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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 5 NOVEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Quartieri sott’acqua, strade allagate e fiumi di fango: tre bambini tra le vittime
Allarmi inutili: altri sette morti
Genova in ginocchio: esondano i torrenti e frana la montagna di Giancristiano Desiderio è qualcosa che non va. Non solo perché piove a dirotto, Genova è in ginocchio sott’acqua e il bilancio, approssimativo, è già di sei, forse sette morti, tra cui due bambini. Ma anche e soprattutto perché soltanto dieci giorni fa, il 25 ottobre, la pioggia,
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alle Cinque Terre, aveva fatto dieci morti e tre dispersi. Solo dieci giorni fa, ecco cos’è che non va. Il sindaco di Genova, Marta Vincenti, guarda incredula la sua città ancora e dice che «la tragedia era imprevedibile». Ma è da giorni che sappiamo che il cielo si sarebbe
coperto e sarebbe arrivata tanta acqua, è da giorni che sappiamo che fiumi e torrenti erano ben al di sopra del livello di guardia, è da giorni che facciamo confronti con ciò che è accaduto e con ciò che potrebbe ancora accadere. a pagina 24
Il G20 si chiude: passa la linea di Draghi e Obama che spinge tutti i paesi sulla strada della crescita
Senza governo, sotto tutela L’Italia, ormai priva di guida, viene commissariata da Ue e Fmi Napolitano: «Non si fidano di noi». Il Fondo comprerà i nostri titoli e l’Europa invia dei controllori. Crolla la Borsa e vola lo spread. E Barroso «Sono i mercati a non credere nella politica di Roma» UN NUOVO GOVERNO
CON GRECIA E SPAGNA
La mappa completa di chi lascerà il Cavaliere
Mario Draghi c’è. Siamo entrati Ora agli italiani ufficialmente serve Mario Monti in serie B di Osvaldo Baldacci
di Gianfranco Polillo
he l’Italia fosse commissariata c’era chi lo diceva da tempo. D’altro canto, se sei un cattivo debitore è normale che i creditori cerchino di essere tutelati. E cosa fa di un soggetto un cattivo pagatore? L’incapacità di mantenere fede ai propri impegni. a pagina 2
n genere c’è grande scetticismo sui risultati dei vertici del G20. Una vetrina che, dopo una lunga kermesse, produce documenti vaghi, pronti a essere immediatamente edulcorati in nome delle peculiarità storiche di ciascun Paese. È una tesi che non ci convince. a pagina 4
CRISI DI SISTEMA
TRIONFA L’INCONSAPEVOLEZZA
Il bipolarismo leaderistico ormai è morto
Ma avete capito che siamo oltre il limite?
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di Francesco D’Onofrio
di Enrico Cisnetto
a crisi dei cosiddetti “debiti sovrani” ha avuto una conseguenza italiana perché si sono venuti a saldare i profili istituzionali più specificamente interni con la necessità europea, anche economica, nella prospettiva sempre più incalzante della globalizzazione. a pagina 9
Italia è in pieno default politico e rischia seriamente il default finanziario, tanto da essere messa sotto tutela del Fondo Monetario Internazionale. Ogni altra lettura della situazione sarebbe inutilmente (e pericolosamente) fuorviante. a pagina 8
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«La maggioranza non ci sarà più» Crescono i ribelli che vogliono l’unità nazionale Altre defezioni in arrivo: nuovi malumori anche tra i repubblicani e i Responsabili. Molti del Pdl dicono al premier: «È arrivato il momento di lasciare». E lui risponde: «Così tradite il Paese». Ma intanto tratta con i radicali per convincerli a votare la fiducia. Viaggio ragionato nel dissenso
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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
Marco Palombi e Riccardo Paradisi • pagine 6 e 7 NUMERO
215 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 5 novembre 2011
tempesta sull’euro
Il governo non ha più credibilità né numeri
Draghi c’è, ora serve Mario Monti di Osvaldo Baldacci he l’Italia fosse commissariata c’era chi lo diceva da tempo. D’altro canto, se sei un cattivo debitore è normale che i creditori cerchino di essere tutelati. E cosa fa di un soggetto un cattivo pagatore? L’incapacità di mantenere fede ai propri impegni, di pagare i propri debiti. Incapacità che può essere sancita dall’assoluta mancanze di risorse, oppure dall’assoluta mancanza di credibilità. Se si ha credibilità, si può sempre realizzare un piano di rientro. È interesse del creditore dare la possibilità di saldare i debiti. Ma se del debitore non mi fido, tanto vale mandarlo all’aria e recuperare per via giudiziaria quanto possibile. L’Italia non ha carenza di risorse. C’è una crisi finanziaria ed economica, c’è un debito altissimo. Ma ci sono fondamenti economici buoni e anzi migliori di molti altri paesi. Ma manca la guida che mostri di voler agire con serietà sulla linea del risanamento e del rilancio. È una crisi di fiducia politica, di credibilità dell’attuale governo. L’ostinazione del governo Berlusconi a mantenere le proprie posizioni a dispetto dei santi (e ormai anche dei numeri) non è un problema politico, è sempre più un costo vivo per l’Italia: la mancanza di assunzione di responsabilità è costata e costa molti miliardi all’Italia.
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Il G20 ha segnato una svolta importante da molti punti di vista. Per le questioni italiane relative al Fondo Monetario Internazionale, ad esempio. Ma anche su una scelta di linea mondiale di contrasto alla crisi. Ha vinto la linea di Draghi e di Obama di privilegiare lo sviluppo, mentre non si è optato per una strada di solo taglio del debito, di rientro a tutti i costi. Certo, è finita l’epoca delle spese allegre. Però il tema è la crescita. Qualcosa di cui in Italia alcuni parlano da tempo, e che si rimprovera a questo governo di non aver mai affrontato. Serve quindi ora un passo deciso proprio in questa direzione. Serve cioè un governo che sappia mantenere la stabilità ma che le affianchi la crescita. Un governo che sappia adoperarsi in questa direzione ma che offra anche quelle garanzie di credibilità internazionale in questa direzione. Occorre un governo che sappia fare e che riscuota fiducia sul saper fare. Un governo che sappia dare agli italiani medicine amare ma salutari, che riapra scenari di futuro aprendo spiragli di luce nella cappa che è calata in questi anni anche a causa dell’insipienza dell’attuale maggioranza. Serve quindi un governo con personalità qualificate e credibili, esperti e politici all’altezza della situazione, apprezzati e stimati in Italia e fuori. Persone col senso della responsabilità e la competenza necessarie. Persone con esperienza internazionale. Si può ricorrere a un premier politico riconosciuto per il suo senso di responsabilità, serietà e moderazione, oppure a un tecnico apprezzato e stimato di livello internazionale. Un governo di tutti e soprattutto dei migliori, guidato dai migliori. Un governo di larghe intese, meglio se politico, con il contributo di quanto c’è di meglio in Italia, con l’obiettivo preciso della crescita a partire dalle basi italiane: quando gli italiani si uniscono sono capaci di grandi cose, ed è arrivato il momento di dimostrarlo davvero. Bisogna farlo per l’Italia, e bisogna farlo per far vedere al mondo quel che vale l’Italia. E bisogna farlo con gli uomini che abbiano le qualità giuste.
Al G20, i leader politici sotto tono: hanno vinto il Fondo, la Bce e la Fed
In quarantena. Come la Grecia Napolitano: «Non hanno fiducia nell’Italia». Borsa a picco con lo spread di nuovo a 460. Ma Berlusconi risponde con una battuta: «Da noi ristoranti sempre pieni: non c’è crisi» di Francesco Pacifico
ROMA. Trattati come la Grecia. Cioè come un Paese dall’economia inconsistente, incapace di mantenere gli impegni presi e con autorevolezza pari allo zero a livello internazionale. Perché come dice Giorgio Napolitano finora non abbiamo preso misure concrete.
Ieri il presidente José Barroso ha reso noto che l’Italia ha chiesto al Fondo monetario di monitorare i suoi sforzi per tagliare il debito. E vera o falsa che sia la ricostruzione, è bastato qualche minuto dall’annuncio per far crollare Piazza Affari e riportare il differenziale tra il Btp e Bund a 460 punti. Silvio Berlusconi, che non si dimette, rispolvera la dialettica da imprenditore e minimizza: «Non c’è nessuna limitazione alla sovranità italiana, quella del Fmi sarà una certificazione esterna». Ma non c’è giustificazione che tenga di fronte a un commissariamento così smaccato, che il Belpaese non ha subito neanche negli anni della ricostruzione post bellica.Tra un mese al Tesoro è attesa la prima delegazione del Fondo monetario. E guardando a questa data appaiano beffardi pure i riconoscimenti arrivati a Roma da Nicolas Sarkozy – ieri non ha riso, ma ha scandito «Rendo omaggio allo sforzo dell’Italia, che ha preso le misure necessarie per riportare la fiducia e rafforzare il credito» – o da Barack Obama: «La Crisi in molti casi è psicologica.Vedi l’Italia, che è un grande
Paese, con una grande base industriale». Pilastro fondamentale dell’unificazione e della ricostruzione europea, secondo economia manifatturiera dell’area, patria di Dante e museo a cielo aperto, fatto sta che al di là delle attestazione di prammatica, nessuno si fida più dell’Italia di Berlusconi. E seppure tra i grandi del mondo nessuno chiede un cambio di governo, deve far pensare la scelta del direttore del Fmi, Christine Lagarde, di dare un calcio alla diplomazia e dichiarare in una conferenza stampa: «La questione che è in gioco e che è stata chiaramente individuata sia dalle autorità italiane sia dai partner è una mancanza di credibilità delle misure annunciate». A Bruxelles come a Washington, chi ha studiato sia la manovra di agosto sia la lettera di intenti presentati in Europa si chiede dove troverà l’Italia nel prossimo biennio i 20 miliardi dalla delega fiscale, con i quali Tremonti (o chi lo sostituirà) deve raggiungere il pareggio di bilancio. E non si capisce nemmeno come farà il Belpaese, che paga per la previdenza il doppio di quanto investe in sanità, a tagliare il debito senza alzare l’età pensionistica. Ma a al di là delle misure stesse, si dubita che un governo con una maggioranza tanto incerta possa rimodulare il mercato del lavoro liberalizzando i licenziamenti oppure lanciare un ambizioso piano di dismis-
tempesta sull’euro
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«A Cannes siamo diventati una colonia» Per l’economista Giacomo Vaciago: «Noi, meglio della Grecia, ma siamo governati peggio» di Franco Insardà
ROMA. «Non ho mai visto un governo navigare a occhi chiusi come ha fatto questo negli ultimi tre anni. Senza sapere, cioè, dove andava il mondo e l’Italia. Basti pensare che la prima cosa che è stata fatta tre anni e mezzo fa è stata la chiusura dell’Isae (Istituto studi e attività economica), diretto dal professor Alberto Majocchi dell’università di Pavia, che dal 1998 ha svolto un’opera di supporto per i governi di destra e di sinistra nelle politiche economiche. Ma per Berlusconi e Tremonti gli economisti sono inutili». Giacomo Vaciago, professore di Politica economica e monetaria all’università Cattolica di Milano, a stento si trattiene dal ridere alla notizia dell’Italia trattata peggio della Grecia e, in pratica, commissariata anche dal Fondo monetario internazionale. Professore, allora siamo messi male... Quando il primo di novembre i mercati hanno venduto i nostri titoli e il nostro governo era assente, perché erano tutti in vacanza, ho capito che eravamo senza esecutivo. Il Quirinale, invece, l’unico palazzo dove sanno come funziona il mondo e l’economia, a mercati chiusi, alle 19, ha annunciato di aver iniziato le consultazioni come si fa quando il governo è scappato. Ci fotografa la situazione a oggi? L’economia italiana non cresce da quindici anni, negli ultimi tre anni
il governo non ha affrontato e risolto i problemi, anche quelli che non ha causato, ma che sono di sua competenza. I mercati non bevono queste scuse e se vedono che c’è un governo distratto dai propri affari pensano che il Paese sia senza guida. E reagiscono. È credibile che sia stato davvero Berlusconi a chiedere un monitoraggio al Fondo monetario sul nostro debito. Si può ancora credere a Berlusconi? Basta guardare il comunicato del Fmi. L’altro giorno è partito per
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dopo Berlusconi. Quindi anche un eventuale nuovo governo. I consiglieri economici delle ambasciate in Italia hanno lavorato da matti per stilare relazioni per i loro paesi. Non siamo peggio della Grecia, ma se il nostro peggio governa rischiamo di finire peggio di loro. Perché nei confronti della Spagna c’è un atteggiamento migliore? Ha fatto tutte cose giuste, dopo i molti errori del passato. Negli ultimi tre mesi non è ha sbagliata una: si è dimesso Zapatero, il successore sarà quasi sicuramente il popolare Mariano Rajoy, del quale la stampa internazionale parla bene. Infine hanno modificato, a grande maggioranza, la Costituzione prevedendo il pareggio di bilancio e il pagamento dei debitori prima dei dipendenti pubblici. Lo spread è subito migliorato. Mentre il nostro spread è tornato a quota 460 punti. Gli spread sono il termometro della nostra febbre. E dopo la conferenza stampa di Berlusconi è continuata a salire. Avrebbe dovuto forse sorridere un po’ di più... L’Italia paga di più l’inesistente autorevolezza di Berlusconi o la crescita rachitica? Le nostre aziende crescono dappertutto tranne che in Italia, non attraiamo gli investimenti esteri e diamo l’immagine di un Paese da ridere. Le barzellette ci danneggiano, ma la realtà per chi vuole investire qui è davvero drammatica. Se il governo italiano avesse
Siamo in transizione e l’Europa è più preoccupata di prima. Sanno che Berlusconi non ha più una maggioranza e vogliono monitorare anche quello che succede dopo di lui Bruxelles con sedici pagine di una sua lettera personale e non del governo. Nel verbale della riunione c’è scritto che cosa deve fare l’Italia e quelle sono le cose che contano. Non si va fino a Cannes per chiedere un aiuto del Fondo, sarebbe bastato telefonare alla Lagarde. Se il governo italiano sostiene questa tesi è un’aggravante, perché significa ignorare anche il galateo internazionale. Quindi ci trattano peggio della Grecia. No, siamo in transizione e l’Europa è più preoccupata di prima. Sanno che Berlusconi non ha più una maggioranza e vogliono monitorare anche quello che succede
sioni del demanio. «Bisogna essere oggettivi», aggiunge José Manuel Barroso, «ci sono dubbi nei mercati sulla capacità dell’Italia di attuare le misure promesse all’Ue. È un fatto oggettivo ed è questo il motivo per cui l’Italia attuerà tutte le misure». Per l’Italia, quel che è peggio, è che questa bocciatura tanto plateale è arrivata a conclusione di un vertice, che non ha saputo dare una reale sterzata alla riforma della governance europea. Nel quale l’America non porta a casa nulla di concreto e può cantare vittoria, soltanto perché è riuscita a smontare la dogmatica tanto in voga in Germania. Cioè si è finalmente ribaltata la scala degli imperativi, mettendo in cima la crescita e poi il contenimento delle finanze pubbliche. Infatti il bilancio della due giorni a Cannes lo fa con precisione Barack Obama, quando spiega che «sono ancora in discussione i dettagli su come i Paesi europei dovranno agire». Al di là di un richiamo alla Cina benedetto anche dai Brics di rafforzare lo yuan e l’intento di aumentare la potenza di fuoco del Fondo monetario, i grandi – per usare le parole di Obama – si sono imposti di «trovare una soluzione al problema specifico della Grecia», «di ricapitalizzare le banche europee per ridare fiducia ai mercati» e di «creare una barriera e manda-
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re il segnale ai mercati che l’Europa sostiene l’euro». In altre occasioni si sarebbe diffusa una nota conclusiva piena di retorica e buoni principi per nascondere l’ennesimo rinvio. Ieri invece si è scelto di umiliare l’Italia, di far comprendere all’interno e all’esterno dell’Unione che stabilità politica e stabilità finanziaria vanno di pari passo. Un messaggio che può risultare letale per un Paese come l’Italia. Soprattutto quando si sconta la sfiducia più di quelli dei partner europei. Infatti i mercati (e non soltanto a Milano) hanno subi-
ritoccato le pensioni o introdotto una patrimoniale saremmo stati commissariati da Fmi e Unione Europea? Certamente. Se si dichiara che il debito pubblico italiano è sostenibile vuol dire che, in caso di bisogno, si fa ricorso al contribuente. La patrimoniale non serve, basta l’Irpef. Ovviamente è necessario tirare la cinghia, non si può andare avanti a spendere e spandere e accorgersi, quando ormai non ci sono più soldi, che sono a rischio i debiti. È quello che l’Europa ha detto chiaramente alla Grecia. A questo punto che cosa deve fare l’Italia? Quello che Trichet e Draghi hanno scritto il 5 agosto e che il governatore della Banca d’Italia ha ripetuto ogni 31 maggio per sei anni. Lo stesso Ignazio Visco, prima dell’arrivo di Draghi a via Nazionale, ha sempre detto la stessa cosa. Sono passati tre mesi, ma ancora non si è iniziato a fare nulla. In quelle pagine c’è la conferma che è drammaticamente urgente tornare a crescere e ridurre il debito. Lo dicono in italiano gli economisti seri del Paese, ce lo dicono in inglese a Bruxelles e in tedesco a Francoforte. Ora ce lo ripeteranno anche da Washington. A forza di andare indietro siamo ritornati agli anni ’70 e abbiamo bisogno del Fondo monetario internazionale.
per cento. Il record dall’introduzione dell’euro. E vanno male anche le altre piazze europee. L’esito del G20, l’incapacità ad affrontare i nodi che frenano il Vecchio continente, ha visto il Ftse-100 di Londra calare dello 0,33 per cento, il CAC40 di Parigi del 2,25 e del Dax di Francoforte del 2,72.
Ora si attende di capire che cosa deciderà il sistema Italia per rimettersi in carreggiata. Nel 1993, fuori dallo Sme e lontano dall’unificazione europea, licenziò un presidente del Consiglio (Giuliano Amato) che pure scrisse una manovra monster da 90mila miliardi di lire per affidarsi al capo della Banca centrale (Carlo Azeglio Ciampi). Oggi, nonostante gli sforzi del presidente Giorgio Napolitano, non riesce a mettere in campo un governo di salute pubblica per chiudere con il berlusconismo. Sicuramente non aiuta la causa italiana Silvio Berlusconi. Ieri a Cannes, nella conferenza che doveva giustificare il commissariamento del Belpaese, non ha trovato di meglio che dire: «Non si sente qualcosa che possa assomigliare a una grande crisi. È un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, sugli aerei a fatica si trovano posti e anche le mete di vacanza sono piene».
Pesante l’affondo di Christine Lagarde, direttrice dell’organismo di Washington: «La questione è la mancanza di credibilità delle misure annunciate. Lo sanno anche a Roma» to presentato il conto. Seduta in profondo rosso a Piazza Affari, che è caduta del 2,66 per cento, arrivando quasi a bruciare in una giornata i guadagnati segnati 24 ore prima dopo il taglio di 25 punti base del costo del denaro. Con 14 miliardi di euro di capitalizzazione da recuperare secondo l’Eba, i titoli bancari non potevano non spronfondare. Soprattutto lo spread tra Btp e Bund è risalito sopra la soglia record dei 460 punti, portando il rendimento sul decennale italiano al 6,42
pagina 4 • 5 settembre 2011
tempesta sull’euro
La nostra economia è meno «malata» delle altre, ma ha un deficit terribile di credibilità e apertura al futuro
Il buono, il brutto e il cattivo Il primo è Zapatero, che s’è dimesso per la discontinuità. Il secondo è Papandreou, che cerca di navigare nel caos. Il terzo è Berlusconi, paladino dell’immobilismo. Ecco i tre leader sotto sorveglianza di Gianfranco Polillo n genere c’è grande scetticismo sui risultati dei vertici del G20. Una vetrina che, dopo una lunga kermesse, produce documenti vaghi, pronti a essere immediatamente edulcorati in nome delle peculiarità storiche di ciascun Paese. È una tesi che non ci convince. Se il G20 fosse in grado di fornire soluzioni immediatamente operative saremmo a quel governo mondiale che da Kant in poi costituisce il sogno di filosofi e politici. Non è questo lo spirito del tempo: lo Zeitgeist come dicono i tedeschi. La realtà contemporanea resta dominata da contraddizioni profonde, che quei vertici cercano, in qualche, modo di smussare indicando linee d’azioni, che, poi, subiscono le inevitabili torsioni. Al tempo stesso quei vertici servono per selezionare una classe dirigente, chiamata a svolgere compiti di grande responsabilità. Se Mario Draghi non vi avesse partecipato prima come Direttore generale del Tesoro e poi come Governatore della Banca d’Italia, oggi, forse non occuperebbe il posto che ha, e le sue parole, come Presidente della Bce, non avrebbero avuto l’impatto che si è verificato. Se queste considerazioni sono vere in generale, a Cannes è succes-
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so qualcosa di più. Sono, innanzitutto, apparse chiare le nuove gerarchie di potere: iniziando con il ridimensionamento di Barack Obama, abituato in precedenza a essere l’unico vero padrone di casa. Ruolo diminuito dal fatto che il salvadanaio americano è troppo vuoto per consentire quell’antico soplendore. È emersa anche la crisi europea: ma in modo diverso. Con una Germania in grande spolvero e una Francia alla disperata ricerca della sua marcatura. Le proposte di Sarkozy di una tassazione sulle transazioni finanziarie sono state accolte con mille distinguo che non lasciano ben sperare. Il dato più evidente è stato, tuttavia, il ruolo svolto dalle istituzioni internazionali: Fmi e Commissione europea. Mentre Bce e Fed, con una politica monetaria più convergente, fornivano la rete di protezione che – almeno così si spera – dovrebbe garantire una migliore gestione della crisi.
Dal vertice è emersa anche la profonda spaccatura che divide l’Europa dell’euro. Da una parte i Paesi più solidi – anche se non tutto brilla nell’economia francese – dall’altro quelli che annaspano e di conseguenza sono sottoposti a
un’osservazione speciale. Non è una nota di colore. L’Fmi ha già avviato la procedura – monitoring e reporting – nei confronti dell’Italia per un eventuale intervento – sebbene non richiesto – per l’attivazione della “precautionary credit line”.Vale a dire la concessione di prestiti straordinari nell’eventualità in cui le prossime aste dei titoli pubblici dovessero incontrare difficoltà di collocamento. In pratica interverrebbe con linee di credito l’Fmi, ma solo nel caso
La linea dettata da Fmi e Bce presuppone decisioni politiche rapide e forti: solo il nostro governo prende tempo in cui l’Italia rispetti le condizioni di politica economica che le accompagnano. Tesi per la verità negata da Silvio Berlusconi, che ha proposto qualcosa di molto più edulcorato. Comunque sia, questo siparietto dovrebbe dare il senso delle difficoltà del Paese. Non è naturalmente questo il caso più clamoroso. Il vertice è stato scosso dalle vicende gre-
che, quando sembrava che tutto fosse perduto. La proposta di referendum avanzata da Papandreu aveva fatto temere il peggio. E c’era già chi, con durezza – Angela Merkel – era arrivata a ipotizzare la fuoriuscita di quel Paese dall’euro. Una vera e propria catastrofe, poiché Atene ha liquidità sufficiente per far fronte ai suoi pagamenti solo fino alla metà di dicembre. Poi, per fortuna, tutto si è chiarito. Quella proposta era stata solo un bluff: il grimaldello per costringere l’opposizione a bere l’amaro calice, imposto dall’Europa. Ritirata la proposta di referendum, si marcia verso un confronto definitivo. Questa notte, in Parlamento, si deciderà con quale Governo continuare o se ricorrere a elezioni anticipate.
Anche Zapatero ha partecipato al vertice, ma solo come osservatore. Il suo governo, com’è noto, è dimissionario. Le imminenti elezioni cambieranno, con ogni probabilità, lo scenario politico del Paese offrendo quelle garanzie, soprattutto politiche, che finora sono mancate. Del resto da quando si è messa in moto la macchina elettorale, i risultati si sono visti con tempestività. Le condizioni
Il direttore del settimanale tedesco “Die Zeit” sull’assenza di leadership europea Zapatero, Papandreou e Berlusconi erano i tre sorvegliati del G20 di Cannes. In basso, Angela Merkel
economiche della Spagna sono sicuramente peggiori di quelle italiane: basti pensare al tasso di disoccupazione quasi due volte e mezza quello italiano. Nei mesi passati gli spread dei suoi titoli pubblici erano ben superiori ai nostri. Mentre le ultime quotazioni indicano 360 punti base, contro i 435 del Bel Paese. È difficile non pensare che questo relativo miglioramento non sia collegato a un’ipotesi di maggiore stabilità politica, derivante dai risultati delle prossime elezioni. Anche Silvio Berlusconi ha presentato il suo programma, scritto al termine di un Consiglio dei Ministri che definire burrascoso è dire poco.Vi è stata una presa d’atto, accompagnata dall’indicazione di “fare tutto e fare presto” e l’esortazione – per bocca di Angela Merkel – che ciò che conta solo le azioni, oltre le parole. Una punta di disappunto che derivava dalle lacune presenti nel documento rispetto alla lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto: vale a dire riforma delle pensioni d’anzianità e intervento sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile tanto in entrata quanto in uscita. Così lo stesso Berlusconi è stato costretto a rassicurare il vertice: ne discuteremo – ha spiegato – con le parti sociali.
Qual è la contraddizione principale che divide l’Italia dagli altri Paesi? Non è quella economica, giacché il nostro Paese ha un’economia ben più solida dei suoi concorrenti. Un manifatturiero che si sta ristrutturando, una forte tenuta delle esportazioni che, da sole, crescono a un ritmo ben maggiore del Pil, un forte risparmio delle famiglie, (purtroppo spesso manipolato, da un sistema bancario che le spinge ad investire in prodotti finanziari mediocri che garantiscono, tuttavia, laute provvigioni), un deficit di bilancio che è secondo solo alla Germania ed un debito pubblico, elevato nello stock, ma che cresce ad un ritmo inferiore rispetto alla media europea. Non sta quindi qui la falla. Il vero problema sta nella forte e, spesso, ottusa contrapposizione tra le sue forze politiche. Tanto di maggioranza – si pensi alla vicenda della Banca d’Italia – che di opposizione: la concorrenza Pd, Idv e Sel. Un esempio per tutti: la lettera di Draghi e di Trichet. Scatenò l’opposizione che accusò il governo di essere stato commissariato dall’Europa. Tesi ripetuta proprio ieri da Le Figaro per le vicende dell’Fmi di cui abbiamo riferito. Poi lo stesso Draghi, nella sua prima conferenza come presidente della Bce, ha fatto chiaramente capire che quel decalogo vale per tutti. È la linea della Bce: la condizione per continuare a intervenire sul mercato secondario a favore dei paesi in difficoltà finanziaria. Come si esce, allora, da questa impasse? Forse prendendo atto che una fase è definitivamente terminata. Una fase non sola politica, destinata ad incidere profondamente sugli equilibri sociali tradizionali del Paese, giacché le condizioni poste dall’Europa, se si vuole evitare un pericoloso contagio, devono essere, comunque, rispettate. C’è consapevolezza di questo doppio passaggio? Almeno, per il momento, sembrerebbe di no: giacché quest’unità d’intenti non si è manifestata con la necessaria chiarezza.
Siamo in piena euro-guerra (e Merkel non comanda)
«La Germania avrebbe tutte la carte per assumere le redini della crisi, ma ha paura del suo passato. E si nasconde dietro Sarkozy» di Josef Joffe ella guerra monetaria che l’Europa sta combattendo, la Germania ha il più grande arsenale e il principale interesse a prevenire il collasso dell’euro. Ma allora perché gioca ad imitare Amleto chiedendosi: «Comando o non comando?» Ponderare e titubare non è mai stato il modo di agire tedesco. Ma è quello che sta accadendo. Oggi, la Germania è aggressiva come un gattino, ma esperti e politici - dall’America alla Grecia - la considerano responsabile per l’aumento della volatilità dei mercati e l’incremento della crisi del debito. Il 50% di tagli ai bond greci decretati la scorsa settimana al vertice Ue dovevano essere imposti un anno fa. Perché Atene era insolvente anche allora. Perciò si è sempre fatto troppo poco, e troppo tardi. Benché Berlino abbia guidato la riscossa “dell’esercito della salvezza europea”e la Banca Centrale europea abbia chiuso una falla, i mercati hanno continuato a essere attaccati. E continueranno ad esserlo, mettendo l’euro in grave pericolo. La Grecia, semplicemente, non può crescere abbastanza per ripagare i suoi debiti. Così, mentre l’euro brucia, Angela Merkel trucca le carte con messaggi fuorvianti. A Berlino, la cancelliera predica generosità, inviando soldi ad Atene. Ma a Bruxelles stalla, domandando ogni volta maggiore austerity e una riforma dei mercati, per poi cedere all’ultimo minuto. Ma i palliativi abbassano solo momentaneamente i tassi di interesse sui bond greci, italiani e spagnoli. E i mercati, subito dopo, cominciano a mordere. E mordere sul serio. L’euro recupera e poi subito precipita. Solo due giorni fa la Merkel ha provocato un cataclisma paventando l’espulsione della Grecia dall’Europa. Ma la fine di Eurolandia getterebbe la Germania nel panico e farebbe crollare le esportazioni. E allora perché Angela Merkel non indossa la corona europea, fregandosene di Parigi e Atene? La risposta, ovviamente, va ricercata nella storia.
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Paese, così come il nazionalismo. Ma la signora Merkel non deve avere paura della crescita dei partiti anti-europeisti che si fanno largo alla sua destra (d’altronde hanno già fatto la loro comparsa in molti altri Stati, dalla Francia alla Finlandia). Quando il Bundestag vota a favore dei finanziamenti ad Atene o la ricapitalizzazione delle banche, il suo gradimento aumenta. Sugli affari europei la Cancelliera è supportata dai due maggiori partiti di opposizione: i Verdi e i Social democratici. Questa libertà di azione è una novità. Anche un bambino piccolo capisce che l’Europa, seppur bisognosa di cure, è una fonte di benessere.
Ma allora, perché la Merkel è così incerta in questa Euro-guerra? Perché questo dramma è molto più che un gioco morale sulla colpevolezza tedesca e il suo pentimento. Questa saga non è sull’eccezionalismo tedesco, ma sulla nuova via politica dell’intero Occidente, dove non brilla alcuna leadership. Obama strombazza come la Merkel: provate questo, provate quello. Gioca a stare dalla parte della gente, ma non molla Wall Street., la macchina che lo ha condotto alla presidenza nel 2008. La Merkel, invece, cerca la triangolazione alla Bill Clinton: ignora la destra e la sinistra e si piazza dritta al centro. Peccato che debba triangolare ogni ora, a seconda di come si muovono i mercati. Imbastire è il verbo che più di ogni altro sancisce l’attualità politica. Nessun punto fermo, ma cuciture che possono essere rafforzate o strappate, a seconda della convenienza e a dispetto dalla lealtà dei rapporti. Motivo per cui in tutto l’Occidente i cittadini hanno perso la fiducia nei politici. Aggiungi però, che in questa crisi, il nemico non è mai chiaro. La leadesrhip ai tempi di Reagan e Roosvelt, Churchill e Adenauer, era semplice. Il nemico era il nazismo o il totalitarismo sovietico. Si poteva fare la conta dei loro carri armati e dei loro missili, si sapeva come si sarebbero mossi. La battaglia aveva un suo ordine. Ma oggi il nemico chi è? Il default, le obbligazioni? Non lo sappiamo. E questo ci mette tutti sulla stessa barca. Solo che la Germania è il navigatore più importante, quello con le maggiori possibilità e se fa la scommessa sbagliata rischia di far saltare il bussolotto di tutti. E allora perché Angela Merkel continua con un mano a vietare e con l’altra a pagare? Perché i tedeschi lo dicono tutti i sondaggi - hanno una paura matta di perdere i loro soldi. È vero. Ma hanno anche una paura più grande: restare soli. È una lezione che già hanno vissuto e non vogliono ripetere. Il Bundestag ha già votato a favore del pacchetto di stabilità e della nuova tranche di aiuti alla Grecia. Tanto denaro, ma niente rispetto a quello che servirebbe per salvare l’Italia e la Spagna. Eppure, dovesse accadere, i tedeschi si agiterebbero da morire, ma non si tirerebbero indietro.
A Berlino, la cancelliera predica generosità, inviando soldi ad Atene. Ma a Bruxelles stalla, domandando ogni volta più austerity e una riforma dei mercati, per poi cedere all’ultimo minuto
I tedeschi hanno imparato due cose lo scorso secolo: quando vanno da soli - come nella seconda guerra mondiale - perdono miseramente, e ogni volta è peggio; quando lavorano ai fianchi, dimostrandosi poco aggressivi e cercando alleanze e scambi con l’Occidente, prosperano. Mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna versavano il loro sangue e i loro solidi dall’Indocina all’Iraq, i tedeschi mettevano da parte e investivano incassando i dividendi della pace. Quando la storia pretende umiltà, la modestia diventa conveniente. I tedeschi sono andati in guerra dopo Hitler, ma solo al seguito di altri, come nei Balcani o in Afghanistan. In Libia non ci sono proprio voluti entrare. La Merkel sa meglio di chiunque altro che la paura è l’ultima a morire, e così ha preferito lasciare il cerino ben chiuso a chiave. Oggi, la Germania è fra le più rispettate nazioni sulla Terra. E l’anti-europeismo rimane un forte tabù nel
tempesta sull’euro
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Nella maggioranza muore Franzoso (in coma da mesi), entra D’Alessandro
Radiografia dei ribelli
Viaggio tra i frondisti e gli incerti: tutti gli uomini che possono far cadere Berlusconi nei prossimi giorni. Ma lui risponde: «Così tradite il Paese». Intanto guadagna un voto a causa di una tragedia di Riccardo Paradisi a sopravvivenza del governo è ormai legata alla decisione che prenderanno al primo voto di fiducia quei deputati che popolano l’ormai vasto territorio di frontiera che sta tra la maggioranza e l’opposizione. Una zona franca che ha consumato con il governo una rottura seria ma che non ha ancora superato il Rubicone. Un piccolo continente politico percorso da fremiti, tensioni, pressioni, complessi di colpa e ansie di liberazione da un’appartenenza ormai superata e dove si consuma un febbrile lavoro di mediazione e di pressione. Anche perché in gioco non c’è solo la carriera politica o la permanenza in parlamento dei singoli parlamentari – un elemento che pesa eccome in questa contingenza – in ballo c’è la tenuta del Paese, sospeso tra la prosecuzione di un governo indebolito da un’emorragia continua, le elezioni anticipate e un governo di responsabilità nazionale e di transizione che negli auspici di chi lo propone dovrebbe avere forza sufficiente a incardinare gli obiettivi europei.
L
putato Pdl che non avrebbe potuto partecipare a un’eventuale prossimo voto di fiducia, il governo può contare sul voto sicuro e attivo di Luca D’Alessandro, primo dei non eletti nella circoscrizione Puglia che lo sostituirà alla Camera. Ma la lista degli indecisi è lunga ed è forte la tentazione di sciogliere gli indugi e prendere atto che ormai il governo sia al capolinea. Tra questi indecisi, forse il più indeciso di tutti, c’è il repubblicano Francesco Nucara che però ora detta delle condizioni riservandosi di votare la fiducia al governo solo sulla base dei contenuti che saranno presentati alle Camere. «Il 13 agosto scorso – dice – una delegazione del Pri ha consegnato al presi-
In gioco non c’è solo la carriera politica dei singoli parlamentari in ballo c’è la tenuta economica del Paese
Sta di fatto che dopo l’uscita dal Pdl dei due deputati passati all’Udc (Alessio Bonciani e Ida D’Ippolito) Berlusconi s’avvicina alla perdita della maggioranza assoluta in aula alla Camera. È vero che i frondisti scajoliani e l’area dei ”dissidenti” (Roberto Antonione, Isabella Bertolini, Giancarlo Pittelli e Giorgio Stracquadanio), firmatari della lettera che chiede al premier di promuovere un nuovo esecutivo, non sarebbero ancora pronti a un voto di sfiducia. Ed è anche vero che dopo la morte avvenuta ieri di Pietro Franzoso, il de-
dente del Consiglio le proprie proposte per affrontare la crisi. Da allora non abbiamo avuto più nessun riscontro. Per questa ragione il Pri si riserverà di votare la fiducia al governo solo sulla base dei contenuti che saranno presentati alle Camere». Per quanto riguarda i radicali – altri indecisi storici – la maggioranza ha per ore confidato ieri nella prima dichiarazione rilasciata in mattinata dal segretario Rita Bernardini che non esclude l’appoggio al governo se presenterà un maxiemendamento di riforme liberali. Poi però nel pomeriggio arriva la doccia fredda: i sei deputati radicali eletti nel centrosinistra esamineranno nel merito i provvedimenti del governo ma niente fiducia. Silvio Viale frena:
«Una cosa è valutare le proposte e i provvedimenti nel merito ed eventualmente votarli – dice Sergio Viale – altra cosa è dare la fiducia al governo».
Intanto prosegue la guerra psicologica e se da un lato i capi parlamentari del Pdl assicurano che le file sono serrate e coperte dall’altra parte arrivano appelli a prendere atto che una fase è finita: «Senatori e deputati del Pdl, è il momento di lasciare Berlusconi – dice stentoreo Francesco Rutelli dell’Api – perché si ostina ad agire da solo e così facendo fa un danno al paese –dice il leader dell’Api, Francesco Rutelli, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Madama». E se molti nella maggioranza si tengono la bocca cucita in attesa di ulteriori sviluppi alcuni come Giancarlo Mazzucca, tra i sostenitori della lettera del dissenso, parla e dice che «Un passo indietro di Berlusconi andrebbe fatto se è per il bene del Paese». Idem Giuliano Cazzola. Ma c’è anche chi fa leva sulla mozione dei principi: «Se Bonciani e D’Ippolito quando ci sarà da votare voteranno contro, saranno degli irresponsabili» dice Stefano Saglia, sottosegretario allo sviluppo economico con delega all’energia che è evidentemente un messaggio a tutti gli altri malpancisti ancora in bilico, visto che Bonciani e D’Ippolito la loro scelta l’hanno fatta. Arturo Iannaccone di ”Noi Sud” nella propaganda di guerra che ormai percorre gli schieramenti parlamentari annuncia addirittura arrivi in maggioranza da sinistra: «Noi speriamo e siamo convinti che la nostra iniziativa di lasciare il Gruppo di Pt e passare al Misto possa far recupera-
Esponenti politici che a vario titolo hanno rotto o sono in procinto di farlo con l’attuale maggioranza Dall’alto in basso Giorgio Stracquadanio Michele Pisacane Francesco Nucara Ignazio Abrignani Giuliano Cazzola Luciano Sardelli Giustina Destro Nella pagina a fianco ex deputati del Pdl passati all’Udc: Alessio Bonciani e Ida D’Ippolito. Ormai in parlamento è in corso una guerra psicologica per tenere serrati i ranghi in vista della conta all’ultimo voto che deciderà il destino del governo
re al centrodestra qualche parlamentare, visto che finora sono venuti fuori solo i malumori all’interno della coalizione governativa, ma io ritengo invece che ce ne siano tanti anche nell’opposizione, e penso che potranno venir fuori nei prossimi giorni, i conti dunque si potrebbero pareggiare». ”Millanta”è il commento più carino che raccoglie l’annuncio di Iannaccone da esponenti d’opposizione e della stessa maggioranza che vedono bene come sia critica la situazione del governo. Anche perché ormai si fa sempre più strada l’idea di un esecutivo di larghe intese. Non solo come risposta alla crisi – «Occorre un governo di transizione che affronti con autorevolezza e nello spirito di una pacificazione nazionale i problemi più gravi ed urgenti del paese», dice il leader della Cisl, Raffaele Bonanni – ma anche come salvagente e salvacondotto di sopravvivenza per molti deputati ora in maggioranza che in caso di elezioni anticipate non verrebbero ricandidati».
Ignazio Abrignani, deputato Pdl vicino a Scajola non è a rigore un indeciso. Nel senso che lui la fiducia la voterebbe. Ma quello degli scajoliani è l’ultimo avvertimento, l’ultima concessione. «Siamo nati e cresciuti con Berlusconi, questo è un governo che ha fatto delle cose buone ma a da un anno a questa parte i numeri parlano chiaro. Siamo arenati. Nessun dubbio sul nostro voto di fiducia. Noi non tradiremmo mai Berlusconi. Gli chiediamo di fare il possibile però per allargare la mag-
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gioranza chiedendo a tutti di votare il provvedimento che chiede l’Europa. Se però ci sarà una crisi le elezioni anticipate sarebbero un disastro implicando un lungo vuoto di potere in una situazione di tempesta economica». Dunque? «Saremmo disponibili a un governo di larghe intese». A spiegare bene quale cosa si muove nella testa e nella pancia di molti deputati di maggioranza al di la di calcoli troppo umani sulla loro personale sopravvivenza parlamentare e sul perché un governo di transizione avrebbe consenso anche nel Pdl è Calogero Mannino, oggi deputato del gruppo misto. «Io ho votato la fiducia il 14 dicembre per evitare il ribaltone e ria-
Se ci sarà una crisi le elezioni anticipate sarebbero un disastro per l’economia italiana
Sotto accusa, la gestione «personalistica» del partito da parte di Denis Verdini
«Ora basta con gli affaristi» Le ragioni di Bonciani e D’Ippolito, i due deputati passati dal Pdl all’Udc di Marco Palombi
ROMA. Forse ha pesato pure un po’ l’alienazione del lavoro da parlamentare, come sembra credere il Silvio Berlusconi in versione psico-marxista di ieri, ma sta di fatto che il numero di quelli che scendono dal predellino o si apprestano a farlo comincia ad essere preoccupante per il governo e il suo “braccio armato” in Parlamento Denis Verdini. Giovedì, come si sa, hanno lasciato per entrare nell’Udc Alessio Bonciani e Ida D’Ippolito, mentre il senatore Carlo Vizzini ha annunciato di essersi iscritto al Psi di Nencini, partito d’opposizione. Sono i primi due, comunque, a pesare di più: un po’ perché il loro passaggio sull’altra sponda politica è già ufficiale in Parlamento, un po’ perché siedono tra i banchi di Montecitorio. Potenza dei numeri. La vicenda di Bonciani e D’Ippolito, però, rileva anche per un altro ordine di motivi: entrambi testimoniano plasticamente il perché e il percome il partitone berlusconiano stia lentamente morendo. «La mia è una sofferenza antica», ha spiegato il primo, 39enne imprenditore toscano con un passato di simpatie giovanili per Bossi e un presente da vicepresidente della Fondazione Italia-Usa. È qui il centro della vicenda: di sicuro il nostro è preoccupato per l’incapacità del Pdl di rappresentare l’elettorato moderato e i valori liberali, come spiega, di sicuro è pure convinto che serva un governo di unità nazionale per portare fuori il Paese dalle secche della crisi, ma è la sua
“sofferenza” dentro il Pdl il fulcro di questa storia. Bonciani già da tempo, dopo essere stato per anni il delfino a Firenze di Denis Verdini, è a disagio nel suo partito: non gli piacque il disimpegno con cui il centrodestra affrontò la candidatura a sindaco di Giovanni Galli e a settembre 2009, sull’onda delle inchieste giudiziarie sul G8 che lo coinvolgevano, scrisse con altri (tra cui Deborah Bergamini) una lettera proprio contro Verdini, accusato di metodi dittatoriali: «Ricordatevi – gli rispose quello – che oggi sono in difficoltà, ma se c’è uno che il Cavaliere ha sempre difeso, quello sono io». Così è stato, così è, nel partito verdinizzato Bonciani era una sorta di dead man walking, ora non più.
Diversa e contemporaneamente simile la vicenda della calabrese Ida D’Ippolito, 63 anni, avvocato dotato di laurea in lettere antiche, ex democristiana tornata ai lidi politici di gioventù: «Esco oggi dal Pdl. Ho creduto nel premier e ho sposato il suo progetto iniziale, quello di Forza Italia, un po’meno in quello del Pdl. Si sono persi pezzi, sono entrate persone con proprie storie e propri interessi. La sfida rappresentata dalla casa dei moderati non è giunta a buon fine. Mi
pare che l’Udc sia ancora la grande opportunità di costruire quel progetto che rappresenta ciò che all’Italia serve», ha messo a verbale dopo un prolungato silenzio. Tra le righe, c’è scritto tutto: dopo l’espulsione di Fini, Berlusconi ha fatto il governo con gli Scilipoti, i Calearo, le Polidori («persone con proprie storie e propri interessi»), acconciandosi alla trattativa privata, posticino per posticino di sottogoverno con chiunque avesse a disposizione uno o più voti a Montecitorio. Così è successo anche con la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Ida D’Ippolito: la promozione a viceministro e la nomina a sottosegretario lo scorso 15 ottobre di due suoi conterranei, l’ex Idv Aurelio Misiti e il compagno di gruppo parlamentare Giuseppe Galati. Come che sia, la nomina di Galati, in particolare, pare abbia dato noia alla signora: costui, eletto nelle file del Pdl, s’è da poco trasferito con Mario Baccini in un rassemblement noto come Cristiano-Popolari, i quali avevano recentemente espresso enormi perplessità addirittura sulla politica in materia di giustizia del governo Berlusconi. Poi è arrivata la poltrona e tutto è stato perdonato. Solo che così si acquista un Galati e si perde la maggioranza.
prire un rapporto tra Pdl e Udc. Convinzioni deluse da scelte di partiti che si sono inglobati nel partito di Berlusconi. Adesso ci sono alcuni colleghi all’interno della maggioranza che hanno maturato la convinzione che questo governo non ce la fa più. Il mito del partito popolare con le elezioni anticipate diventa sempre più lontano».
«Alle elezioni Berlusconi varerà un suo partito personale – continua Mannino – e la nomina di Alfano è destinata a subire una regressione nella sua portata politica. D’altra parte ci sono molti deputati che pur consapevoli di questa deriva si domandano uscendo dal Pdl aiutiamo il Pd? Ecco a costoro va chiarito che la messa in crisi del governo non induce Casini a rafforzare vincoli con il Pd lo induce a una proposta politica di aggregazione per il partito popolare. Sul piano dell’iniziativa di governo l’iniziativa di Casini tenta di mantenere in piedi la legislatura con un governo aperto al Pdl per fare il documento della Bce e all’unione europea. Che significa che alcuni deputati del Pdl stanno elaborando il lutto e la nuova nascita. Non sono convinto che questo colleghi arriveranno a un voto di sfiducia contro il governo, ma arriveranno a rendere pubblico il dissenso in qualche atto decisivo». Paradigmatica infine la testimonianza di Ignazio Pisacane di Popolo e territorio. «È improprio chiedere a singoli parlamentari che cosa faranno, far sentire sulle loro spalle responsabilità così grandi. Qui i leader non fanno più luce. Siamo lasciati a noi stessi. Si certo il governo tecnico, ma era necessario già un anno fa». Ma lei la sfiducia la vota o no? Le carte si scoprono al momento opportuno - risponde questa volta però chiederò di votare per primo».
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tempesta sull’euro
Non basta più dire che siamo la terza economia d’Europa e l’ottava del mondo: il mercato ormai ci considera insolvibili
L’inconsapevolezza
Ha ragione Napolitano: nonostante tutto, la maggioranza (e buona parte del mondo politico) non si rende conto della gravità della situazione. Berlusconi e la sinistra ingessano il Paese: non resta che sperare nei commissari... Italia è in pieno default politico e rischia seriamente il default finanziario, tanto da essere messa sotto tutela del Fondo Monetario Internazionale. Ogni altra lettura della situazione sarebbe inutilmente (e pericolosamente) fuorviante. Smettiamola di dire che non siamo come la Grecia, perché non è vero. Infatti, si continua a sentire il ritornello «ma noi siamo la terza economia europea, l’ottava del mondo, abbiamo il più grande comparto manifatturiero dopo la Germania, e il patrimonio privato degli italiani è oltre 4 volte l’intero debito pubblico, dunque non possiamo fallire». Niente di più sbagliato. Come la Grecia, noi siamo un paese povero (perché altamente indebitato) abitato da gente ricca (nel complesso). E se a questo tipo di nazioni succede – come è stato per Grecia, Irlanda e Portogallo e ha cominciato ad essere per Italia e Spagna – che i creditori iniziano a dubitare della loro solvibilità, ecco che sul mercato secondario dei titoli di Stato i prezzi scendono mentre cresce il diffe-
L’
di Enrico Cisnetto renziale di rendimento con i bond dei paesi sicuri (spread con la Germania), mentre alle aste delle nuove emissioni sono sempre di più le banche nazionali a consentire al Tesoro di piazzare i titoli. Non è un caso che, sono dati di Bankitalia, la quota di debito collocata all’estero sia scesa dal 50% al 39,2% (segno che le banche straniere non vogliono più i nostri Btp).
D’altra parte, c’è un termometro che misura la solvibilità dei paesi più ancora dello spread (che, comunque, finché resta sopra quota 400-450 rimane una spia accesa di grave pericolo) e di cui ci curiamo poco: si tratta dei cds, credit default swaps, che sono i contratti assicurativi con cui gli investitori si coprono dal rischio di fallimento di un paese. Fallace quanto si vuole, ma purtroppo insindacabile, il termometro ci dice che l’Italia nei prossimi cinque anni ha 35 possibilità su 100 di andare in default, e che al mondo sono solo sei i paesi messi peg-
gio di noi. Quindi non tragga in inganno l’esercizio teorico elaborato da Bankitalia, secondo cui – a certe condizioni, che ora non ci sono – il nostro debito pubblico rimarrebbe sostenibile nei prossimi 2 anni anche se i tassi di interesse sui titoli di stato arrivassero all’8%, cioè ci fosse uno spread di 600 punti, e la crescita del pil fosse uguale a zero. Una valutazione che il neo-governatore Ignazio Visco ha voluto prudentemente circoscrivere, non fosse altro per
Non ha senso continuare a prendersela con Merkel e Sarkozy
non dare alibi a chi in Italia continua a scherzare col fuoco sottovalutando i pericoli cui siamo esposti. Non a caso il clima di forti tensioni e le conclusioni del vertice di Cannes in relazione all’Italia – messa da tutti sul banco degli accusati e costretta ad accettare il “commissariamento” esplicito di Ue e Fmi – confermano che siamo considerati un “emettitore di contagio” intorno al quale va steso un cordone sanitario di sicurezza. E non regge la tesi di
chi difende il governo sostenendo che la colpa è del duo Merkel-Sarkozy, intenti a scaricare le loro contraddizioni sugli altri, o del tardivo sussulto democratico di Papandreu a tutela di una sovranità perduta. Non perché non ci sia del fondamento in questo, ma perché non sono argomenti che possano essere usati per scagionare le nostre responsabilità, che ovviamente non appartengono solo al governo in carica ma all’intero sistema politico chiamato Seconda Repubblica.
La crisi che stiamo vivendo in Europa per colpa dell’Europa – la cui origine sta nella tara genetica dell’euro, che non può essere gestito senza un governo federale di “ultima istanza” – nulla toglie alla gravità e alla cogenza della crisi tutta italiana, che per come si sono messe le cose ricade non solo su di noi ma sull’intero eurosistema. Così come doppia, europea e greca, è la crisi che brucia Atene. E se la Grecia, che in fondo è un piccolo “caso” che non può certo affossare la moneta unica, ha
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La crisi finanziaria ha modificato in modo sostanziale il rapporto tra consenso e governo
L’Europa ha messo fuori gioco il bipolarismo leaderistico
Il successo «interno» non basta più per guidare un Paese: occorre sottostare alle regole (e alla necessità) di una comunità molto più vasta di Francesco D’Onofrio esplosione della crisi finanziaria dei cosiddetti “debiti sovrani” ha avuto una specifica conseguenza italiana perché si sono venuti a saldare i profili istituzionali più specificamente interni con la necessità europea, anche economica, nella prospettiva sempre più incalzante della globalizzazione. L’ultima legge elettorale italiana aveva infatti assunto il bipolarismo realizzato da noi quale punto di approdo del nostro sistema istituzionale, ritenuto tale da dar vita persino ad una “Seconda Repubblica”, come è stata chiamata la nuova situazione italiana rispetto ai lunghi anni di quella che è stata a sua volta chiamata la “Prima Repubblica”. Si è infatti a lungo discusso proprio del passaggio dalla “Prima” alla cosiddetta “Seconda Repubblica” nel senso che – a partire dal 1994 – lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri era infatti scelto direttamente dagli elettori, anche se in quel tempo non vi era una vera e propria sua indicazione al momento del voto.
L’
Ma è proprio dagli albori di questa cosiddetta “Seconda Repubblica” che si tende a ritenere il bipolarismo come necessariamente caratterizzato sempre più in senso per così dire presidenziale. Si passava infatti dalla lunga stagione caratterizzata dalla nascita e dalla morte dei governi ad opera dei parlamentari raggruppati in molteplici partiti, ad una nuova stagione politica ed istituzionale, nella quale si è venuto sempre più restringendo il potere di governo dei parlamenti, e quindi dei parlamentari al loro interno. L’ultima legge elettorale – nota come il “Porcellum” – ha in qualche modo saldato l’originaria natura proporzionalistica del sistema parlamentare italiano con una sua evoluzione sempre più forzata in senso presidenziale. Questa strana coppia istituzionale è stata a lungo caratterizzata proprio dall’emergere di aspetti fortemente personalistici nella nascita e nel funzionamento di quelli che si sono pur tuttavia continuati a chiamare “partiti politici”. È come se si fosse passati dalla “partitocrazia” alla “videocrazia”, vedendosi nella prima la deriva partitocratrica del sistema parla-
mentare, e nella seconda la deriva personalistica tipica dell’epoca dei massmedia. L’esplodere di una vicenda finanziaria denominata della crisi dei “debiti sovrani” ha finito con il rendere sempre più evidente i limiti propri della evoluzione presidenziale del bipolarismo italiano, perché è stato ed è sempre più il contesto europeo a richiedere che il debito sovrano italiano comporti una
È indispensabile armonizzare la costruzione dell’Unione con i programmi nazionali
significativa riduzione proprio della nostra sovranità nazionale.
Ciò è ancor più evidente alla luce delle pur significative divaricazioni realizzate all’indomani della seconda guerra mondiale tra la preferenza europea per i valori della socialità, e quella statunitense per i valori della individualità. Questa saldatura rende infatti sempre più evidente la necessità che è proprio sull’equilibrio tra socialità ed individualità che si gioca anche in Italia la contemporanea scelta tra processo di costruzione europea e programmi di governo nazionale. Appare infatti sempre più necessario che il consenso interno sulla coerenza europeistica delle scelte italiane deve essere più ampio di quelli che caratterizzano gli schieramenti politici a fini strettamente interni. Ed è molto rilevante notare che per molti decenni gli schieramenti politici si sono costruiti in chiave di alternativa degli uni rispetto agli altri, anche in riferimento proprio al contesto europeo dei problemi medesimi. Fino a quando il debito pubblico italiano è stato vissuto come un fatto prevalentemente interno, e nel contesto di una sovranità nazionale strettamente legata agli esiti elettorali di volta in volta considerati, l’alternativa tra gli schieramenti politici ha finito con l’assumere una andatura per così dire presidenzialistica, perché si sono venuti saldando gli aspetti del bipolarismo di governo con le caratteristiche tipiche del bipolarismo personale. Il discorso costituzionale è stato di conseguenza prevalentemente rinchiuso all’interno di considerazioni statual-nazionali, come si conviene proprio in riferimento alla Costituzione italiana, anche perché questa è stata scritta prima dell’inizio del processo di costruzione europea. Dall’avvento dell’euro – formalmente all’inizio del 2002 – si sono pertanto venuti saldando gli aspetti tendenzialmente interni del bipolarismo della cosiddetta “Seconda Repubblica” con la necessità di un consenso per così dire europeistico, più ampio di quello che è necessario per vincere le elezioni politiche. Affermare pertanto che saremmo in presenza di un sistema istituzionale che ci pone di fronte ad una alternativa rigida ed insuperabile tra il governo in carica e le elezioni, significa affermare che questo bipolarismo presidenziale incontra il limite insuperabile della necessaria convivenza dell’interesse nazionale nel contesto europeo. L’uno e l’altro, infatti, sono intrecciati a tal punto da non consentire più che si possa affermare che siamo in presenza di una sorta di elezione diretta del capo del governo, perché la coerenza europeistica non riuscirebbe in tal caso a trovare un soddisfacente punto di equilibrio.
creato il pandemonio che ha creato, figuriamoci il danno che può provocare l’Italia che ha uno stock di debito sette volte più grande di quello ellenico. Né vale l’osservazione che il patrimonio privato è di 8500 miliardi contro i 1900 di debito pubblico. Sono due contabilità separate, e l’unico modo perché il primo garantisca il secondo è prelevarne una quota. Ma il governo ha escluso la patrimoniale, e l’opposizione finora l’ha solo evocata come arma di polemica politica. E se invece si volesse vendere un po’ di gioielli di famiglia – il Tesoro ha contabilizzato attivi per 1.815 miliardi, quasi quanto il debito, stimando però che il “patrimonio fruttifero” sia pari a 675 miliardi – non è certo con la proposta del governo di 5 miliardi all’anno per tre anni contenuta nella lettera inviata a Bruxelles che si risolve qualcosa.
Insomma, nessuno ha una proposta organica su come affrontare una situazione che si è fatta drammatica. Di questo si sono resi conto i nostri interlocutori, europei e non, così come il presidente Napolitano e una buona parte di italiani. Il combinato disposto tra la pervicacia di Berlusconi nel sopravvivere a se stesso, pur politicamente imbalsamato, e l’ottusità del Pd che non riesce ad andare oltre la richiesta di dimissioni del premier, ripetuta ossessivamente, hanno creato un blocco da cui è difficile divincolarsi. Tanto che nessuno fa neppure ciò che sarebbe logico per pura convenienza. Per esempio, se Berlusconi avesse chiamato ad un pubblico confronto Bersani dicendogli che faceva sue le proposte di Ichino sul mercato del lavoro e di Morando sulle pensioni, avrebbe clamorosamente spiazzato il Pd. O se avesse capito che un governo d’emergenza avrebbe spaccato la sinistra più del centro-destra… Già, ma questo è far politica, e dopo quasi due decenni il Cavaliere non ha ancora capito cosa sia. Anche le opposizioni, però, invece di avventurarsi in votazioni parlamentari come quelle del 14 dicembre 2010 e del 14 ottobre scorso poi rivelatesi perdenti, e sperare solo nelle defezioni altrui, avesse chiamato intorno ad un programma di cose da fare, legge elettorale compresa, tutti gli interlocutori interessanti, probabilmente avrebbe creato la percezione di una possibile alternativa che avrebbe accelerato il trapasso del governo. Invece, centro-destra e centrosinistra, concludendo “degnamente” la fallimentare stagione del bipolarismo all’italiana di cui sono stati protagonisti, ci hanno regalato l’onta della cancellazione della sovranità nazionale sostanziale. E ci tocca anche sperare che i “commissari”funzionino. (www.enricocisnetto.it)
società
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Il debutto del suo «Servizio pubblico» raggiunge il 14% di share ilvio Berlusconi alla frutta: in Parlamento e in campo internazionale. Il Grande Fratello al minimo storico: 3.572.000 spettatori contro 7 di una Cenerentola Rai, ridotti a Cenerentola da una Cenerentola; e Alessia Marcuzzi che rischia di doppiare il capitombolo del compagno Francesco Facchinetti, cui per audience basso hanno tagliato Star Academy. Una 19enne un po’ bischera col nome d’arte improbabile di Fiocco di Neve che, giustamente buttata fuori da X Factor per una tremenda esecuzione d’altronde da lei stessa ammessa, riesce a vendicarsi sfidando la tv grazie a una trasmissione casalinga su You Tube. E Michele Santoro che festeggia il successo del suo Servizio Pubblico «senza editori e senza padroni», si potrebbe anche aggiungere senza finanziamenti del canone e senza i rischi pecuniari per eventuali querele appioppati ai datori di lavoro, che comunque ottiene un 12-14% di share tra tv locali, digitale terrestre e Sky, più 400.000 utenti su Internet. Ovviamente, tutto è relativo: alla rete emittente e al contenuto. E così Il 12-14% è considerato da Santoro un trionfo, mentre il 17,28% per il Grande Fratello è stato un disastro. E al posto lasciato libero da Annozero su Raidue, un Indiana Jones che si è fermato al 7,67%.
S
La post-televisione “made in Santoro” Il successo del conduttore sul web (e su Sky) dimostra quanto è cambiato il consumo tv di Maurizio Stefanini
La rivoluzione è arrivata al punto che la tv di denuncia ormai in Italia interessa di più che non Spielberg? Piano, perché nel frattempo su Raiuno Don Matteo si è fatto tranquillamente il suo 25,9 per il primo episodio e 27,97 nel secondo: segno che, malgrado gli scandali che ormai toccano anche queste due istituzioni, l’accop-
Il risultato della nuova trasmissione dimostra che la rivoluzione è già avvenuta. I canali tradizionali perdono ascolti, quelli sul satellite non decollano: solo internet continua a crescere piata preti-carabinieri continua a essere quella più amata dagli italiani. Mentre Mi manda Raitre sta appena al 4,05. E comunque sia Qui Radio Londra di Giuliano Ferrara che Porta a porta di Bruno Vespa benché con gli onori della corazzata di stato, stanno più o meno alla pari con Santoro. Meglio, comunque, di Io Canto di Gerry Scotti su Canale 5, che appunto però considerato in proporzione è un bagno pauroso. Comunque meglio di Blog-La versione di Banfi su Rete 4, mentre su Italia 1 la partita di Europa League tra Atletico Madrid e Udinese non è andata oltre il 5,92% di ascolti.Va bene che la squadra friulana non è proprio
di quelle che abbiano folle di tifosi strabordanti, malgrado il suo buon momento attuale. Ma il 25,05 complessivo dei tre canali storici di Mediaset con di mezzo varietà e pallone dimostra che comunque il momento pessimo per le tv del Cavaliere. Mentre su La7 Piazzapulita, condotto da quel Corrado Formigli che viene a sua volta dal team di Annozero, ha raccolto il 4,74. Attenzione che comunque in una serata feriale di ottobre gli italiani che hanno passato la serata davanti alla tv sono stati tra i 22 e i 25 milioni. Meno della metà del totale!
Il filo conduttore di tutto ciò? Nel 1936 l’Italia si fece
cacciare dalla Società delle Nazioni e dal seggio permanente in Consiglio che aveva conquistato con la vittoria nella Grande Guerra e si fece sospingere nella sciagurata alleanza con Hitler: semplicemente per volersi conquistare a tutti i costi un impero coloniale appena una decina di anni prima che gli imperi coloniali iniziassero a sfasciarsi. Dieci-quindici anni dopo, la dialettica politica italiana fu ossessionata da una battaglia per la riforma agraria che fu infine fatta, proprio nel momento in cui il boom economico dell’industria e la massiccia emigrazione di milioni di campagnoli verso le grandi città la
Michele Santoro e, sotto, Marco Travaglio, animatori di «Servizio pubblico»
rendevano ormai inutile. Allo stesso modo, negli ultimi trent’anni la dialettica politica italiana è rimasta ipnotizzata dalla polemica sul duopolio televisivo e sull’impero berlusconiano. Mentre intanto la rivoluzione di Internet e della pay tv rendeva il problema altrettanto obsoleto che, appunto, il colonialismo e l’agrarismo. Santoro in onda in contemporanea a Ferrara, a Vespa, a Banfi, a Mi manda Raitre e a Formigli dovrebbe bastare a fare piazza pulita del luogo comune che in Italia non si fa approfondimento informativo. In realtà si fa: ma con uno stile alternativamente appunto santoriano o vespiano che privilegia l’invettiva o la passerella dei vip, a discapito di quello che probabilmente potrebbe essere un approfondimento vero. Ma chi non voleva sorbirsi quell’overdose santoriano-vespiana, che cosa poteva vedere: tra un’orgia di calcio che anch’essa ormai ha oltrepassato il livello dell’overdose, l’ennesimo reality-caccia di talenti che non ne parliamo neanche, o il film pur spettacolare che però lo rifanno una volta ogni tre mesi? Appunto, gli strumenti alternativi permettono ormai anche a chi sta fuori dalle grandi rete di inserirsi alla pari, se ha una proposta forte. Ma, davvero, c’è poco da stupirsi se alla fine continua a vincere Don Matteo. Come le buone cose di pessimo gusto di Gozzano, alla fine gli sceneggiati di vecchia scuola bernabeiana restano veramente l’ultima cosa ancora originale che sfila sui nostri schermi.
Ma non è così in fondo che si spiega la crisi di Berlusconi? All’epoca in uno sceneggiato, due film e un quiz a settimana erano tutto il menu che Mamma Rai propinava agli italiani, avere pellicole nuove e soap operas a tutte le ore del giorno dava ai telespettatori italiani un eccitante senso di ebbrezza. Ricordate quando i pretori oscurarono per un po’ le tre reti Mediaset, e la gente ridotta di nuovo alla sola Rai atterriva: «accidenti, ma senza Berlusconi non c’è davvero più niente in tv!». Be’: provate adesso a passare una settimana senza guardare nè Rete 4 né Canale 5 e né Italia 1, e guardate un po’ se ve ne accorgete. In fondo, era soprattutto questo il sogno che Berlusconi aveva regalato agli italiani. Forse è proprio l’attuale minestra tv neanche più riscaldata che gli italiani non gli perdonano, più ancora che non il bunga bunga o la crisi.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Il rapporto col padre Luigi e col fascismo, in “Timor sacro”, il romanzo nel romanzo di Stefano Pirandello
DUE VITE ALLO SPECCHIO di Gabriella Mecucci
l romanzo di chi scrive un romanzo. La vita di chi racconta la vita degli altri. Scovato negli archivi di famiglia, i Pirandello hanno deciso di dare alle stampe Timor sacro (Bompiani, 335 pagine, 14,00 euro) , il libro che narra l’intera esistenza di Stefano, figlio del grande Luigi e romanziere lui stesso. Quasi da subito il romanzo si confronta con uno dei grandi temi che hanno segnato la vita di Stefano: il rapporto col regime fascista. Non molti anni fa vennero ritrovate all’archivio centrale dello Stato numerose carte che attestavano come parecchi intellettuali italiani avessero preso danaro dal regime. Risultò che fra questi ci fosse anche Stefano Pirandello: aveva percepito - così c’era scritto - sessantamila lire. Ce n’erano anche altri che poi diventarono convinti o meno convinti antifascisti. Si ripropose allora la domanda sul legame fra potere e mondo della cultura e di che genere fosse stata l’adesione dei Pirandello durante il ventennio.
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due vite allo
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Il grande padre, che pure non era un intellettuale-politico alla D’Annunzio, fece un gesto che non poteva lasciar dubbi. Era inequivocabile: scrisse una lettera a favore di Mussolini subito dopo che questi si era macchiato di uno dei reati più odiosi, il delitto Matteotti, quasi certamente commissionato direttamente da lui. Ci fu consenso al fascismo da parte del premio Nobel per la letteratura? Non c’è dubbio, anche se Luigi non si occuperà mai di politica direttamente. Resterà un apolitico. Il regime però in più occasioni sbandiererà il suo nome come quello di un illustre sostenitore. Morì nel 1936 quando gli antifascisti in Italia erano davvero pochi e l’Italietta aveva conquistato l’impero. Non vide gli esiti più tragici del ventennale governo mussoliniano: dalle leggi razziali, alla guerra. Episodi che convinsero molti a cambiare radicalmente il loro atteggiamento. E Stefano? Che rapporto ebbe davvero col regime? In questo romanzo inedito lui stesso lo spiega facendolo dire a Simone - così si chiama lo scrittore dietro il quale si cela l’autore - quando viene chiamato dai fascisti per scrivere una storia che esalti il loro operato. Si tratta della vicenda di un giovane albanese, Selikdar Vrioni, che trascinato dalla legge della vendetta della sua stirpe, uccide ed è poi costretto ad abbandonare il suo Paese. Si ritrova in Italia, luogo che non vuol più abbandonare perché qui sta infinitamente meglio. L’epoca in cui si sta meglio è ovviamente quella fascista. Simone-Stefano è stato chiamato dai potenti del regime a costruire l’immagine di una nazione felice e vincente che accoglie il povero albanese. Deve scrivere un romanzo su questo.
In una pagina drammatica di Timor sacro descrive qual è il rapporto che ha con i suoi committenti. La lunga citazione è inevitabile: «- Ma è assurdo - si lanciava a dire Simone fra gli amici quando erano soli, senza intrusi; e parlava di truffa. Simone eccelleva nell’esporre nella cerchia dei più intimi queste linee di difesa, compensato da un caldo sentimento d’orgoglio quando qualcuno gli diceva: è un argomento principe. La truffa d’esigere dagli scrittori adesioni politiche ferme come diventano in un libro e convalidate da rappresentazioni integrali del mondo e poi indelebili: scritte - quando i politici, “loro” i militanti, dando le proprie semplicemente di presenza e in azione, restano liberi di modificarne di continuo la portata. Rimanendo senza pecca, anzi più puri: militanti che s’adeguano». Insomma, il rapporto di Simone col fascismo è contrastato, è quello di uno che preferirebbe occuparsi solo di letteratura ed è continuamente sollecitato a entrare nella vicenda pubblica che preferirebbe non sfiorare. Stefano non era un antifascista, voleva semplicemente starne fuori. Eppure alla fine ci finì dentro come tanti altri. Le parole del suo racconto si muovono fra «innocenza e colpa massima». «Il romanzo - scrive la curatrice Sarah Zappulla Muscarà - è come legarsi a un destino: destino in parte condiviso, negli anni di maggior consenso, da molti intellettuali, in vario modo e con diversi accenti resi fiochi per il silenzio». E ancora: «Dichiarazione d’innocenza? Autodenuncia? Autoassoluzione?.. Richiesta di redenzione per aver taciuto? Per non essersi esposto?». Forse tutto questo insieme. Non solo quella di Simone, ma anche la vita dell’albanese Selikdar tocca il rapporto col regime: rimarrà infatti irretito entro le maglie del potere economico, nelanno IV - numero 38 - pagina II
Luigi e Stefano Pirandello. La foto è tratta dalla copertina del libro “Nel tempo della lontananza (1919-1936)”, Salvatore Sciascia Editore, dov’è raccolto il carteggio intercorso tra padre e figlio. In basso, la copertina del romanzo postumo di Stefano Pirandello appena edito da Bompiani le ambigue manovre del regime e, scoppiata la guerra, per paura di essere arrestato, si nasconderà sotto le mentite spoglie di custode di villa Borghese. Il romanzo è popolato di intellettuali e politici d’epoca, amici di Stefano Pirandello e frequentatori della sua famiglia: da Corrado Alvaro a Curzio Malaparte, da Alberto Savinio a Massimo Bontepelli, da Ciano a Bottai. I loro profili culturali ed esistenziali si intravedono, nascosti sotto i nomi inventati. In un’alchemica combinazione di storia individuale e collettiva, di artificio narrativo e realtà semisvelata, Timor sacro unisce vagabondaggi affabulatori e racconti di ciò che è accaduto nel ventennio, lumeggiandone aspetti controversi: il consenso dilatato, la proclamazione dell’impero, le leggi razziali. Dietro la figura di Luca Mastroleo si nasconde quella di Corrado Alvaro. E dietro alcune sue pulsioni verso il fascismo, probabilmente si possono leggere idee, sentimenti, attrazioni e repulsioni che furono anche di Stefano. Una costruzione molto complessa, dunque. Difficile da dipanare e da intendere in tutta la sua interezza, ma certamente «romanzo di una vita» che dà conto in modo problematico delle scelte di un’intera esistenza. Basti ricordare del resto che cominciò a essere steso negli anni Venti e terminato nel 1972. E destinato a pubblicazione postuma. L’altro grande momento della vita di Stefano che pervade l’intero racconto riguarda il rapporto con la famiglia e prima di tutto col grande padre. Già il titolo del resto illumina la natura del sentimento filiale che è di amore reverenziale. Eppure il romanzo è anche l’elaborazione e il superamento del «timor sacro». «Io ti amo, babbo, ma devo vivere», fa dire Stefano a Simone allorché decide, contro il volere paterno, di sposare Lora. E del resto ecco che cosa rispondeva lui stesso a Valentino Bompiani che nel 1942 gli chiedeva inediti del premio Nobel: «Io a mio Padre ho dato esattamente quarantadue anni della mia vita… Ho voluto servire mio Padre finché ebbe un alito di vita. E mai mi sono servito di lui. Mai: gli ho dato, rinnovando continuamente la Sua vita, non solo tutto il mio amore e tutto
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il mio tempo (fuorché qualche scampoletto), ma anche il mio ingegno, ma addirittura la mia collaborazione creativa (pur avendo da creare per me), e quella era la mia capacità di muovermi fra gli uomini, e i miei amici e la famiglia stessa; ho sposato tutte le sue cause, anche quelle che non giudicavo buone, ho combattuto tutte le battaglia anima corpo al suo servizio… Bene mi sono conquistato il potere e il modo e il diritto di farlo ora tutta cosa mia, mio Padre: come io sono stato cosa sua. Non posso più servire, non posso più essere chiamato a fare il figlio». Un legame complesso tormentoso e titanico quello fra Stefano e Luigi. «Perché devi avere - scriveva il figlio - Papa mio, questo senso atroce della tua vita, e di noi che ne siamo le creature? Io vedo che sei sempre arrivato ad approfittarti di ogni sciagura, di ogni contrarietà, per la tua arte». E quando Luigi si lagna della propria sofferenza, gli fa notare: «Essere infelice come tu sei, Papà mio, vale la pena di esserlo». Un padre che lo sovrasta e lo schiaccia. Un padre che ha con lui un rapporto di lavoro ma anche molto intimo: gli confessava sentimenti e pensieri che non metteva in comune nemmeno col suo grande amore Marta Abba. Stefano era segretario e amministratore. Talora da figlio diventava padre e lo proteggeva (interessante sarà, a questo proposito, tornare sul libro Nel tempo della lontananza (1919-1936), Salvatore Sciascia Editore, dov’è raccolto il carteggio tra i due). Della eccezionale simbiosi fra padre e figlio,Valentino Bompiani scriverà: «Il rapporto di Stefano col padre era tutto fisiologico: Stefano aveva un cervello simile, ma critico e Pirandello se ne serviva come di un proprio organo». Tutto questo viaggia sotto la pelle di Timor sacro. Ma anche molto altro. C’è tutta la vicenda di una grande famiglia: la storia del nonno, eroe risorgimentale; la presenza della madre che vive trasfigurata nella genitrice di Seldikdar: «Restava nel giovane - racconta Simone-Stefano - quell’immagine di autorità lontana, ininfluente nella vita presente, ma l’unica che avesse voce». Timor sacro si sofferma sulla storia d’amore di Simone con Lorenzina Guirard, detta Lora, incontrata nella Viareggio di fine estate 1918. Mentre la Grande guerra precipita verso la conclusione, Stefano richiama, sotto le forme dell’invenzione letteraria, la sua passione per Olimpia, detta Dodi, pianista, conosciuta in giovane età e sposata nel 1922. E poi c’è il rapporto coi fratelli, vissuti insieme a lui in quella famiglia imbrigliata nella rigida disciplina imposta da un padre mitico.
Vita pubblica, vicende intime, storie reali e trasfigurate si intrecciano e si sovrappongono, mentre Stefano si diverte a cambiare la natura dei personaggi e delle situazioni nelle diverse e successive stesure: contesti che da drammatici sfumano nell’ironia, e viceversa. Romanzo sulla genesi del romanzo, Timor sacro vede la stessa situazione narrata con registri diversificati, quasi a rifare il verso alla ricerca, ai ripensamenti, ai tanti modi di scrivere con cui l’autore si confronta. Un lavoro doloroso, corretto più volte, dove si racconta di Simone che racconta di Selikdar, che racconta di sua madre, che racconta della sua Albania. Una storia entra nell’altra, interloquisce con l’altra. Due vite allo specchio per restituire l’intensa e dolorosa umanità di una delle famiglie più affascinanti e tormentate dell’Ottocento e del Novecento italiano. Il tentativo di un figlio di raggiungere il padre. Un romanzo nel romanzo, quello di Stefano. Così come Luigi scriveva di teatro nel teatro. Una riscoperta e una proposta affascinante quella della Bompiani che ci restituisce uno scrittore vero anche se di non facile lettura. Un’operazione coraggiosa ai tempi nostri quando si preferisce scegliere la banalità per vendere qualche copia in più.
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FELICITÀ on c’è concetto che esprima e riassuma altrettanto bene le nostre aspirazioni, i nostri desideri, le nostre speranze, quanto il concetto di felicità. Eppure sappiamo bene che è assai difficile delimitarne con precisione i contorni. Quando ci proviamo, e la storia della filosofia ne offre una testimonianza eloquente, vengono fuori definizioni così eterogenee tra loro, da far seriamente dubitare che trattino della stessa cosa. Ma tant’è. Gli uomini non smetteranno certo di parlare della felicità, solo perché non riescono a definirla in modo preciso. In una delle sue opere più famose, Il disagio della civiltà, Freud scrive: «Ci chiediamo che cosa gli uomini pretendano dalla vita, che cosa desiderino ottenere da essa. Mancare la risposta è quasi impossibile: tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici». Da Aristotele, passando per Sant’Agostino, San Tommaso, Hume, Kant, Freud, fino ai giorni nostri, esiste una sorta di consenso generale su questa naturale tendenza degli uomini alla felicità. Le divergenze, come ho già detto, emergono invece quando si tratta di definire in che cosa essa consista. Da un lato, infatti, sembra certo che il concetto di felicità racchiuda un po’ tutto ciò che è desiderabile e ha valore per gli esseri umani; dall’altro, però, è pur vero che ciò che ha valore ed è desiderabile per un uomo non lo è per un altro e che spesso insorgono conflitti persino tra le aspirazioni, i desideri, i valori di uno stesso uomo. Del resto, chi di noi riuscirebbe a perseguire tutti gli scopi che vorrebbe? Ci piaccia o meno, siamo costretti a selezionarli. Per questo diventa decisivo il criterio di selezione.
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Alcuni si affidano al piacere, alla soddisfazione immediata dei desideri, man mano che si presentano; altri si affidano alla virtù, al bene di sé e degli altri; altri ancora a una paralizzante indolenza. Tutti debbono comunque fare i conti anche con altre questioni. Perché, ad esempio, i momenti che sembrano di felicità sono così effimeri, così poco duraturi? Perché gli uomini più buoni e più virtuosi subiscono spesso l’ingiustizia e addirittura la morte? Siamo sicuri che, parlando di felicità, siamo di fronte a una realtà determinata e non a un’emozione passeggera o a un inganno più o meno «lieto», come direbbe Giacomo Leopardi? Sono tutti interrogativi che indubbiamente denotano la complessità del problema, nonché i limiti della nostra condizione umana. Ci vorrebbe uno scopo capace di realizzarsi in tutti gli scopi che perseguiamo e in quelli che decidiamo di non perseguire; uno scopo che sia saldamente ancorato al nostro «bene», al bene della natura umana, e capace per questo, realizzandosi, di renderci felici. Questo almeno è ciò che pensavano i classici greci e il cristianesimo. Esiste un «bene» che coincide con il compimento di ciò che è proprio dell’uomo, del suo telos, della sua natura razionale. Felice è l’uomo che comprende e vive questo bene, che per que-
È il concetto che riassume tutte le nostre aspirazioni e le nostre speranze. Lo scopo di tutti gli scopi. È ciò a cui gli uomini tendono naturalmente anche se per raggiungerla si percorrono strade diverse
Il prurito di Callicle di Sergio Belardinelli
Per uno dei personaggi del “Gorgia” platonico, la vita felice coincide nel provare tutti i desideri possibili e nel poterli soddisfare. Un’inclinazione che secondo Hobbes domina l’esistenza umana e determina sempre nuovi bisogni. Ma è l’idea di bene universale che bisognerebbe oggi perseguire sto bene è pronto a pagare di persona, a sacrificarsi, a subire l’ingiustizia piuttosto che compierla. La felicità intesa insomma come un compito che richiede l’impegno personale di ciascuno, non come la semplice realizzazione di quello che Freud chiamava il «principio del piacere». Naturalmente ciò che è bene per l’uomo deve essere in qualche modo anche piacevole; una felicità penosa sarebbe una contraddizione in termini. Ma questo non esclude che ciò che abbiamo assunto come il nostro modello di vita buona richieda qualche rinuncia o qualche sofferenza; esclude semplicemente che la semplice soddisfazione dei desideri possa rendere la nostra vita più bella e più felice.
A questo proposito può offrirci qualche utile indicazione il Gorgia platonico. Callicle, uno dei personaggi del dialogo, aderisce alla politica di soddisfare i desideri appena essi sorgono. «Ma sì; la vita felice sta appunto nel provare tutti i desideri possibili e nel godere di poterli soddisfare». Socrate gli obbietta che in questo modo felice sarebbe colui che, avendo prurito, può grattarsi per tutta la vita. E Callicle acconsente, poiché è convinto che la felicità consista appunto nell’avere desideri e nel poterli soddisfare. Nel XVIII secolo, anche Hobbes sostiene una posizione analoga. «La felicità - si legge nel capitolo II del Leviatano è un continuo flusso del desiderio da un oggetto a un altro, e la conquista di
uno non è che la via per conquistarne un altro. La causa è in ciò, ché l’oggetto del desiderio umano non è di gioire una sola volta, e per un istante, ma di assicurarsi per sempre la soddisfazione del desiderio futuro». È questa «inclinazione generale di tutto il genere umano» che domina secondo Hobbes la nostra vita e che ci spinge a soddisfare ogni volta sempre nuovi bisogni e nuovi desideri, senza essere mai veramente appagati.
Sia Callicle che Hobbes ci dicono in sostanza che la natura degli uomini è plastica, flessibile, dipendente da sollecitazioni che non si possono determinare a priori. Chi avrebbe mai immaginato che avremmo potuto soddisfare, il desiderio di andare sulla luna? Chi avrebbe mai immaginato che, anziché usare il telefono per chiamare qualcuno, si potesse chiamare qualcuno per usare il telefono? Per mio nonno sarebbe stato addirittura impensabile che il desiderio di dimagrire potesse diventare un desiderio di massa. Eppure l’impensabile è divenuto realtà. Ma proprio per questo rischiamo di rimanere vittime di una sorta di prurito senza fine. Proprio per questo, come nel Gorgia platonico, è urgente guadagnare una prospettiva che ci consenta di dire «che il bene e il piacere non sono la stessa cosa», e che pertanto conviene «tenere a freno» l’anima «nei sui desideri e non concederle di fare se non quello per cui potrà divenire migliore». Sennonché è proprio questo criterio normativo che nella nostra tarda modernità è diventato estremamente problematico. Se è vero, infatti, che nessuno avrebbe alcunché da ridire se diciamo che la salute è migliore della malattia, la ricchezza della povertà e magari la bellezza del corpo dell’infermità fisica, è altrettanto vero che il discorso si complica un po’ nel momento in cui diciamo che lo stile di vita di Tizio è migliore di quello di Caio. In una società pluralista, si dice, esistono diverse concezioni del «bene»; è quindi pericoloso presumere che una di queste valga universalmente o diventi addirittura vincolante per tutti, senza che a rimetterci siano proprio il pluralismo, l’autonomia, la libertà e la felicità degli individui. Ci siamo illusi che pluralismo e autonomia potessero significare una sorta di legittimazione di qualsiasi stile di vita. La fatica dell’educazione ha lasciato il posto alla capricciosa spontaneità del desiderio. Ma oggi incominciamo a renderci conto che tale criterio non funziona più o almeno non è più sufficiente per garantire, sia sotto il profilo individuale che sociale, una vita soddisfacente. Proprio in una società pluralista e liberale come la nostra, dove determinati spazi di libertà sono da considerarsi ormai fuori discussione, vediamo insomma riemergere alcune questioni decisive: che cosa ne faccio della mia vita? Quale è la risposta più adeguata alla mia e all’altrui libertà? Che cosa debbo fare per essere felice? Il bene e la felicità non coincidono col piacere.
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MobyDICK
Cd
musica
di Bruno Giurato
LEGNATE SONORE per tempi di crisi
di Stefano Bianchi a inciso bei dischi, il cantante e chitarrista Joe Henry: da Talk Of Heaven (1986) fino a Blood From Stars (2009) passando per il folk-jazz di Shuffletown (col trombettista Don Cherry a far da cameo), il «dylaniano» Short Man’s Room, l’intellettuale Trampoline, il notturno Fuse, l’esistenzialista Tiny Voices. Una dozzina di album in totale, evidenziati da un songwriting eccellente. Eppure, Joe Henry continua (suo malgrado) a far la figura dell’artista secondario. Apprezzato nella natìa America da un piccolo esercito di seguaci, in Europa continua a essere un perfetto sconosciuto eccezion fatta per il gossip quando si è scoperto che dall’87 è il marito di Melanie Ciccone, sorella di Madonna, e che alla cantante inviò il demotape di Stop destinato nel 2000 a tramutarsi in Don’t Tell Me per la gioia dell’album Music. Come se non bastasse, da produttore coi controfiocchi Henry ha battezzato i dischi di cantautrici quali Ani DiFranco, Aimee Mann e Bettye LaVette, e lanciato in orbita Don’t Give Up On Me del soulman Solomon Burke, premiato nel 2003 con un Grammy Award. Joseph Lee Henry detto Joe, nato nel ’60 a Charlotte, va centellinato come un buon vino d’annata. Dopo essersi trasferito ad Atlanta e quindi a Detroit, fa le prime esperienze musicali nelle coffee house di New York pedinando il mito di Bob Dylan e del cantautorato del Village anni Sessanta, per poi sistemarsi definitivamente a Los Angeles. Paragonato al buon Dylan (per la voce simil nasale) e a Randy Newman (per l’eclettismo che gli ha fatto pizzicare di volta in volta country, rock, jazz e folk), viene spesso trattato come fosse il fratello minore di Tom
a musica nei tempi di crisi ama gli organici ridotti e un po’ di violenza. Il gruppo bello in questo senso, quello da seguire in Italia, sono i Pan del Diavolo. Il duo siciliano (Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, il primo a voce chitarre e grancassa, il secondo alla chitarra a 12 corde), ha annunciato l’entrata in studio per il nuovo disco, il successore del duro e selvaggio Sono all’osso, pubblicato nel 2010 dalla altrettanto emergente etichetta La Tempesta (quella dei Tre allegri ragazzi morti). Chitarre, voce urlante, testi indignados. Siamo nella tradizione blues a mollo nella psichedelia e nella rabbia sociale. Anche ai fini di cachet: coi tempi che corrono il più grave rischio del musicista-girovago da un palco a un altro e da un pub all’altro (oltre a farsi calpestare i fili della chitarra da ragazze fradice con le scarpe fangose) è quello di finire la serata, vedersi conteggiare le consumazioni e andare a casa con una banconota azzurra da 20 euri (appena sufficiente per scontare frustrazione e accise sulla benzina): meno si è sul palco meglio si sta, anche come cachet. Così la tendenza vuole organici ridotti ma suono grosso. Pochi o niente assoli (siamo ancora sotto l’onda lunga grunge, la gioia strumentale è abolita), ma tanta potenza. Oltre ai nominati diavoligni siciliani c’è la Bud Spencer Blues Explosion, il duo romano (chitarra/voce e batteria/cori) che ci ha assuefatto anche lui alle legnate sonore. L’ultimo disco si chiama Do it ed è del 2011. Ma i precursori del genere non sono italiani. Sono gli irlandesi, potentissimi, Bonnevilles. Chi ha tempo può guardarsi su youTube il video di Good Suits and fightin’ boots per avere un altro spettacolare saggio di minimalismo punk ad alto potenziale sonico, e sospettiamo ad alto consumo di birra Guinness. Per ora va così. Ed è meglio dei Modà.
L
H
Jazz
zapping
Fantasticherie di un crooner Waits per via di suoni, rumori e strumenti desueti utilizzati (proprio come il Bukowski di Pomona) con la ferrea volontà di spingersi oltre le mode e i diktat discografici. E quando Joe Henry parla «waitsianamente» di «un affare crudo, rauco e confusionario» sottoforma di «spaventapasseri con braccia e gambe di lunghezza variabile, e la testa tenuta insieme dal filo zincato», è lampante che la familiarità con lo scartavetrato, gorgogliante Tom continui a non dispiacergli. Si riferisce, nel caso specifico, al nuovo disco acustico intitolato Reverie (fantasticheria) suonato con David Pitch (basso), Keefus Ciancia (pianoforte) e Jay Bellerose (batteria), nonché arricchito dalle partecipazioni straordinarie del chitarrista Marc Ribot (nei brani Tomorrow Is October e Deathbed Version), dell’organista Patrick Warren (Dark Tears, The World And All I Know) e della corista Jean McClain. In una sessantina di mi-
nuti, il cantautore della North Carolina cala gli assi del suo indiscutibile talento: al sublime, chiaroscurale valzer di Heaven’s Escape fanno da controcanto Odetta, che si stempera nel country, e il crooning sgualcito di After The War, Grand Street, Tomorrow Is October, Eyes Out For You e The World And All I Know. Sticks & Stones, invece, accende la miccia del ragtime, Dark Tears e Deathbed Version puntano inequivocabilmente al blues più ossuto e Strung manda all’inferno il tango parafrasando il cabarettismo di Tom Waits. E se Piano Furnace, ballata interpretata con l’irlandese Lisa Hannigan (che Joe Henry ha prodotto in occasione del secondo album, Passenger) non fa una grinza come l’efficace Unspeakable, Room At Arles (che rievoca l’omonimo dipinto di Vincent Van Gogh) è un appassionato rendez-vous di voce e chitarra. Ora che ti conosco meglio, caro Joe, giuro che non ti mollo più. Joe Henry, Reverie, Anti/Spin-Go!, 17,99 euro
Dal Veneto a Capaci nel segno delle big band hi dice che le grandi orchestre non esistono più, sbaglia e sbaglia clamorosamente! Solo in un mese sono stati pubblicati in Italia ben sei dischi di grandi orchestre italiane, tutti di ottimo livello. La maggior parte stabili, una solo riunita per l’occasione, ma ciò che sorprende è il numero elevato di musicisti, solisti e non, che fanno parte di questi complessi a Milano, Roma, Perugia e Catania. Insomma il nostro Paese sembra essere attraversato dalla passione per le sonorità che una grande orchestra di venti elementi produce nell’esecuzione di brani originali, classici del jazz e standard. Chi non è più giovanissimo ricorda le tre orchestre che la Rai aveva in organico, due a Roma e una a Milano e ricorda anche i solisti di fama, Valdambrini, Basso, Sergio Fanni, Livio Cervellieri e Dino Piana, che ne facevano parte. Avevano, quelle orchestre, una lunga tradizione iniziata già negli anni Trenta con Pippo Barzizza e proseguita con
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di Adriano Mazzoletti Francesco Ferrari, Piero Piccioni e Armando Trovajoli che le diressero con successo per molti anni. Poi la Rai ne decise la dismissione e fu un atto contrario al pubblico servizio, ma anche contro la cultura musicale del nostro Paese. Non più dunque produzioni originali, ma musica riprodotta. Fortunatamente esistono musicisti decisi a mantenere in vita, spesso con difficoltà, orchestre a largo organico. La prima, in ordine cronologico, fu quella che due coppie di fratelli, Mario e Claudio Corvini e Pino e Pietro Iodice decisero di formare qualche anno fa. Dopo un periodo di notevole successo, questa orchestra venne assunta in blocco dall’Auditorium di Roma dando inizio a una lunga e importante attività sotto il nome di Parco del-
la Musica Jazz Orchestra diretta dal sassofonista e arrangiatore Maurizio Giammarco, ascoltata spesso e a lungo con piacere. Oggi la casa discografica che fa capo all’Auditorium, ha pubblicato un doppio cd con 12 brani, tutti composti da elementi dell’orchestra con la sola eccezione del classico di Duke Ellington, It Don’t Mean a Thing if Ain’t Got That Swing (Non significa nulla se non c’è lo swing) in cui i ragazzi dell’orchestra dimostrano di avere quelle qualità che Ellington aveva dichiarato essere indispensabili già nel titolo della sua celebre composizione. Il disco di un’altra orchestra pubblicato recentemente dalla Anaglyphos Records è quello della siciliana Orchestra Jazz del Mediterraneo diretta per l’oc-
casione dallo stesso Maurizio Giammarco che ha composto una serie di brani ispirati ai Cieli di Sicilia - quello di Segenta, di Erice, di Bagheria, di Capaci - affidando le parti di assolo a giovani e brillanti musicisti siciliani, fra cui la tromba Dino Rubino. In una sua lettera Giammarco scriveva: «È un lavoro che rappresenta bene, io credo, certe mie attuali idee compositive; è un lavoro commissionatomi da una orchestra che si mantiene solo con le proprie forze, gesto culturale molto raro nell’attuale panorama del jazz italiano dove, come ben sai, le big band hanno vita durissima e i loro sforzi vengono regolarmente ignorati nelle manifestazioni più importanti». Accanto a queste altre orchestre, anch’esse di notevole livello su cui si dovrà ritornare, la Lydian Sound Orchestra che agisce in Veneto, la Perugia Jazz Orchestra e la St. Louis Big Band creata da insegnanti e allievi della St. Louis Music School di Roma.
arti Mostre
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di Marco Vallora
ccoci di nuovo alle prese con l’Arte Povera, su cui ci eravamo ripromessi di tornare, data l’importanza della data anniversaria (nascita celantiana, alle soglie del fatidico ’68, sull’orma del Teatro Povero di Grotowski, gemmazione dichiarata) e il fasto delle molte mostre in varie città italiane, che l’hanno vista ramificarsi al tempo, con abile politica espositiva. Una sorta di replica «minolica» delle occasioni risorgimentali sull’Unità d’Italia (Minoli è presidente del Castello di Rivoli, che Galan vorrebbe sbaraccare perché non rende) e così l’occasione celebrativa è parsa subito ghiotta, anche se può suonare un po’ paradossale e grottesca, bandistica, tutta questa retorica patriottarda, per un movimento che si voleva ed era sperimentale, appunto di «strappo linguistico». All’epoca non si diceva già più un movimento d’avanguardia, ma comunque quando l’avanguardia si celebra e «ministerizza», sappiamo bene storicamente che cosa questo significa - Breton insegni. Morte non civile, ma incivile: nelle pantofole infeltrite dell’Accademia. Sclerotizzandosi: e un poco ridicolizzandosi. Questo sta succedendo? Siamo espliciti, onde evitare equivoci. Il movimento, o gruppo, o corrente, o sommovimento, come dir si voglia, è stato forse l’ultimo autentico e grande, mondialmente, con la Pop art e il Nouveau Realisme - dopo, solo minuzie strategico-mercantili e pressoché soltanto cattiva pittura di rigurgito. Inoltre, le mostre possono anche essere bellissime, «troppo belle», levissime, curatissime, come le unghie d’una mannequin milanese o una sfilata Prada, ma però ahimé poco ferrarelle, poco «vive» e per nulla frizzanti: non
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tica, che mi pare condivisa, anche se poi diventa inevitabile «razzolare», praticamente, con meno efficacia). E per restare a Bologna, si prenda l’opera di Luciano Fabro, Pavimento. Tautologia, fogli di giornali, posizionati a terra, come per un tappeto effimero, ovviamente «rifatto» per l’occasione - probabilmente anche secondo la poetica dell’artista. Certo, l’arte è comunque tautologia duchampiana. Ma se tu ritrovi il faccione stampato di Berlusconi, gettato in copertina d’una Repubblica di poche settimane fa, con Bossi che biascica a strillo: «Io salverò il premier» e la pubblicità d’un esordio tv, che è per fortuna già passato nel dimenticatoio, e la politica è già galoppata altrove, con le Borse sempre più giù, l’opera stessa assume un’aria un po’ trasandata: depressa e calpestata. Capisco la posizione del fotografo Mussa Sartor, che ha come la felice impressione di ritrovare l’atmosfera posticcia delle «deposizioni» in terra del periodo torinese del Deposito d’Arte (earlyera Sperone-Pistoi) però, a conti fatti, quella mistura, in cui Pascali s’incontra o scontra con il finto-gelo-design di Piacentino e il legno di Ceroli con quello di Penone, alla fine proprio non funziona. Mentre se visito la mostra della Triennale a Milano, o il Castello di Rivoli, dove qualsiasi eventuale porcheria, visto il contesto, risulta inevitabilmente «bella», posso anche convenire che siano tremendamente eleganti, gelide, «riuscite», ma c’è subito in agguato, ammettiamolo, il rischio spaventoso del vetrinismo cannibale, dello show room sofisticato di design chic, o da location furba, per un ricercato film neo-antonioniano; con l’Ultima Cena frigidizzata di Fabro su magnifico sfondo à la Burri & Barnett Newman dei binari Kounellis, che così sembra la scena pronta per uno spettacolo di Castri o un catering prodigioso. E vi pare poco? Ne riparleremo.
Dopo l’Unità d’Italia… ecco l’Arte Povera
Moda
vorrei fare il Bonami, ma questo è il vero punto-problema. Non è l’inaccontentabile, irriverente punzecchiatura di zanzara, questa, del solito sputasentenze, comunque polemico. No, è un problema angosciante e vero, che non si può aggirare con un neo-accademismo di stanchezza e di ritorno, autocelebrativo: io uso semplicemente, a contrasto, le idee degli stessi artisti. Per carità, ben vengano gli scritti di ripensamento e gli utilissimi documenti restituiti, da un conoscitore come Giorgio Maffei e da Corraini editore al Mambo, questi ancora lì, belli vivi, arzilli e parlanti, sopratutto se ben giocati in un puzzle concertante, quasi si trattasse d’un’opera d’arte. Non è un discorso contro-storico, questo, anzi, è solo che la Storia bisogna sapersela giocare (non nel senso di truffare) e rivitalizzare, reinventare con un briciolo di fantasia,
se no tutto si spegne in pulizia scolastica (nel doppio senso, anche medievale) e di necro-riesumazione, che rischia di diventare asfittica. Che vuol dire questo? Che a differenza dei documenti le opere risultano morte, spente? (E non soltanto perché, per leciti motivi di conservazione, per apprezzare la grande canoa irritabile e semovente di Zorio, è necessario munirsi di pazienza e attendere un quarto d’ora, prima che si animi, gonfiandosi come un animale preistorico). No. Nature morte nel senso di aurate da un alone post-benjaminiano di sacralità devitalizzante: coroncine-corollari, quasi fossero ingranditi minimali d’un catalogo svolto en plein air, funzionali solo ai discorsi dotti dei cataloghi rivisitati? (Interessantissimo quello generale Electa, dove per esempio Maraniello scrive un testo assai sensibile a questa problema-
La seduzione in un paio di scarpe di Louboutin ll’inizio, le scarpe Suola Rossa erano un’eccentricità, un lampo che illuminava l’apparizione di una star. Ballerine fetish, veri e propri trampoli, creazioni stupefacenti, non sempre portabili. Era il 1992 quando Christian Louboutin apriva il primo negozio a Parigi. Aveva lavorato da Roger Vivier, dove era rimasto incantato dalle calzature strabilianti realizzate per l’incoronazione dello Scià Reza Pahlavi e dalle décolleté di diamanti di Marlene Dietrich. Ma la sua ispirazione viene da lontano, dalla vita notturna dei nightclub che lo distraeva dai sui doveri di studente, dalla gambe delle ballerine infilate dentro maliziosi sandali gioiello. Troppo originali per non essere notate, le Louboutin piacevano al mondo glam, ad Alexander McQueen, a Jean Paul Gaultier, a Viktor & Rolf e da lì al red carpet il passo era anche troppo facile. Oggi è difficile andare a un qualsiasi festival del cinema senza incontrare una Jessica Alba, una sofistica-
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di Roselina Salemi ta Léa Seydoux o un’Angelina Jolie sugli alti, ammiccanti grattacieli firmati Louboutin, ormai così popolari da vantare una dozzina di falsificazioni cinesi con tanto di offerte on line. L’autobiografia che pubblica con Rizzoli (Christian Louboutin, 352 pagine, 120,00 euro) è un oggetto sorprendente, è un non-libro quanto le sue sono non-scarpe, cioè oggetti del desiderio, sogni incarnati in stivaletti, fibbie e tacchi. Le foto e i bozzetti, raccontano la ricerca e la passione, la creatività e la trasgressione. Non potevano mancare perciò le fetish ballet heels disegnate in collaborazione David Lynch, ballerine costruire per tenere il piede perfettamente verticale, in bilico su un tacco di puro delirio. Gli avevano chiesto come pensava che una donna potesse camminarci su e lui aveva risposto, non senza candore: «Con queste scarpe non si può camminare, e tanto meno correre. Si può solo stare sdraiate». Ci si po-
teva aspettare un’insurrezione femminista, e invece niente. Perché Louboutin tira fuori dal profondo di ogni donna l’anima della geisha, e sappiamo ce l’hanno tutte o quasi, come dimostra la moda del burlesque ormai diffusa anche tra le casalinghe. Ovviamente Louboutin produce (in Italia, tra l’altro, a Vigevano) una collezione vendibile, fatta per ragazze che stanno in piedi, anche se non a lungo, anziché sdraiate. L’ultima è ispirata all’arte e c’è una Maddalena e la Fiamma di Georges de la Tour che sembra triste perché all’epoca le scarpe erano tutt’altro che sexy. Ma più che a Maddalena, Louboutin pensa a una certa Parigi del passato, che ha ispirato tanta letteratura e tanto cinema, a Pigalle, al Moulin Rouge e al Crazy Horse, pensa a Dita von Teese e alle seduttrici professioniste. In tempi in cui la seduzione sembra l’unico valore e l’unico reale potere, la Suola Rossa è diventata un must perché (in maniera un tantino superstiziosa) le attribuiamo il potere di far passare la sensualità dall’oggetto alla donna che lo porta. E camminiamo su un immaginario red carpet, un po’ per scherzo un po’ per somigliare alla geisha che non siamo più.
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il paginone
Fenomenologia di palazzo Mancini a Roma: immaginato da Mazzarino per il nipote in procinto di diventare anche lui cardinale, divenne “casa da rendita” del duca di Nevers, poi sede dell’Accademia degli Umoristi, dell’Accademia di Francia e, più tardi, del Banco di Sicilia. La sua storia in un pregevole libro di Claudia Conforti ra i palazzi del tratto iniziale del Corso a Roma, il palazzo Mancini è certamente il meno conosciuto (al punto che molte guide neanche ne registrano l’esistenza!), oscurato dai più celebri palazzi Doria-Pamphilj, De Carolis, Aste-Bonaparte. Anche la scarsa letteratura storica, costituita soprattutto dal volume di Armando Schiavo (1969), ricco di notizie ma scarno di valutazioni critiche e comparative, resta muta sulla consistenza architettonica dell’edificio. Eppure palazzo Mancini esibisce forme solenni: dispiega un prospetto elegantemente tripartito, dominato dall’ingresso balconato a quattro colonne libere, che ispirerà nel tempo sia il leggiadro portale centrale del Doria Pamphilj che la facciata del dirimpettaio palazzo De Carolis. Alla cadenza magniloquente del fronte sul Corso fa da sconcertante contrappunto la trascurata modestia della facciata prospettante vicolo del Piombo, dove resta incertamente definito e frastagliato il margine verso l’attiguo palazzo Chigi-Odescalchi, che affaccia su piazza santi Apostoli, occupando il fronte opposto dello stesso isolato. Alle quattro colonne libere che affiancano l’ingresso di palazzo Mancini, ergendosi orgogliosamente sul suolo pubblico, segue un atrio magniloquente, a grandi volte ribassate, perfettamente visibile dalla strada pubblica, come una scena cerimoniale predisposta per l’ingresso spettacolare delle carrozze e dei lussuosi equipaggi principeschi e cardinalizi.
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L’edificio, che nell’ultimo secolo (dal 1919) fu sede del Banco di Sicilia, confluito nel 2007 nel gruppo Unicredit, ospitò la dotta Accademia secentesca degli Umoristi, poi fu sede dell’Accademia di Francia, istituita da Luigi XIV e dal suo potenanno IV - numero 38 - pagina VIII
te ministro Colbert, per formare gli artisti francesi nella capitale del cattolicesimo e delle arti. Nonostante questi passaggi di rango, la nobile dimora del Corso è rimasta per decenni in attesa di un studio che ne illuminasse gli snodi storici, le declinazioni linguistiche e le valenze d’uso: fattori che vengono brillantemente affrontati nello studio appena pubblicato di Manolo Guerci (Il palazzo Mancini, Poligrafico e Zecca dello Stato, 309 pagine, 200,00 euro). Architetto, professore al-
Cosmopolitis chivistiche e documentarie a scala europea, necessarie per ricomporre la storia del palazzo Mancini, i cui destini edilizi e proprietari intrecciano inestricabilmente Italia e Francia. Della vastità e ricchezza della documentazione compulsata da Guerci si nutre la straordinaria compiutezza conoscitiva del libro, che contempla tutti gli aspetti che concorrono alla conoscenza di un palazzo e delle sue storie: dagli usi, funzioni, cerimoniali dispiegati nei secoli, alle committenze, alle trasformazioni fisi-
anomale vicende che hanno portato alla sua costruzione, le cui dinamiche Manolo Guerci ha riportato alla luce con un dettaglio che va ben oltre quanto conosciuto dagli studi precedenti. Dinamiche che illustrano nitidamente le molteplici ragioni sottese all’investimento immobiliare dell’aristocrazia romana, e aiutano a comprendere le linee di sviluppo della città papale in età barocca, che sono insieme sociali, economiche, simboliche, artistiche. La prima idea del palazzo venne nel 1660 al potente cardinale Giulio Mazzarino, allora stabilmente a Parigi oltre che pro-
Le anomale vicende di questo edificio situato in via del Corso, illustrano le molteplici ragioni degli investimenti immobiliari dell’aristocrazia romana. E aiutano a comprendere lo sviluppo della città papale la Kent School of Architecture, Manolo Guerci vanta una formazione europea a tutto campo: laureato a Roma Tre, ha compiuto l’Erasmus a Parigi, si è dottorato in Storia dell’Architettura a Roma e poi a Cambridge, dove ha insegnato per alcuni anni al St. Catherine College. Il cosmopolitismo accademico gli ha consentito il vaglio sistematico di fonti ar-
che, senza trascurare gli aspetti più squisitamente disciplinari inerenti la distribuzione fisica degli spazi, la natura e la qualità della costruzione e dei decori. Studi affiancati e illuminati dall’analisi e dall’interpretazione acuminate e stringenti dei disegni e delle varianti progettuali. Il motivo di maggior interesse di palazzo Mancini sta nelle
prietario del rinomato palazzo a Montecavallo, già di Scipione Borghese e oggi Rospigliosi, tanto sfarzoso da essere degno di ospitare la regina Cristina di Svezia. Mazzarino di fatto obbliga suo nipote Francesco Maria Mancini, figlio di una sorella del cardinale e aspirante egli stesso al cardinalato, a investire in un palazzo da costruire al principio del Corso, nel sito che
già allogava le case della famiglia Mancini, chiedendo il progetto all’affermato architetto Carlo Rainaldi. Oltre alla necessità di dotare il nipote di una residenza consona al suo auspicato status cardinalizio, Mazzarino intende forse anche impedire ai Chigi di estendere il loro palazzo fino al Corso, opponendogli una residenza che sarebbe stata, per la sua dimensione e la qualità signorile, difficile da espropriare sulla base delle norme fissate dalla Quae publice utilia (1574), la bolla emanata da Gregorio XIII per facilitare l’accorpamento delle unità abitative minuscole e la loro trasformazione in palazzi. Anche nella vicenda dell’origine di palazzo Mancini si configura dunque, in controluce, l’ennesimo episodio di quel conflitto, tratteggiato da Joseph Connors in un saggio memorabile, combattuto tra le famiglie aristocratiche nel tessuto urbano di Roma barocca. Quando Francesco Maria Mancini diventerà cardinale, nel 1663, la morte di Mazzarino, di due anni precedente, gli ha reso disponibile la sontuosa dimora di Montecavallo, facendo decadere l’interesse per il nuovo edificio del Corso. La proprietà di questo passa a Filippo Giuliano, duca di Nevers, nipote del cardinal Mancini, il quale però non
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Le decorazioni della trabeazione sommitale di palazzo Mancini a via del Corso a Roma, con gli amorini che reggono in mano i fasci araldici dei Mazzarino-Mancini, e il palazzo in due stampe d’epoca. In basso, il cardinal Mazzarino, antiche vedute di Roma in un’Accademia d’arte e uno scorcio della facciata
smo barocco ha né mezzi né interesse di costruire, tanto che nel 1674 a Roma corrono voci sulla vendita delle case Mancini proprio ai Chigi. Per qualche ragione, che Guerci ritiene legata al mantenimento della sede dell’Accademia degli Umoristi nelle proprietà Mancini, la vendita non va in porto. Anzi, nel 1688 Filippo Giuliano decide di investire nel nuovo palazzo, secondo un progetto che Guerci ritiene, con motivate e convincenti argomentazioni, prefigurato da Sebastiano Cipriani, architetto che avrebbe fuso le originarie proposte di Rainaldi con ulteriori ipotesi ascrivibili a Giovanni Battista Contini e a Carlo Fontana. Il concorso di diversi architetti nel progetto di un palazzo non deve stupire, ed era anzi a Roma una consuetudine addirittura secolare, ritrovandosi negli imponenti cantieri secenteschi dei Borghese, dei Barberini, dei Pamphilj. D’altro canto, come dimostra lucidamente lo studio di Guerci, le scelte tipologiche di un palazzo sono determinate assai più dalle necessità della committenza che dall’estro dei singoli architetti.
Il palazzo del duca di Nevers non è più dunque quello vagheggiato da Mazzarino: non deve attestarsi come dimora rappresentativa dei Mancini,
che non annoverano altri cardinali, ma diventa un mero investimento immobiliare da destinare al fitto: una «casa da rendita» che metta in valore in primo luogo i pregi dell’affaccio sul Corso. Le maggiori risorse vengono perciò spese nel prospetto, scandito da ben tredici
che si svolgevano periodicamente nella vivissima strada cittadina. Il balcone colonnato è tanto più notevole in quanto costringe la committenza a ottenere la difficile e onerosa licenza di occupare il suolo pubblico; è evidente che con esso i Mancini volevano emulare - e anche superare - lo splendido portale-loggia di palazzo Sciarra Colonna Carbognano, poco distante. L’importanza del fronte sul Corso è ancor più sottolineata dall’apparato decorativo plastico, che culmina nella squisita trabeazione sommitale, popolata di festosi amorini che si affacciano tra i morbidi modi-
stintivi dell’innovazione barocca romana. A fronte di questa ricchezza del prospetto sul Corso, gli interni risultano invece trascurati dal committente, che non intende spenderci del suo, dato che l’edificio servirà ad altri: non solo Filippo Giuliano non provvede a una consona decorazione delle sale, ma lo stesso impianto del palazzo tradisce lo scarso interesse del duca. Così il cortile rimane informe, a dispetto dell’elegante soluzione prospettata dagli architetti, e neppure si tenta di dargli un qualche allestimento monumentale; non si assesta un sito consono e defilato per le stalle e le rimesse: e la scala, cardine cerimoniale del palazzo barocco, viene realizzata a due rampe semplici, rinunciando al più prestigioso scalone quadrato proposto da Fontana su esempio di palazzo Barberini. Questione a parte sono le botteghe al piano terra. Non previste nel primo disegno del 1660 di Rainaldi, esse sono contemplate nella licenza, necessaria per procedere ai lavori, concessa dai Maestri di Strada nel 1688; tuttavia non risultano nell’edificio costruito. Anche se - come sostiene Guerci - la loro eliminazione è presumibilmente prodotto di un successivo adattamento. Le botteghe, inaccettabili in un coevo palazzo aristocratico fiorentino o lombardo, non sono rare invece nei palazzi cardinalizi romani: lo stesso palazzo Farnese in una prima ipotesi, quando il committente non era ancora salito al soglio papale, prevedeva botteghe al piano terra. Nel caso Mancini l’opzione delle botteghe si giustifica sia con i notevoli introiti garantiti dalla localizzazione sull’asse viario più frequentato della città, sia dal fatto che, come si è detto, il palazzo non era destinato alla residenza dei
Furono in diversi a lavorare al progetto, com’era consuetudine e come avvenne per altre celebri dimore. Del resto le scelte erano determinate assai più dalla committenza che dall’estro degli architetti assi di finestre (quante palazzo Farnese!), tutte significativamente dotate di balaustre, e tre ampi balconi, di cui quello centrale su quattro colonne monolitiche di travertino: questi dispositivi di affaccio, così estesi e costosi, hanno lo scopo di consentire agli abitanti del palazzo e ai loro ospiti di partecipare vistosamente agli eventi festivi e alle cerimonie sociali
glioni, con in mano i fasci araldici dei Mazzarino-Mancini. Guerci ricostruisce con meticolosità la genealogia di ogni elemento formale della facciata, retrocedendo al secolo precedente con un’analisi densa e serrata, volta ad asserire quelle catene di continuità (iconografiche, professionali e simboliche) che l’autore riconosce implicitamente tra i caratteri di-
maggiori membri della famiglia. Nel giro di pochi anni tuttavia le botteghe, che non sono registrate probabilmente per ragioni di decoro nella stampa di Alessandro Specchi, edita nel 1699 ma forse incisa nel 1695, saranno tamponate. È possibile che tale modifica sia introdotta dai locatari del palazzo, forse dal cardinale fiorentino Niccolò Acciaiuoli, che
vi risiede come locatario dal 1695 al 1719. Lo scarso interesse della famiglia Mancini verso il palazzo è anche all’origine della sua rapida dismissione: dopo la locazione a personaggi di alto rango (il duca Antonio Maria Salviati, il cardinal Nuño da Cunha e Ataíde), palazzo Mancini dato in fitto dall’Accademia Reale di Francia, è infine acquistato nel 1737 da Luigi XV. Ha così inizio il periodo culturalmente più vivace del palazzo, che ne comporterà il riallestimento degli interni, trasformati in un atelier multiplo, brulicante di giovani artisti. La breve e felice vita come Accademia Reale s’interromperà nel 1798, quando il palazzo subisce il saccheggio delle truppe napoletane e del popolino romano. Nel 1818 palazzo Mancini è infine permutato dalla Francia con villa Medici, vicina al convento dei Minimi francesi di Trinità dei Monti: lì la gloriosa Accademia (non più Reale) di Francia troverà una sede più ariosa, e soprattutto riparata dai seducenti clamori della vita cittadina.
Le vicende successive, che porteranno all’acquisizione nel 1919 del Banco di Sicilia, sono ricostruite da Guerci con una cura storiografica non inferiore a quella dedicata agli eventi dei secoli XVII e XVIII. Anche per questo aspetto il libro si distingue da grande parte della pubblicistica corrente, che privilegia lo studio dei momenti apicali degli edifici in oggetto, lasciando in ombra fasi ritenute sussidiarie o di transizione. Il volume si segnala anche per gli accurati ed estesi apparati documentari e bibliografici, frutto di appassionate ricerche compiute da Guerci in archivi pubblici e privati e in biblioteche di tutta Europa. Il cosmopolitismo che ha contrassegnato la storia di palazzo Mancini ha trovato pertanto un fecondo (e non casuale) rispecchiamento nell’attitudine culturale dell’autore, la cui formazione è triangolata su Roma, Parigi e Londra, dove ora risiede e insegna.
Narrativa
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rima di tutto, prima del commento al romanzo di Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambia, c’è la lingua, l’impasto duro e colloso di una lingua perfetta e controllata, avvinghiata alla lingua madre, il dialetto napoletano. Un impasto ruvido e osceno tipico anche di una certa borghesia napoletana che mescola senza sforzo il basso con l’alto, il popolare con il colto. La lingua usata nel romanzo e il linguaggio forgiato da Starnone non sono un fatto secondario per la storia del protagonista e io narrante. La densità e la crudezza sono una cifra stilistica certo, ma sono anche lo strumento necessario, e non eludibile, di decifrazione del mondo erotico rappresentato dal protagonista. Ma la lingua madre usata e ricercata dallo scrittore di Via Gemito è anche uno strumento sempre più affilato per tornare alla culla di quel parlare, alle proprie origini. Starnone ha con quest’ultimo romanzo ancora una volta compiuto una tappa di avvicinamento della sua amata Napoli. La lingua con il suo suono, la sua violenta forza espressiva, il suo colore rude e pesante è protagonista ancor prima della storia che quasi si fa spazio dentro la selva dei significanti e delle espressioni, un linguaggio senza retoriche e filtri, senza pudori, senza alcuna metafora che attutisca o allontani il pensiero dalla cosa in sé, e la cosa in sé, il fatto nominato e scavato fino a diventare storia è il rapporto di nevrosi e necessità che si crea tra le due parti anatomiche e sessuali degli uomini e delle donne che si incontrano per necessità e caso e
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Autostorie
libri Domenico Starnone AUTOBIOGRAFIA EROTICA DI ARISTIDE GAMBIA Einaudi, 456 pagine, 20,00 euro
Eros e
Napoli Il linguaggio impastato di dialetto è la cifra stilistica del nuovo romanzo di Starnone. Dove si narra di Aristide Gambia e le donne di Maria Pia Ammirati
che sono certo un punto centrale della storia narrata da Gambia. «Rimpiange di non aver mai veramente ecceduto... di non aver mai confuse cazzi e fiche e buchi di culo e bocche e lingue e bave e sperma e sangue, smarrendo l’orientamento sessuale». Gambia ha 58 anni, è un uomo maturo colto e con un buon lavoro. Una famiglia complessa cresciuta sul desiderio di scoprire l’universo femminile e scappare dalla noia della routine matrimoniale. Al punto che Gambia si trova con tre mogli e 4 figli, e una relazione stabile con una donna quasi coetanea. Gambia è un uomo che ama il sesso senza esserne ingordo, sa che il sesso ha governato molta parte della sua vita e che è stato un grande strumento di conoscenza del mondo (oltre che delle donne). In questa età della maturità accade che Gambia, per un casuale intreccio, ritrovi una donna conosciuta da giovane che con uno strano e perfido meccanismo, lo richiama a un episodio preciso del primo e unico incontro e poi lo attragga in una sorta di racconto a due a sfondo erotico. Il personaggio si trova schiacciato e subornato dalla personalità di Mirella, dal suo linguaggio esplicito e provocante, dal peso dell’eros che pensava di aver addomesticato e che invece viene fuori nella sua oscenità attraverso una donna che lo attrae col suo enigmatico racconto. Un eros senza velature, tecnico, modulare, con un crescendo di passionalità. E qui entra l’analisi sul gioco narrativo di un testo complesso, fortemente strutturato com’è nelle corde di Domenico Starnone, fatto di racconti infilati uno dentro l’altro, di storie che vanno per accrescimento. Un metodo che sfugge il rischio proprio del testo erotico che per sua natura tende a costruire vere e proprie isole di eros esplicito, trascurando tutto il resto, e trattandolo, il più delle volte, come forma di narrazione connettiva. In una materia così sdrucciolevole lo scrittore napoletano ci consegna invece un libro coraggioso e poetico, nuovo per l’universo letterario erotico.
Quella Buick Riviera tra Toledo e Portland
arà una violenta nevicata primaverile a causare, sulle strade dell’Oregon tra Toledo e Portland, un banale incidente. Risoltosi senza particolari problemi, né per la vettura né per il conducente e con la sbandata in un fossato laterale poco profondo. Ma che segnerà una netta svolta nella vita del proprietario, precipitandola in un drammatico vortice. Come ci racconta, in un altro testo della sua singolare «trilogia della macchina», il romanziere bosniaco Miljenko Jergovi\u0107; abile nell’intessere trame delle quali l’automobile è punto focale. Così avviene sin dall’incipit di un libro (Buick Riviera, libri Scheiwiller, 174 pagine, 14,00 euro) che racconta come «già da due ore Hasan Hujdur era impegnato a liberare l’automobile dalla neve e dal ghiaccio. Se qualcuno lo avesse visto, avrebbe giurato che quest’uomo amava la sua Buick Riviera argentata, prima serie del 1963, più di quanto un uomo ama di solito la propria auto, che probabilmente non aveva figli e che, quasi di sicuro, non era originario dell’Oregon». Giusto identikit di un uomo che la professione di cameraman aveva spinto, vent’anni prima, dalla nativa Bosnia agli
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di Paolo Malagodi Stati Uniti, dove aveva dovuto «fare centinaia di lavori diversi prima che qualcuno si convincesse che egli era davvero un cameraman, ed era infine arrivato a Toledo, Oregon, dove si era trovata davanti la Buick Riviera scintillante al sole d’argento, tanto da far male agli occhi a guardarla». L’acquisto è immediato e da quel giorno, per il nuovo proprietario, «la Buick Riviera divenne il suo luogo di raccoglimento; devoti l’uno all’altra, l’uomo e l’automobile si scambiavano ciò che una persona non potrà mai offrire a un’altra. Solo i cani lasciati dai padroni ad aspettare fuori dal supermercato potrebbero capire. Questo sentimento non lo proveranno mai i possessori di macchine nuove, né coloro che continuano a sognarle». Tuttavia l’uso di una vettura tanto avida di benzina provoca litigi tra Hasan e la moglie Angela, attrice di origine tedesca, che vorrebbe rottamare la vecchia auto. Ma, osserva il protagonista, «è uno degli spettacoli più crudeli della modernità: un cimitero di automobili, nel quale le varie Buick, Chevrolet e Ca-
L’amore per una macchina con esiti sorprendenti nel nuovo capitolo della trilogia di Miljenko Jergovic
dillac aspettano di essere afferrate dalle ganasce di una gru per essere poi trasformate in un cubo di Rubik fatto di vetri e lamiere». Per arrivare a concludere, rispetto alle obiezioni della moglie, che «non mi importa di nessuna automobile, ma per la Buick Riviera potrei ucciderla. Guadagnerò e lei capirà che ventidue litri per cento chilometri non sono la cosa più costosa al mondo». Riflessioni interrotte da una banale sbandata sotto la neve e il caso vuole che a fermarsi per i soccorsi sia Vuko \u0160alipur, in fuga come criminale di guerra da Sarajevo e scampato con notevole fortuna a condanne e carcere. Dal singolare incontro è un succedersi di un crescendo di equivoci e situazioni drammaticamente grottesche che portano, tra l’altro, al passaggio a Vuko delle chiavi della Buick Riviera e all’enigmatica scomparsa del precedente proprietario. Di una vettura «che - come narrano le righe conclusive del romanzo - giace sul bordo della strada, a metà strada tra Toledo e Portland. Nei giorni annuvolati sembra una carcassa morta, ma appena spunta il sole il suo corpo s’illumina d’argento, scintillando al punto che i passeggeri degli autobus, abbagliati, devono girare la testa altrove e a quelli curiosi, invece, che la fissano troppo a lungo, scendono le lacrime».
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Storia
di Riccardo Paradisi
ino a qualche anno fa, prima che s’imponesse la vulgata delle annales, la storia che s’insegnava nelle scuole era quella delle grandi battaglie, la cronologia delle guerre e degli urti tra dinastie, imperi e continenti. Che cos’altro è la storia se non un grande campo di battaglia, diceva Napoleone Bonaparte. Solo che il grande còrso era un generale e si sa che ognuno vede il mondo e la storia dal suo angolo visuale. Sì certo, la storia è un immenso fiume in piena di lacrime e di sangue, ma nondimeno ogni guerra ha mosso da un ordine e ne ha maturato uno nuovo, è agente di rottura d’uno status quo in vista della ricomposizione d’una nuova pace. Si combatte mirando alla costruzione di un assetto territoriale, sociale o economico che si presume migliore del precedente. Insomma come fa Sergio Valzania nel suo Fare la pace, la storia può essere raccontata anche attraverso i periodi di pace di cui è costellata e le varie culture ordinatrici che la pace hanno garantito per lunghi archi temporali. Nella storia dell’umanità del resto «la guerra e la pace si intrecciano come la trama e l’ordito di una pezza di stoffa; dal modo in cui gli eventi vengono raccontati emerge però l’impressione che esse abbiano due nature diverse: sembra che alla prima appartengono i caratteri del momento fattivo decisionale persino eroico mentre alla seconda rimarrebbe una condizione residuale». Solo che così rappresentata la pace risulta come un vuoto, l’assenza del momento dinamico della guerra. E invece le grandi culture storiche hanno sempre lavorato in vista d’un ordine pacifico, hanno sempre teso, ognuna dal suo angolo visuale, verso questo ordine regolativo, una meta tanto agognata e ritenuta preziosa che per conquistarla o difenderla, per paradosso, si è anche ricorsi alla guerra. Dalla pace greca - sempre in equilibrio tra le tensioni e le divisioni della koinè - a quella romana, fondata sulla spada e su una spietata egemonia politica e tributaria, oltre i cui confini normati dal diritto però, immensi durante l’acme dell’impero, v’era solo la barbarie della legge del più forte. Fino al medioevo cristiano, là dove sono le radici di questa Europa che oggi ha dimenticato se stessa. Pur essendo un’epoca di guerre e guerrieri, di conflitti capillari e permanenti, pure il Medioevo «sa produrre un’ideale di comunità umana solidale difficilmente raggiunto in seguito». Tanto che durerà per sempre «il rimpianto per il consorzio del corpus christianorum». Fino a quando esso sembrerà sul punto di realizzarsi veramente con Carlo V, il cui impero rappresenta una novità radicale nella storia europea, un’inversione della tendenza alla frantumazione del corpo unitario della cristianità a favore di realtà locali con autonomie sempre maggiori… «Sette secoli dopo Carlo Magno è la pacifica politica matrimoniale asburgica e non una sequenza di campagne militari a riunire in una sola persona una concentrazione di potere tale da giustificare la pretesa alla supremazia su tutto il continente». La cavalcata di Valzania procede con l’analisi di quel capolavoro politico diplo-
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Raccontare l’Europa attraverso la pace Dall’antica Grecia al Novecento, Sergio Valzania dimostra come ogni guerra non sia che il mezzo per raggiungere un nuovo ordine pacifico
matico che è stata la pace di Westfalia del 24 ottobre 1648 per arrivare a quella delle monarchie assolute fino alla restaurazione post-napoleonica del con-
Autori
gresso di Vienna del 1814-1815 che però non riesce a porre che un debole argine all’instabilità territoriale e istituzionale all’Europa post-napoleonica. «L’assetto
disegnato e posto in essere con la forza delle armi vincitrici entra in una crisi definitiva a cinquant’anni appena dalla sua conclusione. La crisi si risolse con la creazione di nuovi Stati nazionali che però è esattamente ciò che il congresso avrebbe dovuto impedire». Sarà l’esasperazione e la degenerazione dei nazionalismi a produrre l’innesco delle deflagrazioni della prima e della seconda guerra mondiale. Che giustamente Valzania descrive come guerre civili europee che segnano l’eclisse dell’ecumene europea e della sua egemonia culturale e politica. Un baricentro che deve essere recuperato considerando che in questa parte di mondo una cultura della pace e del diritto ha avuto luce e dignità d’esistenza e si è incarnata nelle coscienze grazie all’avvento del cristianesimo. L’avvenimento sul quale solo è possibile per gli uomini fondare una pace duratura e profonda. La Filadelfia che è l’ideale regolativo di ogni persona civile. E umana. Sergio Valzania, Fare la pace. Vincitori e vinti in Europa, Salerno editrice,134 pagine, 12,00 euro
Alice Munro e l’arte delle short stories di Pier Mario Fasanotti e uno scrittore italiano propone al suo editore una raccolta di racconti, saprebbe già di andare incontro a un rifiuto, o comunque a una smorfia di disappunto. Per fortuna «importiamo» racconti di stranieri, ben consapevoli che l’Italia non potrà mai essere terreno fertile per un Cechov. Tra i due o tre migliori autori al mondo di short story c’è indubbiamente da collocare la canadese Alice Munro, la quale in questa nuova antologia Troppa felicità dimostra ancora una volta - se ce ne fosse proprio bisogno - di padroneggiare la tecnica del cortometraggio. Uso questo termine filmistico per evidenziare la differenza che passa tra la sua prosa e quella, per esempio, di Raymond Carver. Se la canadese (nata nell’Ontario) comprime la narrazione senza rinunciare al gusto del dettaglio, l’americano invece procede attraverso istantanee. Ogni vicenda della Munro è un romanzo «schiacciato», che tuttavia non appare deforme o in qualche maniera mutilato. Le sue storie danzano su un terreno tellurico: certi legami in apparenza stabili si ribaltano, si modificano proprio per un movimento di un’invisibile faglia sotterranea. Ha ragione Susanna Basso che nella presentazione afferma che l’autrice «gioca con le sue
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storie da sempre; getta sulla pagina posti, alberi, situazioni e donne, cucine, abiti e animali, e con mano ferma se li riprende, li riordina provvisoriamente dentro la storia successiva, di raccolta in raccolta». Talvolta, occorre dire, la Munro pare inseguire solo il suo gioco a incastro, e allora il lettore deve riempire i vuoti, immaginare le fasi terminali di uno o più accadimenti. Nel intitolato racconto Certe donne Alice Munro descrive il primo impiego di una giovane donna, chiamata a fare da badante a Bruce Crozier, malato di leucemia dopo essere stato pilota di guerra. L’interno familiare propone, in forma diretta ma anche indiretta, svariate dinamiche, compresa quella che riguarda l’infermiera e massaggiatrice Roxanne: un’impicciona allegra e leziosa che impone il suo sgangherato umorismo e la sua abissale ignoranza al paziente. E lui, mister Crozier, uomo colto, come reagisce? Ce lo spiega la Munro attraverso le considerazioni della giovane badante: «Gli faceva piacere che lei non sapesse. Ne ero sicura. L’ignoranza di lei risvegliava un piacere che si fondeva sopra la lingua come un avanzo di caramella al latte». Roxanne, «scurrile ma adorabile», è una che insiste. Anche nel dimenare il suo statuario fondoschiena. Ma Cro-
La passione per il gioco a incastro della scrittrice canadese si ritrova in “Troppa felicità”
zier farà un patto segreto con la giovane, volendo così stabilire un legame privatissimo sia con la morte sia con la moglie Sylvia. Alice Munro salta a piè pari interi decenni. La ragazza che assecondò l’ex pilota morente racconta per brevi cenni il corso della sua esistenza: «Io sono diventata adulta, e poi vecchia». Un salto temporale lo si riscontra anche nella storia breve intitolata Racconti. Joyce, insegnante di musica, e Jon, falegname, vivono in una casetta in mezzo ai boschi. La routine di opaco eliquibrio si spezza con l’entrata in scena di Edie, ragazza tatuata che fa da aiutante, ex alcolista, madre di una bambina. Jon se ne innamora. E Joyce? «Non c’è modo di considerare il fenomeno come probabile o anche solo possibile, a meno di concepirlo come una folgorazione, una calamità improvvisa. La mazzata del destino che fa di un uomo un invalido, lo scherzo crudele che trasforma occhi limpidi in sassi ciechi». Viene tentata una mediazione, solo attraverso sguardi e pochie parole: «Ne verremo fuori fra noi»; «Non c’è nessun noi». Un ribaltamento. Così radicale che Joyce si tufferà in un ambiente completamente diverso, dove però troverà tracce della sua prima fase di vita. Alice Munro, Troppa felicità, Einaudi, 327 pagine, 20,00 euro
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di Francesco Arturo Saponaro uest’anno ha già diviso con Pappano il podio dell’orchestra di Santa Cecilia, nell’esecuzione delle sinfonie di Gustav Mahler, a cent’anni dalla morte. Ma questa volta Valery Gergiev, il direttore russo, viene con la «sua» orchestra, quella del Teatro Mariinskij di Pietroburgo, tutti invitati nei panni di artisti in residenza, da mercoledì 9 a venerdì 11 novembre. E così completerà il ciclo mahleriano con la compagine ospite, aggiungendo anche la Sinfonia n.° 7 con l’orchestra di Santa Cecilia, da sabato 12 a martedì 15 novembre. Nato a Mosca nel 1953 da genitori osseti, in Ossezia Gergiev si segnala precocemente per l’ingegno straordinario, e corona i suoi studi nell’allora Leningrado con il mitico Ilya Musin, che ha formato alla direzione d’orchestra diversi talenti russi. Dalla fine degli anni Ottanta inizia la sua ascesa internazionale, e nel successivo decennio il governo, con la carica di direttore artistico e generale, gli delega l’assoluto controllo musicale e amministrativo del Teatro Mariinskij. Controllo che Gergiev, dal carattere freddo e accentratore, sempre mirando a un altissimo livello di qualità musicale ha da subito orientato in direzione del business e dello star system, in stretto collegamento con le major discografiche. Intanto nella prima serata romana, prima di chiudere il cerchio mahleriano, gli ospiti russi eseguiranno in forma di concerto il capolavoro teatrale di Cajkovskij, l’Evgenij Oneghin. Ispirata al testo di Puskin, l’opera di Cajkovskij abbrevia e adatta l’originale con molte omissioni e alcune interpolazioni. Non a caso il compositore sottotitola il suo lavoro
Q
Televisione
Classica Il senso di Gergiev per Cajkovskij MobyDICK
non come opera, ma come «scene liriche»: «…Non mi faccio illusioni, so benissimo che ci sono ben pochi effetti scenici, ben poco movimento. Ma la ricchezza lirica, l’umanità, la semplicità della trama insieme alla genialità del testo sopperiscono a queste manchevolezze». Per di più, consapevole
spettacoli
della distanza della sua creatura dalla grandiosità spettacolare allora in voga nei Teatri Imperiali, il musicista decide di non affidarla al Bolsoj, ma di curarne personalmente la messa in scena con gli allievi del Conservatorio di Mosca, nel 1879. E da subito s’impongono proprio la straordinaria intensità, e la
delicata, spontanea dimensione psicologica della partitura. La raffinata omogeneità stilistica, l’accorta concatenazione drammaturgica di episodi a solo e d’insieme, e insomma la capacità musicale di rendere il tessuto sociale e ideologico di un’epoca, permettono all’Oneghin di Cajkovskij di raggiungere l’esito già attinto a suo tempo dal romanzo di Puskin: trasmettere, questa volta sul piano musicale, il sentimento interiore e gli atteggiamenti di una generazione. Tat’jana spontanea e appassionata, ma poi inflessibile e ferma nelle successive scelte esistenziali; Onieghin inquieto, fragile, incapace di amare, immaturo. Due volti della società russa del primo Ottocento: da un lato un’etica severa e rigida nei confronti dell’insicurezza e dei dubbi esistenziali, dall’altro l’apatia e la depressione, in un’indolenza emblematica della gioventù dell’epoca. Dalla seconda serata, Gergiev si ripropone al pubblico nell’universo sinfonico di Mahler, che da tempo ormai attira molte sue energie. Giovedì 10 è la volta della Terza Sinfonia. Pagina di dimensioni imponenti, compiuta nel 1896 dopo quattro anni di intermittente lavoro, la Terza conduce il compositore alle soglie della maturità, consolidando alcuni stilemi espressivi che in seguito rimangono tra gli aspetti fondamentali e più tipici del linguaggio mahleriano. Il concerto successivo propone dapprima l’Adagio della Decima, unico episodio definito di una pagina incompiuta, e poi prosegue nello struggente, prismatico itinerario della Quarta Sinfonia. E infine con l’orchestra ceciliana sarà la Settima, una delle meno eseguite, a suggellare l’intero ciclo.
Troppo “spread” tra Gabriel Garko e Kate Winslet sce da un’auto nera che, se vista dall’alto, somiglia a quella di Diabolik. Indossa, quasi sempre, un lungo soprabito scuro, tipo quello di Keanu Reeves in Matrix. Entra nel commissariato e afferra subito il bandolo della matassa di un caso cruento e complicato. Lui è l’ispettore Roberto Parisi, e se ne frega d’essere un subordinato del commissario (si odiano per questioni di corna). Poche parole per tutta la serie (Viso d’angelo, Canale 5, prima serata), soltanto sguardi, ovviamente intensi (nelle intenzioni), mezzi sorrisi quando le donne se le trova nel letto, un trauma sentimentale alle spalle così da apparire tormentato e ancora più tenebroso. Ecco, questo è Gabriel Garko, ex modello al quale qualcuno ha suggerito di fare l’attore. E lui lo fa mostrando pettorali da palestra, scostandosi le ciocche di capelli e poco altro. È questa la risposta italiana ai thriller americani, francesi o scandinavi? Pare di sì. Allora siamo fritti.
E
di Pier Mario Fasanotti Viso d’angelo, con sceneggiatura di Manuela Romano e Teodosio Losito, apre un genere nuovo (si fa per dire), ossia quello della soap-religioso-poliziesca ispirata ai film e alle atmosfere di Dario Argento. Risultato: un fumetto. Tutto quello che deve fare paura rischia di fare ridere, a parte i cadaveri di donne con un rosario tra le dita. Memorabile una frase di Pablo Picasso: «Chi copia è un genio, chi imita è un cretino». La frecciata del pittore vale per molte serie tv italiane. Si salvano quelle che, invece di un copione raffazzonato e pieno di suggestioni, hanno dietro un romanzo, e magari sceneggiato da professionisti veri (tipo il Maigret rivisto da Camilleri, per la Rai d’un tempo). Si salvano anche quelle che si affidano ad attori bravi. Qualche nome: Luca Zingaretti, Diego Abatantuono, Virna Lisi, Elena Sofia Ricci, Claudio Amendola (ricordate I Cesaro-
ni?), Vittoria Puccini, Veronica Pivetti, Gigi Proietti, Amanda Sandrelli, Alessandro Preziosi (già poliziotto in episodi tratti dai romanzi di Carlo Lucarelli e tra poco protagonista di una nuova serie tv). E altri: ci scusiamo per inevitabili dimenticanze. Recentemente alcuni attori americani hanno detto che la tv è una grande occasione per artisti abituati ai film. Sacrosanto. E allora perché non cavalcare questa formula? Abbiamo apprezzato, su Sky-Cinema 1, l’interpretazione di Kate Winslet negli episodi di Mildred Pierce, ambientato negli anni Quaran-
ta con un’attenzione esemplare ai particolari. Sia Kate che i co-protagonisti sono impeccabili come attori. C’è un elemento che ha decretato il successo della serie, a parte l’ottima regia e l’ottima interpretazione di Kate and company: il tema è stato tratto da un romanzo di James M. Cain, che esplora da vero romanziere i vizi e le speranze della borghesia anni Trenta-Quaranta, a Los Angeles. Non è da poco. Alla Rai e a Mediaset arrivano centinaia di soggetti. Mi hanno detto che si assomigliano tutti, che ogni autore si butta sulla scia del «già visto». Perché allora evitare l’imbarazzo di scegliere tra i raccomandati e chiedere lavori a scrittori di professione? Ce ne sono. Ignorarli significa rischiare la stessa crisi del teatro che, se non c’è Shakespeare o Pirandello, sovente manca di un’impalcatura narrativa.
MobyDICK
Cinema
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di Anselma Dell’Olio
ircola l’opinione che il Festival internazionale del film di Roma non dovrebbe avere un concorso; sarebbe meglio se fosse un grande contenitore con un solo premio, quello del pubblico, come Toronto. Ma il Marc’Aurelio d’oro c’è, e non ci dispiace. Delle tre opere targate Italia in concorso, il preferito è Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati, titolo che sembrava irritante, dolciastro e passatista. Invece segna il ritorno dell’Avati magistrale, quello di Il cuore altrove (indimenticabile il ballo delle cieche) e La seconda notte di nozze (con la scoperta di Katia Ricciarelli attrice di qualità) per parlare solo dei più recenti. Il nuovo film è ambientato in una cittadina dell’Italia centrale in mezzo alla campagna. I protagonisti sono due famiglie, i mezzadri Vegetti e gli Osti, proprietari terrieri con tre figlie. Maria e Amabile sono trentenni prive di corteggiatori da sempre, mentre la più giovane e sfiziosa Francesca (Micaela Ramazzotti) è ancora in collegio in città. I Vegetti, in ansia per il rinnovo del contratto di mezzadria e relative condizioni, offrono il figlio sciupafemmine Carlino (esordio da attore del cantante Cesare Cremonini) come marito di una delle figlie grandi. Sisto e Rosalia Osti accettano, pur di dare una sistemazione ad almeno una delle «zitelle». Carlino ha un mese di tempo per scegliere tra le due, con regolari visite serali, per lui interminabili, di un’ora esatta. All’improvviso torna a casa la più piccola; e tra Francesca e Carlino è amore fulminante, irrefrenabile, con grande scorno dei padroni, frustrati sia perché le maggiori restano sul groppone, sia perché sfuma la prospettiva di selezionare il partito socialmente conveniente per la mano della più appetitosa. Situazioni e dialoghi colgono la vita in volo, ruspanti, esilaranti e tonici come una spruzzata di lambrusco gelato in pieno viso. Sisto è Gianni Cavina, veterano di una ventina di film avatiani; con ogni personaggio si fa riscoprire, da caratterista o protagonista, come uno dei migliori attori della nutrita scuderia nazionale. Manuela Morabito è in stato di grazia come la tosta seconda moglie romanaccia del padrone. Rosalia brandisce come un corpo contundente la sua maggiore urbanità da cittadina della Capitale (o quasi) finita in mezzo a rozzi campagnoli poco amici d’acqua e sapone. È ripagata a tono, quando dice al marito che puzza mentre si coricano; lui risponde lapidario e brutale: «Sopporta». Cremonini, ex leader dei LunaPop, è una scoperta nel ruolo dello sposo mandrillo che non resiste alle donne, costretto ad aspettare troppo a lungo per i suoi diritti d’alcova. Gisella Sofio, la spassosa, acida suocera di Rosalia, Sydne Rome (ben tornata), la zia tedesca ex prostituta di bordello, danno vita a ritratti-gioiello da non perdere.
C
Il mio domani di Marina Spada era il primo film italiano in concorso e il primo film d’essai in programma. Una caratteristica del festival 2011 sono la pletora di film che divertono il pubblico normale; si ha voglia di vedere come vanno a finire. La seconda caratteristica sono la prevalenza di ladies, come protagoniste o registe, come segnala il direttore artistico Piera Detassis, neo-femminista spiritosa. Questo film appartiene alla seconda categoria più che alla prima, con la storia di una donna che cerca se stessa. La milanese Spada era a Venezia con il suo secondo film narrativo Come l’ombra (Giornate degli Autori, 2006) e con il documentario Poesia che mi guardi (2009), sul poeta Antonia Pozzi. Il mio domani s’ispira alla tradizione dei tempi meditativi del film d’autore, con la fiducia che gli spettatori accetteranno di approfondire la storia raccontata con pacatezza, tra conversazioni criptiche, silenzi e inquietudini. C’è un’accumulazione lenta d’informazioni, mirata a comporre il puzzle di un’esistenza, i pezzi che la compongono. Claudia Gerini, per la prima volta in un ruolo drammatico da prima donna, è Monica, una donna affrancata dalla vita contadina della bassa padana delle origini. È salita sulla scala sociale, una manager in superficie appagata. Lavora in un’azienda strutturata come consulente filosofica. Le sue lezioni per i «quadri» aziendali parlano di vuoti e di pieni, d’opportunità e di orizzonti, di possibilità: orientalieg-
Il tocco magico di Pupi Avati
gianti. È elegante, vive in un decoroso appartamento e ha un rapporto sentimentale ma non proprio caloroso con il suo capo. Tutti gli elementi della vita che si è costruita sono all’insegna della correttezza, dell’appropriato, dell’urbano, avvolti però in un gelo affettivo, isolante. Va spesso a trovare suo padre (Raffaele Pisu), un anziano contadino che cura il suo orto e prega. È un uomo stoltamente religioso: ascolta Radio Maria, recita il rosario e frequenta chiese e liturgie. È descritto nelle recensioni del festival come un beghino ignorante.
La maestria del regista bolognese si riaccende nel “Cuore grande delle ragazze”, in concorso al Festival di Roma. È tonico e vitale come uno spruzzo di lambrusco gelato. Nel “Mio domani” di Marina Spada tutto è di qualità anche se sembra un film d’antan, più adatto agli anni Sessanta
In questo senso il film di Marina Spasa è antico, quasi d’altri tempi, quelli in cui l’incomunicabilità era d’avanguardia, come l’allora fresca convinzione che i credenti fossero moralmente ciechi, sordi, ipocriti. La mamma di Monica era fuggita con un altro uomo, prima in Germania, poi in Grecia, quando lei era ancora piccola. La mamma, ragazza di campagna, non aveva mai viaggiato. Era partita per l’avventura per viaggiare, il suo sogno che finisce in incubo, in fallimento. Era seguito un ritorno in patria da sola, con un’altra figlia da crescere in solitudine. Alla fine muore tra stenti e difficoltà; il marito baciapile è incapace di perdono, di pietas. Si fa viva in un momento di panico la sorellastra Simona (Claudia Coli), risentita per la promozione sociale e professionale di Monica, che ha forti sensi di colpa, seppure infondati. Fa di tutto per aiutare il nipote Roberto, ragazzo fragile, timido, appassionato dei romanzi di Tolkien e di Gandalf, il mago del Signore degli anelli con cui si identifica. Monica segue un corso di fotografia (allarme metafora) dove incontra Lorenzo (Lino Guanciale), un ragazzo belloccio con il quale ha un rapporto d’evasione, solo fisico, mentre lui vorrebbe qualcosa di più caloroso. D’un tratto o quasi, gli elementi della sua vita che sembravano stabili subiscono uno smottamento. Monica comincia a capire che i suoi corsi sull’accettazione del vuoto come opportunità preludono a licenziamenti. È promossa al posto del capo (Paolo Pierobon) che si trasferisce a Parigi quasi senza preavviso e con un’altra donna, e il padre muore. Le scosse emotive portano la donna a un brusco risveglio. Fa i conti con se stessa, con i condizionamenti che hanno impedito l’espressione della sua vera natura. Comincia a prendere decisioni radicali: cambia vita e lavoro, stilla un testamento; diventa più semplice, più naturale, più contenta. La Milano fotografata da Sabina Bologna e Giorgio Carella è insolita, formalmente molto accattivante; le inquadrature curate nel dettaglio rispecchiano il clima del racconto. Tutto è di qualità: la regia, la recitazione, i costumi, la scenografia, la colonna sonora. E glaciale, distaccato. C’è un’anomalia sorprendente a fine film, il suo significato fin troppo evidente: la canzone sull’ultima scena, girata tra le rovine di un anfiteatro greco. È E se domani, il successo di Mina del 1965, anno in cui questo film si troverebbe a suo agio.
Camera con vista
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h, i poeti! Meno male che ci sono loro a conservare intatta un’allure sobria e intensa, a riflettere sulla vita e sulla morte, sul dolore e sull’amore, sulle parole e sulla lingua, senza svendersi e agitarsi per scalare le classifiche, senza affidarsi agli editor per trasformare i testi in banalità commestibili, masticate e rimasticate. Evviva i poeti che non scrivono libri gialli, neri, rosa, ma umili versi pensati e lavorati per giorni, mesi, anni forse, poeti che si prendono tutto il tempo per dare forma a un pensiero, a un’emozione. Sono grata alla giuria del Premio Nobel che mi ha fatto di nuovo scoprire un poeta che non conoscevo, Tomas Tranströmer (come era successo nel 1996 con la grandissima Wis\u0142awa Szymborska). Da quando è stata data la notizia, il 6 ottobre, e ne ho letto sui giornali, alcuni suoi versi mi sono entrati nella testa e non mi hanno lasciata più: «C’era un funerale/ e io sentivo che il morto/ leggeva i miei pensieri/ meglio di me». Quanta verità in queste piccole quattro righe. Le informazioni, tante, compresse in pochissimo spazio, arrivano come frecce a destinazione, da cuore a cuore. La comprensione passa attraverso i sensi, attraverso una logica inconscia, naviga nel sangue, s’arroventa, esplode di significato. Siamo a quel funerale, di un morto che non è nostro ma lo diventa, un morto che è tutti i morti del mondo, ci conosce e sa quel che non sappiamo di noi stessi. Abbiamo paura di questa scoperta, perché abbiamo paura della morte. E siamo sconfitti e veri di fronte all’inesplicabile, all’inaccettabile, al nulla. Questo poeta, questo Tomas Tranströmer, non l’ha fatta lunga, né si è messo a filosofeggiare. Ci ha detto solo di un funerale, che non doveva essere il funerale di qualcuno che gli premeva. Un funerale qualsiasi, di un conoscente qualsiasi. Ed è questo che rende tanto più forte la sensazione di essere nudi di fronte ai morti, i morti qualsiasi, tutti i morti. Perché loro sanno quello che noi non osiamo nemmeno pensare, di loro e di noi stessi. Quante parole ho dovuto usare per spiegare quei brevi versi, e tante ancora potrei dire a commento. Ma la forza della poesia è nella sua contrazione, che è illuminazione: quell’esprimere tanto in un soffio e per spostamento.
A
«L’effetto della poesia è così forte e diretto, che per un attimo non esiste altra sensazione che quella prodotta dalla poesia stessa» leggo fra le pagine saggistiche di Virginia Woolf, ripercorrendole nella bella nuova raccolta (in parte inedita in Italia) curata da Liliana Rampello per il Saggiatore col titolo (woolfiano) Voltando pagina. È proprio così: è difficile raggiungere un simile risultato con la prosa. A meno che non sia la prosa di un poeta. Ed eccomi a leggere allora Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine, uscito da Voland in un’edizione riveduta e corretta, rispetto a una precedente del 1983, sia nella traduzione sia nell’introduzione,
MobyDICK
ai confini della realtà
Poeti,
brava gente
di Sandra Petrignani l’una e l’altra di Serena Vitale. Nove lettere ispirate dall’invio da parte di un giovane amico editore di un omonimo libro di Heine che Cvetaeva avrebbe dovuto tradurre (ma non lo fece mai, pare). Lei, tanto per cambiare, si era innamorata di quell’amico e gli scrive per sedurlo. Ma
fiorentine erano, finito l’amore, diventate subito un testo. È pericoloso l’amore per le poetesse. Una, la bionda bellissima fiorentina Contessa Lara, al secolo Evelina Cattermole, fu uccisa nel 1896, a 47 anni, dal suo ultimo amante, il giovane Giu-
Meno male che ci sono loro a conservare sobrietà e intensità, e a spiegarci con parole lavorate magari per anni l’inesplicabile. Da Tranströmer a Zanzotto, dalla Cvetaeva a Evelina Cattermole a Paul Celan, breve viaggio in alcuni, illuminanti testi freschi di stampa lui si spaventa di tanta incandescenza e scappa. Un amore respinto, insomma, uno dei tanti cui il bisogno di mitizzare l’amato condannò Cvetaeva. «Povera me, che accanto a voi mi sento intorpidita…». «Siate vuoto finché lo vorrete, finché lo potrete - io sono la vita che non patisce il vuoto». «Sono lacerata da due tentazioni: voi e il sole». «Nessuno, eccetto me, ha avuto l’idea geniale (ingenua idea!) di soffrire per voi». Si conobbero ed ebbero una breve storia fra il giugno e il luglio del ’22 a Berlino. Si rividero qualche anno dopo e lei lo trattò con indifferenza, mostrando di riconoscerlo a stento. «Quanto eri, tanto oggi non sei più» concluse in una lettera non spedita, da lei stessa intitolata: Postfazione, ovvero: faccia postuma delle cose. L’amore aveva un senso se si trasformava in letteratura e Le notti
seppe Pierantoni, che non sopportava di essere lasciato da lei, nel suo appartamento romano di via Sistina dopo una notte di agonia per superficiali soccorsi medici. La storia straordinaria di questa letterata e giornalsta che ebbe in vita un grande successo, circonfusa di scandalo e talento, e poi frequentata solo da cocciute femministe, viene raccontata da una preziosa introduzione di un’altra poetessa, Biancamaria Frabotta, e da Manola Ida Venzo, curatrice dell’interessantissimo volume L’ultima estate di Contessa Lara. Lettere dalla Riviera, edito da Viella. Una lettura avvincente come un romanzo rosa, e insieme la testimonianza di un genio femminile che nel nostro Paese è stato colpevolmente trascurato, in questo caso come in tanti altri. Ma mentre scrivo giunge la notizia
della morte di Andrea Zanzotto, che aveva appena compiuto 90 anni (il 10 ottobre). «Mondo, sii, e buono; /esisti buonamente…» sono i primi suoi versi che mi vengono in mente con una stretta al cuore (che il mondo non è buono lo testimonia, una volta di più, un’altra morte bestiale - dei giorni scorsi, quella di Gheddafi). Zanzotto era un poeta immenso, e una persona seria e dolcissima. Ho avuto la felicità di conoscerlo una trentina di anni fa e di subirne il fascino stralunato, irridente, affettuoso. Aveva anche una grande mente critica come dimostra un libricino, appena uscito da Nottetempo, Poesie sparse pubblicate in vita di un altro grandissimo della poesia, Paul Celan. Non sono fra i versi migliori dell’autore tedesco, ma l’introduzione di Zanzotto illumina, insieme, la poesia di entrambi. E per questo, adesso, per celebrarli tutti e due, cito questo passaggio essenziale: «Egli aggruma e smembra le parole, crea numerosi e impennati neologismi, sovverte la sintassi pur non distruggendone una possibile giustificazione fondante, usa fino alle estreme latenze il proprio sitema linguistico…».
Zanzotto parla di Celan, ma anche di se stesso e della comune consapevolezza di muoversi ormai in una dimensione dove «non ci sono più né nascite né ritorni veramente salvifici». Eppure l’uno e l’altro sono salvi nel nostro profondo rispetto e nella nostra indiscussa ammirazione.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
La classe dirigente ritrovi (presto) sobrietà e senso del bene comune IL CAMBIO DI PASSO CHE NON C’È Da più parti e in diversi modi, soprattutto in queste ultime ore, si stanno moltiplicando a macchia d’olio gli appelli affinché il governo faccia un passo indietro. La richiesta insomma, è quella del “passo indietro” del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Intanto il tempo trascorre inesorabile e questo senz’altro non aiuta nessuno. Mi correggo: favorisce la grande speculazione internazionale che quotidianamente ormai riduce, annulla, vanifica quelle poche “intenzioni” messe in campo da una maggioranza che non c’è. Se c’è, più che governare regna, a dispetto di una opinione pubblica nazionale che di fatto è più avanti dei suoi stessi governanti e già da un pezzo oltre il berlusconismo. E così Berlusconi - che da sempre “sfugge” alle regole di una Costituzione che prevede la centralità del Parlamento, e quindi del “Palazzo” - si ritrova a difendersi proprio nel Palazzo attraverso i soli “numeri” che gli sono rimasti, cioè quelli del consenso in Aula. Il consenso, per la verità, sta diventando insufficiente anche in Parlamento, dove i singoli “distinguo” all’interno dello stesso Popolo della libertà, per non parlare di chi lascia definitivamente, la dicono lunga su quanto e come può ancora durare quest’ultimo argine berlusconiano. Stanti così le cose, tutto lascia presagire una lunga agonia che non promette niente di buono per la politica e per tutto il Paese. Una base, secondo me, quella del consenso parlamentare dell’attuale governo, anche del tutto inadeguata a realizzare la difficile agenda di impegni sottoscritti di fronte alle Istituzioni europee. Unita a fare “muro”, dedita a reggere per la tutela del singolo futuro politico e parlamentare ma senza avere la forza, le idee e soprattutto la serenità per discutere e deliberare su problemi e problematiche urgenti di carattere generale, per il bene del Paese e delle prossime generazioni. Non so se si può chiedere al “naufrago” di salvarne altri, ma certamente gli si può domandare di non affogarli. Allora diamo campo, spazio e fiducia a chi almeno vuole provarci. A chi, proprio come sta facendo il Terzo Polo, chiede il contributo di tutti per uscire da una crisi che non promette agli italiani rose e fiori ma solo sacrifici. Nella speranza che non siano vani almeno per le future generazioni.
LE VERITÀ NASCOSTE
Dice bene il vaticanista Luigi Accattoli, in un recente articolo sul bene comune, quando afferma che tutti sappiamo che per uscire dalla crisi il nostro Paese, come l’intero Occidente, ha bisogno di ritrovare le vie della crescita, ma anche di riscoprire la sobrietà dimenticata in mezzo secolo di benessere senza precedenti. Occorre cambiare gli stili di vita e recuperare le forme di austerità socializzanti che l’abbondanza aveva fatto dimenticare. Ma in questo labirinto è necessario trovare la strada e smascherare definitivamente la colpevole inerzia di troppi politici di tutti i livelli con una forte iniziativa popolare, anche della povera gente, che rimetta sul tappeto il tema dell’effettivo bene comune come fondamento di una società giusta per una concreta giustizia sociale. La classe dirigente deve avere un suo stile riconoscibile. Di sobrietà e dedizione all’interesse generale ed un codice etico comune. Abbandonando definitivamente che la cultura delle regole venga sostituita dalla prassi della deroga. Perché quando scompaiono le regole, trionfa l’illegalità.
Antonio Capitano
DANNOSA IPOCRISIA Che senso ha ostentare il massimo rispetto per ciò che dice il presidente della Repubblica e poi fare l’esatto contrario di ciò che egli auspica? Non è forse questa una situazione di emergenza nella quale, isolando gli agitatori di piazza, maggioranza e opposizione dovrebbero cercare, come Napolitano ha tante volte chiesto, la massima convergenza possibile sulle cose da fare? La sola cosa buona delle situazioni di emergenza è che offrono un’occasione di rinsavimento, spingono a mettere da parte i paraocchi. Speriamo che non venga sprecata.
Stefano Coppa
digerito dall’apparato cattocomunista e dal “nuovo Ulivo”, il trittico Bersani-VendolaDi Pietro. Ed anche questo ce lo rende simpatico, assieme alle sue prospettive dal sapore liberale, capaci di andare oltre il berlusconismo e l’antiberlusconismo. Le parole d’ordine di Matteo Renzi in sintesi: “No all’egualitarismo, sì all’uguaglianza”; “No al berlusconismo ed all’antiberlusconismo”; “Sì ad andare in pensione più tardi, per garantire un futuro alle giovani generazioni”;“Abolizione del valore legale del titolo di studio”; “No al finanziamento pubblico ai partiti”; “Abolizione dei vitalizi ai parlamentari”; “Meritocrazia”. Idee vecchie, secondo Bersani. A me non pare proprio.
Luca
GLI ATTI DI PENITENZA DEI CRISTIANI Nella giornata interreligiosa di Assisi, seppur con qualche differenza con il suo predecessore, anche Papa Ratzinger ha chiesto scusa per le colpe della Chiesa del passato. Wojtyla nel 1986 aveva detto: «Non siamo sempre stati dei costruttori di pace» aggiungendo che quella Giornata voleva essere anche «un atto di penitenza». Benedetto XVI ha analogamente riconosciuto che «nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza» e che i cristiani ne sono «pieni di vergogna».
Claudio Di Meglio
LE SANE “VECCHIE” IDEE DI MATTEO RENZI Matteo Renzi, un passato nel Partito popolare italiano, un moderato decisamente ed un ottimo sindaco di Firenze dalle idee e prospettive bipartisan, come si usa dire oggi. Matteo Renzi, il trentaseienne che è mal
POLITICA E ETICA Da troppo tempo ascoltiamo i discorsi retorici nei salotti buoni e cattivi della politica (e in quelli sfiancanti televisivi), ridotti a sale d’aspetto dove si parla e si sparla di tutto perché è evidente che l’etica pubblica e quella personale che la sorregge sono spaventosamente assenti in larga parte della scena nazionale, come dimostrano gli scandali che vanno emergendo e che colpiscono figure di non poco peso dell’una e dell’altra parte politica. Il disgusto è ormai avvertito da tanta gente comune, quella cui dovrebbero dare ascolto e voce i rappresentanti del popolo sovrano. Sull’urgenza e la necessità di una nuova classe di politici sono d’accordo in tanti: chi riporterà l’Etica al centro del futuro?
Antonio Valli
L’IMMAGINE
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VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
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L’elettroencefalografia (Eeg) è la registrazione dell’attività elettrica del cervello. Da quando è stata inventata, nel 1929, è stata usata per diagnosticare patologie, ma anche per analizzare l’attività di molte aree neurali connesse con il comportamento. Per esempio è servita a identificare i neuroni specchio, ad analizzare la menzogna, o le reazioni davanti alle opere d’arte. Ma, come avviene per gli animali, lo studio delle nostre reazioni dà risultati molto più veritieri se viene effettuato nell’ambiente, e non in un freddo laboratorio dentro a un enorme scanner a risonanza magnetica. Così un laboratorio danese dedicato ai sistemi cognitivi ha messo a punto una Eeg portatile che si può controllare tramite uno smartphone. In pratica una persona è in grado di monitorare le proprie onde cerebrali. Basta indossare Emotiv, un paio di cuffie wireless che acquisiscono i segnali neurali, connetterle al cellulare e tramite una app ottenere immagini 3D del proprio cervello. L’elettroencefalogramma portatile servirà a compiere studi direttamente “sul campo”, a casa, a lavoro, o al cinema, per esempio per analizzare le reazioni emotive alle immagini. Ma l’Eeg portatile servirà anche per assistere le persone affette da varie patologie, come deficit di attenzione, iperattività, o dipendenza da droghe, fumo e alcol, riducendo il numero di visite in ospedale, e dando la possibilità di una analisi dei dati in tempo reale.
L’IMPORTANZA DELL’ASPIRINA NELLA PREVENZIONE DEL TUMORE È un dato di fatto che alla base dell’insorgenza di tutte le neoplasie i processi infiammatori abbiano un ruolo predisponente rilevante. Sulla rivista internazionale Lancet è comparso uno studio multicentrico europeo, a mio parere molto interessante, che prende in considerazione una condizione genetica ereditaria, la sindrome di Lynch, che conduce al 50% la possibilità di ammalarsi di tumore del colon o dell’utero (endometrio) nel corso della vita. Si è visto che, valutando due gruppi uno dei quali trattato con placebo ed uno con acido acetilsalicilico, la possibilità di ammalarsi si riduceva del 60% nel gruppo dell’aspirina. L’unico dato negativo sarebbe un possibile aumento dei casi di ulcera allo stomaco poiché l’aspirina deve essere assunta per almeno due anni. Si impone una riflessione sul rapporto costi/benefici tra un disturbo curabile come l’ulcera e l’importanza di un farmaco con una forte valenza preventiva come l’aspirina.
Alessandro Bovicelli
APPUNTAMENTI VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ORE 11 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal
Il cervello in diretta sul cellulare
I DANNI DELLA CEMENTIFICAZIONE
Si salvi chi può! Quando si dice trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questo cigno è rimasto suo malgrado coinvolto in una lotta tra due cervi rivali al Richmond Park di Londra. Il povero pennuto stava attraversando uno stagno, quando il più aggressivo dei contendenti si è lanciato in acqua per incornare l’avversario. Il cigno è riuscito a divincolarsi lasciando i due litiganti alla loro rissa
La Liguria è una terra devastata dalla cementificazione. Hanno cominciato, a destra come a sinistra, negli anni Settanta a tirare su silos e supermercati dove un tempo c’erano paludi e campi: e non si sono fermati sotto qualsiasi governo. Se poi si aggiunge l’abbandono delle coltivazioni in terrazzamento, e che è stato concesso di costruire case nelle strettissime vicinanze dei fiumi, è logico che venga giù tutto.
Lettera firmata
pagina 24 • 5 novembre 2011
Si sapeva da tempo che in Liguria sarebbe arrivata ancora tanta acqua. E che fiumi e torrenti erano ben al di sopra del livello di guardia è qualcosa che non va. Non solo perché piove a dirotto, Genova è in ginocchio sott’acqua e il bilancio, approssimativo, è già di sette morti, tra cui tre bambini. Ma anche e soprattutto perché soltanto dieci giorni fa, il 25 ottobre, la pioggia che batte e ribatte si è abbattuta su Liguria e Toscana e alle Cinque Terre ci sono stati dieci morti e tre dispersi. Soltanto dieci giorni fa, ecco cos’è che non va. Il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, guarda incredula la sua città ancora una volta alluvionata e dice che «la tragedia era imprevedibile».
C’
Ma è da giorni che sappiamo che il cielo si sarebbe coperto e sarebbe arrivata ancora una volta tanta acqua, è da giorni che sappiamo che fiumi e torren-
Basta prenderci in giro: i morti di ieri non avevano il destino segnato. Dobbiamo smetterla di imprecare contro il cielo che ci sovrasta e capire di chi sono le responsabilità ti erano ben al di sopra del livello di guardia, è da giorni che facciamo confronti con ciò che è accaduto e con ciò che potrebbe ancora accadere. Purtroppo, il sindaco ha torto: la tragedia era prevedibile. C’è qualcosa che non va a Genova come a Messina, al Nord avanzato e industriale (se queste definizioni hanno ancora
Tutti gli allarmi dei meteorologi (così come tutte le dovute precauzioni) sono stati ignorati
Nessuno ha evitato una tragedia annunciata da giorni di Giancristiano Desiderio
senso) e al Sud arretrato e assistito. La pioggia da sola non spiega così tanti disastri e così tanti morti. Quei bambini morti ieri nel fango in via Fereggiano non avevano il destino segnato. Non possiamo imprecare contro il cielo che ci sovrasta. Gli dèi non hanno colpa e nessun Dio, visibile o invisibile, ci sta punendo. Il problema non è nelle nuvole, ma sulla terra. Se c’è qualcosa che non va, questo “qualcosa”va cercato nella nostra storia.
Le foto e le immagini di Genova immersa nell’acqua e nel fango le abbiamo viste ieri sul web e in televisione, ma non sono nuove. Nel 1970 vennero giù 900 millimetri di pioggia e strariparono il Bisagno, il Polcevera, il Leira e si contarono quarantaquattro morti e altri - si disse - non si vollero contare. Ciò che è accaduto ieri era accaduto l’altro ieri e questa la desolante lezione storica che
ne ricaviamo - può accadere anche domani. La storia, alleata con la natura, si ripete ineluttabilmente e gli italiani si rendono conto che qualcosa non va quando ormai hanno già le mani nel fango.
Raccogliamo fondi per gli alluvionati. Facciamo bene. Ogni volta sono milioni. La tecnologia aiuta la solidarietà del nostro cuore. Ma quando impareremo a rendere le nostre città più moderne e abitabili, quando affronteremo con volontà e razionalità - e se ci mettiamo anche un po’ di onestà non guasta - il dissesto idrogeologico che è dell’Italia intera e unita, allora, solo allora saremo realmente solidali con tutti: con i morti, con i superstiti, con noi stessi. Perché se in una città storica e importante come Genova che - e fa un certo effetto ricordarlo - fu una delle città marinare italiane non si può dormire ai primi piani del-
le case ed è anche vietato circolare in automobile perché si corre il serio rischio di essere travolti da una piena torrentizia, allora, è nell’Italia intera e non solo in quella mezza luna che è la Liguria che le cose non vanno. Se ci guardiamo indietro di quindici o anche solo dieci anni vediamo che c’è una strisca di fango che attraversa l’Italia: Sarno, Cervinara, Giampilieri, Cagliari, Vernazza, Monterosso. Non è la natura che ce l’ha con noi, siamo noi che ce l’abbiamo con noi stessi.
Perché quando le tragedie si ripetono con questa frequenza e hanno tutte il denominatore comune del fango, significa che le volontà e le decisioni che sovrintendono ai governi nazionali e locali non sono mai orientate verso la previsione che non la Scienza ma la più banale Storia ci mostra con le bare della madri e dei loro figli.
la pioggia killer
i che d crona
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
La cronaca della giornata genovese è un girone infernale: «Esondati anche i torrenti Bisagno e Sturla, allagata la zona antistante alla questura, i quartieri Foce, San Fruttoso e San Martino, inagibile corso Torino e corso Sardegna, dove sono state chiuse le scuole e i bambini portati a piani superiori.
La zona della stazione Brignole è allagata con l’acqua che arriva fino alla cintola all’imbocco di via XX Settembre. Nella stazione di Brignole è stato predisposto un treno come rifugio di emergenza perché la zona attorno alla stazione è allagata. Chiusa la sopraelevata che attraversa il capoluogo ligure. Attivati i volontari della Protezione Ci-
Occorre rendere le città del Paese più moderne e abitabili. E affrontare con volontà, razionalità e un pizzico di onestà il dissesto idrogeologico dell’Italia intera vile, in arrivo colonne mobili da Lombardia e Piemonte. Secondo quanto spiega il Comune di Genova, risultano frane in zona Bavari, e San Desiderio, due frazioni nell’entroterra genovese, dove la situazione è critica per le forti piogge e l’esondazione di fiumi e torrenti. Le istituzioni rinnovano l’appello ai cittadini: “Da ponte Fleming fino alla Foce, chiudere tutti i negozi e locali ai pian terreno e interrati. La gente salga ai piani alti”». Genova è una città ben strana e particolare, con tutti quei fiumi che corrono verso il mare. Ma oggi il capoluogo ligure è tutta l’Italia. La scena della salvezza raggiunta sul tetto di case e palazzi è comune a tutti e a tutti i Comuni. L’Italia sprofonda nel fango e le nostre tragedie materiali sembrano sempre più il frutto delle nostre inadempienze morali.
Tre sono bambini: uno di pochi mesi e due fratellini di uno e dieci anni
Genova in ginocchio piange (almeno) sette morti di Antonella Giuli
GENOVA. Ancora morti, 7 quelli finora accertati, ancora in Liguria e ancora per via del maltempo. Stavolta la città colpita è Genova, dove oltre al Bisagno è esondato anche il torrente Ferreggiano. Una ferita atroce che va dritta al cuore di una regione già martoriata dai nubifragi e che ancora non aveva smesso di piangere le vittime della scorsa settimana. A rendere il bilancio ancora più atroce, come se già non bastasse l’assurdo paradosso tutto italiano che ormai morire di pioggia si può eccome, è la drammatica scomparsa, ieri, di due bambini di uno e dieci anni e della loro mamma. Sono stati ritrovati sotto alla melma d’acqua mista a fango che, in pochi attimi, li ha travolti e inghiottiti.
Un testimone, Rosario Gioia, li ha visti coi suoi occhi, i piccoli e la madre, scomparire nella “piena” di detriti: «Mi sono gettato nel fango - ha detto l’uomo all’agenzia di stampa Ansa - Ero riuscito a prendere per un braccio il più piccolo. Quando però l’ho estratto, era già morto». Le altre vittime, un’anziana travolta dalla piena in via Fereggiano, un’altra donna rimasta schiacciata dalle automobili portate via dalla violenza dell’acqua, più due feriti gravi, tra cui un altro bambino, che sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale San Martino. La situazione, purtroppo, sembra destinata a peggiorare: il maltempo non si placa, il sindaco del capoluogo ligure ha annunciato l’arrivo di nuove piene e i dispersi, al momento in cui questo giornale va in stampa, sono almeno tre. «Bisogna evitare di andare vicino ai ponti o ai torrenti, di dormire ai primi piani e in zone che possono essere facilmente inondabili» è stato l’appello lanciato dall’assessore alla Protezione civile della Regione Liguria, Renata Briano, che ha invitato tutti i cittadini «a mettersi sicurezza, in caso di pericolo, andando verso l’alto» e di «evitare il più possibile di girare con la macchina, se non per motivi di stretta necessità». E mentre numerose fa-
Alcune drammatiche immagini del violentissimo nubrifagio che ieri ha messo in ginocchio la città di Genova. Il bilancio per l’esondazione dei torrenti Bisagno e Ferreggiano, al momento in cui andiamo in stampa, è di sette morti. Tre dei quali bambini
miglie si sono precipitate a ripararsi sui tetti, la città è sempre più paralizzata e interi quartieri restano impraticabili, senza acqua né luce né gas (le acque del Fereggiano hanno strappato via diverse condutture), sono decine le persone messe in salvo dai sommozzatori dei vigili del fuoco, che operano ininterrottamente nella zona centrale di Genova. Un uomo è stato salvato per miracolo un attimo prima che l’ondata di piena travolgesse la sua auto. «Non so come ho fatto a salvarmi - ha raccontato - Avevo appena imboccato un tunnel. Fatti pochi metri l’auto si è bloccata nell’acqua. Non riuscivo più a uscire. Due ragazzi con un crick hanno sfondato il mio parabrezza e mi hanno fatto uscire».
Pochi attimi dopo la piena ha scaraventato la sua Honda fuori dal tunnel decine di metri più a valle, dove sono ammassate altre auto portate dal Bisagno esondato. Il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, ha subito attivato la Protezione civile e il numero verde 800177797. «È stata una tragedia assolutamente imprevedibile in questa forma» ha detto il sindaco. «È una tragedia terribile per la quale non mi sento di dare la colpa a qualcuno. Il Fereggiano era un fiume di sicurezza su cui da tempo si era attivata l’attenzione della Protezione civile e del presidente della Regione. Sono stati fatti lavori dal Comune, tutto sulla base del piano di bacino». In quel punto, ha osservato Vincenzi, «nel giro di qualche minuto si è sollevato un muro d’acqua a una velocità spaventosa». Muro d’acqua che potrebbe anche tornare, fanno sapere i meteorologi, secondo i quali le piogge già in atto sono destinate nelle prossime ore ad una brusca intensificazione. Il clou delle precipitazioni potrebbe arrivare tra sabato e domenica sera, poi dovrebbe seguire una lenta attenuazione delle piogge. Ma intanto, nelle prossime 72 ore sono attesi altri 500 millimetri di acqua.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
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La missione umanitaria salpata due giorni fa da Fethiye, in Turchia, aveva l’obiettivo di raggiungere la Striscia
I dirottati di Gaza
Israele abborda la mini-flottiglia senza incidenti Tacito accordo tra Ankara e Gerusalemme di Pierre Chiartano n rotta per la Palestina, dirottati verso Israele. La mini-flottiglia umanitaria salpata due giorni fa da Fethiye, nel sudovest della Turchia con l’obiettivo di raggiungere Gaza, si era avvicinata nella notte, tra giovedì e venerdì, al territorio costiero palestinese. L’arrivo era previsto per ieri mattina. Ma la potenziale bomba mediatica e politica era già stata in parte disinnescata dal comportamente responsabile di Ankara e Gerusalemme che tacitamente avevano accettato di evitare uno scontro diretto. Naturalmente Israele aveva definito l’iniziativa come una «provocazione e un tentativo di forzare il blocco marittimo di
I
sicurezza nei confronti di Gaza, compatibile con il diritto internazionale, come stabilito dalle Nazioni Unite». Facendo riferimento al controverso rapporto Palmer, che riteneva legittimo il blocco, ma stigmatizzava l’eccessivo uso della forza da parte dei militari del reparto d’assalto Shayetet 13. Gerusalemme ha sempre giustificato il blocco navale per impedire l’arrivo di armi nella Striscia, ora governata da Hamas, movimento legato a doppio filo con Teheran. Khaled Meshal, leader carismatico del Movimento della resistenza islamica infatti fa spesso la spola tra la Striscia e l’Iran. Nel primo pomeriggio di ieri gli attivisti a bordo dei due
In alto, la mini-flottiglia che naviga alla volta di Gaza. Foto grande: la partenza della Navi Marmara lo scorso anno. L’imbarcazione turca venne fermata da un’azione militare israeliana che costò 9 vittime battelli avevano comunicato via Twitter di essere «a 48 miglia nautiche» dalle coste della Striscia e che attendevano di essere intercettati dalle unità israeliane. Mentre dal sito online di Hareetz si parlava già di un contatto radio con le unità navali israeliane, che avevano subito chiesto ai due battelli di cambiare rotta per non violare il blocco navale.
Dopo circa l’una del pomeriggio erano stati persi i contatti radio tra le due imbarcazioni e gli attivisti palestinesi a Gaza e Ramallah. Hurryet, quotidiano turco, dava infatti la notizia che le due imbarcazioni erano state circondate dalle unità israeliane e che i telefoni satellitari avevano cessato di funzionare. Poi verso le 15.30 – ora italiana – la conferma dell’abbordaggio da parte delle forze di sicurezza di Gerusalemme. Quindi la notizia, confermata dai militari israeliani e da un attivista a bordo di una delle due imbarcazioni, che l’operazione si era svolta senza provocare feriti. Le unità navali si sono poi dirette verso un porto d’Israele. Le forze israeliane «ci stanno comunicando che saremo consegnati alla polizia, interrogati e perquisiti e, poi, saremo espulsi per aver sfidato il blocco di Gaza», scrivevano via Twitter gli attivisti a bordo dei battelli sequestrati. Anche se il clima è ben diverso dalla missione dello scorso anno, conclusa tragicamente con un arrem-
Le due imbarcazioni che intendevano violare il blocco, sono la nave canadese Tahrir e l’irlandese Saoirse, con a bordo 27 attivisti e giornalisti baggio delle teste di cuoio israeliane e un pesante bilancio in vite umane. C’era comunque una grande attenzione da parte di tutti gli attori a non creare problemi. Il premier turco, che aveva minacciato di dare una scorta della marina turca, aveva fatto un passo indietro.
Così era auspicabile che il governo di Gerusalemme non volesse creare un nuovo casus belli, pochi giorni dopo l’ingresso a sorpresa della Palestina nell’Unesco. Con mezzo mondo a guardare una possibile reazione fuori le righe d’Israele.Visto che a bordo abbondavano giornalisti di varia provenienza. E infatti così è stato. Da parte di Ankara il problema curdo è di nuovo alla ribalta, e la Turchia non ha nessuna voglia, per ora, di riaprire le danze della polemica internazionale con Israele. Specialmente dopo la vicenda Unesco che può considerare, in parte, una propria vittoria sul difficile terreno della diplomazia. Le due imbarca-
zioni della Freedom Wawes, che intendevano violare il blocco imposto a Gaza sono la nave canadese Tahrir e l’irlandese Saoirse, con a bordo 27 attivisti e giornalisti (12 irlandesi e il rimanente da Stati Uniti, Canada, Marocco e altri Paesi, compreso un palestinese) e un carico dichiarato di medicine e altri beni di prima necessità. Ieri all’alba si trovavano in acque internazionali a circa 180 miglia nautiche (più di 300 chilometri) da Gaza, sotto il controllo della marina israeliana. Lo confermavano gli attivisti a bordo. «Vogliamo – aveva dichiarato, giovedì a Ramallah, Huwaida Arraf, una esponente del movimento Free Gaza – mandare al mondo e all’opinione pubblica il messaggio che Gaza è ancora sotto assedio». La donna aveva spiegato che le due navi che ieri erano a sudest di Cipro sarebbero state le prima di un progetto che prevede l’invio «onda dopo onda» di navi. Giovedì, due unità da guerra israeliane si erano avvicinate a circa sei miglia nautiche dalla miniflottiglia, mentre degli aerei da ricognizione sorvolavano le due imbarcazioni, a bordo delle quali si trovavano 27 persone, inclusi i giornalisti invitati a seguire la missione.
L a f l o t t ig l i a t r a s po rt a va medicinali per un valore di 30mila dollari. Secondo l’organizzazione filo palestinese International solidarity movement, l’arrivo delle due imbar-
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L’ex portavoce di Shimon Peres contro le scelte di Netanyahu
La pace si allontana la vendetta si avvicina
Dopo il Sì dell’Unesco alla Palestina si è messa in moto una spirale di violenza miope e imprevedibile di Gideon Levy
Gli Stati Uniti avevano fatto sapere giovedì di aver ricevuto assicurazioni dal governo turco che non avrebbe fatto scortare la mini-flotta dalla marina militare cazioni al porto di Gaza era previsto intorno alle 9.30 locali (le 8.30 in Italia). Ma come abbiamo detto alle 15 ora italiana le mini-flottiglia si trovava a una quarantina di miglia (circa settanta chilometri) dalla costa di Gaza, bloccata dalla marina israeliana.
«Non abbiamo alcuna intenzione di entrare nelle acque territoriali israeliane, la nostra destinazione è Gaza», aveva affermato Fintan Lane, uno degli attivisti a bordo. Ma un portavoce militare israeliano aveva detto giovedì sera ai giornalisti che la marina israeliana era «pronta a intervenire per impedire (alla mini-flottiglia) di raggiungere la Striscia di Gaza», violando il blocco. La prima flottiglia partì dalla Turchia nel maggio 2010. Le forze israeliane assaltarono una nave del convoglio in un blitz in cui rimasero uccisi nove attivisti turchi. Lo scorso luglio una seconda flottiglia non è riuscita ad arrivare a destinazione.
Gli organizzatori di questa ultima mini-flottiglia hanno spiegato di aver preparato la missione in gran segreto per evitare interferenze da parte di Israele. Gli Stati Uniti avevano fatto sapere giovedì di aver ricevuto assicurazioni dalla Turchia che Ankara non avrebbe fatto scortare le due imbarcazioni dalla marina militare.
Secondo l’organizzazione propalestinese Freedom Flotilla Italia «Israele è in un cul de sac, stretta su tutti i fronti dall’illegalità che domina le sue azioni», afferma l’organizzazione in un comunicato. «Scatenare un attacco con navi da guerra e Apaches contro due barchette o lasciar passare e proseguire i raid sulla Striscia nel silenzio sempre più assordante dei media occidentali?», si chiedevano i rappresentanti dell’associazione italiana. C’è da aggiungere che l’attuale governo Netanyahu è forse uno dei più criticati dall’interno d’Israele, per la sua dipendenza dai partiti ortodossi della maggioranza. Sono quelli che hanno impedito un accordo sugli insediamenti e quelli che, si dice, abbiano fatto saltare l’accordo, quasi chiuso, per il risarcimento dell vittime turche della prima spedizione a Gaza nel maggio dello scroso anno. Freedom Flotilla Italia invitava comunque «la stampa a fare il suo dovere», e seguire «le onde della libertà», freedom waves, come si chiama appunto questa missione.
er amor del cielo, cosa c’è di così terribile nel fatto che la Palestina sia stata accettata dall’Unesco? Perché è considerata una mossa“anti-israeliana”? E in generale, cosa c’è di male nel fatto che i palestinesi rinuncino al terrorismo e facciano ricorso alla comunità internazionale? Se Israele si comportasse in modo intelligente, voterebbe affinché i palestinesi vengano accettati da qualsiasi organizzazione internazionale rispettabile. E se Israele agisse con integrità, i vuoti discorsi riguardo ai “due Stati”verrebbero tradotti in un sostegno alle iniziative diplomatiche dei palestinesi per raggiungere questo obiettivo. Il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese è l’ultima possibilità di contrastare la soluzione ad un unico Stato. È anche l’ultima occasione per preservare la forza dell’Autorità Nazionale Palestinese e impedire a Hamas di avere il sopravvento. Israele dovrebbe sostenerla con entusiasmo. E se la comunità internazionale che appoggia Israele, con in testa gli Stati Uniti, agisse con integrità e saggezza, anch’essa sarebbe favorevole alla mossa palestinese. Non stiamo parlando di niente di meno che di un passo amichevole, il modo migliore per garantire il futuro di Israele come Stato-nazione del popolo ebraico. Ma invece, americani e israeliani infliggono la punizione e i palestinesi la subiscono. È dubbio che essi abbiano ricevuto una simile punizione perfino nei giorni peggiori del terrorismo. Due potenze mondiali, gli Stati Uniti e Israele, stanno colpendo le tasche dei palestinesi, e parte dell’Europa si è affrettata a mettersi al seguito in modo spaventoso.
P
me della libertà, mentre essi sostengono la prosecuzione dell’occupazione da parte di Israele, nemico della libertà, che sta contrastando le mosse democratiche e diplomatiche volte alla liberazione di una nazione.
Questo potrebbe essere uno dei pochi esempi nella storia in cui il paese occupato è punito a causa della sua lotta nonviolenta e giustificata per guadagnarsi la libertà, mentre l’occupante violento che prosegue la sua impresa coloniale ed il suo controllo con la forza si aggiudica l’appoggio dell’Occidente. Questo è il piatto servito dall’America di Barack Obama, e questa è la caotica situazione condotta da Israele – bloccare l’assistenza a un’organizzazione culturale e scientifica che ha accettato nei suoi ranghi una nazione in lotta per l’indipendenza. È interessante come Obama, che fino a poco tempo fa era a favore della libertà, venga a patti con tutto questo prima di andare a dormire la sera. È interessante come i leader europei, alcuni dei quali hanno votato contro l’accettazione dei palestinesi nell’Unesco, spieghino ciò ai loro elettori. Muammar Gheddafi è stato bombardato in no-
Cosa rimane da fare a Mahmoud Abbas? Cosa possono pensare i palestinesi che vivono sotto l’occupazione? Essi hanno provato per anni a rimanere a sedere in silenzio,“aspettando Godot”, ma Godot non è arrivato. Hanno cercato di combattere contro l’occupazione con pietre e coltelli, ma non è accaduto nulla. Hanno tentato i negoziati, ma questi si sono trascinati per anni inutilmente e non hanno fatto compiere loro un solo passo avanti. Hanno tentato la strada dei crudeli attentati suicidi, ma nulla è cambiato. Non c’è nessuno con cui possano dialogare a Gerusalemme, e niente di cui dialogare. Ora stanno cercando di ottenere l’appoggio del mondo, e cosa ottengono in cambio? Una punizione che potrebbe ancora trasformarsi in una condanna a morte per l’Anp e per il leader palestinese più moderato che ci sia mai stato. Sarebbe stato sufficiente sentire Abbas promettere la fine del conflitto in un’intervista su Channel 2 venerdì scorso per capirlo. Quell’intervista avrebbe dovuto essere diffusa in ogni famiglia israeliana. Ma invece è stata ricevuta con stizza dagli analisti che sanno tutto. Una banda di teppisti, il forum degli otto ministri israeliani più anziani, ha deciso le misure per punire quell’uomo che aveva avuto il coraggio di agire contro i desideri della “famiglia”. Costruiranno altre 2.000 unità abitative negli insediamenti, che vengono per la prima volta caratterizzati come una punizione. Rubano i soldi delle tasse doganali palestinesi e cancellano i lasciapassare di alcuni dei leader palestinesi. Almeno ora sappiamo che ogni appartamento in un qualunque insediamento è una punizione, e ogni colono che ci vive lo fa per vendicarsi. I leader palestinesi sapranno anche che la loro relativa e privilegiata libertà di movimento non era altro che un miserabile e insultante osso lanciato loro dalla potenza occupante, in cambio della loro collaborazione. Se collaborano, la otterranno; se non collaborano, non la otterranno. Se rapiscono un soldato, la otterranno; se vanno alle Nazioni Unite, saranno puniti. Questa ritorsione inflitta dal forum degli otto non è molto diversa dalla “politica del prezzo da pagare”adottata dai coloni. È violenta, incontrollata, e cerca vendetta. Dunque coloni, potete continuare con la vostra politica della ritorsione, perché il vostro paese sta facendo la stessa cosa, e alla luce del sole.
«Ma cosa c’è di male nel fatto che i palestinesi rinuncino al terrorismo e facciano ricorso alla comunità internazionale?»
cultura
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Inventati e trascritti per far addormentare la figlia Effie, i racconti finirono per diventare vere «formule incantatorie»
C’era una volta la favola... Pubblicate per la prima volta nel 1902, tornano le “Storie proprio così” di Kipling di Maurizio Stefanini osephine Kipling, detta Effie. Una foto ce la mostra nel 1895 all’età di tre anni: vestita di bianco, i capelli biondi raccolti da un cerchietto, seduta su una sedia di vimini coperta da una pelle di tigre. In una casa del Vermont, dove suo padre Rudyard, scrittore allora trentenne, era andato ad abitare dopo aver sposato l’americana Carrie Balestier: maggiore di lui di tre anni, e sorella di un suo agente letterario. Come tutti i bambini Effie la sera faceva i capricci per andare a letto, e il padre iniziò a scrivere storielle per farla addormentare. Era un vezzo dell’epoca: anche Oscar Wilde aveva composto favole per i suoi Cyril e Vyvyan. Wilde era però un irlandese tormentato che sulla società vittoriana aveva dubbi: in effetti giustificati dal modo in cui quella società lo avrebbe infine stroncato. Il principe felice, L’usignolo e la rosa e Il gigante egoista sono dunque storie moralistiche, che alludono sottilmente proprio alle contraddizioni e alle ipocrisie di quei tempi. Kipling era al contrario un figlio dell’Impero, nato in India e esaltatore della missione civilizzatrice britannica nel mondo. «Il fardello dell’uomo bianco», era la famosa definizione da lui stesso coniata.
J
Un po’ quell’ideologia andava al ricordo degli antichi Imperi civilizzatori, a partire da quello Romano. Un po’ attingeva alle nuove teorie darwiniane, della selezione naturale e della sopravvivenza del più forte. E quelle Storie proprio così, “just so stories” perché se ne avesse alterata una sua parola la bambina «sarebbe saltata su a ripristinare la frase mancante», sono appunto un po’ giocosi miti delle origini; un po’ evidenti appros-
simazioni per avvicinare i più piccoli all’evoluzionismo. Anche se, per la verità, più che a Darwin, le scherzose spiegazioni che Kipling dà per spiegare il perché certi animali siano fatti a un certo modo rammentano piuttosto il suo predecessore Jean-Baptiste Lamarck: la cui Philosophie zoologique era uscita proprio in quel 1809 in cui Darwin era nato.
Gli organismi, aveva spiegato Lamarck, evolvevano come risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. Cioè, l’uso o disuso di una parte del corpo farebbe sviluppare all’individuo certi caratteri acquisiti poi tramandabili ai discendenti. L’esempio stesso di Lamarck era la giraffa: un’antilope primitiva
che a furia di brucare le foglie degli alberi generazione dopo generazione aveva allungato collo, gambe e lingua. Oggi, tutti gli scienziati in realtà sanno che non è che costruendosi un corpo da culturista in palestra poi si avranno figli che nascono già palestrati. Semmai, può essere una selezione naturale a favorire la sopravvivenza in certi contesti dei più alti o più robusti, che tenderanno ad avere a loro volta prole più alta e più robusta: ma ricordiamo che i meccanismi esatti dell’evoluzione sono tuttora oggetto di dibattito. Il lamarckismo, però, si presta magnificamente all’iperbole scherzosa. E come spiega infatti la prima storia della raccolta il «perché la balena ha quella strana gola»? La balena ha la gola stretta per opera di un marinaio che aveva inghiottito e che costruì una grata nella sua trachea. Si può pe-
Il “Libro della jungla”, dove si celava una più matura epica della missione imperiale britannica, oggi è ricordato un po’ impropriamente come un classico per l’infanzia. Non solo per via del cartone di Disney raltro ricordare che qui Kipling riutilizza quell’antico mito che dal racconto biblico di Giona e dalla Storia vera di Luciano di Samosata arriva fino al pescecane che inghiotte Pinocchio e Geppetto. “Perché il Cammello ha quella strana gobba”, è la seconda storia. Maledizione del Ginn a capo di tutti i deserti per essersi rifiutato di lavorare: e qui Kipling ricorre ai geni della mitologia coranica e delle Mille e Una Notte. “Perché il Rinoceronte ha quella strana pelle” è la terza. Vendetta di colui a cui aveva rubato un dolce, che gli mise le briciole nella pelle che si era tolto per fare il bagno. “Perché il Leopardo ha quelle strane macchie”: gliele dipinse per aiutarlo a mimetizzarsi un etiope, che a sua volta per accompagnarlo nella caccia si ridipinge di nero. Altre favole spiegano perché l’elefante ha il naso lungo: glielo aveva tirato un coccodrillo. Perché il canguro salta: era corso per tutta l’Australia con un dingo alle calcagna.
E poi l’origine degli armadilli. Come fu scritta la prima lettera e come fu creato l’alfabeto. Perché il granchio ha le chele. Come il gatto riuscì a diventare un animale domestico mantenendo la propria indipendenza. E
c’è anche una storia su Suleiman-bin-Daoud, il Salomone figlio di Davide rivisto dalla tradizione islamica, che grazie alla sua abilità nel comprendere il linguaggio degli animali rimise a posto le sue fastidiose mogli salvando anche l’orgoglio di una farfalla. E una storia sui Tabù che ha protagonista la stessa bambina preistorica che aveva inventato la prima lettera e l’alfabeto.
«C’era una volta, in tempi molto antichi, un uomo neolitico», racconta Kipling. «Non era uno Juta né un Anglo, e nemmeno un Dravida, come poteva essere benissimo, piccoli miei, ma non chiedetevi il perché. Era un uomo primitivo, che da buon cavernicolo viveva in una caverna, usava pochissime cose per vestirsi, non sapeva né leggere né scrivere e gli andava bene così, ed era felice e contento tranne quando aveva fame. Si chiamava Tegumai Bopsulai, che significa“Uomo-chenon-mette-avanti-il-piede-infretta”; ma noi, piccoli miei, per brevità lo chiameremo Tegumai. E sua moglie si chiamava Teshumai Tewindrow, che significa “Donna-che-fa-una-quantità-di-domande”; ma noi, piccoli miei, per brevità la chiameremo Teshumai. E il nome della
A sinistra, lo scrittore Rudyard Kipling. Nella pagina a fianco, uno scatto di sua figlia Effie (per la quale il padre inventò diversi racconti e favole), le copertine dei volumi “Il libro della giungla” e “Storie proprio così” (ripubblicato oggi da Adelphi). In alto, un disegno di Michelangelo Pace
cultura
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tanto che quelle storie hanno finito per diventare vere e proprie formule incantatorie. Così temi didascalici come geografia e preistoria, flora e fauna, nascita della scrittura, “evoluzione della specie”e altro materiale ponderoso». Per Effie, va ricordato, Kipling aveva d’altronde scritto anche il Libro della Jungla. In cui peraltro il tono favolistico sarebbe stato sviluppato in una più matura
il padre e la figlia si presero assieme la polmonite. Rudyard sopravvisse, ma Effie morì, a soli sette anni. «Perché indietro - oh, molto indietro e lontano,/ Tanto che lei non lo può più chiamare,/ Tegumai procede solo, per ritrovare Quella figliola ch’era tutto per lui». Ma la citazione è talmente discreta che neanche questa edizione della Adelphi ricorda il dramma della piccola Effie.
D’altronde lo stoico Kipling non ne fece menzione nella sua autobiografia: così come non fece menzione dell’unico figlio maschio John. Colui per il quale aveva scritto la famosa poesia Se: «Se riesci a parlare alle folle e conservare la tua virtù,/ O passeggiare con i Re, senza perdere il contatto con la gente comune,/ Se non possono ferirti né i nemici né gli amici affettuosi,/ Se per
beto il tono incantato della fiaba lascia il posto a una dolente angoscia.
«Di tutta la Tribù di Tegumai/ Così nobile allora, non resta più nessuno.../ Cantano i cuculi sul colle di Merrow.../ Altro non resta che il silenzio e il sole./ Ma ogni anno, col volgere delle stagioni,/ Quando nei cuori intatti torna il canto,/ Viene Taffy danzando fra le distese di felci/ A portare nel Surrey la nuova primavera./ La fronte è cinta di foglie di felci,/ Volano scarmigliati i capelli d’oro,/ Gli occhi risplendono come diamanti/ E sono più azzurri del cielo./ Indossa mocassini e tunica di renna,/ Volteggia senza paura, libera e bella,/ E per indicare al papà dove sta volteggiando/ Con legna umida accende un focherello fumoso./ Perché in-
epica della missione imperiale britannica. Ma alla fine, e non solo per via del cartone animato di Walt Disney, anche il Libro della Jungla è oggi ricordato, un po’ impropriamente, come un classico per l’infanzia. Così come d’altronde Kim, in origine romanzo sul Grande Gioco tra Russia e Inghilterra nel cuore dell’Asia. Insomma: colui che nel 1907 fu il primo autore britannico a vincere il Premio Nobel della Letteratura, ed a 43 anni resta tuttora il più giovane insignito, è oggi venduto soprattutto come classico per l’infanzia e l’adolescenza. Ma, questa, se vogliamo, è un po’ una sorte comune a gran parte della letteratura anglo-sassone. In cui sono oggi ricordati per libri da ragazzi un’apologia dell’emergente in-
Ogni favola è accompagnata da alcuni disegni in bianco e nero di Kipling, figlio di un insegnante di arti figurative. Minuziosi ed evocativi, nel ricordare il caleidoscopio di paesaggi dell’Impero Britannico loro figlioletta era Taffimai Metallumai, che significa “Bambina-molto-maleducata-che-dovrebbe-essere-sculacciata”; ma io preferirò chiamarla Taffy. Lei era la prediletta di Tegumai Bopsulai e anche la prediletta della sua mamma, e non veniva sculacciata nemmeno la metà di quanto le avrebbe fatto bene; ed erano molto felici tutti e tre».
Taffy: Effie? Ogni favola è accompagnata da disegni in bianco e nero di pugno di Kipling, che era figlio di un insegnante di arti figurative. Minuziosi ed evocativi, nel ricordare il calei-
doscopio di paesaggi e culture dell’Impero Britannico per molti dei quali lo scrittore aveva viaggiato. Pestonjee Bomonjee, il parsi dell’Isola Disabitata del Mar Rosso che si vendica del rinoceronte, era in realtà un amico che aveva frequentato la casa dei genitori quando lui era piccolo. Il “marchio magico”inscritto nella roccia, nel disegno che accompagna Il granchio che giocava col mare è una svastica ancora simbolo religioso indù, e non ancora scippata dal nazismo. Ma dopo le storie ci sono anche dei versi, e nella poesia che segue Come fu creato l’alfa-
dietro - oh, molto indietro e lontano,/ Tanto che lei non lo può più chiamare,/ Tegumai procede solo, per ritrovare Quella figliola ch’era tutto per lui». Raccolte in volume e pubblicate per la prima volta nel 1902, le Storie proprio così sono state ora ripubblicate da Adelphi (pp. 178, euro 18). Il risvolto di copertina ricorda che quelle storie raccontate a Effie Kipling «in seguito le avrebbe sperimentate con gli altri figli e i loro piccoli amici, studiandone le reazioni, dando ascolto a eventuali loro appunti, rifinendo ogni cadenza e intonazione
dividualismo borghese come il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, e una feroce satira sociale come I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.
La inquietante metafora del Moby Dick di Melville, e le angosciate profezie sul futuro di Herbert George Wells. Gli affreschi sul West di Mark Twain, e quelli sulla Scozia e i Caraibi e i Mari del Sud di Robert Louis Stevenson. Ma tra quella foto del 1895 e quella pubblicazione del 1902, ci fu il ritorno del 1896 in Inghilterra, e poi quel viaggio del 1899 negli Stati Uniti in cui
te ogni persona conta, ma nessuno troppo./ Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto/ Dando valore a ognuno dei sessanta secondi,/ Tua è la Terra e tutto ciò che contiene,/ E - cosa più importante - sarai un Uomo, figlio mio!». In molti la considerano tuttora un manifesto dell’imperialismo: ma il grande scrittore Khushwant Singh sostiene che nessun occidentale è mai riuscito a tradurre altrettanto bene in termini europei l’essenza della Bhagavad Gita indù, e il comunista Gianni Rodari la volle comunque alla conclusione delle sue Favole al telefono. Nato nel 1897, John Kipling a 18 anni partecipò alla battaglia di Loos sul Fronte Occidentale della Grande Guerra, come sottotenente delle Irish Guards. Il 27 settembre del 1915 guidò l’assalto del suo reparto alla Collina 70, e nessuno lo vide più. Neanche caduto ma disperso, senza una tomba su cui deporre i fiori. Solo Elsie, nata nel 1896, sopravvisse, morendo ottantenne nel 1976: quarant’anni dopo la morte del padre. Nella sua biblioteca è stata ritrovata una copia del Libro della Jungla con dedica del padre, da cui si è scoperto appunto che anche quel libro era stato in origine scritto per la piccola Effie.
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il personaggio della settimana Uomo cresciuto a pane e tv, abbandona il vertice della sua azienda per affiancare la corsa del “rottamatore”
La discesina in campo È un imprenditore giovane e stimato. Ha lavorato con Feltri, creato l’impero televisivo Magnolia, sposato la Parodi e, come fece anni fa Berlusconi con Fini, ha annunciato il suo endorsement al sindaco di Firenze. Chi è Giorgio Gori, ormai già ribattezzato “il Gianni Letta di Matteo Renzi” di Marco Scotti i piani alti degli edifici che ospitano le sedi delle televisioni o delle case di produzione che confezionano format tv si deve respirare un’aria diversa, che invoglia i grandi capi a decidere di mollare tutto per scendere in politica. O, per meglio dire, per scendere in campo. Evidentemente, a un certo punto essere i padroni di quello che un tempo veniva definito il tubo catodico non basta più, e si preferisce lanciarsi in prima linea per mostrare al popolo italiano che si può essere grandi statisti oltre che grandi imprenditori.
A
Uno scatto dell’imprenditore bergamasco Giorgio Gori. Nella pagina a fianco, insieme con la moglie, la giornalista del Tg5 Cristina Parodi, e un’immagine dell’Isola dei famosi, reality prodotto dalla Magnolia, famosa casa di produzione fondata proprio da Giorgio Gori
Successe in un centro commerciale romano diciotto anni fa, quando “Sua Emittenza” Silvio Berlusconi, appoggiando la candidatura a sindaco della Capitale di Gianfranco Fini, sancì sostanzialmente il suo ingresso sulla scena politica dopo anni trascorsi a svolgere – in modo più che soddisfacente – il ruolo di imprenditore. Succede, nuovamente, mercoledì scorso, quando Giorgio Gori, gran capo di Magnolia – la casa di produzione che realizza fiction e giochi a premi, passando da un telefilm con Scamarcio a un reality su un’isola dell’Honduras – uomo cresciuto a pane e televisione, abbandona il vertice della sua azienda (di cui comunque rimane azionista, come a suo tempo accadde con qualcun altro...) per affiancare la corsa di Matteo Renzi, l’uomo di sinistra che piace tanto a destra, divenendo una sorta di eminenza grigia per l’autoimposto leader della sinistra italiana. Ma per capire meglio la nostra storia e vedere come si intrecciano le vite di due uomini che appartengono a due mondi così distanti (ma forse non troppo) bisogna fare qualche passo indietro. Giorgio Gori nasce a Bergamo il 24 marzo 1960. Laureato in architettura, compie le prime esperienze in due testate giornalistiche bergamasche e in alcune piccole emittenti locali. In una di queste, nel 1978, ha come caporedattore un certo Vittorio Feltri, che di Gori ha ricordi piacevoli, anche se non esita a definirlo «un po’ presuntuoso». Nel 1984 compie il grande balzo verso la televi-
sione, diventando assistente di Carlo Freccero – personaggio di cui si sente davvero tanta nostalgia nel desolante panorama televisivo che ci viene offerto ogni sera sulle reti generaliste – a Retequattro, quando l’emittente fa ancora parte del gruppo Mondadori e la guerra tra la Cir di De Benedetti e la Fininvest di Berlusconi deve iniziare. Dopo soli pochi mesi, mentre la holding di Silvio Berlusconi completa l’acquisizione del suo terzo canale, Giorgio Gori passa alla Fininvest, all’interno della struttura programmazione. Nel 1989 diviene responsabile dei palinsesti delle tre reti del gruppo e nel 1991, quando Fininvest istituisce le direzioni di rete, diventa direttore di Canale 5. Nel 1997 passa alla direzione di Italia 1, dove rimane per tutto il 1998, mentre nel 1999 torna all’ammiraglia di Mediaset sempre in veste di direttore. Nella primavera del 2001 la scissione con il gruppo in cui ha lavorato stabilmente per oltre quindici anni. Giorgio Gori ambisce a diventare un “grande” e decide di passare dall’altra parte: realizzare format da negoziare con la rete, e non semplice “collocatore” di programmi e personaggi nel palinsesto della televisione da lui diretta. Per questo, Gori fonda la Casa di Produzione Televisiva Magnolia, specializzata in prodotti di intrattenimento e di infotainment – una parola ormai invalsa nel lessico italiano che, in quanto crasi di informazione ed entertainment, sta a significare le notizie affrontate in modo meno “tradizionale” – e che ha come scopo lo sviluppo di format originali per la televisione e per i media interattivi.
Magnolia diventa subito una delle più importanti case di produzione italiane, tanto che vede l’apertura di una filiale spagnola e di una francese prima di venire acquisita, nel 2007, dal gruppo De Agostini. Gori rimane a capo della sua creatura, mantenendo anche delle azioni, e produce alcuni programmi di grande successo. Uno su tutti, l’Isola dei Famosi, format campione di ascolti soprattutto nelle prime edizioni che prevede la presenza di personaggi più o me-
no noti su un isolotto centramericano in cui devono cercare di sopravvivere procacciandosi il cibo e costruendosi ripari. Altri programmi? Sos Tata, in cui una baby sitter professionista insegna ai genitori come arginare le intemperanze dei figli; Velisti per caso, ovvero avventure intorno al mondo di Siusy Blady e Patrizio Roversi; Music Farm, reality sulla musica non certo indimenticabile; L’eredità, gioco a premi nella fascia preserale che ottiene ogni sera riscontri importanti in termini di pubblico. Inoltre, una costola della casa di produzione, Magnolia Fiction, ha recentemente portato in televisione, sulla Rai, la serie tv Il segreto dell’acqua, con Riccardo Scamarcio e Valentina Lodovini. Gori è anche famoso per essere il marito di un’altra icona della televisione nostrana (ovviamente di Mediaset): mezzo busto del Tg5, ideatrice del rotocalco Verissimo, la signora Gori altri non è che Cristina Parodi. Che a sua volta è sorella di Benedetta Parodi, che con il suo programma di cucina ha sbancato in televisione e in libreria. E, ancora, Benedetta Parodi è moglie di Fabio Caressa, commentatore sportivo di Sky tra i più famosi. Insomma, la famiglia “allargata” ha colonizzato la televisione.
Ma, dopo aver raccontato la storia di Gori e della sua famiglia, è bene tornare agli ultimi eventi politici. Domenica scorsa, in una sala gremita che viene ribattezzata “Leopolda”, dal nome della stazione fiorentina, Matteo Renzi lancia i suoi strali contro l’attuale classe politica, denunciandone l’ignavia, il logoramento e l’inutilità. Le tre “i” potrebbero andare benissimo per descrivere l’intero arco parlamentare, se non fosse che Renzi, non contento di avere demolito tutti o quasi, si scaglia anche contro l’età dei nostri politici, definiti «dinosauri». È una grande realtà, abbiamo un premier che ha appena festeggiato 75 anni e un presidente della Repubblica che ne ha compiuto 86 a giugno. Come dargli torto? Eppure c’è chi mugugna. Su tutti, Bersani, che sostiene che i giovani non possano farsi largo a suon di insulti e spintoni, ma che devono invece
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Dal giornalismo all’Isola dei famosi Giorgio Gori nasce a Bergamo nel 1960. Laureato in architettura, compie le prime esperienze in due testate giornalistiche e in alcune piccole emittenti locali. In una di queste ha come caporedattore Feltri. Nel ’84 compie il grande balzo verso la televisione, diventando assistente di Carlo Freccero a Rete4. Nell’89 diviene responsabile dei palinsesti delle tre reti e nel ’91 diventa direttore di Canale 5. Nel ’97 passa alla direzione di Italia 1, dove rimane per tutto il ’98, mentre nel ’99 torna all’ammiraglia di Mediaset sempre in veste di direttore. Nel 2001 la scissione con il gruppo in cui ha lavorato per oltre 15 anni. Gori passa dall’altra parte: realizzare format da negoziare con la rete, e non semplice“collocatore”di programmi. Fonda la Casa di Produzione Magnolia, una delle più importanti case italiane, tanto che vede l’apertura di una filiale spagnola e di una francese prima di venire acquisita, nel 2007, dal gruppo De Agostini. Rimane a capo della creatura, mantenendo anche delle azioni, e produce alcuni programmi di grande successo come l’Isola dei famosi. Due giorni fa, l’annuncio dell’abbandono.
affiancare gli attuali “vecchietti”per carpirne segreti e furbizie prima di dichiarare a gran voce che il presente e il futuro appartengono a loro. Comunque, dicevamo della “Leopolda”. È differente dai consueti raduni politici. Intanto, per la location, assai diversa dai palazzetti dello sport in cui ultimamente si tengono i congressi: una scrivania, una poltrona, una sorta di palcoscenico in cui chi ha voglia di esprimere le proprie idee, o vuole proporre le proprie ricette contro la crisi, può salire e declamare alla folla le proprie intenzioni. Ma non è
nale sente riecheggiare nelle parole di Matteo Renzi, cui guarda con fiducia proprio perché è “il nuovo Berlusconi”. Oppure Martina Mondadori, non esattamente assimilabile al canone di persona di sinistra fin qui concepito.
Personaggi che fanno parte della società civile e che sono estremamente benestanti, ma che non si sentono rappresentati dalla supposta “rivoluzione liberale”di berlusconiana memoria che non ha mai avuto luogo da 17 anni a questa parte.
gli apprezzamenti di un “falco” della maggioranza come Fabrizio Cicchitto). Inoltre, non sono pochi quelli che lo guardano con sospetto, vedendo in lui quell’animo “rottamatore” che – a detta dei detrattori – avrebbe in sé da un lato lo spirito qualunquista tipico dell’antipolitica, e dall’altro la tendenza tipicamente masochistica della sinistra che, non appena sente nell’aria la possibilità di vincere le elezioni (che dovrebbero essere imminenti), cerca in ogni modo di farsi del male da sola, regalando all’avversario politico insperate boccate
È stato lui, si è scoperto, a scrivere le 100 proposte necessarie per far ripartire l’Italia illustrate nella tre giorni alla “Leopolda” il solo segnale di discontinuità con i precedenti raduni partitici: nel pubblico che affolla la sala non si intravedono le stesse facce. Sono persone nuove che spingono per emergere e per diventare parte attiva della vita politica. Un esempio? Oltre a Giorgio Gori di cui diremo dopo, il calciatore Alessandro “Billy”Costacurta, berlusconiano della prima ora e autentico ultrà del suo ex presidente. Ed è proprio lo spirito di Berlusconi che l’ex difensore del Milan e della Nazio-
Il “nuovismo” di cui Renzi è portatore non piace, soprattutto ai suoi “colleghi” di partito: perché il sospetto che serpeggia a sinistra è che l’attuale sindaco di Firenze non sia esattamente un leader progressista, ma anzi un ex democristiano – è noto che nel 1994, invece che per la “gioiosa macchina da guerra”di Occhetto, Renzi votò per i Popolari di Mino Martinazzoli – che piace più ai conservatori (tanto da aver ricevuto
d’ossigeno. Siamo nuovamente a Giorgio Gori, che domenica alla “Leopolda” sale sul palco, un po’ impacciato ma al tempo stesso coinvolgente, spiegando ai presenti che è giunto il momento di mettere da parte le divergenze e di iniziare a darsi da fare. E a metterci la faccia. Per questo, in conclusione al suo discorso, fa balenare nell’aria quello che solo tre giorni dopo diverrà un dato di fatto: la possibilità di schierarsi apertamente per il bene comune. Lì per lì nessuno lo
prende più di tanto sul serio. Ma già il giorno dopo si scopre che il manifesto di Renzi, le 100 proposte necessarie per far ripartire l’Italia, è in realtà stato scritto da Gori stesso.
La scoperta avviene nel modo più semplice possibile: un tempo sarebbe stato possibile smascherare il reale autore del documento dalla calligrafia, oggi invece è la firma digitale del file a tradire l’ormai ex capo di Magnolia. A questo punto, però, gli interrogativi si moltiplicano: intanto, che cosa vorrà fare Renzi “da grande”? Creerà l’ennesima corrente in seno al Pd che porterà all’inesorabile spaccatura o a nuove primarie? Sarà davvero così avventato il centro sinistra italiano da concedere a Berlusconi un’àncora di salvataggio? In un momento in cui c’è bisogno di grandissima coesione interpartitica, è pensabile che qualcuno favorisca l’ulteriore atomizzazione dei singoli schieramenti? Questo è un quesito a cui urge dare una risposta, nella speranza di capire quali saranno i nomi che gli italiani troveranno sulle schede elettorali. E poi, altro quesito non di poco conto: che cosa ha spinto Giorgio Gori, un manager tra i più importanti e apprezzati in Italia, a lasciare la sua creatura per affrontare l’agone politico? Si limiterebbe a essere un fidato consigliere di Renzi – il suo Gianni Letta, per mantenere categorie attuali – o ben presto il suo ego (e la presunzione descritta da Feltri) andrebbero a scontrarsi con quello del fiorentino pronto a rottamare l’intera classe politica? E, ancora, la domanda che forse interessa maggiormente agli italiani: ma in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, in cui l’economia barcolla pericolosamente e il vuoto pneumatico della politica si fa sentire ancora più del solito, è davvero di due nuove superstar che abbiamo bisogno? O non sarebbe forse meglio ritornare a quei “civil servant”che tanto hanno dato al nostro Paese, oltretutto dopo un ventennio interamente impostato sull’egotismo e sul personalismo?
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