2011_11_11

Page 1

11111

Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle. Giuseppe Prezzolini

he di cronac

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 11 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Verso un governo di unità: ma le ore che precedono la decisione sono cariche di tensioni e incertezze

I furbetti del Palazzino No di Bossi e Di Pietro: all’opposizione solo per lucrare voti di protesta Lega e Idv confermano la loro demagogia anti-sistema: l’interesse di partito prima di quello del Paese. Il Pdl è diviso. Berlusconi conferma il sì, ma Alfano: «Meglio votare, però deciderà il Quirinale» Il neo-senatore a vita ha parlato a Berlino Nella serata di ieri ricevuto da Napolitano

Monti: «C’è un lavoro enorme da fare». Merkel: «L’Italia recupera credibilità»

ROMA. Quando c’è da salvare

LE LARGHE INTESE

l’Italia, i populisti preferiscono salvare se stessi. Non è un caso che proprio i più «furbi» del nostro orizzonte politico, Umberto Bossi e Antonio Di Pietro, abbiano chiuso le porte al governo Monti. Sanno che per risollevare l’Italia bisognerà prendere decisioni impopolari: quale miglior occasione per cavalcare la prevedibile protesta e racimolare qualche zero virgola di voti in più? a pagina 2

Altro che scelta tecnoburocratica, è ritornata la politica! di Giancristiano Desiderio

di Errico Novi

di Francesco Lo Dico

Tempestosa riunione dei colonnelli del Pdl da Berlusconi. Se il leader sa che “deve” dire sì al governo Monti, gli ex-An hanno paura di restare soli. E Alfano: «Deciderà il Colle».

Nicola Latorre non ha dubbi: «Questo Paese è da salvare e il governo Monti è la soluzione giusta. Il Pd sa che rischia l’impopolarità, ma non possiamo più nasconderci»

l governo Monti - abbiamo la buona abitudine di chiamare le cose con i nomi propri - dovrà essere il governo europeo che non abbiamo ancora avuto. L’uscita di scena di Silvio Berlusconi, al di là dei numeri parlamentari, sarà ricordata per aver ceduto il passo ad una personalità di livello internazionale e per aver riconosciuto, sia pure a detti stretti, che all’Italia serve un governo per l’Europa. Chi oggi parla di un commissariamento del nostro Paese da parte dell’Europa sbaglia perché l’Italia non è commissariata bensì si è auto-commissariata.

a pagina 4

a pagina 7

a pagina 3

Destra e sinistra: dubbi e agitazioni allo specchio Fronda di La Russa e Matteoli

I travagli del Pd visti da Latorre

Ministri e ex An «Rischiamo, ma temono di sparire la strada è giusta» Bini Smaghi si dimette dal board della Bce: insegnerà ad Harvard. Inizia la verifica della Ue sui nostri conti. «Niente pareggio nel 2013» pagina 2

I

Khamenei: «Reagiremo a un attacco con il pugno di ferro»

Il dizionario del liberalismo

Europa spaccata sull’Iran

I Parlamenti dalla A alla Z

Grandi e piccoli divisi sulle sanzioni a Teheran di Luisa Arezzo a voce dell’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran, dopo tre giorni di silenzio, si è fatta sentire. Minacciosa, ha avvertito che Teheran risponderà «con il pugno di ferro» a un eventuale attacco militare di Israele. La diplomazia internazionale non solo non risponde, ma fatica a trovare un fronte comune. Dopo che Francia, Gran Bretagna e Germania hanno detto di essere pronte all’inasprimento delle sanzioni al regime, non tutti sono d’accordo. E Russia e Cina si schierano contro. a pagina 11

di Fabio Grassi Orsini istituto della rappresentanza fu oggetto di un lungo dibattito teorico, di una sua regolamentazione positiva nei diversi sistemi costituzionali ed è stato e continua a essere analizzato empiricamente dai teorici della politica. La prima formulazione della rappresentanza politica, che superò quella per ceti fu quella dell’art. 7 della costituzione francese del 1791. a pagina 8

L’

C’è davvero in gioco l’integrità dello Stato

Ma Israele interverrà solo se sarà minacciato

L

di Mario Arpino e voci circa un possibile attacco di Israele ai siti nucleari iraniani sono ricorrenti, non nuove. Ma questa volta, dopo la pubblicazione del nuovo rapporto della Aiea, sono più insistenti. Negli Usa, una parte della popolazione sembrerebbe ormai rassegnata a convivere con un Iran nucleare. a pagina 10

L

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

219 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Il neo-senatore a vita ha formalizzato la sua nomina, ieri sera, al Quirinale. E intanto Bini Smaghi si dimette dal board della Bce

Sostiene Mario Monti

«Un lavoro enorme, cominciamo abolendo i privilegi», promette. Anche la Merkel applaude: «L’Italia sta recuperando credibilità» di Errico Novi

ROMA. Strana sensazione. Il palazzo della politica italiana è avvolto in un’atmosfera rarefatta, ai limiti dell’irreale. Se è stato possibile approvare misure severe ma non sovrumane nel giro di poche ore, com’è avvenuto tra martedì e mercoledì con il maxiemendamento alla legge di stabilità, non si sarebbe potuto procedere prima della tempesta sullo spread? La domanda aleggia sul day after della sostanziale investitura a Mario Monti come candidato alla presidenza del Consiglio. Passo dovuto all’incredibile peso di responsabilità che Napolitano ha ritenuto di assumersi, con la nomina dell’ex commissario europeo a senatore a vita (salutata ieri anche dalle congratulazioni di Berlusconi). Ma appunto, è proprio l’ex commissario europeo ad accrescere la sensazione di irrealtà, cioè l’impressione che l’azione proposta finora dalla politica e dal governo italiani fosse piuttosto una recita, e lo fa attraverso parole raccolte e pubblicate dal Financial times. In Italia, ha detto l’economista a margine di un convegno a Berlino resocontato dal prestigioso quotidiano inglese, c’è «un enorme lavoro da fare». Che consisterà nel rispondere con il dovuto rigore alle richieste dell’Europa e della comunità internazionale. Che sono, secondo il professor Mon-

Piazza Affari tenta il rimbalzo (+1%) e lo spread va in altalena

Ue: «Nel 2013 niente pareggio» Rehn: molte le cose da fare, oltre alla “lettera” ROMA. Alla fine, la Borsa ha chiuso quasi a +1% (+0.97, per l’esattezza), unica in positivo in Europa insieme a Francoforte: segno di una piccola euforia tutta made in Italy. Ma per lo spread è stata una giornata in altalena: prima clamorosamente giù, poi di nuovo in alto fino a 520 punti. In mattinata, tassi alle stelle per i 5 miliardi di Bot collocati dal ministero del Tesoro che, per trovare compratori, ha dovuto offrire il tasso record del 6,087% contro il 3,570% di un mese fa. La domanda tuttavia ha toccato i 10 miliardi. Il differenziale tra i titoli a dieci anni italiani e tedeschi, invece, ha aperto a 554 punti e nel giro di pochi minuti è prima schizzato a 570 per poi ripiegare a 515, dopo essere sceso anche sotto la soglia dei 500 punti. Pesano, probabilmente, i tentennamenti del partito del premier dimissionario, che in mattinata si era schierato in modo compatto per il governo Monti e nel pomeriggio invece ha fatto proprie le ansie di visibilità di La Russa e Matteoli. Per rendere l’idea: Goldman Sachs valuta che un governo tecnico verrebbe accolto con un calo del differenziale a 350 punti. Per ora, se il Paese resiste è in parte dovuto alle speranze di voltare pagina definitivamente nel giro di pochi giorni, dall’altro alla scelta della Banca centrale europea che sta comprando titoli di Stato italiani, con interventi che alcuni trader descrivono come “più

aggressivi”rispetto ai giorni scorsi. Ma pesano anche le parole della Ue, i cui commissari stanno cominciano a monitorare i nostri conti: «L’Italia ha bisogno di stabilità politica», ha riconosciuto il Commissario agli Affari internazionali Olli Rehn, affermando però che «è necessario che faccia di più sulle pensioni». Nel rapporto previsionale di Bruxelles, peraltro, l’Italia non centrerà il pareggio di bilancio nel 2013. «In via preliminare posso dire che nel pacchetto previsto dalla ”lettera” ci sono varie misure positive come quelle relative al mercato del lavoro, alle liberalizzazioni, ma la ”lettera” - ha aggiunto Rehn - è silenziosa su molte altre questioni, non va abbastanza avanti sulla concorrenza e molto potrebbe essere fatto sulle pensioni».

Quanto ai dati macroeconomici italiani, la produzione industriale a settembre è calata del 4,8% rispetto ad agosto (dato destagionalizzato) e del 2,7% su base annua (dato corretto per effetti di calendario). Inoltre, sempre secondo i dati dell’Istat, ci sono 2,7 milioni di persone che, pur essendo disponibili a lavorare, non cercano impiego. Un dato ”triplo” rispetto a quello medio Ue, che si aggiunge ai 2,1 milioni di disoccupati (coloro che non hanno una occupazione ma la cercano attivamente).

ti, «quanto dovrebbe essere chiesto ad ogni Paese per una maggiore crescita». Soluzioni attorno a cui non possono esserci «molte divergenze intellettuali». Più precisamente «la crescita richiede riforme strutturali in grado di sgombrare il campo «da ogni privilegio» a quelle categorie sociali che ne hanno. Va cancellato quello che Monti definisce «il problema italiano di chi protegge la propria circoscrizione elettorale».

Di fatto un cambio radicale di approccio alla responsabilità pubblica. Ecco quanto si propone di portare eventualmente l’ex commissario Ue nel suo Paese, se davvero riuscisse a guidare un nuovo governo. È abbastanza evidente come al Parlamento e alle forze politiche – almeno a quelle davvero responsabili – non restino molte altre opzioni che seguire una prospettiva come quella disegnata dall’economista bocconiano. Peraltro la distanza tra la netta ridefinizione della responsabilità politica interpretata da Monti e quanto si è visto finora trova immediata sintesi in una previsione diffusa ieri da Goldman Sachs: se davvero fosse Monti ad andare a Palazzo Chigi lo spread tra titoli italiani e bund tedeschi scenderebbe solo per questo a 350 punti. Monti viene citato lungamente dal Financial times non anco-


la crisi italiana

11 novembre 2011 • pagina 3

Altro che tecnico. È tornata la politica! Parlare di tecno-burocrazia significa nascondere gli insuccessi della Seconda Repubblica di Giancristiano Desiderio l governo Monti - abbiamo la buona abitudine di chiamare le cose con i nomi propri - dovrà essere il governo europeo che non abbiamo ancora avuto. L’uscita di scena di Silvio Berlusconi, al di là dei numeri parlamentari, sarà ricordata per aver ceduto il passo ad una personalità di livello internazionale e per aver riconosciuto, sia pure a detti stretti, che all’Italia serve un governo per l’Europa.

I

Chi oggi parla di un commissariamento del nostro Paese da parte dell’Europa sbaglia perché l’Italia non è commissariata bensì si è auto-commissariata. Il governo Berlusconi è andato a sbattere sulla crisi finanziaria ed economica, ma la crisi più che somigliare a degli scogli in mezzo al mare che potevano essere evitati appare come un imbuto nel quale si è infilata tutta la politica della Seconda repubblica e non l’ultimo dei suoi governi. Purtroppo, in questi anni non abbiamo mai avuto un governo all’altezza dell’Europa e delle necessarie politiche di riforma sia del sistema sociale ed economico sia degli apparati statali e parastatali. La politica e i governi hanno deciso solo quando sono stati costretti a farlo da un vincolo esterno: capitò così con i parametri di Maastricht e con l’euro ed è capitato così con l’attuale crisi finanziaria e il rischio di fallimento per insolvenza dei debiti statali. All’alba della Seconda repubblica furono molte le speranze. Oggi che Berlusconi esce di scena si parla del tramonto del berlusconismo e fioriscono le antologie dei suoi atra come presidente del Consiglio in pectore ma come possibile ministro dell’Economia di un esecutivo Amato. Di certo c’è che nel tardo pomeriggio il professore arriva a Roma e si reca al Quirinale. È il suggello della nomina a senatore a vita ricevuto esattamente ventiquattr’ore prima. Ed è un ulteriore significativo passaggio che si compie sotto lo sguardo della comunità internazionale e che conferma l’esatta direzione verso cui è rivolto Napolitano per l’immediato futuro. Proprio il presidente della Repubblica ricorre a parole chiare per rassicurare ancora partner e mercati: «L’Italia è di fronte a passaggi difficili e scelte particolarmente ardue per superare la crisi, l’Europa attende con urgenza segni importanti di assunzione di responsabilità da parte di uno dei suoi Paesi fondatori: saremo all’altezza del compito».

ti di governo. Ma al di là delle fotografie, dei successi (pochi) e degli insuccessi (molti) ciò che conta mettere in luce è che al suo sorgere la Seconda repubblica promise due cose su tutte: un nuovo sistema istituzionale costruito intorno al principio dell’alternanza e una riforma liberale dell’economia, del lavoro, della politica e dello Stato. La seconda di queste due “rivoluzioni”non c’è mai stata e la prima è stata una caricatura dei sistemi democratici più riusciti e maturi. Guarda caso, oggi l’Euro-

Adesso serve uno spartiacque che chiuda una stagione e ne apra un’altra in grado di rendere moderno il nostro Paese pa ci dice di attuare finalmente proprio quelle riforme che sono state sempre enunciate e mai fatte. Dunque, il problema non è che l’Unione europea ci commissaria ma che i governi della Seconda repubblica non si sono mai posti al livello del nuovo sistema europeo e delle loro stesse intenzioni che sono state sempre usate sul piano della propaganda e mai dell’azione di governo.

In particolare, la destra ha proposto riforme liberali senza attuarle e la sinistra ha annunciato una sua svolta riformista senza concretizzarla. Di fatto la politica italiana ha rinunciato alle politiche europee per tutelare i propri corporativismi, clientelismi, ca-

C’è una sintonia perfetta tra la visione europeista del capo dello Stato e quella dell’ex commissario Ue. Il quale nel corso del suo intervento berlinese disegna proprio un Paese capace di riassumere il ruolo che le compete sulla scena continentale, e di affrancarsi dunque da quello di anello debole: «L’Italia è al centro dell’Europa, politicamente e storicamente non può ignorare le proprie responsabilità di membro fondatore». Sarebbe auspicabile, dice ancora l’economista, «un maggiore rispetto per la Germania di oggi» anche nel senso di imitarne la vocazione a essere «più rigorosi e costanti nel tempo, meno a breve termine, e più pazienti». È la strada da seguire per ottenere un maggiore

ste. Pur avendo un sistema-Paese in buona salute e pronto a fare un passo avanti rinunciando, con senso di giustizia ed equilibrio, ai privilegi, alle comodità, ai lussi, i governi e le maggioranze che si sono succedute non sono mai state all’altezza di questa politica di riforme allo stesso tempo italiane ed europee. Così accade che oggi l’Italia - uno dei Paesi e delle democrazie che hanno fondato la “comunità europea” - non sia tra i padri della moderna Europa e appaia come un Paese “sorvegliato speciale”.

Il governo Monti non sarà e non è un governo tecnico. Il governo presieduto dal senatore ed ex commissario europeo Mario Monti è per la stessa funzione che dovrà svolgere un governo politico. La Lega da una parte e Antonio Di Pietro dall’altra si sono già tirati fuori. Non c’è da meravigliarsi: sono entrambe due “parti” non europee. La Lega sul suo non-europeismo vi ha costruito un’identità territoriale che è il contrario dello Stato moderno. L’Italia dei Valori segue suggestioni e mal di pancia ed esprime di conseguenza una politica di pura opportunità. Sono altre le forze che devono sostenere il governo Monti che deve avere un consenso ampio: prima ancora delle sigle di partito, sono le forze liberali, cattoliche, riformiste, nazionali che si devono riconoscere in un programma di riforme europee già esistente. Il governo Monti non è un governo che abita nel limbo. Piuttosto, sarà uno spartiacque perché ha allo stesso tempo il compito di chiude-

coinvolgimento «nella partnership franco-tedesca», cosa che «sarebbe nel comune interesse». Peraltro proprio dall’appartenenza all’Unione europea, ricorda ancora Monti, l’Italia è ancora in «ampio credito», grazie a benefici che co-

re una stagione ed aprirne un’altra. Proprio perché il debito e l’economia reale devono tra loro essere in una sana corrispondenza, il governo Monti dovrà essere non l’ultimo governo della Seconda repubblica ma il primo della “nuova Italia”. Il presidente Napolitano ha detto che “l’Italia sarà all’altezza”. E proprio di questo si tratta: se la politica è seria, e dimostra di riformare anche se stessa, gli italiani sanno sia compiere sacrifici sia ritornare a crescere. Il punto è che tra il sistema-Italia che lavora e il sistema-Europa che governa non possiamo più permetterci di avere una classe politica elitaria e non governante. Da questo punto di vista - potremmo dire “l’Italia vista dall’Europa” la Seconda repubblica appare come una lunga estate calda in cui la politica è andata in vacanza o, se la metafora è più calzante, si è ammalata di se stessa. Insomma, si è passati dall’idea della rivoluzione alla prassi di non toccare nulla. Paradossale, ma reale.

Dunque, il governo Monti sarà politico ed europeo e con un buon lavoro potrà contribuire anche a porre la questione, non più eludibile, di una dimensione più precisa della politica dell’Europa unita.

espressione di ciascuna parte, seppur con uno specifico profilo di competenza. All’identikit corrispondere potrebbero senz’altro anche uomini di sinistra come Pietro Ichino e Nicola Rossi. La politica sarebbe costretta a dimostrare che quan-

anche se «non intendiamo sovrapporre la nostra voce a quella di Napolitano». Quella voce, assicura il segretario del Pdl, sarà comunque «unica», dopo la direzione del partito delle prossime ore. Una prova di maturità è attesa dai partner: dalla Merkel secondo cui «l’Italia recupera fiducia», anche se «è necessario che ci sia chiarezza sulla leadership del governo», ma anche da Obama che parla al telefono con Napolitano e scandisce le differenze abissali tra Roma e Atene. In Italia peraltro tornerà a fine dicembre anche Bini Smaghi, che annuncia le dimissioni dal board della Bce suscitando l’apprezzamento del Quirinale e iscrivendosi nella schiera di chi potrebbe unirsi a Monti in un esecutivo di svolta.

È finita la querelle sulla presenza di due italiani al vertice della Banca Centrale Europea. Su Bini Smaghi, intanto, si intensificano le voci circa una sua possibile partecipazione al nuovo governo stituiranno «un patrimonio nel tempo».

Adesso andrà verificata la capacità di sintesi tra visioni così alte e le urgenze più terrene dei partiti. Che peraltro a un governo Monti potrebbero offrire il contributo di uomini preziosi, non proprio arruolati nelle primissime file ma comunque

do vuole è in grado di trovare soluzioni all’altezza. Il che però non allontana il rischio di un’insofferenza populista già esplosa alle estreme del quadro politico, dalla Lega a Di Pietro, ma tenuta faticosissimamente a bada anche nel Pdl. Alfano è infatti costretto a ribadire che il partito è tuttora fermo sulla posizione del ritorno alle urne,


pagina 4 • 11 novembre 2011

la crisi italiana I furbetti del Palazzino/1. I lumbard non partecipano più nemmeno ai vertici

L’Aventino della Lega «Salviamoci noi!» Anche Maroni e Calderoli, dopo che il leader aveva rilanciato «il piacere di stare all’opposizione», si dicono pronti a cavalcare la protesta. Fanno affidamento sulla «pancia» della gente sperando di riconquistare l’elettorato deluso di Osvaldo Baldacci on ci sono solo gli speculatori finanziari, ma anche quelli politici. D’altro canto non è una sorpresa, lo sapevamo da tempo. Va bene così, speriamo che il Paese sia più forte di loro e ne tenga conto quando dovrà distribuire encomi e bocciature per come ci si è comportati nei momenti difficili. È infatti nei momenti difficili che si vede chi veramente è una persona seria. Chi mette l’interesse dell’Italia al di sopra della propria faziosità. Chi è capace di responsabilità e di assumersi impegni. E chi invece continua a speculare, a puntare allo sfascio, al tanto peggio tanto meglio. Chi sa solo urlare, remare contro, anche mentre la nave brucia. Sciacalli che pensano di lucrare un consenso elettorale continuando

N

a eccitare la rabbia della gente invece di convogliare le energie per risolvere i problemi. Ma non è detto che stavolta la moneta cattiva scacci quella buona.

Prendete la Lega. Mercoledì Bossi è stato capace solo di dire: «Come è bello stare all’opposizione». E ieri Maroni ha ribadito il concetto, seppure cercando ammorbidire la questione: «Staremo all’opposizione perché pensiamo che per affrontare la crisi ci servono ricette dure che devono essere proposte agli elettori». Ossia: se Bossi vuole stare all’opposizione solo per lucrare consensi condannando chi prendere quelle decisioni magari impopolari che servono al Paese e che il «suo» governo non ha saputo prendere, Maroni aggiunge che prima di salvare l’Italia occorre andare alle elezioni. Come se i cittadini potessero scegliere tra default e so-

ROMA. Non poteva che finire così. Con una parte del Pdl che non ci sta e vuole assecondare l’istinto populista della Lega. Nel drammatico vertice di partito convocato per pranzo a Palazzo Grazioli emerge la voce segnata dalla rabbia di chi preferisce le elezioni anticipate. Settori del governo e della galassia berlusconiana rassicurati fino a mercoledì mattina dalle granitiche certezze del Cavaliere: «il voto anticipato è l’unica strada», «siamo pronti alla campagna elettorale», «sceglieremo il candidato premier con un referendum», e così via. I pasdaran del resistere resistere resistere – da Brunetta a Romani, da Sacconi agli ex An di La Russa e Matteoli, fino ai tupamaros alla Lehner («Monti è espressione dei delinquenti alla Madoff») – sono rimasti in fondo sereni fino a quando Berlusconi non si è trovato costretto a cambiare idea. Evento determinato indirettamente dal terremoto dello spread, ma in termini più immediati dal crollo di Mediaset. Tra le molte moral suasion incassate dal Cavaliere mercoledì pomeriggio, quella decisiva non è stata promossa da Gianni Letta ma da Fedele Confalonieri. Cioè dall’amico di sempre, un fratello più che un consigliere per Silvio. Se continua così, è stato il ragionamento, Mediaset sarà schiacciata. Lì è venuto giù tutto, come direbbe Vittorio Feltri. L’assedio a cui Berlusconi si trova esposto, come spiegano i suoi, è del tutto insostenibile. Solo che quell’area variegata della maggioranza berlusconiana convinta di poter ancora sfidare

pravvivenza. Ma, di fatto, la Lega continuerà a fare quello che ha sempre fatto fin dall’inizio: sarà un partito “di lotta e di governo”. Perché, poniamo, quando il nuovo governo dovesse sottoporre al voto del Parlamento misure in passato cavalcate anche dai lumbard, loro che faranno, diranno no? Forse solo sulle pensioni i leghisti potranno dire no senza perdere la faccia. Ma, per fare un altro esempio, se dovessero votare no al taglio delle province, con quale faccia poi potrebbero professare modernismo e lotta ai privilegi? Come si vede, la Lega si è andata a infilare in una strana contraddizione.

Del resto, gli italiani si sono risvegliati (bruscamente) da un lungo intorpidimento, e non è detto che cadano nell’ipnosi dei demagoghi a fronte di un lavoro serio e responsabile da parte della nuova compa-

Chi ha un consenso autonomo, come Formigoni, è con Monti

Il Pdl diviso dalla fronda degli ex An. Hanno paura di perdere lo scudo del Cavaliere di Errico Novi


la crisi italiana nale. Tra i leghisti c’è tanta gente, elettori ed amministratori, che hanno creduto al buon governo del territorio, che si sono sporcati le mani per fare qualcosa di utile, e non penso che costoro preferiscano tornare alla rabbia demagogica che serve solo a tutelare gli interessi di chi ha governato finora dimenticando il bene del territorio per privilegiare la difesa del premier. Non credo che abbiano interesse a veder affondare le terre da loro amministrate solo in nome della sterile contrapposizione a una realtà politica che non nasce contro nessuno ma chiede il supporto di tutti per permettere a tutti di ripartire. Le diverse opinioni politiche sono legittime e persino doverose, ma adesso è il tempo in cui ciascuno dia il suo contributo.

Nel 2013 il Carroccio sarà ancora alleato con il Pdl? Il ministro della Semplificazione taglia corto davanti ai giornalisti: «Vedremo, la strada che porta al voto è lunga» gine governativa, a fronte di una cura amara ma salutare, di uno sforzo coerente per ridare un futuro al Paese affrontando i temi non solo del debito ma anche ad esempio dell’occupazione. Non è detto che gli italiani premino i sabotatori e penalizzino i volontari del pronto intervento, per quanto possa essere più facile protestare che costruire. Che Lega e Italia dei Valori rientrassero nella categoria di chi non si assume responsabilità ma vuole solo sfruttare rendite di posizione per incassare il possibile ce lo potevamo aspettare. Quando Bossi ha detto che è bello andare all’opposizione, lo ha fatto con la beata (o beota) tranquillità di chi non fa un minimo sforzo di assunzione di responsabilità. Certo, è bello per lui e per i

l’universo mondo nelle urne si è trovata all’improvviso senza scudo. E, soprattutto, afflitta da una precisa angoscia. Dal fondato timore che la ricomposizione dei moderati non ruoti più attorno alla stanca nave del Pdl. È lo sgomento di chi ha costruito una carriera e una fortuna politiche all’ombra del sole berlusconiano, il più delle volte privo però di un proprio personale potenziale di consenso. Adesso che il gioco si riapre, questa parte della classe politica di centrodestra sa di avere poche carte da calare sul tavolo. Quasi nessuna, una volta sradicato il totem del Cavaliere. Strano modo di intendere il confronto politico a dire il vero. Troppo facile stare in partita solo se protetti alla macchina del consenso del capo. Sarà un caso, ma a propendere con convinzione per il governo di responsabilità nazionale, e in qualche caso a schierarsi esplicitamente con Monti, sono tutti quei big del Popolo della libertà che dispongono invece di un autonomo radicamento territoriale. Trovano insensato affrontare un voto che potrebbe risolversi in una vera e propria cata-

suoi, che proprio per la loro irresponsabilità di questi anni, proprio per la colpa di aver dato un contributo determinante a portare l’Italia (nord compreso) sull’orlo del baratro, proprio per aver tradito i propri stessi militanti in nome di interessi personali e commistione col potere, proprio per questi motivi stanno vivendo una crisi di credibilità e di consenso decisamente profonda. E sperano di ritornare in auge tornando a berciare contro tutti, a dire no, no e poi no. Ma nonostante la situazione drammatica non è detto che dopo vent’anni fallimentari i loro stessi sostenitori siano ancora disposti a riaccordargli un’autoproclamata verginità, non è detto che vogliano seguirli fin dentro il baratro dell’irresponsabilità, nel falò fi-

La lega di oggi no, preferisce giocare a briscola con il destino di questo Paese. Ieri Calderoli non è andato al vertice convocato da Berlusconi per decidere la posizione ufficiale da prendere in merito al governo Monti. Ebbene, l’assenza del portavoce di Bossi ha già di per sé un senso. Ma ancora di più ne ha la battuta che il solerte ministro quasi ex ha rilasciato ai giornalisti che gli chiedevano se ne futuro del Carroccio ci sia ancora un’alleanza con il Pdl. «C’è tempo, c’è tempo per decidere...». La verità è molto più semplice: i vertici della Lega sanno che il loro elettorato ha la netta percezione della sconfitta subita dalla prospettiva «federalista». La base leghista ha capito che i ministri del Carroccio non hanno combinato niente: i ministri leghisti, gli ex ministri leghisti oramai, sperano che un anno di urla contro Monti e i suoi sia sufficiente ad annebbiare la memoria dei propri elettori insoddisfatti. Gli riuscirà il gioco? Che gli riesca o no, lo fanno a scapito dell’Italia. Già, ma lor pensano alla Padania e dell’Italia non glien’è mai fregato niente... strofe. Hanno una capacità di rappresentanza da difendere, un qualche argomento da spendere nel nuovo ciclo destinato ad aprirsi per i moderati, che ruoterà inevitabilmente attorno al Terzo polo.

Gli irriducibili del ritorno alle urne sanno che il nuovo ciclo dei moderati ruoterà attorno al Terzo polo

Formigoni come Alemanno, Lupi come Fitto, lo stesso Scajola, sanno di poter entrare con un proprio specifico peso nella nuova fase. Lo presume evidentemente anche Franco Frattini. Che certo non può contare sul seguito personale dei big provenienti da Cl o su quello del sindaco di Roma. Eppure – fatte salve quelle personalità come Pisanu che si sono esposte da tempo – il ministro degli Esteri è il più netto nel sostenere la svolta: se non ci sarà, ha detto, lascerò il Pdl. Non è un signore delle tessere, Frattini, ma non va dimenticato che nell’unico vero congresso mai celebrato da Forza Italia, nel 1998, fu lui a organizzare una mozione e una specie di minoranza interne. Non gli è sconosciuto dunque il gusto della sfida e del confronto politico. Attitudini che nella nuova storia dei moderati saranno indispensabili.

11 novembre 2011 • pagina 5

Andrea Olivero rilancia l’impegno dei cattolici

«Lo spot è finito, ora è tempo di tornare a credere nella politica» di Francesco Lo Dico

ROMA. «La chiusura della parabola berlusconiana è la logica conseguenza di un’era politica che ha patito la mancanza di idealità in nome dell’opportunismo dei singoli. I cattolici denunciavano la deriva del Paese e l’inadeguatezza di un certo modo di intendere la politica già da mesi, se non da anni. Siamo rimasti inascoltati, con la conseguenza che per uscire dal baratro e risalire la china dovremo fare a questo punto il doppio degli sforzi. Li faremo con generosità, fiduciosi nella bontà dei nostri principi e nello spirito di risanamento etico e sociale che ci anima. È ora di ricostruire il Paese all’insegna di un solo importante concetto: il bene comune». Il presidente delle Acli, Andrea Olivero, è stato in tempi non sospetti tra i più fieri oppositori dell’oscena mutazione antropologica imposta a gran parte della nazione dal ventennale reality del Cavaliere. La parola d’ordine non può che essere una: ridare spazio all’amara realtà, ma anche alla speranza di potere finalmente sgomberare le macerie. Presidente, c’è il rischio che dimissioni così tardive possano compromettere l’equilibrio tra rigore ed equità sociale che avete chiesto per mesi al governo senza successo? Le nuove richieste dell’Europa, che vanno ad aggiungersi a quelle della famosa lettera, significano che pagheremo l’immobilismo del governo dimissionario con un prezzo ancora più alto del previsto. Occorrerà vigilare sulla giustizia sociale con impegno. I sacrifici sono inevitabili per tutti, ma privilegiare pochi a danno di molti è evitabilissimo. Faremo la nostra parte perché non paghino soltanto i deboli. Come si fa ad imprimere una vera svolta al Paese? Non c’è svolta del Paese senza una svolta della politica. Dobbiamo lasciarsi alle spalle, lontana anni luce, la politica demagogica del qui e adesso che hanno contraddistinto le intraprese di Berlusconi per anni. È inutile nascondere che agli italiani sono richiesti duri sacrifici, ma credo nei miei concittadini. Sapranno capire il momento di difficoltà che stiamo vivendo più di quanto i politici possano immaginare al momento. Ma a differenza del passato, la politica dovrà indicare loro un obiettivo. Devono sapere per che cosa si sacrificano e in nome di quale visione. Paghiamo dunque il disfacimento delle ideologie a favore della politica spot? Calcare la mano sulla base di presupposti ideologici troppo restrittivi sarebbe controproducente in un frangente che richiede molto pragmatismo. Ma ciò non significa che bisogna lasciare il passo al postvalorismo, che ci sospingerebbe di nuovo nella spirale di un opportunismo miope. Governo di larghe intese. La soluzione giusta per affrontare l’emergenza? Indubbiamente sì. L’auspicio è che la condivisione delle responsabilità diventi un modello di concertazione politica sulla base del quale ricostruire il futuro. Ma è opportuno rinsaldare il legame tra politica e masse sociali. Bisogna ridare ai cittadini la possibilità di scegliere i loro eletti. La gente ha bisogno di ritrovare la sua voce. Di tornare a credere che i valori possano mutare davvero le cose.


pagina 6 • 11 novembre 2011

la crisi italiana

I furbetti del Palazzino/2. L’ex pm di Mani pulite ha il timore di un’alleanza tra Pd e Terzo Polo

Ma il web sfiducia Tonino Di Pietro trascina il suo partito contro il governo Monti, ma la base insorge sulla Rete. Invece Vendola apre a «un esecutivo d’emergenza» di Franco Insardà

ROMA. Nella cartina della politica Vasto è sempre più lontana da Roma. Antonio Di Pietro già pregustava per sé il ruolo di Craxi della Terza Repubblica, di ago della bilancia tra i riformisti di Bersani e i massimalisti di Vendola. Ma ora, con Mario Monti senatore a vita in procinto di spiccare il volo per Palazzo Chigi, il leader dell’Idv rispolvera la peggiore dialettica da tribuno e si scaglia con tutte le sue forze contro un governo tecnico guidato dall’ex rettore della Bocconi. Anche scatenan-

Duro il giudizio di Santo Versace: «Sta facendo campagna elettorale pensando solo a interessi di parte e non a quelli del Paese» do le ire dei suoi iscritti, che non sono certamente dei moderati e che infatti via internet gli dicono che «è metà Bossi e metà Mastella».

Ieri Nichi Vendola ha rottamato il patto di Vasto e aperto a Monti per «un governo di emergenza, che non può che essere a tempo e con un immediato obiettivo: fronteggiare l’emergenza dei conti con una patrimoniale vera, che non colpisca i cittadini che stanno già pagando gli effetti nefasti della recessione, e restituire la parola agli italiani con il voto». «Io invece non lo sosterrò», ha annunciato l’ex pm di Mani pulite dai microfoni di Canale 5, monopolizzando il fronte del no. E non contento, dall’ammiraglia berlusconiana prima ha dato una lezione di diritto pubblico: «In democrazia si vara un programma e lo si propone agli elettori: se vinci, vai a governare; se fallisci, la parola torna agli elettori. Tutto il resto sono parole nobili per comportamenti ignobili». Quindi, è tornato a volare basso per rivolgersi alla pancia dei votanti: «Ci vuole un governo politico che proponga come far quadrare i conti, altrimenti a pagare sono sempre gli stessi cittadini, cornuti e mazziati». E guai a ipotizzare scenari diversi, perché Pdl e Pd «si

accorgeranno che non possono stare insieme due maschi nella stessa camera da letto». Per la cronaca, la battuta non è piaciuta alla comunità omosessuale e l’ex pm è stato rapido nel fare ammenda. Ma sono danni collaterali per chi ha fatto un vanto della propria spregiudicatezza. Da ministro delle Infrastrutture del Prodi bis – anche su input del suo presidente del Consiglio – non ha esitato a ritardare il rinnovo della concessione ad Autostrade e far saltare la fusione con gli spagnoli di Abertis, innescando un braccio di ferro molto mediatico con i Benetton, forte dei ritardi sugli investimenti da parte dell’azienda. Per non parlare della guerriglia contro il collega Clemente Mastella, offerto al pubblico ludibrio, alla rabbia dei militanti di sinistra, come l’anello di congiunzione tra la Prima Repubblica e la Seconda. Se al governo non aveva abbassato i toni, ritornando al governo non poteva non dare il meglio di sé. Con un obiettivo ben preciso: Pier Luigi Bersani. Ecco Tonino indire i referendum contro la privatizzazione dell’acqua il nucleare e il legittimo impedimento, attaccare il presidente Napolitano per intimargli di non firmargli le leggi più contradditorie del Berlusconi IV (dimenticando il dettato costituzionale e il fatto che il Colle non ha mai lesinato moral suasion contro le norme ad personam), oppure scendere in piazza ogni qualvolta lo facevano la Fiom e il Popolo viola. Tutte mosse in grado di fargli guadagnare consenso, ma

a scapito di un Pd che invece lavora per trasformarsi in forza di governo e per un naturale matrimonio con il Centro. L’opposizione senza sé e senza ma sarà anche indice di coerenza. La capacità di cavalcare il momento è tipica di chi sa interpretare il presente. Mobilitare le masse, poi, non è cosa comune. Di più, forse tutto questo finirà in un manuale di alta metodologia politica. Ma certe attitudini si riducono a banali furbizie, quando lo spread tra il Btp e il Bund è saldamente sopra i 500 punti, la Borsa negli ultimi mesi ha perso quasi un terzo della sua capitalizzazione e chiunque andrà a Palazzo Chigi dovrà tagliare nel prossimo biennio 20 miliardi di euro di incentivi fiscali e fondi per l’assistenza ai più deboli. Sarà anche mosso dai migliori propositi, ma finisce per apparire uno speculatore il Di Pietro che prima vuole le elezioni perché non si fida del passo indietro di Berlusconi e poi parla di esecutivo politico perché in uno tecnico, in uno dove gli azionisti forti sarebbero Pd e Udc, vedrebbe azzerato il suo potere d’interdizione. Anche perché non bisogna essere maliziosi per leggere nella richiesta di un governo che approvi la «legge del buon esempio con la quale fare piazza pulita dei privilegi della casta e della cricca», e norme elettorali «che non consentano di candidare i condannati o e che sanciscano l’incompatibilità dei doppi incarichi», il tentativo di spostare sempre più a sinistra l’asse della politica. E infatti il leader dell’Italia dei Valori non nasconde

che, una volta tramontato l’asse Pdl-Pd, «sarà rilanciato il patto di Vasto tra Pd, Idv e Sel». Non a caso dal Pd Anna Finocchiaro segnala che «in questa difficile situazione del Paese sottrarsi alle responsabilità è un errore». Il parlamentare pd Ettore Rosato scrive su Twitter che «Di Pietro, Diliberto, Bossi, sembrano uniti con un sottile filo, quello degli interessi di parte». Mentre l’ex Pdl Santo Versace, non meno diretto dell’ex pm, sostiene che «Di Pietro sta facendo campagna elettorale pensando esclusivamente a interessi di parte e non a quelli del Paese».

Ma non meno duro con il politico molisano è il popolo dell’Italia dei Valori. Un crogiuolo post politico, nel quale convivono fautori del law and order, difensori di un welfare orgogliosamente assistenziale, professionisti dei partiti ed esponenti della società civile. Un mondo dove il crinale tra destra e sinistra spesso è segnato soltanto dall’antiberlusconismo. Incuranti del patto di Vasto, sono migliaia i militanti che hanno esternato la loro rabbia e espresso un forte disorientamento attraverso il blog di Antonio di Pietro e le pagine di Facebook del partito. E tutti a chiedere un atto di responsabilità, di appoggiare Mario Monti o chicchessia alla guida di un go-

La rabbia degli iscritti: «Sei irresponsabile e populista come il peggior Bossi». «Non è il momento di fare demagogia» verno per salvare il Paese. Chi si è collegato a internet ha potuto misurare l’aria che si respira dalle parti di Idv. «Caro Di Pietro, non è il momento della demagogia. Adesso bisogna salvare l’Italia». Oppure «Antonio pensa al bene dell’Italia» e «Antonio, ma non ti rendi conti che la base del partito non comprenderà mai questa scelta?», quelli più gentili. Ma c’è chi ha detto di peggio. Roba del tipo: «Sei irresponsabile e populista come il peggior Bossi», «Sono profondamente delusa da questa scelta»,

«Un vero statista lo si riconosce dal comportamento in situazioni come questa. E tu purtroppo in questo momento sei una grandissima delusione». E ancora: «Speravo in uomini come te ma purtroppo con rammarico di dico: mi auguro che per il futuro il centrosinistra si ricordi di questo tuo atteggiamento e ti lasci fuori da qualsiasi tipo di accordo» e «Ma ti stai rendendo conto che tutta la base ti sta chiedendo di votare la fiducia verso Monti, consci del fatto che forse è l’ultima possibilità per non fallire?». A contare i pro Monti e i pro Di Pietro, nella piazza virtuale di Idv, si scopre che stravince il primo fronte. Ma Tonino è convinto di riuscire a trovare un punto di equilibrio, di più, di essere lui stesso il punto di sintesi in un movimento così disomogeneo. Quindi, «noi non ci tireremo indietro sui singoli provvedimenti, ma di partecipare al governo insieme a ministri che fino a ieri hanno fatto parte del governo Berlusconi non se ne parla».

Se la base mormora, tra gli eletti e i dirigenti nessuno al momento dissente dal capo. E come il Psi che nella Prima Repubblica sfasciava le giunte regionali per mandare segnali a Roma a Dc e Pci, ecco Fabio Giambrone, segretario siciliano dell’Idv, annunciare una lista solitaria per il comune di Palermo se il Pd dovesse allearsi con l’Udc. Ma nel partito che ha dato Americo Porfidia, Antonio Razzi e Mimmo Scilipoti ai Responsabili, non sono da escludere nuove defezioni di gente pronta ad appoggiare Mario Monti. Per non parlare della frattura mai saldata tra Tonino e chi, in nome della moralizzazione del Paese, aveva scelto un altro magistrato, Luigi De Magistris, come leader, salvo poi ricredersi per come il sindaco di Napoli sta affrontando alcune emergenze del capoluogo partenopeo. Perché giocare soltanto di rimessa, speculare sulle disgrazie italiane e fare della demagogia un’arte, può rivelarsi un boomerang anche per un campione dell’antipolitica come Antonio Di Pietro.


la crisi italiana Nella foto grande Antonio Di Pietro; a sinistra: dall’alto il leader di Sel Nichi Vendola, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni; a destra Nicola Latorre

11 novembre 2011 • pagina 7

Nicola Latorre e le resistenze nel Partito democratico

«Sì, è vero, il Pd rischia. Ma è la strada giusta»

«Nessun calcolo elettorale né piccole vigliaccherie: un vero partito si distingue da come opera in tempi difficili» di Francesco Lo Dico

ROMA. Lo spread che viaggia dritto verso il punto di non ritorno, borse e borseggiatori che bruciano milioni di euro italiani ogni giorno, e l’Unione europea che ha di fatto commissariato il Parlamento. In condizioni tanto avverse, il senso di conservazione insito in ogni politico navigato, suggerirebbe la fuga. Non fosse che tempi del genere, hanno l’unico pregio di distinguere il senso di responsabilità dalla bassa speculazione. Elettorale, questa volta. Che ha già messo in luce molti spericolati campioni della disciplina. Alcuni, tenacemente impenitenti, che addossano le colpe ad altri quasi avessero governato alla maniera di Scajola. A loro insaputa. Altri, chiamati a rimuovere le macerie, che se ne restano in un angolo con la pala in mano, pronti a dare addosso a quanti hanno pensato di rendere un servizio, ingrato ma necessario, al Paese. «Non è tempo di calcoli politici», spiega il vicepresidente del Pd al Senato, Nicola Latorre. «Ora viene prima di tutto il bene del Paese. Bisogna bonificare l’Italia dai disastri dell’era berlusconiana. E di fronte a un impegno così gravoso, non c’è calcolo che tenga». Senatore, tutti i sondaggi vi danno come il primo partito alle prossime elezioni. Detto senza troppe perifrasi: ma chi ve lo fa fare il governo tecnico? Abbiamo la consapevolezza che il nostro Paese vive una delle fasi più drammatiche della sua storia. Una crisi senza precedenti prodotta in parte dalla difficile congiuntura internazionale, e in parte dai catastrofici esiti di quattro governi berlusconiani. Rivolgimenti così importanti implicano un cambio d’epoca, e il Pd è pronto a fare la sua parte. Per quanto sia un compito gravoso, vogliamo traghettare il Paese in una fase nuova, che si metta alle spalle alcune tra le più brutte pagine della storia repubblicana. Non temete che Berlusconi cavalchi il vostro senso di Stato e vi ritorca contro le misure impopolari che siete chiamati ad approvare? Berlusconi faccia quel che gli pare. Noi del Pd, insieme all’Udc e chiunque altro abbia senso di responsabilità, abbiamo a cuore la salvezza di quello che resta un grande Paese, da anni abbandonato a se stesso a causa dell’immobilismo e di politiche ad personam. Faremo tutto ciò che serve per il bene dell’Italia, senza pensare a sondaggi e consensi. Non ci affidiamo a logiche da transfughi, o a

piccole vigliaccherie di comodo. Se il Cavaliere vorrà speculare si accomodi. Anche se un politico coscienzioso, dopo tali e tanti danni fatti al Paese, dovrebbe imporsi di restare in silenzio per almeno vent’anni. A proposito di danni. Visto tutto il tempo perduto, e l’incalzare dellUnione europea, non c’è il rischio che siate costretti ad approvare misure incapaci di coniugare l’equità sociale e il rigore? Su questo vigileremo con altrettanto rigore. Saremo sentinelle attentissime a che si approvino misure rispettose della giustizia sociale. I soliti noti hanno già pagato abbastanza, e se è vero che i sacrifici vanno chiesti a tutti, tra i sacrificati non devono mancare i privilegiati. Non diventa difficile vigilare su provvedimenti che devono essere approvati a tamburo battente entro domenica? Leggeremo il maxiemendamento con grande attenzione. Poi valuteremo. Esiste certamente il rischio che la fretta faccia molti gattini ciechi. Ma d’altra parte è prioritario sgomberare il campo dal governo Berlusconi, per ridare credibilità a questa nazione che è stata umiliata. Visto che siamo alla vigilia di un governo di larghe intese, sarebbe possibile ridare la vista a qualche gattino cieco partorito troppo in fretta? Sarà certamente possibile compensare i sacrifici con misure di sostegno alla crescita, ridurre gli sprechi della spesa pubblica e approntare misure contestuali in grado di accelerare la ripresa. È necessario azionare quanto prima la leva fiscale: alleggerire le tasse a carico delle imprese e del lavoro è in cima alla lista della nostra agenda. Il rigore fine a se stesso rischierebbe di aggravare ancora di più la spirale di recessione in cui è piombato il Paese. Senza contare che il governo di larghe intese sarebbe un’occasione propizia per cancellare il Porcellum per sempre. Ci sono spiragli per parlarne? Ritornare alle urne con la legge elettorale vigente sarebbe un errore. Se ci saranno numeri e spazi sarebbe in effetti opportuno dar vita ad accorgimenti in grado di restituire agli elettori la possibilità di scegliere gli eletti. Conciliare la difesa del bipolarismo con le esigenze di rappresentanza è possibile e necessario. Ma se così non fosse, lasceremo spazio al referendum.

«È necessario azionare quanto prima la leva fiscale: alleggerire le tasse a carico delle imprese e del lavoro è in cima alla lista dell’agenda»


pagina 8 • 11 novembre 2011

“Dizionario del liberalismo italiano”è il titolo di un’opera a cura di Fabio Grassi Orsini venuta finalmente alla luce in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Le varie voci che lo compongono, da “Agricoltura” a “Università”, sono state redatte da storici, economisti, giuristi, giornalisti di scuole di pensiero diverse, accomunati dall’interesse scientifico e dall’ethos civile che una tale impresa implica, data l’importanza che il liberalismo ha avuto nella storia del nostro Paese. Dal primo tomo, appena edito da Rubbettino, e per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un brano tratto dalla voce “Rappresentanza”.

istituto della rappresentanza fu oggetto di un lungo dibattito teorico, di una sua regolamentazione positiva nei diversi sistemi costituzionali ed è stato e continua a essere analizzato empiricamente dai teorici della politica. (…) La prima formulazione della rappresentanza politica, che superò quella per ceti fu quella dell’art. 7 della sez. III, capo I, titolo III della costituzione francese del 1791, che recitava: Les représentants nommés dans les départements ne seront pas répresentant d’un département particulier, mais de la nation entière, il ne pourra leur etre donné aucun mandat. Tale formulazione fu adottata nella costituzione francese del 1795 e non fu ripresa da quelle successive fino a quella del 1848 e si ritrovò in una versione molto simile nella costituzione del 1831, recepita nell’art. 41 dello Statuto albertino, che recita: «I deputati rappresentano la Nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori».

L’

A questo riguardo, è necessario chiedersi in cosa consista esattamente la rappresentanza politica. Per rappresentanza si intende il rapporto che si stabilisce tra eletto ed elettore e cioè tra il popolo che detiene la sovranità e chi lo rappresenta, esercitando in suo nome il potere legislativo. Nelle costituzioni liberali si afferma che la sovranità spetta al popolo (nazione). In realtà, chi elegge i deputati non è tutto il popolo, ma il «corpo elettorale». Quest’ultimo, che è composto di quei cittadini che sono titolari del diritto al voto, può essere più o meno allargato, ma non potrà mai coincidere con tutto il popolo. Il parlamentare non viene eletto nemmeno dalla totalità del corpo elettorale, ma da una sezione di esso e cioè dagli elettori di una circoscrizione o collegio elettorale, e, se si vuole essere più precisi, non da tutti gli elettori iscritti in quella circoscrizione, ma da una maggioranza (o da una parte di essi) dei votanti. Quando si attribuisce alla maggioranza la capacità di interpretare la volontà del popolo (nazione), si ricorre a una «finzione giuridica». Le costituzioni liberali definiscono i parlamentari i «rappresentanti della Nazione» e non del loro collegio e prescrivono che questo mandato sia libero da ogni vincolo e irrevocabile (rifiuto del mandato imperativo). (…) Nel caso del cosiddetto «mandato politico», l’elettore si limita a scegliere tra i vari candidati la persona che gli sembra più capace di svolgere le funzioni parlamentari, ma il suo compito finisce qui. Da

il paginone

Parlamenti Dalla A alla Zeta Breve storia della Rappresentanza, cioè del rapporto che si stabilisce tra eletto ed elettore. Un tema oggi più che mai controverso di Fabio Grassi Orsini quel momento, il deputato è libero di agire secondo le sue convinzioni personali e nella piena autonomia della sua coscienza, in pratica, in totale indipendenza. Nel momento dell’elezione, il cittadino si spoglia di ogni suo diritto: il suo diritto, dunque, è un diritto di scelta e tale scelta egli è chiamato a fare allo scopo di individuare la persona più capace a rivestire quella carica e a esercitare quella funzione. L’elettore, tuttavia, non conferisce al deputato un potere, come accade in un mandato di diritto privato. Il corpo elettorale attribuisce con il voto al deputato una qualità: quella di membro di una assemblea nella quale egli deve esercitare una funzione e i cui poteri vengono a lui conferiti dalla costituzione. Il corpo elettorale ha soltanto il diritto a concorrere alla formazione di un organo costituzionale. Il sistema rappresentativo rispetto agli altri sistemi consiste nel fatto che la nomina avviene su base elettiva, mentre in altri regimi essa avveniva sulla base di requisiti o meccanismi non elettivi. (…) La rappresentanza in un regime liberale si basa in definitiva sulla teoria della sovranità popolare, sul mito della maggioranza e sulla elettività dei rappresentanti. I poteri dei deputati provengono dalla costituzione ed essi esercitano, come lo facevano i membri di altri organi collegiali dei precedenti regimi, delle funzioni statali, nello specifico, delle funzioni legislative. La teoria della rappresentanza dominante nella dottrina costituzionale italiana dell’età liberale fu elaborata da Vittorio Emanuele Orlando, che la formulò per la prima volta nel suo manuale Principii di Diritto costituzionale (Firenze, 1889) e poi perfe-

zionata nel suo articolo Fondement juridique de la répresentation politique, comparso nel 1892 nella Revue de Droit Public et de la Science en France et à l’étranger.

Nella teoria classica della rappresentanza che presiedeva all’organizzazione di un sistema rappresentativo di tipo liberale, si riconosceva solo agli individui la titolarietà dei diritti politici e non vi dovevano essere intermediari tra elettori ed eletti. Nei sistemi rappresentativi che adottavano questa teoria non vi poteva essere, almeno sul piano formale e giuridico molto spazio per i partiti politici. Orlando, da parte sua, dichiarava non esservi contraddizione tra questa teoria e i partiti politici. Egli sosteneva che la sua era una teoria giuridica e che nella sua formulazione bisognava tener presente soltanto considerazioni di ordine giuridico e non politico. Nulla vietava che i partiti potessero difendere degli «interessi particolari», anche se i deputati, in quanto «rappresentanti della nazione» e membri di un collegio, avrebbero interpretato la volontà nazionale e gli «interessi generali». Non si poteva negare il fatto che i deputati fossero influenzati dall’opinione pubblica. Orlando non contestava la circostanza secondo cui, nella scelta, gli elettori finissero per seguire le indicazioni di partito. (…) La teoria della rappresentanza politica fu sottoposta a critica già tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, quando si era delineata la crisi delle democrazie parlamentari. In verità, tale crisi era più presente nel dibattito teorico e

politico che nella funzionalità dei sistemi rappresentativi, anche se di fronte al risveglio delle masse si poneva un problema di partecipazione e, di conseguenza, del riconoscimento dei partiti, la cui emergenza si profilava anche nel sistema italiano. La teoria della rappresentanza politica era attaccata da più parti e sotto diversi aspetti. Essa era contestata dalla «scuola elitaria» (o a-democratica o realistica), che faceva capo a Mosca, Pareto e Michels e che cercava di demistificare il «mito della sovranità popolare», sostenendo che i rappresentanti erano eletti da minoranze organizzate e ciò anche in costanza di elettorati molto allargati; anzi, più si allargava il suffragio, più queste minoranze organizzate (oligarchie) erano indotte a scegliere le persone in base a criteri di competenza; in un certo senso, più il sistema elettivo era caratterizzato da una forte partecipazione, più era destinato a selezionare una classe parlamentare mediocre. Ciò rendeva necessario introdurre un tipo di riforme che depotenziasse il parlamento (critica del parlamentarismo), sia rispetto alle funzioni che esso si era attribuito relativamente a quelle che dovevano spettare o essere riconquistati da altri poteri (l’esecutivo «corona-governo») e altri organi rappresentativi come il Senato (di nomina regia). Sempre nel quadro di un ridimensionamento del parlamento, si chiedeva un rafforzamento dei poteri degli enti locali (decentramento) e, infine, della stessa amministrazione pubblica. Nel quadro di queste riforme, miranti a rafforzare lo Stato e a selezionare una


il paginone

11 novembre 2011 • pagina 9

no di essi. Secondo il vecchio principio della sovranità popolare, che riconosce solo agli individui la titolarietà dei diritti politici, tra eletti ed elettori non vi dovrebbero essere intermediari. Poiché la sovranità è indivisibile e, per una finzione giuridica, la volontà popolare si identifica con quella della maggioranza, il deputato, una volta eletto, non è un delegato dei suoi elettori, ma è rappresentante della nazione e in quanto tale gli è conferito, a titolo personale, il potere costituzionale di concorrere alla determinazione di questa volontà. Il voto degli elettori deve perciò essere libero e segreto e il mandato parlamentare non può essere soggetto a qualsivoglia vincolo e non è revocabile.

Fu Vittorio Emanuele Orlando a formulare per primo la teoria dominante nella dottrina costituzionale italiana dell’età liberale. Secondo cui i parlamentari sono rappresentanti della nazione e non del loro collegio, con un mandato libero da ogni vincolo

classe politica (di cui quella parlamentare doveva essere solo una parte), si dovevano rivedere anche i criteri su cui si basava la rappresentanza: un accoglimento parziale della rappresentanza degli interessi era stata proposta da parte delle commissioni di riforma del Senato. (…)

Anche da sinistra, la teoria della rappresentanza politica veniva messa in discussione, con posizioni differenziate: i socialisti rivoluzionari sostenevano che i deputati del Gruppo Parlamentare Socialista erano «delegati» del partito e di conseguenza essi dovevano rappresentare nel parlamento la classe operaia. Questa corrente socialista teorizzava il mandato imperativo, mentre i sindacalisti rivoluzionari auspicavano la liquidazione dello Stato liberale inteso come Stato borghese e la costruzione di uno Stato sindacale in cui i lavoratori fossero organizzati anche sul piano politico sulla base della lo-

ro appartenenza a un sindacato di mestiere. In questo quadro, alla rappresentanza politica si doveva sostituire la rappresentanza sindacale. Nel primo dopoguerra, la crisi della democrazia rappresentativa si manifestò non più come un problema di teoria politica, ma divenne un problema all’ordine del giorno. Il dibattito sulla rappresentanza assunse allora un carattere di urgenza e di immediata attualità. Si tornò a parlare di «rappresentanza degli interessi», di «rappresentanza professionale», di «rappresentanza sindacale», di «rappresentanza organica» o «istituzionale» e di «rappresentanza di classe». In questi anni, non solo in dottrina vi furono interessanti formulazioni dell’applicazione della rappresentanza degli interessi applicata ai corpi consultivi, come la «teoria dei consigli tecnici» (Ambrosini), ma vennero prospettate varie altre soluzioni. (…) Il fascismo introdusse un altro tipo di rappresentanza: la «rappresentanza corporativa». Con la riforma elettorale del 1928 e la legge sulla rappresentanza dello stesso anno e infine con la sostituzione della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, l’istituto della rappresentanza politica che era alla base del sistema liberale fu profon-

damente modificato. (…) Il problema della rappresentanza politica si pose con particolare urgenza dopo la caduta del regime e nello specifico riguardo alla rappresentatività dei governi espressione dei soli partiti che partecipavano al Cln e del processo legislativo da essi messo in atto. Le posizioni liberali furono in questo senso molto nette e si sostanziarono da una parte nella salvaguardia della continuità costituzionale con la formula della luogotenenza, che nello stesso tempo permetteva la rimozione della «persona» indesiderata del re, e dall’altra in un graduale ripristino delle istituzioni rappresentative tipiche di una liberaldemocrazia. La costituzione repubblicana accoglie la teoria classica della rappresentanza politica affermando all’art. 67 che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Nelle democrazie rappresentative, i partiti sono in primo luogo delle organizzazioni che concorrono a determinare la volontà popolare. Dipende dalla teoria della rappresentanza accolta dal legislatore e che presiede all’organizzazione del sistema politico, quale ruolo il partito abbia nel processo formativo degli organi elettivi e all’inter-

Nelle costituzioni che fanno propria questa teoria della rappresentanza e anche nelle leggi elettorali e nei regolamenti interni dei parlamenti che si ispirano a tali principi liberali, il ruolo del partito, almeno sul piano formale, è molto limitato. In realtà, in una democrazia moderna, fondata su una partecipazione di massa, il successo dipende non tanto dalle qualità personali dei candidati, ma dalla forza delle macchine elettorali dei partiti, anzi, questi non possono presentarsi se non designati dai partiti. I deputati devono, quindi, la loro elezione al partito. I partiti organizzano dei gruppi parlamentari e i deputati, le cui candidature sono sostenute dai partiti devono iscriversi al gruppo parlamentare, il quale deve portare nelle aule parlamentari la linea del partito. Il deputato è tenuto al rispetto della disciplina di partito e il gruppo deve conformarsi alle deliberazioni dei congressi e delle direzioni dei partiti. Da questa situazione di preminenza che i partiti hanno assunto nel processo elettorale ne è derivato un conflitto tra la teoria liberale della rappresentanza e la nuova concezione del rapporto iscritti-elettoripartito-deputato. La finzione del deputato «eletto dal popolo» e «rappresentante della nazione» viene a cedere il passo al deputato «delegato del partito». Se tale concezione fosse spinta al suo estremo, il mandato parlamentare non sarebbe più privo di condizionamenti e dovrebbe essere revocabile, ove si determinasse un conflitto tra il parlamentare e il partito. Una applicazione di questa diversa teoria della rappresentanza contrasta, tuttavia, con l’autonomia e la stessa funzionalità del parlamento e non ha sinora trovato un riconoscimento negli statuti delle assemblee legislative. (…) Per quanto discutibile e discussa, la teoria liberale della rappresentanza rimane senza alternative. Bisognerà occuparsi, tuttavia, del sempre maggiore rilievo che i gruppi assumono nella vita del parlamento e di cui i regolamenti interni tengono conto. Non si può, d’altra parte, non notare come, nonostante si sia tenuta ferma la tradizionale teoria della rappresentanza, alcuni organi di partito abbiano acquistato rilevanza nella prassi costituzionale, se si pensa, ad esempio, alla consultazione dei leader durante le crisi di governo e in altre occasioni di grande momento politico. Nello studio dei rapporti tra partito e sistema parlamentare, non solo si deve tener conto di questo dibattito sulla rappresentanza, ma anche della maggiore autonomia che i partiti lasciano al gruppo parlamentare e ai singoli deputati e, più generalmente, del ruolo concreto che i partiti svolgono nel lavoro legislativo e come questo sia valutato dal corpo elettorale.


mondo

pagina 10 • 11 novembre 2011

Per distruggere siti protetti o sotterranei come Natanz, Isfahan e Arak, il Paese dispone di una sufficiente quantità di armi di precisione

Le ragioni di Israele Se lo Stato dovesse essere in pericolo, Tsahal interverrà. Senza aspettare di Mario Arpino e voci circa un possibile attacco di Israele ai siti nucleari iraniani sono ricorrenti, non nuove. Ma questa volta, dopo la pubblicazione del nuovo rapporto della Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), sono più insistenti. Negli Stati Uniti una certa parte della popolazione e dei membri del Congresso – non si tratta solo dei liberal – sembrerebbe ormai rassegnata a convivere con un Iran nucleare, ed auspica che la “mano tesa” prima o poi abbia successo, anche a prezzo di qualche rinuncia. “Purchè non ci sia la guerra”. Gli americani sono sempre stati pragmatici, e continueranno ad esserlo. Per tutelare la loro sicurezza e gli interessi nazionali, non esiteranno a fare la scelta migliore, che di norma coincide con la più conveniente. Per loro, si intende, non necessariamente per amici e alleati. L’Europa sembrerebbe non capire, ma Israele ha capito benissimo e, preoccupata per il peggio, si sta preparando. Ciò che può essere accettabile per i due Occidenti, ovvero barattare l’eventuale convivenza con un Iran nucleare in cambio di “non guerra” e sensibili vantaggi economici, per Israele non lo è affatto. Si tratta di sopravvivenza dello Stato, qualcosa che va ben oltre la politica interna e la politica estera: per loro il problema non è economico, ma esistenziale.

L

A Tel Aviv e a Gerusalemme si discute sempre tanto e su tutto, è nell’indole. Ma gli estremisti di Teheran faranno bene a non far conto su questo. Se lo Stato dovesse essere in pericolo, si uniranno tutti in un blocco granitico, come è già più volte accaduto nella loro storia. Non è escluso che abbiano già una pianificazione per il caso peggiore, mettendo in conto un po’ di vociare europeo e “l’astensione” da un’azione militare diretta da parte degli Stati Uniti. Ha Israele la capacità di “fare da sé”, ricordando che la missione di Tsahal è salvaguardare comunque la sicurezza dello Stato, anche ricorrendo ad

azione preventiva? Secondo Anthony H. Cordesman, noto ricercatore del Center for Strategic and International Studies (Csis), la risposta è affermativa. Israele avrebbe la possibilità di lanciare varie ondate di attacco di tre gruppi di 18 velivoli ciascuno, quindi per un totale massimo di 54 velivoli per ogni singola operazione. Il limite è dato non dai mezzi di attacco, ma dalle capacità autonome di rifornimento in volo.

minimo di tre bombe, per avere questa certezza tutti i velivoli dovrebbero decollare con il carico completo di armamento. Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele disporrebbe di una sufficiente quantità di armamento convenzionale di precisione, non escludendo l’ipotesi che gli Stati Uniti potrebbero aver già fornito materiale ancora più sofisticato, oltre a quello che risul-

Gli Usa sono pragmatici: per tutelare la loro sicurezza e gli interessi nazionali non esiteranno a fare la scelta migliore, quella che di norma coincide con la più conveniente. Per loro Potrebbero essere usati alternativamente velivoli F. 15 di ultima e penultima generazione o una parte dei 150 nuovi F.16, dei quali sono disponibili almeno tre gruppi configurati per operare a lunga distanza. Si stima che, sebbene ciascuna struttura sospettata di essere sede di attività nucleare potrebbe essere interdetta da un

terebbe già sviluppato, prodotto e stoccato in patria. Vi sono indicazioni che potrebbero esserci in inventario bombe pesanti da 5 mila libbre, ad alta penetrazione – del tipo già usato in Afghanistan contro le caverne di Tora Bora e in Libia per i bunker di Gheddafi – e altro armamento di caduta sganciabile da alta quota fino a di-

Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad visita il centro di arricchimento d’uranio presso la centrale di Natanz, a 300 chilometri da Teheran. In basso, l’ex presidente israeliano Moshe Katsav, ieri condannato dalla Corte Suprema a 7 anni di carcere per stupro

stanze di oltre 50 miglia dall’obiettivo, pur mantenendo una precisione inferiore ai due metri. Anche se Israele non dispone di una propria rete di osservazione satellitare, vi è motivo di ritenere che gli Usa non negherebbero un adeguato supporto informativo. La chiusura dello spazio aereo turco –

La Corte Suprema israeliana ha confermato la condanna a sette anni di carcere per l’ex presidente

Travolto dallo scandalo, Katsav va in prigione LA CORTE SUPREMA israeliana ha confermato la condanna a sette anni di carcere per Moshe Katsav, riconosciuto colpevole in primo grado di stupro e molestie sessuali nei confronti di alcune dipendenti. Katsav sarà quindi il primo ex presidente dello Stato ebraico a finire in carcere: per lui, riferiscono i media israeliani, le porte della prigione si apriranno il 7 dicembre. Presidente israeliano dal 2000 al 2007, Kastav era stato condannato lo scorso marzo a sette anni di carcere - e al pagamento di 20mila euro - dalla Corte distrettuale di Tel Aviv. I giudici lo avevano riconosciuto colpevole di stupro ai danni di una funzionaria - nota solo come “A” - quando era ministro del Turismo e di abusi e molestie sessuali nei confronti di altre due funzionarie della presidenza tra il 2000 e 2007. Alla lettura della sentenza, l’ex capo di Stato aveva gridato che si trattava di «una vittoria delle menzogne». Katsav si è infatti sempre proclamato innocente, asserendo di

essere vittima di un complotto mediatico. A maggio i suoi avvocati avevano deciso di presentare appello alla Corte Suprema, sostenendo che la relazione tra l’ex capo di Stato e “A”fosse stata consensuale: una linea di difesa respinta dalla Corte, secondo cui «non vi è alcuna prova» di una relazione consensuale fra le parti. Katsav è stato il primo presidente israeliano coinvolto e travolto da uno scandalo sessuale: fu infatti il sexgate a costringerlo alle dimissioni, nel 2007, da ottavo Capo dello Stato ebraico. Ma il 66enne membro del Likud nella sua carriera ha totalizzato anche altri primati, seppur di tutt’altra natura. Maggiore di otto figli, è nato a Yadz, in Iran. Entrato alla Knesset, fece una rapida carriera politica. Poi l’elezione a presidente, avvenuta nel 2000, che lo vide prevalere su Shimon Peres e diventare il primo presidente d’Israele proveniente dalle fila dei conservatori e, per di più, il primo nato in un Paese islamico.


mondo

11 novembre 2011 • pagina 11

La crisi sta aiutando a ricompattare i vertici di Teheran

L’ira di Ali Khamenei la rispostina della Ue

Germania, Francia e Gran Bretagna d’accordo sulle sanzioni. Ma a Bruxelles non c’è una vera unità di Luisa Arezzo a voce dell’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran, dopo tre giorni di silenzio, si è fatta sentire. Minacciosa, ha avvertito che Teheran risponderà «con il pugno di ferro» a un eventuale attacco militare sferrato da Israele e Stati Uniti. Quella di Khamenei è una nuova risposta al rapporto dell’Aiea che martedì ha denunciato «indizi convergenti» sul tentativo iraniano di dotarsi di ordigni nucleari. Intanto, però, l’Ue lavora a un nuovo pacchetto di sanzioni che potrebbe essere approvato nelle prossime settimane. Fonti diplomatiche comunitarie hanno riferito che gli esperti stanno lavorande alle misure che potrebbero essere approvate nella riunione dei ministri degli Esteri dei Ventisette del primo dicembre. Ma sull’operazione ancora il consenso non è ampio. Spingono Cameron, Merkel e Sarkozy. Gli altri mostrano minor decisione al momento. E con questo non si vuol certo dire che mettano in dubbio la parola dell’Agenzia viennese e diano ragione all’Iran, che ha sempre insistito che le sue attività nucleari hanno solo finalità civili. Ma questo è un vecchio mantra del regime, al quale - e con motivazioni e dati alla mano, oltre a quelli forniti dall’Aiea - l’intelligence di mezzo mondo non crede più. Oltretutto, Teheran non spiega perché l’agenzia - la stessa che nel 2003 aveva detto di non esser in grado di pronunciarsi sulle armi chimiche o biologiche di Saddam Hussein e che inizialmente aveva sostenuto che l’Iran non lavorava più all’atomica - avrebbe ceduto alla strumentalizzazione. La sua ira si scatena sulla figura del direttore Yukiya Amano, giapponese, tacciato di essere un uomo al servizio degli Stati Uniti. E dunque un grande cospiratore. La diplomazia internazionale fatica comunque a trovare un fronte comune. Dopo che Francia, Gran Bretagna e Germania hanno detto di essere pronte a sostenere un inasprimento delle sanzioni al regime, la Russia si è chiaramente schierata contro.

L

I sussurri sul possibile intervento stanno provocando una sorta di disgelo nei rapporti tra il Presidente e la Guida suprema, che invece si sperava facessero implodere il regime da dare per scontata visti gli attuali rapporti – renderebbe l’operazione più complessa, senza tuttavia pregiudicarla. L’Iran come reazione al primo attacco potrebbe reagire con salve dei nuovi missili a medio-lungo raggio sulle città israeliane, tenendo però debito conto che altri scenari prevedono, in questo caso, l’utilizzazione da parte israeliana di missili da crociera e sottomarini dotati di armamento nucleare, che si suppongono già disponibili in inventario e preposizionati per prevenire o rispondere proprio a questa evenienza.

In Iran, com’era prevedibile, il rapporto dell’Aiea sulle simulazioni atomiche e sull’avanzamento dei programmi militari ha provocato minacce e indignate smentite. Ma è risaputo che la diplomazia iraniana, anche quando alza la voce, non dimentica mai di lasciare una porta aperta. Ciò che invece preoccupa è che i sussurri sul possibile intervento israeliano stanno provocando una sorta di disgelo nei rapporti tra il presidente Ahmadinejad e la guida suprema Ali

Khamenei, con grande delusione di chi riteneva che le divisioni interne sarebbero divenute prima o poi la tomba del regime.

Sul fronte israeliano, nell’intervista a “Channel 2” il pur moderato Shimon Perez non ha certo contribuito a gettare acqua sul fuoco quando testualmente dice che «l’opzione militare nei confronti dell’Iran da parte di Israele e di altri Paesi sembra ora avvicinarsi, mentre le possibilità di un’azione diplomatica si stanno allontanando». Contrari sono gli Stati Uniti, che però sembrano molto avanti nella pianificazione dell’emergenza. Hanno due flotte che incrociano tra Mar Rosso e Oceano Indiano, in esercitazione con navi e sommergibili della Gran Bretagna. Parallelamente, annunciano per l’inizio del 2012 «la più grande operazione mai effettuata con le forze armate israeliane», che segue quella anti-missilistica già congiuntamente condotta l’anno scorso. L’Unione Europea, invece, anche in questo frangente sembra volersi rinchiudere nel suo abituale mutismo.

una fonte del Foreign Office, Israele potrebbe colpire l’Iran «entro Natale o l’inizio del prossimo anno» con il supporto logistico degli Usa. Il governo britannico sarebbe stato informato della volontà dello Stato ebraico di colpire i siti nucleari di Teheran «il prima possibile». «Ci aspettiamo che accada qualcosa entro Natale o all’inizio del nuovo anno», ha spiegato la fonte.

La Russia invece, oltre ad essere contraria alle sanzioni sarebbe pronta a costruire nuovi reattori nucleari in Iran poiché si tratta di un aspetto che non suscita preoccupazioni internazionali e non è connesso a «questioni sensibili». Ad affermarlo è stato Sergei Kiriyenko, amministratore delegato della Rosatom, la comagnia di Stato che si occupa degli impianti nucleari. Nega invece ogni coinvolgimento nel programma nucleare iraniano Viacheslav Danilenko, l’ex scienziato sovietico menzionato indirettamente nel rapporto Aiea. Raggiunto dal quotidiano russo Kommersant, Danilenko ha ammesso di aver lavorato in Iran alla fine degli anni ’90 tenendovi anche lezioni scientifiche, ma ha smentito una sua collaborazione in materia nucleare. Sul fronte iraniano, intanto, la fortissima contrapposizione fra la Guida spirituale e il presidente Ahmadinejad si cominciano ad attenuare. Non che il conflitto fra i due poteri sia acqua passata, tutt’altro. È che la degenerazione della crisi internazionale innescata dal dossier Aiea associata a un eventuale attacco di Israele sta favorendo un compattamento del fronte ultraconservatore, dilaniato da lotte intestine. I primi segnali, in questo senso già ci sono stati. La scorsa settimana, il parlamento ha deciso di annullare la convocazione di Ahmadinejad, che avrebbe dovuto rispondere di alcuni atti governativi e dello scandalo finanziario che ha travolto i suoi fedelissimi. Il majlis ha anche votato contro l’impeachment del ministro dell’Economia, Shamsoddin Hosseini, un alleato di Ahmadinejad, accusato di non aver vigilato sulla Banca Saderat. Khamenei e Ahmadinejad per ora, dunque, si muovono sulla stessa onda e vanno avanti col nucleare. Nonostante l’isolamento sul piano internazionale e i contrasti interni, i due leader credono di avere ancora vita lunga grazie al prezzo del petrolio che rimane alto e permette così di arginare la morsa delle sanzioni sull’economia. Teheran ritiene, inoltre, che la crisi dell’eurozona sia un deterrente a un intervento militare, che provocherebbe un’impennata del costo degli idrocarburi a livelli insostenibili per le economie dei Paesi in difficolta». E questo è vero.

L’ayatollah: «La nostra nazione, le Guardie Rivoluzionarie e l’esercito risponderanno ad un attacco con schiaffi e pugno di ferro»

E ieri anche la Cina ha avvertito che una quinta tornata di sanzioni contro l’Iran «non risolve il problema», mentre «la giusta via» è rappresentata dal «dialogo e dai negoziati», esortando a insistere negli «sforzi diplomatici» del cosiddetto gruppo 5+1, formato dai cinque membri permanente del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Non va scordato che ventuali sanzioni petrolifere contro Teheran avrebbero pesanti ripercussioni sulla Cina: Pechino dipende infatti in grossa misura dal greggio dell’Iran che rappresenta il suo terzo fornitore dopo Arabia Saudita e Angola. Proseguono, nel frattempo, le indiscrezioni sul possibile attacco militare: secondo


pagina 12 • 11 novembre 2011

grandangolo L’estradizione del fedelissimo del Raìs apre l’era dei processi

Attenzione, la Norimberga araba è cominciata L’arrivo dell’ex premier al-Mahmudi apre in Libia la resa dei conti processuale. In Egitto alla sbarra Mubarak, i due figli, Gamal e Alal e l’ex ministro al-Adli. In Tunisia, fatto salvo Ben Ali, i suoi fedelissimi, Kacem e Seriati, pagano per lui. Tante anche le fughe: l’egiziano Boutros Ghali è a Londra. E Saif al Islam è pronto a volare in Sudamerica, come gli ex nazisti di Antonio Picasso l governo provvisorio tunisino ha dato l’ok per l’estradizione di Baghdadi al-Mahmudi, ex premier libico e fedelissimo di Gheddafi. L’esponente del regime era stato arrestato già in settembre dalle stesse autorità tunisine e da loro condannato per essere entrato nel Paese senza un regolare visto sul passaporto. Trattato come un qualsiasi profugo, gli era stata inflitta una pena di sei mesi di reclusione. Trasferito in Libia, Mahmudi sarà chiamato a rispondere di ben altri crimini. Non come diretto responsabile delle persecuzioni da parte di Gheddafi, bensì in qualità di ex primo ministro a conoscenza delle molte ombre che sovrastano la storia della Libia. La figura di Mahmudi infatti non viene ricordata per episodi violenti. Egli era a capo di un esecutivo fantoccio ormai dal 2006. Incarico più da yesman burocrate che da militare dal grilletto facile. Prima di guidare il governo, si era fatto strada nell’establishment nazionale come mero tecnocrate. L’inizio della sua attività politica coincise con gli step diplomatici per lo sdoganamento della Libia dal regime di sanzioni che le era stato imposto dall’Onu, dietro pressione degli Usa. In questi ultimi cinque anni, Mahmudi è stato testimone dell’apertura del Lybian Investment Authority, il fondo sovrano che ha permesso alla famiglia Gheddafi di sviluppare interessi tentacolari nella finanza e nell’industria di molti Paesi europei. In qualità di Primo ministro, Mahmudi ha presieduto anche l’High Council for Oil & Gas, una sorta di ministero degli idrocarburi, atto ad attestare le concessioni petrolifere nazionali elargite alle major stra-

I

niere. Insomma, si pensa che l’indagato abbia pilotato la cabina di regia della corruzione che è stata propria del regime. È per questo che il governo di transizione libico lo attende. Non per i precedenti di sangue. Va avanti così la Norimberga araba. E il fatto che questa stia penetrando anche in Libia lascia intendere quanto sia la fretta nutrita dai nuovi governanti nel voler liquidare, con sentenze magari anche sbrigative, i loro predecessori. Non è da escludere che questa spigliatezza nel chiudere le partite giuridiche sia legata all’interesse di tutti – anche dell’Occidente – di evitare che i superstiti dei passati regimi comincino a rendere noti fatti e misfatti in cui potrebbero essere coinvolti. Mahmudi

È al-Mahmudi la memoria storica della corruzione e dei compromessi siglati tra Gheddafi e i leader di tutto il mondo è esemplificativo. Egli è la memoria storica della corruzione e dei compromessi siglati tra Gheddafi e i leader di tutto il mondo. Con i suoi oltre trent’anni di servizio nella pubblica amministrazione libica è facile che sia a conoscenza delle

informazioni più imbarazzanti che possono mettere in cattiva luce non solo i governi stranieri, ma anche i futuri governanti di Tripoli. In un parallelismo cinematografico con gli Intoccabili di Brian De Palma, Mahmudi potrebbe equivalere al contabile di Al Capone, il quale – una volta catturato – non può che spifferare tutto del suo boss. La differenza sta nel fatto che “l’Al Capone”di Tripoli è già stato fatto fuori.

Quel che sta accadendo in Egitto e Tunisia mette in luce come la rispettive classi politiche nazionali preferiscano concentrarsi sulla contingenza delle rivoluzioni. Il discorso si può fare anche per le due magistrature. Sono gli episodi di repressione a guidare effettivamente i capi di accusa dei processi in corso al Cairo e a Tunisi. Imputazioni, queste, che meritano sicuramente un giudizio.Tuttavia, restano incomplete. Perché sono la corruzione e il malgoverno che si sono protratti nei decenni ad aver provocato la rivoluzione. Per quanto riguarda l’Egitto, il processo a Hosni Mubarak e ad altri big della sua presidenza è stato rinviato al 28 dicembre. La decisione della corte del Cairo ha suscitato aspre critiche da parte delle famiglie delle vittime degli scontri di febbraio. Al banco degli imputati, oltre all’ex faraone, appaiono i due figli, Gamal e Alal, l’ex ministro dell’Interno, Habib alAdli, e sei alti papaveri.Tutti sì accusati di essersi arricchiti con capitali dello Stato, ma soprattutto ritenuti responsabili del sangue versato in piazza Tahrir. Lo stesso dicasi in Tunisia. Qui il processo di punta mostra la poltrona dell’accusato mesta-

mente vuota. L’ex presidente Ben Ali, fiutato il pericolo è riuscito a mettere in salvo se stesso, la sua famiglia, ma soprattutto quel patrimonio personale di 17 miliardi di dollari che fa da caparra per il suo soggiorno forzato in Arabia Saudita. Così, mentre il Mario Chiesa della rivoluzione araba resta contumace, i suoi fedelissimi pagano pegno. Rafik Belhadj Kacem e Ali Seriati, rispettivamente ex ministro dell’interno e comandante in capo della guardia presidenziale, stanno rispondendo delle accuse di omicidi di massa perpetrati a Sfax e Tozeur all’inizio dell’anno. In entrambi i Paesi, per quanto la giustizia stia imboccando una strada – almeno una strada c’è! – si è concentrati sulle cronache degli ultimi dieci mesi. Questo ha permesso la fuga di molti rappresentanti del sottobosco governativo. Come pure di alcuni nomi illustri. Ben Ali è il primo di questa lista. Seguito dall’ex ministro delle finanze egiziano, Youssef Boutros Ghali, scappato a Londra. In questo senso, mentre non si può dire che ci sia un Paese francamente disponibile ad accogliere i fuggiaschi – com’era successo invece per l’America Latina alla fine della seconda guerra mondiale, trasformata in succursale segreta dei nazisti – si può rilevare una mancanza di attenzione da parte delle autorità fresche di nomina. Il che ha permesso all’ex presidente tunisino di scappare con il malloppo, al responsabile delle finanze di Mubarak di rifugiarsi a Londra e, fino all’altro ieri, all’ex premier libico di passare per immigrato clandestino agli occhi della polizia di Tunisi. Tuttavia, lo scenario di vendetta della Libia è ben noto. Il linciaggio al quale è stato sot-


11 novembre 2011 • pagina 13

Ma un parallelismo storico è appropriato?

Accuse diverse, solo la sete di vendetta è la stessa

Polemiche sul giudice Ahmed Refaat

Troppe ombre sull’imparzialità della Corte del Cairo IL DIBATTIMENTO all’ex presidente egiziano, Hosni Mubarak, rischia di andare avanti a colpi di proroghe. Il problema è che a presiedere la corte vi è il giudice Ahmed Refaat, fratello di Essam, alto esponente del vertice politico del Partito nazional democratico (Pnd), il movimento dell’ex raìs, nonché stretto collaboratore di Gamaal Mubarak, il figlio di Hosni. All’inizio di agosto, con l’inizio del dibattimento, la scelta di questo magistrato aveva suscitato una diffusa soddisfazione. Nel 2005, Refaat aveva sfoggiato un raro coraggio nell’incacerare alcuni parlamentari coinvolti in un’inchiesta di corruzione che il governo non era riuscito a coprire. Si era trattato di una maxi tangente di 21 milioni di dollari ricevuta dall’ex presidente della commissione parlamentare per gli affari economici, Abdullah Tayel. Refaat non ci pensò due volte e condannò Tayel a 15 anni di carcere. La buona reputazione del giudice è venuta meno, tuttavia, quando si è scoperta la sua età: 69 anni. Secondo le leggi, Refaat avrebbe dovuto andare in pensione al compimento dei suoi 70 anni, vale a dire il 17 ottobre scorso. Invece è riuscito a ottenere un rinvio per la prossima estate. Il gioco ha incuriosito la stampa nazionale, che non aspetta altro che cogliere in flagranza i sopravvissuti del regime. Il magistrato, quindi, è stato additato come un burocrate che non ha alcuna intenzione di abbandonare la ribalta di potere che il processo gli sta dando. L’accusa non avrebbe avuto seguito, se non ci fosse stata la ben più grossa macchia del fratello, Essam Refaat. Troppa, a questo punto, è la collusione con il vecchio regime, perché si possa pretendere un giudizio obiettivo da parte di questo tribunale. (a.p.)

Sopra: Saif al-Islam, Gamal Mubarak e Baghdadi al-Mahmudi. A sinistra, Mubarak dietro le sbarre toposto Gheddafi ha fatto il giro del mondo. Quelle immagini restano un ammonimento per tutti i leader arabi ancora al potere. Nel caso qualcuno non si fosse lasciato suggestionare da Mubarak piagnucolante dietro le sbarre, la piazzale Loreto libica potrebbe aver scombussolato ulteriormente gli animi.

Il primo pensiero, nella fattispecie, va ad Assad, il quale sta massacrando i suoi oppositori con la stessa crudeltà con cui i ribelli di Bengasi hanno fatto scempio del corpo del loro ex colonnello. Non si può escludere che, in un futuro prossimo, anche il presidente siriano possa fare la stessa fine. Nel frattempo, Saif al-Gheddafi, superstite indomito della sua progenie guerriera e beduina, pare che si sia rifugiato in Niger, oppure in Mali, grazie all’aiuto delle tribù tuareg. Non è da escludere che un giorno lo si veda a fianco di Ben Ali, in una gabbia dorata che si affaccia sul Mar Rosso. Ammesso che i sauditi lo accolgano. Gheddafi non godeva di così grande affetto presso i Custodi dei luoghi santi dell’Islam. È certo che non nascerà della simpatia per il figlio. Plausibile, a questo punto, che Saif si ponga alla guida di qualche banda raccogliticcia di salafiti, qaedisti e ribelli, votati alla guerriglia e quindi ben di intralcio nel processo di ricostruzione politica del Nord Africa. O meglio ancora che accetti l’invito dei governi venezuelano o boliviano per continuare a fare il businessman in Sudamerica. In questo caso sì come gli ex nazisti. La mossa di Tunisi, comunque, sembra essere un gesto di buona volontà. Fermo restando che la vittoria elettorale è degli islamisti, il Paese vuole rifarsi l’immagine di fronte ai finanziatori occidentali. Consegnando alla Libia Baghdadi al-Mahmudi, i tunisini si dimostrano ben disponibili a colpire l’ordine costituito e ora decaduto. Da notare, d’altro canto, che a essere puniti sono gli ex di un regime straniero. Quelli nazionali, salvo le grosse eccezioni sopra menzionate, si sono trasformati abilmente in riformisti e promotori del cammino democratico. Il tutto pone il futuro governo in una posizione di sorvegliato speciale. E non basterà la condanna capitale che, si prevede verrà comminata a Ben Ali – anch’essa in absentia – per accordare fiducia al Paese.

IL PROCESSO DI NORIMBERGA avrebbe dovuto fare da capitolo conclusivo per il nazismo. Un epilogo drammatico, ovviamente. In realtà, i 24 imputati del dibattimento principale e quelli secondari hanno costituito un caso giudiziario che ancora oggi fa parlare. L’ideologia del Terzo Reich non subì la propria condanna tramite sentenza, bensì dalla storia. Le corti che si riunirono tra il 1946 e il 1949 erano tutte presiedute da magistrati non tedeschi. Da molti le pene comminate, come pure le assoluzioni, furono interpretate come un’ulteriore umiliazione alla Germania sconfitta. La distruzione quasi al suolo del Paese, la sua spartizione tra Est e Ovest, le inevitabili condanne morali dovute alle responsabilità per la guerra e l’Olocausto. La Germania meritava anche l’umiliazione anche di non poter giudicare i propri leader? Se lo chiese Stanley Kramer nel 1961, con il film Vincitori e vinti. Tuttavia, il processo di Norimberga diede il via alla creazione dei tanti tribunali e corti penali internazionali atte a giudicare crimini di guerra e contro l’umanità. Oggi si parla di Norimberga araba. È appropriato il parallelismo? All’epoca vennero messi alla sbarra gli aguzzini di oltre cinquanta milioni di morti – il numero complessivo di vittime della seconda guerra mondiale. Oggi le corti del Cairo, Tripoli e Tunisi sono chiamate a fare altrettanto verso i raìs autocrati e sanguinari che hanno tenuto sotto pressione il nord Africa per decenni. Magari cambia l’identità delle corti giudicanti: queste nazionali, quelle straniere. I capi d’accusa e la tipologia degli imputati restano invece simili. Così come si prevede che le condanne, con sentenza capitale, seguiranno la linea vendicativa di precedenti giudiziari, loro malgrado, vincolanti. L’unica eccezione, al momento prevedibile, è legata alla Libia, la cui guerra con la Nato in prima linea potrebbe portare alla creazione di un tribunale sotto l’egida dell’Onu. In tal caso, il potenziale imputati principe, Said alGheddafi, comparirebbe dinnanzi a una corte nazionale, ma anche straniera. Insomma una sintesi tra la Norimberga di allora e quella araba. (a.p.)

i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


cultura

pagina 14 • 11 novembre 2011

Un libro di Paolo Sorcinelli e Mihran Tchaprassian ricostruisce un dramma che ricorda quelli che si sono ripetuti dal 1951 a oggi

L’Italia sott’acqua Sessant’anni fa, l’alluvione del Polesine, la prima di una serie di (troppe) tragedie di Massimo Tosti rima le Cinque Terre (un paradiso che in poche ore si è trasformato in inferno) e poi, a distanza di qualche giorno, la bomba d’acqua che ha prodotto vittime e distruzioni a Genova. E poi ancora l’onda lunga dei dibattiti in televisione, la tiritera (ascoltata troppe volte per scuotere le coscienze di quelli che hanno la coscienza sporca) sulle responsabilità, sul dissesto ideogeologico, sulle omissioni nella prevenzione, sul disordine delle competenze. Come se fosse una sorpresa, un evento mai verificatosi prima, come gli incendi al Circolo Polare o lo scioglimento improvviso dei ghiacciai ai Tropici. E, invece, chi ha una certa età, ricorda perfettamente quel che accadde a Firenze nel 1966, o sulla Costiera amalfitana nel 1954, o nel Polesine esattamente sessanta anni fa. E persino gli

P

furono inferiori alle stime dei primi giorni: i morti furono 17, i feriti alcune centinaia. Ma quel che colpì furono i danni (alcuni irreparabili) subiti da una delle città del mondo più ricche di cultura e di monumenti, una capitale del bello assoluto, la città di Lorenzo il Magnifico, nella quale avevano operato artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Brunelleschi, Giotto, Botticelli. La città degli Uffizi, di Santa Maria del Fiore, di Ponte Vecchio. Il mondo intero si mobilitò per riparare i danni. Gli “angeli del fango”(i ragazzi che si precipitarono a Firenze per cercare di sanarne le ferite) rimasero sulle rive dell’Arno per settimane, per mesi, per dare una mano ai cittadini (e alle istituzioni), per ripulire, ricostruire, restaurare. Probabilmente mai, prima di allora e dopo di allora, la solidarietà fu tanto spontanea

L’alluvione di Firenze del 1966 suscitò una profonda emozione in tutto il mondo: quel che colpì furono i danni (alcuni irreparabili) subiti da una delle città del mondo più ricche di cultura adolescenti hanno memoria per ricordare l’alluvione in Veneto di un anno fa, quella dell’ottobre dello scorso anno che colpì le stesse regioni di quest’anno (Genova e le Cinque Terre), quella di Giampilieri in Sicilia (2009), quella sulla Riviera di Ponente nel 2000, quella in Val di Sarno nel 1998 che provocò 159 morti, quella in Versilia nel 1996. E ancora: Piemonte 1994 (70 morti), Valtellina 1987 (53 morti), Val di Stava 1985 (268 morti). E (per sottolineare che la fragilità della Liguria fa parte della nostra storia recente) è doveroso ricordare (come molti hanno già fatto in questi giorni che il 7 e l’8 ottobre 1970, a Genova strariparono (investendo interi quartieri) i torrenti Polcevera, Leira e Bisagno. Piogge molto intense e localizzate ( tipiche della costa ligure) accumularono circa 900 mm d’acqua in 24 ore. Le vittime furono 44, di cui 35 morti, 8 dispersi. Gli sfollati furono oltre 2000. L’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 suscitò una profonda emozione in tutto il mondo. Le perdite in vite umane

e si unì al rammarico per le opere d’arte andate perdute. Non esisteva allora una struttura di protezione civile. Toccò alle forze armate il compito principale nell’organizzazione e nell’espletamento dei soccorsi, non solo a Firenze, ma in tutte le zone d’Italia colpite da quella spaventosa ondata di maltempo. Mezza Toscana, tutto il Friuli e larghe zone dei Trentino furono alluvionati. Il bilancio complessivo del cataclisma, in tutta la Penisola, fu di 107 morti e nove dispersi, dei quali non si ebbe più notizia, inghiottiti dall’acqua di qualche fiume o torrente. Il 25 ottobre 1954, poi, una terribile alluvione colpì la costiera amalfitana. Uno dei paesi maggiormente colpiti fu Maiori, ma danni spaventosi subirono anche Vietri sul Mare, Minori, Atrani e molti altri paesi. Chilometri di fango, e un bilancio di danni spaventoso. I morti furono circa trecento, i senzatetto migliaia e migliaia. A Maiori i torrenti Reginna Maior e Reginna Minor strariparono, portandosi via i palazzi come fossero di cartapesta. AVietri una suora,

In queste pagine, alcune immagini della drammatica alluvione del Polesine che, nella notte tra il 14 e il 15 novembre del 1951, causò 84 morti e quasi duecentomila sfollati la superiora di un orfanotrofio, distribuì medagliette a tutte le bambine, invitandole a gettarle nell’acqua. Quando l’ultima orfanella lanciò l’ultima medaglietta nell’acqua, il torrente smise di crescere.

Il 14 novembre 1951 il Po ruppe gli argini a Paviole (pochi chilometri a sud di Rovigo), Bosco e Malcantone di Occhiobello. Da sei giorni pioveva a dirotto in tutto il Polesine e in quasi tutto il settentrione. Il livello di

guardia del fiume era stato superato di oltre quattro metri. In poche ore un’area vasta mille chilometri quadrati fu completamente sommersa. L’alluvione fu la più grave catastrofe naturale abbattutasi sull’Italia fra la Seconda guerra mondiale e la frana del Vajont del 1963. Ottantaquattro persone persero la vita, 180 mila furono costrette ad abbandonare i propri Paesi. I danni economici furono spaventosi: le terre sommerse erano tutte coltivate e abitate. L’Ita-

lia di allora – ancora impegnata nella ricostruzione del dopoguerra – dovette affrontare una calamità imprevista. Furono applicate imposte aggiuntive (l’addizionale per il Polesine) per soccorrere gli sfollati e i senza tetto. Si mise in moto – per la prima volta – una gigantesca macchina di solidarietà umana, che fece riscoprire i sentimenti di vincolo nazionale. Non esisteva ancora la protezione civile, ma l’esercito, i vigili del fuoco, la Croce Rossa e i tantissimi volontari accorsi da ogni angolo della penisola fecero miracoli per aiutare la povera gente colpita da quell’immane tragedia. Molti aiuti giunsero anche dall’estero. Ci vollero più di sei mesi perché tutte le terre invase dall’acqua fossero prosciugate. Dopo nove mesi più di cinquecento case (per un totale di quasi duemila vani) erano state ricostruite. Molti contadini lasciarono definitivamente la terra per alimentare le migrazioni verso le grandi città in cerca di un lavoro più sicuro. L’alluvione fu anche la prima spia del disastro idrogeologico che – nei cinquant’anni seguenti – avrebbe prodotto molte altre sciagure nel nostro Paese. Alla tragedia del Polesine – che suscitò un’emozione incredibile, perché a molti parve di rivivere il dramma (ancora recentissimo) della


11 novembre 2011 • pagina 15

che sarebbero stati direttamente interessati al cammino dell’acqua. Negli anni seguenti, si è discusso molto sul fatto che gli abitanti di alcuni paesi rivieraschi, ossia Occhiobello e Canaro, non si fossero impegnati a sufficienza nei lavori di difesa dalla piena, come, invece, avevano fatto altri, ma che dire dell’assenza di informazioni e del mancato allarme da parte di un qualche organismo ufficiale?».

I tempi sono cambiati. Le comunicazioni oggi sono immediate. Eppure nei giorni scorsi, a Genova, si è discusso di un difetto di allarme, riguardo all’intensità del pericolo. «La sera del 14 novembre lungo il Po si verificarono tre rotte», si legge ne L’alluvione. «La prima, detta di Paviole, a Vallice-Baccanacca, a cavallo dei comuni di Canaro e Occhiobello, alla fine raggiunse un’estensione di 220 metri; le al-

Quasi tutte le vittime dello straripamento del Po stavano fuggendo su un camion dall’incalzare del fiume: non si è mai riuscito a stabilire quante fossero, effettivamente, le persone su quel mezzo

Seconda guerra mondiale, con i corpi che affioravano dalla melma, i soldati a rovistare tra le macerie, i bollettini recitate alla radio (la tv non esisteva ancora) con l’elenco dei morti, i nomi dei dispersi, gli appelli disperati dei sopravvissuti – è dedicato un libro che esce in questi giorni. Si intitola L’alluvione – Il Polesine e l’Italia nel 1951. Gli autori, Paolo Sorcinelli e Mihran Tchaprassian, offrono una ricostruzione completa di quei giorni, che potrebbe aiutare a capire quel che accade ancora oggi. Sorcinelli è un professore di Storia Sociale all’Università di Bologna; Tchaprassian è un ricercatore che si occupa di storia, idrografia e cartogrfia storica. I titoli accademici potrebbero indurre a

pensare che il libro sia imbottito di numeri e e giudizi scientifici, e – ineluttabilmente – molto noioso. Non è così. La tragedia del ’51 (antefatti e conseguenze inclusi) è raccontata con il ritmo e il linguaggio di un reportage, con molta attenzione ai casi umani e un’accurata descrizione delle condizioni di vita (comunque complicata, anche prima dell’alluvione) dei contadini, degli artigiani, e di tutta la povera gente cresciuta e invecchiata in quella regione flagellata da un cataclisma. Fu davvero terribile quel mese di novembre di sessant’anni fa. «Ogni tanto, anche nei momen-

ti più drammatici - raccontano Sorcinelli e Tchaprassian - il caso può fare degli strani scherzi: la sera del 14, mentre si lavorava ancora sugli argini, in un teatro di Rovigo una compagnia dialettale veneziana aveva in programma la commedia Acqua alta, ma le notizie che arrivavano da Occhiobello erano sempre più preoccupanti e la compagnia decise di sospendere lo spettacolo». Non si accertò neppure a che ora il Po avesse rotto gli argini. Qualche testimonianza propendeva per le ore 20, qualcun altro diceva che era successo tutto un quarto d’ora prima, o dopo, o due ore prima. «Certamente questo rincorrersi di orari diversi fa risaltare la confusione di quel fine giornata e lo stato di incertezza e di mpreparazione delle istituzioni, oltre all’assenza sui luoghi di personale tecnico che potesse fare i dovuti rilievi. E non solo, il peggio è che nessuna istituzione, civile, militare o tecnica, nel lasso di tempo tra la rotta e l’inizio dell’inondazione ebbe l’accortezza di avvertire i sindaci e gli abitanti dei comuni

tre due, una a Malcantone per un’estensione di 312 metri e l’altra a Bosco, di “soli” 204 metri, presso Santa Maria Maddalena. Dalle rotte di Bosco e Malcantone l’acqua si riversò sulla campagna, distruggendo e sommergendo tutto quanto trovò sul percorso, con una violenza che derivava anche dal fatto che il letto del fiume, da Stienta a Pontelagoscuro, era allo stesso livello del pia¬no campagna. Diverse sono le stime a proposito dell’ acqua che inondò il Polesine fra il 14 e il 25 novembre: le cifre oscillano da tre a otto miliardi di metri cubi». Furono commessi molti errori, dettati dall’inesperienza e dall’indecisione. Quella del Polesine non fu una bolla d’acqua improvvisa. Il fiume continuò a crescere per molti giorni, e non si provvide a renderlo inoffensivo. Firenze è rimasta nel ricordo per gli “angeli del fango”. Nel Polesine ci fu un un episodio che rappresentò l’intera tragedia. Un giornale per ragazzi, Il Vittorioso, ci costruì sopra un fumetto, pubblicato a puntate pochi mesi più tardi. La storia

drammatica di un camion. «Quel che successe nella notte tra il 14 e il 15 novembre fece il giro del mondo e il mondo si commosse di fronte a quel gruppo di persone che cercavano di fuggire all’incalzare dell’inondazione». Morirono 84 persone in quel camion (la maggior parte delle vittime ufficiali dell’alluvione). «In quella prima notte si condensò il simbolismo dell’alluvione: il camion che riaffiorava dall’acqua, i corpi recuperati uno di seguito all’altro nell’arco di due mesi, il piccolo cimitero dietro l’Oratorio di San Lorenzo, il cippo nei pressi di Frassinelle Chiesa», raccontano Sorcinelli e Tchaprassian. «Eppure non tutto sembra essere stato detto o chiarito, rimangono ancora oggi dei punti oscuri, a cominciare dal numero delle persone effettivamente caricate quella notte sul camion, dalla dinamica che ne causò la morte e dal perché quel camion fosse l’unico in giro quella notte. Dubbi su come fossero andate realmente le cose, li ebbe fin da subito lo stesso Giuseppe Brusasca che nello stendere la relazione sul suo operato di commissario straordinario per il Polesine scrisse: “Novantanove persone erano dunque a bordo del tragico autocarro. Aveva sufficiente capienza per tale carico?. Questa è la domanda che ancora oggi tutti si rivolgono sapendo anche che quasi ogni profugo aveva seco un fardello. Nessuno, però, è stato mai in grado di poter precisare il numero delle persone salite quella notte sull’autocarro. È possibile che l’acqua abbia travolto lungo la strada anche persone che a piedi cercavano uno scampo all’inondazione. La verità, però, sarà sempre a tutti ignota e le salme ripescate dopo settimane e set¬timane di sondaggi furono tutte classificate quali vittime del ‘camion della morte’ e sepolte in un brandello di terra risparmiato dall’inondazione dietro l’oratorio di S. Lorenzo nei pressi di Frassinelle”. Neppure Vittorio Padovan, uno dei superstiti, era sicuro, a sua volta, che tutte le vittime fossero sul camion: “Ne sono morti tanti in quel camion, forse non tutti 84 erano con noi, forse altri sono stati sorpresi dalla piena sulla strada, in qualche casupola”».


ULTIMAPAGINA 194 milioni di pagine web create per l’occasione. E ovunque è boom di matrimoni

Questi numeri cambieranno di Martha Nunziata il momento più atteso, dagli appassionati di numerologia e dai navigatori del web, perché tutti i numeri sono uguali: oggi, alle ore 11:11:11 dell’11.11.11 (un palindromo a 12 cifre) sarà il momento del cambiamento universale. Almeno a parole. Secondo la definizione, il “giorno palindromo” è una data del calendario che, scritta con la formula “giorno/mese/anno” ha una perfetta simmetria nella lettura, ovvero si può leggere sia da sinistra verso destra sia da destra verso sinistra.Oggi è il “Giorno del Grande Uno”, così come è stato battezzato tra gli internauti, soprattutto i frequentatori dei social network e di Facebook in particolare: una data che ha portato alla realizzazione di oltre 194 milioni di pagine web dedicate all’argomento. Ma oggi è anche il giorno del mutamento della coscienza del nostro pianeta, secondo la numerologia peruviana. Una sequenza numerica irripetibile e per la quale bisognerà attendere altri cento anni. Data straordinaria per i cultori del settore, tanto più se si pensa che la strana sequenza numerica si è verificata, prima d’ora, soltanto un’altra volta nella storia del mondo occidentale, peraltro con una perfezione ancora maggiore: successe addirittura nel Medioevo, quando cadde l’11 novembre del 1111, come oggi, anche se allora non si usava scrivere le date come facciamo noi adesso. Numeri che hanno scatenato la fantasia di tantissime persone in tutto il mondo, soprattutto, e non poteva essere altrimenti, i cultori delle discipline esoteriche e gli instancabili navigatori del web, ma anche più insospettabili scienziati.

È

Se siete superstiziosi, questa data non fa per voi: rappresenta una sequenza di numeri legata alla fine del mondo e a scenari catastrofici, apocalittici. Secondo la numerologia peruviana, invece, oggi la data ha un significato mistico: l’11, infatti, rappresenta la mente universale, e al numero 11 è associato lo spirito guida del mondo, una sorta di entità numerica che è possibile ricollegare direttamente a Dio. 11.11.11: significati mistici che si confondono con quelli più oscuri. Per la Cabala ebraica, infatti, l’11 è la Conoscenza. Numeri, simboli che riportano indietro ad antiche civiltà come quella dei Maya che dava grande importanza ai numeri come il 12.12.12, la nota data della fine del mondo. O forse di un nuovo inizio, secondo diverse interpretazioni. Previsioni e profezie si sprecano, in queste circostanze; superstizioni e fantasie che comunque devono essere esorcizzate per essere scacciate: sono quelle paure ataviche dell’uomo che si trasformano nelle “leggende metropolitane”, a cui solo pochi credono, ma di cui non possiamo fare a meno. «Le credenze sulla

IL MONDO? Astrologia, tavolette Ouija, sedute spiritiche, pseudoscienze ed extraterrestri. Ma anche cabala e semplice superstizione. Senza dimenticare i soliti catastrofisti... fine del mondo sono presenti in molte culture antiche - ha spiegato l’antropologo John Hoopes - ma sono diventate una parte fondamentale dei tempi moderni a partire dal 1499, soprattutto per gli americani. Astrologia, tavolette Ouija, sedute spiritiche, pseudoscienze ed extraterrestri hanno trovato terreno fertile in molte parti dell’America». Basti pensare che Nancy Reagan consultava gli astrologi: «Ma tutti questi pensieri magici - secondo Hoopes aiutano solo a perpetuare miti e credenze che non hanno alcuna base scientifica». Superstizioni che hanno ispirato la filmografia dell’horror e quella del “realismo magico“( o realismo fantastico), film dove la realtà si confonde con la fantasia e la magia. Se però siete amanti delle coincidenze o peggio ancora se siete aritmofobici (cioè avete paura dei numeri), quella di oggi per voi è una data dai molteplici significati, soprattutto esoterici. Ma per altri l’11.11.11 è semplicemente un numero molto originale, e il più possibile da non di-

menticare. Quella di oggi, infatti, è una data molto adatta ai matrimoni: secondo il quotidiano britannico The Guardian, in effetti, sembra addirittura sia un giorno preso d’assalto per celebrare nozze e altri eventi degni di essere ricordati.

Venerdì 11.11.11 contiene sei volte il numero 1, data particolarmente fortunata per i cinesi ma - come spiega Zhou Jixiang, direttore del Dipartimento matrimoni del Comune di Pechino – l’11 è anche la festa dei single e molti trovano catartico dire addio alla vita da celibe, o da nubile, nel giorno a loro dedicato. Non sorprende, del resto, in un paese nel quale la numerologia è tenuta in tale considerazione da far cominciare l’Olimpiade di Pechino, tre anni fa, l’8.8.08, con l’accensione del braciere olimpico alle 8.08 della sera, perché il numero 8 è ritenuto di ottimo auspicio: ma, come in Cina, anche in paesi insospettabili, come la fredda Svizzera, sale la febbre del “Sì lo voglio”. A Zurigo, infatti, si è registrato un aumento di richieste di matrimoni per oggi quattro volte superiore alla media e a Lucerna l’ufficio di stato civile ha dovuto addirittura bloccare le nuove richieste. Data densa di significati anche in India, dove sono moltissime coppie hanno scelto la singolare data per celebrazione delle proprie nozze, aggiungendo, anzi, anche l’orario: le 11.11, naturalmente.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.