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Il comico, essendo l’intuizione dell’assurdo, è molto più disperante che il tragico Eugène Ionesco

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 8 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere resiste oltre ogni limite contro tutto il suo partito. Oggi il voto alla Camera sul Rendiconto

Le tragicomiche finali Berlusconi fa il padrino: «Voglio vedere in faccia chi mi tradisce» I mercati lo bocciano: alle voci di dimissioni la Borsa vola, poi la smentita e torna di nuovo giù. L’Europa critica: «La lettera del governo italiano è poco chiara sui tempi e i modi delle misure» Accordo tra maggioranza e opposizione

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

DELITTO E CASTIGO

Signor premier, usi uno specchio e le apparirà chi ha tradito

Tra i dirigenti del Pdl si diffonde il panico: così ci sta distruggendo

di Osvaldo Baldacci

di Errico Novi

oglio guardare in faccia i traditori. Tra le tante imprese che Berlusconi ha proclamato di fare, questa è una delle più semplici. Basta che si guardi vicino, molto vicino. Partendo dagli specchi fino ad andare non più oltre del suo “cerchio magico”.

e continua così, il Popolo della libertà è destinato a scomparire: lo sconforto, quando non il panico, regna sovrano nel Pdl all’ultima spiaggia. Ormai lo dicono tutti, apertamente, che il problema è Berlusconi. Anche se lui fa finta di niente.

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V

Papademos, quasi un commissario Bce per salvare la Grecia? Da Boston a Francoforte, ecco chi è il nuovo leader del Paese

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Marco Scotti • pagina 7

Il catalogo degli svarioni: dalla politica all’economia

Viaggio ragionato nel mistero ellenico

Lo spread? È il Cavaliere

Unità nazionale in due ore, il paradigma di Atene

La sua parabola, ormai alla fine, è piena di errori. Uno su tutti: odiare la politica pretendendo di fare il capo del governo. Dopo che il mondo gli ha voltato le spalle, adesso anche i mercati lo licenziano

di Giancarlo Galli n un periodo storico in cui, da ogni parte, s’invocano «chiarezza e trasparenza», dalla politica all’economia, forse, e senza forse, sarebbe urgente si scoprissero i veli, accendendo i riflettori sul “Mistero greco”. Pare infatti che il futuro dell’euro, ma non solo quello, dipenda dal “rinsavimento” dei governanti e del popolo ellenico. a pagina 6

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Franco Insardà e Francesco Pacifico • pagine 4 e 8

Israele si interroga sulla necessità di intervenire subito

L’opposizione chiede la protezione internazionale

Iran a un passo dalla bomba

Assad beffa la Lega Araba

L’Aiea: «È ormai questione di quattro mesi» I militari entrano a Homs: decine di vittime Oggi l’Onu divulga il nuovo rapporto. Teheran minimizza: «È tutto falso». Shimon Peres: «La crisi è preoccupante»

Dopo averla bombardata senza sosta, i carri armati occupano la città. Anche un bambino fra le vittime. I capi dei Paesi arabi si rivedranno sabato

Antonio Picasso • pagina 12

Luisa Arezzo • pagina 10

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

216 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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tempesta sull’euro

La minaccia ha un tono da «padre padrino»

Se vuol vedere chi tradisce, porti uno specchio di Osvaldo Baldacci oglio guardare in faccia i traditori. Tra le tante imprese che Berlusconi ha proclamato di fare, questa è una delle più semplici. Basta che si guardi vicino, molto vicino. Partendo dagli specchi fino ad andare non più oltre del suo “cerchio magico”. Non è infatti difficile capire quale sia il vero senso della parola traditore. Il premier (uscente) intende per traditori coloro i quali non accondiscendono ai suoi ordini quali essi siano. Per lui la fedeltà si misura sulla base dell’obbedienza cieca, a prescindere da contenuti, programmi, prospettive, interesse generale. Roba da samurai, ma non nel senso più nobile del termine. Neanche nel feudalesimo medievale e nelle monarchie più retrive vale questo principio: la fedeltà era, sì, legata da un giuramento, ma più all’istituzione che alla persona. Erano solo i guerrieri barbari, come gli unni e i mongoli, quelli che si immolavano sulla tomba del capo. Per i feudatari, invece, lealtà voleva dire anche trovare una soluzione alternativa quando il capo perdeva la capacità di fare il bene almeno dei suoi sodali. E adesso forse è proprio tra i suoi sodali che Berlusconi deve guardare per cercare i traditori: tra coloro che hanno campato alla sua ombra approfittando della sua copertura per portare avanti interessi personali. Sono loro che l’hanno portato fuori strada, e non sarebbe una sorpresa se l’ultima pugnalata al cadavere la desse chi fino a ieri sera fingeva di difenderlo convincendolo a non mollare. Circondarsi di adulatori, sicofanti e faccendieri non ha mai aiutato nessuno a guardare in faccia la realtà e a fare le scelte giuste. Gli amici veri sono quelli che dicono la verità anche quando è amara.

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Anche dalla Lega sarebbe arrivato un invito (riufiutato) a farsi da parte

Panico nel Pdl: «Ci distrugge» Berlusconi chiede l’ennesima fiducia e fa il bullo: «Guarderò in faccia i traditori». Ma i vertici del partito pensano ad altro: «Se continua così, rischiamo di sparire» di Errico Novi

Ma poi c’è un altro traditore supremo, e questo è Silvio Berlusconi. Non è un giudizio morale, è una constatazione scaturita dall’analisi dei fatti. Prima di tutto, basta leggere i suoi programmi, i suoi discorsi dal 1994 ad oggi per rendere evidente il suo tradimento: non ha realizzato niente di quello su cui si è impegnato. Continua a ripetere stancamente le stesse promesse ma di rivoluzione liberale non c’è alcuna traccia. Anzi, il suo orizzonte è diventato via via più angusto tanto da essersi ridotto ad avere come programma reale solo quella della difesa a oltranza di una persona, se stesso.Tradendo i tanti che avevano riposto in lui le loro speranze. E tradendo le istituzioni messe al suo servizio e private della possibilità di svolgere il ruolo di guida del Paese. E tradisce l’Italia, ogni volta che si ritiene talmente indispensabile da porre l’alternativa tra lui e il bene del Paese: neanche i sovrani lo fanno, loro sanno di essere al servizio della nazione, e a volte si fanno da parte. Ma lui no: è un dato oggettivo che la sua permanenza al potere è oggi un ostacolo per lo sviluppo dell’Italia. A torto o a ragione, non è neanche il caso di entrare nella diatriba: un uomo di Stato quando vede che ha polarizzato i problemi si fa da parte rendendo comunque un grande servizio al suo Paese, e lasciando che sia poi la storia a giudicare (e a volte tornando anche a galla). Lui invece no: lui preferisce che tutti vadano a fondo con lui. Quindi non ama l’Italia. La tradisce.

ROMA. Più drammatico di così, il finale, era difficile immaginarselo. Altro che happy ending, formula tante volte evocata da Giuliano Ferrara. Altro che viale del Tramonto, sunset boulevard, e letizie varie. Silvio Berlusconi rischia di uscire di scena nel peggiore dei modi, cioè con la assoluta e completa distruzione della sua creatura politica. Non dà ascolto alle insistite pressioni che provengono da tutti i suoi uomini, dai suoi ministri, dai dirigenti del Pdl. Gli chiedono fino all’ultimo di evitare un disastro peggiore, per il Paese ma anche per loro stessi, di quello che già si compie in queste ore. In tutte le drammatiche riunioni notturne che si susseguono ormai da giorni, a cominciare da quella di domenica, l’appello disperato è uno solo: dimissioni prima che la situazione peggiori. Glielo rivolge anche la Lega con Calderoli. Invece oggi un premier sempre più livido di rabbia si presenterà alla Camera per il voto sul Rendiconto generale del 2010. Già persuaso probabilmente a non trarre conclusione alcuna dal un possibile nuovo stop di Montecitorio, dopo quello dell’11 ottobre scorso che ha costretto l’esecutivo a ripresentare il ddl. Già ieri infatti Berlusconi ha annunciato quale strada intende percorrere: «Chiederò la fiducia sulla lettera presentata a Unione europea e Bce.Voglio vedere in faccia chi prova a tradirmi». Lo dice in una conversazione telefonica con Libero, di cui il quotidiano dà notizia ben prima che l’edizione di oggi arrivi alle edicole.

Sono modi sconosciuti alla politica propriamente detta. È il linguaggio di chi non riconosce dignità ai propri col-

laboratori. Di chi li considera meri beneficiati della sua graziosa munificenza e dunque vincolati alla fedeltà cieca. Non c’è idea della rappresentanza democratica, della dignità di chi è eletto secondo i principi della Costituzione e non quelli della cooptazione. Soprattutto non c’è alcun rispetto per un partito che rappresenta pur sempre un quarto degli italiani, secondo i sondaggi. Quasi come se al Cavaliere piacesse l’idea di distruggerlo, di sacrificarlo al proprio posto o comunque di disfarsene ben prima di lasciare la politica. E c’è in ogni caso l’incredibile distorsione di una realtà pesante per l’Italia eppure ridotta a mera questione d’onore e di affermazione personale.

Non basta come attenuante la voluta teatralità della mossa politica. Non basta tener conto delle intenzioni effettivamente espresse dallo stesso presidente del Consiglio nel corso delle ultime riunioni: dimettersi e indicare Gianni Letta quale suo successore. Che sia questo il retroscena vero lo conferma lo stesso quotidiano a cui Berlusconi affida la versione ufficiale. Il vicedirettore di Libero Franco Bechis infatti ”posta”su facebook l’audio di una conversazione con un dirigente Pdl, il quale descrive proprio la soluzione Letta. L’audio è distorto per impedire di riconoscere l’esponente berlusconiano, ma non c’è motivo di dubitare sull’autenticità del documento e sull’autorevolezza dell’interlocutore. Come sia potuto avvenire nel giro di poche ore che Berlusconi sia passato dall’ipotesi di un passaggio del testimone a Letta a una sfida brutale in Parlamento, è domanda legittima. eppure la sostanza non cambia: il Cavaliere se ne infi-


tempesta sull’euro

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L’assedio (fallito) delle colombe Letta parla del governo al passato. Ferrara annuncia le dimissioni. Poi fanno marcia indietro di Marco Palombi

ROMA. «Io penso che la maggioranza tenga ancora. Poi si vedrà». Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, visto che ha avuto per un paio d’anni anche la delega alla Sanità, giustamente ricorre ad un frasario da corsia d’ospedale. Come sta? Domanda l’amico in visita. «Per ora tiene», dice il parente stremato da una notte insonne. È tutto un universo mentale da malattia terminale, da vita attaccata alle macchine in cui speranza e disperazione si mischiano senza sosta per creare lo stato d’animo di domani. Eppure quelli che «per ora tiene», fuor di metafora, dicono anche altro: una volta che questo governo avrà reso l’ultimo respiro, anche questo Parlamento dovrà spirare con lui. Sono gli forsennati del berlusconismo, quelli votati alla “bella morte” come dice l’ex irriducibile Giorgio Stracquadanio, ma che in realtà pensano alla bella vita di non morire per cancellazione della propria parte in commedia: le quarte file della Prima Repubblica che Silvio Berlusconi ha gettato sul proscenio, i fondatori o i riciclatori di partitini personali, regionali, provinciali, di condominio, al portatore. Costoro vogliono che il premier resista, vogliono le urne o un altro governo di centrodestra o qualunque altra cosa la fantasia gli suggerisca alle labbra. Tutto tranne quel che vorrebbero urlare: vogliamo (soprav)vivere. Non sarebbero granché convincenti alle orecchie del premier se altre voci, ben più rilevanti agli occhi del nostro, non lo spin-

gessero a resistere nel bunker di palazzo Chigi: quelle degli amati figli di primo letto (Marina e Piersilvio) e dell’amico di una vita, Fedele Confalonieri. È la voce imprescindibile degli affetti e degli interessi privati, che si dichiarano irriducibili ad un’altra temperie politica, plastica rappresentazione non tanto del conflitto di interessi, quanto del liberalismo di Berlusconi.

Altro mestiere fanno invece quelli che in altro senso sussurrano al Cavaliere, ma non tutti lo stesso. Si distinguono per il tono del discorso: quelli che scandiscono bene le parole – dimissioni – mirano al voto a gennaio per godersi l’ultimo assalto al cielo del sultano e trovarsi un posticino nella si spera sconfitta; onorevole quelli che invece si perdono nelle perifrasi – sentiamo il Quirinale, parliamo con l’Udc – vogliono allungare la vita della legislatura provando contemporaneamente a salvare anche il Pdl, che invece il suo padrone vorrebbe sacrificare al buon esito della propria personale battaglia.Vediamo chi e come.Tra i primi è, trasparentemente, Giuliano Ferrara: «La via d’uscita c’è. Invece di prolungare l’agonia, Berlusconi si presenta alle Camere, chiede la fiducia per varare la legge di stabilità e il maxiemendamento, annuncia che si dimetterà un minuto dopo e che chiede le elezioni a gennaio. Di questo si discute». È anche la tesi della Lega, espressa domenica in tv da Roberto Maroni: «È inutile insistere, meglio puntare sul voto e se si

“Libero” diffonde la registrazione di una telefonata in cui un dirigente del Pdl insulta il premier

schia del suo partito. Non tiene in conto i suggerimenti che tutti gli danno. Soprattutto espone la sua creatura politica alla sostanziale dissoluzione.Vediamo perché.

Di fronte alla catastrofe finanziaria che si consuma da settimane e investe in particolare l’Italia, sarebbe scelta responsabile mettersi da parte, fare un passo indietro innanzitutto nel significato estensivo dell’espressione. Cioè considerarsi meno importante rispetto al destino complessivo del Paese. Vista l’impennata tremenda conosciuta ieri dallo spread con i bund tedeschi, non si può certo dire che l’allarme tenda ad attenuarsi. Questa è la prima considerazione. Rispetto alla quale però Berlusconi è indifferente. Grave, gravissimo. Ma ormai assodato. Sorprende dunque di più, in fondo, che il Cavaliere sia blindato nel suo cinico egotismo anche rispetto al futuro del Pdl. Nel senso che la strada del bunker e dell’irragionevole alternativa tra fiducia ed elezioni immediate porta fatalmente lo stesso partito a sbattere contro un muro. «Così ci distrugge», è il lamento doloroso che si leva da molti uomini di primissima linea. Quello che Berlusconi dovrebbe fare, se non per il Paese almeno per interesse politico di parte, è in effetti salire, ieri e non oggi, sul Colle più alto, non solo dimettersi, ma dichiarare che il Pdl è disponibile a un governo di larghe intese e che non pone alcuna pregiudiziale sul nome del nuovo premier, rimettendosi alla saggezza di Napolitano. Questo sarebbe sensato. Per l’Italia, innanzitutto. Ma anche per il partito di maggioranza relativa. Perché gli

perde, pazienza». La stessa posizione che Roberto Calderoli dovrebbe aver trasmesso a Berlusconi in quel di Arcore ieri pomeriggio: i movimenti politici vanno anticipati, devi dare le dimissioni e se vuoi fare un governo Letta per qualche mese fai pure. Opzione che potrebbe accontentare anche quei ministri e dirigenti politici – Sacconi, Brunetta, Cicchitto, Gasparri, Romano, Rotondi, il neopasdaran Ronchi e via scendendo – che se pensano al dopoBerlusconi riescono a vedere solo la propria testa sul ceppo del boia.

C’è anche chi, nel Pdl e dentro la maggioranza, pensa che il principale partito del Parlamento dovrebbe guidare la necessaria fase di ricostruzione dei conti pubblici in un governo di unità nazionale: nel vertice di domenica notte a palazzo Grazioli in molti si sono spesi per questa soluzione e avevano strappato al Cavaliere l’impegno a dimettersi ieri. Solo che il nostro prima voleva parlare coi vertici di Mediaset e Mondadori (i suoi figli e Confalonieri, appunto). Lo testimonia il vicedirettore di Libero Franco Bechis, che per l’occasione ha rispolverato una sua vecchia abitudine: registrare i suoi interlocutori a loro insaputa. Così è della telefo-

garantirebbe dignità e autorevolezza per partecipare da protagonista alla nuova fase politica che andrà ad aprirsi. Perchè rafforzerebbe un segretario, Alfano, comunque chiamato a gestire tensioni fortissime. Se invece Berlusconi si barrica nel bunker e va alle elezioni, la disgregazione già in atto nel suo partito diventerà incontrollabile. La stessa cosa avverrebbe d’altronde se il leader del centrodestra continuasse a rifiutarsi di aprire una fase nuova e questa si compisse suo malgrado. In quel caso il Pdl si sgretolerebbe in modo forse anche più rapido. Scajola ha già detto di essere disponibile a sostenere un nuovo esecutivo. E ci vorrebbe poco per

adopera vie molto spicce, al limite della sevizia, nella gestione degli affari interni. Oltretutto la dissoluzione del Pdl consentirebbe a Berlusconi di presentarsi con un nuovo brand, a carattere ancora più schiettamente personalistico di quanto non sia già la versione attuale, e cercare di mantenere una certa capacità di influenza.

Riuscirà Berlusconi nelle prossime ore ad affrancarsi dalla sindrome del conte Ugolino? Ammesso che ci riesca, resterebbe comunque il rischio di restare cocciutamente aggrappato a una pretesa ormai insostenibile, quella di veder preservato «il voto del 2008» e quindi di imporre un nuovo premier che sia garante di questa esclusiva condizione. Sarebbe sbagliato perché non ci sono – né nella lettera della Costituzione né nella prassi di queste ore difficili – vincoli postelettorali. C’è solo da aprire una nuova fase politica. È per questo che serve un nome capace di interpretare davvero lo spirito del governo di unità nazionale. Più che un uomo di fiducia di Berlusconi, dunque Letta, Alfano, Schifani, al nuovo governo servirebbe il Pdl. Non perché sarebbe questa la forma appropriata per preservare la mitica volontà del 2008, ma perché se governo di unità nazionale deve essere, come può mancare il Pdl? Più che alle ovvie risposte a tali retorici quesiti, Berlusconi deve risolversi d’altronde rispetto a qualcos’altro: persistere in una visione personalistica di quanto avviene o rendersi conto che il dramma a cui è esposta l’Italia conta assai più di qualunque altra cosa.

Solo una via salva il partito di maggioranza relativa: la disponibilità a un governo di larghe intese senza pregiudiziali sul nome di chi dovrà guidarlo vedere ingrossarsi quella slavina tanto temuta a via dell’Umiltà, con decine di parlamentari che lasciano il Cavaliere per entrare in una maggioranza allargata a tutte le forze politiche.

C’è solo una spiegazione: a Berlusconi la distruzione del Pdl conviene addirittura. Non ha mai amato il nuovo partito. Dice di volergli cambiare nome. E comunque è noto e attestato da qualche parlamentare più sincero di altri il «profondo disprezzo che il presidente ha sempre nutrito per i suoi dirigenti». Al punto da aver scelto tra loro il più impolitico di tutti, quel Denis Verdini che

nata con «l’autorevole esponente del centrodestra» – chiacchiere di Transatlantico e un ascolto attento lo identificano nel sottosegretario Guido Crosetto, che però smentisce – che racconta come «all’una di notte eravamo rimasti così: secondo noi tutti doveva dimettersi subito, di mattina, ma quella testa di c… è andato a Milano: A fare che? Che ne so, cose sue». Per fare qualche nome, tra i principali sponsor del prosieguo della legislatura ci sono Gianni Letta e Angelino Alfano: il primo è conscio della situazione e non crede che sia possibile fissare l’Armageddon con una telefonata, il secondo è giustamente preoccupato di non morire con tutti i filistei. Nello schema “voto subito”, infatti, oltre a Pdl, Lega e agli altri partitelli, nella coalizione dovrebbe trovare posto una lista personale tipo Forza Silvio, che finirebbe per uccidere proprio il partito del Predellino. Il giovane segretario, il ventesimo delfino di Re Biscione, prega dunque per il passo indietro, ma il suo livello di influenza sulle decisioni è pari alla considerazione che di lui hanno gli altri maggiorenti del Pdl: quasi nulla.


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tempesta sull’euro

Dall’Eurogruppo arriva un nuovo rinvio alla nascita del Fondo Salva Stati, mentre il Belpaese torna sul banco degli imputati

Lo spread? È il Cavaliere

Voci di dimissioni: la Borsa esulta, ma poi si deprime alla smentita. E l’Unione chiede a Tremonti chiarimenti sui «buchi» della manovra di Francesco Pacifico

ROMA. Il film della giornata ha un impatto diverso se visto attraverso lo schermo di un operatore di Borsa. Alle 9.11 del mattino Piazza Affari apre cedendo l’1,47 per cento con l’indice Ftse Mib a quota 15.120 punti. E siccome nell’aria riecheggiano gli avvertimenti di Berlino, Bruxelles e Washington, bastano pochi minuti e lo spread tra il Btp e il bund tedesco schizza a 480 punti base.

Un’ora dopo, con i futures su Wall Street in calo dell’1 per cento e la politica impegnata sul dopo Berlusconi, Milano scende dell’1,60 per cento (Ftse Mib a quota 15.100 punti) e lo spread tra il nostro decennale e quello tedesco si alza di altri 5 punti base, poi ancora di cinque, fino a sfiorare il record di 491 punti nonostante da una settimana, dall’arrivo di Draghi all’Eurotower, la Bce abbia raddoppiato gli acquisti sul nostro debito.

Poi, verso mezzogiorno, qualcosa si muove in direzione contraria. Gianni Letta avverte che, con o senza Berlusconi a Palazzo Chigi, la lettera per l’Europa sarà applicata. Giuliano Ferrara aggiunge dal sito del Foglio che «Berlusconi stia per cedere il passo ormai è una cosa acclarata» e per miracolo sui mercati si diffonde l’ottimismo. Si scommette su imminenti dimissioni, tanto che alle 12.30 la Borsa guadagna il 2,35 per cento, il Ftse Mib va a 15.708 e lo spread si riduce a 471 punti. Ma alle 14 in punto il Cavaliere spiazza tutti. Compresi i mercati. E telefonando a Libero fa sapere che per l’indomani, cioè nella giornata oggi, «si vota il rendiconto alla Camera, quindi porrò la fiducia sulla lettera presentata a Ue e Bce.Voglio vedere in faccia chi prova a tradirmi. Non capisco come siano circolate le voci delle mie dimissioni: sono destituite di ogni fondamento». Poco importa che Ferrara chiarisca che il Cavaliere si dimet-

terà non appena la crisi da politica diventerà parlamentare. Che è questione di giorni. Sul mercato, infatti, il trend rialzista scema. Infatti a metà pomeriggio il differenziale tra Btp e Bund si riduce a 466,4 punti base, mentre Piazza Affari si attesta sul +1,90, per poi chiudere a +1,32 per cento. Quel che è certo è che gli operatori internazionali hanno iniziato a scommettere sui bond

ca economica italiana deciso da Fondo monetario e Unione europea. Così – come fu per la Germania post Schroeder e in prospettiva di un aumento dell’Iva – si auspica in Italia la creazione di un governo di coalizione, in grado di fare quelle riforme dolorose (pensioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni) che non può approvare un centrodestra tenuto in piedi dallo Scilipoti di turno.

Nuovo allarme sugli istituti di credito italiani: troppi titoli pubblici dei Piigs nei loro portafogli

Wolfgang Munchau, massimo censore delle cose europee per il Financial Times, ha scritto ieri che «il G20 di Cannes ci ha lasciato in un vuoto, senza una strategia per la soluzione della crisi. Nei decenni precedenti il G7 ha fallito nel prevenire le varie crisi finanziarie. In questo decennio il G20 sta fallendo nel risolverle. Il Fondo monetario, poi, non è attrezzato per fare i conti con un Paese della taglia dell’Italia. E non lo è il fondo Salva Stati, Efsf, creato per Paesi piccoli come Grecia e Irlanda e la cui espansione non funzionerà». Conclusione? «È stato un errore», secondo Munchau, «spingere l’Italia sotto un programma del Fmi senza essere in grado di farlo completamente. Se

italiani e a comprare i nostri titoli bancari quando è sembrata certa l’uscita di scena del Cavaliere. Non a caso il Financial Times ha scritto sul suo sito che «le speculazioni di stampa sulle possibili dimissioni di Berlusconi eccitano i mercati». Chi ha le conoscenze e l’esperienza per decifrare il sentiment degli investitori, racconta che non dà grandi garanzie il commissariamento della politi-


«I mercati lo hanno licenziato. Il premier lasci a chi ha a cuore il futuro».

In alto, da sinistra, il presidente del Consiglio d’Europa, Herman Van Rompuy, e il numero uno della Commissione europea, José Manuel Barroso. In basso, nell’altra pagina, il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti. A sinistra, dall’alto verso il basso, il politologo Gianfranco Pasquino e gli storici Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci

si voleva raggiungere questo risultato, i leader avrebbero dovuto dirlo apertamente e la Banca centrale europa avrebbe dovuto annunciare che non avrebbe più sostenuto il mercato del debito italiano. Ma hanno fallito e hanno lasciato Berlusconi fuori pericolo». Sui mercati gira voce che prima di Natale i grandi del mondo potrebbero riunirsi per costruire l’ennesimo cordone intorno alla Grecia. E tanto basta per capire quanto si brancoli nel buio. Ma a tentoni si muovono anche le maggiori cancellerie d’Europa, le stesse che pensavano di aver tranquillizzato gli investitori, mettendo sotto tutela il debito sovrano italiano. E che ora si accorgono di aver lasciato il Belpaese nelle mani della speculazione. Ce ne si è accorti ieri all’Eurogruppo, programmato qualche settimana fa per dare il via libera al Efsf e ritrovatosi ora con l’agenda da riscrivere. Infatti il Fondo Salva Stati è rimandato di altri tre mesi, visto che ha una potenza di fuoco troppo limitata per emettere suoi bond in questa fase. Arrivando a Bruxelles il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, si è detto sorpreso perché «i dati sull’economia reale non giustificano il nervosismo dei mercati nei confronti dell’Italia. Ma se il Paese attuerà gli impegni di riforma per i quali si è impegnata, ci sarà un recupero della fiducia dei mercati». Fatto sta che, non avendo di meglio di cui discutere, anche la due giorni europea iniziata a ieri Bruxelles si è trasformato in un processo all’Italia. Con Giulio Tremonti sul banco degli imputati a difendere il maxiemendamento alla Legge di stabilità che non ha scritto e la lettera d’impegni alla Ue che non ha condiviso, e a sciorinare date entro le quali fare le riforme.

E rischia di essere molto improbo il lavoro che attende il ministro del Tesoro. Ieri mattina un portavoce del commissario agli affari economici Olli Rehn ha fatto sapere che «la lettera inviata dall’Italia ha dei limiti oggettivi, non c’è ad esempio un’analisi economica delle misure o l’impatto sul bilancio e nemmeno i dettagli della riforma del lavoro». Ed è per questo che già la prossima settimana i tecnici mandati a Roma da Bruxelles andranno a spulciare i conti direttamente nei ministeri. E nubi avvolgono anche la stabilità del sistema bancario nostrano. Nell’annuale ricerca di Mediobanca sulle semestrali delle big del credito, si scopre che i colossi italiani (complici gli acquisti su Bot e Bpt) sono al primo posto con 107 miliardi di euro nella classifica per l’esposizione verso i Piigs. Se non bastasse, IntesaSanpaolo e Unicredit crescono molto meno dei loro concorrenti: il loro Roe – 4,9 per cento per Ca de’ Sass, 4,2 per piazza Castello – è un terzo di quello degli istituti svizzeri, tedeschi o spagnoli. Ora le attenzioni di tutti si rivolgono al maxiemendamento alle Legge di Stabilità, con la quale Berlusconi trasforma in legge il 90 per cento degli impegni con l’Europa. «Un piccolo passo in avanti», sottolinea Gabriele Manconi, presidente di Confimprese Italia Giovani. Ma tra sgravi contributivi sull’apprendistato, dismissioni dei terreni agricoli e soldi al trasporto pubblico locale, a Bruxelles hanno stigmatizzato l’assenza di interventi sulle pensioni e sui licenziamenti. Il tutto mentre Renato Brunetta fa imbestialire i sindacati, perché cancella l’assenso obbligatorio sulla mobilità degli statali da trasferire negli uffici sottorganico. Per la Cgil è «l’anticamera del licenziamento».

«Se questo è il Paese che ama, lo dimostri»

Sabbatucci, Pasquino e Pombeni disegnano la via d’uscita dalla crisi: «Un governo di larghe intese per salvare l’Italia» di Francesco Lo Dico

ROMA. Ciò che non era riuscito a politici di vaglia, diagnosti assortiti del mercatismo e vertici dei maggiori organismi internazionali, si era compiuto ieri con un semplice tratto di penna di Giuliano Ferrara. «Che Berlusconi stia per cedere il passo ormai è una cosa acclarata. Si tratta di ore, qualcuno dice perfino di minuti», scriveva il direttore del Foglio alle undici del mattino di ieri. E tanto bastava, perché il Paese tornasse improvvisamente sulla strada luminosa della crescita: lo spread scendeva di colpo di venti punti, mentre la borsa rimbalzava da quota meno due a più tre cento. Il nostro Paese, insomma, aveva ripreso ad assomigliare all’Italia. Non fosse che l’editoriale di Ferrara, sino a quel punto degno di un Nobel per l’economia, è stato spazzato via all’ora di pranzo dal premier in persona: «Le voci di mie dimissioni sono destituite di fondamento e non capisco come siano circolate», tuona il Cavaliere. I mercati prendono atto e gli manifestano tutta la solidarietà: lo spread torna a 482 punti, la borsa perde quasi un punto e mezzo. Numeri chiari, da tradurre in un solo imperativo: dimissioni. «È davvero paradossale, ma la giornata di oggi cancella ogni ragionevole dubbio: chi poteva mai immaginare un governo liberista e liberale licenziato dai mercati?». Giovanni Sabbatucci, docente di Storia contemporanea all’università La Sapienza di Roma, non poteva scegliere chiosa più efficace. «Le borse dicono che Berlusconi è un ostacolo per la credibilità del Paese», argomenta il professore, «e il senso dello Stato dovrebbe spingerlo verso quel passo indietro che tutti gli chiedono da tempo per il bene del Paese». «Ho la sensazione», prosegue lo storico, «che quella del direttore del Foglio, più che un’imbeccata fosse un suggerimento per evitare il peggio». Senza contare l’improvviso ammutinamento di molti fedelissimi del Cavaliere, e la stizza di quanti gli consigliano di dimettersi per non diventare irrilevante dopo la caduta. «Ora che anche i suoi stanno scappando dalla nave, il premier dovrebbe accettare l’idea del naufragio», ragiona il professore, «mettere da parte le sfide personali e accontentarsi di collaborare alla salvezza del Paese. L’aut-aut “o resto io o elezioni subito” non mi sembra affatto sincero, il presidente del Consiglio sa bene che le urne gli consegnerebbero una sconfitta cocente che segnerebbe comunque la fine della sua avventura politica. Un governo tecnico non farebbe altro che bene, alla brutta situazione del Pdl. Ma allo stesso tempo non farebbe troppo gioco al Pd, che teme probabilmente di iscrivere anche il proprio nome sulle impopolari misure che ci richiede l’Europa». «La permanenza in vita di questa maggioranza oltre la sua reale forza», spiega il professor Sabbatucci, «ha compromesso quasi del tutto anche la possibilità di un governo Letta, che avrebbe consentito ancora ampi margini di manovra al premier. Con il risultato che anche l’annuncio di elezioni anticipate alla Zapatero, e le urne subito, diventerebbero in questo frangente molto pericolose. Il bisogno di consenso spingerebbe quasi tutte le forze politiche a una rissa inconcludente intorno alle misure europee. L’unica ipotesi che resta in piedi è a questo punto un governo di salute pubblica». «Berlusconi, se non per il Paese, dovrebbe compiere un atto di responsa-

bilità verso se stesso», concorda Paolo Pombeni, docente di Storia dei Sistemi politici europei all’Alma Mater di Bologna. «Se fosse un politico normale», spiega Pombeni, «comprenderebbe bene come fare un passo indietro gli permetterebbe di contare ancora qualcosa nella gestione del dopo, ma l’ego smisurato porta l’uomo verso un tracollo ancora più rovinoso di fronte all’aula e all’intero Paese». «Il premier sa bene che in un governo di larghe intese», ragiona Pombeni, «la sua opinione conterebbe solo se fosse intonata a quella di coloro i quali si troverebbero a gestire l’emergenza. I suoi veti diventerebbero ininfluenti e del

«Tentare altri colpi di coda significherebbe fare ancora più male alla nazione. Con lo stesso risultato: la fine dell’avventura del Cavaliere» tutto inconsistenti i suoi voleri in fatto di leggi e di nomine. Si tratterebbe “soltanto” di dare una mano a salvare il Paese. Ma come Gheddafi di recente, e Hitler e Mussolini in passato, Berlusconi è ostaggio del mito di Sigfrido, dell’eroe che deve affondare insieme alla sua nave, stretto alla tolda di comando». «Un governo di larghe intese sarebbe la soluzione più auspicabile, ancorché complessa. Colpi di mano dell’ultima ora», avverte il professore, «non farebbero che peggiorare gli effetti di una crisi terrificante. A oggi abbiamo pagato un prezzo modico, rispetto a quello che ci attende a medio termine. C’è il rischio che i pezzi migliori dei nostri asset industriali finiscano in mano straniera per un piatto di lenticche».

«Berlusconi è atteso da due semplici mosse», chiarisce Gianfranco Pasquino, ordinario di Scienza politica all’università di Bologna, «far approvare il rendiconto e dimettersi. L’unica soluzione possibile è un governo politico, che probabilmente non includerà né Vendola né lla Lega. Un’accolita di volenterosi che dia risposte alla Bce, e sappia rimodurarle in maniera tale che all’Italia sia risparmiato un bagno di sangue. Il Paese va incontro a prove troppo dure, perché l’ amor proprio del Cavaliere si interponga. Se l’Italia è il Paese che ama, lo dimostri finalmente!».


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tempesta sull’euro

Bugie sui numeri, titoli che diventano carta straccia, evasione, ingovernabilità: davvero il caso ellenico è isolato in Europa?

I conti della Grecia incidono pochissimo sul bilancio europeo: perché, allora, le sue difficoltà pesano così tanto? Ecco cosa c’è di paradigmatico per tutto l’Occidente nella crisi di Atene. Che in sole due ore ha portato all’unità nazionale di Giancarlo Galli n un periodo storico in cui, da ogni parte, s’invocano «chiarezza e trasparenza», dalla politica all’economia, forse e senza forse, sarebbe urgente si scoprissero i veli, accendendo i riflettori sul “Mistero greco”. A leggere le assai poco confortanti cronache del G20 di Cannes della scorsa settimana, pare infatti che il futuro dell’euro, ma non solo, dipenda dal “rinsavimento” dei governanti e del popolo ellenico, che si sarebbero sin qui irresponsabilmente comportati: falsificando i bilanci pubblici e in definitiva lavorando poco ma consentendosi un tenore di vita al di sopra delle loro possibilità. Facendosi prestare soldi (che probabilmente non onoreranno mai, o a “babbo morto”), dalle istituzioni europee e dalle banche dei cinque continenti, specialmente da quelle tedesche, francesi e italiane. In cambio di Bond (titoli), ormai assimilabili alla carta straccia. Ancorché filigranata e colorata.

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Ebbene, a dirla fuori dai denti, è impossibile raccapezzarsi. La Grecia conta all’incirca 11 milioni di abitanti rispetto ai quasi 500 dell’Unione europea ed ai 400 della zona euro. Certo il Pil pro-capite è leggermente sotto la media continentale. Nel 2001 quando chiese ed ottenne di abbandonare la millenaria dracma per adottare l’euro, vi fu qualche perplessità. Superata dai successivi e solenni impegni (disattesi) a mettere ordine nei conti nazionali. Che truffaldini erano, e tali sono rimasti, per l’incredibile rispettosa “tradizione” dei tecnocrati di Bruxelles-Francoforte a non mettere becco nei numeri degli Stati. Inaccettabile ingerenza, mancanza di fiducia, si spiegava. Così, Atene ha accumulato debiti pari al 140 per cento del Pil, la ricchezza annualmente prodotta. Pesante fardello, ma nemmeno ciclopico, pensando al 120 per cento italiano, al francese ed al tedesco che viaggiano attorno a

“Quota 90”. Prendiamo però le misure: il “buco greco”, per profondo che sia, ha un’incidenza che, a seconda dei calcoli degli economisti ed analisti finanziari, tocca appena fra il 2 ed il 3 per cento sull’insieme di Eurolandia.

Se questo è lo scenario, riflettiamo. Nella gran famiglia dell’euro, uno dei membri ha sgarrato. Sarebbe quindi stato doveroso inchiodarlo al muro delle responsabilità; poi, quale

ultima ratio, metterlo alla porta. In ogni caso, il danno arrecato dal discolo probabilmente irrecuperabile, non era tale da mettere in crisi l’intera famiglia. Invece s’è verificato il contrario: il temuto default (fallimento) di Atene ha provocato, a catena, crollo delle Borse, inquietudini sui mercati finanziari, timori di contagio. Non bastasse, anziché cospargersi il capo di cenere, il premier Papandreou ha reagito da giocatore di poker levan-

Ciclicamente, alle difficoltà economiche corrispondono derive autoritarie

tino, minacciando un referendum sulla permanenza nell’euro; in contemporanea pretendendo altri prestiti.

Sorge allora l’interrogativo: per quali ragioni la reazione dei big europei, in primis la signora Merkel e monsieur Sarkozy, è stata fiacca, possibilista, oltremisura preoccupata di non punire la Grecia escludendola dall’euro? Evidentemente, se non si vuole tagliare il bubbone con un colpo di bisturi, hanno da esserci validi motivi. Inconfessabili, o almeno sin qui inconfessati. Nei circuiti dell’Alta Finanza, i cui comportamenti speculativi e predatori sono all’origine di una crisi (iniziata nel 2008), per molti aspetti paragonabile a quella, devastante, degli anni Trenta del secolo scorso, a labbra strette si comincia a sussurrare che lasciando fallire Atene, si toglierebbe il coperchio al mitico vaso di Pandora, contenente tutti i mali del mondo civilizzato. In concreto. Certo la Grecia ha avuto comporta-


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Accordo fatto tra maggioranza e opposizione per l’emergenza

Arriva Papademos, l’auto-commissario

Il premier in pectore è stato scelto per il suo passato nel board della Bce (e per l’equidistanza dai partiti) di Marco Scotti entre in Italia si vocifera che l’avventura di Silvio Berlusconi sia giunta al capolinea, c’è chi ha davvero deciso di cedere il passo: George Papandreou, il leader socialista che ha dovuto affrontare durante la sua gestione l’ultimo e più difficile tracollo della Grecia, ha trovato un’intesa con Antonis Samaras, capo dell’opposizione conservatrice, per un governo di unità nazionale che permetta di reliazzare le misure più urgenti al fine di traghettare Atene fuori dalla palude. Poi, a febbraio (è stata indicata la data del 19 come probabile), una volta ultimato il governo emergenziale, via libera a nuove elezioni. Il tutto è avvenuto sotto lo sguardo soddisfatto del Capo dello Stato greco, Karolos Papoulias. Chi guiderà l’esecutivo da qui a febbraio è ancora da decidere, almeno ufficialmente. Ufficiosamente, invece, c’è un nome che rimbomba più di altri, ed è quello di Lucas Papademos, già vicepresidente della Bce. Un nome che ha raccolto un ampio consenso proprio perché ex membro dell’organismo che più di altri in questo momento è interessato alle sorti di Atene. Si spera, insomma, che un po’ dell’aria di Francoforte respirata per anni da Papademos gli sia rimasta nei polmoni, e gli permetta di realizzare quelle ricette – sicuramente impopolari – per condurre Atene verso lidi più tranquilli.

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presso la Banca Greca. Nel 1993 ne diviene vice governatore, assumendone un anno dopo il comando. Sotto la sua guida, la Banca Greca affrontò la transizione tra la dracma e l’euro. In seguito, dal 2002, ha ricoperto la carica di vice-presidente della Bce fino al giugno del 2010. Se poi Papademos sarà l’uomo giusto per risollevare la Grecia dalla catastrofe, evitando un’uscita dall’euro che sarebbe dolorosissima per tutti, è presto per dirlo. È certo però che la recente esperienza nell’Eurotower avrà fornito al possibile leader del prossimo esecutivo greco alcune categorie mentali che stanno molto a cuore alla Banca Centrale. Su tutte, il rigore: è indubbio che a Francoforte c’è grande attenzione non soltanto per il mero “far quadrare i conti”, ma anche sulla capacità del governo del paese membro di attuare misure che diano respiro all’intero sistema paese. Per questo motivo, nonostante le continue revisioni, si continua a guardare con sospetto a quanto realizzato fin qui dall’Italia: perché buona parte delle misure che potrebbero venire adottate sono in realtà viste come recessive e, di conseguenza, oltre a ridurre le spese rischierebbero di ridurre anche la ricchezza prodotta, ingenerando un pericoloso circolo vizioso.

Oltre che sul rigore, il nuovo esecutivo deve puntare sulla ripresa dell’economia del Paese

Perché Papademos? Intanto, perché è una figura apprezzata da maggioranza e opposizione; poi, perché garantirebbe al contempo continuità con l’attuale esecutivo (Papademos è vicino ai socialisti) e discontinuità con la politica economica che si è fin qui rivelata fallimentare; infine, per il suo cursus honorum: ha lavorato dal 1980 presso la Federal Reserve Bak di Boston, prima di tornare in patria per ricoprire il ruolo di Capo Economista

Dall’inizio dell’anno, è la seconda volta che un leader di uno dei paesi raggruppati sotto l’odioso acronimo di Piigs (Portogallo Irlanda Italia Grecia e Spagna) annuncia le proprie dimissioni. È successo con Zapatero alla fine di luglio, e ora con Papandreou. In entrambi i casi, i mercati hanno salutato con ottimismo il passo indietro. La Spagna, in particolare, dall’annuncio di Zapatero è stata “riabilitata” sia dalle borse (che hanno cessato l’attacco speculativo indirizzandosi verso l’Italia) sia, soprattutto, da Ue e Bce, che hanno a più riprese elogiato le politiche economiche messe in atto da Madrid, di fatto togliendola dalla “lista dei cattivi” (e inserendoci l’Italia). Visti i precedenti, non resta che capire quale sarà la sorte di Atene: certo, la situazione è ampiamente compromessa, come testimoniato dall’idea di Papandreou – fortunatamente poi rientrata – di indire un referendum per capire quale fosse il sentimento dei greci relativamente alle misure imposte da Fmi e Ue per sbloccare la tranche di aiuti da 8 miliardi di euro. Una volta compreso che se il referendum fosse passato, Atene avrebbe dovuto rinunciare al contributo degli organismi internazionali, Papandreou ha preferito fare marcia indietro. Ma c’è un problema sistemico, fatto di riforme che non sono state realizzate e di conti pubblici non più sostenibili, che renderà il lavoro di Papademos – se sarà lui il prescelto – estremamente arduo. E chissà che, dopo Madrid e Atene, anche a Roma non si annunci a breve un nuovo governo…

menti censurabili, tuttavia fra le Nazioni ve n’è davvero qualcuna senza peccato? L’America di Obama (e prima di Bush) ha un bilancio statale spaventoso. Il dollaro, non più garantito dall’oro di Fort Knox dai tempi di Richard Nixon (1971), è puntellato dall’interessata benevolenza di Pechino che ha accumulato montagne di biglietti verdi in cambio di “mano libera” nella commercializzazione di prodotti a basso costo e di una crescente influenza politica nel Sud Est asiatico e nell’Africa australe. Anche gli americani, pur militarmente ancora potenti, campano sui debiti con l’estero. In Estremo Oriente, il Giappone “dei miracoli” postbellici ha a sua volta un debito pubblico prossimo al 200 per cento del Pil, e gli indici azionari della Borsa di Tokio sono crollati del 70 per cento in un decennio.

Checché si voglia far credere negli inconcludenti Supremi Consessi (ultimo, appunto, Cannes), non c’è Nazione che navighi in buone acque. A parte gli Stati petroliferi del Golfo Persico, che campano e sperperano (finché dura!) su un’immeritata rendita, Cina e Russia si reggono su un export favorito da un tenore di vita popolare nemmeno alla lontana paragonabile all’occidentale. Idem per gli “emergenti”Brasile e India. L’intero sistema capitalistico o neocapitalistico si trova dunque in un instabile equilibrio. E l’Europa è il punto più dolente. Eppure, nell’ultimo decennio dello scorso secolo, con l’introduzione dell’euro che avrebbe dovuto aprire la strada ad un’effettiva e cogente governance politica comune, si tentò di gettare il cuore oltre l’ostacolo. I buoni propositi sono rimasti in larga misura pia intenzione, lettera morta. Col maestoso grattacielo della Banca centrale europea di Francoforte assurto a simbolo della scarsa efficienza tecnocratica: financo incapace di bacchettare in anticipo i “dissoluti” ateniesi. Verità è che ci si è rifiutati di“andare a vedere” quel che accadeva all’ombra del Partendone, poiché ciò avrebbe comportato verifiche politiche e finanziarie a 360 gradi. Esempi politici: perché Gran Bretagna, Svezia, Norvegia e Danimarca rifiutavano di accettare l’euro, mentre si accoglievano Cipro e Malta? Esempi contabili: perché non si è avuta la giusta attenzione sui cronici bilanci deficitari di Irlanda e Portogallo, oltre che della Grecia? Sin troppo ovvia risposta: c’erano pure Italia e Spagna; e gli stessi “conti”di Parigi non brillano. Può sembrare fantapolitica o fantafinanza. Senonché l’apparente disattenzione nascondeva la preoccupazione principale: evitare che la Germania prendesse lo spunto dalla crisi per allontanarsi da un euro che mai ha amato; bensì subìto solo in un drammatico

incontro-scontro fra il presidente francese Mitterand e il Cancelliere Kohl, quale “compensazione” per l’unificazione tedesca. Inoltre, per le straricche banche tedesche, l’euro (che ora rischia di trasformarsi in boomerang) si rivelò un colossale affare: finanziarono, lucrando faraonici profitti, un po’ tutti i Paesi euro-deboli. Altrettanto fecero le banche francesi. Le une e le altre sostennero acquisizioni di banche ed industrie. In mezza Europa, Italia inclusa. In Italia, basti pensare a Parmalat e Bnl, alle mire espansionistiche del Credit Agricole, al finanziere bretone Vincent Bolloré che attraverso il cavallo di Troia di Mediobanca cerca di scalare le Assicurazioni Generali. S’ha dunque l’impressione che la pur giusta demonizzazione della Grecia, nonché la recentissima messa sotto tutela d’Italia e Spagna (per quel che ci riguarda profittando di un Silvio Berlusconi screditato, per gli iberici di uno Zapatero dato perdente alle elezioni della prossima settimana), sia congeniale ai franco-tedeschi colpiti da febbre egemonica. Tuttavia, guardando oltre la cortina fumogena che dovrebbe nascondere le “Grandi manovre” si scorgono i contorni di una deriva autoritaria. O peggio.

La notizia di un colpo di Stato dei militari di Atene è stata minimizzata. Eppure sarebbe stato opportuno spiegare i motivi della sostituzione, fra il tramonto e l’alba, dei comandanti di esercito, marina, aviazione. Un apparente “dettaglio” o “dimenticanza”, che ingigantisce le preoccupazioni. Reali. L’impresa libica voluta da Sarkozy aveva come principale intento di distogliere l’opinione pubblica transalpina dai problemi interni: l’economia che zoppica, la disoccupazione in rapida crescita. La storia delle crisi economiche dell’Era capitalistica dimostra che il “superamento” è sempre avvenuto lungo tre direttrici: inflazioni e guerre, accompagnate dall’affermarsi di governi dittatoriali o limitazioni democratiche. Siamo ancora una volta a questo punto? Auguriamoci di sbagliare, ma le ansie non possono venire sottaciute. Le democrazie sono deboli e indebitate, le dirigenze politiche fragili ed incapaci di superare i particolarismi nell’ottica del Bene Comune. Mentre sinistri bagliori infiammano il Mediterraneo, con Israele sul piede di guerra per stroncare in anticipo le velleità iraniane. Con Casa Europa e Casa Italia che rischiano di andare a fuoco, vogliamo deciderci finché ancora esiste una via di salvezza? In extremis, ad Atene, con le dimissioni di Papandreou , s’è trovato un terreno d’intesa fra le forze politiche per un governo di solidarietà ed emergenza nazionale. E a Roma, quando?


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tempesta sull’euro

La parabola del berlusconismo è al tramonto: nella sua storia, una s

Un solo errore: Ha illuso chi cercava la rivoluzione liberale. Con il Predellino, ha negato un suo possibile consolidamento “istituzionale”. Ha cacciato Casini e gli altri ex-alleati. Ora nega la realtà. È lunghissimo l’elenco degli sbagli di Berlusconi di Franco Insardà l rivoluzionario senza rivoluzione ha traghettato un pezzo di Prima Repubblica nella Seconda. Ha allargato l’arco costituzionale, ridando dignità politica alla destra missina. Ha imposto alla sinistra di bilanciare l’indole massimalista e gli spiriti riformisti. E ha costretto i politici politicanti ad abbandonare i ragionamenti per gli spot, con il risultato che la comunicazione prima è scaduta in battute, poi in barzellette. Ma una volta preso il potere, il rivoluzionario si è dimenticato della rivoluzione, di quella rivoluzione liberale che era la causa della discesa in campo. Le pensioni non si possono toccare perché al Nord, tra gli elettori della Lega, si è iniziato a lavorare presto e ancora più presto del dovuto bisogna ottenere il meritato riposo. Le tasse non si possono tagliare perché per farlo bisognerebbe prima ridurre la spesa pubblica, ma così ci si inimicherebbe quel Palazzo che non vuole avere niente a che fare con i barbari della società civile. E non si possono neanche liberalizzare le professioni o le licenze, perché gli avvocati e i commercianti votano.

I

A quasi vent’anni dal suo battesimo politico, Silvio Berlusconi lascia in eredità un partito di plastica e un culto della personalità imbarazzante per gli stessi Starace dei giorni nostri. E – di fronte alla speculazioni dei mercati e alla stagnazione permanente nella quale vive il Paese – continua a vantare una sua diversità che si traduce soltanto

in spregio delle istituzioni. Perché il minimo comune denominatore di quest’ultimo ventennio rischia di essere l’odio verso la politica, quindi verso la partecipazione e le regole democratiche, come se l’Italia non avesse alle spalle duemila anni di storia. Il passo indietro invocato da tutti, sia a livello nazionale che internazionale, resta inascoltato dal premier che per farlo aspetta sempre il voto contrario del Parlamento.

Ancora ieri, a smentire voci autorevoli a lui vicine che parlavano di dimissioni, il Cavaliere ha dichiarato: «Si vota il rendiconto alla Camera, quindi porrò la fiducia sulla lettera presentata a Ue e Bce. Voglio vedere in faccia chi prova a tradirmi». Quello del tradimento è un altro refrain caro a Berlusconi: chi non è con lui è un traditore. È successo con l’ultimo alleato di oggi (Umberto Bossi) il 22 dicembre 1994 fece ca-

con i principali alleati europei, Sarkozy e Merkel in testa, presso i quali la credibilità è ormai una merce rara. La conclusione del G20 di Cannes della scorsa settimana ha sancito in modo definitivo che l’Italia è una nazione commissariata e messa sotto osservazione dal Fondo monetario internazionale. Anche Atene ha imboccato una strada “virtuosa”, simile a quella di Madrid, con le dimissioni del premier in carica, un governo di unità nazionale e le elezioni anticipate. Roma tace. E non c’è da soprendersi se ieri, per l’ennesima volta, i mercati abbiano mandato l’ennesimo avviso di sfratto a palazzo Chigi.

Tutta la parabola berlusconiana si può racchiudere in due foto. Nella prima, alla chiusura della campagna elettorale del 2001, si stringono sullo stesso palco Berlusconi, Umberto Bossi, Rocco Buttiglione, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Nell’altra scattata ve-

Preso il potere, si è dimenticato del grande progetto che era alla base della discesa in campo. E così: le pensioni non si toccano, le tasse non diminuiscono, ma aumentano. E le liberalizzazioni rimangono scritte solo nel libro dei sogni dere il primo governo Berlusconi, ma l’elenco è lungo: Follini, Casini fino a Fini. Tutti traditori, senza che al Cavaliere sorga il minimo dubbio che far venire meno il progetto politico sia sempre lui. Doveva essere quella iniziata con la discesa in campo di Berlusconi una rivoluzione liberale, partita con lo slogan “meno tasse per tutti” , ma trasformatasi in una stagione di prelievi fiscali in continuo aumento. Obnubilato ora dai suoi interessi personali e dall’approvazione di lodi (mai andati a buon fine) ora dai festini privati, pressato da stuoli di faccendieri e arrampicatori.Tra fiumi di barzellette, bunga bunga e “Forza gnocca”. Insensibile agli appelli del Paese, della Conferenza episcopale italiana, delle opposizioni, dei mal di pancia degli alleati leghisti e dei dissidenti del Pdl. E lo stesso registro lo ha esportato anche fuori dai confini patri, quando, evaporato l’asse di ferro atlantico tra George W. Bush e Tony Blair, si è ridotto a una diplomazia parallela tra un Putin, un Gheddafi e un Lukashenko. Il tutto continuando a sommare brutte figure

nerdì scorso alla conferenza stampa del G20 di Cannes, ci sono il Cavaliere che ammette davanti al mondo intero il commissariamento del Fondo monetario e Giulio Tremonti accanto a lui che se la ride. Nella prima immagine c’è il manifesto di un progetto politico-istituzionale, che avrebbe dovuto cambiare l’Italia. Nell’altra la degna conclusione di una stagione scandita soltanto dall’odio e dagli interessi di parte. Nei libri di storia leggeremo che negli anni Silvio Berlusconi ha continuato a perseguire la strada del partito personale, basato soltanto sul culto della sua persona e sulla sua capacità di coinvolgere e convincere gli elettori. E poco importa che almeno in questo abbia dimostrato di essere un fuoriclasse. Ma le stesse pagine racconteranno che chi dissentiva, chi chiedeva un cambio di marcia, chi non era d’accordo con i suoi progetti era automaticamente fuori. È successo con Pier Ferdinando Casini e Rocco Buttiglione prima e con Gianfranco Fini dopo. La rottura trau-


tempesta sull’euro

sequela di svarioni che il rispetto per le regole avrebbe potuto evitare

odiare la politica

Sopra, l’ultimo alleato di Silvio Berlusconi: il leader della Lega Nord Umberto Bossi; a fianco il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti e a destra il presidente della Camera e presidente di Futuro e Libertà, Gianfranco Fini matica, in diretta tv alla direzione nazionale del Pdl, con l’ex presidente di An rappresenta un atto di scelleratezza politica totale. Chi avrebbe voluto costruire una casa comune per il centrodestra, infatti, non si sarebbe mai sognato di litigare con il cofondatore del progetto che aveva da poco accettato lo scioglimento del suo partito. Quell’episodio ha decretato la fine del forte contenuto simbolico della Casa della Libertà che aveva al suo interno Alleanza nazionale, sdoganata proprio dal Cavaliere, i centristi e i liberali, e che si sarebbe dovuto trasformare in un progetto istituzionale. Ma Berlusconi ha prima preferito far nascere il Pdl, l’ennesima operazione simbolica, nata in piazza a Milano sul predellino, con la quale si escluse l’Udc e ci fu, di fatto, la cancellazione di An.

Con queste premesse l’epilogo era segnato. Infatti nessun progetto politico extra istituzionale può durare normalmente più di due o tre anni e se non rie-

Quello del tradimento è un altro refrain caro a Berlusconi: chi non è con lui è un traditore. È successo anche con Bossi quando, il 22 dicembre 1994, fece cadere il suo primo governo. Ma l’elenco dei “cattivi” è lungo: Follini, Casini, Fini, Tremonti sce a trasformarsi in un fenomeno istituzionale è destinato inevitabilmente a morire. Quello di Silvio Berlusconi ha avuto una vita più lunga solo perché legato a un fuoriclasse come il Cavaliere.

Se a questo si aggiunge che è riuscito a dissipare la maggioranza parlamentare più clamorosa della storia il quadro è completo. Eppure di occasioni per arrestare questo processo di lento e inesora-

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bile disfacimento del berlusconismo ce ne sono state tante, ma il Cavaliere non ha mai voluto cogliere alcuna occasione. Su tutte l’offerta ricevuta da Pier Ferdinando Casini, durante una cena a casa di Bruno Vespa al’inizio di luglio dello scorso anno, di presiedere un governo di responsabilità nazionale. Proposta per nulla ascoltata, continuando a “tirare a campare” con un unico obiettivo: governare per riuscire a portare a casa provvedimenti ad personam.

Ma la pietra tombale sulla politica berlusconiana è calata quel famoso 14 dicembre 2010. Nonostante la fiducia ottenuta a Montecitorio (314 a 311, con due astenuti e con i voti decisivi di Calearo, Scilipoti e Cesario) e a Palazzo Madama da quel giorno il governo Berlusconi è quotidianamente sotto schiaffo. Basta un “ritardo” in Aula, una malattia o la missione di qualche ministro per metterlo a rischio. Una parabola berlusconiana descritta efficacemente da Angelo Polimeno, cronista parlamentare e inviato del Tg1e autore dell’instant-book Presidente, ci consenta. . Polimeno lo fa attraverso il racconto di otto esponenti di governo e del Pdl: Martino, Sacconi, Matteoli, Pecorella, Rotondi, Tajani, Scajola e Pera. Personalità autorevoli, molto vi-cine a Berlusconi e che spiegano perché il centrodestra rischia di implodere. Indicano soluzioni per uscire dall’angolo e per tentare la via di un difficilissimo rilancio. L’autore cita l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dal Corriere della Sera nella primavera del 2011, nel quale il politologo scriveva: «È stata l’obbedienza — pronta, cieca e assoluta — il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall’inizio, fin dall’inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a Berlusconi, questa la regola: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo esplicitamente e con una certa continuità». Polimeno, però, osserva che «da allora a oggi, tuttavia, molte cose sono cambiate. Ce lo confermano — elemento da non trascurare — proprio le reazioni dell’entourage e dei sostenitori di Berlusconi all’articolo del dopo amministrative 2011. Reazioni anche stavolta critiche, ma palesemente meno convinte e convincenti. Non solo: pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’editoriale la partecipazione di una parte significativa dell’elettorato di centrodestra ai quattro referendum suona quasi come un’implicita condivisione dell’allarme lanciato da Galli della Loggia. In pratica, il popolo della libertà, scritto con le iniziali minuscole e inteso come elettorato berlusconiano, anticipa clamorosamente il Pdl, inteso come classe dirigente di quel movimento politico. E dunque, nonostante l’esplicito invito del Premier a disertare gli «inutili» quesiti referendari, il comune cittadino vicino al Pdl decide di liberarsi del «veleno dell’obbedienza pronta, cieca, assoluta» e di recarsi alle urne. È il segno ormai chiarissimo che una stagione cominciata sotto i migliori auspici — complice anche una situazione economica internazionale divenuta presto particolarmente difficile, ma non solo quello — si ritrova invece sotto un cielo plumbeo, segnata da numerosi scandali e polemiche e da pochi risultati concreti. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: forte disincanto, diffuso malcontento».


mondo

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Dopo averla bombardata senza sosta, i carri armati occupano la città. E l’opposizione chiede la protezione internazionale

La Siria spezzata I militari entrano a Homs: decine di morti e feriti. 76 checkpoint per controllare i ribelli di Luisa Arezzo e promesse mancate di Bashar al Assad sono ormai all’ordine del giorno. L’ultima, temporalmente parlando, riguarda il finto sì all’accordo proposto dalla Lega Araba solo la scorsa settimana (e che infatti è pronta a riunirsi sabato prossimo, 12 novembre, per decidere il da farsi). L’adesione al cessate il fuoco contro i civili non solo non è mai stata attesa, ma è stata propedeutica al suo esatto contrario, con una conta di vittime che si aggrava di ora in ora e che lascia a terra non meno di 20 persone al giorno. Fino all’invio dei carri armati ad Homs e ai rastrellamenti casa per casa che sono andati in onda ieri (almeno 23 i morti) e che hanno portato i ribelli a chiedere la protezione internazionale per la città, da cinque giorni sotto assedio, ma da settimane nell’occhio del regime per il

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ruolo chiave di resistenza anti regime che gioca fin dall’inizio delle rivolte. Dal canto suo, Assad trova sempre una scusa per divagare dalle sue promesse: in questo caso, dopo l’accordo con la Lega Araba, ha deciso (punto che nell’accordo non era previsto), che prima di attuare il piano fosse necessario che i ribelli consegnassero le armi «al più vicino posto di polizia» in cambio di un’amnistia. Richiesta non solo disattesa, ma anche osteggiata dagli Usa. A scendere in campo contro questa even-

e che da allora non è più rientrato nella capitale) e ieri bollata dal ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallim come «un incoraggiamento nei confronti dei gruppi armati a continuare i propri atti criminali contro lo Stato».

Non ci vuole certo il ministro degli Esteri per capire che gli Usa hanno scelto di sostenere la rivolta: il dietrofront di Washington è ormai chiaro da settimane. Mentre latita, nello stesso arco di tempo, quello europeo. Nelle

Fra le vittime anche un ragazzino di 13 anni, Abdel Rahman Haddad, colpito da un cecchino governativo. Sono almeno 200 i bambini già uccisi (alcuni sono anche stati torturati) dal regime tualità la stessa Hillary Clinton, che ha invitato i ribelli a non assecondare la richiesta del regime in quanto non credibile ed evidentemente tesa a una successiva imboscata. Dichiarazione che ha creato l’ennesimo incidente diplomatico fra i due Paesi (ricordiamo che l’ambasciatore Usa ha lasciato Damasco due settimane fa dopo gli attacchi contro la sua ambasciata

scorse settimane la Ue ha giudicato come «un passo positivo» la creazione del Consiglio nazionale siriano (appoggiata soprattutto da Ankara), senza però spingersi fino ad un riconoscimento ufficiale. E questo è in parte comprensibile, visto che il Cns è formato soprattutto da sunniti e si teme la rotta filo-islamica del Paese. Per quanto riguarda le sanzioni, però, l’Unio-

ne ha adottato finora solo una serie di misure restrittive che riguardano il congelamento di beni in Europa e la mancata concessione di visti a esponenti del regime di Damasco, iniziative contro il settore bancario e quello petrolifero, proibendo ogni importazione di greggio siriano in Europa a partire dal 15 novembre. Ma niente di più. Perché sulle sanzioni più dure non c’è alcun accordo a Bruxelles e Lady Ashton è come sempre impegnata in altre faccende e non è mai nè al posto giusto né tantomeno interviene al momento giusto. Per quanto riguarda l’Italia, che tramite le parole del no-

Nel giro di pochi mesi la Turchia, da Paese “amico” del regime, è diventata la protettrice dei ribelli

La partita siriana di Recep Tayyip Erdogan L

a Turchia non rinuncia a giocare un ruolo nella “questione siriana”, a costo di influire negativamente sulla mediazione messa in campo dalla Lega araba per un negoziato con l’opposizione. E anche a costo di inimicarsi definitivamente il presidente Bashar Assad, ex amico ed alleato, che, accettando la trattativa dei Paesi arabi, spera di rilanciare la sua leadership. Ma Ankara vuole giocare la sua partita su un altro fronte, quello della difesa dei diritti umani, puntando a rafforzare la sua influenza nella regione, sensibilmente accresciuta sull’onda della Primavera araba. Proprio in nome dei diritti, dal giugno

di Laura Giannone

scorso la Turchia ha accolto migliaia di profughi in fuga dalle persecuzioni del regime siriano, mentre il governo di Ankara cercava di convincere il presidente Assad a introdurre le riforme pro-

preso forma una vera e propria falange armata, l’Armata per la Siria Libera - Sfa - che conta sino a 15mila uomini, secondo le dichiarazioni degli stessi militanti.

Nei campi allestiti per i rifugiati ha preso forma una vera e propria falange armata, l’Armata per la Siria Libera - Sfa - che conta sino a 15mila uomini, secondo le dichiarazioni dei militanti messe da tempo. Alla luce delle crescenti violenze, e della repressione messa in campo dal regime siriano, la Mezzaluna ha scelto la rottura. E nei campi allestiti per i rifugiati ha

Siamo «dell’ala militare dell’opposizione popolare siriana al regime» ha detto il suo leader, colonnello Riad al Assad, in un’intervista pubblicata dal Daily Telegraph.

L’obiettivo è quello di di addestrare una sorta di corpo speciale che possa condurre operazioni militari di alto livello contro l’esercito governativo e i servizi segreti siriani. Ma c’è anche il disegno politico di diventare il braccio armato del Consiglio Nazionale Siriano, che si è riunito per la prima volta proprio a Istanbul. E che, pur auspicando una soluzione pacifica, ha dichiarato tramite fonti dipolamitiche, che «la pazienza ha un limite». In questo terreno si muove il governo islamico-moderato di Erdogan, che nei mesi scorsi aveva tentato di porsi come mediatore presso Assad. Lo stesso premier aveva più volte definito Assad «un


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A lato: l’assedio di Homs visto dall’interno di una macchina con i vetri infranti. A destra, il presidente siriano Bashar al Assad, che continua la repressione. In basso: Erdogan ancora più violenta da parte delle forze governative, e la possibile contrapposizione fra la maggioranza sunnita e le minoranze non musulmane (alawiti e cristiani).

stro ministro degli Esteri Frattini continua a chiedere la fine delle violenze, ancora nessuna presa di posizione ufficiale è arrivata all’indomani della denuncia dell’agenzia Bloomberg che ha indicato nell’Area Spa, un’azienda nostrana con base in Lombardia, uno dei più importanti partner di Damasco nella ricerca dei ribelli. I tecnici della compagnia, ha scritto Bloomberg, da mesi stanno aiutando Damasco a rafforzare la propria capacità di controllo del dissenso, con un sistema che consentirebbe di monitorare internet a 360 gradi, intercettando le e-mail e creando una mappa dello scambio dati

telematico che sulla carta può aiutare a individuare i network degli attivisti che contestano il regime. Se su questa vicenda non calasse il silenzio sarebbe buona cosa.

Il Consiglio nazionale siriano ha chiesto di «intervenire per fermare il massacro e garantire una protezione ai civili, inviando osservatori arabi e internazionali per monitorare la situazione sul campo»

Perché a più di sette mesi e mezzo dallo scoppio della rivolta, la Siria continua a bruciare. Oltre 3mila civili sono rimasti uccisi, e molti di più sono i feriti, secondo le ultime stime Onu confermate da Navy Pillay, mentre circa 800 sarebbero le vittime tra le forze di sicurezza del regime. Resoconti attendibili parlano di numerosi casi di tortura, stupri ed esecuzioni sommarie

da parte delle forze governative. E l’assedio di Homs è solo l’ultima tappa di questa deriva di sangue che nessuno riesce a fermare. Ci proverà di nuovo la Lega Araba il prossimo 12 novembre, ma è evidente che il secondo scacco matto che gli ha servito Assad (il primo risale al 24 settembre scorso) ha indebolito profondamente la sua credibilità. Quali sono allora i possibili

scenari al momento prevedibili per la Siria? Come ben spiega l’ottimo speciale sulla Siria di Medrabnews, se la rivolta dovesse cercare di armarsi, ciò non farebbe altro che andare a vantaggio della versione propagandata dal regime, secondo la quale esso deve far fronte a una ribellione armata di “ispirazione islamica”. La conseguenza potrebbe essere una repressione

Un’altra possibilità è che, pur rimanendo pacifica la rivolta popolare, si verifichi una spaccatura nelle forze armate del paese (alcuni segnali in questo senso si sono avuti nei giorni scorsi, con la diserzione di soldati in città come Homs e Rastan). Per ora le defezioni sono stimate al massimo nell’ordine delle poche migliaia, ma se il fenomeno dovesse acquisire dimensioni di massa, allora si configurerebbe una contrapposizione tra l’esercito, eminentemente sunnita, e le forze di élite del regime che sono saldamente in mano alla minoranza alawita a cui appartiene la famiglia Assad. In ogni caso, le cose sono destinate probabilmente a peggiorare. Difficilmente le manifestazioni si esauriranno a breve termine, e con il protrarsi della situazione di stallo nel paese, delle sanzioni e dell’isolamento economico internazionale della Siria, è probabile che Assad continuerà a perdere progressivamente il controllo, fino a creare un vuoto attorno a sé. Per il momento, tuttavia, il presidente siriano ha ancora un esiguo margine di manovra, dovuto al fatto che i vertici delle forze di sicurezza sono comunque in mano alla minoranza alawita, che le due principali città del paese, Aleppo e Damasco, sono tuttora relativamente calme, e che la pressione internazionale nei confronti del governo siriano è stata inizialmente molto incerta e altalenante, regalandogli dunque tempo prezioso.

caro amico», mentre ora tutela, tramite il ministero degli Esteri, i ribelli. Un atteggiamento, quello turco, argomenta su Hurriyet il giornalista Mehmet Ali Birand, che è partito con la certezza di poter cambiare le situazione, influendo su Damasco, e che invece si andato via via modificando fino a diventare aperta opposizione.

nellate di aiuti, come riferito dall’agenzia siriana Sana. Le mosse del governo sullo scacchiere siriano non mancano di suscitare polemiche interne. Il Chp, il Partito repubblicano del Popolo, di orientamento laico e repubblicano, parla di «una spaventosa inversione a U nell’atteggiamento del governo verso Assad».

Per la Turchia, la Siria è particolarmente strategica, perché ha rappresentato il Paese-modello della sua politica estera “neottomana”, basata sul buon vicinato e sul recupero dei rapporti con I Paesi confinanti. Negli anni Novanta i due Paesi sono stati più volte sull’orlo del conflitto a causa dell’emergenza curda. La morte di Hafez Assad, a cui successe il figlio Bashar e la salita al potere di Recep Tayyip Erdogan nel 2003 posero poi le basi per un riavvicinamento. Era stato proprio Bashar Assad a incoraggiare il dialogo con Ankara, in un processo culminato nel 2010 con l’abolizione dei visti di ingresso fra i due Paesi. Tempi che sembrano

La politica di governo di fiancheggiare l’opposizione del presidente siriano, in un momento in cui la comunità internazionale spera in una ricomposizione della situazione, è definita incomprensibile da Mehmet Ali Birand. «Ankara aveva scommesso sulla caduta di Assad in poche settimane. Sembra che abbia fatto male I calcoli - sostiene il giornalista su Hurriyet -. Ma mentre Washington si sta occupando dei suoi problemi interni, Ankara si è impuntata con il compito di rovesciare il potere in Siria. Non riesco ancora a capire la logica di fare della Siria un nostro nemico, insistendo con questa politica sul lungo termine».

ora lontanissimi. Adesso la sua Siria viene accusata dai media della Mezzaluna di essere tornata a fiancheggiare il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. I rapporti con il leader siriano sono stati troncati, occorre sostituirlo con qualcuno in grado di essere un interlo-

cutore affidabile, si ragiona nei palazzi governativi di Ankara.

Assad sembra tentare intanto timidi passi per un riavvicinamento, per esempio ordinando di inviare nel sudest turco colpito dal terremoto 40 ton-


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Secondo il rapporto che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dovrebbe divulgare oggi, l’Iran avrà l’ordigno entro la primavera 2012

Risiko atomico La bomba di Ahmadinejad è quasi pronta. E adesso Israele cosa farà? di Antonio Picasso a pubblicazione del rapporto dell’Aiea sul nucleare iraniano è prevista per oggi. Le indiscrezioni della stampa statunitense riducono la possibilità di un’ulteriore proroga a domani. Stando al Washington Post e al Financial Times, Teheran non ha tra le mani quella pistola fumante come appare invece nelle accuse del governo israeliano. Tuttavia, sembra che un nuovo passo avanti nella corsa al nucleare da parte del regime degli ayatollah sia stato compiuto. I media Usa scrivono senza mezzi termini che nel dossier sarebbe scritto proprio

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«L’Iran è vicino all’atomica». Se confermato, si tratta di una conclusione importante. A questo punto, cosa cambia? Una volta svelati gli elementi tecnici, la guerra di nervi si sposterà sul fronte politico. In realtà è già successo. Dall’Occidente si alzeranno i cori di accuse e le richieste di un intervento con la forza contro il regime. In seno a questo, verrà elevato un patibolo contro l’Aiea, colpevole di essere schiava degli Stati Uniti. «L’agenzia è uno strumento senza volontà nelle mani di Washington», ha detto già ieri l’ayatollah Ahmad Katami, senza ancora attendere l’oracolo. Le indiscrezioni del Guardian, ormai di una settimana fa, sul fatto che Stati Uniti e Gran Bretagna siano pronti alle grandi manovre contro l’Iran non sono una grande scoperta. Si tratta di un campanello di allarme che periodicamente viene suonato e al quale, per fortuna, non fa seguito alcuna realizzazione concreta. Allo stato dell’arte, gli analisti concordano sul fatto che la crisi economica globale rappresenti l’ostacolo più tangibile a un potenziale raid con-

tro altrettanti eventuali centri di ricerca nucleare iraniani. Pur essendo cambiati i colori dei governi a Washington e Londra, dal 2003 a oggi, molti esponenti dei due rispettivi establishment temono un revival iracheno. In controtendenza è la posizione del governo francese. Ieri Alain Juppé ha invitato il regime iraniano a farsi accondiscendente nei confronti dell’Aiea.

Del tutto diversa la posizione israeliana. In seno al governo Netanyahu, sembra che il tarlo iraniano si manifesti in fasi cicliche di cui si potrebbe calcolare la curvatura. Perché ora? Solo perché siamo in prossimità di un dossier a firma Onu, oppure Israele è in possesso di informazioni confidenziali che l’agenzia basata a Vienna non ha? Insomma, è possibile che ogni “tot”mesi da Gerusalemme e dintorni si alzino segnali di guerra che poi dimostrino ogni loro vacuità? Negli anni tutte le opzioni di un attacco israeliano in Iran sono state studiate e confutate. L’idea di una lunga guerra tra i due paesi è fuori discussione per ovvie ragioni geografiche. D’altra parte un’operazione hit and run ha anch’essa i suoi lati deboli. La malizia lascia pensare che in Israele la classe dirigente soffra saltuariamente di una crisi di attenzione. Un piccolo stato ha bisogno di essere ascoltato, visto e seguito da parte dei suoi grandi protettori. Il fatto che in questo momento gli Usa siano concentrati su altre priorità, a livello locale quanto globale, fa emergere il dubbio che il governo israeliano pretenda di farsi notare. A questo proposito è da menzionare l’editoriale dell’Haaretz di ieri. Il giornale più liberal della stampa israeliana ha fatto appello a Washington affinché intervenga nel bloccare Netanyahu. In realtà non è sufficiente mettere un freno al premier A sinistra, Netanyahu. In alto, donne con slogan antiamericani e israeliani sulle mani. Sotto: Ahmadinejad. A destra, Yukiya Amano

L’obiettivo sarebbe stato raggiunto grazie all’assistenza ricevuta da scienziati stranieri, che avrebbero fornito al regime la tecnologia e il know-how necessari a terminare il progetto israeliano. «La crisi iraniana sta imboccando una preoccupante china», ha dichiarato il presidente Shimon Perez. Parole che indicano una sintomatica tensione diffusa presso l’intera rappresentanza politica del Paese.Va detto però quanto sia nota la cautela di Perez. Se stavolta si è esposto fino a tanto, vuol dire che le previsioni tendano davvero al peggio.

Resta da capire però il motivo per cui il fuoco delle esasperazioni israeliane debba essere controllato da Washington. Siamo tutti d’accordo nel sostenere che l’Amministrazione Obama abbia una grossa responsabilità nella mancata risoluzione del processo di pace e nel fatto che si sia arrivati con l’Iran a un così elevato livello di tensione. Ciò non spiega il perché, come scrive Haaretz, dovrebbero essere gli Stati Uniti ad allontanare le castagne israeliane dal potenziale incendio iraniano. Una crisi di attenzione appunto, che però suscita anche l’interesse da parte di avversari e nemici. Per sabato è stato indetto un meeting straordinario della Lega araba. All’ordine del

giorno vi sarà la crisi siriana. Nulla toglie che si possa prestare attenzione anche alla questione Iran-Israele. In un momento di così tante incognite per il Medioriente, non si sa cosa l’organizzazione panaraba potrebbe partorire al fine di evitare un’escalation. Del resto in seno alla Lega chi potrebbe fare da mediatore? L’Egitto è sostanzialmente acefalo. La Giordania è troppo piccola e comunque re Abdallah II è meglio che si concentri sui pericoli di tensioni domestiche L’Arabia Saudita infine è in fase di elaborazione del lutto per la morte del principe Sultan. Anche in questo caso stiamo parlando di una potenza regionale fuori dai giochi. Per giunta nessuno dei tre vanta buone relazioni diplomatiche con l’Iran. Nel frattempo, Teheran si sta consumando sotto il peso delle proprie contraddizioni. Non si parla più delle frizioni tra la leadership teocratica e la presidenza laica di Ahmadinejad. Questo non significa che siano state risolte. È logico però che quando i pericoli giungono da fuori dei confini nazionali, il regime si chiude a testuggine per


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Yukiya Amano, direttore generale dell’Agenzia Onu, indica tre siti

Nel mirino dell’Aiea Qom, Natanz ed Esfahan La distanza tra le due capitali è di 1.500 chilometri I vettori di entrambi i Paesi possono colpire l’obiettivo di Davide Urso documenti Aiea sottolineano come l’Iran, mantenendo gli attuali ritmi di arricchimento dell’uranio e del plutonio e continuando a rafforzare gli impianti di arricchimento, riprocessamento e fabbricazione del combustibile nucleare, compreso quello ad acqua pesante, disporrà di una bomba atomica nell’arco di 4-5 mesi. Si tratta di documenti ancora non pubblici, ma di cui si ha assoluta certezza sul loro contenuto. Di contro - e non poteva essere altrimenti - Ali Akbar Salehi, ministro degli Esteri iraniano, ha dichiarato come questi documenti siano “contraffatti” e “senza fondamento”. Di accertato c’è che - come scritto nel rapporto del Direttore Generale della Amano, Aiea, (Gov/2011/54) - alcuni degli impianti nucleari iraniani dichiarati all’Agenzia atomica e alla Comunità internazionale sono contrari alle risoluzioni Aiea e del Consiglio di Sicurezza Onu e che l’Iran non ha sospeso le attività di arricchimento e quindi è in aperta e grave violazione del diritto e degli accordi internazionali. Si tratta, in particolare, degli impianti di Qom (Fordow Fuel Enrichment Plant) per la produzione di uranio arricchito oltre il 20%, il Fuel Enrichment Plant e il Pilot Fuel Enrichment Plant del sito di Natanz e l’Uranium Conversion Facility, dove è stoccata l’acqua pesante prodotta dal reattore IR-40, e il Fuel Manufacturing Plant presso il sito di Esfahan per la conversione dell’uranio e la fabbricazione del combustibile.

I

L’ayatollah Khatami ha avvertito l’Agenzia della gravità di pubblicare «documenti falsi». Mentre Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha detto che un attacco sarebbe «un errore grave» autodifesa. «Le provocazioni americane e israeliane non intimidisco le nostre capacità militari», ha dichiarato il capo dello stato sempre ieri da Teheran, parole, le sue in esplicita antitesi con il maldestro tentativo francese di appeasement.

Con questo è partito il treno di aggressioni contro il piccolo e grande Satana: Israele e Stati Uniti. Resta da capire il motivo per cui l’Iran, che si professa nuclearista ma in termini civili e pacifici, ogni volta che lo si attacca sulla questione minacci di

estrarre la sua ascia di guerra. Se non hanno nulla da nascondere perché gli ayatollah perdono sempre le staffe? Concludendo, non resta che affidarsi alla saggezza dell’orso russo. Il capo della diplomazia del Cremlino, Sergej Lavrov, ha invitato la comunità internazionale alla calma, in attesa che venga divulgato il rapporto Aiea nella sua interezza. Mosca può sapere molte più cose rispetto ai media statunitensi. O più semplicemente desidera che, come già in passato, la crisi si riveli essere una bolla speculativa.

visto che la sola idea innesca forti proteste a partire dagli attuali Grandi detentori degli equilibri regionali: Egitto e Turchia, senza dimenticare il peso commerciale dell’Arabia Saudita e gli interessi strategici delle Repubbliche ex-sovietiche – e nemmeno la forza del terrorismo islamico, che puntando sul mito dell’“ultimo Imam” – che apparirebbe nel momento di massimo rischio per salvare il suolo sacro dell’islam - potrebbe far leva sul cuore e sulle menti dei fedeli. Le distanze tra una “follia di regime”e la “realtà geopolitica” sono troppo ampi per rischiare effetti collaterali disastrosi per un popolo stanco e ansioso di modernità. Israele, dal canto suo, vista la collocazione delle proprie basi aree e il possesso di vettori a medio-lungo raggio e di armi atomiche sul proprio territorio, anche se mai dichiarate alla Comunità internazionale - avrebbe già oggi il potenziale aereonautico per distruggere preventivamente i siti nucleari strategici iraniani. Diversamente, potrebbe optare non potendo attaccare senza innescare una “guerra calda” di dimensioni planetarie per una linea di difesa radaristica e di contrattacco difensivo sfruttando anche la neotecnologia americana in possesso. Israele sta comunque aumentando la gittata dei propri missili terra-terra (Gerico 3) per dotarli la stessa potenzialità di quelli transcontinentali, cioè quelli che hanno una portata di circa 8.000 km. Inoltre, starebbe rafforzando la potenza dei missili da crociera progettati per essere lanciati da sottomarini. Israele ne possiede tre e altri due sono in costruzione in Germania, con un possibile sesto. Questi sottomarini avrebbero lo scopo di fornire a Israele l’opzione nucleare di second strike (“secondo attacco via mare”), cioè che Israele può contrattaccare con armi nucleari da sottomarini anche se le basi a terra sono danneggiate da un attacco nucleare nemico. Gli scenari geostrategici sono tutti per ora aperti. Qualcuno di questi sfugge ad ogni logica razionale di politica estera e di geopolitica, ma le a-razionalità iraniane (ideologia, religione, ecc.) e le ir-razionalità israeliane (paura, timore) potrebbe prevalere imprevedibilmente sulle analisi costi-benefici. Speriamo - come sempre in questi casi - prevalga la linea della diplomazia e che soprattutto l’Iran faccia la sua parte di dimostrare di essere un attore affidabile sullo scacchiere mondiale.

Il nuovo rapporto smentisce quello diffuso nel 2007 dai servizi intelligence Usa, secondo cui Teheran aveva interrotto il programma di sviluppo nel 2003

Se l’Iran riuscisse a costruire la bomba atomica, tanto da darle la condizione di first striker e di attore-deterrente per possibili attacchi esterni, servirebbe il vettore per rendere il Paese una super-potenza. Teheran in questo è stato lungimirante. L’arsenale militare iraniano possiede lo Shahab-3, il classico missile balistico con una gittata di circa 1.300 km, e ne ha sviluppato una variante che può raggiungere i 2.000 km. Più potenti sono altri missili iraniani, come il Ghadr110, che hanno una capacità di colpo fino a oltre 2.500 km e una maggiore manovrabilità. Considerando che la distanza tra le due capitali (Teheran e Gerusalemme) è di circa 1.500 km e che quella tra le basi aeree israeliane e il reattore nucleare iraniano è di poco superiore ai 1.200 km, l’Iran ha tutte le capacità tecniche per colpire con un missile a testata nucleare Israele. Non credo abbia la forza politica per poterlo fare –


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grandangolo Viaggio dove è sempre più duro il conflitto tra uomo e natura

Questa Liguria finita dentro una tomba di cemento (e di lamiere) Le tragedie dei giorni scorsi hanno un nome: speculazione edilizia. Le prove? A luglio, la Regione ha ridotto, in alcune aree, da 10 a 3 metri la distanza dai fiumi per avere il permesso di costruzione. Poi ha avviato un disegno di legge della Giunta che mira a introdurre il «silenzio-assenso» nella procedura per il rilascio delle licenze... di Marco Ferrari ra ci si domanda come un fiumiciattolo insignificante quale il rio Fereggiano possa provocare sei vittime e annientare l’intero quartiere genovese di Marassi o come un torrente tombato delle Cinque Terre possa distruggere un paesaggio protetto dall’Unesco o un affluente minuscolo del Vara dal nome gentile, il Pogliaschina, possa tracimare e spazzare via il centro storico di Borghetto. Per troppo tempo ci si è illusi di poter controllare una natura così fragile e particolare come quella ligure composta di cime ventose, schiume di mare sugli scogli terrazze di viti e pomodori, campi coltivati, file di ulivi dove saltellava il Barone Rampante. Di fatto, un territorio unico nel suo genere, con le montagne a ridosso delle spiagge, è stato adattato a tutti i bisogni dell’uomo, anche i più discutibili: speculazione edilizia, grande industria, infrastrutture, gallerie, discariche a cielo aperto. Anche se di colpo si riversano su un territorio 500 millimetri di pioggia in poche ore, l’uso dissennato della terra ha accresciuto gli effetti negativi di una simile evenienza. Una temperatura anomala del mare ha fatto poi evaporare più acqua del previsto creando una zona di bassa pressione.

O

Così la pioggia è stata esorbitante, i fiumi si sono ingrossati a dismisura, il paesaggio si è sbriciolato, a Genova come alla Spezia e in Lunigiana, in luoghi in cui il cemento è diventato un ecces-

so, non da oggi ma da troppi decenni. La reazione è stata a catena: rii che scendono dalle montagne con una cattiveria inaudita, altri piccoli affluenti detti “pisciueli” che si gonfiano, la pioggia che diventa fiume, violenza, forza e che distrugge tutto ciò che incontra nel suo cammino. Una catena di tragiche conseguenze per Genova, dal torrente Strega Nera al Fereggiano, dal Bisagno allo Sturla con piazze e strade allagate, androni che si trasformano in tombe, auto e bus trascinati dalla piena, che si ammassano e diventano bombe assassine. Ogni tragedia porta con sé l’inevi-

Il Parco nazionale delle Cinque Terre e la relativa Riserva marina non esistono più. Ci vorranno anni per farli rinascere tabile strascico di polemiche: si dovevano chiudere le strade e le scuole, si dovevano arginare i fiumi o allontanare le auto dalle zone di possibile esondazione? Tutto ciò sarà certamente oggetto di discussioni e di decisioni per-

sonali, politiche e giudiziarie, ma il nocciolo della questione sta più a monte: cosa si è fatto per rimuovere la speculazione edilizia, cosa si è fatto per tenere puliti i greti dei fiumi e per mantenere in vita la montagna, le piane coltivate, i boschi, le viti?

Al capolinea della sua dissennata e innaturale politica industriale, la Liguria ha imboccato la strada dell’edilizia ad ogni costo dimenticando di essere un territorio pregiato, forgiato sull’innesto tra montagna e mare. Le ragioni del dissesto sono dunque diverse, forse non hanno colore politico, non si può distinguere adesso chi ha emesso una licenza o chi ha permesso una speculazione. Di certo si può dire che in una fragilità simile non si è ricorsi alla cautela necessaria. Ciononostante nessuno, a parte gli ambientalisti, scommette oggi su una moratoria edilizia, sullo stop a nuove costruzioni in prossimità dei fiumi o addirittura giunge a ipotizzare l’opzione zero qui dove negli ultimi venti anni si è perso il 45% del territorio a favore del cemento, rispetto ad una media nazionale del 16%. Ad esempio nel luglio di quest’anno la Regione Liguria ha ridotto in alcune aree del territorio da 10 a 3 metri la distanza minima per il rilascio del permesso di costruire oppure ha avviato un disegno di legge della Giunta che mira ad introdurre il principio del silenzio-assenso nella procedura per il rilascio dei per-

messi di costruire. Poi bisognerebbe ristabilire il divieto di copertura di corsi d’acqua che, come si è visto, contribuiscono a creare dei veri e propri imbuti oltre a rendere quasi impossibile la manutenzione. E poi bisognerebbe evitare di costruire in tutte le aree a rischio idrogeologico o sulle strade, ripristinare le fasce fluviali, rendere permeabili le superfici urbane, come quelle dei parcheggi. La ragione di uno stop stanno nelle parole di un insigne protagonista dell’architettura moderna, il genovese Renzo Piano: «È tempo di costruire sul costruito, di riqualificare l’esistente, di non consumare più suolo».

Il compianto Nico Orengo diceva che il Signore aveva inventato i liguri per farli guardiani della bellezza del territorio ma che non avevano retto al compito loro assegnato. Per Eugenio Montale questa natura «scarna, scabra, allucinante» fatta di sassi, ciottoli, ulivi e ossi di seppia era già stata mortificata al tempo della speculazione edilizia – così emblematicamente e minuziosamente descritta da Italo Calvino nel racconto omonimo del 1957 – al punto da farlo allontanare per sempre dal suo rifugio di Monterosso. Montale si lamentava in anticipo di condomini, palazzi e alberghi che stravolgevano quell’angolo di Liguria, che aveva bisogno di delicatezza. La voce della poesia è stata sovrastata dal rumore delle ruspe e proprio Monterosso ha pagato un tri-


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

In queste pagine, due immagini drammatiche delle alluvioni in Liguria. Qui accanto, Marta Vincenzi: la sindaco di Genova è al centro delle polemiche

Ancora u na vi tt i ma , sta v olt a a l l’ El ba ROMA. Il maltempo ha fatto un’altra vittima, stavolta all’Isola d’Elba dove, a Marina di Campo, è morta una donna di 81 anni, con difficoltà di deambulazione, che è stata travolta dalla furia delle acque mentre si trovava nella sua abitazione. Ma ovunque, nel Paese, prosegue l’allarme maltempo, a cominciare dalla Lucania dove, nei pressi di Matera ancora risultano disperse sue persone: padre e figlia di 86 e 44 anni la cui auto, domenica sera, è stata travolta da un torrente in piena. Il grande osservato, tuttavia, resta il Po che, a Torino, è fuoriuscito dagli argini e ha allagato i Murazzi. La situazione però viene definita «sotto controllo» e, malgrado in città ci sia ancora molta paura, c’è chi mormora, a bassa voce, che «il peggio è passato». In via precauzionale le scuole sono chiuse in tutta la provincia, così come gli atenei. E l’allerta è ancora alta. Soprattutto dopo che è domenica è stato evacuato un reparto dell’ospedale Amedeo di Savoia e un ponte sul Pellice è crollato. A Genova, infine, non si placano le polemiche intorno all’operato del sindaco Marta Vincenzi di cui molti hanno chiesto le dimissioniaccusandola di aver sottovalutato i rischi. In città il cielo è tornato sereno, ma rimane l’allerta meteo al punto che le scuole rimarranno chiuse in tutta Genova e provincia. Il traffico ha ricominciato a scorrere anche se molte strade sono ancora chiuse.

buto in termini di vite distrutte e paesaggi perduti.

Percorrere adesso la costa delle Cinque Terre, da Portovenere a Punta Mesco, è come percorrere le tappe del calvario. Dal mare si può osservare il tracollo di uno dei paradisi della Penisola: da Tramonti a Montenero domina il nero della fuliggine, conseguente al devastante incendio di poche settimane fa, poi l’acqua si è fatta torbida per i rifiuti, le carcasse di auto e i detriti e quindi due tasselli come Vernazza e Monterosso ridotti a campi di battaglia. Il Parco nazionale delle Cinque Terre e il relativo Parco marino non esistono più. Ci vorranno anni per tornare a sorridere, sconfiggere la malinconia, riprendere a essere quel gioiello che faceva innamorare per sempre gli americani. Se il governatore della Toscana Enrico Rossi si è portato avanti con la pianificazione del territorio colpito («In Toscana, tendenzialmente, non si alza più un mattone nelle zone a rischio e se lo si fa si assumono responsabilità e precise e oneri in caso di danni. È un passaggio ineludibile»), non altrettanto si sente dire in Liguria e segnatamente nella provincia della Spezia dove è attesa una valanga di nuove cementificazioni: un Outlet proprio a Brugnato dove è esondato il fiume Vara; un mega centro commerciale alla Spezia nell’area ex Ip; quattro grattacieli nel nuovo waterfront alla Spezia, un famigerato progetto Botta a Sarzana e la distruzione dell’ex colonia agricola di Marinella a favore di un centro turistico. Finita la bufera si tornerà alla speculazione edilizia, an-

che se Maurizio Bocchia, responsabile provinciale della Protezione civile spezzina, mette le mani avanti: «Dobbiamo cominciare a pensare ad un nuovo modo di vivere: i privati dovranno porre più attenzione all’autoprotezione e dovrà aumentare la sensibilità nei confronti dell’ambiente anche nelle proprietà private. Le amministrazioni, dal canto loro, dovranno concentrare le risorse per le problematiche legate al rischio idrogeologico. Non è più sufficiente la manutenzione ordinaria, serviranno interventi di tipo straordinario: anche se i corsi d’acqua sono puliti i problemi si presentano lo stesso, visto che in poco tempo si riempiono di tronchi e detriti».

Negli ultimi tre anni il territorio spezzino ha avuto a che fare con problemi estremi sia in fatto di piogge, che di neve e siccità, con incendi importanti sul finire delle estati. E adesso sarà necessario affrontare un inverno intero, con un territorio già molto segnato. «Ci sono ferite aperte ovunque, non solo sulla viabilità, che è il settore più visibile. Il dissesto - spiega Bocchia - è generalizzato, anche a causa degli eventi dell’anno scorso. L’alveo del Magra nelle ultime stagioni è cresciuto di diverse decine di centimetri: sarà necessario metterci mano nelle zone dove l’antropizzazione è maggiore». Ma in epoca di vacche magre (il governo che taglia l’80% delle risorse destinate alla tutela del territorio) chi potrà prevenire i disastri annunciati dall’invadenza del cemento? Sarà possibile controllare i fiumi e i ponti, ripristinare i tombini, aggiornare un registro delle manutenzioni ambientali? Già basterebbe questo lavoro per tenere in piedi il territorio senza aggiungere altri ingommanufatti branti che tendono solo a imbrigliare la natura.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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