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he di cronac
Il tempo è un grande maestro: trova sempre il finale migliore. Charlie Chaplin
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 9 NOVEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Meno sì del previsto. Si astiene Stradella, si assenta Stagno d’Alcontres: «Otto traditori», scrive il Cavaliere
Costretto alle dimissioni Nota del Quirinale: «Il premier lascerà dopo la legge di stabilità» Solo 308 voti: Berlusconi è minoranza ma cerca di non mollare: lo spread vola a 500 punti. Poi sale al Colle e cambia tutto. Napolitano: «Aprirò le consultazioni con ogni forza politica» LA DICHIARAZIONE
NON PERDERE ALTRO TEMPO
Basta divisioni, ora cerchiamo di salvare il Paese tutti insieme
Ma chi scriverà e approverà la nuova Finanziaria?
di Pier Ferdinando Casini
di Osvaldo Baldacci
ignor Presidente, onorevoli colleghi, l’Unione di Centro per il Terzo Polo consentirà, con la sua presenza in Aula, l’approvazione del rendiconto generale dell’amministrazione dello Stato. Dopo i risultati di questa votazione, mi auguro possa finalmente terminare questo insano braccio di ferro che si sta conducendo sulle spalle del Paese. Guardiamo a Genova, ai nostri ragazzi che spalano fango e detriti; da domani cerchiamo di salvare, anche noi, l’Italia tutti insieme se ne saremo capaci.
ra sceso in politica dicendo di volerlo fare per amore del suo paese. Uscendo dalla politica, sembra non voglia far altro che odiare il suo paese: un’inversione di rotta di centottanta gradi. Ormai Berlusconi è come una giocatore ossessionato: l’unica ragione della sopravvivenza del suo governo era l’ostinazione di un uomo che continua a sfidare l’Italia e gli italiani. Prima di salire al Colle, ieri, sembrava un bambino viziato: quelli che vogliono vincere, e basta. E se non vincono, preferiscono distruggere il “gioco”. Salvo che questo “gioco”è l’Italia. Quell’Italia che ormai ha sulle spalle titoli di Stato da vendere al 6,9%: sono euro che ognuno di noi dovrà pagare. Quell’Italia offesa da un premier fallito che vuole continuare il gioco fino a un’impossibile vittoria.
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Le cose obbligatorie da fare secondo Nicola Rossi
«Ecco il programma del governo d’emergenza» Ci vogliono rigore e spirito da “nuova frontiera” «Serve una leadership che restituisca un’idea di futuro: subito giù il debito con le privatizzazioni, poi una riforma del fisco che favorisca le imprese e il lavoro» Errico Novi • pagina 4
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Tv, radio e internet daranno un falso annunicio, ma si teme il panico
America, prove di apocalisse Oggi gli States simulano una grande catasfrofe di Anna Camaiti Hostert ggi siamo troppo disincantati e troppo astuti per poter solo pensare che l’interruzione di un programma radiofonico possa far precipitare la gente nel panico. Inoltre ormai siamo rimasti in pochi ad ascoltare la radio. Ma in quella famosa notte di settanta anni fa al teatro Mercury di New York accadde qualcosa che determinò il cambiamento di un’era. Il 30 ottobre del 1938, la notte prima di Halloween, il regolare broadcast radiofonico nazionale venne interrotto
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
217 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
per un annuncio che fece tremare tutti gli americani. «Signore e signori interrompiamo il programma di musica per diramare un bollettino speciale dell’Intecontinental Radio News. Circa venti minuti prima delle ore 20, Central Time, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings di Chicago in Illinois, ha riferito di avere osservato a intervalli regolari diverse esplosioni di gas su Marte». a pagina 12
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 9 novembre 2011
la crisi italiana
Il presidente del Consiglio piegato anche dal pressing di Bossi che gli chiede «un passo di lato» per portare Alfano a Palazzo Chigi
Rien ne va plus
Berlusconi si arrende: sale al Colle e annuncia a Napolitano che si dimetterà subito dopo l’approvazione della legge di stabilità. Decisiva l’ennesima sconfitta alla Camera: il Rendiconto passa con soli 308 voti, con altri 8 deputati che vanno via di Franco Insardà
ROMA. «Prima la legge stabilità e poi mi dimetto». Silvio Berlusconi prende atto di «non avere più la maggioranza», aggiungendo che vede «solo le elezioni». Questa la decisione del premier comunicata a Giorgio Napolitano durante l’incontro al Quirinale, durato quasi un’ora. La conferma è arrivata anche dal Colle che in una nota fa sapere: «Il presidente del Consiglio ha manifestato al capo dello Stato la sua consapevolezza delle implicazioni del risultato del voto odierno alla Camera; egli ha nello stesso tempo espresso viva preoccupazione per l’urgente necessità di dare puntuali risposte alle attese dei partner europei con l’approvazione della legge di stabilità, opportunamente emendata alla luce del più recente contributo di osservazioni e proposte della Commissione europea». Secondo quanto si legge nella del Quirinale: «Una volta compiuto tale adempimento il presidente del Consiglio rimetterà il
suo mandato al capo dello Stato, che procederà alle consultazioni di rito dando la massima attenzione alle posizioni e proposte di ogni forza politica, di quelle della maggioranza risultata dalle elezioni del 2008 come di quelle di opposizione». Per Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture, si tratta di «una dimostrazione di senso di responsabilità da parte del premier a non voler lasciare il Paese senza una legge così importante. Lo stesso senso di responsabilità lo aspettiamo dal Parlamento che garantisca l’approvazione del provvedimento». Silvio Berlusconi dopo aver provato a convincere gli alleati e convincersi di avere una maggioranza, ed essersi accorto a Montecitorio che la sua stagione politica è finita, è salito al Quirinale per iniziare la sua più difficile battaglia: trovare un exit strategy che lo sottragga alle secche parlamentari e lo riporti in sella
per catapultarlo verso elezioni anticipate. E forse un’ultima occasione di essere ancora protagonista. Intanto non si dimette, come a gran voce viene chiesto dalle forze di opposizione («faccia un passo indietro»), da esponenti dello stesso Pdl e dai suoi alleati leghisti («faccia un passo di lato»).
Umberto Bossi, nel corso del vertice a Palazzo Chigi aveva chiesto a Silvio Berlusconi di dimettersi per lasciare spazio
dimettersi, speriamo che Napolitano lo faccia ragionare». Così non è andata.Vuole guardare in faccia i “traditori”, ieri non ci è riuscito con gli otto che non hanno partecipato al voto sul Rendiconto generale dello Stato. All’appello sono mancati i sì di Roberto Antonione, Fabio Gava, Giustina Destro del Pdl e gli esponenti del gruppo misto Calogero Mannino, Giancarlo Luciano Pittelli, Sardelli, Francesco
Via alle consultazioni del Quirinale subito dopo il provvedimento economico. A Montecitorio un solo ribelle si astiene restando in Aula, Stradella a un governo guidato da Angelino Alfano. Il premier, però, avrebbe rispedito la richiesta al mittente, intenzionato a resistere, ribadendo di voler essere sfiduciato in Parlamento.Un irrigidimento che ha fatto dire a un esponente leghista: «È finita ma lui non vuole
Stagno D’Alcontres e Santo Versace. A loro si sono aggiunti l’astenuto Franco Sardella Gennaro Malgieri (che era in bagno e si è scusato), e Alfonso Papa (ai domiciliari). Il risultato è stato chiaro: 308 sì, 1 astenuto e 321 deputati che
non hanno preso parte alla votazione. E il Cavaliere su un foglietto ha riassunto il pomeriggio a Montecitorio: “308 -8 traditori”, “ribaltone”, poi ”voto”. E ancora: “prenda atto” e “rassegni le dimissioni”, probabilmente scritte mentre parlava il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Fino alle ultime due parole scritte dal premier “Pres Repubblica”, con chiaro riferimento al Quirinale, ed infine ”una soluzione”.
Una seduta sulla quale erano puntati riflettori di tutto il mondo, al punto che la Cnn, con un link sul suo sito on-line, l’ha trasmesso interamente in streaming. Mentre sui siti dei principali quotidiani internazionali la notizia di apertura era: Berlusconi perde la maggioranza. Dopo il voto il Cavaliere, attorniato dai suoi, avrebbe rivolto
Bossi confonde caratura con caricatura internazionale
La resa del premier comporta un altro mese di «agonia»
Chiedete all’Europa se è più affidabile Monti o Alfano
Ma chi scriverà (e voterà) la Finanziaria?
di Giancristiano Desiderio
di Osvaldo Baldacci
eanche Umberto ce l’ha fatta. Sì, proprio così: neanche Umberto Bossi ce l’ha fatta a dire «caro Silvio, è giunto il momento che tu faccia un passo indietro, al tuo posto mettiamo il tuo Angelino Alfano». Il capo (sempre più discusso) della Lega ha mandato avanti il Calderoli, come nella più classica delle situazione della farsa da avanspettacolo: «Vai avanti tu che a me scappa da ridere». E fosse solo il riso. Qui viene da piangere. Il “sogno” dell’allargamento della maggioranza all’Udc con un premier del Pdl non sta in piedi. Troppo tardi: diciotto mesi fa, una maggioranza più larga poteva guidarla Berlusconi, sei mesi fa, forse poteva guidarla un esponente del Pdl, ma oggi no. Oggi ci vuole un governo di unità nazionale: unità nazionale vuol dire che dentro deve esserci anche il Pd. Un governo guidato da una figura istituzionale di altissimo profilo internazionale. E allora, provate solo a ragionare su questo interrogativo: chi è pià autorevole, nel mondo, tra Mario Monti e Alfano? Chiedetelo all’Europa...
ra sceso in politica dicendo di volerlo fare per amore del suo paese. Uscendo dalla politica, sembra non voglia far altro che odiare il suo paese: un’inversione di rotta di centottanta gradi. Ormai Berlusconi è come una giocatore ossessionato: l’unica ragione della sopravvivenza del suo governo era l’ostinazione di un uomo che continua a sfidare l’Italia e gli italiani. Prima di salire al Colle, ieri, sembrava un bambino viziato: quelli che vogliono vincere, e basta. E se non vincono, preferiscono distruggere il “gioco”. Salvo che questo “gioco” è l’Italia. Quell’Italia che ormai ha sulle spalle titoli di Stato da vendere al 6,9%: sono euro che ognuno di noi dovrà pagare. Quell’Italia offesa da un premier fallito che vuole continuare il gioco fino a un’impossibile vittoria. Poi, lì al Quirinale deve essere successo qualcosa: il comunicato della Presidenza della Repubblica parla chiaro: Berlusconi si dimette, ma non subito, dopo l’approvazione della legge di stabilità. Già: ma chi scriverà e approverà, in Parlamento, la nuova Finanziaria che l’Europa ci chiede rigorosa e precisa nei tempi di attuazione?
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Ma in realtà la risposta ci è stata fornita indirettamente da Gianni Letta. Quando gli hanno proposto, da più parti, di uscire dall’ombra, dove ha sempre vissuto e operato con grande compostezza e competenza, per prendere il posto di Berlusconi, l’ex direttore de Il Tempo - c’è anche questo nella vita del “dottor Letta” - ha risposto così: «Grazie, ma non è il caso: non ho caratura internazionale». Un gran signore, non c’è dubbio, perché forse chiunque altro al suo posto non ci avrebbe pensato due volte a prendere il posto in offerta, anche se se si tratta di una poltrona non solo molto scomoda, ma bollente. Ora, se Gianni Letta non ha «caratura internazionale» vi pare che la stessa caratura possa essere riconosciuta ad Angelino Alfano? Nenche Bossi, che ha avuto questa geniale idea, ci crede e se l’ha avanzata è perché - come dice e ripete da tempo - «tanto Berlusconi non farà mai un passo indietro». Certo, una novità c’è, bisogna ammetterlo: è la prima volta che la Lega fa un atto pubblico contro il suo alleato di ferro, Berlusconi (dico “pubblico”perché pare che in privato le cose da un po’ vadano assai diversamente...). Per uscire dalla crisi in cui ci ha condotti con mano ferma il governo Berlusconi c’è bisogno di un governo solido su base parlamentare e autorevole fin dalla testa del presidente del Consiglio. Si chieda all’Europa se è più autorevole Monti o alfano! Il governo Alfano - l’immaginario governo Alfano - sarebbe solo un governo Berlusconi senza Berlusconi. Così dall’assenza di “caratura internazionale” si passerebbe alla presenza di “caricatura internazionale”. Alfano, infatti, a parte l’altezza fisica, è anche molto somigliante a Berlusconi e se Berlusconi lo ha fatto di suo pugno segretario del Pdl è perché - come disse egli stesso al papà di Angelino - «lo considero un po’ anche figlio mio». Insomma, avremmo a Palazzo Chigi un «governo del figlio di papà» e non sarebbe una buona cosa per un Paese del quale, purtroppo, ora in Europa si ride. A torto, ma si ride. C’è nella ex maggioranza di governo c’è una domanda che circola da tempo ma è una domanda sbagliata: come salvare il Pdl senza Berlusconi? La risposta che cercano di dare è proprio questa: il governo Alfano. Ma a far notare che è tutto sbagliato ci vogliono due secondi. Il problema che abbiano davanti - e che dovrebbero avere davanti anche gli esponenti più importanti del Pdl - non è come salvare il Pdl o la maggioranza una volta che Berlusconi è uscito di scena, bensì come salvare l’Italia.
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Il punto, ora, è questo. Siamo sicuri che un premier senza più maggioranza può dettare le regole e i tempi. Perché una cosa è certa: bisogna fare in fretta, quello spread a 500 punti ce lo dice chiaramente. E allora perché aspettare ancora quzlche settimana, magari un mese, prima di dare una svolta al Paese? La svolta che chiede il Paese medesimo, che ci chiede l’Europa, che da ieri chiedono direttamente anche i parlamentari? Ieri è successo qualcosa da cui non si torna indietro: il governo, fermo a 308 voti, non ha la maggioranza alla Camera. Ma in realtà la situazione è molto più grave di quel che appaia: la maggioranza infatti si è schierata compatta ad ogni voto di fiducia o paragonabile, ed è ricorsa ad ogni artificio per puntellarsi, anche ricorrendo a parlamentari eletti nell’opposizione. Non solo: la maggioranza non può più governare le commissioni parlamentari, e inoltre avendo molti parlamentari il doppio incarico con il governo non possono garantire il sostegno quotidiano ai lavori ordinari della Camera. Vedete che quella domanda torna pressante: chi scriverà la Finanziaria? E invece prima di salire al Colle Berlusconi non voleva permettersi segni di debolezza: la sua resistenza è stata finora basata su questo, sulla capacità di vincere sempre, sulla forza attrattiva in un modo o nell’altro. Ma ormai non attrae più. E molti deputati non amano i perdenti. Purtroppo questo bipolarismo deteriore che si è incrostato in questi anni non lascia molto spazio a grandi ragionamenti politici ed ideali. Ma certo evidenzia che per molti, forse troppi peones le scelte sono dettate dalla sopravvivenza. Finché il governo la garantiva sostenevano il governo. Ora la maggioranza non c’è più. Insomma, se dovessi fare un pronostico, ho la sensazione che i 308 voti di ieri dieci minuti dopo il risultato era già di meno, non certo di più.Tra l’altro alcuni deputati che hanno votato il rendiconto già hanno detto che su altri provvedimenti e sulla fiducia a questo governo non assicuravano lo stesso sostegno. Alcuni vengono dati semplicisticamente in quota maggioranza ma in realtà sono molto più travagliati. E invece ora bisogna aspettare un altro mese, se tutto va bene. Perché? Quando ancora dovrà costarci l’ossessione del giocatore Silvio Berlusconi? Probabimente ci sono voluti tutta la forza e tuttoil prestigio di Giorgio Napolitano per fermare il gioco. Ma se questa di Berlusconi, come tutto lascia credere, è una resa , le condizioni scelte sono le peggiori. Perché pesano ancora sull’Italia.
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un invito a stringersi, a restare uniti e a decidere immediatamente il da farsi, mentre analizzava attentamente il tabulato della votazione che metteva in evidenza chi aveva “tradito”. Prima ha convocato nella Sala del governo una riunione straordinaria con la partecipazione di alcuni ministri. Poi, lasciato Montecitorio, si è recato a Palazzo Chigi per incontrarsi con Gianni Letta, Umberto Bossi, Angelino Alfano, Umberto Bossi e altri esponenti del Pdl. Che la giornata di ieri non fosse semplice Berlusconi ne era consapevole. Al punto che durante alcuni colloqui avuti prima del voto aveva tra le mani uno schema con alcuni punti interrogativi: Prendo la fiducia? Lascio? Governo tecnico? Reincarico? Secondo quanto riferito da alcuni deputati che lo hanno incontrato in via del Plebiscito il Cavaliere a fianco a ogni ipotesi ha scritto i pro e i contro. Ribadendo alla fine di voler andare alla conta: «devono avere la forza per buttarmi giù, mi devono far cadere, non sono uno che si arrende dall’oggi al domani». Forse condizionato anche dai conteggi fatti dai vertici di via dell’Umiltà: si supererà l’asticella dei 310 voti.
Ieri in Aula il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto ha ribadito che «la drammaticità della situazione ci impone di restare al nostro posto e di fare fino in fondo, con senso di responsabilità, il nostro dovere». E sulla caparbietà del Cavaliere a voler restare al proprio posto ha insistito il capogruppo del Pd Dario Franceschini: «In un altro Paese o in un altro tempo nel nostro Paese un vero leader avrebbe da tempo fatto un passo indietro nell’interesse del proprio Paese, per salvarlo, o per salvare la propria maggioranza o il proprio partito. Qui di tutto questo non c’è traccia, c’è solo testarda volontà di restare». Pier Ferdinando Casini è tornato ad auspicare le dimissioni del premier e ha esortato le forze politiche a unirsi per salvare il Paese: «Mi auguro che dopo il risultato di questo voto possa finalmente terminare questo insano braccio di ferro che si sta conducendo sulle spalle del Paese. Guardiamo a Genova, ai nostri ragazzi che spalano fango e detriti, e da domani cerchiamo anche noi di salvare l’Italia tutti insieme se ne saremo capaci». Poi in serata dal suo profilo su Twitter ha scritto: «Non è più il momento di parlare, è il momento di operare». Su tutto arriva l’ennesima doccia fredda del commissario Ue agli Affari economici Olli Rehn, al termine dell’Ecofin: «Le risposte sulle misure da attuare in Italia ci devono arrivare il prima possibile, con questo governo o con un altro».
la crisi italiana
pagina 4 • 9 novembre 2011
L’economista Nicola Rossi spiega quali misure servono per superare l’emergenza
«Ecco il programma del nuovo governo» Interessi sui Btp alle stelle, Borsa depressa: l’agonia del berlusconismo pesa sulle tasche degli italiani. «Chi verrà dopo dovrà parlare chiaro, ridurre il debito con le privatizzazioni e il fisco su imprese e lavoro» di Errico Novi
ROMA. Tra le tante non-decisioni di cui governo e Parlamento attuali sono colpevoli ce n’è una provvidenziale: non aver accettato le dimissioni di Nicola Rossi da senatore. Raro esempio di lucidità critica e autonomia intellettuale, il parlamentare pugliese è stato prima celebrato e ricandidato dal Pd veltroniano, dopodiché il partito ha accuratamente evitato di ascoltarne le proposte. Fino al punto da fargli passare la voglia. Dopodiché l’aula di Palazzo Madama si è rifiutata di controfirmare l’istanza. È preferibile che il senatore Rossi resti dov’è e che una nuova stagione di governo responsabile si serva del suo contributo. Intanto resta uno dei pochi in grado di dire con cognizione di causa cosa dovrebbe fare un esecutivo di unità nazionale. E per questo è con lui che liberal prova a indicare i punti cardine di un programma che un governo del genere dovrebbe assumere. La leadership. La prima questione da dirimere riguarda la consistenza della svolta che il Paese ha davanti. Se davvero le esortazioni contenute nella famosa lettera inviata dalla Bce ad agosto – e poi fatte proprie dal governo con la contromissiva di due settimane fa – sono la base programmatica per qualunque futuro governo. Non solo per quell’esecutivo di unità nazionale che potrebbe nascere nelle prossime ore, ma anche per chi si candiderà a guidare il Paese dopo. Secondo Rossi quelle politiche suggerite da Francoforte e in generale da tutti gli interlocutori potrebbero tranquillamente essere lo scheletro di un programma politico futuro. Da lì si potrebbe partire anche nel 2013 dopo una fase di responsabilità nazionale, «a condizione che quelle politiche trovino una leadership in grado davvero di interpretarle». Non sta in piedi, o in ogni caso è fuorviante, la tesi per cui un cambio di rotta così profondo possa avvenire solo se a determinarlo c’è un governo tecnico privo di responsabilità elettorale.
«Non è vero. Serve appunto una leadership che faccia quello che nessun leader ha fatto negli ultimi quindici anni. Dire cioè qual è la situazione reale e presentare le politiche necessarie per contrastarla non come lacrime e sangue, ma come un’opportunità per tornare a crescere e creare
“
Serve una leadership che restituisca un’idea di futuro. E parta dalla vendita del patrimonio improduttivo, vero costo della politica
”
opportunità di lavoro». La prima rivoluzione è dunque auspicabile che si realizzi nella classe dirigente. Si deve parlare chiaro, anzi, come dice il senatore Rossi, «trovare chi abbia voglia e capacità di compiere un’operazione pedagogica. Niente sondaggi o studi capziosi sulle aspettative immediate dell’elettorato ma verità ed efficacia. È l’impronta che distingue un politico qualsiasi dallo statista». Altro che governo senza volto, dunque, casomai «un leader che sappia restituire al Paese un’idea di se stesso, del futuro». E che insomma sappia cogliere la vera sostanza di questo cambio di fase: e cioè il fatto che, come osserva giustamente il parlamentare, «nelle politiche da attuare per affrontare la crisi non prevale il vincolo ragioneristico: quello
magari c’è ma non è importante quanto la necessità di aprire davvero il Paese a una strada e una prospettiva diverse». Non un tecnico, dunque, ma neppure «uno dei leader che sono stati priotagonisti degli ultimi quindici anni, da una parte e dall’altra. Non è una questione di meriti e demeriti. Ma del rischio di apparire consumati agli occhi della pubblica opinione».
Il patrimonio pubblico. Impegnativa per chiunque, la piattaforma indicata dall’Europa, secondo Rossi, va assunta secondo una scala di priorità. Che a suo giudizio non vede il nodo previdenziale al primo posto. «È vero, siamo tra i pochissimi in Occidente ad avere ancora l’istituto delle pensioni di anzianità. Ma il primo fronte su cui intervenire è quello degli stock, cioè del patrimonio pubblico. Serve un piano di alienazioni molto ampio. Non una svendita, ovviamente, ma un programma che consenta di abbattere il debito in tempi rapidi. Si tratta di liberarsi di un patrimonio che è improduttivo o inutilizzato. I mercati non vogliono più sentir parlare di vicende come quella della Milano-Serravalle o delle tante società a partecipazione pubblica i cui cda sono presidiati dalla politica. Si deve intervenire con grande decisione, ci sono tanti enti e società di dubbia utilità o comunque da mettere sul mercato». Anche la Rai, in parte. «Se si liberasse di due reti non credo che sarebbe un dramma, considerato il nuovo assetto del frequenze. E in generale l’intervento di privatizzazione delle società partecipate è la via primaria per l’abbattimento dei costi della politica».Va toccato dunque il vero snodo della «intermediazione politico-burocratica». Costi della politica e pensioni. Scontato a quel punto passare alla «riduzione dei livelli decisionali e amministrativi: se la migliore traduzione possibile di questa idea è l’eliminazione delle province, che si eliminino le province. Dopodiché c’è
ROMA. Trecentotto deputati a favore per approvare il Rendiconto generale dello Stato, ma 500 punti base di differenziale tra Btp e Bund per bocciare l’affidabilità italiana. I mercati continuano a chiedere la testa di Silvio Berlusconi, usando la debolezza politica del Belpaese per fare short sui titoli di Stato come se fossero azioni della New Economy. Fanno intendere che soltanto un governo bipartisan può fare le riforme per rimettere in modo l’economia. E spingere gli operatori a tenere in portafoglio il debito di Roma. Tra gli investitori e le maggiori cancellerie d’Europa gira la battuta che, da solo, Berlusconi, vale almeno 100 punti di spread. Quelli che le emissioni italiane riconquisterebbero sul Bund tedesco, se il Cavaliere uscisse di scena. Con altri termini l’ipotesi è stata, di fatto, rilanciata dal commissario agli Affari economici, Olli Rehn: «Siamo molto preoccupati dagli spread in Italia. La situazione e’ drammatica per questo è essenziale che ora si facciano quelle riforme che rassicurino i mercati sulla solidità del Paese». Quasi in presa diretta con il voto alla Camera sul Rendiconto, il Times di Londra ha raccolto il malessere degli operatori della city. E attraverso il suo sito ha riportato le dichiarazioni di chi, come il capo delle strategie valutarie a Brown Brothers Harriman Marc Chandler, parla di «peggiore combinazione di eventi. Berlusconi vince il voto ma non ha la maggioranza». Oppure di chi come David Gilmore, partner di Foreign Exchange Analytics, chiosa: «A questo punto va bene chiunque purché non sia Berlusconi». Dopo il voto di Montecitorio lo spread tra Btp e Bund è arrivato fino a 500,5 punti, portando il rendimento del decennale al 6,8 per cento, dopo che per tutta la giornata non era mai sceso sotto quota 480. Il timore è che, viste le
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un’ampia e ben nota sequenza di riforme istituzionali necessarie, dalla riduzione del numero dei parlamentari in poi. Ma solo dopo aver fatto questo, cessione di quote del patrimonio pubblico, società partecipate e riduzione degli enti, si potrà affrontare il capitolo pensionistico».
Riforma fiscale. Un governo che voglia aprire una strada nuova dovrebbe occuparsi, secondo Nicola Rossi, di «spostare l’imposizione fiscale dal lavoro e dalle imprese, che non vuol dire necessariamente aggravare l’Iva, ma reperire risorse piuttosto dai contributi alle imprese. Se chiedete a un imprenditore di scegliere tra i contributi pubblici e l’eliminazione dal costo del lavoro della base imponibile dell’Irap, opterà per la seconda senza ombra di dubbio». Altra strada percorribile è quella di una «leggera patrimoniale che si applichi solo sui patrimoni grandi, con cui finanziare un abbattimento delle aliquote imposte sui redditi di fascia iniziale, quelli più in sofferenza. Alzare l’Iva non sarebbe davvero necessario e comunque è sbagliato il modo in cui lo ha fatto questo governo, senza cioè una simultanea riduzione delle tasse su persone e imprese».
Mercati in subbuglio dopo il voto sul Rendiconto. E oggi arrivano gli ispettori della Ue
500 inviti a dimettersi
Supera ogni record lo spread tra Btp e Bund. La Ue: «Molto preoccupati» di Francesco Pacifico
Giulio Tremonti ormai è sempre più isolato nella maggioranza. In alto, Bersani e Casini. A sinistra, Nicola Rossi
difficoltà del Tesoro a rifinanziarsi, gli intermediari tornino a vendere a blocchi le nostre emissioni, come hanno fatto nei mesi scorsi con i bond di Portogallo, Grecia e Irlanda. Cioè prima che i rispettivi Paesi fossero costretti ad aprire linee di credito con Fmi e Ue. Intanto circolano stime, secondo le quali la pressione sulle nostre emissioni costringere il Tesoro a pagare fino alla fine dell’anno una decina di miliardi in più rispetto ai settanta previsti sul servizio al debito. Cifra che potrebbe superare i 40 miliardi se il rendimento restasse anche nel prossimo anno sopra il 7 per cento. E a quel punto, nolenti o volenti, bisognerebbe bussare alla porta del Fmi. È in questo clima che oggi sono attesi nella capitale i funzionari dell’Unione europea e della Banca centrale, pronti a spulciare documenti e circolari in tutti i ministeri per capire se l’Italia può raggiungere entro il 2013 il pareggio di bilancio. E sempre oggi si attende la presentazione del maxiemendamento alla Legge di Stabilità, con il quale il governo inizia ad applicare le misure promesse alla Ue nella lettera d’intenti inviata una settimana fa a Bruxelles e sulla quale la Commissione nutre non pochi dubbi. Non sono però esclusi più testi o sorprese. Ieri Paolo Tancredi, senatore del Pdl e membro della commissione Bilancio del Senato
dove si attendono le norme, ha fatto sapere che «il governo, attraverso il sottosegretario Gentile, ha detto che il testo del maxiemendamento c’è. Ma adesso bisognerà vedere gli sviluppi politici della situazione e domani mattina (oggi, ndr) ci rivedremo e verificheremo cosa c’è e se c’è ancora un governo». Quel che è certo è che nel testo potrebbe entrare anche una riduzione coatta delle tariffe energetiche, che spaventa le aziende del settore. Ma non è detto che a questo punto Giulio Tremonti, colui che resta l’interfaccia dell’Ecofin in Europa, possa far passare ulteriori misure per tagliare il debito.
Gli ispettori europei, come quelli del Fmi attesi a breve in Italia, vorranno fare chiarezza anche sulla agenda italiana. Approvata con la Ue la nuova definizione dei fondi Ue per il Sud, il prossimo passo è l’approvazione del maxiemendamento che recepisce gli impegni della lettera all’Europa. Quindi si entra nel merito con i decreti attuativi tra mutui agevolati per i più giovani, riordino degli incentivi, misure per l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro, regole sulla finanza di progetto, fino alla riforma fiscale, l’innalzamento dell’età pensionistico e le liberalizzazioni dei servizi. Un programma che già vincola il successore di Silvio Berlusconi.
Università, scuola, sanità. Qui Nicola Rossi suggerisce un cambio di approccio. Più che pensare a riformare i «comparti essenziali» della spesa pubblica, si deve «entrare nell’ordine di idee che per dieci-quindici anni ancora le risorse andranno centellinate, c’è un debito da ridurre e questo può avvenire se lo Stato smette di fare ciò che non è essenziale e si concentra appunto solo su quello che lo è. A cominciare dalla scuola». L’unica vera riforma, sui capitoli cruciali e irrinunciabili della spesa, è dunque trovare le necessarie risorse. Mercato del lavoro. Il parlamentare pugliese ritiene che una novità da introdurre consisterebbe anche in un più profondo rispetto dei cittadini, della pubblica opinione. Sia nel senso che non va ripetuta «l’inaccettabile vicenda del referendum, con cui un tema come la liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali è stata affrontata da parte della sinistra con una campagna demagogica all’insegna della negazione della verità e un altrettanto colpevole silenzio da parte del centrodestra», ma anche nel senso di un modo più serio e meno furbesco di «proporre riforme come quella del mercato del lavoro. Piuttosto che giocare con le parole come ha fatto il governo, non sarebbe stato più efficace dire da subito che si voleva seguire la strada indicata da Ichino? E cioè che si deve intervenire innanzitutto per mettere fine al fenomeno del precariato così come è oggi?». C’è da spaventarsi o no, davanti a tutto questo? «Maggioranza e opposizione non possono fuggire la sfida di un governo di responsabilità nazionale, devono assumersi quest’onere. Anche perché da una parte abbiamo un governo che mi pare non esserci da tempo, ma dall’altra i mercati sono preoccupati per un’opposizione che, nel momento in cui cadesse l’esecutivo attuale, non saprebbe cosa fare».
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la crisi italiana
Il paragone fra l’operato del governo Berlusconi con quelli degli altri Paesi europei è impietoso: dovunque è tempo di riforme
De bello gallico
Confrontarsi con gli ultimi fa sempre comodo. Ma noi, terza economia di Eurolandia, dovremmo prendere esempio dalla seconda. E a Parigi Sarkozy sta rivoluzionando i conti: cento miliardi di risparmi e tagli, pesanti, alla politica di Enrico Singer Italia non è la Grecia». Questa affermazione, talmente ovvia da non poter essere smentita, è quasi la frase magica di un rituale da esorcista. Dovrebbe scacciare gli incubi di default che perfidi speculatori si ostinano ad alimentare attorno al nostro Paese affossando le Borse e facendo volare lo spread con i titoli di Stato tedeschi. E dovrebbe rassicurarci tutti: con l’Agenda Europa – come l’ha battezzata il suo autore Renato Brunetta – i conti torneranno a posto. Se e quando sarà approvata e, soprattutto, se e quando sarà realizzata. Tanto rumore per nulla, o quasi, insomma. Come dimostrerebbero anche i ristoranti pieni, immaginifico metro con il quale Silvio Berlusconi, nella sua ultima sortita a Bruxelles, ha misurato la non-crisi italiana. Passi per la Grecia, fanalino di coda di qualsiasi classifica europea. Confrontarsi con gli ultimi fa sempre comodo. Ma la Francia? Come mai l’altra sera in tv è
«L’
apparso il premier, François Fillon, ad annunciare un nuovo piano di austerità? Fillon non ha declamato una lettera d’intenti, ma ha precisato le misure di una vera e propria manovra aggiuntiva dopo quella che era stata lanciata appena il 24 agosto scorso che si è già rivelata deludente. Si può dire che l’Italia non è la Francia.
Ma in questo caso il confronto non è a nostro favore. I “cugini” ci possono stare più o meno simpatici, ma i numeri dicono che il Pil pro-capite – secondo i calcoli del Fmi – è di 33.100 dollari contro i 30.500 dollari degli italiani, che la pressione fiscale in Francia è del 44,2 per cento contro il 49,1 dell’Italia, che il debito pubblico rappresenta l’81,7 per cento del Pil (meglio della Germania che è a quota 83,2 per cento) di fronte al nostro disastroso 120 per cento. E così via elencando statistiche che possono anche essere noiose, ma che sono l’unico termometro imparziale della salute di
un Paese. Il messaggio che parte da Parigi è semplice: la necessità di affrontare la crisi, valutandone seriamente i contorni e le cause, è la sola ricetta da applicare per trovare dei rimedi. Anche quando ci sono cruciali appuntamenti elettorali alle porte. E in Francia siamo alla vigilia dello scontro politico più grosso. Nei due turni delle presidenziali, tra la fine di aprile e i primi di maggio del prossimo anno, Nicolas Sarkozy si giocherà la permanenza all’Eliseo.
La manovra illustrata da Fillon prevede 65 miliardi di risparmi in più
I sondaggi continuano ad assegnare un solido vantaggio al suo sfidante, il socialista François Hollande, ma questo non ha cambiato i piani dell’esecutivo. Anzi, Sarkozy appare ben deciso a giocarsi il tutto per tutto con la speranza di recuperare consensi non attraverso mosse popolari – proprio ieri Angela Merkel ha varato una riduzione delle tasse – ma scommettendo sui risultati più a lungo termine del risanamento. Con la stessa determinazio-
ne mostrata, sul fronte internazionale, spingendo per l’intervento militare in Libia e la liquidazione di Gheddafi. O presentandosi al G20 di Cannes, al fianco di Barack Obama, come il cavaliere bianco che salverà l’euro. A molti francesi, e non solo, è venuto a noia l’atteggiamento da super-Presidente di Nicolas Sarkozy che vuole essere sempre protagonista, che molto promette (e che, per ora, poco ha realizzato), preoccupato della sua personale grandeur, oltre che di quella del Paese. Non è un caso che François Hollande, per scalzarlo, stia costruendo la propria immagine all’insegna dell’anti-eroe, del politico normale che vuole interpretare i bisogni delle persone normali. Ma non si può negare che, a parte tutti i suoi difetti, Sarkozy vuole dimostrare di essere uno statista. E in questo momento il suo obiettivo principale è quello di non farsi staccare dalla Germania. Perché l’asse franco-tedesco non ceda il passo a
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I mercati brindano alla nomina del nuovo premier greco Papademos
Intanto all’Ecofin si litiga persino sulla Tobin Tax Dopo aver processato l’Italia, i Paesi dell’Eurozona rinviano ancora l’accordo sul Fondo Salva Stati di Francesco Pacifico
ROMA. Il nuovo Fondo Salva Stati resta congelato perché c’è tensione sui mercati. La tassa sulle transazioni è inapplicabile nella sola Europa, se non si estende in tutta l’area del G20. Così, non potendosi soffermare sull’Italia perché già processata 24 ore prima, l’Ecofin di ieri si è occupato di minuzie. E ha finito per segnare l’ennesimo fallimento, ancora più imbarazzante, mentre monta la speculazione sul debito sovrano del Vecchio continente e la Grecia – guidata da ieri dall’ex numero della Bce Luca Papademos – riesce soltanto a contenere gli interessi (al 4,89 contro il 4,86 per cento dell’ultima) collocando i suoi bond a sei mesi. Una situazione che manda su tutte le furie John Osborne. Arrivando all’Ecofin il ministro britannico delle Finanze è sbottato: «Per risolvere la crisi dei debiti non si può aspettare Roma e Atene. Si deve lavorare anche a Bruxelles, e in fretta, al rafforzamento del Fondo Salva Stati: l’Europa deve dimostrare al mondo che il fondo esiste ed è sufficientemente ampio. Attrimenti rischia pure l’economia britannica».
zato di “semi sanzioni”, la Commissione ha il potere di ridurre agli Stati eccessivamente indebitati gli aiuti comunitari tra lo 0,2 e lo 0,5 del loro Pil. A difesa dei più deboli è stata introdotta la regola della maggioranza inversa, dando la facoltà al Consiglio d’Europa (dove sono rappresentati tutti i governi dei 27) di respingere a maggioranza qualificata le direttive della Ue. Sono previste poi riduzioni di aiuti pari allo 0,1 del Pil, qualora i governi non prendano appropriate misure macroeconomiche. Approvata in via definitiva anche la direttiva che rafforza la supervisione sulle attività di bancassurance e che attribuisce maggiori poteri di vigilanza sulle conglomerate finanziarie rispetto a quella esercitata normalmente sui gruppi bancari o assicurativi. Per un migliore monitoraggio dei rischi sistemici nella conglomerate è stato decidere di includere anche la gestione degli asset negli stress-test. D’ora in avanti sarà poi obbligatoria la vigilanza sia da parte dell’autorità bancaria sia di natura assicurativa. A questo punto i mercati e gli analisti guardano già all’Eurogruppo in programma a fine mese. Per allora si attende il primo report degli osservatori mandati a Roma dalla Ue e, soprattutto, si dovrebbe decidere quale struttura dare in futuro all’Efsf.
Il ministro inglese John Osborne: «Non possiamo attendere Roma e Atene, Bruxelles si muova in fretta»
Invece ieri i ministri delle Finanze dell’Eurozona ieri si sono accontentati di dare la definitiva approvazione alla nuova governance europea. Quella approvata nel luglio scorso dall’Europarlamento dopo quasi un biennio di trattative e che ha giustificato la supervisione della Commissione sui conti italiani. Ieri è arrivato il via libera formale al cosiddetto Six pack (una direttiva e cinque regolamenti) che riformano il Patto di Stabilità. Oltre a confermare il tetto del deficit al 3 per cento del Pil, dal 2014 si dovrà tagliare di un ventesimo all’anno le eccedenza di debito pubblico fino a riportare il passivo entro il 60 del Pil. Rischiano grosso i Paesi con i conti in rosso. In un sistema che qualcuno ha già ribattez-
Nell’ultima due giorni di Bruxelles i Ventisette si sono divisi se incentivare le attività di assicurazioni sulle emissioni europee oppure l’acquisto di bond sul mercato mercato attraverso fondi ad hoc. Una confusione così grande che sono in pochi a credere che si riuscirà davvero a portare il Salva Stati dagli attuali 440 miliardi a circa 1.000 miliardi di euro, attraverso la leva finanziaria. Non a caso il ministro delle Finanze dell’Austria, Maria Fekter, ieri ha fatto sapere che sull’Efsf «non abbiamo concluso le trattative. C’e’ ancora lavoro da fare a livello tecnico». E molto lavoro da fare c’è anche sull’introduzione di una Tobin Tax, con la quale recuperare le risorse necessarie per ricapitalizzare le banche. Finora Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono riusciti a convincere soltanto i governi di Belgio, Spagna, Slovenia, Finlandia, Austria e Grecia. Mentre il Regno Unito, ancor più dopo il no di Obama, guida con la Svezia, la Repubblica Ceca e la Bulgaria il fronte del no. A loro ieri si è aggiunta l’Italia: per il Belpaese la tassa potrebbe rallentare le vendite sul secondo mercato obbligazionario. Mentre il ministro delle Finanze svedese, Anders Borg, l’ha bollata come «un mezzo efficace per ridurre la crescita economica». A sinistra: il ministro delle Finanze britannico, John Osborne
un protettorato di Berlino sull’intera Europa dell’euro, la Francia deve rimettere in sesto i suoi conti – pur non disperati – e il primo problema che deve risolvere è quello del deficit di bilancio. Adesso è del 5,8 per cento. Superiore addirittura a quello italiano (il 4,1 per cento), ma soprattutto, lontanissimo da quel virtuoso 1,7 per cento della Germania.
Tra l’altro, è proprio in considerazione dell’alto deficit che Moody’s e Standard & Poor’s minacciano di togliere a Parigi il rating della «tripla A» mettendo automaticamente in crisi il rapporto paritario con la Germania sul quale si regge l’attuale diarchia che governa di fatto la Ue. Il piano di Sarkozy è di ridurre il deficit al 4,5 entro l’anno prossimo per scendere ancora al 3 per cento nel 2013 e al 2 per cento nel 2014 per portarlo al pareggio nel 2016. Una road map che significa risparmiare da oggi al 2015 ben cento miliardi di euro di spesa pubblica. La manovra aggiuntiva illustrata da Fillon in tv prevede 65 miliardi di risparmi ulteriori rispetto a quelli che erano stati decisi in agosto. Gli 11 miliardi di risparmi previsti per il 2012 diventano 18 e a quelli già preventivati per il 2013 se ne aggiungono altri 11,5. Questo significa che le nuove misure scatteranno immediatamente e non saranno «spalmate all’italiana», come dire: poco subito e il grosso rinviato alla fine. Tra i provvedimenti c’è anche un taglio ai costi della politica: il blocco dello stipendio del Presidente e di tutti i membri del governo e una riduzione dei contributi pubblici ai partiti. Ma c’è anche l’aumento dell’Iva (che in Francia si chiama Tva) dal 5 al 7 per cento per i ristoranti e per gli alimentari, con l’esclusione dei beni di prima necessità, la riduzione di molti sgravi fiscali che si tradurrà in un aumento delle tasse, un’addizionale all’imposta sulle società che fatturano più di 250mila euro l’anno, un incremento dal 19 al 24 per cento della ritenuta su dividendi e interessi. Ci sarà anche l’anticipo della riforma delle pensioni. Sì, proprio quella che, un anno fa, al momento del suo varo in Parlamento, costò a Sarkozy cinque gigantesche manifestazioni di piazza che rischiarono di mettere in crisi il suo governo. François Fillon ha annunciato che la riforma andrà a regime un anno prima, nel 2017 invece che nel 2018, e non ha esitato a pronunciare un termine finora tabù: ha detto che «la parola fallimento non è più un’astrazione» e che, per questo, i francesi devono rassegnarsi a fare sacrifici per «non essere costretti, un giorno, a seguire politiche imposte da altri», riferimento nemmeno tanto velato alla Grecia e all’Italia. Nicolas
Sarkozy e il suo primo ministro, in pratica, hanno lanciato un piano-bis di austerità per assicurare alla Francia i numeri per rimanere grande, per non scivolare sul piano inclinato in cui annaspa Atene e rischia di trovarsi anche il nostro Paese che, pure, «non è la Grecia», ma è la terza economia di Eurolandia, subito dopo Germania e Francia, e che dovrebbe trovarsi in sintonia con la realtà di questi due Paesi, piuttosto che con quella dell’ultimo vagone del treno europeo. Eppure l’Italia è ormai sotto osservazione degli inviati del Fondo monetario e della stessa Ue e dovrà dimostrare di realizzare gli impegni presi con la lettera d’intenti trasmessa a Bruxelles, sempre che sia davvero quella la strada giusta per uscire dalla crisi. Avrebbe potuto, anzi, avrebbe dovuto giocare d’anticipo come sta facendo adesso Sarkozy.
Nel momento più difficile della breve vita della moneta comune europea – l’euro è in circolazione da dieci anni – i confronti diventano inevitabili perché la valuta adottata da 17 su 27 Paesi della Ue è l’unica al mondo a non avere alle spalle uno Stato, ma un’unione di Stati con politiche economiche e fiscali diverse e con risultati diversi. Proprio le differenze nella salute dei conti pubblici e degli altri fondamentali dell’economia hanno determinato la nascita di quelli che chiamiamo gli anelli deboli e gli anelli forti di Eurolandia. Ancora una volta le statistiche possono aiutare a chiarire le posizioni. Il salario medio, per esempio, che rappresenta la possibilità di spesa di un Paese. In Italia nel 2010 è stato di 36.773 dollari l’anno (i dati del Fmi sono espressi nella valuta Usa) ed è superiore a quello di Spagna (35.031), Grecia (29.058) e Portogallo (22.003), ma inferiore a quello di Francia (46.365 dollari), Germania (43.352) e, fuori dalla zona euro, della Gran Bretagna (47.645). L’anomalia italiana è quella di essere un Paese che ha tutte le carte in regola per stare tra gli anelli forti e che è, invece, finito tra gli anelli deboli per la debolezza del suo governo moltiplicata dalla perdita di credibilità che in queste ultime, convulse ore ha trovato uno specchio fedele nell’andamento della Borsa che si è mossa in altalena seguendo le voci e le smentite delle dimissioni di Berlusconi. La Grecia, il più debole degli anelli deboli, ormai ha decretato la fine del governo Papandreou e ha raggiunto un’intesa per un esecutivo di solidarietà nazionale con l’ex governatore della Banca centrale, Lucas Papademos. La Francia di Sarkozy ha messo le mani avanti per rimanere anello forte e salvaguardare il suo asse con Berlino. L’Italia è ancora in mezzo al guado.
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o non dovrei neanche esistere perché insegno filosofia e mi sono sempre più persuaso che l’insegnamento della filosofia, della letteratura, della storia, dell’arte e tutto ciò che gravita intorno all’Umanesimo andrebbe tolto di peso dalle scuole nelle quali dovrebbero entrare solo “materie tecniche”. La filosofia è cosa troppo importante per lasciarla ai professori di filosofia i quali, pur bravi e apprezzati, non possono fare altro che confondere ancor più le idee e accrescere l’antipatia per la “povera e nuda” filosofia.
I
E allora, che si fa? La risposta giusta fino a qualche tempo fa era «nulla, proprio nulla, perché la filosofia - come dicevano un po’ Croce e Prezzolini - nasce quando vuole ossia quando se ne crea il bisogno e non perché qualcuno da una cattedra spiega Aristotele». È un po’ come la poesia: hai voglia tu a impartire lezioni di metrica, non verrà fuori mai niente perché se non c’è il poeta la poesia è impossibile. Fino a qualche tempo fa, appunto, era questa la risposta. Perché oggi è un’altra: a fare filosofia ci pensano l’edicola e i primi due quotidiani italiani. Il Corriere della Sera e la Repubblica ci riempiono di filosofia, filosofi, classici, commentatori, collane di libri e dvd che sembra non esser più Aristotile «il maestro di color che sanno» ma i direttori dei giornali. La Scuola di Atene sembra essersi trasferita in redazione, e se i filosofi, da quando son nati i giornali, hanno sempre trafficato con le gazzette Hegel e Marx, per citare i primi due, furono due ottimi giornalisti - oggi la filosofia si è trasferita nell’ufficio marketing e, alla lettera,“fa cassetta”. L’ultima iniziativa editoriale del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari - che non a caso ritiene di essere un filosofo, basta che non lo sappia la servetta tracia - è “lanciata” così: “Capire la filosofia”. Si offrono al costo di un euro (almeno i primi due libri) dei testi di 100 pagine di professori di filosofia su capitoli della storia del pensiero. I primi due commentatori sono Emanuele Severino (che non scrive per Repubblica ma per il Corriere) e Maurizio Ferraris e i primi due capitoli riguardano i presocratici e i magnifici tre: Socrate, Platone e Aristo-
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Mentre “Corriere“ e “Repubblica” si sfidano a colpi di collane dedicate ai classi
E pensare che il pensi Da Platone ad Aristotele per finire a contemporanei come Sturzo e Del Noce: a giudicare dalle strenne (anche in dvd) l’indagine dei massimi sistemi gode di ottima salute. Eppure la domanda di “riflessione” resta molto scarsa... di Giancristiano Desiderio tele. Sembra essere un’iniziativa nuova e invece è vecchia. Solo un anno fa o poco più proprio il gruppo de L’Espresso aveva mandato in edicola i dvd de “Il Caffè filosofico” che iniziava allo stesso modo: il pensiero presocratico e la nascita della filosofia affidati a Severino e la Scuola di Atene assegnata a Ferraris.
A questa iniziativa dell’Espresso rispose quasi subito il Corsera con una proposta molto simile: d’intesa con RaiTrade e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici mandò in edicola i dvd di Philosophia – Il pensiero filosofico che iniziava grosso modo alla stessa maniera: presocratici e nascita del pensiero, quindi Socrate, Platone e Aristotele (ma qualche tempo prima il Corriere aveva proposto ai suoi lettori di acquistare nientemeno che un’intera storia della filosofia, quella, per essere precisi, di Dario Antiseri e Giovanni Reale, che in origine era di tre volumi e per l’occasione divenne di ben quattordici tomi, compresi Bibliografia e Indici, Filosofi italiani del Novecento, Filosofi italiani contemporanei: una ricchezza di pensiero
che forse non si era mai vista nella storia italiana dai tempi di Dante). Ora i due colossi del giornalismo italiano continuano a sfidarsi a suon di idee filosofiche: il giornale diretto da Ferruccio de Bortoli punta sulla collana Laicicattolici, il cui primo numero è un classico del pensiero italiano ed europeo del Novecento: il dibattito sul liberalismo di Croce ed Einaudi (seguiranno Luigi Sturzo, Piero Gobetti, ancora Croce e
La nuova iniziativa di via Solferino dà alle stampe il dibattito sul liberalismo di Croce ed Einaudi. A seguire saggi di Bobbio e De Gasperi ancora Einaudi, quindi Bobbio, Augusto Del Noce, Alcide de Gasperi). Il quotidiano diretto da Ezio Mauro invece riprende nuovamente “Il Caffè”e lo traduce in testo scritto. Insomma, la filosofia, che se non è morta - come voleva Lucio Colletti ma anche Martin Heidegger - di
certo sta poco bene, sulle pagine dei giornali e nei loro costosi gadget scoppia di salute, tracima, straripa o - come dicono i cronisti dei telegiornali con un italiano che fa paura - esonda. Quindi, tutta questa filosofia a cosa serve?
Voi sapete molto bene che già la risposta è problematica per la sola filosofia. Così problematica che Aristotele, al quale i suoi discepoli dediti all’osservazione empirica dovettero porre la domanda, se la cava a male pena dicendo che in fondo la filosofia non serve a nulla perché è semplicemente necessaria. Insomma, non se ne potrebbe fare a meno. Eppure, se di poca filosofia non è morto mai nessuno, per la troppa filosofia qualcuno ci ha rimesso le penne. Ma non è il caso di essere irriverenti. Piuttosto, mi è sempre piaciuta un mondo la battuta di Pascal: «Prendersi gioco dei filosofi è veramente filosofare». Dove l’acume del giansenista sta proprio nella distinzione tra filosofi e filosofia. Come a dire, insomma, che dei primi, soprattutto se professori, si può fare a meno, mentre sulla seconda
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ici della filosofia, sorge una domanda: c’è ancora posto per la storia delle idee?
iero è finito in edicola qualche pensiero si può anche fare. Ma solo se - ed è qui il punto da tener fermo - in gioco c’è realmente un sapere che riguarda la vita, perché delle teorizzazioni, del trascendentale, degli “ascolti” e persino delle epistemologie non sappiamo più cosa farcene. E, grazie al cielo, per capire che la filosofia o ha a che fare con la vita e la morte o è un’impostura non ci vuole né il Corriere della Sera né la Repubblica.
Le molte, troppe pubblicazioni inducono a credere che il sapere è potere. Chi più sa, più può. Oddio, che nella vita tutto sia buono a sapersi è normale: sapere qualcosina in più aiuta a farsi fregare meno. Ma il sapere filosofico mira ad altro. A cosa? Nientemeno che all’eterno: il sapere - il logos - conserva in sé ogni cosa che solo in apparenza si dissolve nel nulla. Piaccia o no, nella filosofia è in gioco proprio questo: ma credere di capirlo leggendo i commentatori dei filosofi è falso. Certe cose si afferrano solo se si leggono - cioè se si soffre e gioisce con loro - direttamente i filosofi che sono sempre più chiari dei loro commentatori, storia questa molto antica (sarà per questo che Panorama portò in edicola I classici del pensiero: la più sterminata collana di filosofi e autori classici antichi e moderni che sia mai stata “edicolizzata”con circa ottanta volumi; e a questa iniziativa bisogna per forza affiancare anche quella del Sole 24Ore con la collana I grandi filosofi in trenta volumi). Proprio perché il logos trattiene in sé l’essere vero, In alto, da sinistra a destra, alcuni protagonisti della storia del pensiero: Hegel, Marx, Spinoza e Heidegger. Al centro, “La Scuola di Atene”
la filosofia è sempre filosofia morale. La filosofia è un programma di salvezza che non fa ricorso a un Dio ma al logos, ma sempre di tentativo di salvezza si tratta. La verità ha un potere salvifico anche se ci salva solo dagli errori, dalle illusioni, dalle paure. Lo scopo della filosofia è quello di dare agli uomini una casa in cui la verità sia più sicura dei miti. Infatti, il mondo del mito è finito perché aveva in sé il destino della fine, mentre la filosofia avendo a che fare con la verità dell’essere vuole rivelare qualcosa di originario e più sicuro. Gli uomini che saranno in grado di vivere secondo questa verità - dicono i filosofi che dividono il mondo in vero e apparente e gli uomini in svegli e dormienti - non avranno nulla da te-
Il sapere filosofico mira all’eterno: credere di afferrare il logos tramite i commentatori dei maestri è un’impresa ardua. Occorre andare alla fonte mere e, forse, anche il loro dolore sarà soltanto frutto di un inganno “umano, troppo umano”. Insomma, i filosofi non piangono. I libri filosofici in accoppiata con i quotidiani dovrebbero dire questo e misurare il valore delle lacrime della filosofia e dei filosofi. Così fa, ad esempio, un libro che non è distribuito dalla catena dei grandi giornali: Le lacrime dei filosofi (Marietti) che è il frutto delle lacrime del mio amico Giuseppe Cantarano (ma l’amicizia qui non c’entra o, se c’entra, diremo allora che c’entra alla maniera in cui vi faceva riferimento Hannah Arendt, perché non sempre la verità è più importante del-
l’amico e, in fondo, senza amicizia la filosofia è impossibile).
È una storia della filosofia che prende molto sul serio l’idea di salvezza perché il bisogno di verità dell’uomo non viene al mondo solo dalla curiosità intellettuale o dalla meraviglia, ma ancor più dal terrore, dalla paura, dal dolore, dall’angoscia. Perché l’uomo nella casa del Mito stava tanto bene e anche se moriva poteva pur sempre immaginare di andare in un altro luogo più vicino agli dèi, ma quando è uscito di casa e ha visto che la morte non è un trasloco e il divenire travolge tutto e porta via tutto, allora, si è spaventato a morte e ha cercato di rimpiazzare la vecchia e inabitabile casa con una nuova struttura più sicura perché reale, dunque non immaginaria, e razionale, dunque non arbitraria. E nella storia del pensiero c’è questa ricerca della verità della “struttura della realtà” e il filosofo è proprio colui che, alla maniera di Spinoza che è un campione del settore, è in grado di sovrapporre i due ordini o i due mondi: quello delle idee e quello delle cose, la razionalità e la realtà. La realtà razionale, infatti, è rassicurante perché si lascia capire, si lascia prendere, controllare, dominare. Oddio, oggi sappiamo che questo paradiso di razionalità può capovolgersi in un inferno: gli uomini possono sentirsi alienati e svuotati dalla eccessiva razionalità che li trasforma in automi senz’anima e può accadere perfino, come purtroppo è accaduto, che qualcuno che non è un “profeta disarmato” si possa presentare agli altri uomini dicendo loro: “Io sono la razionalità, io sono la società” oppure “Il Partito è la razionalità, il Partito è la società” e roba del genere. Insomma, ci siamo capiti: quello che voleva essere un rifugio o un riparo,
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una nuova casa dove abitare in santa pace per sfuggire dai mali del mondo si può trasformare (si è trasformato) in un rimedio peggiore del male (la toppa è peggio del buco, dicevano le nonne che di filosofia ne sapevano poco ma il mondo, chissà come, pur lo conoscevano). Altro che lacrime, allora. Perché non è detto che la morte sia il peggiore di tutti i mali. Ripartiamo da dove abbiamo iniziato: la filosofia non è una materia scolastica, giammai una disciplina accademica. I giornali ripropongono ormai da anni i classici e i classici dei classici e sembra quasi che la filosofia sia diventata una materia giornalistica. Forse, non è sbagliato pensare che il pensiero sia più a suo agio sulle pagine dei giornali piuttosto che nelle aule delle università. Almeno c’è più rischio, contraddittorio e ognuno può “farsi un’idea”più liberamente.Tuttavia, il pensiero filosofico non è solo un’opinione o, come si dice, la capacità di “farsi un’idea”. Anche la filosofia esige una fede perché il filosofo che vuole salvarsi deve credere se non in Dio, almeno nel logos, ma deve credere. Ma il credo filosofico - in fondo come quello religioso - non si può imporre. La domanda “Come devo vivere?” tollera più di una risposta, e se anche la filosofia, alla maniera hegeliana, è una, le vite sono molte e il conflitto tra loro è non solo esistente ma addirittura necessario. L’idea di superarlo o sopprimerlo in nome di una verità e di un potere che le racchiuda si è rivelata disumana.
Ecco perché oggi, probabilmente, il cuore della filosofia batte più forte là dove si incrociano due libertà: la libertà filosofica o morale e la libertà civile o politica. L’una non può prevalere su l’altra e l’una non può fare a meno dell’altra. La libertà civile o politica è la libertà dell’individuo dall’ingerenza del potere nella sua vita. Libertà sacrosanta. La libertà morale è la capacità di essere autonomi e di credere, ancora, in quelle idee platoniche o categorie dello spirito che sono il tentativo di orientarci nell’esistenza tragica che senza una fede non si lascia redimere. La filosofia da gadget dei giornali non può tanto, ma nessuno può sapere dove lo spirito vuole soffiare.
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A pieno regime, Northstream sarà in grado di pompare in Europa un quantitativo sufficiente per scaldare 25 milioni di case
L’oro blu di Berlino Medvedev e la Merkel inaugurano il gasdotto dell’alleanza fra i due Peasi. Firmata Schröder di Antonio Picasso a Russia approfitta del caos finanziario per entrare in Europa con la sua industria pesante. L’inaugurazione che si è tenuta ieri a Lubmin del Northstream, il gasdotto che collega la costa baltica della Russia Bianca con la Germania, era in agenda da mesi. Tuttavia, è difficile non intravedere nella cerimonia un’operazione di partnership geopolitica e non reclusa al solo settore energetico. Del resto, i due comparti sono inscindibili. Al taglio del nastro c’erano tutti: Merkel, Medvedev e Barroso, a livello politico istituzionale. Nelle seconde file, spiccava anche la chioma tinto mogano del’ex Cancelliere tedesco, Gerard Schröder, presidente del consorzio che ha gestito i lavori di installazione del pipeline e che poi sarà responsabile del flusso di idrocarburi.
L
Al momento della sua ideazione, era il 1997, il progetto Northstream non provocò una così enorme eco. Erano i tempi in cui la Russia post-sovietica faceva paura in quanto impero a pezzi e non in qualità di potenza ritrovata. Poi l’orso russo riacquistò fiducia in se stesso. Tra gli anni 2004-2005, le crisi energetiche che colpirono l’Ucraina e, in maniera tangenziale l’Europa dell’Est, vennero accolte come il ritorno di fiamma degli appetiti
del Cremlino. E così sostanzialmente fu. Il Northstream si trasformò dall’essere un semplice oleodotto, a un corridoio di ingresso della Russia putiniana nella Mitteleuropa, con Berlino che faceva da irresponsabile apripista. Furono quelli gli anni in cui si cominciò a parlare di crisi del gas e dipendenza del Vecchio continente da nazioni non propriamente democratiche. Venne coniato il termine “Opec del gas”, vale a dire un cartello più o meno regolarizzato, in cui Gazprom avrebbe fatto
sersi realizzato. Sono 1.222 i chilometri di tubature che collegano la città russa di Vybor con il porto tedesco di Geifswald. Entrambi gli estremi del lungo serpentone marino – il più lungo al mondo nel campo di approvvigionamenti energetici – si affacciano sul Baltico. A pieno regime, il Northstream sarà in grado di pompare nella cisterna Europa 7,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Un quantitativo sufficiente per scaldare 25 milioni di abitazioni. Per la realizzazione dell’intero progetto sono
Dopo aver aperto le condotte la quota di Gazprom sul mercato europeo salirà sino al 2030 del 30%. Il colosso ha firmato contratti per un importo aggiuntivo di quasi 22 miliardi di metri cubi di gas
da padrona, mentre una passiva Ucraina sarebbe stata la vittima sacrificale degli accordi MoscaBruxelles. Oggi l’incubo paventato da molti sembrerebbe es-
stati spesi 6 miliardi di dollari per le tubature su terra e altri 8,8 miliardi per quelle offshore. Il consorzio Gazprom Ag ha chiamato a raccolta una cordata di
multinazionali petrolifere e di istituzioni europee. La russa Gazprom ha versato il 51% del capitale e si ritiene manterrà questa quota per controllare il gasdotto. Le tedesche Rurhgas e Wintershall vi hanno partecipato per un 15,5 a testa. Seguite dalla olandese Gasunie e Gas de France-Suez, con 9% di partecipazione azionaria. L’Italia è presente nel progetto tramite Saipem, che ha provveduto alla posa dei, Snamprogetti, responsabile della parte ingegneristica di progettazione, e Petrol Valves, che ha fornito le valvole necessarie alla sua costruzione. Le superfici dell’infrastruttura, inoltre, sono state trattate con cicli anticorrosivi, certificati Norsok M 501 forniti da Carboline Italia e applicate da BluColor. Al di là della grande quota di made in Italy che l’opera sfoggia – diffici-
le che Merkel & Co l’abbiano ricordato ieri – Northstream è un progetto geopolitico portato a compimento.
Il gasdotto certifica l’alleanza tra Berlino e Mosca. Una partnership intessuta da Schröder e che la Merkel ha raccolto come eredità imprescindibile. Evidentemente in Germania il Drang nach Ost ha ancora un significato strategico. I tedeschi si sono assicurati una posizione di gregari di Serie A nei confronti della Russia. In questo modo, l’Europa dell’Est è tornata a essere soggiogata alle due potenze. Sembra un revival della guerra di successione polacca (17141733). Oppure del Patto Ribbentrop-Molotov del 1939. In caso di crisi energetica, la Germania avrebbe i rifornimenti assicurati. Lo stesso sarebbe per i suoi
Ma da Gerusalemme Ehud Barak risponde: «Non vogliamo la guerra, ma non abbiamo bisogno del via libera di nessuno»
Iran, appello (piccato) del Cremlino ad Israele bbassare i toni della retorica antiiraniana «per evitare la catastrofe in Medioriente». Questo l’appello lanciato dal presidente russo Dmitrij Medvedev nel corso di una conferenza stampa congiunta con il suo omologo tedesco Christian Wulff a margine dell’inaugurazione di North Stream. Ripreso dalla Ria Novosti, il capo del Cremlino, ha definito «retorica pericolosa le dichiarazioni belligeranti secondo cui Israele o altri sono pronti ad applicare la forza contro l’Iran. Ci rendiamo conto che le emozioni in Medioriente vanno a briglia sciol-
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di Laura Giannone ta e che il processo di pace ha intrapreso una strada senza uscita - ha osservato Medvedev -, ma la retorica militare potrebbe avere gravi conseguenze».
In attesa del nuovo rapporto Aiea sul sospetto programma nucleare iraniano (su cui lunedì sono uscite numerose anticipazioni), continua a salire la tensione tra Teheran e la comunità internazionale. L’Iran ha accusato Washington di «esercitare pressioni senza argomentazioni nè
prove serie», mentre il suo presidente Mahmoud Ahmadinejad ha avvertito gli Usa: «per tagliare la vostra la mano, non abbiamo bisogno della bomba atomica». E mentre la Russia ha chiesto alle autorità iraniane di rispettare tutti gli obblighi internazionali, Israele ha perorato con il suo capo della diplomazia Avigdor Lieberman la causa di sanzioni ”severe e paralizzanti» per l’Iran. Secondo Lieberman - le cui dichiarazioni sono state riportate dal quotidiano israeliano Maariv
- le sanzioni dovrebbero colpire in particolare la Banca Centrale iraniana e le esportazioni petrolifere del Paese. Nessun cenno, invece, è stato fatto ai piani di attacco aereo contro le installazioni iraniane. Ipotesi di cui Mosca non vuole neppure sentir parlare.
«Rispetto alle dichiarazioni bellicose sul fatto che Israele o qualcun altro possa usare la forza contro l’Iran o contro qualsiasi altro paese in Medioriente, si tratta di una retorica guerrafondaia», ha commentato il presidente Medvedev. Pronta
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Una volta completato trasporterà 55 miliardi di metri cubi, circa un terzo delle attuali esportazioni russe. La gran parte del gas sarà destinato a Germania, Repubblica Ceca e Slovacchia Sono 1.222 i chilometri di tubature che collegano la città russa di Vybor con il porto tedesco di Geifswald. Entrambi gli estremi del lungo serpentone marino – il più lungo al mondo nel campo di approvvigionamenti energetici – si affacciano sul Baltico partner dell’Europa occidentale? È un doppiogioco, quello tedesco, che a Parigi dovrebbero aver intuito. In caso contrario, è meglio che Sarkozy rifletta un istante in più prima di condividere sorrisi con la Merkel. Del resto, il Northstream gode del placet di Bruxelles. Il che significa che l’Unione europea è ben lieta di sottostare a prezzi e misurazioni dettati da Gazprom. E quindi dal Cremlino. In questo senso, la vittoria è tutta russa.
Caduta l’Ucraina e aggirato l’ostacolo polacco, Medvedev e Putin adesso possono dettare legge in maniera strutturale per quanto riguarda le nostre politiche energetiche. Non c’è da stupirsi di questa manovra. Il risveglio dell’orgoglio russo era previsto. Già negli anni Novanta, pur testimoni della crisi che aveva devastato la Russia di Yeltsin, i più acuti osservatori erano consapevoli che per Mosca la sconfitta nella Guerra fredda avrebbe significato un incentivo per rialzarsi e lentamente ricostruire la propria forza. Così è stato. Nel rispetto della tradizione di leader da
pugno di ferro in guanto di velluto, il Cremlino è stato retto prima da Putin e ora da Medvedev. Uomini dai modi di fare non sempre vellutati. Un tandem politico costruito all’ombra delle sterminate risorse naturali della Siberia. Ricchezze, soprattutto di gas e petrolio, delle quali il mondo si è scoperto dipendente.
Quel che sorprende è il cammino evolutivo della nuova Russia. A dispetto delle previsioni, il Paese continua a crescere. La sua economia, da molti criticata perché monoproduttiva e collusa con la criminalità internazionale, sta rivelando un trend in controtendenza con le affannate sorelle occidentali. La mano che Mosca ci ha teso a ottobre ha destato un’evidente amarezza. «Siamo in attesa di capire quale sia la strategia europea
la risposta di Gerusalemme: «Israele non ha deciso di imbarcarsi in operazioni militari». A dirlo il ministro degli Esteri, Ehud Barak. «La guerra - ha continuato Barak - non è un picnic. A noi piace il picnic ma non la guerra». Comunque, ha ag-
per uscire dalla crisi», ha dichiarato Arkady Dvorkovich, primo consigliere economico del presidente russo. Si è trattato di un’offerta alla quale Bruxelles e Francoforte non hanno replicato.Troppo è l’orgoglio della Vecchia Europa capitalistica di fronte a una Russia capace di investire miliardi di dollari in bond spagnoli. Così come è intenzionata a incrementare il proprio contributo finanziario al Fondo monetario internazionale. Sono manovre finanziarie che l’economia russa si può permettere. Anzi, con le entrate dovute al Southstream esse saranno in potenziale crescita. Il Cremlino attribuisce molta più importanza alla produzione concreta. Fabbriche e miniere sono ancora il cuore pulsante dell’economia russa. E non i mercati finanziari.
loga a quella espressa ieri dal presidente russo Dmitri Medvedev: «Durante i miei recenti contatti con la leadership iraniana, compreso il presidente, mi è stato assicurato in varie occasioni che sono pronti a fornire le prove e interagire con le al-
«Le emozioni in Medioriente vanno a briglia sciolta e il processo di pace è su una strada senza uscita - ha detto il capo del Cremlino - ma la retorica militare potrebbe avere conseguenze» giunto, tutte le opzioni per far fronte al nucleare iraniano restano aperte, anche perché Israele non ha bisogno del via libera degli Stati Uniti per condurre un attacco. Israele è uno Stato sovrano». Intanto, Russia e Cina hanno chiesto all’Iran una maggiore collaborazione con l’Aiea. Pechino ha insistito per una cooperazione «trasparente e seria», ovvero per una «prova di flessibilità». Una posizione ana-
tre parti coinvolte nei negoziati. Sfortunatamente non si sono visti progressi in questa direzione». Non si è invece ancora placata l’eco della gaffe diplomatica fra Francia, America e Israele, che seppur non ancora ufficialmente confermata ha costretto il ministro degli Esteri francese Juppé a gettare acqua sul fuoco. La Francia ha «una posizione equilibrata» in Medioriente riguardo a israeliani e palestine-
La nuova Russia dunque si arricchisce. Seguendo però linee del tutto diverse dalla forza che, nei secoli passati, Mosca ha saputo sfoggiare. È sull’economia che il Paese sta puntando. Certo, ci sono ancora dei punti deboli. Come per esempio il Mediterraneo. Con l’uscita di scena di molti amici regionali, è probabile che il Cremlino dovrà rivedere la sua influenza nei Paesi arabi, ma anche in Italia e Nord Africa. Tuttavia, una revisione non include necessariamente un ridimensionamento. Soprattutto se, anche per questo quadrante, l’asso pigliatutto è quello energetico. Lo si chiami Southstream, oppure Nabucco – fratelli in incubazione del neonato gasdotto settentrionale – la Russia saprà comunque guadagnarci.
si, ha assicurato all’Assemblea nazionale Alain Juppé, senza menzionare le dichiarazioni molto critiche di Nicolas Sarkozy su Benjamin Netanyahu.
Secondo il sito francese Arret sur images, infatti, Nicolas Sarkozy avrebbe definito «bugiardo» il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una conversazione privata, il 3 novembre al G20 a Cannes, con Barack Obama. «Non posso più vederlo, è un bugiardo», avrebbe detto il presidente francese. «Tu te ne lamenti, pensa che io ho a che farci tutti i giorni», avrebbe ribattuto il suo omologo americano, secondo il sito specializzato in analisi dei mass media, che riporta le loro dichiarazioni senza precisare se ne esiste una registrazione sonora. La conversazione sarebbe dovuta avvenire a porte chiuse ma è invece “fortunosamente” giunta all’orecchio di alcuni giornalisti.
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grandangolo La simulazione “Eas” scatterà alle 14, ora di Washington
Prove di apocalisse nell’America di Obama. Ma è polemica Dall’Alaska alle Hawaii, da Puerto Rico alle isole delle Samoa americane nel Pacifico, tutte le trasmissioni tv, radio e satellitari saranno oggi interrotte per 30 secondi all’ora di pranzo da un messaggio della Fema per testare la capacità di avvisare la popolazione in caso di emergenza nazionale. Ma già si teme il panico (e la Casa Bianca è sotto accusa...) di Anna Camaiti Hostert ggi siamo troppo disincantati e troppo astuti, almeno per quanto riguarda la tecnologia, per poter solo pensare che l’interruzione di un programma radiofonico possa far precipitare la gente nel panico. Inoltre ormai siamo rimasti in pochi ad ascoltare la radio. Ma in quella famosa notte di settanta anni fa al teatro Mercury di New York accadde qualcosa che determinò il cambiamento di un’era. Il 30 ottobre del 1938, la notte prima di Halloween, il regolare broadcast radiofonico nazionale venne interrotto per un annuncio che fece tremare tutti gli americani. «Signore e signori interrompiamo il programma di musica per diramare un bollettino speciale dell’Intecontinental Radio News. Circa venti minuti prima delle ore 20, Central Time, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings di Chicago in Illinois, ha riferito di avere osservato a intervalli regolari diverse esplosioni di gas incandescente sul pianeta Marte.
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Lo spettroscopio indica che il gas è l’idrogeno e che si sta muovendo in direzione del pianeta Terra ad un’enorme velocità» - sentenziò drammaticamente una voce profonda. A partire da quelle parole con un crescendo di terrore pari solo a quello che attraverso le atrocità del secolo scorso le generazioni a venire hanno imparato a conoscere, Orson Welles descrisse un atterraggio di marziani sulla Terra. Tratto dall’omonimo
romanzo del 1898 The War of the Worlds di H.G. Wells, Welles mandò in onda un broadcast ormai storico decidendo di inscenare una falsa invasione di alieni che suonò così veritiera da far precipitare gli Stati Uniti nel panico.
«Se aveste letto i giornali il giorno dopo- affermò successivamente Welles avreste potuto pensare che ero Giuda iscariota e che la mia vita era finita». Invece questo fece la sua fortuna. «Del tutto incosapevolmente - scrisse all’epoca Dorothy Thompson sul New York Tribune - Mr. Orson Welles e il teatro Mer-
Messo a punto negli anni ’50, l’allarme è stato “rititirato” fuori da George W. Bush, che voleva verificarne la sua capacità cury hanno compiuto una delle più affascinanti e importanti dimostrazioni di tutti i tempi. Hanno provato che poche voci ma efficaci, accompagnate da sound effects realistici possono convincere le masse di qualcosa talmente irra-
zionale e così assolutamente fantascientifico da creare il panico in un intero paese. Hanno dimostrato in un modo più potente di qualsiasi argomentazione e al di là di ogni dubbio gli spaventosi pericoli e l’enorme efficacia di una demagogia allo stesso tempo popolare e teatrale. Hitler è in grado di spaventare l’Europa fino a metterla in ginocchio, ma riesce a farlo con un esercito e una contrarea che spalleggiano e sostengono le sue urla sguaiate. Mr. Welles ha spaventato migliaia di persone assolutamente con niente».
Viene da chiedersi ancora oggi: come si fa a spaventare così tante persone con niente? Eppure dovremmo saperlo bene in un’era come la nostra nella quale l’abilità di creare simulazioni così realistiche specialmente per la televisione è divenuta uno strumento essenziale per l’esercizio del potere e non solo nei media televisivi. L’incapacità di vedere attraverso queste illusioni è divenuta una delle forme più assolute di mancanza di potere e alimenta una sorta di analfabetismo di ritorno. Quelli che si lasciano ammaliare dalle illusioni multiple della politica e dell’informazione sono destinati a soccombere, come gli ingenui spettatori della performance di Welles e sono condannati a ricoprire un ruolo, da loro stessi scelto, in drammi di altra gente, mentre erroneamente credono di reagire a qualcosa di reale.
Quello che sta succedendo in questi giorni a seguito della propaganda, soprattutto degli ultra conservatori Rush Limbaugh e Glenn Beck intorno al test di Emergency Alert System (EAS) ripropone interrogativi di questa natura.
Oggi alle ore 13, Central Time, negli Stati Uniti ogni programma televisivo e radiofonico sarà interrotto per 3 minuti e 30 secondi anche se le ultime notizie parlano solamente di una breve pausa di 30 secondi. E non sarà certo Orson Welles con la sua War of the Worlds a farlo con messaggi che terrorizzano il pubblico, ma la voce registrata e calma di un anonimo annunciatore che varerà il primo test nazionale di allarme in caso di un’emergenza nel paese. E allora perché fa tanta paura? Il messaggio che inizierà con la frase «Questo è solo un test» cioè con le stesse parole con cui è sempre iniziato alle radio e alle Tv locali negli anni passati, dà infatti la possibilità al presidente di rivolgersi direttamente agli americani in caso di un’emergenza nazionale. La Federal Emergency Management Agency (Fema) e la Federal Communication Commission (Fcc) saranno responsabili per l’andamento del test. La Fema ha infatti affermato che questo esperimento determinerà quanto sia efficace e affidabile il sistema nel trasmettere messaggi via radio, televisione, cable, radio satellitarie e server televisivi. Il test raggiun-
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Inizierà a trasmettere nel 2012 e presto aprirà uno studio anche a Nairobi
La Tv di Stato cinese ricorre al soft power e sbarca negli Usa di Laura Giannone a televisione cinese ha aperto una sede a Washington da dove comincerà a trasmettere a partire dal 2012. A rivelarlo è stato il Financial Times, aggiungendo che China Central Television (CCTv) conta di produrre fino a sei di programmi originali al giorno. Secondo il quotidiano finanziario della City, China Central Television sta costruendo uno studio anche a Nairobi, in Kenya, da dove conta di raggiungere tutto il continente africano, e intende aprirne uno anche in Europa. «Hanno un piano molto ambizioso per aumentare la diffusione del loro canale in lingua inglese», ha detto una fonte al Financial Times. «Le quattro principali agenzie di stampa occidentali controllano circa l’80% del flusso di notizie e se la Cina vuole rafforzare il suo soft power deve parlare attraverso i suoi media - ha detto al quotidiano un docente della Jinan University, Dong Tiance - il rafforzamento della trasmissione internazionale permetterà al mondo di comprenderci meglio e a noi di rafforzare la nostra influenza». Al momento il canale è disponibile via cavo e via satellite in zone degli Stati Uniti dove è più forte la presenza cinese. Tutto è cominciato un anno fa, quando l’agenzia statale cinese Xinhua lanciò un canale di notizie mondiali per trasmettere h24 in inglese, la China Xinhua News Network Corporation (CNC), per offrire «una migliore visuale della Cina ai suoi ascoltatori internazionali». A distanza di dodici mesi tutti gli analisti osservano che si tratta del tentativo di accreditare nel mondo la sola versione“ufficiale” della Cina per far “dimenticare” la stretta censura sui media nazionali. Wu Jincai, che controlla la CNC World, spiega che il nuovo canale progetta di raggiungere 50 milioni di utenti in Europa, Nord America e Africa entro il prossimo anno.
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gerà anche Porto Rico, le Virgin Islands e Samoa. «Il test di oggi sarà un esercizio diagnostico per vedere come il sistema di allarme funziona nel caso di un grave disastro nazionale, ha affermato la portavoce per la Fcc Lauren Kravetz. «Anche se il sistema esiste ormai da 15 anni non c’è stato mai un test nazionale. Noi invece abbiamo bisogno di sapere se il sistema funziona come previsto in caso i responsabili della sicurezza nazionale abbiano bisogno di diramare
La voce registrata e calma di un anonimo annunciatore comunicherà il messaggio agli americani un allarme generale a tutto il paese o a una grande porzione di esso. La data del 9 novembre è stata scelta perché è ancora relativamente lontano dalla stagione degli uragani e precede la stagione invernale più rigida. Scegliere inoltre l’una di pomeriggio ci permette di non interferire con l’ora di punta in nessuna parte del paese».
Certo anche se non sembra esserci niente di sinistro in questo test, vale tuttavia la pena di notare una doppia stravagante coincidenza numerica: la data in questione da un lato è l’inverso della tragica data dell’11 settembre e dall’altro è vicinissima a quella del programma di Orson Welles. Il principio di un sistema di allarme a livello generale era stato pensato durante la Guerra fredda per permettere al presidente di mandare direttamente
messaggi al paese in caso di un’emergenza, alimentando anche allora sinistre teorie del complotto, ma non era mai stato testato a livello nazionale. I sistemi che esistono a livello locale erano stati pensati più che altro per motivi di carattere meteorologico, cioè per allertare la gente in caso di un gravi disastri climatici o per un imminente pericolo di essi.
Se tuttavia, come accade spesso di questi tempi nell’America di Obama, per ogni azione politica ci deve essere un teoria del complotto dietro questa sembra davvero molto complicato vederne una. Però certamente non scoraggia i settori più conservatori della stampa e dei media dal vedere dietro a questa operazione un tentativo del presidente Obama di controllare tutto il sistema di comunicazione. Così Steve Zieve ha scritto su RenewAmerica.com: «Adesso siamo nell’intestino della dittatura di Obama e questo tiranno sta violando ogni principio e legge della Costituzione». Bryan Fischer nel programma radiofonico dell’American Family Association ha affermto «Pensate alle possibilità che spalanca questo atto: il presidente potrebbe dichiarare lo stato di emergenza, cooptare tutti i mezzi di comunicazione di massa nel paese e finalmente fare quello che gli pare. Infine Glenn Beck nel suo ormai noto show si è spinto a dire che questo test permette ad Obama di «conquistare il controllo della frequenza di tutti i broadcast». «Le teorie del complotto - afferma Jeremi Suri, professore di storia americana all’università del Texas - sembrano scaturire sempre dopo periodi di paura in cui la gente sente che non riesce a controllare la propria vita e vuole trovare una spiegazione al perché certe decisioni economiche vengano prese senza la sua partecipazione». E questo sembra molto più il caso in questione.
Negli ultimi anni la Cina ha speso miliardi di dollari per estendere la sua influenza all’estero, soprattutto in Occidente, con due agenzie stampa, due quotidiani e due canali in lingua inglese. A luglio la statale CCTV ha iniziato a trasmettere in arabo (oltre che in inglese, francese, spagnolo e cinese) per 300 milioni di potenziali utenti in 22 Paesi di Medio Oriente e Africa del Nord. Del resto già nel 2009 Liu Yunshan, capo della propaganda, indicava «l’urgente compito strategico di ren-
dere la nostra capacità di comunicazione adeguata al nostro livello internazionale» e spiegava che «le Nazioni che hanno capacità più avanzate e migliori professionalità nelle comunicazioni saranno più influenti nel mondo e potranno meglio diffondere i propri valori».
A tal fine si calcola che Pechino abbia speso oltre 15 miliardi di yuan (circa 1,5 miliardi di euro) per la CCTv, altrettanto per Xinhua e 2 miliardi di yuan (200 milioni di euro) per la Agenzia China News, per migliorare la veste grafica e la sceneggiatura, assumere giornalisti, aprire uffici esteri, finanziare produzioni originali. Pechino censura in modo rigido i media nazionali ma è in difficoltà per le notizie diffuse dai media stranieri su fatti come la repressione contro media e democratici, le violenze attuate dalle autorità in Tibet e Xinjiang, la limitazione della libertà religiosa e altri argomenti per i quali in Cina esiste solo la verità ufficiale di Stato. L’ampio risalto dato in Occidente per la repressione violenta in Tibet del marzo 2008 e per le contestazioni durante il viaggio della fiamma per le Olimpiadi di Pechino 2008 ha messo in grossa difficoltà la propaganda statale, che vuole accreditare l’immagine di un Paese efficiente e armonico ed è costretta a tacciare di menzogna i media stranieri. Negli ultimi anni Pechino ha addirittura aumentato la censura, introducendo rigidi controlli e divieti durante il periodo preolimpico, che sono rimasti in vigore anche dopo l’agosto 2008. L’editore Ran Yunfei osserva che comunque i media cinesi hanno grande influenza sulla popolazione cinese, «soprattutto perché la gente comune ha limitate fonti di informazione e non può operare confronti, così le loro convinzioni sono guidate dalla CCTv». Per lo Stato il maggiore pericolo è rappresentato da internet e Pechino ha schierato decine di migliaia di “cyberpoliziotti” per controllare i contenuti dei siti web, pattugliare i cybercafé, rintracciare chi mette su internet contenuti non voluti, con un controllo che esperti accusano arriva a introdurre virus nei computer che permettono di acquisire notizie dal computer di nascosto.
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Marco Politi dedica a Benedetto XVI un polemico saggio (Laterza), che parla di crisi permanente di un papato gravato da numerosi pregiudizi
Processare Ratzinger Gli contestano lo spirito solitario e l’assenza di strategie: ma Benedetto XVI ha risposto ai detrattori con i fatti di Luigi Accattoli l Pontificato di Papa Benedetto è “in crisi”. Anzi: «È caratterizzato da un succedersi impressionante di crisi come non era avvenuto con nessuno dei Papi degli ultimi cento anni». È la tesi accusatoria del volume appena pubblicato da Marco Politi per Laterza intitolato Joseph Ratzinger crisi di un Papato (pagine 328, euro 18). Quell’accusa merita una risposta sia perché è bene argomentata, sia perché corrisponde al sentimento di “crisi”– la parola tematica è stata scelta bene – vissuto da una vasta componente del mondo ecclesiale in Italia e fuori.
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La mia prima risposta è che c’è sì una crisi – o quantomeno l’avvertenza, il sentimento di una crisi – ma essa riguarda la Chiesa e non il Pontificato di Papa Benedetto: ovvero, non solo il Pontificato. La seconda risposta è che la reazione “impolitica” alla crisi che Papa Ratzinger viene svolgendo – concentrazione sulla figura di Cristo e sulla teologia dell’amore, opzione per la purificazione penitenziale della Chiesa – è forse l’unica possibile e non ha dato fino a oggi cattiva prova di sé. Il collega Politi elenca buone ragioni nello svolgimento della sua accusa. «La Chiesa cattolica, sotto la superficie di scintillanti manifestazioni di massa, vive una crisi profonda. La mancanza di vocazioni crea dei vuoti in decine di migliaia di parrocchie»: è verissimo. Le stesse manifestazioni tendono a essere gonfiate ad arte: «Nel caso del megaraduno giovanile di Madrid la cifra di due milioni è mitologica»: anche questo è vero. Erano tanti ma non due milioni. «Il ‘peccato’ più grande di questo pontificato è che in Vaticano si discute poco sulle scelte strategiche da fare»: non saprei dire meglio. «Milioni di fedeli non si riconoscono nelle norme relative ai rapporti interpersonali, al divorzio, all’interruzione di gravidanza. Non comprendono perché un sincero legame omosessuale debba venire costantemente demonizzato. Non comprendono perché alle donne nella Chiesa debbano venire riservate soltanto funzioni di servizio, senza nessuna possibilità di partecipare alle decisioni»: tutto vero, ma era vero anche con Giovanni Paolo II e già con Paolo VI. E probabilmente lo sarà con il prossimo Papa. «Anche in tema di fecondazione le coppie si muovono secondo scelte di coscienza lontane dai diktat vaticani»: verissimo, ma già avveniva da gran tempo, come tutti sanno. L’Humanae Vitae è del 1968 e anche la sua contestazione è di quell’annata doc. Semmai potremmo dire che l’indicazione del magistero non è un diktat e Papa Benedetto ha fatto di più dei predeces-
La reazione “impolitica” alla crisi è forse l’unica possibile e non ha dato fino a oggi cattiva prova di sé. Intorno al Vaticano, più che una vera crisi, se ne respira l’avvertenza sori perché sia intesa come un consiglio e non come un’imposizione.
Persino sulla reazione alla pedofilia del clero – dove generalmente Benedetto incontra buoni riconoscimenti – Politi è drastico: «Ha pronunciato dure parole contro i colpevoli e la mancata vigilanza delle autorità ecclesiastiche, ma non ha aperto gli archivi vaticani per fare luce su decenni di insabbiamenti. In Italia, poi, la conferenza episcopale non ha creato nessuna commissione d’inchiesta come accade in altri paesi e si è finora persino rifiutata di nominare un vescovo responsabile del dossier pedo-
filia a livello nazionale». La Cei poteva fare di più: sono tra quelli che hanno chiesto che facesse di più ma non ne attribuisco la responsabilità a Benedetto. È giusto sollecitare una glasnost anche retrospettiva. Ma per questo comparto andrebbe riconosciuto che le direttive e l’esempio venuti da Benedetto costituiscono un fondamento per ogni sollecitazione ad andare oltre. L’argomentazione dunque è buona e manda a bersaglio varie frecce. Ma dove sono in disaccordo con Politi è nella discussione di problemi epocali (valgano gli esempi già richiamati della sessualità, delle vocazioni e delle donne) condotta sul presupposto che un Papa possa risolverli purché lo voglia; e che Benedetto non abbia proposto una sua “rotta” per la soluzione; e che dove anzi ha compiuto delle scelte non ha fatto che “dividere ulteriormente”il corpo dei fedeli. Politi – che non è cattolico – non nutre una sua avversione personale verso il Papa tedesco: «Joseph Ratzinger è una personalità interessante. Un pensatore, un predicatore. Nel privato non è affatto così rigido come affermano certi stereotipi. Per esempio sostiene che se un prete è sinceramente innamorato di una donna ed è convinto di formare con lei una coppia solida, allora è giusto che segua la sua strada». Questo credito alla persona va tenuto in conto. Ma ecco il risolto negativo che secondo il nostro analista si lega alla personalità del Papa: «Benedetto XVI è anche un temperamento solitario, monacale, che non sembra avere il piglio del governante. Di sicuro non aveva l’ambizione di fare il Pontefice. Sono stati i cardinali più conservatori e gruppi come l’Opus Dei a spingerlo. Manca nel suo Pontificato una visione geopolitica. C’è il desiderio profondo di far rivivere la fede, ma senza le riforme di cui la Chiesa ha bisogno».
È vero che Benedetto non ha una visione geopolitica: Giovanni Paolo sentiva di più le frontiere e i sistemi politici e il Nord e il Sud. Papa Ratzinger ha una visione evangelica della sua missione. Dirò da cattolico che la cosa non mi dispiace. È vero che non aveva l’ambizione di fare il Papa: voleva tornare alla sua Baviera e si era comprato la casa della pensione, a metà con il fratello don Georg. Ma non è vero che sia stato eletto per una manovra. Politi dedica i primi due capitoli del volume al “segreto del conclave” che ha eletto un cardinale che “non doveva diventare Papa: non poteva”. Perché figura “polarizzante”, cioè dividente. E ci è diventato per la combinazione del nuovo sistema elettorale adottato da Papa Wojtyla (l’abbassamento del quorum
dai due terzi alla maggioranza assoluta dopo il 34° scrutinio infruttuoso) e la situazione di “paura” in cui si sono venuti a trovare i cardinali dopo la morte di Papa Wojtyla. In effetti la situazione era fortemente emotiva, ma non ci fu panico. E la maggioranza assoluta c’era di suo, manifestata con chiarezza dai primi tre scrutini. Essa salì ai due terzi con il quarto scrutinio per il fatto che il candidato più votato dopo il “decano”, l’argentino Bergoglio, ebbe paura del Pontificato e nella pausa del pranzo di quel 19 aprile di sei anni addietro scongiurò i sostenitori di votare Ratzinger. Essendo lo svolgimento del Conclave protetto dal segreto, la mia ricostruzione è indiziaria come quella di Politi. Ai lettori il compito di valutare la verosimiglianza dell’una e dell’altra. «Il gruppo di cardinali che ha premuto per l’elezione di Ratzinger – sostiene Politi – non aveva nessuna visione del rapporto tra Chiesa e società moderna. Voleva soltanto una difesa della tradizione e di una ‘identità’ in contrapposizione al mondo contemporaneo”: è una tesi partigiana. Quel gruppo, divenuto in breve maggioranza di due terzi e oltre, voleva una continuità sostanziale con il Pontificato di Giovanni Paolo, tale da disciplinarne e metterne in sicurezza dottrinale l’eredità creativa che molte resistenze di opposto segno aveva suscitato nel corpo della Chiesa. A riprova della tesi di un Papa dividente, Politi sostiene che «rispetto al Vaticano II Benedetto XVI sta facendo di tutto per negarne la svolta rappresentata dai documenti conciliari: in primo luogo il primato della libertà di coscienza, il rapporto con le altre religioni, l’ecumenismo». Nego, nego, nego. Benedetto parla di “riforma nella continuità” che non è una formula limitante: non per
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e di cronach
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me. Contesta che con il concilio vi sia stata rottura, non che vi sia stata novità. Il primato della libertà di coscienza è nettissimo nel magistero di Papa Benedetto. Riconosce come “comprensibile” la scelta di chi abbandona la Chiesa a motivo dello scandalo della pedofilia. Dello stesso segno è il suo rispetto della scelta del prete che lascia il sacerdozio per sposarsi.
Il rapporto con le religioni: la quarta Giornata di Assisi celebrata il 27 ottobre scorso, nel 25° della prima, sta a dire che quella cancellazione della novità conciliare non c’è stata. Politi insiste sulla “catastrofe di Regensburg” e qualche ragione certo ce l’ha, ma dopo Regensburg c’è stato il viaggio in Turchia della fine di quell’anno 2006 e il viaggio in Terra Santa del 2009 e infine Assisi che ci permettono di dire che quell’incidente fu superato e messo a frutto. Anche le difficoltà ritornanti con l’ebraismo sono le stesse che si ebbero con i precedenti Pontificati: la visita – già citata – in Israele e quella dell’anno scorso alla Sinagoga di Roma sono lì ad attestare che non si è prodotto nessun clamoroso dietrofront. L’ecumenismo: in visita al Patriarca di Costantinopoli nel novembre del 2006 Papa Benedetto ha confermato il proposito di Giovanni Paolo di una ricerca in comune di “nuove forme del ministero petrino” che possano essere accettate da tutte le Chiese. L’incontro con i luterani avvenuto il settembre scorso a Erfurt sta a dire che anche in quella direzione si sta camminando. Certo con il passo di Roma: ma anche sotto Paolo VI e Giovan-
Nella foto grande, papa Benedetto XVI. A sinistra, in alto, il saggio di Politi a lui dedicato: “Jospeh Ratzinger, crisi di un papato” edito da Laterza
ni Paolo II si diceva che l’ecumenismo segnava il passo. A mio parere Politi ingigantisce il significato degli “errori comunicativi” che si sono verificati nei primi sei anni di questo Pontificato: Regensburg, il preservativo, Williamson e altri minori; e sottovaluta scelte di fondo che hanno già dato frutti visibili. Di Regensburg ho già detto. Sul preservativo va data una migliore valutazione della frase “legittimante” di Papa Rat-
Cortile dei Gentili, la creazione degli Ordinariati per persone provenienti dalla Comunione anglicana.
È vero che non sappiamo ancora che cosà potrà fare il Cortile dei Gentili (così si esprime Politi a pagina 282) ma l’idea di ricondurlo a un’accezione discriminante del dialogo con i non credenti mi pare decisamente prevenuta. A più riprese il collega polemizza con il “rifiuto” di Papa Ratzinger di “aprire la discussione sull’ordinazione degli sposati”(vedi per esempio a pagina 289) e non tiene conto del fatto che la Costituzione apostolica sugli Ordinariati per i provenienti dall’anglicanesimo prevede l’ordinazione degli uomini sposati: nello stile della prudenza che si addice a un Papa questo è un passo verso la possibilità di una tale ordinazione anche nella Chiesa latina della quale gli Ordinariati post-anglicani faranno parte. «Non si coglie l’indicazione di una rotta», conclude Politi a pagina 303. E invece sì che la si coglie. È una rotta che non punta sulle riforme ma sulla conversione, che è benissimo espressa dalla scelta del Papa teologo di concentrarsi sulla figura di Gesù e sulla predicazione di un Dio che è “tutto amore e solo amore”. Una rotta che non rinnega nulla del Vaticano II ma ne sollecita una fedeltà attenta alla lettera oltre che allo spirito. Che pone come prioritaria e fondante la fase dell’ascolto e della purificazione interiore rispetto a quella della proclamazione ad extra, che vuole proposta nell’umiltà di chi è consapevole dei propri limiti. La richiesta di perdono per i peccati di pedofilia – altra sottovalutazione di Politi – va considerata come un atto di governo a pieno titolo. www.luigiaccattoli.it
Problemi epocali come quelli legati alla sessualità, alle vocazioni e alle donne non possono trovare soluzione, purché il solo pontefice lo voglia zinger contenuta nel libro intervista Luce del mondo, rispetto a quella minimalista fatta propria da Politi a pagina 205 del volume. Il Papa ha segnalato un caso di “uso giustificato” analogo a quelli che i cardinali Martini, Cottier, Tettamanzi, Lozano Barragan avevano già proposto. Dicevo che mentre ingigantisce gli incidenti comunicativi, Politi sottovaluta scelte strategiche che meriterebbero una migliore lettura. Ne segnalo quattro: la Giornata di Assisi (di cui ho già detto), la riforma delle finanze (che il collega liquida come “imposta” dalle circostanze: fu imposta ma è ugualmente strategica e storica), il
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ULTIMAPAGINA È morto a sessantasette anni Joe Frazier, il primo pugile a cui riuscì di mandare a tappeto Muhammad Alì
L’uomo che buttò a terra il di Nicola Fano ra il primo ottobre del 1975 e Manila sembrava un posto lontano da tutto. Ma le tv erano sintonizzate su un quadrato sistemato proprio lì. Perché a Manila si dovevano affrontare per la terza volta, forse l’ultima, due uomini che interpretavano la boxe in modo diametralmente opposto. Di qua, il campione in carica, il mito: Muhammad Alì (non si chiamava già più Cassius Clay), il pugile intellettuale, quello che sul ring ballava ipnotizzando pubblico e avversari. Di là, lo sfidante: Joe Frazier, il primo uomo ad aver battuto il mito. Era successo nel 1971 quando Frazier alla quindicesima ripresa con un gancio aveva steso un monumento. Per pochi secondi, ma lo aveva steso. E alla fine i giudici gli avevano dato la vittoria ai punti, senza appello, senza polemiche. Ma a Manila sarebbe stata un’altra storia: lo sapevano tutti. Perché Muhammad Alì, con l’età, aveva estremizzato la sua lettura ascetica della boxe. Mentre Frazier, reso debole dall’età e dai pugni presi in carriera, aveva ingigantito il suo atteggiamento da sbruffone: quello che urla parole ai taccuini dei cronisti, che fa finta di non sapersi trattenere fin dalla cerimonia del peso. Appunto: dal primo ottobre del 1975 a Manila, il poi, le regole dello spettacolo erano destinate a cambiare.
E
Perché la boxe è spettacolo.Teatro allo stato puro: improvvisazione. Chi vide la quattordicesima ripresa di quel match lo sa. Frazier era cotto, Muhammad Alì pure: non solo s’erano picchiati con tutte le loro forze, ma in quell’incontro era come se avessero risentito di tutta una carriera di botte, di sfide eccessive. Due modelli diversi (l’asceta ballerino e il fanatico timido) a confronto, uniti solo dal comune interpretare un pugno come un gesto d’arte, come una battuta inaspettata, come l’estro di un momento. Alla fine della quattordicesima ripresa, sembrava che l’incontro non potesse finire: vince chi si rialza dall’angolo. Frazier non si rialzò: il suo manager lo lasciò seduto e gettò la spugna. Muhammad Alì, onestamente, disse: «Non so se ce l’avrei fatta, a fare quell’ultima ripresa». Onestà, rigore, rispetto: la boxe era anche questo. Muhammad Alì si tenne il titolo e andò incontro al suo definitivo tramonto, quando consegnò il testimone a George Foreman. L’altro Frazier, stordito dalla vita, fece in tempo a rimediare qualche sconfitta da dimenticare, ma la sua carriera era già finita e la sua lezione l’aveva già data: non c’è bisogno di vincere per essere grandi.
Joe Frazier è morto, ieri, a sessantasette anni. L’ha ucciso un tumore al fegato. Il suo nome è scolpito nella leggenda ma sempre in coppia con qualcun altro. I grandi pugili si dividono in due categorie. Dite Cassius Clay (o Muhammad Alì) e sarà sufficiente a identificare ciò a cui state pensando. Ma se un nome se ne porta appresso un altro, allora vuol dire che la sua fama è gemella a quella dell’avversario di sempre (Benvenuti-Monzon, Griffith-Benvenuti, Mike Tyson-Larry Holmes, Alì-Frazier…): sono pochi i primattori della boxe (Rocky Marciano, Tiberio
MITO
Era nato nel Sud Carolina nel 1944 e a vent’anni aveva vinto l’oro olimpico nei massimi a Tokio. La sua carriera è legata a tre sfide storiche con il grande campione Mitri, Sugar Ray Robinson o, appunto, Muhammad Alì), per di più, tranne rari casi, si diventa primattori per i propri difetti, non per i propri monologhi (non c’è monologo, nella boxe). Joe Frazier, grandissimo pugile, aveva bisogno di un coprotagonista e anzi il suo mito è proprio nella spossatezza parallela sua e di Alì. Era nato nel 1944 nella Carolina del Sud. Ultimo di dodici fratelli, crebbe in una grande fattoria, scoprendo la boxe nelle tv in bianco e nero: Sugar Ray Robinson, Rocky Marciano, Willie Pep, e Rocky
Graziano. A Filadelfia, nel 1961, cominciò a combattere, guidato da Yancey ”Yank” Durham, un ex-pugile che sarebbe stato il suo manager fino alla morte, nel 1973. Vinse molto da dilettante, ma soprattutto vinse l’oro nei massimi alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Da professionista, nel 1965, cominciò con quattro ko in un anno. E sempre prima della terza ripresa.
Ma in fondo era un predestinato: il suo destino aveva un nome, Muhammad Alì. Cominciò a studiarlo, senza dire niente a nessuno, nel 1967, nascondendosi nelle palestre dove il suo mito si allenava. Sapeva tutto: del balletto, dei jab, della difesa chiusa, della rapidità del colpo. Sicché quando alla fine lo affrontò, nel 1971, sapeva ìgià tutto: quell’incontro era come se lo avesse già combattuto milioni di volte. Duhrham gli disse: vai e fai esplodere i tuoi guantoni; gli altri vedranno solo il fumo. Da quel momento tutti lo chiamarono Smokin’ Joe. L’avversario si stupì della sconfitta, ma rinviò la vendetta certo che se la sarebbe presa. E se la prese quel primo di ottobre del 1975 a Manila. Quando cambiò tutto.