di Afrosiab, l’antica Samarcanda, e delle belle ceramiche colorate. Anche la Madrasa che Ulugh Beg si fece costruire ospita mosaici con temi astronomici. Circa cento studenti ogni anno imparavano qui le discipline astronomiche e filosofiche, oltre alla teologia. Ricca di storia, Samarcanda un tempo fu la città più ricca dell’Asia centrale e per la maggior parte della sua storia fece parte dell’Impero Persiano. Era già capitale della satrapia Sogdiana sotto gli Achemenidi di Persia quando Alessandro Magno (nella zona noto come Iskander Khan) la conquistò nel 329 a.C. Sotto l’Impero sasanide di Persia, Samarcanda rifiorì e diventò una delle città maggiori dell’Impero.


MobyDICK

pagina 16 • 29 ottobre 2011

Anticonformista fino al midollo, nei suoi reportages della guerra italo-etiopica (ora pubblicati da Adelphi), Evelyn Waugh non esitò a sostenere, forse provocatoriamente, il punto di vista di Mussolini. Una posizione che fece scandalo, e da cui lo scrittore inglese più tardi prese le distanze, ma che si rivela ancora oggi illuminante di Maurizio Stefanini ato a Londra nel 1903, morto nel 1966, Evelyn Waugh è stato uno scrittore che, come molti altri letterati inglesi suoi contemporanei, si faceva quasi un obbligo conformista di fare l’anticonformista. Come Oscar Wilde, Gilbert Keith Chesterton e Graham Greene, in particolare, anche lui passò dall’anglicanesimo al cattolicesimo in un’interpretazione particolarmente tradizionalista: pur dovendo conciliarla con la bisessualità, comune d’altronde anche a Wilde e Greene; e anche con un acre umorismo che spesso andava oltre il tradizionale sense of humor britannico, per scadere nel nichilismo.

N

Abbastanza tipico per un esponente delle classi alte di un Paese allora al centro di un Impero esteso su oltre un quarto della superficie terrestre, Waugh girò anche parecchio, e in qualche modo la sua colle-

zione di reportages potrebbe essere accostata a quella di un altro inglese vissuto dopo di lui, e che aveva continuato a viaggiare anche dopo la caduta dell’Impero: Bruce Chatwin, peraltro anche lui bisessuale; ma per il quale, più conformisticamente anticonformista ancora, convertirsi al cattolicesimo sarebbe sembrato troppo poco, e si sarebbe invece fatto ortodosso. Ovviamente, letteratura di viaggio, senso del sarcasmo e voglia di provocazione assieme danno spesso origine in Waugh a pagine la cui cifra è una satira dei costumi dei popoli visitati, che spesso può sapere di razzismo. A sua difesa, va osservato che non la praticò solo nei confronti di popoli ai suoi tempi definiti «inferiori»: il suo libro più famoso, Il caro estinto, è una irresistibile presa in giro del business dei funerali in California. Comunque, fu uno scrittore fuori dal coro. Un esempio è appunto In Abissinia. Un libro pubblicato nel 1936 raccogliendo i reportages e i ri-

gura nazionale. Certo, la guerra che segnò il culmine del consenso interno del fascismo: nessuno storico oggi lo nega più. Ma anche la guerra che ci separò dalle potenze occidentali: consegnandoci a Hitler, alle leggi razziali e alla disfatta. E la guerra che ci fece fare uno sforzo immenso, per conquistare e far fiorire un impero che tenemmo per soli cinque anni. Il peggio è che per conquistare quell’impero rinunciammo alla Società delle Nazioni, con quel seggio di membro permanente del Consiglio che avevamo conquistato con la prima guerra mondiale, e che col passaggio all’Onu abbiamo perso per sempre. Cioè scambiammo un attributo della Potenza nel XX secolo per un attributo della Potenza nel XIX secolo, appena una decina d’anni prima che l’indipendenza indiana desse l’inizio a quel processo di dissoluzione del colonialismo che si sarebbe quasi del tutto completato in un’altra quindicina di anni.Veramente, come gli indios che davano a Cristoforo Colombo l’oro, per riceverne in cambio specchietti e perline.

il paginone

Cronache abissine dalla parte del Duce vendo territori e popolazioni con metodi altrettanto predatori e imperialisti, di cui non ci si rendeva conto per il semplice fatto che i conquistati avevano la stessa pelle nera dei conquistatori. Il primo capitolo, che secondo una voga dell’epoca reca l’ironico titolo Guida della donna intelligente alla questione etiopica, è tutt’altro che indulgente col colonialismo occidentale. «È giusto ricordare, nelle attuali circostanze, la natura particolare del biasimo che viene espresso contro l’Inghilterra». Altro esempio, uno dei suoi folgoranti giudizi: «La Francia, la Germania e il Belgio furono i più spietati; noi i più sleali. Noi entrammo in quel losco affare con ipocrite dichiarazioni di principio; tradimmo i portoghesi e il sultano di Zanzibar, sconfessando le promesse

esplicite appena fatte riguardo al loro territorio; tradimmo Lobenguela e altri capi indigeni esattamente con le stesse modalità dei nostri rivali, ma proclamando a voce alta le nostre intenzioni benevole; qualunque fosse la politica verso cui i capricci del nostro elettorato ci conducevano, continuavamo a predicare col nostro tono urbano ma implacabile; era una caratteristica che il mondo trovava difficile da sopportare; ma noi continuiamo a predicare ancora adesso».

Quanto al modo in cui «Menelik creò l’Impero etiopico», Waugh ricorda come «l’operazione prese spunto dal modello europeo; a volte, le popolazioni delle zone invase venivano intimidite dall’ostentazione di forze superiori e accettavano trat-

Denunciò i metodi predatori e imperialisti della monarchia amarico-tigrina, quando nessuno in Europa se ne rendeva conto. Forse perché i conquistati avevano la stessa pelle nera dei conquistatori

Sopra, Benito Mussolini. A destra, l’imperatore di Etiopia Menelik. Nella pagina a fianco, Evelyn Waugh, una raffigurazione della battaglia italiana in Abissinia e l’imperatore Haile Selassie

anno IV - numero 37 - pagina VIII

cordi di inviato della guerra italo-etiopica, e ora ripubblicato da Adelphi (232 pagine, 18,00 euro); e che si caratterizza appunto come provocatoriamente e scandalosamente a favore del punto di vista di Mussolini. Pur provenendo non solo da un cittadino di un Paese che sarebbe stato in prima linea contro l’impresa italiana, ma che addirittura era andato a seguire la guerra dal fronte abissino. Eppure, questa è la grande sorpresa, queste posizioni da damnatio memoriae, da cui lui stesso in gran parte avrebbe preso le distanze nei suoi diari post1945, a rileggerle ora si rivelano illuminanti. Anche per chi non abbia alcuna nostalgia per il colonialismo e il fascismo, e consideri l’impresa etiopica una scia-

Ma ciò ovviamente, è chiaro oggi. All’epoca, il grande paradosso che anche allora era percepito e sui cui giocò infatti la propaganda di Mussolini riguardava i Paesi con imperi coloniali immensi, come la Gran Bretagna e la Francia; che volevano negare all’Italia di ritagliarsi un dominio molto più piccolo con metodi sì predatori, ma non troppo diversi da quelli con cui Londra e Parigi avevano conquistato i loro, e continuavano a gestirli. Ma c’era anche un altro paradosso molto meno avvertito, e che noi alla luce delle vicende africane post-indipendenza invece capiamo meglio, e di cui scopriamo in Waugh una lucida comprensione: che anche la monarchia abissina amarico-tigrina aveva creato l’Impero Etiopico asser-

tati di protezione; a volte opponevano resistenza e venivano massacrate con l’uso delle armi moderne che venivano importate in quantità enormi, sia alla luce del sole sia in maniera illegale; a volte venivano semplicemente registrate come etiopiche a loro insaputa. La storia del regno diventa una monotona successione di nomi di territori conquistati». Insomma, quando «nel 1913 Menelik morì, dopo aver trascorso gli ultimi anni in uno stato semicomatoso; lasciò il proprio regno con una sovranità nominale su un’area tre o quattro volte più estesa, abitata da una molteplicità di popolazioni che se ne differenziavano completamente per religione, lingua, razza e storia». Waugh riconosce che


29 ottobre 2011 • pagina 17

Con sense of humor descrisse i faccendieri, i mercanti d’armi, le spie. E non esitò a dileggiare i suoi colleghi inviati, ideologici, spesso storditi e più intenti ai tavoli di bridge che alla comprensione dei fatti «è impossibile dare una valutazione complessiva del governo delle province assoggettate; il materiale è insufficiente e le condizioni erano così radicalmente diverse da un luogo a un altro che alle osservazioni di questo o quel viaggiatore non può essere dato valore universale. In linea di massima, si può dire che, con la sola eccezione degli Hararini, le popolazioni di religione maomettana se la cavarono molto più a buon mercato; il sultano di Gimma di fatto mantenne l’indipendenza fino al 1933; i Dancali, gli Aussa e i somali vennero lasciati nelle loro condizioni selvagge, indisturbati tranne che per qualche visita occasionale degli esattori imperiali - evento che aveva piuttosto le caratteristiche di una scorreria di briganti che quelle di un atto amministrativo».

Ma «le popolazioni pagane a sud e a ovest furono trattate con sfrenata brutalità, ineguagliata persino nel Congo belga. Alcune zone vennero spopolate dai mercanti di schiavi; in altre le guarnigioni abissine furono acquartierate permanentemente a spese della popolazione, che doveva mantenere loro e i loro discendenti. I funzionari abissini, con scorte che potevano avere una consistenza variabile - da quella di una guardia reale a quella di un esercito permanente -, vivevano del lavoro e delle tasse degli abitanti indigeni; il loro compito non era quello di proteggerli ma di tenerli assoggettati; l’unica occupazione che conoscevano era il combattimento. Non si trattava di un sistema segnato dagli abusi ma sopportabile: era un sistema in-

tollerabile». L’Etiopia era in quel momento difesa da progressisti e anticolonialisti perché era l’unico Paese africano ad aver conservato la propria indipendenza: assieme alla Liberia, che però era stata una creazione del movimento antischiavista Usa per dare una patria agli schiavi liberati, e di fatto era un protettorato Usa. Ma Waugh vi rilevava invece «un imperialismo privo anche di un solo elemento positivo. Per quanto sordidi fossero i motivi e rudi i modi con cui le razze bianche si erano insediate in Africa - e con cui ancora lo stanno facendo -, nel complesso il risultato è stato giovevole, perché in Europa ci sono più uomini buoni che uomini cattivi e nella cultura europea c’è una predisposizione alla giustizia e alla carità; un’inclinazione che tende inevitabilmente al bene; cose che sono cominciate in un modo malvagio sono andate a finire bene. Proprio la caratteristica che oggi sembra più odiosa nei depredamenti iniziali - le ipocrite dichiarazioni di nobili princìpi con cui vennero compiuti - è stata quella che vi ha posto un freno. Il significato profondo delle atrocità perpetrate nel Congo non sta tanto nel fatto che sono state commesse quanto nel fatto che sono state denunciate e represse; c’è una coscienza in Europa che, una volta informata e risvegliata, è più potente di qualunque interesse acquisito. Anche alle condizioni del liberalismo ottocentesco gli indigeni dell’Africa ci hanno guadagnato più

di quanto abbiano perso. Era interesse degli sfruttatori proteggere gli sfruttati dalle devastazioni endemiche della peste, della carestia e dei massacri di cui erano eredi, educarli a contatti proficui con un meccanismo progredito di commercio e di amministrazione; terre incolte sono state rese fertili, popolazioni perseguitate sono state protette, piccoli tiranni abietti sono stati deposti.

Gli abissini non avevano nulla da dare alle popolazioni assoggettate, nulla da insegnare. Non hanno portato mestieri o conoscenza, non un nuovo sistema di agricoltura, di bonifica o di costruzione di strade, né medicina o igiene, nessuna organizzazione politica più avanzata, nessuna superiorità se non quella dei

loro fucili e delle cartucciere. Non hanno costruito nulla; hanno occupato i villaggi sistemandosi nelle capanne di paglia delle popolazioni conquistate, sporchi, indolenti e dispotici, hanno bruciato la legna, divorato i raccolti, hanno imposto tributi sul misero rivolo di commerci che filtrava dall’esterno, hanno asservito le popolazioni. Non si è trattato, come nei primi tempi nel Congo belga, di uomini malvagi con troppo potere e troppo lontani da qualsiasi supervisione che cedevano ad appetiti che la loro stessa gente non gli permetteva di soddisfare. Gli abissini imposero quello che, per sua natura, era un sistema micidiale e insanabile». Ovviamente, in questa analisi non manca più di una punta di quel razzismo che in Waugh abbiamo già denunciato. Ma c’è anche una conoscenza di prima mano della realtà etiopica, dovuta al fatto che in realtà era stato uno dei pochi giornalisti che in Etiopia c’era stato sul serio, nel corso dei suoi viaggi. Era stato addirittura presente all’incoronazione di Hailè Selassiè nel 1930, e da allora era rimasto con questa idea di un Paese che mascherava con una patina di modernità una realtà di feudalesimo arretrato e feroce. Di qui anche la sua insofferenza per la massa di improvvisatori che tutto di un tratto dal 1934, spinti dall’attualità politica, avevano iniziato a pontificare sull’Etiopia senza saperne nulla. E meno ancora ne capiva l’esercito di inviati che i giornali avevano

mandato in loco, e che erano finiti o a ripetere veline, o a inventarsi notizie ai tavoli di bridge. Panzane talmente spettacolari, che anche qualche genuino scoop arrangiato da Waugh grazie alla sua esperienza dei luoghi era stato cancellato dalla concorrenza. Minacciato addirittura di essere richiamato in patria per scarsa produttività,Waugh per reazione polemica esagera probabilmente la sua attitudine filoitaliana. Nelle ultime pagine, dopo la nostra vittoria, descrive lo spettacolo dei conquistatori che invece di starsene a riposare facendo lavorare gli altri al posto proprio si mettono in prima persona a fare le nuove strade, ancora col fucile a tracolla. «Una cosa nuova in Africa, anzi è una cosa che non si è vista da nessuna parte negli ultimi duecento anni, tranne che negli Stati Uniti d’America», spiega Waugh; e che rimanda appunto all’Impero Romano, con i suoi legionari costruttori.

E non esita Waugh anche a fare oggetto delle sue corrispondenze i suoi storditi colleghi. Da quello di sinistra per il quale «l’imperatore era un antifascista» e che per non prendere il tifo portava dappertutto un pigiama sotto i vestiti e si spennellava di tintura di iodio; allo spagnolo vestito da cow-boy convinto che i neri fossero tali perché non si lavavano. E poi i faccendieri, i mercanti d’armi, le spie: più o meno mimetizzati, per pescare nel torbido. Le confusionarie guide locali. Le vessazioni stupide di burocrati e potenti. Anche questo, se vogliamo, ricorda molto il mondo degli inviati di oggi: quelli dell’epoca del web 2.0 e dei satellitari.


Narrativa

MobyDICK

pagina 18 • 29 ottobre 2011

Goce Smilevski LA SORELLA DI FREUD Guanda, 334 pagine, 18,00 euro

o splendido romanzo del macedone Goce Smilevski imperniato sulla vita della sorella prediletta di Sigmund Freud conferma una tendenza della letteratura internazionale. Quella che intreccia biografia, saggistica e narrativa. Un genere che trova sostegno tra lettori e critici. Siamo a Vienna, nell’ormai famosa Berggasse 19, abitazione dell’«inventore» dell’Io (lui credeva al proprio primato scientifico, altri lo contesteranno). Alfonsine e altre tre sorelle di Sigmund chiedono di essere incluse nell’elenco che il medico delle anime ha stilato per poter espatriare a Londra e quindi salvarsi dall’imminente tempesta nazista. Un Freud che continua a spolverare le sue adorate statuette totemiche e risponde, svogliatamente, che non è possibile concedere questo privilegio, preferendo la cognata e il cane Jo Fi. Un Freud odiosamente freddo. Ma soprattutto ancorato al pensiero che un grande Paese come la Germania (Austria compresa, ovviamente) sia in grado di mettere da parte la propria temporanea follia. E cita Thomas Mann (autore di uno scritto intitolato Fratello Hitler), col quale ha una corrispondenza: «…finirà… i tedeschi ora sono guidati da forze oscure, ma da qualche parte brilla la luce di uno spirito sulle cui fondamenta sono cresciuto anch’io. La follia di questo popolo non può continuare in eterno». Giusto, ma solo in parte. «Lo smascheratore dell’inconscio», come sua abitudine, mette avanti se stesso immaginando una sorta di eternità post mortem come un personalissimo loculo, nel quale non c’è posto per i familiari. Freud, come ricorda amaramente Alfonsine, è pur sempre l’autore di Mosè e il monoteismo che inizia così: «Non è impresa né gradevole né facile privare un popolo dell’uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli: tanto più quando si appartiene a quel popolo». L’opera citata suona come una dichiarazione di odio e una vendetta verso il suo stesso popolo. Adolfine: «Essere ebreo secondo mio fratello era una questione di destino, qualcosa che gli era stato attribuito alla nascita, qualcosa che non aveva scelto». Ma Freud, laddove aveva potuto, aveva scelto la cultura tedesca. Oltretutto in famiglia si parlava solo l’idioma germanico, confidando

L

libri

Riletture

La follia salvifica di Adolfine

Freud

Tra storia e romanzo, la vicenda della sorella prediletta del padre della psicoanalisi abbandonata al suo destino a Vienna dopo l’Anschluss di Mario Donati (ma che illusione!) nell’assimilazione naturale e pacifica dei giudei. Londra accoglie lo psicoanalista col suo seguito di privilegiati. Ma il 29 giugno 1942, alle sei del mattino, un gruppo di anziane donne deve trovarsi alla

fermata del treno. Il convoglio si dirige in un «campo» temporaneo. La destinazione definitiva sono le camere a gas, ossia la follia così poco passeggera d’un Paese entrato nell’abisso della crimininalità individuale e collettiva, della violenza su scala industriale e attuata con rigore burocratico. Nella «sosta» che il treno fa in un paese circondato da mandorli le sorelle Freud (una è cieca) incontreranno Ottla Kafka, sorella dello scrittore praghese. Ecco in che conto tenevano i nazisti la cultura: sobordinandola all’idiozia del sangue «puro», all’arianesimo omicida che trasformò un popolo di buona cultura in spettatori, a volte plaudenti, di un massacro che non ha confronti storici. Adolfine, in procinto di salire sul treno della morte, ripercorre le tappe della sua esistenza. Ricorda la madre, di lingua tagliente e di mente castrante, quando ripeteva fino alla nausea «sarebbe stato meglio se non ti avessi partorito». Ricorda ampiamente i rapporti teneri col fratello diventato famoso, ma gelidamente ancorato alla propria costruzione filosofica, quello stesso uomo che favorì (assistendo in parte) all’aborto della sorella il cui compagno, di mente instabile, s’era buttato nel Danubio. Ricorda la sua permanenza al Nido, l’ospedale psichiatrico viennese. Ricorda le discussioni sulla sessualità e sulla parità uomo-donna. I riferimenti ai testi freudiani, talvolta contestati o tacciati come «scempiaggini», s’intrecciano all’intimità fraterna fatta di desiderio, gelosia, senso di tradimento. E compaiono frasi di Arthur Shopenhauer, in primis le considerazioni sulla pazzia «come ultimo mezzo per salvare la vita». È proprio su questo punto che si sofferma Alfonsine, la donna che ricorda la traccia di sangue sul muro della sua camera, testimonianza di una maternità svanita. E vedrà presto diventare viola i volti delle persone costrette a «fare la doccia» (col gas mortale). «Ti dimenticherò Sigmund… dimenticherò che all’inizio della mia vita c’erano l’amore e il dolore… dimenticherò di essere nata»: sono queste le ultime e silenziose parole di Adolfine Freud.

“My Funny Valentine”, come un soffio di conchiglia no dei libri più belli che ho letto questa estate è di Roberto Cotroneo (1961) e si intitola E nemmeno un rimpianto (Mondadori). È dedicato a uno dei più grandi musicisti di jazz che si siano ascoltati (anche in Italia per un non breve periodo), Chet Baker. Straordinario suonatore di tromba jazz e cantante, Baker faceva abbondandemente uso di droga. A causa di questo fu arrestato anche in Italia e tenuto per un periodo nel carcere di Lucca. Si trasferì ad Amsterdam - luogo più protetto per l’uso di droga - e si uccise buttandosi da una finestra dell’albergo in cui abitava nel maggio del 1988. Un libro, questo di Cotroneo che non è una biografia ma un romanzo: certo per chi lo abbia letto o lo leggerà serviva e serve una certa attrazione per il jazz e anche un’approfondita conoscenza della sublime arte di Chet Baker. Il suo corpo e il suo viso parvero quasi irriconoscibili dopo il grande volo suicida. Cotroneo parte da questo per sostenere una bella favola: quello che si era suicidato ad Amsterdam non era Chet Baker. Da voci raccolte risulta in-

U

di Leone Piccioni vece che Chet Baker è vivo, abita in un paesino meridionale italiano, non suona più la tromba ma parla e si intrattiene con quei pochissimi che lo vanno a trovare. A parte la trama romanzesca, si capisce che per Cotroneo è difficile arrendersi all’idea che un tale musicista e un tale inventore di suoni sia venuto a mancare. Nella mia abbastanza cospicua collezione di dischi, insieme ad altre cose sue, ho un triplo cd con 36 incisioni di Chet Baker di cui l’ultima è datata 1983 ed è una delle sue diverse esecuzioni di My Funny Valentine. È questo un tema che Cotroneo ricorda, giustamente, moltissime volte nel libro. Difficile descrivere l’emozione e il senso delle esecuzioni di Chet Baker sia come cantante che come solista di tromba. Cotroneo ci riesce benissimo ed è giusto dargliene atto. Io mi contenterei di trascrivere qualcuna delle emozioni che mi ha dato anche ultimamente quel My Funny Valentine dell’83. Nel suo canto, nella sua voce

Suggestioni dal libro di Roberto Cotroneo dedicato a Chet Baker: “E nemmeno un rimpianto”

c’è indubbiamente molto dolore, ma non è un dolore tragico perché in esso - lo dico con Comisso che si riferisce ad altre cose - è come se «venissero a ricomporsi avvenimenti della vita suscitati a poco a poco dal calore del sangue», non dolgono più e per procedimenti nuovi e meravigliosi trasformano in piacere il dolore. Così è per i suoni inventivi e nuovissimi che Chet Baker ci propone. Pare che escano da «un soffio di conchiglia» oppure da «semplice soffio e cristallo/ troppo umano lampo». Ci saranno di mezzo anche gli effetti della droga alla quale Chet Baker non poteva sottrarsi: c’è infatti una perdita del peso corporale e come una spontanea lontananza appena percepita dalla terra sulla quale si posa il piede: una sorta di miracolosa levitazione. Roberto Cotroneo ha forse esagerato in queste irreali dimensioni che assegna alla musica di Chet Baker? Pensiamo di no e pensiamo di non aver esagerato neanche noi cercando qualche immagine, sentendo e risentendo, che ci spiegasse tanta emozione. My Fanny Valentine, 1983: chi lo possiede nella sua collezione di dischi lo ascolti! Chi ama il jazz ma non conosce questa pagina di musica e di invenzione geniale, se la procuri!


MobyDICK

Gialli

ai Paesi scandinavi continuano ad arrivare romanzi gialli, in numero inversamente proporzionale alla loro densità demografica. Il ritmo delle traduzioni in italiano somiglia quasi all’importazione dei salmoni o del legname. Ambienti cupi, umilianti drammi di coppie a dispetto della fama del grande Nord, patria dell’emancipazione femminile. Dagli Stati Uniti il genere poliziesco ricalca spesso le avventure on the road o i grumi di violenza metropolitana con tanti sbudellamenti. Della Germania conosciamo ancora poco: salvo la Feltrinelli o pochi altri editori, non si presta la dovuta attenzione alla letteratura germanica. La Spagna sta cercando gli eredi di Manuel Vàsquez-Montalban (creatore del bizzarro Pepe Carvalho), o di Francisco Gonzàles Ledesma che sguinzaglia nella vecchia Barcellona il suo anziano ispettore, bistrattato dai superiori. Insomma, verrebbe da dire: c’è una grande «nostalgia Simenon». Ma la Francia non ha chiuso le finestre narrative. Anzi ce le propone in quest’ultimo periodo assecondando il gusto per lo scavo psicologico, per i modesti e mediocri interni, per le brasserie ove s’incontrano balordi e spaesati, per la personalità degli investigatori. La scrittura francese ha il dono della familiarità, della vocazione alla narrazione della vita quotidiana, dell’attenzione ai sapori e agli odori. E i lettori, appunto come capita con Simenon, s’identificano, come se entrassero nella casa del vicino scoprendo peccati e segreti.

D

L’editore Ponte alle Grazie ha mandato in libreria un bel noir che risponde proprio alla caratteristica della «familiarità». S’intitola La commissario non ama la poesia (264 pagine, 16,80 euro). L’autore è Georges Flipo, esperto in radiodrammi. Ed è il «padre» del commissario che ha il vezzo (come nel titolo) di usare il pronome femminile: Viviane Lancier, capo di una squadra tutta al maschile che non parte dalla mitica sede di Quai des Orfevres, bensì da avenue du Maine (una delle altre due sedi della polizia giudiziaria). Viviane è grassa, e pure di bassa statura. Ha una vita molto solitaria (qualche accenno all’uomo che l’ha lasciata) e tormentata dalla dieta, che segue e abbandona con periodicità nevrotica. Sarà anche per questo (oltre a complessi e pregiudizi culturali: raramente legge un buon libro preferendo i serial polizieschi della tv) che strapazza, in modo davvero perfido, il tenente di bell’aspetto Augustin Monot, ultimo ingaggio della équipe. Questi le riferisce di un barbone morto. Lei si annoia, lo considera «un non caso», ma a poco a poco la misteriosa vita e oltreché la fine di quel disgraziato che un tempo insegnava letteratura, la incuriosisce. Il cadavere del clochard Pascal Mesneux, trovato vicino al Pont Neuf ha un passato e un presente da collegarsi direttamente alla sua passione per la poesia, in

29 ottobre 2011 • pagina 19

ALTRE LETTURE

COME DIFENDERE I FIGLI IN TRENTA MOSSE di Riccardo Paradisi

uella per la protezione dei nostri figli dalle influenze nocive dell’ambiente è la prima linea della guerra culturale che le famiglie sono chiamate a combattere. Una guerra diventata spietata in una società che tende ad attrarre i giovanissimi verso il mondo del consumo o verso valori improntati al relativismo e al nichilismo. 30 consigli in 30 giorni per salvare la tua famiglia di Rebecca Hagelin (San Paolo edizioni, 306 pagine, 18,00 euro) fornisce un manuale pratico per affrontare la buona battaglia quotidiana per difendere la propria famiglia: dal corretto utilizzo della tv e dei social network, al gioco coi figli, senza dimenticare il dialogo, la conflittualità, il rispetto delle regole, l’educazione alla fede, l’uso del denaro.

Q

All’ombra di Simenon Sono portati per il gusto dello scavo psicologico, per i modesti e mediocri interni, per le brasserie frequentate da balordi e spaesati, per la personalità degli investigatori gli autori di noir “made in France”. Come dimostra Georges Flipo e Marie-Hélène Ferrari che ambienta in Corsica le sue storie di Pier Mario Fasanotti particolare per i versi di Victor Hugo. Quando conduceva una normale vita familiare era capace di recitare ad alta voce i versi del suo eroe, e la reazione di moglie e figli era quella di alzare al massimo il volume della televisione. Il barbone era noto nell’ambiente come Victor Hugo, appunto. Il tenente Monot, laureato in Lettere, ha tutte le carte in regola per decifrare gli indizi, compresa una misteriosa busta, destinata all’Accademia di Francia, trovata nello zainetto della vittima. Era tra le pagine dei Castighi di Hugo. Irritazione del commissario Viviane: «Monot, non le sembra strano che un barbone legga poesie di Hugo?». «Oh, Hugo lo leggono tutti, commissario. I pensionati, gli studenti, gli sbirri. Dunque perché non i barboni?». Stizza della grassona: lei non l’ha mai letto, nel suo piccolo appartamento di rue Simenon (sicuramente l’autore non punta al caso). Madame Lancier si chiede spesso «perché deve essere sempre così dura, offensiva, con gli uomini un po’ deboli. Non appena un muro presentava una crepa, lei sentiva il bisogno di sfondarlo con l’ariete». Malgrado i complessi, Viviane come poliziotto ci sa fare. E, as-

sieme al letterato Monot, scopre che il clochard avvinazzato era venuto in possesso di un sonetto di Charles Baudelaire. Inedito. Così il giallo diventa giallo letterario, attorno a rimandi ai grandi autori e alla figura di un poveretto che considerava «intossicante» la vita. Narrazione divertente. Oltretutto, verso la metà, entra in scena tale Xavier Baudelaire, discendente dalla famiglia di chi scrisse I fiori del male.

Accento marcatamente collocato sulla doppia vita di un uomo anche nel romanzo di Marie-Hélène Ferrari (Il destino non c’entra, Lantana editore, 224 pagine, 16,50 euro), nata in Corsica (a Bonifacio), che inaugura la serie poliziesca che fa perno atorno al commissario Armand Pierucci, «magnetismo da doberman e stazza da bulimico» (ancora un detective sovrappeso, dunque), aiutato da due collaboratori: il malizioso Finelli e il vizioso Pieri (tradisce la moglie con una bambola gonfiabile). È il microcosmo della piccola provincia (passione e vocazione dei francesi) a sud della Corsica, dove l’idioma è intriso di parole italiane. L’agile noir della Ferrari prende le mosse dalla umiliata figura di Marie-Savéria, moglie dello svogliato Paul-François, freddato da

DAL BOOM AL DECLINO UNA STORIA ITALIANA *****

hi vuole avere uno sguardo d’insieme sulla parabola che racconta l’ascesa e il declino dell’Italia deve leggere In ricchezza e povertà. Il benessere degli italiani dall’unità ad oggi (Il Mulino, 495 pagine, 40,00 euro), una ricerca straordinaria curata e coordinata da Giovanni Vecchi, che racconta le condizioni di vita degli italiani dal 1861 al 2011. Nel ripercorrere i 150 di storia unitaria il libro documenta i successi e i ritardi con cui il progresso economico ha distribuito i propri benefici alla popolazione. Oggi si parla di nuove povertà ma lo studio tratteggia il balzo compiuto dall’Italia che ha sconfitto fame e miseria, ignoranza e malattia. Attenzione però: non è detto che il benessere conseguito oggi esista anche domani. E le giovani generazioni ne sanno già qualcosa.

C

proiettili forse non a lui destinati. La principale occupazione della donna era di aspettare il consorte briaconu (l’ubriacone in dialetto corso). Di sera Marie incollava gli occhi al televisore, «la suspence dei poveri». Per scandagliare il mistero recluta come tata dei figli l’ex amante del marito, la lofia Laetitia. La minaccia: in un paese piccolo le reputazioni, già in bilico, si sbriciolano in un secondo. Marie annusa la presenza di «affari sporchi», di frasca (denaro in lingua corsa), ma sa che deve muoversi con prudenza perché a Bonifacio «ci sono cose che non bisogna pensare troppo forte». Sarà il commissario Pierucci, spesso in preda a «stizza nera», a trovare il bandolo della matassa. Uno dei fili va addirittura a Firenze. Spunta a metà romanzo il fratello della vittima. Al quale la cognata rinfaccia: «L’ultimo affare è andato male! È per questo che non sei venuto al funerale?». Risposta: «Ero in ospedale, in Brasile. Mi sono fatto un intervento di chirurgia facciale perché cercano anche me». L’uomo, Joseph, consegna a Marie l’ultima lettera del marito dalla doppia vita: «… Devi perdonarmi tutto, la Laetitia, che non era così importante, e il resto… forse avrei dovuto parlarti di più, ma ora è troppo tardi…».


Storia

MobyDICK

pagina 20 • 29 ottobre 2011

di Massimo Tosti

ue libri per ricordare il contributo delle donne (che non fu marginale) al Risorgimento. Le firme tutte al femminile: Dacia Maraini, Elena Doni, Claudia Galimberti, Maria Grosso, Lia Levi, Maria Serena Palieri, Loredana Rotondo, Francesca Sancin, Mirella Serri, Federica Tagliaventi, Simona Tagliaventi, Chiara Valentini hanno scritto Donne del Risorgimento (Il Mulino, 258 pagine, 24,00 euro). Marina Cepeda Fuentes (da sola) ha firmato Sorelle d’Italia, Le donne che hanno fatto il Risorgimento (Blu Edizioni, 336 pagine, 18,00 euro). In comune i due volumi manifestano un certo risentimento per l’oblìo al quale le antenate ottocentesche sono state condannate dalla cultura maschile: «Le donne del Risorgimento - si legge nella premessa del libro collettivo - non sono entrate a far parte dei testi scolastici o divulgativi, nei libri cioè che formano la culturadi base dei cittadini». Fa eco Marina Cepeda: «Le Sorelle d’Italia - osserva nella sua introduzione - non sono icone del passato, ma esseri viventi che mentre combattono oppure cospirano, sono in grado di amare, gioire, cantare, partorire, seppellire i propri figli o compagni. Sono donne vive che semplicemente erano state messe a tacere, narcotizzate da chi ha narrato gli eventi storici per decenni». Un tot di polemica femminista, dimenticando (le une e l’altra) un libro scritto nel 1994 da un giornalista e divulgatore recentemente scomparso, Antonio Spinosa, che raccontava le stesse storie, mostrando la medesima ammirazione per le donne che, nel periodo più glorioso della nostra vcenda nazionale, non furono da meno degli uomini (Italiane, Il lato segreto del Risorgimento, Mondadori editore).

D

Il risentimento per il silenzio prolungato è più forte (e politico) nel libro scritto a ventiquattro mani. Basta leggere questo brano per rendersene conto: «Erano dietro le barricate e non le abbiamo “viste”. Stavano davanti ai plotoni di esecuzione e ci siamo voltati dall’altra parte. Nei titoli di coda del Risorgimento ci sono solo nomi al maschile. Re, eroi e faccendieri. Facevano loro l’Italia. Qualche volta anche a pezzi.Tanto a rimetterli insieme ci pensavano le donne. Nel silenzio e con tenacia. Quelle che, per i libri di storia, erano la compagna, la spia, la cortigiana. Figure di contorno sempre al servizio di qualcuno. E poteva anche essere Garibaldi o Cavour. Mai protagoniste assolute. Come in una fiction in costume venuta male. Loro che più di tutti conoscevano (conoscono) il sopruso, l’ingiustizia, l’emarginazione. La violenza e la discriminazione. E prima degli altri si sono indignate e ribellate». Marina Cepeda (spagnola di nascita, italiana di adozione, vedova di un grande intellettuale come Alfredo Cattabiani) è meno preoccupata dalle polemiche. I suoi ritratti sono conditi di amore, si potrebbe dire più romanzati (anche se la ricchissima bibliografia, e i tanti viaggi compiuti dall’autrice per cercare alla fonte le testimonianze, dicono l’esatto contrario: di Storia, si tratta, prima ancora che di storie). Ci sono, come è ovvio, molte sovrapposizioni fra i due libri.

libri

Risorgimento in rosa Due volumi, uno a ventiquattro mani e l’altro di Marina Cepeda Fuentes, sulle donne che hanno fatto l’Italia. Troppo a lungo dimenticate, salvo un’illustre eccezione...

E non solo quelle che riguardano i personaggi più celebri: Anita Garibaldi, Cristina Trivulzio Belgioioso, Rosalia Montmasson (moglie di Crispi: l’unica donna che prese parte alla spedizione dei Mille), Giuditta Tavani Arquati, ma anche alcune meno conosciute come Nina Schiaffino Giustiniani (sfortunata amante di Cavour), Enrichetta De Lorenzo (genorosa compagna di Carlo Pisacane), o Bianca De Simoni Rebizzo (che agevolò la concessione da parte dell’armatore Rubattino dei due piroscafi sui quali si imbarcarono i Mille), o Colomba Antonietti (ferita a morte a Porta San Pancrazio durante la difesa della Repubblica romana, nel giugno 1849, quando aveva appena ventidue anni).

Generosamente, nel Pantheon risorgimentale Marina Cepeda inserisce anche tre donne straordinarie, che si trovarono a combattere dalla trincea sbagliata: le «brigantesse» Michelina De Cesare e Filomena Pennacchio, e la regina Maria Sofia di Baviera (moglie di Francesco II, l’ultimo re delle Due Sicilie), alla quale l’esercito piemontese comandato da Enrico Cialdini, concesse l’onore delle armi, al momento della resa di Gaeta, nel febbraio 1861, un mese prima della proclamazione del Regno d’Italia.

Personaggi

Così parlò Francesco Cossiga di Franco Insardà veva spazzato via le verità di comodo sulle stragi di Bologna e di Ustica. Non nascosto che lo Stato è andato oltre il lecito nella lotta al terrorismo. Confermato com’è rischioso fare vita pubblica in Sicilia, anche quando si è mossi soltanto dalle migliori intenzioni. Ma Francesco Cossiga ha voluto morire da civil servant come aveva vissuto, lasciando agli storici e non alla politica le verità più scottanti della Repubblica: non ci sono memoriali, lettere agli amici di partito, memorie postume che spesso si rivelano soltanto imbarazzanti o peggio ancora pedanti. In quest’ottica è ancora più pregevole il lavoro di Renato Farina che all’ex presidente della Repubblica ha dedicato il suo Cossiga mi ha detto: un affresco della storia italiana e dei suoi personaggi nel quale il protagonista è proprio la coscienza critica per eccellenza della Repubblica, un uomo che ha avuto la sfortuna di concludere a 64 anni (troppo giovane per l’Italia gerontocratica) il suo cursus honorum. Infatti il Cossiga che lascia il Quirinale ha soltanto l’ambizione di mettere sui giusti binari la traballante e appena nata Se-

A

conda Repubblica. Ed è nel compimento delle sue funzioni che s’imbatte in Farina. «Cossiga - racconta il giornalista - era il massimo esperto del globo sulle questioni relative all’intelligence e agli 007 di ogni Paese. Subito dopo l’11 settembre si mise in contatto con Feltri. Gli disse che Berlusconi stava per scegliere dei vertici del Sismi e del Sisde disastrosi. Occorreva forzare la mano. Era disposto Feltri a ospitare dei suoi testi? Feltri disse di sì e affidò a me l’opera di trasformare un meraviglioso enigmatico testo in qualcosa di masticabile per i lettori. Era d’accordo Cossiga? Di più: entusiasta». Risultato? «Lavorammo insieme, e uscì un articolo in cui Franco Mauri (lui!) fucilava come traditori gli altri candidati e promuoveva a pieni voti e con la garanzia di salvezza per l’Italia i generali Nicolò Pollari per il Sismi e Mario Mori per il Sisde. Cossiga mi invitò a brindare: la nostra accoppiata aveva vinto per il bene dell’Italia». A dirla tutta, e Farina lo accenna con molta grazia, quella campagna giornalistica non ha certamente aiutato la carriera del giornalista. Fatto sta che è stata la miccia in grado di far scattare l’amicizia di

Verità e segreti di Stato e schegge di biografia raccontati “de visu” a Renato Farina

due eterni ragazzi amanti di storie di intelligence e di sofisticati aggeggi tecnologici, di due che per l’amor di Patria sono diventati «Crisantemo» e «Betulla». «Da allora ci sentimmo quasi tutti i giorni, scrivemmo insieme, registrammo materiale per un libro biografico traslocando a Lugano o in Toscana per settimane intere. Il libro è mio e le parole sono sue. Sono quelle che ho udito da lui, quelle delle carte da lui tirate fuori dai cassetti». Per gli amanti del genere scopriamo che «il Sismi con il sequestro di Abu Omar non c’entra nulla» a differenza di quanto ha ipotizzato la procura di Milano. Che Primo Greganti assalì Antonio Di Pietro durante il primo interrogatorio e che Giovanni Falcone «furono in molti a piangerlo al suo funerale pur avendolo ucciso, solo Ilda Bocassini gli fu sincera». Verità e segreti di Stato che si mischiano con l’infanzia in Sardegna con i cugini Berlinguer, l’origine aristocratica e borghese delle loro famiglie, gli anni giovanili, i primi amori, il tormentato rapporto con la donna che lui definisce «la madre dei miei figli». Con il risultato che uno compra Cossiga mi ha detto per scoprire la vera storia d’Italia e finisce per appassionarsi alla vicenda di un uomo che una volta in cielo si augura di essere accolto da «Dio. Da Moro. Da mia sorella. Da mia madre». Renato Farina, Cossiga mi ha detto, Marsilio, 236 pagine, 18,00 euro


spettacoli Classica MobyDICK

li applausi più scroscianti, a inizio e a fine concerto, erano per il direttore d’orchestra, Tony Pappano. Più che meritati, sia pur nel fastidioso delirio di massa che ha suggellato l’ascolto. Proseguendo nel percorso celebrativo del centenario della morte di Gustav Mahler, l’Accademia di Santa Cecilia ha aperto la sua stagione sinfonica con la Sinfonia n.° 8. La Sinfonia dei Mille, dal numero di interpreti che ne produssero la prima esecuzione a Vienna, nel settembre 1910. Un kolossal che ben rispecchia certe correnti di gusto del suo tempo, e che produce comunque un tale uragano di suoni da mettere a dura prova le capacità degli esecutori, e da sollecitare nel pubblico dal palato più facile un’orgia di entusiasmo. Spettacolare già lo schieramento in sé, al Parco della Musica in Roma. Orchestra, Coro e Voci Bianche di Santa Cecilia, uniti al China National Chorus; maestri dei cori Visco e Upadhyaya. E otto erano i solisti di canto, tutti inappuntabili: Uhl, Brewer, Tynan, soprani; Mingardo e Radner, contralti; Schukoff, tenore; Maltman, baritono; Zeppenfeld, basso. In tutto, quasi cinquecento unità. Due testi di alta nobiltà sono attinti da Mahler in questo capolavoro, concepito nel 1906, e ne costituiscono la spina dorsale: l’inno medioevale Veni, Creator Spiritus, attribuito a Rabano Mauro, e l’ultima scena dal Faust di Goethe. Testi che recano un profondo slancio filosofico, coniugato con l’originale pluralità di risorse e con l’elevata ispirazione del linguaggio musicale. Tutto si fonde perfettamente in

G

29 ottobre 2011 • pagina 21

Il respiro di Mahler nella bacchetta di Pappano di Francesco Arturo Saponaro

una pagina imponente, molto difficile da governare. Anche questa volta, è emerso lo straordinario talento di Pappano. Impegnato allo spasimo nel cercare e mantenere il giusto equilibrio di un lavoro tanto complesso nella sua sintesi di poesia e monumentalità, il direttore britannico ha trovato la rotta opportuna, articolandola plasticamente lungo i differenti sentieri dei due episodi. Ampio respiro e slancio, anche emotivo, nel Veni Creator, impressionante nel suo impatto lirico. Limpidezza e trasparenza elegantissime, invece, nel tratteggio del testo goethiano. Qui il fraseggio delicato e intenso ha illuminato un orizzonte di colori poetici sorprendenti, che Pappano ha saputo condurre al canto più comunicativo e le-

Televisione

vigato, in una capacità interpretativa che è tutta sua propria, e da tempo in lui consolidata. Una sintesi e una guida infallibili nel trovare l’equilibrio tra gigantismo e visionarietà, su una lettura di alto gusto. Nessuna meraviglia, quindi, che adesso i complessi ceciliani siano nuovamente invitati, col loro direttore, in tournée nelle principali sale europee. La stagione proseguirà ora nell’appuntamento con altre sinfonie mahleriane, affidate alla bacchetta di Valery Gergiev, con l’orchestra del Teatro Marinskij di Pietroburgo. E poi arriveranno altri importanti direttori e orchestre ospiti: Abbado, Dudamel con l’orchestra venezuelana «Simòn Bolivar», Nagano, Biondi, il giovane italiano Rustioni, l’orchestra Les Talens Lyriques con Christophe Rousset, Temirkanov con la Filarmonica di Pietroburgo, Eschenbach, Prêtre, Maazel, Harding. Ovviamente Pappano sarà impegnato in altri appuntamenti significativi, dal Requiem di Mozart alla serata con Maurizio Pollini, e via continuando. Com’è tradizione, anche la stagione da camera, appena inaugurata da

Michele Campanella nella celebrazione di Liszt, richiama molti celebri solisti, dal violinista Uto Ughi a cantanti come Gerhaher, Bostridge, Bartoli, Florez, Lemper. E chi ama il quartetto d’ar-

chi potrà ascoltare gli artisti dei gruppi Mosaïques, Ebene, Gewandhaus, Hagen, Leonis. Gli appassionati del pianoforte potranno poi scegliere tra Pogorelich, Grimaud, Lonquich, Pollini, Schiff con il suo

Progetto Bach, Tharaud, Sokolov, Lupu, Bollani con il Concerto di Ravel, le sorelle Labéque. Chi cerca itinerari alternativi, avrà Ludovico Einaudi. E non mancheranno opere in forma di concerto, con Evgenij Oneghin e Cavalleria Rusticana.

Scorpacciate di morte... purché virtuale

on una straordinaria unanimità si dice che oggi non si ha più familiarità con la morte. L’osservazione è confermata da psicologi e sociologi. I genitori tendono a occultare la morte di un parente: il nonno senza vita è tabù, non lo si deve vedere. Come spesso è tabù la sua lunga sofferenza, come se i suoi tratti quasi non più vitali costituissero una minaccia intima, un orrore gratuito dal quale è meglio stare lontani. C’è l’idea della morte quella non si può nascondere - ma non la morte in sé con tutte le sue pietose sembianze. Tutto questo è in netta contraddizione con la celebrazione della morte compiuta dalla televisione, che sforna a ritmo serrato polizieschi duri, con zoomate su cadaveri sul tavolo dell’autopsia, psicopatici armati di coltello o pistola, vittime con gli occhi sbarrati. A grande richiesta, come si suol dire, è tornata la serie The Walking Dead, storia orripilante di morti viventi che minacciano intere comunità, su uno sfon-

C

do apocalittico. Generi più soft, dall’impalcatura più familiare e con una trama umanamente più complessa - mi riferisco al Commissario Cordier rimbalzato dalle tv tradizionali ai canali Sky - sono snobbati dai giovani: li considerano superati. È come paragonare un giallo di Agatha Christie alle righe sanguinolente e crudissime di James Ellroy o Stephen King. Siamo quindi all’esposizione della morte virtuale: consentita ai minori, seguitissima dagli adulti, forse per il fatto che quello è «teatro», ossia rappresentazione, e non realtà «vera», a noi prossima. Lo schermo pare funzioni da filtro, da meccanismo che marchia col timbro «fantasia» tutto ciò che ha attinenza con la morte, in specie quella vio-

lenta. Se Rai e Mediaset, per un vuoto di ideazione narrativa, si rifugiano in storie melense (vedasi l’interminabile serie Don Matteo), sempre con il rischio del caricaturale e con l’ambizione di fornire un prodotto ad alto voltaggio sociologico (occorre fare eccezione con Il commissario Montalbano), i canali Sky sono ormai diventati il supermercato filmistico della morte.Vista da più punti di vista:

scientifico, forense, psicologico (è entrato nel linguaggio comune il termine profiler, derivato dall’ottimo Criminal Minds), poliziesco e così via. Talvolta ci si butta nel paranormale, con venature horror. In ogni caso ci sono serie straniere che sono all’altezza delle aspettative. Mi riferisco in particolare a Loro uccidono (Fox Crime), prodotto e ambientato in Danimarca. Qui la protagonista è Katrine Ries, capitano dell’unità speciale della polizia di Copenaghen, affiancata da Thomas Schaeffer, psichiatra forense. La coppia affronta i casi più scabrosi. Come accade nella realtà, sia Katrine sia Thomas hanno macchie traumatiche nel loro passato, causa di solitudini profonde. Commento di un telespettatore: «Prodotto, affascinante». Dopo Romanzo criminale, il nulla. Il 3 novembre inizierà l’americano The killing (su format danese). Il quotidiano Usa Today l’ha promosso con quattro stelle su quattro. Protagonista sarà un (p.m.f.) detective donna, di Seattle.


Babeliopolis

pagina 22 • 29 ottobre 2011

opo sei anni, Sergio Altieri si è dimesso da editor (come si dice oggi) delle collane da edicola della Mondadori. Per intenderci i Gialli, Urania, Segretissimo, Harmony e così via. Ha considerato chiusa questa esperienza e ha deciso di ritornare alla sua attività di sceneggiatore e scrittore (con il nome di Alan D. Altieri). Durante la sua gestione ha tentato di «movimentare» una certa abitudine consolidata creando nuove collane ma anche cercando una mescolanza di «generi» e soprattutto aprendo decisamente le porte alle firme italiane: e così romanzi polizieschi, di spionaggio e fantastico-fantascientifici sono sempre più apparsi con la firma dei nostri autori non celata da pseudonimi inglesi o francesi. Mentre questa operazione è andata felicemente in porto, meno bene sono andate le nuove testate da lui proposte come Il Giallo Mondadori presenta, Supersegretissimo e soprattutto Epix che sarebbe stata un importante sbocco per fantasy e horror. Ma, come si è stati costretti ad ammettere, il pubblico di queste testate popolari è molto abitudinario, molto conservatore e non ama troppo le novità. Anche la presentazione di romanzi polizieschi «fantascientifici» ha fatto storcere il naso agli appassionati del giallo «classico», anche a dimostrazione che il pubblico di certi generi letterari si rinnova molto lentamente dal punto di vista generazionale. È auspicabile che l’esperienza e l’eredità critico-letteraria di Altieri non siano destinate a scomparire, dato che tracce profonde l’hanno lasciate, ma certo ora tutto è sulle spalle di chi ha preso il suo posto, Franco Forte, peraltro un nome che viene dalla fantascienza attiva, critico e narratore poi passato al romanzo storico, quindi uno che certe cose le conosce bene.

MobyDICK

ai confini della realtà sci una traccia invisibile. Quella traccia può divenire un fantasma. Se un omicidio può dare origine a una casa infestata, cosa può generare una guerra?», afferma il Cieco, e spiega: «Se esiste, come esiste, una relazione chiara tra guerra e paranormale, Sarajevo è un dei nodi focali di questa relazione». La risposta può essere: una città infestata, Sarajevo la città dei morti ammazzati, dei morti viventi, degli spettri, dei vampiri, dei revenant, e… della Stanza 41. In questo scenario di devastazioni materiali e spirituali, si muove Weiss ma si muove soprattutto il Cieco, un inquietante sensitivo, anzi un «necromante», che aiuta la Squadra Esp dell’Onu a risolvere i problemi più difficili e che alla fine arriverà alla soluzione, dato che Weiss senza saperlo è colui che ha messo in moto il dramma. Insomma, il Cieco è un «meccanico di universi» che deve porre rimedio al «tempo che sta franando» e alla «distruzione della realtà» avviata da un errore psichico di Weiss.

D

Come ultimo lascito, e quasi dimostrazione di quel gli sarebbe piaciuto continuare a fare, Altieri ha inserito nella collana Segretissimo che ha sempre ospitato non solo romanzi di spionaggio, ma anche di guerra, avventura, azione e thriller, un’opera veramente particolare: Assedio di Vincent Spasaro, romano trapiantato a Piacenza. Definita «un dark thriller che infrange ogni regola», è in realtà una storia di orrore sovrannaturale che ha per sfondo Sarajevo nei tragici e assurdi giorni di fine 1993 quando le truppe dell’Onu dovevano proteggerla dall’esercito serbo e invece fecero poco o nulla. Un romanzo molto originale, ma anche molto complicato e non sempre riuscito come può accadere ai chi si inoltra in territori sino a questo momento inesplorati. La storia ha per centro non tanto una persona o delle persone, ma un luogo, la stanza n. 41 di un immobile bombardato e semiabbandonato. Nulla di più classico per un giallo, ma qui siamo su un altro versante, quello dell’orrore puro: la stanza racchiude un segreto, un passaggio, un intero mondo. La stanza espelle strane cose e strani esseri. La stanza inghiotte chi vi entra. La stanza racchiude un segreto impensabile. A scovarla indirettamente sarà uno dei personaggi principali della storia, Stefan Weiss, agente informativo dell’Onu, con un terribile passato nella Repubbli-

Ghostbusters a Sarajevo di Gianfranco de Turris ca democratica tedesca e il suo regime oppressivo e claustrofobico, che ha traumatizzato la sua vita. Indirettamente: e il perché lo si capirà soltanto nelle ultime pagine che capovolgeranno, come si conviene, le idee che il lettore poteva essersi fatto sino a quel momento. Ovviamente di questo tipo di storie non si può raccontare molto, però intanto si possono indicare gli aspetti positivi. Spasaro tanto per cominciare si è rifatto agli «investigatori dell’occulto», ai «cacciatori di fantasmi» e ne ha ideato una versione moderna e ufficiale, la Squadra

E o Esp dell’Onu che, grazie a sensitivi che ne fanno parte e a particolari strumenti (la «camera dell’aura», i computer Esp) intervengono nei luoghi in cui si manifestano situazioni paranormali. Insomma, dei Ghostbuster, ma seri e sfortunati. Infatti, mal gliene incoglie a indagare sulla Stanza 41. La loro presenza a Sarajevo è spiegata col fatto che la città è da tempo «segnata»: è da essa che è partita la carneficina della grande guerra e i fantasmi di allora, civili e militari, non si sono quietati e ritornano: «Si dice che un omicidio, un evento violento, la-

«Un dark thriller che infrange ogni regola» quello di Vincent Spasaro ambientato ai tempi dell’intervento dell’Onu nella capitale bosniaca. Dove una squadra di investigatori dell’occulto si appresta a entrare nella Stanza 41, rivelando i legami tra guerra e paranormale

La trama, che ricorda certe aggrovigliate tematiche di Philip Dick, è complicatissima e non sempre, forse volutamente, riesce chiara. In più il romanzo dà l’impressione di essere tirato per le lunghe allo scopo di raggiungere gli standard dei volumi della collana di appartenenza, e ciò non gli giova affatto, dato che pause e tempi morti - e mai parola fu più adatta - balzano agli occhi. Lo stile barocco appare spesso forzato, così come alcune scene grandguignolesche come il lunghissimo episodio di Weiss ubriaco che trascina sul cofano della macchina il corpo nudo del poliziotto Kjasif che alla fine, nonostante prove terribili, riesce addirittura a sopravvivere… Fa il paio con Indiana Jones che emerge vivo aggrappato al sottomarino tedesco dopo un viaggio in immersione! Per non parlare di figure potenti ma poco comprensibili come il Barone, per metà di carne e per metà metallico i cui rapporti con il Cieco sono enigmatici, oppure l’abitatore della chiesa diroccata al quale il Cieco chiede informazioni. Qualche parole di chiarimento, o qualche indizio, non sarebbero stati sgraditi al lettore. Spesso le immagini potenti non bastano. La parte migliore del libro, sia come stile e come immaginazione, è la lunga sequenza nell’universo il cui ingresso è la Stanza 41. Certo, i corridoi bianchi e luminosi, gli specchi, gli arredi possono ricordare il finale di 2001 odissea nello spazio, ma è solo una impressione iniziale che man mano si trasforma in stupore quando Weiss incontra le divinità crocifisse, quando il suo colpo d’occhio vede e non vede qualcosa all’incrocio dei corridoi vuoti e silenziosi. La Stanza 41 conduce in una «cattedrale», in un «santuario» cosmico; o forse o un «ponte» spaziotemporale? Sta di fatto che qui Weiss incontro Aydan, l’unica donna che ha amato e perduto e il cui ricordo - e rimorso - lo perseguitano da sempre. Meno complicato, meno concitato, meno prolisso, Assedio a mio parere sarebbe risultato assai più efficace e apprezzabile considerando l’idea brillante e potente che sta al fondo e la qualità della scrittura.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Francia e Germania ridono di noi Ma sono loro a “perdere” la Bce UN GRANDE PARTITO NASCE ANCHE ATTRAVERSO I CONGRESSI In questo autunno caldo per la politica sta iniziando in tutta Italia la stagione dei congressi dell’Unione di Centro “Verso il partito della Nazione”. Congressi che, partendo dalle singole sezioni, porteranno alla celebrazione di quello nazionale, che si svolgerà presumibilmente nella primavera del prossimo anno. Parlare di congressi ai tempi della Seconda Repubblica può sembrare superato o, per lo più, antico. Io credo che la mancanza di politica che si è respirata negli ultimi sedici anni è dovuta anche e soprattutto alla sparizione di “partiti veri” che avevano anche il compito di elaborare e produrre politica. Molto si è detto dei partiti cosiddetti di “plastica”ma il rischio è che, per contaminazione con le usanze e consuetudini del tempo, si tenda ad imitarli nei modi e nelle forme. Per l’Udc i congressi devono essere un appuntamento decisivo nel suo percorso politico e nella sua vita democratica. Per fare questo bisogna evitare di limitarsi alla sola conta delle tessere presentate, o alla riaffermazione di rendite di posizione, deve piuttosto essere un’occasione per un dibattito elevato, ricco di idee e di spunti utili al nostro progetto politico. Non dobbiamo avere paura se in alcuni sedi provinciali non si arriverà ad una soluzione unitaria, che a volte dà la sensazione di “accordo di vertice” senza che sia sentita la base degli iscritti. Se vogliamo che il nostro partito nasca “aperto” e “partecipato” e soprattutto “vero”, dobbiamo evitare di confondere l’unità del partito con l’unanimismo che a volte si vuole imporre. Favoriamo il confronto e il coinvolgimento degli iscritti, pretendiamo che dai congressi provinciali ci si impegni ad organizzare il partito in ogni singolo paese delle province, istituiamo scuole di formazione permanenti in ogni regione, facciamo selezione di classe dirigente, creiamo osservatori di ascolto e commissioni di confronto con le istituzioni di categorie economiche e sociali. Se riusciremo a fare tutto questo nei congressi provinciali allora avremo la certezza che sta per nascere una grande partito. Marco Bovo C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E C I R C O L I LI B E R A L VE N E T O

Siamo diventati lo zimbello dell’Europa. E la situazione che riguarda il nostro premier sta solo aggravando la considerazione che hanno del nostro Paese all’interno dell’Unione europea. La risatina (in mondovisione) del duo Sarkozy Merkel mi ha dato da pensare. Non credo molto alla sincerità dei politici e quindi ho cercato una spiegazione alternativa a quella ufficiale. Sono partito dalla considerazione che l’unica cosa che hanno veramente in comune i Paesi europei è l’euro. L’euro è governato in quasi totale autonomia dalla Banca Centrale Europea, che a sua volta è retta da un Comitato esecutivo di sei membri: Jean-Claude Trichet (presidente, francese),Vítor Constâncio (vicepresidente, portoghese), Lorenzo Bini Smaghi (italiano), José Manuel González-Páramo (spagnolo), Jürgen Stark (tedesco), Peter Praet (belga). Ora si sono verificati due fatti: Jürgen Stark si è dimesso e Draghi sostituirà Trichet. La conseguenza è chiara: i due Paesi economicamente più forti rischiano di non contare più niente nell’unico organismo forte e funzionante di questa caricatura di Unione. Peggio ancora, lo lascerebbero in balia (4 a 2) dei Paesi latini, dai quali i francesi sono convinti di essere diversi. Osservazione che, bisogna ammettere, aveva già fatto Giulio Tremonti: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Alberto Zullo

INCENTIVI PER CHI È ONESTO? Mentre il fisco affila le armi della lotta all’evasione, continua a non vedersi all’orizzonte alcuna misura di alleggerimento per chi le tasse le paga davvero. Non posso quindi che rimanere scettico alla notizia che il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, stia pensando ad un progetto che permetta di incentivare i contribuenti italiani a pagare le tasse. Ossia premiare chi risulta in regola dopo i controlli. Mi viene da pensare in cosa potrà mai consistere questo “premio”, forse in una lettera in cui il direttore si congratulerà con il contribuente integerrimo: bella consolazione!

Andrea De Marchi

LA FINE DI GHEDDAFI, MUSSOLINI E SADDAM HUSSEIN Di fronte all’uccisione del Colonnello, molte voci hanno accomunato la morte del Raìs a quella di Benito Mussolini. A ben pensare però esiste una differenza non di poco conto; infatti il corpo del Duce, ignobilmente appeso per i piedi in piazzale Loreto ed esposto al pubblico dileggio, era stato già ucciso “solo” da una pallottola. Invece Gheddafi (ovviamente non dimenticando la sua tirannide), prima di morire ha dovuto subire una sorte cre-

do più crudele di Mussolini, perché già gravemente ferito e coperto di sangue. Quindi ancora cosciente ha dovuto sopportare un vero linciaggio. Penso che quella pallottola al capo che lo ha ucciso, in realtà lo abbia liberato. Vorrei aggiungere, infine, che anche un dittatore crudelissimo, come è stato il Raìs libico, avrebbe dovuto essere processato regolarmente, come per esempio, è accaduto nel caso di Saddam Hussein.

Enrico Frisoli

UN PO’ DI NAZIONALISMO NON GUASTA Non ho grossa simpatia per Giuliano Ferrara però devo dire che ho apprezzato il sit in dell’altro giorno in piazza Farnese, dove il direttore del Foglio ha lanciato sonore risate verso l’ambasciata di Francia, rispedendo così al mittente le risatine di Sarkozy. Vorrei tanto che tutti noi, di destra, di sinistra e di centro, diventassimo nazionalisti, e dimenticando Berlusconi, ci sentissimo profondamente offesi da tali atteggiamenti di stupida superiorità.

Patrizia Visoni

La classe politica non può discutere di innalzamento dell’età pensionabile, senza eliminare una volta e per tutte i vitalizi di

L’IMMAGINE

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

orse il prezzo è un po’ fuori mercato, ma poi il compratore può dormire sonni tranquilli. Più che altro eterni. Sul sito immobiliare.it, tra appartamenti e ville, spunta una tomba. Si trova al cimitero di Poggioreale, a Napoli, ed è in vendita. Costruita nell’Ottocento, l’edicola funeraria è stata ristrutturata ed è tornata all’antico splendore con le sue decorazioni in oro e marmi pregiati, capitelli e parti scolpite a mano. I responsabili del sito, ricevuto l’annuncio, hanno pensato a uno scherzo realizzato per l’imminente Halloween. Ma hanno dovuto ricredersi. La tomba monumentale esiste ed è davvero in vendita come chiarisce l’annuncio: «Vendesi nel cimitero di Poggio Reale - Napoli - cappella gentilizia monumentale del 1800 (finemente restaurata nell’ultimo decennio) - le facciate esterne e interne presentano decorazioni in oro e rivestimenti con marmi dei più pregiati - capitelli e parti murarie scolpite a mano di ottima fattura risalenti al 1800, tanto da considerarsi un’opera architettonica monumentale. Il prezzo è di 800mila euro.

F

tutti, dai deputati ai consiglieri regionali. Bisognerebbe applicare il metodo contributivo anche a loro che hanno un bello stipendio e quindi dovrebbero versare per quello che percepiscono. Non riesco a capire perché la riforma delle pensioni si possa fare in una settimana e quella dei vitalizi no. Se vogliono essere credibili questi politici debbono dare l’esempio e accomunarsi a tutti noi comuni mortali.

Carlo Rossi

PACE, RISPETTO E DIALOGO Benedetto XVI è stato ad Assisi per il grande incontro fra le religioni per la pace e la giustizia nel mondo. Ed ha affermato: «Mai più violenza, mai più guerra, mai più terrorismo. In nome di Dio ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono e vita, amore». All’incontro di preghiera per la pace è arrivato anche il saluto di Barack Obama, che in una lettera al Papa ha scritto: «Attraverso il dialogo interreligioso possiamo unirci in una causa comune per risollevare gli afflitti, portare la pace dove c’è conflitto e trovare una strada per migliorare il mondo per noi e per i nostri figli». Speriamo che i messaggi vengano ascoltati, accolti e, soprattutto, messi in pratica.

Rinaldo Dattilo

DOMANI - ORE 11 POLLICA/ACCIAROLI (SALERNO) Convegno “Quale politica? Dalla crisi ai valori per il Sud che cambia” Conclude: onorevole Ferdinando Adornato

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Napoli, vendesi “casa” per… sonni eterni

ELIMINIAMO I VITALIZI DEI POLITICI

APPUNTAMENTI

VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ORE 11 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal

LE VERITÀ NASCOSTE

UNA BUONA NOTIZIA PER GLI ANIMALI

Amiche per la vita Quando si parla di cani-guida, subito si pensa ai silenziosi e attenti amici a quattro zampe dei non vedenti. Ma questa volta ad avere problemi di vista è proprio un cane. Lily, una femmina di alano di sei anni, è rimasta cieca all’età di 18 mesi. Da allora può contare sulla presenza costante di Maddison, un’altra femmina della stessa razza, che la segue ovunque e le presta i suoi occhi per esplorare i dintorni

Quante volte, guardando la televisione o leggendo il giornale, vi è capitato di inorridire per le notizie di maltrattamenti e vivisezioni sugli animali? Ebbene pare ci siano buone nuove. In Parlamento infatti è stata approvata quasi all’unanimità una norma che vieta tali pratiche in Italia e fa chiudere gli enti che lo ritengono un semplice gioco commerciale. È molto importante per i bracchetti, le scimmie e altri animali. Come sempre, molti sono gli scettici che dicono: tanto semplice da realizzare quanto difficile da far rispettare. Macchè! Accogliamo la notizia benvolentieri perché ci fa assaporare un po’ di gioia.

Pierpaolo Correggio


mondo

pagina 24 • 29 ottobre 2011

Secondo Karim Mezran, docente della Johns Hopkins University di Washington «in Siria ci sarà un conflitto per logoramento»

Nubi sulla Primavera Assad è l’ultimo dittatore ancora in carica. E in Tunisia Ennahdah sbaraglia tutti di Pierre Chiartano n Tunisia si è appena votato per la costituente, mentre in Siria Bashar al Assad si prepara a resistere. C’è stato infatti una altro venerdì di sangue per i siriani. Il partito d’ispirazione islamica tunisino Ennahdah ha conquistato la maggioranza relativa: 90 seggi su 217, con il 41,47 percento dei voti. A Sidi Buozid però ci sono stati degli scontri per l’esclusione di alcune liste legate al partito del miliardario Hachmi Hamdi – piene di riciclati del regime di Ben Alì – secondo una sentenza l’alta corte tunisina per le elezioni. I sostenitori di quel partito non hanno però gradito e anche ieri ci sono stati scontri nella città simbolo che aveva dato l’avvio alla rivoluzione tunisina, tanto che è stato introdotto il coprifuoco. Ma Bashar a Damasco insegna come la piazza sappia essere ambiguae si possa blandirla come reprimerla. Comunque Ennahdah si avvia a gestire questa fase di transizione, anche se il meccanismo elettorale della costituente

I

tende a premiare i partiti più piccoli, garantendo una sorta di diritto di tribuna. Sarà la fase successiva, con le vere elezioni politiche la chiave per il futuro della Tunisia. L’ingombrante vicino libico non c’è più. Muammar Gheddafi è morto e con lui equilibri e ricatti di mezzo secolo di storia. Ora entrano in campo gli interessi economici di un risiko la cui regia risiede a Parigi, ma che non sembrerebbe seguire i canoni classici dell’interesse nazionale dell’Esagono. In Siria Bashar al Assad sembra essersi rafforzato, dopo il bagno di folla dei sostenitori del regime. Sarà una guerra di logoramento quella dell’opposizione all’oligarca di Damasco. Ankara in questi giorni si è presa una pausa, per leccarsi le ferite del terremoto, ma presto tornerà sulla scena della corniche mediterranea, per dettare le sue regole. Mentre a Teheran continua la lotta di potere tra Mahmoud Ahmadinejad e Ali Khamenei, chi uscirà vincitore dovrà gestire un forte cambiamento indotto dai

grandi cambiamenti indotto sia dalla Primavera araba, sia dal nuovo protagonismo turco in salsa neo-ottomana.

«Gli scontri di Sidi Buazid sono stati provocati dal magnate Hachmi Hamdi (fondatore di Petition Poupulare) che ha scatenato i suoi supporter, dopo la decisione dell’Alta corte sulle elezione di cancellareil risultato del suo movimento», spiega a liberal Karim Mezran, profes-

sore di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University di Washington. «La vittoria di Ennahdah, il partito di Rashid Gannouchi, nasce dal lungo periodo d’opposizione la regime di Ben Alì. Gannouchi con gli altri membri di Rinascita sono stati per anni l’unica opposizione vera in Tunisia, anche quando erano in esilio o nelle patrie galere. Hanno guadagnato una tale legittimità che sono stati seguiti da quasi metà della po-

Scontri fra copti e musulmani, esercito fuori controllo, 53 partiti politici in lizza: l’Egitto va verso le elezioni di fine novembre

Mentre il Cairo pensa al suo futuro recenti avvenimenti in Tunisia, Libia e Siria stanno gettando nuova luce sulla situazione in Egitto. E le elezioni in Tunisia dello scorso 23 ottobre per una Assemblea costituzionale, per quanto gravate da ombre e violenze, hanno dato nuova speranza al popolo egiziano. La speranza era quella di vedere elezioni libere, oneste e democratiche; anche se parte dell’opinione pubblica ancora dubita che le antiche abitudini, radicate nelle menti dopo un’era di dittatura lunga più di mezza secolo, possano cambiare in maniera veloce. Questo periodo di transizione è stato occupato per la maggior parte dalla preparazione delle elezioni parlamentari che si dovrebbero tenere in Egitto verso la fine di novembre. Ieri era l’ultimo giorno utile per i candidati che volevano pro-

I

di Vincenzo Faccioli Pintozzi porsi per le elezioni. Il nuovo Parlamento, chiamato Consiglio del Popolo, e il Consiglio consultivo (equivalente a un Senato) dovranno costituire una formazione speciale con il compito di elaborare una nuova Costituzione. Si sono regi-

liste di partiti (che esprimeranno due terzi dei membri, ovvero 302 deputati) e candidati individuali per il terzo rimanente. I fondamentalisti noti come “salafiti” hanno presentato molti candidati individuali. La Corte amministrativa, le-

È noto a tutti che Fratelli musulmani e salafiti otterranno un ottimo risultato: si parla addirittura del cinquanta per cento. L’incognita riguarda gli ex membri del Partito di Mubarak strati 53 partiti politici diversi, ed è noto che i membri dell’ex Partito di Mubarak si sono divisi in dieci partiti diversi e si sono infiltrati negli altri. Loro hanno proposto 260 candidati. Si è molto discusso sul sistema elettorale, diviso in

gata al Consiglio di Stato ha espresso un giudizio per dare a tutti gli espatriati egiziani la possibilità di votare alle prossime elezioni. La Corte ha richiesto al governo di prendere le misure necessarie. Secondo fonti molto informate, il

numero di egiziani espatriati è di circa 8 milioni sparsi soprattutto in Arabia saudita e Emirati, ma anche in Europa, Nord America e Australia. Entro la fine dei questo mese, delegati del governo per gli affari civili viaggeranno in Europa, Canada e Stati Uniti per far ottenere a tutti gli emigranti egiziani una nuova carta di identità, con cui un cittadino egiziano è automaticamente registrato anche per il voto. L’Egiutto riconosce la doppia cittadinanza.

È noto che i Fratelli musulmani e i salafiti raggiungeranno un buon risultato: gli specialisti ben informati assegnano loro fra il 40 e il 50 per cento del risultato totale. E molti commentatori registrano come lo Scaf (il Supremo consiglio delle Forze armate), -che al momento


29 ottobre 2011 • pagina 25

dell’opposizione. Mentre lo sponsor del regime siriano, l’Iran vive oggi grandi problemi interni, con lo scontro Ahmadinejad-Khamenei, che è paralizzante riguardo alla politica estera di Teheran». Politica iraniana che non sarà comunque più la stessa dopo la comparsa di Erdogan sulla scena. Il test tunisino è però importante. Il Paese è il meglio scolarizzato e il più laico tra i Paesi arabi: se il modello politico di una democrazia islamica moderata dovesse funzionare, sarebbe una ulteriore conferma dopo il successo turco.

«La democrazia è per tutti – ha dichiarato oggi Gannouchi in conferenza stampa – i nostri cuori sono aperti a tutti, chie-

il 9,68 percento avrà 21 rappresentanti. Intanto in Siria continua il tributo in vite umane. Nuovo venerdì di sangue in Siria dove almeno 20 persone (ma le cifre si aggiornano di ora in ora) sono state uccise dalle forze di sicurezza. Si moltiplicano intanto gli appelli degli attivisti per l’instaurazione di una no-fly zone che protegga civili e disertori. A fare il bilancio delle vittime è stato l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani, specificando che gravi episodi si sono verificati a Hama e Homs, dove le truppe hanno circondato le moschee compiendo arresti prima e dopo la tradizionale preghiera del venerdì. «Nonostante l’assedio, la proliferazione di check point e l’accerchiamento delle moschee», attivisti

Ancora decine di morti ieri nelle strade siriane. Mentre a Sidi Buozid continuano gli scontri per l’esclusione di alcune liste legate al partito del miliardario Hachmi Hamdi, amico di Ben Alì

polazione». Anche se ricordiamo il 90 per cento dei votanti fa riferimento a quelli registrati, che secondo le ultime notizie sarebbero solo il 55 per cento degli aventi diritto. Ma si sa, chi non vota ha torto. La carta d’identità di Ennahdah è quella di un partito islamico moderato, con forti istanze sociali che qualcuno vuole addirittura essere stato d’ispirazione all’Akp del premier turco, Recep Tayyp Erdogan. «È molto probabile

che sia stato così, che sia stato l’Akp a ispirarsi al Movimento della tendenza islamica, il nome precedente di Ennahdah, fondato da Gannouchi. Un intellettuale di ben maggiore spessore di Erdogan». Vincente la formula religiosa e socialista. «Certo, ricordiamo che molti movimenti islamici sono conservatori e riformisti allo stesso tempo. La formula vincente è quella di combinare il peso dei valori religiosi alle

istanze sociali. È ciò che li ha resi così forti». Hanno seppellito il Colonnello nel deserto, ma in Siria Bashar al Assad non ci pensa proprio a mollare la sedia di satrapo orientalee continua a massacrare la sua gente. «Bashar ha molto più consenso di quanto non ne avesse Gheddafi. La base elettorale del regime ancora tiene e da l’impressione ad Assad di potercela fare. Sarà dunque una lunga guerra di logoramento quella

diamo a tutti i nostri fratelli, a prescindere da quale sia il loro orientamento politico, di partecipare alla stesura della costituzione e all’instaurazione di un regime democratico». «Non c’è stata una rivoluzione per distruggere uno Stato, ma per distruggere un regime – ha proseguito – siamo determinati a proteggere lo stato tunisino». «C’è stata una rivoluzione in questo Paese – ha insistito – la gente chiede un cambiamento di politica e di facce». Ghannouchi ha lanciato la candidatura di Hamadi Jebali, detenuto per 16 anni sotto il regime di Ben Ali Ghannouchi ha lanciato la candidatura di Hamadi Jebali, detenuto per 16 anni sotto il regime di Ben Ali. Ricordiamo che dalle urne è uscito anche un buon risultato per due partici laici. Il Congrès pour la République, che ha ottenuto il 13,82 percento dei voti e 30 seggi, e il partito Ettakatol, che con

detiene il potere supremo dello Stato stia arretrando. Queste stime sono preoccupanti perché i cristiani copti, che rappresentano più del 10 per cento della popolazione, fino ad oggi sono stati oggetto di attacchi confessionali. Gli eventi recenti del 9 ottobre, quando 27 dimostranti cristiani sono stati uccisi in maniera selvaggia da proiettili e carri armati, hanno prodotto una nuova icona: il giovane blogger Mina Daniel, che ha partecipato in maniera attiva alla rivoluzione di gennaio ed è stato ucciso da un carro armato proprio il 9 ottobre. Secondo i suoi desideri, i funerali si sono svolti a piazza Tahrir. Ora su Youtube si può vedere una foto della madre del blogger insieme alla madre di Khaled Said: un modo per dimostrare come cristiani e musulmani sono uniti nel loro destino comune in Egitto.

Va detto che, a parte i Fratelli musulmani e i salafiti, moltissimi musulmani stanno dimostrando insieme ai copti: anche loro temono il fondamentalismo, e sentono di poter divenire le pri-

me vittime di un movimento che ritiene un traditore della fede ogni islamico che non sia affiliato con loro. I Fratelli musulmani e i salafiti forniscono con costanza degli annunci moderati, come è accaduto in Libia per opera del Consi-

glio di transizione, per calmare chi teme un’islamizzazione del Paese.Tutti gli osservatori ritengono che il vento dell’islamizzazione stia soffiando dalla Tunisia attraverso la Libia, ed entro la fine di novembre di fermerà in maniera defini-

hanno riferito di un’imponente manifestazione a Kafr Nabl, nella provincia di Idlib, vicino al confine turco. La folla ha chiesto «l’imposizione di una no-fly zone», un appello che è stato ripreso anche dai manifestanti in altre città del Paese. Sempre più dura dunque la repressione delle manifestazioni dell’opposizione in Siria da parte del regime che sente di poter resistere e vede la fine di Gheddafi con terrore. «Ieri le forze di sicurezza e le truppe di Assad hanno disperso con la forza, sparando pallottole vere, varie manifestazioni a Homs e Hama. Otto civili sono stati uccisi ad Hama, altri 20 a Homs e ancora un civile a Qousseir», ha reso noto da Nicosia l’Osservatorio Siriano per i diritti dell’uomo. La repressione della contestazione condotta dal regime del presidente Bashar Al Assad, che ha provocato 3mila morti da metà marzo.

tiva sull’Egitto. I movimenti liberali, che chiedono l’instaurazione di una società civile, mancano di una struttura forte che possa affrontare la marea religiosa. Un punto di accordo fra tutti, in Egitto, sta nel disaccordo generale sulla macabra esibizione del corpo di Gheddafi. Una parte dell’opinione pubblica egiziana deplora la morte del dittatore libico, sfuggito così alla giustizia, ma un’altra parte ritiene che la sua morte sia stata una cosa buona che ha messo un punto alla nera situazione della Libia. Queste persone ritengono tale fine migliore di un processo come quello in corso in Egitto, che potrebbe arrivare a un punto morto. In Egitto, un gruppo di avvocati ha chiesto di revocare il giudice incaricato del processo a Mubarak, ma la decisione è stata rimandata alla fine di dicembre. La situazione generale in Egitto è composta da manifestazioni, turismo stagnante, economia precaria e un sentimento generale di insicurezza. Tutto questo provoca una domanda principale: la primavera araba dell’Egitto sta diventando un inverno rigido?


pagina 26 • 29 ottobre 2011

grandangolo La diplomazia usa sempre tutte le armi che ha a disposizione

Quando la paura costringe i popoli a fare pace

Dal terremoto in Turchia a quello del Kashmir i disastri naturali provocano solidarietà fra le nazioni. Anche fra quelle che, da anni, sono in guerra vera o presunta. Ecco perché India e Pakistan (o Ankara e Tel Aviv) sono tornate al tavolo del dialogo per salvare i sopravvissuti. Un segno di speranza per il futuro dell’uomo di Antonio Picasso l paradosso degli aiuti internazionali mobilitati in appoggio alla Turchia colpita dal terremoto è che, potenzialmente, gli effetti benefici si ripercuoterebbero in maniera molti più visibile sul fronte diplomatico, anziché in favore della popolazione vittima del sisma. All’inizio Ankara aveva rispedito al mittente qualsiasi offerta di soccorso. Si era sentita forte della presenza delle sue Forze armate, già dislocate nella regione di Van ma per altri motivi, e della sua Mezzaluna rossa. Poi, considerati i danni e la riconosciuta inefficienza, ha dovuto accettare la grande quantità di offerte pervenute dai governi stranieri. I partner della Nato si sono mossi per primi. Il nostro governo, in questo senso, si è espresso attraverso il ministro Frattini e ha tenuto a precisare la sua disponibilità nel fornire aiuti concreti.

I

In questi casi, è necessaria un’ampia gamma di materiale. Abbigliamento, tende, elementi prefabbricati. Il centro di smistamento di Brindisi, costantemente collegato con l’Onu, è stato allertato. L’Arabia Saudita ha stanziato 50 milioni di dollari in appoggio dei fratelli nel Corano intrappolati sotto le macerie. Ma è l’aiuto di Israele e dell’Armenia a suscitare la maggiore soddisfazione agli occhi della comunità internazionale. Entrambi i Paesi, in cattivi rapporti con Ankara, hanno deciso di accantonare le rispettive nuove e radicate frizioni per soccorrere una Turchia effetti-

vamente in ginocchio. Non si è più sentito parlare della crisi post-flottiglia della pace, che nel maggio 2010 era partita dall’Anatolia diretta a Gaza – e che venne fermata con la forza dagli israeliani.

Così come il mai concluso capitolo sul genocidio armeno non si è posto di traverso nel dialogo Ankara-Yerevan. Si è trattato di una sorta di sanatoria, momentanea oppure in fase di strutturazione questo bisognerà vedere, delle frizioni per cui il governo turco resta sempre sotto osservazione. Non è una novità che un disastro natu-

L’epicentro del sisma turco è nel cuore del Kurdistan, regione fino a 10 giorni fa nel mirino militare rale porti a conseguenze positive in termini diplomatici. Il terremoto nella città di Bam in Iran, con i suoi trentamila morti, nel dicembre 2003, aveva suscitato la commozione di molti governi stranieri. La fortificazione, a suo tempo pro-

clamata patrimonio dell’umanità dall’Unesco e poi distrutta dal sisma, era conosciuta in tutto il mondo. E in suo soccorso quest’ultimo si mosse, lasciando da parte anche solo per un breve periodo tutte le frizioni intercorse con il regime teocratico di Teheran.

Crisis management all’Università cattolica di Milano. «Formalmente il modus operandi prevede che gli altri Stati si facciano avanti e che poi sia il diretto interessato ad accettare o meno l’offerta». In tal caso, il sì della Turchia è giunto con significativo ritardo.

Ma fu il terremoto in Kashmir – ottobre 2005, ottantamila morti – a fare da apripista per una nuova stagione di dialogo tra India e Pakistan. Entrambi gli esempi dimostrano come il dramma iniziale sia un incipit per il progresso della politica internazionale. Tuttavia, come l’emozione abbia anche le gambe corte. Passata l’emergenza infatti, l’Iran è tornato a essere marchiato come paria, mentre Islamabad e Delhi hanno bloccato i contatti. Resta da dire che, se non altro, in ambo i casi la cooperazione tornò utile per le vittime. Le popolazioni colpite beneficiarono, sul breve periodo, di una momentanea distensione. La rielaborazione del trauma sismico, quindi, apparve meno violenta.

È una mancanza ammessa dallo stesso premier turco. Motivata da interessi geopolitici ben precisi. Van è nel cuore del Kurdistan, quindi l’area più arretrata del Paese. Solo dieci giorni fa era interessata da un’offensiva militare da parte delle forze armate turche, sfociata poi anche in Iraq e volta a pressare sulle attività sovversive del Pkk, il partito comunista kurdo, indipendentista e considerato da Ankara come un gruppo un gruppo terroristico. In realtà, quando la Turchia si muove contro il Pkk non lo fa unicamente a discapito di questo, ma per tenere a bada un’intera regione.

Per quanto riguarda la Turchia, a tutt’oggi non si può ancora prevedere se e come Ankara porterà avanti i rapporti con Armenia e Israele. Quel che è certo che i benefici per la popolazione – che dovrebbero essere tutt’altro che collaterali – risultano nulli. «Di fronte alle offerte straniere, il governo Erdogan ha reagito in maniera sorprendentemente lenta», dice Marco Lombardi, docente di

«L’offensiva militare è apparsa prioritaria per i turchi», commenta ancora Lombardi. «Del resto, le emergenze naturali sono sempre soggette agli impedimenti dettati dalla sicurezza nazionale. La Birmania offre un esempio ben più evidente». Il riferimento è legato alla chiusura ermetica da parte della Giunta del Myanmar in occasione dello tsunami nel 2005. È l’orgoglio nutrito dalle istituzioni governative che impedisce ai governi stranieri di arrivare nell’area


29 ottobre 2011 • pagina 27

L’unica nota positiva, un ragazzo di 13 anni estratto vivo dalle macerie

Erdogan festeggia la cacciata del sultano contando i morti di Van di Giovanni Radini un triste 29 ottobre quello che vive oggi la Turchia. Nel giorno della proclamazione della repubblica, 88 anni fa esatti Atatürk dichiarò deposto il sultano, il Paese è ancora impegnato nel conteggio delle vittime del terremoto che ha devastato le sue regioni più orientali. Ercis è una città spettrale. Da ormai una settimana, la vita ha abbandonato questo centro urbano di 100mila abitanti, nel cuore del Kurdistan. Ma è tutta la regione di Van a essere piegata. Il bilancio si avvicina ai 600 morti. Le previsioni avevano parlato di un migliaio di vittime. Non siamo lontani da questi calcoli. Si aggiungono gli oltre 2.500 feriti e un numero imprecisato di dispersi. Nel frattempo, la pioggia e la neve rallentano le operazioni di recupero e di intervento a sostegno della popolazione. Si tratta di circa 50mila persone che hanno perduto la casa e che devono essere soccorse. Sono poi 2.000 gli edifici completamente distrutti e 3.700 quelli dichiarati inagibili.

È

colpita e tastare con mano le negligenze degli operatori locali. «La coesione internazionale c’è stata anche in questo caso. Onu e Banca mondiale hanno saputo mobilitarsi nei tempi giusti. L’errore sta nella lentezza della Turchia».

D’altra parte, se a Van giungessero i necessari aiuti – corredati di uomini e osservatori – Erdogan si troverebbe nell’imbarazzante posizione di mostrare al mondo un Kurdistan arretrato e parzialmente militarizzato. «In tal senso l’ini-

A fare da apripista furono Islamabad e Delhi, che nel 2005 cooperarono per salvare le popolazioni del confine comune ziativa dei partner stranieri è impossibile a priori». Lombardi sostiene che la cooperazione internazionale è già sufficientemente attiva. Sono i singoli governi a fare da collo di bottiglia. Di fronte al divieto di ingresso, aiuti e soccorsi non possono fare nulla.

Lo squilibrio quindi tra benefici (paradossalmente) diplomatici, che Ankara potrebbe ricevere nel confrontarsi con armeni e israeliani, e invece il tornaconto vuoto per le vittime a Van. È anche vero che alcuni esponenti dell’opinione pubblica anatolica hanno dimostrato uno sprezzo razzista nei confronti del Kurdistan ferito. «Siamo loro vicini anche se kurdi», ha detto la giornalista Duygu Canbas, durante un programma di approfondimento del canale Haber Turk. Una dichiarazione che per molti è apparsa molto più che fuori luogo e che

meriterebbe le dimissioni della Canbas. Dopo innumerevoli polemiche la reporter ha rettificato: «Le mie parole sono state ampiamente fraintese. Chiedo che non vengano strumentalizzate oltre». Decisamente oltre il limite invece è andata Muge Anli, conduttrice dell’emittente Atv: «Prima lanciano pietre e uccidono i soldati nelle montagne, poi però quanto hanno bisogno chiamano l’esercito e la polizia ad aiutarli».

E del resto, non è il caso di arrivare a conclusioni affrettate. «Non mescoliamo questioni umanitarie a questioni politiche», ha detto alla France Press ieri il portavoce del ministero degli esteri turco, Selcuk Unal, sottolineando che le aspettative fondamentali di Ankara nei confronti di Israele non sono cambiate. La Turchia aspetta ancora le scuse per l’attacco della marina israeliana nel 2010 alla nave turca Mavi Marmara, dove morirono nove persone, e la fine del blocco di Gaza. A settembre Ankara ha espulso l’ambasciatore dello Stato ebraico, come contromisura per le mancate scuse. Di recente ha dato asilo a una decina di prigionieri palestinesi, tra cui alcuni membri di Hamas, oggetto di scambio con la liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit. Nonostante il gelo generato da questa catena di provocazioni, Israele ha inviato sette prefabbricati e tende nelle aree colpite dal terremoto, sottolineando di essere disposto a inviare ulteriori rinforzi se richiesti nei prossimi giorni. Ankara ed Erevan, invece, avevano firmato un protocollo per la normalizzazione dei rapporti nell’ottobre del 2009, che avrebbe dovuto portare alla riapertura del confine entro breve. Ma l’accordo, salutato con entusiasmo dalla comunità internazionale, non è mai stato ratificato da nessuno dei due parlamenti, rimanendo sostanzialmente lettera morta. Sta di fatto che l’Armenia ha dato il suo contributo, inviando 40 tonnellate di aiuti umanitari.

Dalle informazioni recuperate, emerge un’esasperazione crescente da parte dei sopravvissuti. C’è chi lamenta la lentezza degli interventi e la mancanza di coordinazione nell’aiutare una regione vittima di un disastro naturale e ora soggetta alla rigida dell’inverno già alle porte. A questo proposito, il premier Erdogan ha ammesso la responsabilità degli errori commessi. È un riconoscimento di colpa non di poco conto, vista la durezza con cui le istituzioni di Ankara sono solite reagire alle critiche ricevute. Un’ulteriore manifestazione di buona volontà, a discapito di un inutile orgoglio, è dato dal cambio di rotta per quanto riguarda l’accettazione di aiuti internazionali. Sulle prime Ankara aveva rifiutato qualsiasi mano tesa. Ora, vuoi per la gravità dei danni, vuoi per la lungimiranza di Erdogan, l’atteggiamento si è fatto più disponibile. Van è un’area ad alto rischio sismico.Tutta la Penisola anatolica, comunque, risente delle oscillazioni dovute agli spostamento delle placche euroasiatica, arabica e africana. La popolazione turca convive da sempre con i grandi terremoti. Nel solo XX secolo,

il Paese è stato devastato almeno una decina di volte da fenomeni di grande rilievo, che hanno provocato oltre tremila morti ciascuno. Nel 1939, la terra tremò a Erzinkan: 160mila morti. Fu l’evento più distruttivo di tutta la storia del Paese.

Secondo solo ai due terremoti di Antiochia che, rispettivamente nel II e del VI secolo, fecero 250mila morti ciascuno. Nel 1999, fu il turno di Izmit, con 25mila vittime. Ma la lista potrebbe essere intervallata da molti altri step. Il caso di Izmit è esemplificativo. La città si affaccia sul Mar di Marmara. Siamo ben lontani, quindi, dalle zone colpite in questi giorni. Andando verso i confini con Georgia e Armenia, i rischi aumentano in maniera significativa. Questo non giustifica il disastro. È solito discorso per cui, sapendo le cose con adeguato anticipo, si potrebbero limitare i danni. Nel caso di Van, la povertà locale e il disinteresse dello Stato hanno impedito l’adeguato sviluppo di un piano antisismico. Anche di questa polemica pullulano i media locali. Vent’anni fa uno studio geologico aveva calcolato che per la Turchia ci sarebbe il 12% di possibilità di vivere una catastrofe sismica entro il 2012. Si era trattato di un campanello d’allarme dall’eco ridotta e forse parzialmente inascoltata. D’altra parte era pensabile un qualsiasi rimedio in termini collettivi? Nel senso: si può imporre lo spostamento coatto di centinaia di migliaia di persone? È la domanda che i giornali anatolici si sono posti durante tutta questa settimana di lutto. E che oggi ancora incombe sulle prime pagine dei giornali. Nel ricordare l’anniversario della nascita della repubblica, la sola nota positiva si ha con il recupero di Serhat Tokay. Il ragazzo di appena 13 anni è stato estratto vivo dalle macerie nella notte tra giovedì e venerdì, in pratica dopo oltre un centinaio di ore dal crollo della abitazione che lo ha sepolto. Per il Paese è un miracolo nel quale bisogna credere e che va preso come punto di partenza per un’immediata ripresa.


mondo

pagina 28 • 29 ottobre 2011

Il progetto non va come il Cremlino sperava: la maggior parte dei pieds-noir preferisce rimanere dove si trova attualmente

Torna a casa, russo! Medvedev lancia un piano di rientro per “riconquistare” gli orfani dell’Urss di Enrico Singer i chiama Sootecestviennik, Compatrioti, ed è il programma che la coppia Putin-Medvedev ha lanciato per far tornare a casa, se lo vogliono, i quasi trenta milioni di russi che vivono ancora nei Paesi dell’ex impero sovietico. Erano dei privilegiati – tecnici, manager, consiglieri militari, dirigenti – che rappresentavano anche fisicamente il potere di Mosca in ogni angolo dell’Urss e sono diventati in molti casi degli emarginati. Hanno perso quasi tutti i loro posti di coman-

S

do, mandano i figli in scuole dove i libri di storia adesso raccontano tutte le malefatte della Russia, tanto comunista che zarista, non possono nemmeno più usare negli atti ufficiali la loro lingua che, una volta, era materia obbligatoria di studio in Estonia come in Uzbekistan, in Lituania come in Ucraina, in Lettonia come in Azerbaigian, in Kazakhstan come in Georgia. Sono una specie di riedizione contemporanea dei pieds-noir trapiantati dal Mediterraneo nel Caucaso, nel Baltico o in Asia. In una fase di nazionalismo rampante, alimentato dalla voglia di tornare al più presto una superpotenza, il Cremlino non poteva dimenticarli. La legge che ha istituito, nel 2007, il piano per il ritorno prevede il rimborso delle spese di viaggio, compreso un container da cinque tonnellate per il trasferimento degli effetti personali, più un’indennità di rientro, la concessione di un appartamento, il rilascio immediato dello status di residente provvisorio e la promessa di ottenere di nuovo la cittadinanza entro sei mesi. Lodevole iniziativa decisa anche per contrastare la crisi demografica che ha colpito molte regioni della sterminata Federazione russa. Ma l’operazione-Sootecestviennik non è andata secondo le aspettative, almeno finora. Anzi, si è rivelata una specie di boomerang perché ha dimostrato che la grande maggioranza dei piedsnoir russi preferisce restare dov’è, nonostante i problemi, per un intreccio di ragioni che il Servizio federale dell’emigrazione ha cominciato a indagare. C’è chi – come i cittadini delle Repubbliche baltiche entrate nella Ue – ha scoperto i vantaggi di essere improvvisamente diventato europeo e non vuole rinunciarci. E ci sono quelli – come i russi che si tro-

vano in Ucraina, per esempio – che confrontano il costo della vita e si rendono subito conto che tornare in Russia non sarebbe un buon affare. Non solo. Nelle pieghe della legge sul ritorno ci sono anche dei trabocchetti. Il regalo della casa, che è senz’altro il più attraente, è riservato a chi accetta di trasferirsi in una delle dodici regioni della Russia (la Federazione ne comprende ben 89) che sono in crisi economica, in deficit di popolazione e, in particolare, hanno bisogno di figure professionali specializzate. Chi vuole andare a Mosca o a San Pietroburgo, l’appartamento se lo deve trovare e pagare a caro prezzo da solo. La vicenda della famiglia Jarinov, riferita dal giornale Novjie Izvestia, è esemplare. Partiti dal Tagikistan per sfuggire l’eco della guerra nel vicino Afghanistan, gli Jarinov hanno venduto la loro casa per un tozzo di pane e si sono ritrovati, in Russia, in un miniappartamento nella regione meridionale del Volga alla periferia di Ulianovsk, la città natale di Lenin, poco sopra Togliattigrad.

Natalia, che è madre di tre bambini, intervistata dal giornale alla vigilia di uno sciopero della fame, ha detto che se le autorità rifiutano di assegnargli una vera casa, devono dargli “almeno i soldi per farci lasciare la Russia”. E non ci sono soltanto problemi economici. Soprattutto in provincia, i russi che tornano dall’estero sono malvisti. In alcuni casi per invidia perché ricevono comunque degli aiuti che gli altri cittadini non si sognano nemmeno. In altri casi per razzismo. Igor Issaiev è nato in Georgia: la sua famiglia vi si trasferì dalla Siberia attirata dal clima caldo e da un lavoro meglio pagato. Quando ha voluto fare ritorno, si è trovato a fare i conti con un ambiente apertamente ostile: “Non appena dicevo che ero nato in Georgia i potenziali datori di lavoro mi sbattevano la porta in faccia”. Ma anche i conflitti con la popolazione locale non sono che un aspetto dei problemi. La cosa più difficile è ottenere la cittadinanza russa.Ivan Noskov è nato in Uzbekistan dove la sua famiglia era arrivata alla ri-

La legge che ha istituito il ritorno prevede il rimborso delle spese di viaggio più un’indennità di rientro, la concessione di un appartamento e il rilascio immediato dello status di residente cerca di un lavoro ben pagato e di un’abitazione a buon mercato. Poi i suoi genitori hanno divorziato e suo padre è tornato nel suo villaggio natale vicino a Voronej. Ivan è partito inseguendo le tracce del padre e ha aspettato quattro anni la concessione dell’agognata cittadinanza fino a che non si è piegato a un metodo vecchio, ma sempre valido: una bustarella da cinquemila dollari.

Se è vero che in Russia tutto quello che non si può fare per soldi, si può fare per molti soldi, è altrettanto vero che questo sistema non è alla portata di tutti. Secondo Lidja Grafova, presidente del Forum delle organizzazioni dei migranti, sono più di un milione le persone che attendono ancora di riavere la cittadinanza. Gli unici che hanno potuto utilizzare una corsia preferenziale sono stati i militari e i funzionari pubblici. Ma loro sono stati i primi a lasciare le province dell’ex impero comunista subito dopo il crollo, all’inizio degli Anni Novanta. La legge

voluta da Putin e Medvedev, invece, si rivolge a tutti quelli che sono rimasti nei loro nuovi Paesi ormai indipendenti e che, adesso, vogliono tornare nella patria degli avi. L’elenco delle minoranze russe nelle ex Repubbliche dell’Urss è lungo, ma è indispensabile tracciarlo per capire quello che sta succedendo e perché. Le presenze più forti ci sono nei tre Paesi baltici. In Lettonia il 34 per cento dei 2,2 milioni di abitanti è russo. In Estonia la quota è del 26 per cento su una popolazione totale di 1,3 milioni. In Lituania – il primo Paese dove scoppiò la rivolta contro Mosca nel 1990 – il dato scende al 5 per cento. Ma ci sono più di nove milioni di russi soltanto in Ucraina (esattamente il 17 per cento di una popolazione di 45,9 milioni di abitanti). E la presenza russa si aggira tra un minimo del 2 per cento – in Azerbaigian, Turkmenistan e in Georgia – e il 5 per cento in Bielorussia e Uzbekistan, con punte tra l’8 e il 9 per cento in Moldavia e Kirghizistan e un record del 23 per cento nel Kazakhstan


29 ottobre 2011 • pagina 29

Kazakhstan, all’altro ci sono Estonia, Lettonia e Lituania, ormai entrate nella Ue, dove i cittadini di origine russa sono tanti e vivono in una realtà a due facce. Da una parte ci sono, oggettivamente, dei problemi, dall’altra c’è il vantaggio di sentirsi – e di essere anche giuridicamente – in Occidente.

Il problema maggiore per i russi del Baltico è quello dei viaggi dei loro parenti che vivono dall’altra parte della frontiera. Da anni sono in corso estenuanti trattative tra Mosca e la Ue per facilitare la concessioni di visti plurimi d’ingresso, almeno in Estonia, Lettonia e Lituania, ai familiari dei russi che vivono stabilmente in quei Paesi e che ne sono cittadini. Poi c’è un problema che si può definire di identità. E che comincia nelle scuole. Se un figlio di italiani che vivono in Francia si trova a studiare la storia su libri di testo che definiscono i romani degli invasori e dipingono come il più grande eroe dell’antichità Vercingetorige che guidò la rivolta delle tribù dei Galli contro Cesare Augusto, nelle Repubbliche baltiche i figli dei russi imparano che i cinquant’anni dal 1940 al 1991 sono quelli “dell’occupazione russa” e che perfino i legionari lettoni delle SS tedesche erano dei “combattenti per la libertà del loro Paese”. Anche uno storico lettone come Oleg Pouliak, ammette che la revisione della storia operata dopo l’indipendenza è “frammentaria”e che l’accento non è tanto messo sugli Accordi di Monaco,

guito una politica di espansione demografica attraverso la penetrazione di coloni russi”. Anche in questo caso è difficile contestare i fatti che sono riportati nei manuali. L’obiezione che avanzano i (pochi) russi che vivono ancora in Georgia è che questi libri analizzano il passato senza la minima traccia di un invito a superare le divisioni e a ricercare una convivenza almeno pacifica con gli ex dominatori ormai diventati minoranza. Anche in Moldavia – ufficialmente Repubblica moldova – la storia dei tempi dell’Urss è stata riscritta e definisce i russi come degli occupanti.

Più complessa la situazione in Ucraina, dove i russi sono una fetta molto importante, ed anche influente, della popolazione tanto che oggi il presidente è il filo-russo Viktor Yanukovic che ha spodestato l’altro Viktor: Yushenko, il leader della Rivoluzione arancione. Qui i libri di storia cambiano di continuo e quelli che, per qualche anno, hanno accusato i russi di avere “costretto alla fame il Paese all’inizio degli Anni Trenta per soffocare le spinte all’indipendenza” non sono più nelle scuole. L’Ucraina è uno di quei Paesi dove il flusso dei rientri in Russia si è fermato. Non soltanto per il cambio dei libri di testo delle scuole, ovviamente. Ma perché il costo della vita è più basso e le occasioni di lavoro sono maggiori. In fondo il piano Sootecestviennik è quasi l’altra faccia del Paese di Putin e Medvedev. Una specie di metro con

Esistono alcune zone d’ombra. I benefits sono riservati a chi accetta di trasferirsi in una delle regioni che sono in crisi economica, in deficit di popolazione e dove servono professionisti

del padre-padrone Nursultan Nazarbayev che, in totale, ha 16 milioni di abitanti. In Armenia, infine, la presenza russa è quasi irrilevante (il 98 per cento della popolazione è armena, il resto si divide tra diverse minoranze). Questi numeri non costituiscono soltanto delle statistiche. Dietro ogni cifra c’è una situazione particolare. Le Repubbliche asiatiche – Kazakhstan in testa – seguono una

politica di grande apertura nei confronti dei russi. Anzi, cercano di attrarli con tutti i mezzi perché servono, oggi come ieri, per lo sviluppo dell’industria in particolare. In molti casi, poi, i dirigenti politici di questi Paesi non sono cambiati dai tempi dell’Urss: hanno soltanto cambiato bandiera sposando il nazionalismo. Nursultan Nazarbayev è il massimo esempio di questa forma di continuismo:

era segretario del pc kazako e presidente dell’allora Repubblica socialista sovietica del Kazakhstan e adesso è ancora al comando. Ha mantenuto anche degli istruttori russi nel suo esercito e nelle sue forze di sicurezza. Lo stesso non si può dire di tutte le 14 ex Repubbliche socialiste sovietiche che, nel 1991, sono diventate indipendenti al momento della disgregazione dell’Urss. Se a un estremo c’è il

che spartirono il Baltico, quanto sul Patto Molotov-Ribbentrop firmato nel 1939. In Estonia, nel più usato manuale di storia per le scuole elementari, è scritto che “il 17 giugno del 1940 centomila soldati dell’Armata Rossa entrarono nel Paese. La gente li guardava sfilare con le lacrime agli occhi. Oggi non c’è più alcun dubbio: l’Estonia fu occupata da un esercito straniero e da allora cominciò un periodo di terrore politico”. Il che, naturalmente, è vero. Ma per i ragazzi di origine russa non è tanto facile doverlo studiare e ripetere in classe. La stessa situazione è vissuta dai figli di russi che vivono in altre regioni del vecchio impero comunista. Caso limite è la Georgia, dove tre anni fa, per la crisi in Ossezia del Sud, c’è stata una vera e propria guerra con i russi. In questa ex Repubblica sovietica, sui nuovi libri di storia è scritto che la Russia ha sempre condotto, dai tempi degli zar a quelli del regime comunista, una politica aggressiva nei confronti dei suoi vicini, ha perseguitato la chiesa ortodossa autocefala georgiana e ha “se-

il quale si può misurare il grado di attrazione che esercita sui circa trenta milioni di pieds-noir in versione russa. E, quindi, anche il successo degli sforzi della Russia per tornare grande e potente. Secondo gli esperti del Servizio federale per l’immigrazione, comunque, a pesare sul bilancio dell’operazione sarebbero soprattutto i limiti del programma Compatrioti. Anche Evghenij Gontmakher, del Centro di studi per l’innovazione sociale, è convinto che il progetto andrebbe migliorato e propone l’esempio di Israele che consegna i documenti provvisori già alla discesa dall’aereo e in pochi mesi la cittadinanza. Paragonare Sootecestviennik all’Aliyah, il diritto di ogni ebreo a vivere in Israele (aliyah vuol dire, letteralmente, salita ed evoca la salita al tempio di Gerusalemme dei fedeli), è quasi paradossale in un Paese come la Russia da dove quasi un milione di ebrei è andato via per sfuggire alle discriminazioni e oggi rappresenta un sesto della popolazione totale d’Israele. Ma, forse, è anche un segno dei tempi.


pagina 30 • 29 ottobre 2011

il personaggio della settimana Romagnolo, classe 1987, Marco Simoncelli aveva iniziato a correre sulle minimoto a 7 anni

Il James Dean delle moto

Sorridente ma schivo. Leale con la faccia da schiaffi. E soprattutto, morto giovanissimo per un fatale incidente con la sua Honda. Ecco perché “Supersic” è già entrato nella Storia di Maurizio Stefanini a bambino si divertiva a scendere in bici dalle colline, senza mani. Oppure, faceva slalom tra i bagnanti estivi nelle vie centrali di Riccione con la sorellina di due anni: lui sui roller, lei dentro la carrozzina. «A me correre piaceva da matti». Nato a Cattolica il 20 gennaio 1987, a 7 anni Marco Simoncelli aveva iniziato a correre sulle minimoto a Coriano, dove aveva vissuto fin da piccolo. Un paese con strani presagi. Da una parte lo stabilimento Valleverde, motore dell’economia della zona, e anche in qualche modo annuncio di una vocazione per il movimento. Dall’altro, i 1940 caduti del cimitero di guerra inglese all’ingresso del paese: ricordo della durissima battaglia che qui si combatté nel settembre del 1944 per tentare di sfondare la Linea Gotica, ma anche tragico ammonimento sulla possibile tragicità delle vicende terrene.

D

In queste pagine, immagini di Marco Simoncelli durante la sua grande carriera da pilota. Anche insieme con Valentino Rossi, con il papà Paolo e la fidanzata Kate

A 12 anni Marco era campione italiano. A 13 arrivava secondo in quello europeo. A 14 aveva preso parte al Trofeo Honda Nr, salendo in due occasioni sul podio, e al campionato italiano 125 Gp. A 15 era stato campione europeo classe 125cc e aveva debuttato nel Motomondiale classe 125. A 19 era passato alla classe 250. A 21 era stato campione del Mondo, malgrado la stagione fosse iniziata con due disastrose cadute. E già a 22 anni era uscita la sua biografia, a cura del suo amico Paolo Beltramo, che appunto inizia con le parole citate. «Tutto è cominciato un giorno che abbiamo fatto una gita a Offida, vicino ad Ascoli Piceno, il paese d’origine dei miei nonni materni, e al ritorno ci siamo fermati alla pista di Cattolica, dove abbiamo deciso di provare. Ma io ero già gasatissimo con le moto, mi piacevano da matti, facevo finta che la bici avesse il motore. Insomma, non è stato il babbo a forzarmi, lui mi ha semplicemente portato, aiutato». Un racconto che parte come in corsa, per una vita condot-

ta di corsa, e purtroppo conclusa anche di corsa. Sceso in quel suo 22esimo anno di vita dal primo al terzo posto, per via di un infortunio che gli aveva bloccato l’inizio stagione, e poi di una scivolata a Valencia che gli aveva rovinato la rimonta finale: consegnando di fatto il titolo mondiale a Hiroshi Aoyama, mentre la contemporanea vittoria del Gran Premio da parte di Barberá permette anche al pilota spagnolo di sopravanzarlo in classifica. In quel 2009 aveva poi fatto pure il Superbike: 25esimo. A 23 anni era allora passato alla classe MotoGP con la RC212V del team

Se n’è andato durante il Gran Premio della Malesia. In quella stessa Sepang dove nel 2008 si era aggiudicato il titolo mondiale San Carlo Honda Gresini: ottavo, con 125 punti. Adesso, stava a 130 punti. Quarto a San Marino, in Aragona e in Giappone, secondo in Australia, era in piena progressione positiva quando il 23 ottobre è morto al Gran Premio della Malesia. In quella stessa Sepang dove nel 2008 si era aggiudicato il suo titolo mondiale, all’età di 25 anni non compiuti.

Era considerato un maestro nel gestire l’aderenza della ruota, anche sul bagnato. Ma nel corso del secondo giro la sua moto è proprio l’aderenza alla ruota posteriore che perde. Cade, e taglia trasversalmente la pista. I piloti che lo se-

guono da brevissima distanza non possono in alcun modo evitarlo: le moto passano sul corpo, con forza tale da fargli saltare via quel casco sempre compresso dai riccioli. Sono traumi a testa, collo e torace, irreparabili. «A volte ci dimentichiamo quanto sia pericoloso questo sport», ha commentato Dani Pedrosa. Kate, la fidanzata, ha ricordato quel che diceva Marco «se qualcuno si faceva male: oh, son le corse, se non vuoi farti niente stai a casa». Sia la Gilera con cui era diventato campione del mondo di 250, sia la Honda di MotoGP sono state messe a guardia del feretro, durante il funerale. Entrambe con su cupolino il numero 58, il suo preferito. Dalla 250 non aveva voluto più separarsi, e l’aveva sistemata nella sua camera: accanto al letto dove dormiva quando non era in giro per il mondo col suo motorhome. E della Honda il padre Paolo dice che «Marco è morto per tenerla in pista». «È morto perché era un guerriero». «Il babbo e la mamma hanno due caratteri che definirei opposti», raccontava la sua biografia. «Paolo è un tipo che si può dire focoso, uno che si scalda in fretta, che ogni tanto rimane accelerato. Diciamo che ha il minimo un po’alto. Rossella, invece, è più pacata, riflessiva. Insomma, anche se pensano la stessa cosa hanno spesso due modi opposti di dirla. Credo che così si bilancino perfettamente: uno accelera, l’altra tira il freno, quindi alla fine vanno alla giusta velocità. A vederli da fuori sembra sia il babbo quello che decide tutto, che conta di più, invece dev’essere sempre d’accordo anche mia mamma, altrimenti non se ne fa niente». Se la Malesia a un italiano non può non evocare la ruggente epopea salgariana, anche i ricci romagnoli e l’accento romagnolo di Simoncelli evocano dna di impeto e coraggio.“Supersic”lo chiamavano, da quando nel 2002 aveva debuttato nella classe 125 del team Aprilia. Per motivi televisivi nel Motomondiale tutti i piloti vengono chiamati con un diminutivo formato in genere con le prime tre lettere del cognome: salvo che in quell’inizio carriera aveva corso con Julian Simon, che si era preso lui il più ovvio Sim.


Campione italiano già a 12 anni Nato a Cattolica il 20 gennaio 1987, a 7 anni Marco Simoncelli aveva iniziato a correre sulle minimoto a Coriano, dove aveva vissuto fin da piccolo. A 12 anni era campione italiano. A 13 arrivava secondo in quello europeo. A 14 aveva preso parte al Trofeo Honda Nr, salendo in due occasioni sul podio, e al campionato italiano 125 Gp. A 15 era stato campione europeo classe 125cc e aveva debuttato nel Motomondiale classe 125. A 19 era passato alla 250. A 21 era stato campione del Mondo, malgrado la stagione fosse iniziata con due disastrose cadute. E già a 22 anni era uscita la sua biografia, a cura del suo amico Paolo Beltramo. Nel 2009 aveva fatto pure il Superbike: 25esimo. A 23 anni era passato alla classe MotoGP con la RC212V del team San Carlo Honda Gresini: ottavo, 125 punti. Ora, stava a 130. Quarto a San Marino, in Aragona e in Giappone, secondo in Australia, era in piena progressione quando il 23 ottobre è morto al Gran Premio della Malesia.

Una scelta dunque di ripiego, cui Simoncelli aveva pertò aggiunto un supplemento veramente di Super. E con la sua moto correva come un fulmine in pista, sempre con il gas al massimo, quasi a bucare il tragitto.

Ma ancora di più bucava gli schermi, con la amicizia che mostrava e la simpatia che suscitava. Per questo, le pubblicità e gli intervistatori se lo contendevano. Il sangue romagnolo di Edmondo De Amicis, le epopee garibaldine e mazziniane, il Francesco Baracca da Lugo di Romagna sventurato eroe della caccia italiana nella Grande Guerra. Ma roma-

della Classe 250 del Gran Premio motociclistico delle Nazioni. Romagnolo era il cesenate Dario Ambrosini: anche lui morto in 250, a 35 anni, il 14 luglio 1951, durante una prova del Gran Premio di Francia a Albi. Romagnolo, di Lugo, era Sante Geminiani: morto a 32 anni il 15 agosto 1951 durante una prova per il Gran Premio dell’Ulster a Clady, per uno scontro in cui perì anche il comasco 36enne Gianni Leoni. «Diobò che bello», era appunto il tipico intercalare romagnolo di Simoncelli, da cui la sua biografia aveva avuto il titolo. È una lista impressionante, quella dei romagnoli caduti inforcando una due ruote. D’altron-

vanti alla Cascata delle Marmore durante un allenamento. Tenni a Treviso, Liberati, aTerni sono stati tra i rari personaggi non legati al mondo del pallone ad avere dedicato uno stadio di calcio. Ma a sua volta Simoncelli ha avuto dedicate un minuto di silenzio in tutti gli stadi italiani. Alla Cava di Pesaro, Marche amministrative e Romagna etnica, piloti professionisti come Valentino Rossi o Marco Simoncelli possono sfidarsi per tutto l’anno a guidare in condizioni estreme, per poi finire a cena tutti assieme. A salame, piadine e sangiovese. «La piada è il mio portafortuna, non può mancare mai: la compro precotta e me la cucino

stra casa, ho provato a dirgli che mi aveva detto che non ci saremmo mai lasciati, e invece si è sbagliato. Ci ho provato a dirglielo, e ho pensato che magari mi succede come nel film Ghost. L’avete visto il film? Penso che magari quando sarai pronto fai così», ha raccontato la fidanzata Kate. «Tutti dicono che sono giovane ma non sono fortunata: ho ancora settant’anni davanti prima di raggiungerlo, è lunga». «Ho deciso che ti ricorderò con un sorriso, con quel sorriso che avevi sempre», è stata la lunga dedica di Valentino Rossi. «Ti ricorderò con quell’esclamazione che ho avuto oggi quando ti ho visto prima di partire con

Valentino Rossi: «Eri un fratello. Ti ricorderò come “quel bastardo di Sic” che stava diventando un mostro» gnolo e riccioluto era anche il riminese Renzo Pasolini: il campione il cui dualismo con Giacomo Agostini poteva forse evocare quello che ci sarebbe stato anni dopo tra Valentino Rossi, che anche lui come pesarese è romagnolo di cultura anche se non di confine regionale, Max Biaggi. Morto a 35 anni al Gran Premio di Monza delle 250, il 20 maggio 1973, per una caduta forse provocata da olio in pista che travolse altri otto piloti e uccise con lui il finlandese Jarno Saarinen. Romagnolo era il forlivese Otello Buscherini: morto a 27 anni il 16 maggio 1976 in un incidente al Circuito del Mugello durante l’effettuazione della gara

de anche il ciclista Marco Pantani era di Cesena: quasi a confermare una vocazione elettiva a risplendere fino a bruciarsi in fretta, anche se di vittime del motociclismo in Italia ci sono anche non romagnoli. A parte Leoni, erano lombardi Omobono Tenni “Il diavolo nero”e Roberto Colombo. L’uno morto 43enne il 30 giugno 1948 al Gran Premio di Svizzera, alla stessa curva cui due giorni dopo sarebbe morto in auto Achille Varzi; l’altro morto 30enne il 6 luglio 1957 alle prove per il Gran Premio del Belgio. Mentre era ternano Libero Liberati: morto a 36 anni il 5 marzo 1962, andandosi a schiantare su una parete di roccia da-

nel camper», raccontava. «Ci ho voglia di scendere in pista», aveva detto nell’ultima intervista prima della gara, sdraiato sul letto dell’hotel. «Perché dopo la gara in Australia ho voglia di ritornare sulla moto, e in Malesia sono andato molto forte quest’anno. Penso che si possa fare molto bene».

«Proveremo a salire sempre sul podio, magari quello centrale, che è più carino, più alto, e risulta anche meglio dalla televisione, magari». E poi il suo abituale «Ciao a tutti!». «Insegna agli angeli come si impenna!», gli hanno scritto al funerale. «Oggi sono andata nella no-

quel coso giallo in testa e gli occhiali da sole, ho detto ”m*****a sic, fortuna che sei simpatico, perché sei proprio brutto. Ti ricorderò come quello che a Monza, quando t’ho visto sceso dalla macchina ha tolto il casco... e incazzato come una iena se n’è andato a piedi dopo aver perso. Ti ricorderò come “quel bastardo di Sic” che stava diventando un mostro. Ti ricorderò come l’amico pazzo di Vale, quello del primo mondiale 125 cc, quello che a inizio stagione lo volevano mettere nei casini perché “era violento”. Ti ricorderò come il campione che sei sempre stato. Sei un grande e ti porterò per sempre nel mio cuore».


ULTIMAPAGINA

Dopo lunghe trattative, la casa automobilistica svedese è stata ceduta a Pang Da e Youngman per 100 milioni di euro

Saab, una storia made in di Martha Nunziata a casa automobilistica Saab, acronimo di Svenska Aeroplan AktieBolaget (aeroplani svedesi società per azioni), una delle punte di diamante dell’economia svedese, è stata ceduta alla Cina per 100 milioni di euro. Uno dei colossi dell’auto non solo svedese, ma europeo, simbolo di eleganza e di raffinatezza degli interni combinata con la perfezione della meccanica dei motori, è passato ieri nelle mani cinesi.

L

Dopo le lunghe trattative e le difficoltà economiche dell’azienda svedese, che durano ormai da quasi un decennio, la Swedish Automobile, proprietaria del marchio, ha annunciato ufficialmente di aver firmato un protocollo d’intesa per la vendita del 100 per cento delle azioni alla Pang Da e Youngman, per la cessione di Saab Automobile AB (Saab) e Saab Great Britain (Saab GB). «L’accordo finale tra le parti porterà ad un contratto definitivo tra Swan, Pang Da e Youngman, che prevederà alcune condizioni inclusa l’approvazione da parte delle autorità preposte, degli azionisti di Swan e di

La società ha accettato la transazione a fronte dell’impegno da parte dei nuovi acquirenti di fornire finanziamenti a lungo termine che garantiscano lo sviluppo futuro alcune altre parti. Swan ha deciso di accettare la transazione a fronte dell’impegno di Pang Da e Youngman di fornire finanziamenti a lungo termine che garantiscano lo sviluppo futuro di Saab», si legge in una nota della società. «Guy Lofalk, amministratore in pectore di Saab nominato dalla Corte Distrettuale, ha ritirato la sua richiesta di fermare la procedura di riorganizzazione. Il protocollo d’intesa è valido fino al 15 novembre 2011, a condizione che Saab continui la riorganizzazione», conclude la nota della società Saab. Da settembre, infatti, i libri contabili della Saab erano finiti al tribunale fallimentare di Stoccolma e la società si trovava in amministrazione controllata. La produzione era ferma ormai da giugno e 3.700 dipendenti rischiavano il lavoro. La Saab è il secondo grande marchio automobilistico euro-

CHINA peo a diventare di proprietà cinese, dopo la Volvo, società quest’ultima passata prima agli Stati Uniti d’America e poi alla Cina, da Ford alla società cinese Zhejiang Geely Holding Group, per 1,8 miliardi di dollari. Queste società leader nel settore sono state svendute e si sono dovute arrendere all’avanzata del Sol levante, perché da anni sono in una situazione di banca rotta non più sostenibile. Il potere e la corsa economica della Cina ormai si stanno ampliando sempre di più, non solo nei paesi del terzo mondo o in via di sviluppo, ma anche in Europa. Le mire espansionistiche del Sol levante, si stanno diffondendo a macchia d’olio, in tutti i settori: un Paese che acquista materie prime, terra, legname, e non solo, è un grande compratore di petrolio e gas, ma anche di oro, di società di eccellenza e di bond (come il recente tentativo di acquisto in Italia).

Un Paese, questo, che compra isole nel mondo per il turismo, fa affari con dittatori per lo sfruttamento del petrolio, come in Sudan; nonché da ultimo, l’acquisto di 300 chilometri quadrati in Islanda, con l’obiettivo di realizzare un resort per ecoturismo con campo da golf.

Un Paese che si sta mangiando il mondo. Ma è anche vero che il nostro sistema economico si sta autodistruggendo e per sopravvivere ha bisogno di nuove risorse. E questo aspetto si vede nel mercato automobilistico in crisi, conseguenza del crollo economico finanziario mondiale, e di mancate sinergie, e del rincaro dei carburanti; i piccoli marchi raffinati e di eccellenza sono destinati al fallimento, se non sono in grado di riconvertirsi ed il prodotto non viene diversificano verso una produzione con standard qualitativi più bassi.

E questo è l’esempio della Saab, che non è stata in grado di rinventarsi e si è affidata adesso nelle mani cinesi e con questo accordo conclude sì l’agonia di una società in crisi, ma anche la sua storia: di una società nata nel 1937 come industria specializzata nella produzione di aeroplani e passata alle automobili dieci anni dopo. La Saab ha vissuto un boom straordinario tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta con modelli sportivi. Poi la crisi. Nel 1990 viene acquisita dalla General Motors, nel 2009 dopo la grande crisi del settore, la trattativa con la Koenigsegg e il passaggio definitivo all’olandese Spyker. Poi diventata Swedish Automobile NV.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.