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he di cronac

Il peggior peccato contro

i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza. George Bernard Shaw

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 22 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Cancellieri: «Fatto grave ma oscuro». Casini, Cesa e Fassino alle Molinette

Forza Alberto, resisti alla follia Musy, consigliere Udc a Torino, ferito da 5 colpi di pistola Un professore di diritto I prestato alla politica di Francesco Lo Dico

l consigliere comunale del Terzo Polo a Torino, Alberto Musy, è stato ferito ieri mattina da tre colpi di pistola nel cortile della sua abitazione di via Barbaroux, nel centro della città. Due colpi sono andati a vuoto. Le sue condizioni sono gravi ma è fuori pericolo. Ancora oscuri i motivi dell’attentato. Larghissima la solidarietà espressa da tutti: Casini, Cesa e Fassino si sono subito recati in Ospedale. «Fatto grave ma oscuro», ha commentato il ministro Cancellieri.

Pestigioso docente di diritto e cattolico liberale di vecchia scuola: a 44 anni, come professionista ha sempre seguito affari complessi. Ecco chi è Alberto Musy, ferito ieri a Torino.

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di Maurizio Stefanini

Sedici ore di mobilitazione nazionale. Napolitano ammonisce: «Ma questa non è solo una legge sull’articolo 18»

Uno sciopero contro i giovani La Camusso subito sul piede di guerra, ma si contrappone a una riforma che aiuta l’ingresso nel lavoro. E così dà spazio all’estremismo. Ivd: «Sarà un Vietnam». Intanto, il Pd si spacca ANTAGONISTI

LE RAGIONI DEL GOVERNO

No, la Cgil non merita di finire dipietrista

Vi spiego la nostra riforma anti-precari

Intervista con Franco Tatò

di Osvaldo Baldacci

di Gianfranco Polillo

l clima è surriscaldato. Non può essere diversamente, dato che il tema tocca da vicino e assai concretamente la vita di moltissimi lavoratori, in qualche modo di tutti noi. Inoltre è evidente che è necessario che ci sia chi si fa carico di guardare al quadro generale e di indicare una strada per un futuro migliore. a pagina 2

l primo round sulla riforma del mercato del lavoro non è finito bene. Per carità: nulla di drammatico. Ma lo sciopero generale proclamato dalla Cgil chiude la porta definitivamente e la delusione raddoppia: la sensazione che il “morto” – per dirla con il vecchio Marx – “ha afferrato il vivo” viene definitivamente codificata. a pagina 4

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«Finalmente anche noi facciamo il primo passo verso la modernità» «Era da tempo che bisognava intervenire sulla normativa che regola i licenziamenti. Anche sugli ammortizzatori fatti grandi passi in avanti. Ma non chiamatelo modello tedesco: quello è un sistema che ancora non possiamo permetterci» Francesco Pacifico • pagina 5

Sarkozy “guida” il lungo assedio a un francese affiliato ad al Qaeda

«Quel killer lo voglio vivo» di Luisa Arezzo o voglio vivo» aveva detto Nicholas Sarkozy appena cominciato il blitz notturno al numero 17 di via Sergent Vignè, in un quartiere residenziale di Tolosa, non lontano dalla scuola ebraica teatro dell’ultima strage. Ma il terminator di Tolosa, come lo chiamavano gli inquirenti d’Oltralpe prima che

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EURO 1,00 (10,00

avesse un nome e cognome - Mohammed Merah - non ne ha voluto sapere di arrendersi facilmente. «Avrebbe colpito ancora» ha detto il capo dell’Eliseo da Tolosa prima di rientrare a Parigi. E avrebbe colpito proprio il 21 marzo, seguendo il suo macabro e implacabile timing: uccidere ogni quattro giorni. Probabilmente un altro militare e due poliziotti. a pagina 10

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

57 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Oggi meeting a Roma con Terzi e Casini

Il nuovo allarme globale si chiama cristianofobia di Ayaan Hirsi Ali entiamo sempre più spesso parlare dei musulmani come vittime di violenze in Occidente e come militanti della primavera araba in lotta contro la tirannia. Ma in verità si sta profilando un tipo di guerra completamente nuovo: una battaglia non riconosciuta che sta costando migliaia di vite. I cristiani vengono uccisi nel mondo islamico per via della loro religione. Si tratta di un crescente genocidio che dovrebbe destare un allarme globale: negli ultimi anni la violenta oppressione delle minoranze cristiane è diventata la norma in tutti i paesi del mondo a maggioranza musulmana. a pagina 8

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Il (legittimo) dissenso non può bloccare il Paese

No, la Cgil non merita di finire dipietrista

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di Osvaldo Baldacci l clima è surriscaldato. Non può essere diversamente, dato che il tema tocca da vicino e assai concretamente la vita di moltissimi lavoratori, in qualche modo di tutti noi. Il tema è delicato e le preoccupazioni per il futuro sono più che legittime. Inoltre è evidente che è necessario che ci sia chi si fa carico di guardare al quadro generale e di indicare una strada per un futuro migliore, ma è altrettanto naturale che chi è toccato personalmente sia assai meno interessato al quadro generale e assai più al proprio personale destino. In questo senso è comprensibile la paura di tanti lavoratori, ed anche l’atteggiamento ostile all’accordo da parte di alcuni, con in testa la Cgil. Ma attenti a non passare il limite.

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Sappiamo bene come già in passato le vicende del lavoro siano state le più delicate e di conseguenza il campo di coltura di pulsioni eversive e violente. Non vogliamo ripetere quella storia. Per questo non suonano gradevoli le parole di chi invoca il Vietnam contro la riforma, come hanno fatto ieri Di Pietro. Il Vietnam è stato una cosa seria: guerriglia, armi, spari, morti. Niente che vogliamo neanche solo evocare per l’Italia. Tanto più in un periodo difficile dove i toni esasperati sono spesso presenti, e dove minacce di morte, slogan vergognosi e anche qualche attentato non sono certo casi rari. Non sopravvalutiamo le parole di Di Pietro che si riferiva sicuramente al tentativo dell’Italia dei Valori di rendere quanto più difficile possibile l’iter parlamentare della legge di riforma del lavoro. Però anche Di Pietro e tanti altri con lui devono rendersi conto che esacerbare gli animi ed esasperare i toni può avere delle ricadute gravi e pericolose all’esterno dei palazzi. Lo abbiamo detto e ripetuto in questi venti anni di rovinoso bipolarismo fazioso e furioso che vedeva gli schieramenti l’un contro l’altro armati pronti a tutto per causare la caduta del nemico. Ora che quella situazione è finita, non vorremmo che i suoi interpreti si reinventassero reiterando lo stesso stile contro nuovi bersagli e continuando ad alimentare i peggiori istinti del Paese, la rabbia, l’odio. La classe dirigente - politica, governativa, sindacale, industriale, giornalistica - deve essere responsabile e capace di aiutare il paese ad affrontare i problemi, trovando soluzioni pur nella legittima diversità di vedute. La classe dirigente deve essere responsabile, e come ha detto il presidente Napolitano «Per poter dare un giudizio, bisogna vedere il quadro di insieme.Attendiamo di vedere come va la riunione di giovedì che deve decidere il quadro complessivo della riforma del mercato del lavoro, la quale non può essere identificata con la sola modifica dell’articolo 18. Io mi auguro che ci sia attenzione e misura nel giudizio da parte di tutti». Legittimo quindi lo sciopero generale da parte della Cgil, mossa che peraltro era in qualche modo attesa perché scontata e dovuta, più per esigenza di auto legittimazione che per possibilità di incidere veramente in questo modo sul processo di riforma. Ma la Cgil ha anche il problema di tenere tranquilli i propri iscritti, e di non essere scavalcata a sinistra dagli oltranzisti. Un problema che come abbiamo visto riguarda tutti: speriamo quindi che il dissenso si incanali legittimamente nelle giuste forme e magari contribuisca a migliorare un po’ la riforma, ma che non ci siano sponde di alcun tipo per eventuali tentazioni estremiste.

La Camusso proclama 16 ore di sciopero. «Sarà un Vietnam», promette Di Pietro

Democratici in trincea

Mezzo Pd è entusiasta, ma il segretario chiede ulteriori modifiche. Intanto Napolitano fa appello al dibattito in Aula: oggi il governo decide la linea di Marco Palombi

ROMA. Era quasi scontato ed ora è un fatto: la batta-

nel giudizio da parte di tutti e poi, naturalmente, dopo glia attorno alla riforma del mercato del lavoro è ini- che il governo avrà dato la forma legislativa ai provveziata e il governo rischia assai di più di quanto sembri dimenti conseguenti, la parola passerà al Parlamenritenere. Il niet della Cgil (a cui comunque vanno ag- to». È un modo per smorzare i toni, per chiarire a tutgiunti i toni critici della Uil, secondo cui “servono mo- ti la posta in gioco e che il tempo della mediazione non difiche”, e l’ovvia contrarietà del cosiddetto “sindacato è ancora finito. Si vedrà quando oggi il governo preconflittuale”) non apre solo una stagione di guerriglia senterà il suo progetto e anche in quale forma: se l’emediatica e di piazza sul tema, ma provoca contempo- secutivo, infatti, optasse per un decreto e persino per una legge delega significheraneamente anche un terremorebbe aver scelto lo scontro toto di cui ancora non si vedono tale, mentre se la via fosse chiaramente gli effetti lungo quella di un semplice ddl si poquella che è stata definita la “fatrebbe pensare ad un’apertura glia socialdemocratica” del Pd. a qualche forma di modifica La situazione è talmente tesa sostanziale. che ieri il presidente della Repubblica, ormai definitivamente C’è da dire che al di là del rerivelatosi come l’unica mente politica del governo tecnico, è di sto, che pure è molto come sotnuovo intervenuto in prima pertolinea Napolitano, il nodo sona sull’argomento (dopo, s’incom’era prevedibile è quello tende, il garbato quanto deciso dell’articolo 18: secondo le inpressing pro-accordo portato tenzioni di Monti e Fornero, il avanti dal Quirinale nei giorni reintegro del lavoratore resterà scorsi): «Attendiamo di vedere solo per i licenziamenti discricome va la riunione di venerdì – ROMA. Forse Oliviero Diliberto, titolare minatori, per quelli disciplinari ha spiegato Giorgio Napolitano di un pulviscolo della sinistra antagoni- deciderà il giudice se c’è diritto dalla Liguria – in cui si deve de- sta, e la sua amica ritratta in questa foto al reintegro o ad un indennizzo, cidere il quadro complessivo non si sono nemmeno resi conto di quel- per quelli motivati da ragioni della riforma, la quale non può lo che stavano facendo. Ma l’ignoranza economiche ci sarà solo una però essere identificata con la non è una scusante: la maglietta che in- compensazione in denaro (da sola modifica dell’articolo 18. neggia alla morte del ministro Fornero è 15 a 27 mensilità, più o meno Per dare un giudizio bisogna ve- un’offesa - grave - alla dignità. Soprattut- come un prepensionamento). dere il quadro di insieme, mi au- to a quella di Diliberto e la sua amica. «Non potevo dire sì», ha comguro ci sia attenzione e misura mentato a caldo Susanna Ca-

Il Pdci e l’alta moda dell’inciviltà


«Per i giovani siamo soltanto all’inizio» «L’apprendistato è una conquista, ma da solo non garantisce il turn-over» dice Becchetti di Riccardo Paradisi on è una riforma negativa ma non è nemmeno la soluzione dei nostri problemi. Che restano gravi e profondi». Professore di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata Leonardo Becchetti guarda alla manovra del governo sul lavoro senza ridere e senza piangere. Ne vede le opportunità – qualche chance e tutela in più per i giovani con l’apprendistato, l’agevolazione alla costruzione d’impresa e l’estensione delle tutele sociali. Il riferimento in particolare è alla seconda parte dello schema prospettato dal governo, quella riguardante gli ammortizzatori. La Cig infatti viene estesa a tutti così come, gradualmente, la disoccupazione dalla quale, fino ad oggi, i precari erano esclusi.

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Insomma che questa riforma tolga ai tutelati e agli anziani per dare ai giovani o meglio, riequilibri i diritti tra due generazioni e due profili di lavoratori è vero in parte: è una retorica più che una realtà. «Di sicuramente positivo secondo Becchetti – c’è l’introduzione dell’apprendistato, dove i giovani costruiscono il loro capitale sociale e trovano un ambito di concreta iniziazione al lavoro. Una lacuna che andava colmata da tempo. Ecco, questo provvedimento va sicuramente in una direzione positiva. Una cosa che segnala

La Cig viene estesa a tutti così come la disoccupazione dalla quale, fino ad oggi, i precari erano esclusi

Ma accanto ai pregi Becchetti non si nasconde i limiti del provvedimento: l’aggravarsi sulle imprese del costo per gli ammortizzatori sociali, l’assenza d’un ritocco su costo del lavoro e cuneo fiscale e quindi l’assenza di un incremento di produttività e lavoro. D’altra parte al netto della battaglia intorno all’articolo 18 non è nemmeno detto che la flessibilità in uscita spingerà inevitabilmente le imprese ad assumere con più facilità: «Si tratta di una misura che potrebbe indirettamente favorire i giovani ma dall’altra parte l’allungamento dell’età pensionabile non crea posti per i giovani. E d’altra parte i prepensionamenti, a cui le aziende hanno fatto fin qui ampio ricorso, non sono serviti ad assumere ma a liberarsi di esuberi».

musso. Ieri, poi, la Cgil ha subito cominciato la sua campagna di primavera annunciando uno sciopero generale di otto ore più altre otto per svolgere assemblee sui luoghi di lavoro: «La Cgil è pronta a contrastare la riforma del mercato del lavoro e in particolare dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Non sarà la fiammata che si esaurisce in un giorno e che il governo ha messo in conto», spiegava Fulvio Fammoni, uno dei segretari confederali di Corso d’Italia durante la riunione del comitato direttivo. La Cgil, sostiene il sindacalista, «ha il dovere di portare a casa dei risultati prima che si avvii un biennio di espulsioni di massa nelle aziende». Ancor più duro il segretario della Fiom Maurizio Landini per il quale questa riforma «è una follia: non riduce la precarietà, non estende gli ammortizzatori, ma rende solo più facili i licenziamenti. La contrasteremo con ogni mezzo, con ogni forma di protesta democratica, nelle fabbriche e nel paese».

un’attenzione positiva alle nuove generazioni. Ma resta il punto critico: ossia che le riforme, compresa questa, sono costose. E il miliardo e mezzo di euro che potrebbe costare la presente riforma ricadrà sulle spalle dell’impresa. Che da un lato incassano la modifica dell’articolo 18 (naturalmente se la proposta del governo verrà approvata per come è stata fin qui formulata Ndr) ma dall’altro devono mettere loro stesse risorse negli ammortizzatori sociali. Tanto che molte aziende che saranno più libere dal punto di vista giuridico di licenziare dal punto di vista economico potrebbero in futuro essere maggiormente disincentivate a farlo».

È che per capire i problemi dell’Italia non si può fare a meno di guadagnare uno sguardo europeo e internazionale, di fare insomma delle compa-

disagio straordinario - mette a verbale invece Nichi Vendola - Di fronte a notizie di suicidi di chi non riesce a trovare lavoro, di fronte alla disperazione di un’intera generazione di ragazzi e ragazze, assediata dalla precarietà. L’unica ossessione del governo Monti è quella di recidere il legame con la nostra cultura democratica». Curiosamente accanto ai due “orfani di Vasto”, c’è anche la Lega, che pure aveva firmato nel 2008 un programma in cui era prevista proprio l’abolizione dell’articolo 18.

D’altro canto, se l’Unione Europea tenta di sostenere il “suo”governo («una riforma degna di sostegno»),

il Pd è invece andato in piena fibrillazione sul suo equivoco di fondo: è un «partito del lavoro», come lo vorrebbe il segretario, o del «post-lavoro», come lo disegnarono i suoi predecessori? Dopo il lungo silenzio di mercoledì, per dire, ieri Pierluigi Bersani è sbottato in pieno Transatlantico: «Io se devo concludere la vita dando la monetizzazione del lavoro, non lo faccio. Per me è una roba inconcepibile», spiegava il segretario a Cesare Damiano, deputato ed ex sindacalista della Cgil, assai critico anche lui sulla proposta Fornero. Bersani individua anche una possibile via d’uscita:

D’altra parte se pure questa è una riforma di mediazione non è propriamente un capolavoro politico. «Si rischia di fare qualcosa che crea più flessibilità sul mercato senza migliorare il costo del lavoro delle imprese. Il rischio è che l’insieme di queste misure conserva, un sacrificio che rischia di essere inutile. Anche se è ovvio che in un sistema del lavoro sempre più mobile le garanzie si debbano necessariamente spostare dal posto di lavoro al lavoratore». Da questo scacco si esce però solo guadagnando uno sguardo d’insieme. Non si può pensare all’Italia come un’isola. «Ci sono due variabili: la globalizzazione e l’euro. Se non riusciamo a recuperare lo scarto con i paesi forti d’Europa in termini di infrastrutture, cause civili, rapidità di decisione e capacità di pianificazione ogni riforma interna ispirata dall’Europa stessa è inutile. L’esito è solo un’ulteriore sofferenza sociale su cui insiste anche il rigorismo di Berlino che rende fragili i paesi più deboli del Vecchio continente».

«Chiediamo un passo avanti, chiediamo di accorciare i tempi della giustizia per le cause di lavoro, di non discernere più tra licenziamenti disciplinari ed economici, di lasciare cioè che sia il giudice a decidere tra indennizzo e risarcimento sia in un caso che nell’altro». Se non si troverà un accordo gli effetti sul Pd potrebbero essere distruttivi. La “faglia socialdemocratica”, infatti, attraversa gli schieramenti interni: la maggioranza congressuale è spaccata – il vice di Bersani, ad esempio, Enrico Letta, è entusiasta della riforma – così come le minoranze interne (Fioroni e Veltroni a favore, non così molti considerati “veltroniani” e ancor peggio per l’area che sostenne Ignazio Marino al congresso). I “franceschiniani” per il momento stanno sulla linea di mezzeria e tentano di favorire un accordo premendo sul governo: «La via da seguire è un ddl – ha spiegato il capogruppo Pd alla Camera – Finora ci sono stati troppi decreti: il Parlamento deve poter discutere». Non è detto che serva: il Pdl considera già il testo Fornero un compromesso e non è detto che voglia “ammorbidirlo” ancora sul lato dei licenziamenti e pure il governo potrebbe non considerare praticabile una modifica sostanziale. Intanto, sul web, elettori e militanti del Pd minacciano addii di massa al partito se dirà sì al governo e il risultato è che non solo i democratici sono vicinissimi ad una scissione, ma anche che il governo Monti è molto vicino ad andare a casa. Basta ascoltare Rosi Bindi: «Questo governo è sostenuto da diverse forze politiche e può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono».

Bersani rilancia: «Chiediamo di accorciare i tempi della giustizia per le cause di lavoro, di non discernere tra licenziamenti disciplinari ed economici. Deve essere il giudice a decidere sempre tra indennizzo e risarcimento»

Toni aspri ripresi anche da quei partiti che, convinti o meno, intendono percorrere fino in fondo la strada della lotta accanto ai sindacati: «Il governo e il ministro Fornero possono provare quanto vogliono a nascondersi dietro un dito, ma la verità è semplice: questa riforma vuol dire licenziamenti facili. Tutto il resto è fumo negli occhi e nemmeno vale la pena di parlarne. Per questo noi siamo pronti ad un Vietnam parlamentare», scandisce Antonio Di Pietro. «È davvero imbarazzante l’atteggiamento del governo Monti, a fronte di un’Italia che sta vivendo una sofferenza, un

razioni. «I fattori di ritardo del nostro Paese sono di lungo periodo. L’Italia deve competere con paesi che hanno un costo del lavoro notevolmente più basso del nostro e una moneta soggetta a svalutazione politica. Questa è la cornice. Che poi esista una relazione stretta e reale tra la flessibilità del mercato del lavoro per come viene concepita e la ripresa economica è tutto da dimostrare. Non vorrei che i sacrifici che tutti sono chiamati a fare, lavoratori e imprese, alla fine non valgano la candela».


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l’approfondimento

Alla vigilia del via libera definitivo, il sottosegretario all’Economia spiega le ragioni delle norme che l’esecutivo si appresta a varare

Generazione Riforma

Ecco perché non hanno senso le proteste: per superare il precariato si doveva puntare sui giovani e sul loro contributo innovativo, ma anche valorizzare in modo nuovo l’esperienza dei ”vecchi”. Così, adesso nascerà un nuovo modello sociale di Gianfranco Polillo l primo round sulla riforma del mercato del lavoro non è finito bene. Per carità: nulla di drammatico. Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil chiude la porta definitivamente e la delusione raddoppia: la sensazione che il “morto”– per dirla con il vecchio Marx – “ha afferrato il vivo” viene definitivamente codificata. La paura, ancora una volta, l’ha avuta vinta sulla speranza.

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Al di là di ogni tecnicismo: questo è il tema di fondo. Dobbiamo rimanere ancorati ad un passato, anche glorioso, ma che non ritorna o aprirci verso l’incognita di un nuovo che incombe e che nessuno è in grado di ricacciare indietro? Non possiamo vivere in una fortezza assediata, anche perché, francamente, abbiamo ben poco da difendere. Negli ultimi dieci anni l’economia italiana è cresciuta a passo di lumaca. Le distanze con tutti gli altri Paesi, non solo europei, sono cresciute. Il debito che ci soffoca è rimasto quella montagna che tutti conosciamo. L’occupazione ristagna e anche i settori una volta iper protetti cominciano ad essere intaccati. Il tutto senza pensare ai giovani ed alle donne: le vittime principali di un modello di sviluppo che negli ultimi cinquant’anni – per le caratteristiche tecnologiche dominanti sul fronte industriale e dei servizi – ha privilegiato il lavoro maschile,

nella classe d’età compresa tra i 18 ed i 40 anni. Quel modello di sviluppo – all’insegna del fordismo e del keynesismo – oggi non esiste più. La globalizzazione ha ridisegnato le nuove forme della competizione. La vecchia fabbrica gerarchizzata ha ceduto il campo a strutture più snelle: dove la collaborazione tra dirigenti e lavoratori è divenuta più stretta. Non è più il vecchio moloch degli anni ’70 ed ’80 a dominare, ma il network. Unità di base dotate di grande autonomia, interconnesse in una rete di relazioni, con una verifica sul campo dei diversi livelli di produttività in cui tutti – sottolineiamo la parola “tutti” – i lavoratori sono più o meno coinvolti. Questo modello esalta i rapporti interpersonali. Crea relazioni del tutto diverse, rispetto agli stereotipi del passato. Determina vincoli all’operare degli stessi dirigenti, che non possono fare a meno della collaborazione dei propri dipendenti. Nella crisi che stiamo vivendo, lo sforzo maggiore da parte delle aziende è stato quello di preservare, seppure con grandi sacrifici, il patrimonio di esperienze accumulate, non per una concessione al sociale – c’è stata anche quella – ma per non segare il ramo su cui la stessa azienda era seduta. La ripresa – questa la scelta sottesa – avrebbe consentito di ripagare i sacrifici fatti, senza costringere il manage-

ment a ricostruire, da capo, i nuclei originari. La squadra che, negli anni di buona congiuntura, aveva consentito all’azienda di crescere e di svilupparsi.

Anche oggi, nonostante la crisi, questi processi si intravedono, seppure nella filigrana delle relazioni industriali. Il 2011 si è chiuso con una crescita del tutto insoddisfacente: appena lo 0,4 per cento del Pil. Sembrerebbe la certificazione notarile di un encefalogramma piatto. Ma se si va più a fondo, si scopre che l’Italia, nonostante le mille difficoltà, è un Paese tutt’altro che immobile. Una parte consistente della società italiana ha invece raccolto la sfida e si muove per superla. Il contributo dell’e-

Le esportazioni hanno mantenuto vivi i nostri conti in questa lunga stagione di crisi

stero alla crescita del Paese è stato pari all’1,4 per cento. Nei confronti internazionali siamo non soltanto il Paese che esporta di più – secondi solo alla Germania – ma anche quello in cui questa componente ha una rilevanza eccezionale rispetto alle altre variabili del quadro macro-economico.

Se l’estero non ha inciso maggiormente, determinando una maggiore crescita complessiva, questo si deve solo a due altre variabili. La prima è di natura strettamente congiunturale: la liquidazione delle scorte accumulate in precedenza che hanno inciso negativamente per lo 0,5 per cento del Pil. Scorte, tuttavia, che andranno ricostruite e quindi saranno destinate a contrastare le prossime spinte recessive. Il secondo è invece di natura strutturale: la caduta degli investimenti. Nel 2009 si era toccato il fondo con una perdita di 2,4 punti di Pil, era seguito un recupero minimo (0,4 punti) nel 2010 subito compensato da una caduta equivalente per il 2011. Sullo sfondo resta, infine, la compressione dei consumi interni. Ma questo dato è, a sua volta, conseguenza dei fenomeni precedenti. Se il volano delle esportazioni non riesce a sostenere il peso complessivo dell’economia italiana, se gli investimenti hanno l’andamento negativo che abbiamo indicato, facendo cre-


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Franco Tatò plaude al pacchetto Fornero e spiega perché è necessario guardare alla Germania

«Finalmente il primo passo per entrare nella modernità»

Secondo il presidente della Parmalat, «la politica e i sindacati non devono spingere a compromessi a ribasso sull’articolo 18» di Francesco Pacifico

ROMA. Mario Monti ed Elsa Fornero hanno scelto di importare il modello tedesco per scardinare le rigidità del mercato del lavoro. In Germania Franco Tatò ci ha prima studiato, poi – anche se in epoca diverse – ha guidato ristrutturazioni importanti di tre marchi come Deutsche Olivetti, Mannesmann-Kienzle e Triumph-Adler. E forte di queste esperienze il presidente della Parmalat si prende la briga di smentire chi accusa il governo di aver preso soltanto un pezzo del sistema renano e di spiegare la portata della riforma: «In Germania ho gestito varie operazioni di ristrutturazione e in tutti i casi nei quali erano necessari licenziamenti per motivi economici, non ricordo reintegri. Anche perché c’era alla base un accordo sindacale che escludeva il ricorso al giudice. Idem per i licenziamenti disciplinari: si fa un miniaccordo con i rappresentanti dei lavoratori per prevenire il reintegro. E i risultati si vedono». Correremo come la Germania? L’applicazione delle leggi dipende largamente dai comportamenti delle parti, che producono una sorta di Costituzione materiale. E quanto si verifica in Germania è diverso da quanto avviene in Italia. L’atteggiamento della Cgil non sarebbe possibile. Allora è colpa del sindacato? Intanto in Germania è unitario e non si concepiscono accordi separati. Eppoi fa delle proposte e accetta le regole del gioco sulla produttività che si scrivono a livello globale. Non voglio dire che il sistema tedesco sia quello ideale, ma funziona, sa adeguarsi alla realtà. Storicamente il sindacato non ha mai accettato riduzioni del salario, eppure a livello aziendale dall’inizio della crisi sono stati firmati accordi con tagli agli stipendi e grande flessibilità negli orari. È il modello Volkswagen. Il colosso dell’auto, per certi aspetti, ha mantenuto alcuni privilegi, anche grazie agli altissimi investimenti tecnologici, che hanno portato ritorni in termini di produttività e di mercato. Comunque sì, perché il welfare tedesco è un prodotto della Volkswagen. Gerard Schröder scelse Peter Hartz per riformare il mercato del lavoro, perché l’aveva conosciuto come capo del personale dell’azienda. Schröder perse le elezioni. Sì, ma Hartz scrisse norme di sostegno alla flessibilità e alla riqualificazione del personale, che hanno pemesso alla Germania di delocalizare tutti i lavori ad alto contenuto di manodopera e trattenere tutti quelli ad altissimo valore tecnologico. Così si è data una spinta decisiva all’economia dei servizi e alla costituzione di tante

piccole imprese del settore. Le piace la riforma Fornero? Per un giudizio aspettiamo il testo approvato dal Parlamento. Già ora è uno dei migliori provvedimenti possibili. Siccome noi italiani siamo meno rigorosi dei tedeschi, la politica e i sindacati non devono spingere verso compromessi sull’articolo 18. Ne avrebbero la forza? No. Basta vedere il sollievo della gente quando ascoltano governanti che finalmente si capiscono, che parlano un linguaggio umano e dicono cosa

La Cgil impari dai tedeschi che discutono prima di produttività e poi di salari

vogliono e che cosa pensano vada bene per il Paese. L’era dei reintegri facili deve finire, è uno dei cancri del nostro sistema. Non era un diritto? Veramente sostengo, e da anni, che l’articolo 18 è anticostituzionale, pieno di discriminazioni. Perché sono applicate regole diverse a chi lavora in una piccola azienda rispetto a chi è assunto da una grande? Perché un dirigente può essere cacciato senza giusta causa, mentre questo non avviene per chi ha contribuito a sfasciare l’azienda? Sa, ci vuole una buona dose di specificità italiana per spiegare a un americano perché ci sono cittadini di serie A e di serie B. Quindi? Bisogna dare alle imprese la possibilità di licenziare i lavativi e non concedere loro la facoltà di rientrare. Lo so, detta così è brutale, ma si è abusato del reintegro. Che ha frenato le imprese nella gestione dei premi e delle punizioni. Con il risultato che esistono soltanto i premi. Le Pmi si lamentano dei costi? Certo, i costi della riforma sono veramente elevati. Ma secondo me è un giusto prezzo se permette alle aziende di decidere con chi lavorare e di ottenere di più dai propri lavoratori. In Germania, quando ci si siede a trattare con il sindacato – chiusa la parte propagandistica che esiste anche là – ci si mette a guardare l’andamento del costo per unità prodotto. Solo dopo si inizia a discutere su come dividere la differenza. Risultato? In Germania il costo del personale è più alto rispetto all’Italia, ma è più alta anche la produttività. Non basta il secondo livello? Non funziona se il contratto nazionale resta troppo oneroso. Però c’è un altro aspetto da segnalare. Prego. Dietro i costi eccessivi ci sono soprattutto tutele verso un Paese come il nostro, che fa più fatica a riqualificare il proprio manifatturiero. Questo processo è avvenuto anche in Germania, ma da noi c’è un’industria dove le capacità dell’artigiano sono fondamentali nel processo produttivo. Non a caso eccelliamo nel lusso e nelle macchine di precisioni. Il tutto nella logica di preservare certe figure, non di proteggere chi non sta sul mercato. Calerà la disoccupazione? Nel medio termine. Però si dovrà intervenire sul cuneo fiscale. Da Kaiser Franz gongolerà per la fine della concertazione. Finalmente. E speriamo che sia il primo dei tanti cambiamenti necessari per agganciarci alla modernità.

scere la disoccupazione, è difficile pensare che i consumi possano riprendere. Nell’esperienza più recente la spinta alla crescita dei consumi non è venuta tanto dall’incremento dei salari degli occupati, contenuti per forza di cose; quanto dalla crescita dell’occupazione, seppure nelle forme precarie che tutti conosciamo.

La discussione sulla riforma del mercato del lavoro non può prescindere da questi dati più generali. Dobbiamo sostenere le aziende che hanno avviato un processo di riconversione industriale e che, grazie ad esso, hanno dato il contributo, che abbiamo visto, alla crescita del Pil. Dobbiamo cioè dilatare il cerchio ottenuto dal sasso lanciato nello stagno. Questo significa puntare sulla speranza e vincere la paura. Sarà un percorso esente da rischi? Assolutamente no. Ma qui vale la parabola dei talenti. Le sacre scritture, oltre che l’economia, premiano chi si adopra per se stesso. E facendolo, persegue il bene comune. Il punto essenziale è come ridurre la portata del rischio che è, comunque, immanente in ogni azione umana. Ma qui ci sorregge la storia del nostro Paese: il suo alto tasso di solidarietà, una cultura sedimentata – basti pensare all’articolo 1 della nostra Costituzione – che fa del lavoro l’elemento fondante del nostro vivere comune. Gli economisti classici – Ricardo, Marx, Sraffa – erano consapevoli del fatto che il fattore essenziale della produzione di ricchezza è il lavoro. È una verità, a volte dimenticata, ma che deve riemergere, specie nei momenti di crisi. La tecnologia, la scienza e l’innovazione possono fare molto per accrescere il livello di benessere. Ma al fondo di tutto resta il lavoro umano a cui i panni della modernità danno solo una maggiore potenza. Forse in futuro la fatica umana sarà interamente sostituita dalle macchine intelligenti. Ma questo tempo è al di là da venire. Oggi, ancora tutto è riconducibile all’energia che scaturisce dall’uomo. Tutto ciò dovrebbe costituire un segnale di speranza. Vogliamo modernizzare le strutture del mercato del lavoro non per penalizzare questa forza, ma per esaltarne le potenzialità. Abbiamo bisogno di forze giovani che siano in grado di sopportare il peso lieve, ma impegnativo, delle nuove tecnologie. Ma non per questo vogliamo – Renzi, il sindaco di Firenze, non ce ne voglia – rottamare i vecchi. La cui funzione, per l’esperienza accumulata (si pensi solo alla figura del tutor) rimane essenziale in un mondo in cui le relazioni umane e sociali rappresentano l’elemento chiave dell’organizzazione a rete. Qui dobbiamo recuperare il senso della storia, in parte venuto meno a seguito dell’allungamento della vita media. Nei decenni – ma sarebbe meglio parlare dei secoli – passati erano i giovani che si facevano carico delle persone più anziane. Al patriarca era affidata una funzione di guida e di saggezza, ma il peso dell’ordinario era affidato alle generazioni più giovani. In questi ultimi anni questa tendenza si è invertita. Le generazioni più anziane si sono assunte il compito della quotidianità, mentre i giovani stentato a trovare un qualche forma di emancipazione. È il rovesciamento di una gerarchia, che ha addirittura un fondamento biologico. È tempo di ripristinare quell’equilibrio violato. La riforma del mercato del lavoro può essere un primo passo nella giusta direzione.


politica

pagina 6 • 22 marzo 2012

Torino precipita nella paura per l’attentato all’avvocato, consigliere Udc

Musy, cinque colpi di follia

La vittima è fuori pericolo. La pista politica, ufficialmente, non è esclusa, ma il movente resta un mistero. Il Viminale: «Episodio grave ma oscuro» di Francesco Lo Dico

ROMA. Il consigliere comunale del Terzo Polo, Alberto Musy, è stato ferito ieri mattina da tre colpi di pistola nel cortile della sua abitazione di via Barbaroux, nel centro di Torino. Ricoverato d’urgenza all’ospedale Molinette in gravi condizioni, il capogruppo Udc è stato sottoposto a intervento chirurgico. E anche se resta in prognosi riservata, secondo quanto appreso dal deputato dell’Api, Gianni Vernetti, in mattinata, e poi dai familiari in seguito all’intervento, Musy è fuori pericolo e i medici esprimono un cauto ottimismo. Secondo le prime ricostruzioni della Digos e della Squadra Mobile di Torino, l’avvocato centrista, 44 anni, è caduto nell’agguato poco prima delle otto e 30. Dopo aver accompagnato i figli a scuola, Musy stava per rientrare in casa perché – riferisce sua moglie alla polizia – aveva dimenticato l’IPad. Ma secondo la testimonianza di un vicino, ancora non confermata dagli investigatori, ad

accogliere il consigliere comunale nel cortile c’è un uomo che ha indosso un casco bianco intento a trafficare con un pacco. Che interpellato da Musy sul motivo della sua presenza, esplode un primo colpo con una calibro 38. E poi altri quattro, di cui due raggiungono il braccio destro e la spalla sinistra del consigliere. Caduto al suolo, l’ex candidato sindaco

del Terzo Polo viene soccorso immediatamente dalla moglie, attirata dagli spari. L’uomo con il casco, ripreso dai sistemi di sorveglianza di alcuni negozi della zona, si è già dato alla fuga. Ma Musy riferisce alla donna che prima dell’attentato era stato seguito, e risponde a un vicino che a sparare sarebbe stato un uomo sui 40-45 anni. Dopo aver perduto conoscenza, il centrista viene poi ricoverato in rianimazione all’ospedale Molinette e poi sottoposto a un intervento per rimuovere un ematoma cerebrale causato dalla caduta dopo il ferimento. «Il quadro clinico», recita il primo bollettino, «mostra discreta ossigenazione, i parametri cardiocircolatori sono regolari, addome trattabile senza apparenti lesioni penetranti».

Rimbalzata da un tweet di Gianni Vernetti ai principali organi di informazione, la notizia ha subito mobilitato politica suscitando grande preoccupazione intorno al movente dell’attentato. Ma dalle informazioni raccolte dalla polizia nello studio legale dove lavora, Alberto Musy si stava occupando in questo periodo di cause di lavoro e fallimenti come da routine. «Non si esclude niente, almeno per il momento. Non si può privilegiare una direzione rispetto all’altra». Le piste seguite non escludono a oggi i trascorsi professionali di Musy, docente universitario

e avvocato civilista, possibili moventi di carattere personale, ma anche una ritorsione di matrice politica provocata dal recente sostegno espresso dal consigliere comunale in favore della Tav. «Il quadro informativo generale che emerge si presenta piuttosto neutro. Si tratta di una persona ben lontana da atteggiamenti radicali o estre-

segretario Lorenzo Cesa. Ma dopo aver incontrato i sanitari e i familiari ha lasciato l’ospedale senza rilasciare dichiarazioni. Ma prima della partenza, Buttiglione aveva avvertito: «Non possiamo nascondere la viva e profonda preoccupazione perché questi gesti sono comunque la spia di un deterioramento politico e sociale che ali-

Rocco Buttiglione (Udc): «Questi gesti sono la spia di un deterioramento politico e sociale che alimenta la vile follia di chi vuole approfittare delle difficoltà italiane per seminare violenza» mi, non certo rigida ma anzi aperta al dialogo», commentano gli inquirenti. Che non scartano neppure l’ipotesi di uno scambio di persona e pur non tralasciandola, ritengono improbabile la matrice terroristica o politica. «Sicuramente è stato un agguato, ma non abbiamo ancora elementi per dire che matrice abbia. Si sta lavorando», commenta il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri. Ma resta il fatto che si tratti, come sottolinea il Capo della Polizia, Antonio Manganelli, di un “episodio inquietante”.

Partito per Torino subito dopo aver avuto notizia dell’attentato, il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, si è recato alle Molinette insieme al presidente centrista Rocco Buttiglione e al

menta la vile follia di chi vuole approfittare delle difficoltà italiane per seminare violenza». E tuttavia, il leader dei No Tav, Alberto Perino, respinge le ombre: «Mi dispiace molto per Musy, ma con i No Tav non aveva niente a che fare. Sono dispiaciuto perché questi sono metodi indegni di un Paese civile. Sanno tanto di qualcuno che vuole alzare la tensione per riuscire a ricreare il clima degli anni di piombo». In attesa che si faccia luce sulla vicenda, tutti i maggiori esponenti politici, da Alfano a Fini e Franceschini,esprimono intanto solidarietà ai familiari e una ferma condanna dell’attentato. Il leader di Sel, Nichi Vendola, esprime «preoccupazione, condanna ed allarme per il tragico fatto di sangue di stamani a Tori-


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22 marzo 2012 • pagina 7

L’università, l’attività di legale d’affari e la sfida “sì Tav”: ecco chi è Alberto Musy

Un professore di diritto prestato alla politica Dall’impegno con gli studenti a quello per la città: ritratto del candidato sindaco del Terzo Polo di Maurizio Stefanini uindici giorni fa, Alberto Musy ha tenuto la sua lezione alla Scuola di Liberalismo di Torino (LXXV): Douglas North: economia e istituzioni. Lo scorso anno aveva inaugurato i corsi della Scuola LXX con una rilettura de La nuova libertà. Distribuzione e sviluppo in un mondo che si trasforma di Ralf Dahrendorf. Dopo qualche mese fu candidato sindaco a Torino per il Terzo Polo, del quale oggi è capogruppo in Consiglio comunale». È vibrato l’e-mail che la Fondazione Luigi Einaudi ha mandato ieri a amici e simpatizzanti. «Adesso che siamo idealmente tutti lì, nell’astanteria delle Molinette, in attesa del bollettino medico, ci torna in mente che proviene anche dalla Gioventù Liberale. E allora, con un nodo alla gola, ci rivolgiamo ai 300 docenti che sono saliti in cattedra e ai 4mila allievi che hanno seguito una delle 78 Scuole: ”Porco mondo, ragazzi. Hanno sparato a uno dei nostri”».

«Q

no». E anche il capogruppo alla Camera del Pd, Dario Franceschini, dedica a Musy e Udc un messaggio di vicinanza. «Di fronte ad un agguato così vile e vigliacco si resta sgomenti e impotenti», commenta. Mentre il presidente del Pd, Rosy Bindi esorta: «Tutti siamo chiamati ad alzare il livello di attenzione e di contrasto contro ogni forma di violenza e di intimidazione che punta ad esacerbare la convivenza civile». E il presidente della Camera, Gianfranco Fini, annuncia che «il governo riferirà quanto prima» sul ferimento di Alberto Musy.

Nel tardo pomeriggio di ieri, arrivano notizie confortanti. L’intervento chirurgico su Alberto Musy si è concluso dopo cinque ore di sala operatoria che hanno lasciato tutti con il fiato sospeso. Rimosso l’ematoma al cranio e un proiettile, i familiari di Musy comunicano che le prossime 48 ore saranno determinanti per capire l’evolversi della situazione, sulla quale i medici si esprimono con cauto ottimismo. E ringraziano per i moltissimi attestati di solidarietà recati al loro indirizzo da politici, amici, colleghi e conoscenti. A guidare le indagini sull’attentato sarà il sostituto procuratore di Torino, Roberto Furlan. Dai filmati che hanno catturato l’uomo con il casco bianco, potrebbero arrivare utili indizi sull’identità del mancato assassino.

Succede anche questo, purtroppo, nell’Italia di oggi. Appena 44enne, infatti, Alberto Musy ha fatto in tempo a iniziare a fare politica col Partito Liberale Italiano storico: all’inizio degli anni ‘90, quando è diventato presidente della Gioventù Liberale Italiana torinese, e sindaco era l’allora suo referente politico Valerio Zanone. Ma all’idea liberale ha sempre coniugato la fede cattolica: insomma, un cattolico liberale appunto di una tradizione di Vecchio Piemonte, da Cavour a Luigi Einaudi. Lui, appunto, è sempre stato attivo col Centro Einaudi e con la Scuola di Liberalismo, e qualche anno fa ha pure fondato un’Agenda Liberale. Ma non è un professionista della politica. «Mi guadagno da vivere del mio», si dichiara, e “espressione della società civile”. Figlio del famoso avvocato Antonio Musy, un giuslavorista molto noto a Torino, ha approfondito gli studi di Diritto: dopo la laurea nel 1990, sono arrivati un master a Berkeley nel 1995 e il dottorato di ricerca in Diritto Privato Comparato a Firenze nel 1998. Pi ha lavorato col Cnr; quindi Italian Reporter al Common Core of the European Private Law; Visiting Scholar a Montreal; Fellow a Berkeley, Montreal, Lione e all’International Center for Economic Research di Torino; Visiting Professor alla Bocconi; e infine Professore ordinario di Diritto privato comparato all’Università

del Piemonte Orientale.Tra i suoi interessi, la circolazione del modello giuridico anglo-americano in Italia, i trust e l’efficienza della giustizia civile. Una intensa attività di ricerca che non gli ha però impedito di lavorare come avvocato: specializzato in cause fallimentari, e alle prese anche con licenziamenti e piani di riorganizzazione delle imprese, dopo diversi anni a Milano come avvocato d’affari da un po’è tornato a Torino, dove assieme alla sorella Antonella ha rimesso in piedi il vecchio studio di famiglia. Inoltre è il rappresentante degli azionisti nella Exor, la cassaforte finanziaria della famiglia Agnelli. Ma in passato è stato consigliere di società attive nel settore immobiliare e nelle costruzioni, e fino al settembre del 2009 è stato anche nel consiglio d’amministrazione della Hippogroup spa, azienda specializzata in scommesse ippiche. Sposato e con quattro figlie: quando lo

trovarlo nell’ex-rettore del Politecnico Francesco Profumo (poi chiamato da Mario Monti nel suo governo). A quel punto, ha deciso di cimentarsi proprio Musy. «Ho avuto molto da questa città, adesso voglio restituire. Non mi interessano i dissidi tra i partiti, ma solo Torino», aveva detto del suo “progetto per il futuro”. Promettendo: «Siamo sicuri di intercettare il voto degli indecisi che non amano la candidatura di Fassino e mai voterebbero centrodestra». Sono stati 45 giorni di campagna elettorale concentrata su temi veri, e non sul bunga bunga. Dal debito della città ai problemi del traffico, all’idea di portare a Torino il campus universitario di una grande università americana. Tre le emergenze da lui individuate. La mancanza di un progetto per il futuro: «Torino ha vissuto troppo di eventismo, dalle Olimpiadi ai festeggiamenti per il 150esimo». Il lavoro. La capacità di attrarre imprese. Nel suo staff anche Massimo Firpo, ora capo di gabinetto del ministro ministero dello Sviluppo Economico Corrado Passera. Pur sceso in campo all’ultimo momento, Musy riuscì a ottenere 21.896 preferenze, pari al 4,85%. E in Consiglio Comunale capogruppo del Terzo Polo ha continuato a distinguersi per le sue proposte concrete: dall’introduzione di un ticket per l’ingresso delle auto nel centro di Torino alla riorganizzazione delle società partecipate dal Comune. È stato con insistenza corteggiato da Fassino, che per la sua competenza ha cercato di farlo entrare in maggioranza. Ma già il Pdl aveva pensato di offrirgli una candidatura, prima di puntare su Coppola. Insomma, ha scelto il Terzo Polo non certo perché negli altri due si fosse trovato la strada sbarrata.

Cattolico liberale di vecchia scuola, a 44 anni, come professionista ha sempre seguito affari complessi: è rappresentante degli azionisti della Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli hanno ferito era appena tornato a casa dopo aver accompagnato le bambine a scuola, e a soccorrerlo per prima è stata appunto la moglie.

Come molti liberali vecchio stampo, il suo dedicarsi a lavoro, famiglia e studio è stata anche una risposta a un quadro politico degradato in cui è difficile trovare ancora spunti di impegno. Ma quando si era ripreso a parlare di Terzo Polo il vecchio tarlo messo da parte ha ripreso a tormentarlo, e assieme a un gruppo di amici si è messo all’opera per cercare un candidato a sindaco di Torino in grado di sfidare sia Piero Fassino che Michele Coppola. E all’inizio avevano creduto di

L’essere un personaggio pacato e concreto - tutti quelli che l’hanno conosciuto sono stati colpiti dai suoi “modi gentili” non gli ha impedito di prendere posizioni coraggiose: e parliamo non solo di coraggio politico, ma di coraggio fisico. In particolare, tra tanti politici che si dicono Si Tav, è stato uno dei pochissimi ad arrischiarsi ad andare a fare una conferenza in Val di Susa, per provare a spiegare le ragioni per cui l’Alta Velocità sarebbe bene farla. Ovviamente, era stato duramente contestato.


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il paginone Rapporto su una drammatica emergenza globale

Sono migliaia i fedeli che nel mondo islamico vengono uccisi per il loro credo. Dalla Nigeria al Sudan, dall’Indonesia all’Egitto. Un genocidio silenzioso qui fotografato da Ayaan Hirsi Ali entiamo sempre più spesso parlare dei musulmani come vittime di violenze in Occidente e come militanti della primavera araba in lotta contro la tirannia. Ma in verità si sta profilando un tipo di guerra completamente nuovo: una battaglia non riconosciuta che sta costando migliaia di vite. I cristiani vengono uccisi nel mondo islamico per via della loro religione. Si tratta di un crescente genocidio che dovrebbe destare un allarme globale. Il ritratto dei musulmani come vittime o eroi è in parte esatto. Negli ultimi anni la violenta oppressione delle minoranze cristiane è diventata la norma nei paesi a maggioranza musulmana che si estendono dall’Africa settentrionale e dal Medio Oriente fino a Asia meridionale e Oceania. In alcuni paesi sono gli stessi governi e i loro agenti ad aver incendiato chiese e incarcerato i parrocchiani. In altri paesi, il controllo della situazione è stato preso da gruppi ribelli e da cittadini improvvisati vigilantes che hanno cristiani e li hanno cacciati da regioni in cui le loro radici risalgono a secoli. La reticenza dei media su questo argomento senza dubbio deriva da diversi

S

ne del silenzio che circonda questa violenta espressione di intolleranza religiosa deve arrestarsi. La posta in gioco nel mondo islamico è il destino della cristianità – e di conseguenza di tutte le minoranze religiose.

Dalle leggi sulla blasfemia alle brutali uccisioni, ai bombardamenti, alle mutilazioni fino al mettere a fuoco luoghi sacri, i cristiani vivono nel terrore in tantissimi paesi. In Nigeria in molti hanno dovuto subire tutte queste forme di persecuzione. Il paese ha la più grande minoranza cristiana (40 per cento) in proporzione alla sua popolazione (160 milioni) rispetto a qualsiasi altro paese a maggioranza musulmana. Per anni, i musulmani e i cristiani in Nigeria sono vissuti sull’orlo della guerra civile. I fondamentalisti islamici provocano buona parte, se non la maggior parte, della tensione. A loro si deve la creazione di un’organizzazione chiamata Boko Haram che significa “L’educazione occidentale è un peccato”. Il suo scopo è stabilire la Sharia in Nigeria, per questo ha dichiarato che ucciderà tutti i cristiani nel paese.

Cristianof di Ayaan Hirsi Ali

Solo nel mese di gennaio 2012, Boko Haram (organizzazione fondamentalista nigeriana) è stata responsabile di 54 omicidi. Nel 2011 i suoi membri hanno ucciso 510 persone e hanno bruciato o comunque distrutto più di 350 chiese in 10 stati settentrionali fattori. Uno potrebbe essere il timore di provocare ulteriore violenza. Un altro potrebbe essere l’azione di gruppi influenti come l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica – una sorta di Onu dell’Islam con base in Arabia Saudita – e il Consiglio delle Relazioni islamico-americane. Nel corso degli ultimi dieci anni, questi e altri gruppi simili sono riusciti a persuadere figure pubbliche di spicco e giornalisti in Occidente a considerare ogni singolo esempio di discriminazione anti-musulmana come un’espressione di sistematico e sinistro disordine chiamato “islamofobia” – un termine volto a suscitare la stessa disapprovazione morale di xenofobia o omofobia.

Ma una valutazione obiettiva degli ultimi eventi e delle ultime tendenze ci porta alla conclusione che l’ampiezza e la gravità dell’islamofobia è niente in confronto alla sanguinaria Cristianofobia attualmente in corso nei paesi a maggioranza musulmana da un’estremità all’altra del pianeta. La cospirazio-

Solo nel mese di gennaio 2012, Boko Haram è stata responsabile di 54 omicidi. Nel 2011 i suoi membri hanno ucciso 510 persone e hanno bruciato o distrutto più di 350 chiese in 10 stati settentrionali. Usano armi, bombe a gasolio e anche machete, urlando “Allahu akbar” (“dio è grande”) mentre sferzano attacchi su ignari cittadini. Hanno colpito chiese, un punto di ritrovo del giorno di Natale (dove 42 sono stati i cristiani uccisi), birrerie, municipi, saloni di bellezza e banche. Fino ad ora si sono concentrati a uccidere religiosi, politici, studenti, poliziotti e soldati cristiani, ma anche religiosi musulmani che condannavano le violenze. Cominciarono nel 2009 a perpetrare i loro attentati con la strategia del“colpisci e scappa”dalla sella delle loro moto; mentre rapporti recenti di Ap indicano che gli ultimi attentati denotano un nuovo livello di potenza e sofisticazione. La cristianofobia che ha afflitto il Sudan per anni assume una forma molto diversa. Il governo autoritario sannita a nord del paese ha tormentato per decenni i

Oggi un meeting per dire no a tutte le violazioni dei diritti dell’uomo Oggi, giovedì 22 marzo, alle ore 16 presso il Centro convegni Matteo Ricci di Roma (in piazza della Pilotta 4) si terrà il convegno organizzato dalla Fondazione liberal-popolare dal titolo «La religione della libertà - Contro le persecuzioni anticristiane, contro tutte le violazioni dei diritti dell’uomo». Introdurrà i lavori il presidente della Fondazione liberal-popolare, Ferdinando Adornato. Interverrano: Mino Bahbout, rabbino capo della comunità ebraica di Napoli; Abdellah Redouane, segretario generale del Centro Culturale Islamico; Giovanni Battista Re, prefetto emerito della Congregazione dei vescovi. Le conclusioni saranno affidate al vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, al ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, e al presidente dell’Internazionale democratico-cristiana, Pier Ferdinando Casini. Per informazioni: tel. 06.69925964 - 06.69925679. Email: info@liberalfondazione.it.


fobia

ché distrutte e saccheggiate va dai 53 mila ai 75 mila. Entrambe le forme di persecuzione – sia quelle intraprese da gruppi extra governativi che quelle per mano di agenti dello stato – in Egitto si sono unite in seguito alla primavera araba. Il 9 ottobre dello scorso anno nella zona Maspero de Il Cairo, alcuni cristiani copti (che sono all’incirca l’11 per cento dell’intera popolazione egiziana di circa 81 milioni) hanno marciato in protesta contro l’ondata di attacchi da parte degli islamici – tra cui incendi a chiese, stupri, mutilazioni e omicidi – che sono seguiti alla caduta della dittatura di Hosni Mubarak. Nel corso della protesta, le forze di sicurezza egiziane hanno diretto i loro mezzi pesanti contro la folla e hanno sparato sui manifestanti, investendo e uccidendo almeno 24 civili e ferendo almeno 300 persone.

Entro la fine dell’anno più di 200 mila copti avevano lasciato le loro case in previsione di futuri attacchi. Con gli islamisti pronti a conquistare ancora più potere sulla scia di recenti elezioni, le loro paure sembrano fondate.

to Maometto. Quando la pressione internazionale ha convinto il governatore del Punjab Salman Taseer a individuare modi per liberarla, questi è stato ucciso dalla sua guardia del corpo. La guardia è stata poi celebrata come eroe da eminenti religiosi musulmani e anche se alla fine dello scorso anno è stato condannato a morte, ora il giudice che lo ha condannato vive in un luogo segreto, per paura della sua incolumità. Questi casi non sono rari in Pakistan. Le leggi sulla blasfemia pakistane sono usate sistematicamente da criminali e da musulmani pakistani intolleranti per intimidire le minoranze religiose. Il solo dichiarare il proprio credo nella trinità cristiana è considerato blasfemia, perché contraddice le convenzionali dottrine teologiche musulmane. Quando un gruppo cristiano è sospettato di trasgredire le leggi sulla blasfemia, le conseguenze possono essere atroci. Basta chiedere ai membri del gruppo di aiuto cristiano World Vision. I loro uffici sono stati attaccati nella primavera del 2010 da 10 uomini armati di granate: 6 persone sono state uccise, mentre 4 sono state ferite. Un gruppo militante mu-

L’indifferenza che circonda questa violenta espressione di intolleranza religiosa deve arrestarsi. La posta in gioco nei Paesi musulmani è il destino stesso della cristianità. E di conseguenza, la sorte di tutte quante le minoranze religiose

cristiani e le minoranze animiste a sud. Quanto è stato così spesso descritto come una guerra civile è in realtà la persecuzione sostenuta dal governo sudanese nei confronti delle minoranze religiose. Questa persecuzione è culminata nell’atroce genocidio in Darfur che iniziò nel 2003. Anche se il presidente musulmano del Sudan, Omar al-Bashir, è stato condannato dal Tribunale Criminale Internazionale dell’Aja che lo ha riconosciuto colpevole di tre accuse di genocidio, e nonostante l’euforia che accolse la semiindipendenza che aveva concesso al Sudan meridionale lo scorso luglio, la violenza non si è fermata. Nel Kordofan del sud i cristiani subiscono ancora bombardamenti aerei, omicidi mirati, rapimenti di bambini e altre atrocità. Secondo alcuni rapporti delle Nazioni Unite il numero di civili che hanno dovuto trasferirsi dalle loro abitazioni per-

L’Egitto non è il solo paese arabo ad essere impegnato a sterminare la propria minoranza cristiana. Dal 2003 più di 900 cristiani iracheni (molti di loro assiri) sono stati uccisi solo dalla violenza terrorista a Baghdad e 70 chiese sono state incendiate, secondo quanto riporta l’Agenzia di Notizie Internazionali Assira (Aina). Migliaia di cristiani iracheni sono scappati a seguito di violenze dirette contro di loro, riducendo così il numero dei cristiani nel paese a meno di mezzo milione rispetto al 2003 quando superavano il milione. L’Aina comprensibilmente descrive ciò come un «incipiente genocidio o una pulizia etnica di assiri in Iraq». I 2,8 milioni di cristiani che vivono in Pakistan corrispondono quasi all’1,6% della popolazione che arriva a 170 milioni. In quanto membri di una minoranza così piccola, vivono nel perenne timore dei terroristi islamici, ma anche delle draconiane leggi del Pakistan sulla blasfemia. Esiste, ad esempio, il notorio caso di una donna cristiana condannata a morte per aver presumibilmente insulta-

sulmano ha rivendicato l’attentato sui territori in cui world vision stava lavorando per rovesciare l’islam. (infatti, stava aiutando i superstiti di un fortissimo terremoto). Nemmeno l’Indonesia – spesso considerata la nazione a maggioranza musulmana più tollerante e democratica del mondo – è rimasta immune all’ondata di cristianofobia. Secondo alcuni dati raccolti dal Christian Post, il numero di incidenti violenti ai danni di minoranze religiose (e con il 7% della popolazione, i cristiani sono la più grande minoranza del paese) è aumentato del 40 per cento – da 198 a 276 – tra il 2010 e il 2011. La litania del dolore potrebbe diffondersi. In Iran decine di cristiani sono stati arrestati e imprigionati per aver osato pregare fuori dal sistema di chiese ufficialmente sancito. L’Arabia Saudita, intanto, merita un posto tutto suo.

Nonostante vi abitino un milione di cristiani come lavoratori stranieri, le chiese e anche gli atti privati di preghiera cristiana sono vietati; per far ri-

spettare queste restrizioni totalitarie, la polizia religiosa esegue regolarmente raid nelle case di cristiani e li accusa di blasfemia in tribunali dove la loro testimonianza ha meno peso legale di quella di un musulmano. Anche in Etiopia, dove i cristiani sono la maggioranza della popolazione, gli incendi alle chiese da parte di membri della minoranza musulmana sono diventati un grande problema. Come ha sottolineato Nina Shea, direttore del Centro per la libertà religiosa dell’Hudson Institute, in un’intervista a Newsweek, le minoranze cristiane in molti paesi a maggioranza musulmana hanno «perso la protezione delle loro società». Questo vale soprattutto in paesi con movimenti islamisti radicali (salafisti) in crescita. In questi paesi, i cittadini spesso pensano di poter agire con impunità – e l’inazione del governo spesso dimostra che hanno ragione. La vecchia idea dei turchi ottomani secondo cui i non-musulmani nelle società musulmane meritano protezione (anche se come cittadini di seconda classe) è tutt’altro che svanita nel mondo arabo, e sempre più spesso il risultato sono spargimenti di sangue e repressioni.

Quindi torniamo diretti alle nostre priorità. Sì, i governi occidentali dovrebbero proteggere le minoranze musulmane dall’intolleranza. E di certo dovremmo assicurare che possano pregare, vivere e lavorare liberamente senza timore. È la protezione della libertà di coscienza e di parola che distingue le società libere da quelle non libere. Ma anche noi dobbiamo mantenere lo sguardo sulla portata e sulla gravità dell’intolleranza. I cartoni animati, i film, gli scritti sono una cosa; armi, coltelli e granate sono qualcosa di assolutamente diverso. Per quanto riguarda quello che l’Occidente può fare per aiutare le minoranze religiose nelle società a maggioranza musulmana, la mia risposta è che occorre che cominci ad usare i miliardi di dollari in aiuti che fornisce ai paesi oltraggiosi come leva. Poi c’è il commercio e ci sono gli investimenti. A parte una pressione diplomatica, questi rapporti commerciali possono e dovrebbero essere condizionati dalla protezione della libertà di coscienza e di culto per tutti i cittadini. Invece di farci prendere da racconti pomposi sull’islamofobia occidentale, facciamo qualcosa di concreto contro la cristianofobia che sta infettando il mondo musulmano. La tolleranza è per tutti, tranne che per gli intolleranti.


la strage di Tolosa

pagina 10 • 22 marzo 2012

Il presidente Sarkozy: «Era pronto ad uccidere ancora»

«Ho vendicato i bambini palestinesi» Scovato il Terminator di Francia: è il 24enne Mohammed Merah. Si proclama militante di al Qaeda di Luisa Arezzo o voglio vivo» aveva detto Nicholas Sarkozy appena cominciato il blitz notturno al numero 17 di via Sergent Vignè, in un quartiere residenziale di Tolosa, non lontano dalla scuola ebraica teatro dell’ultima strage. Ma il terminator di Tolosa, come lo chiamavano gli inquirenti d’Oltralpe prima che avesse un nome e cognome - Mohammed Merah - non ne ha voluto sape-

«L

nesi» vittime della repressione israeliana e per «punire» l’esercito di Parigi per i suoi interventi all’estero e soprattutto in Afghanistan, si è vantato di «avere messo la Francia in ginocchio», si è rammaricato di «non aver potuto uccidere di più» e si è detto deluso di «non avere avuto il tempo di mettere in rete il video della strage» compiuta alla scuola ebraica di Tolosa. Il tutto mentre una miriade di siti jihadisti si attivava

L’operazione è scattata ieri intorno alle 2 di notte al numero 17 della via Sergent Vignè, in un quartiere residenziale di Tolosa, non lontano dalla scuola ebraica dove c’è stata la strage re di arrendersi facilmente. «Avrebbe colpito ancora» ha detto il capo dell’Eliseo da Tolosa prima di rientrare a Parigi. E avrebbe colpito proprio il 21 marzo, seguendo il suo macabro e implacabile timing: uccidere ogni quattro giorni. Probabilmente un altro militare e due poliziotti. Proprio questa paura aveva indotto il ministro degli Interni, Gueant, dal giorno della strage alla scuola ebraica, ad innalzare il livello d’allerta a “scarlatto”, il grado più alto di pericolo in territorio francese. Una scelta “azzeccata”, vista la velocità con cui il giovane militante di al Qaeda è stato individuato.

Ma che purtroppo si è anche trasformata in una vetrina mediatica per quest’ultimo. Che da dietro la porta di casa sua ha rivelato di aver ucciso per «vendicare i bambini palesti-

osannando la sua resistenza, prendendolo ad esempio e pregando Allah di proteggere «il nostro fratello e di dargli la forza di respingere gli attacchi».

Un successo che Mohammed Merah, oggi ventiquattrenne, non meritava. Era un bambino quando arrivò in Francia dall’Algeria, il suo paese natale, assieme ai suoi quattro fratelli. Da adolescente aveva avuto alcune sporadiche esperienze lavorative a Tolosa, lavorando fra i 16 ed i 17 anni in una carrozzeria, per poi far perdere le sue tracce e trasferirsi prima in Pakistan e poi in Afghanistan. Qui sarebbe entrato in contatto con ambienti salafiti e jiahdisti fino ad arrivare a proclamarsi un militante di al Qaeda. E qui la vicenda si complica: secondo il direttore del penitenziario di Kandahar, Mohammed Merah sarebbe

«La lotta a questo tipo di crimini è cambiata. Ed è molto difficile»

«Questo è il primo caso di web-terrorismo»

«Sono cellule impazzite, difficili da controllare perché agiscono in solitudine», dice il generale Camporini l blitz e l’assedio al killer di Tolosa ha riportato alla ribalta la realtà delle cellule qaediste in Europa. Cellule individuali, i cosiddetti “lupi solitari”, che sfuggono alla caccia dell’intelligence per la loro imprevedibilità. Mohammed Merah, però, si era formato in Afghanistan e Pakistan, ed era noto all’unità antiterrorismo d’Oltralpe. Che tuttavia lo aveva sottovalutato. Abbiamo chiesto al generale Camporini di aiutarci a capire come ha fatto a sfuggire agli investigatori e a diventare un terrorista spietato. Generale, benché sia ancora un giallo la formazione qaedista di Mohammed Merah, un dato sembra essere certo. Il ragazzo si è formato in Afghanistan e Pakistan. Due realtà che lei conosce benissimo. Sì, e non c’è dubbio che laddove si consentano o favoriscano aggregazioni di personaggi in qualche modo ideologizzati, si creino automaticamente e naturalmente delle cellule di formazione. È da qualche anno, e dopo la morte di

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Osama bin laden in particolare, che al Qaeda non è più una rete centralizzata o piramidale, ma piuttosto composta da una miriade di cellule, a volte anche solitarie, che lavorano in modo indipendente. Assolutamente indipendente. Si è parlato di franchising, un concetto assolutamente corretto. C’è un marchio, in questo caso al Qaeda, e chiunque voglia richiamarsi ad azioni violente o di protesta di matrice terroristica ha un modello a cui far riferimento, anche in assenza di un contatto diretto. Ecco il motivo per cui siamo davanti ad un’organizzazione non reticolare, ma a una miriade di cellule che riconoscono il proprio agire secondo i dettami di un’idelogia terroristica. Dove sono i principali campi di addestramento? Non è indispensabile avere uno specifico addestramento particolarmente sofisticato. Spesso alcuni agiscono in base ad informazioni raccolte qua e là, soprattutto via internet, ma non in base a una formazione ad hoc. Ha citato giustamente Internet. Nell’arco

Siamo passati dai video nelle grotte di bin Laden alla catena di messaggi in Rete


la strage di Tolosa A Radio3 Rai poesie di straneri in tutti i programmi

Catene umane contro il razzismo Roma si sono presi per mano e hanno “circondato”il Colosseo a centinaia. Stessa cosa hanno fatto i giovani di altre 34 città italiane: catene umane dappertutto per celebrare la Giornata mondiale contro il razzismo. A promuovere le mobilitazioni è stato l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. «L’organizzazione ha fatto un grandissimo lavoro, il coinvolgimento dei ragazzi è decisivo», ha commentato il ministro Riccardi, «dobbiamo stare attenti anche alla violenza del linguaggio, il razzismo inizia con le parole per poi arrivare ai fatti». Ma proprio con le parole, con quelle della poesia, è arrivato ieri un segnale da Radio3 Rai, che ieri ha messo nella sua programmazione Un giorno diVerso, una lettura di poesie in lingua originale proposta in ciascuna delle trasmissioni da un intellettuale, scrittore o artista straniero. «Una piccola babele di sonorità a dimostrazione che il linguaggio della poesia può superare barriere linguistiche e culturali», spiega il direttore della Rete Marino Sinibaldi. Un’iniziativa che segue altre già rivolte in questi mesi da Radio3 al confronto tra culture.

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Sopra, la polizia assedia l’edificio dove è rifugiato il killer, Mohammed Merah, evaso dalla prigione di Kandahar (a fianco). A sinistra, il generale Vincenzo Camporini di pochi anni i qaedisti sono passati dai video amatoriali realizzati in una grotta, ad una catena di messaggi. E sono mutati anche i canali di trasmissione delle informazioni: dalle tv satellitari si è passati ai siti internet. Hanno imparato ad usare molto bene internet, così come hanno imparato ad usare milioni di persone, e hanno finalizzato l’uso della rete ai loro scopi terroristici. Magari immaginati individualmente e poi diventati collettivi grazie alla realtà virtuale. Ogni crisi regionale - Palestina, Cecenia, Sudan, solo per fare degli esempi - è diventata un traino ideologico impiegato dai qaedisti. Nella loro narrazione la responsabilità è solo da un parte. Insomma, i seguaci di Osama hanno inventato la scuola coranica globale dove viene svolto l’indottrinamento virtuale. E in effetti il killer di Tolosa ha rivendicato l’attentato alla scuola ebraica come un gesto utile a vendicare i bambini palestinesi. Assolutamente sì. Anche perché non c’è un legame diretto fra la realtà palestinese ed al Qaeda. Se uno va a leggere i vari proclami e i vari testi che costruiscono l’ideologia di Osama, capisce che il conflitto israeliano-palestinese non è certo in primo piano. Il posto d’onore ce l’ha la costruzione di un califfato globale. Un sogno destinato a fallire che però ha ispirato ed ispira tutta una serie di azioni violente. I governi occidentali temono moltissimo i

terroristi “home growing”, nati in casa. Sono quelli più difficili da rintracciare. Dalla Gran Bretagna alla Spagna e alla Francia: come si fa a rintracciarli? Non c’è dubbio che queste cellule siano le più pericolose, perché mentre esistono delle tecniche per l’analisi delle reti criminali e terroristiche in base ai flussi finanziari e agli spostamenti, il cane sciolto è difficile da individuare ed identificare prima che compia il suo gesto folle. Questo fa sì che lo si scovi dopo, quando è ormai troppo tardi. L’intelligence europea ha portato a casa molti successi in questi anni, dimostrando grande capacità operativa. Purtroppo ogni tanto qualche cellula sfugge alle investigazioni.Generale, secondo lei quanto inciderà questo episodio sulle elezioni francesi? Non c’è dubbio che il successo dell’operazione di polizia, benché a valle di eventi così tragici, gioca sempre a favore di chi è al governo che può mostrarlo come una vittoria. Quindi può essere utile a Sarkozy. Ci sono però degli elementi da considerare: come si comporterà questo signore visto che potrà contare su un megafono virtuale per proclamare la propria ideologia? La gestione dell’uomo catturato sarà una cosa abbastanza delicata. Sta dicendo che Sarkozy avrebbe dovuto volerlo morto? Io questo non l’ho detto... (l.a.)

fuggito dal suo carcere nel 2008 assieme a un migliaio di talebani. Senza dunque scontare la pena di tre anni che gli era stata comminata per aver collaborato a degli attentati nella cittadina afghana. Secondo un inviato di Le Figaro questa notizia sarebbe invece falsa, o meglio, un caso di pura omonimia. In ogni caso, fuggitivo o meno, quel viaggio è stato capace di trasformare il giovane simpatizzante in una cellula terrorista. Secondo il sito on-line del settimanale

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pre ieri hanno detto di seguire da anni Mohamed Merah, ma di aver finora ritenuto che il suo gruppo radicale di ispirazione salafita non costituisse una minaccia immediata.

Il killer di Montauban e Tolosa è stato identificato dalla polizia grazie alle informazioni del suo scooter T-Max che sono state rivelate dal rivenditore Yamaha di Tolosa. “Terminator”, dopo aver fatto modificare la carrozzeria della moto trasformandola da scura in chiara, bianca per l’esattezza, aveva infatti chiesto a un lavoratore del concessionario come disattivare il “tracker” Gps dello scooter, un piccolo dispositivo elettronico utile a localizzare il mezzo in caso di furto. Informazione che la concessionaria si era però rifiutata di dare. «Il sospetto era un cliente occasionale della nostra concessionaria da qualche anno», ha detto Christian Dellacherie, direttore dell’autosalone, aggiungendo: «Veniva dall’età di 14 anni, quando circolava su uno scooter 50». Da lì all’identificazione il passo è stato breve. Alla concessionaria si è arrivati dopo la morte del parà Imad Ibn Ziaten, 30 anni, vittima del primo attentato, che aveva risposto all’inserzione per la vendita di una moto. Da lì si sarebbe risaliti a un indirizzo ip che corrispondeva al pc del fratello di Merah. Il resto è venuto a galla nell’arco di 48 ore. Il killer, ha detto ieri il ministro degli Interni Gueant «ha agganci con persone che si reclamano salafiste e jiadihiste», ed era conosciuto alla polizia di Tolosa per «qualche decina di crimini (in totale 24), alcuni violenti».

Le comunità musulmane ed ebraiche hanno lanciato un appello a «non confondere» l’islam con l’islamismo, ma la marcia di solidarietà tra ebrei e musulmani in calendario a Parigi è stata annullata Le Point - che cita fonti anonime ma informate sulle indagini - due anni fa Merah, pur professandosi un mujaheddin legato ad al-Qaeda, avrebbe cercato di arruolarsi nella Legione Straniera, venendone però espulso il giorno prima della ferma di prova. A quel punto avrebbe effettuato due viaggi nelle aree tribali semiautonome del Pakistan nordoccidentale, la roccaforte dei talebani limitrofa alla frontiera con l’Afghanistan. Un ambiente già conosciuto e frequentato da uno dei suoi fratelli, arrestato ieri mattina durante il blitz delle teste di cuoio assieme alla madre e alla fidanzata e nella cui macchina sono stati trovati degli esplosivi. Un andirivieni decisamente sospetto, che certo cozza non poco con la dichiarazione dei servizi di controspionaggio francesi che sem-

L’operazione è scattata intorno alle 2 di notte di ieri al numero 17 della via Sergent Vignè, in un quartiere residenziale di Tolosa, non lontano dalla scuola ebraica dove c’è stata la strage. Ai vicini è stato chiesto di restare chiusi in casa, mentre un cordone di sicurezza veniva fissato intorno al luogo delle operazioni e il gas veniva tagliato per sconguirare delle esplosioni. L’auto di Merah, localizzata in nottata, è stata “messa in sicurezza” con un’esplosione controllata verso le 9. Ed era piena di armi. Nonostante le richieste della madre e ovviamente del mediatore delle Forze speciali, Mohammed si è asserragliato nel suo appartamento pieno di armi, tra cui un kalashnikov e una mitraglietta Uzi. Tutto questo mentre a Gersulamme si tenevano i funerali delle vittime della scuola Ozar Hatorah.


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la strage di Tolosa

La nuova geografia dei seguaci di Osama bin Laden

Atlante dei qaedisti solitari

C’è un filo che lega Tolosa a Brescia, Damasco a Baghdad e Sana’a a Kabul. È la nuova rete di “cani sciolti” che si alimentano dell’ideologia islamista. E che sono difficili da trovare... di Antonio Picasso olosa, Brescia, Damasco, Baghdad. Ma anche il Maghreb, la Nigeria, in parte la Somalia e lo Yemen. Infine, ovviamente, l’Afghanistan. L’atlante del terrore qaedista sembra aver ritrovato una collocazione geografica ben definita. Enorme, purtroppo per noi, ma comunque localizzabile. Ritrovato perché, negli ultimi mesi, di al-Qaeda si era parlato poco. Vuoi per la morte di Osama bin Laden, e quindi la ricollocazione dell’organizzazione sullo scenario internazionale. Vuoi perché le rivolte della primavera araba sono apparse prioritarie alle cancellerie di tutto il mondo. Vuoi soprattutto perché la crisi finanziaria globale porta i governi a concentrarsi su altre questioni. Quindi a rivedere al ribasso le risorse per i settori difesa e sicurezza. Certo, non è con i soldi alle barbe finte che si risolve il problema delle pensioni. Tuttavia, la banalità della “via di mezzo” ha una ragion d’essere. Oggi al-Qaeda sta tornando a far parlare di sé. A dircelo sono i fatti più recenti. Non è un caso che abbia scelto questa congiuntura di scarsa attenzione e debolezza finanziaria. Il lascito di bin Laden, agire quando e dove il nemico meno se lo aspetta, resta valido ed evidentemente è stato ben appreso dagli eredi. Il massacro di Tolosa viene attribuito a un membro della rete jihadista. Stesso discorso per il caso bresciano. L’unica differenza sta nel macabro successo

T

del primo e nel fallimento del secondo. Il marocchino che ha cercato di colpire la sinagoga di via Guastalla a Milano è stato bloccato grazie all’efficienza delle nostre agenzie di sicurezza. Un’indagine lunga sette anni, che è valsa il risultato.

È doloroso non poter dire la stessa cosa della storia francese. Paradossale come il governo di Parigi non abbia ancora messo mano all’apparato di sicurezza nazionale, limitan-

done il budget, e invece Roma sì. Evidentemente non si tratta solo di una questione d’argent de poche, ma anche di intuizione e conoscenza del nemico. Tuttavia, non c’è un’al-Qaeda in Europa. O meglio, siamo lontani dal poter parlare di una succursale continentale o nazionale, com’è invece per i casi yemenita e maghrebino. I jihadisti del Vecchio continente sono spinti all’azione da input ideologici e metodi di proselitismo del tutto differenti rispetto ai Paesi dove la maggioranza della popolazione è musulmana. Da noi è il web a far da padrone. Non ci sono Mullah o Imam estremisti che indottrinano i potenziali discepoli nelle moschee il venerdì. Né tanto meno abbiamo a che fare con autoritari leader armati che – alla stregua del mullah Omar in Af-

ghanistan – sfoggiano vistose ferite delle guerre passate. I jihadisti europei ce li dobbiamo immaginare come nerd fanatici di internet, magari poco inclini ai rapporti sociali, ma abili con il mouse. Sanno dove andare a recuperare le giuste informazioni ideologiche e pratiche. Sono in contatto con i propri confratelli: chattano con loro, ma non si incontrano mai. Li chiamano lupi solitari. La scorsa settimana il parlamento ha ricevuto la relazione 2011 sulla politica dell’informazione per la sicurezza. Come attesta il documento il caso bresciano è un classico. Un immigrato dal Marocco,

GRAN BRETAGNA Le cellule home growing (nate in patria) di al Qaeda sono la principale preoccupazione dell’intelligence di Sua Maestà per le imminenti Olimpiadi. L’attentato più grave finora subito risale a 7 anni fa, quando 4 kamikaze si fecero saltare nella metro e su un bus a Londra, provocando 52 morti

FRANCIA È il paese con la più grande comunità musulmana d’Europa (oltre 5 milioni) ed ha subito numerosi attentati. Una legge permette alla polizia di entrare in ogni moschea ed espellere gli imam che predicano o sostengono il Jihad, come l’algerino Aissaoui. Dal 2002 ha espulso oltre 10 imam

SPAGNA Il paese iberico è uno dei luoghi maggiormente a rischio per le infiltrazioni jihadiste targate Al Qaeda. Soprattutto di Al Aqmi. Dopo la strage di Madrid nel 2004, a destare particolare apprensione sono Ceuta e Melilla, le enclavi di Madrid in territorio marocchino

anch’egli ventenne, pianificava un attentato alla sinagoga di Milano. Il suo è un jihadismo auto didatta. Pericoloso perché difficile da rintracciare, deleterio per l’immagine dell’intera comunità straniera che vive a Brescia. E non è piccola. Il suo è un terrorismo che si insinua silenzioso e mette in discussione gli equilibri psico-

cietà nella quale sperava di rivalutare la propria esistenza. L’altro è chi invece di questa società ha saputo succhiare il midollo in tutte le sue forme. È stato così anche Bin Laden: arabo di nascita, con un’istruzione nei college più esclusivi della campagna inglese, poi una reazione di rifiuto a tutto il suo passato. Un altro esempio è

I jihadisti europei ce li dobbiamo immaginare come nerd fanatici di internet, magari poco inclini ai rapporti sociali, ma abili con il mouse. Lupi solitari in contatto con i propri confratelli. Ma solo via chat logici di un intero Paese. Spesso si tratta di esempi di mancata integrazione. Giovani appena sbarcati dalle loro terre lontane, vittime di uno sfruttamento economico dei flussi migratori, oppure elementi apparentemente inseriti nelle nostre società.

Ricordiamoci, in tal senso, gli attentatori di Londra del luglio 2005: tutti di origine giordana, ma tutti fedeli sudditi di Sua Maestà britannica. Entrambi sono esempi estremi. L’ultimo sbarcato sulle coste europee del Mediterraneo rigetta la so-

stato quello di Umar Faruk Abdulmutallab, cittadino nigeriano che, alla fine del 2009, si è imbarcato su un volo della della Delta-Northwest Airlines, che copriva la tratta tra Amsterdam-Detroit. Quando l’aereo era già alto nei cieli del Nord degli Stati Uniti, ha tentato di far esplodere una bomba che aveva ingerito. Il ragazzo, 23enne, non aveva nulla del musulmano estremista, ma tutto del potenziale terrorista. Giovane, agile nell’apprendere dal web come si fabbrica in casa un ordigno che poi si indossa, o addirittura si ingoia. Era


la strage di Tolosa PAESI BASSI Il radicalismo islamico nei Paesi Bassi è soprattutto di origine nordafricana e l’intelligence lo considera pericolosissimo. Dopo l’arresto di Mohammed Bouyeri, il killer olandesemarocchino di Theo Van Gogh, la polizia ha scoperto l’Hofstad network, che “controlla” tutte le cellule qaediste in Olanda e Belgio

GERMANIA Il paese conta la seconda comunità musulmana della Ue, in gran parte di origine turca. Le cellule di al qaeda si sono introdotte in terra tedesca sotto la veste di rifugiati. Molto attiva la “cellula di Amburgo”, coinvolta anche nella strage dell’11/9. Pochi mesi fa è stato sventato un attentato al Reichstag

ITALIA Pochi mesi fa, l’ex ministro degli Interni Roberto Maroni denunciò la presenza di cellule di al Qaeda che «si formano, si finanziano e si addestrano per fare attentati» nel Belpaese. Finora ci sono stati diversi arresti, soprattutto nel nord italia. Nel 2009 il libico Mohammed Game si fece saltare in aria nella caserma Santa Barbara a Milano

A sinistra, Umar Farouk Abdulmutallab, il terrorista nigeriano che il 25/12/2009 ha tentato di far esplodere il volo 253 da Amsterdam a Detroit. A destra, la sinagoga di via Guastalla a Milano. Nella pagina a fianco, un talebano pronto a colpire uno studente di ingegneria. Con la sua aria da bravo ragazzo, Umar ha quasi ucciso 278 persone che erano a bordo con lui. L’attentato è fallito solo perché alcuni passeggeri si sono accorti che qualcosa, in quel giovane, non andava. È di appena un mese fa la sentenza all’ergastolo per tentata strage, da parte di un tribunale Usa. Nel report dell’intelligence italiana, lo chiamano “lupo solitario”, vale a dire un personaggio che agisce autonomamente e compie un percorso di auto-radicalizzazione frequentando i siti web ad hoc. L’agire da solo

permette all’individuo di muoversi senza richiamare attenzione. Spesso si sposta in Europa, per incontrare adepti come lui, ma nella maniera più discreta possibile. Oppure torna in madrepatria, con lo scopo ufficiale di ricongiungersi temporaneamente con la famiglia. Come si legge nel documento, «il ruolo di internet è cruciale, per la diffusione di ideologie estremiste, atte a favorire processi di radicalizzazione e per il consolidamento di reti relazionali nell’ambito di indottrinamento, propaganda e proselitismo». Meglio di una mo-

schea, quindi. Più asettico, più veloce. E ancora: «Per terrorista lone wolf, si intende un soggetto che pianifica e si attiva autonomamente, a differenza del solo terrorist, che agisce parimenti in qualità di individuo, ma riceve l’input organizzativo e logistico, da un gruppo o rete terroristica.

A volte il terrorista solitario interagisce con altri individui, costituendo il cosiddetto lone wolf pack, ovvero una microcellula autonoma». Domanda provocatoria: bisogna aver paura dalla pelle scura che si

siede a fianco a noi in metropolitana e legge con trasporto il Corano? Assolutamente no! Se lo facessimo, non faremmo altro che dare ossigeno proprio ad al-Qaeda, il cui obiettivo è incrementare l’odio, il razzismo e quindi il caos. Basta un catino di mare come il Mediterraneo per stravolgere questo sistema. Dal Nord Africa fino alle lontane vallate devastate dall’Af-Pak war, al-Qaeda sente il bisogno del contatto fisico con i propri adepti. La tecnologia è presente sì, ma non ha un valore prioritario. Questo anche perché il contesto socioeconomico non concede una disponibilità di strumenti equamente distribuita come in Europa. Non tutti i giovani arabi o nordafricani o ancora pakistani hanno il loro Pc a casa, dal quale navigare e ricevere informazioni. E gli internet point non sono il posto più agevole dove operare. Il fatto di avere inoltre dei fronti di guerra aperti permette ai jihadisti di confondersi con i mujaheddin, oppure con gruppi combattenti locali. In questi casi, scatta la molla della manipolazione delle cause regionali. Vedi gli Shabab in Somalia, ma soprattutto i talebani in Afgha-

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nistan. Sono jihadisti? Il califfato di al-Qaeda è lontani anni luce dalla loro ristretta visione della guerra che stanno combattendo. Eppure facevano comodo a bin Laden e sono altrettanto strumentalizzati da Ayman al-Zawahiri.

Accade lo stesso in Siria e in Iraq proprio in questi giorni. Appena ieri il “Fronte al-Nusra per la Protezione del Levante” ha rivendicato gli attentati suicidi che sabato scorso hanno fatto almeno 27 morti e un centinaio di feriti a Damasco. In un comunicato diffuso sui forum vicini ad al-Qaeda, il gruppo jihadista – ma forse sarebbe più appropriato definirlo salafita – afferma di aver colpito per vendicare il massacro di sunniti compiuto dal regime di Bashar al-Assad, esponente della minoranza alawita. La voce di un combattente, Abu Al-Baraa Al-Shami, ha invitato tutti i siriani a prendere parte alla guerra santa: «Fratelli, alzatevi, non aspettate. Ora il jihad è nel vostro Paese. Non c’è bisogno di aspettare una fatwa». C’è da credere che gli attentatori fossero jihadisti? È altrettanto plausibile che al-Qaeda abbia dato il La. Poi chi abbia agito non importa. E che dire dello “Stato Islamico dell’Iraq”, padre della raffica di attentati che martedì ha sconvolto il Paese, provocando oltre 50 morti? È l’erede di quella al-Qaeda in Mesopotamia che, a suo tempo, faceva a pezzi il contingente Usa? I terroristi hanno affermato di aver agito in vista del summit della Lega Araba previsto a Baghdad per il 29 marzo. «I leoni sunniti dello Stato Islamico dell’Iraq hanno compiuto attacchi simultanei contro i piani di sicurezza delle autorità per il vertice dei tiranni arabi», si legge in un messaggio datato 20 marzo e pubblicato sul forum jihadista Honein. Intanto Baghdad e Damasco sono blindate. Così che la tensione collettiva resta alta, il potere costituito non raccoglie consensi e i gruppi destabilizzanti ricevono l’implicito appoggio di chi vede nell’instabilità il risultato della longa manus occidentale. In Siria e Iraq l’operatività e la comunicazione sono fedeli alle regole dettate in ogni dove nel Dahr al-Islam e da questo al Dar al-Harb, vale a dire il mondo non musulmano. I gruppi “al-Qaeda in Yemen” e il suo omonimo nel Maghreb – citati per completezza conclusiva – seguono pedissequamente quella che ormai è diventata una dottrina. L’obiettivo è comune a tutti: il Califfato. Ovvero quel gigantesco regno fondato su un’interpretazione del tutto errata del Corano, per cui chi è infedele (cristiano, ebreo, sciita o alawita) altro non merita che la morte.


spettacoli

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Appello perché al film antiabortista di Delphine e Muriel Coulin, da domaniì sui nostri schermi, sia tolto il divieto ai minori di 14 anni

17 ragazze contro La storia vera di un gruppo di adolescenti che sceglie, sfidando le convenzioni, di avere un figlio di Anselma Dell’Olio n film su un gruppo di adolescenti incinte, che nonostante le pressioni rifiuta di abortire sarà vietato ai minori di 14 anni. Per ironia della sorte, è successo proprio l’8 marzo, la Festa delle donne che hanno poco da festeggiare, visto il numero di aborti selettivi ai danni di chi ha la sventura di essere concepita femmina in India, in Cina e in molti Paesi dell’Asia e altrove. 17 ragazze, in sala da domani, è della Teodora film, nota per la qualità. Il film era nella Settimana della critica a Cannes, e a Torino ha vinto il Premio Speciale della Giuria. La censura è stata decisa per “pericolo di emulazione”di comportamenti trasgressivi, come il fumo e la guida spericolata in “condizioni di salute particolari”. Le registe - due sorelle dichiarano: «Abbiamo fatto proiezioni del film in 20 Paesi, dall’India agli Usa, e non abbiamo mai avuto problemi. Gli adolescenti hanno discusso con passione, con reazioni costruttive ovunque». I nostri adolescenti non crescono sotto campane di vetro. Sono esposti da piccoli a programmi tv triviali, commedie scollacciate, polizieschi con sangue e morti ammazzati. Hanno fratelli e sorelle maggiori e le droghe leggere circolano a scuola e in casa. Ma al centro di 17 ragazze non sono i banali comportamenti che qualuque minore di 14 anni può osservare intorno a sé, ma l’attesa di 17 fi-

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ed è spesso fuori casa per i fatti suoi. Camille prepara da mangiare ma finisce per essere sola a tavola. Il fratello fa il militare in Afghanistan, come molti maschi del posto. Si sente sola, ed è in età di ribellione. La madre è furiosa per la gravidanza. Insiste perché la figlia «se ne liberi», e fa la nota litania delle conseguenze negative. Dovrà abbandonare gli studi e i sogni per il futuro, sarà attaccata al chiodo per i prossimi diciotto anni, non sarà più padrona del suo tempo. Camille è ben informata: sa che per legge i genitori non possono obbligarla ad abortire. È così felice di fantasticare sulla nuova vita che l’aspetta - i sussidi sociali le permetteranno di mantenersi che anche le altre amiche si convincono della bontà di imitarla. La prima a confessare di essere in attesa anche lei è Florence, una studentessa troppo bisognosa d’affetto per essere accettata dal gruppo.Trova - provvisoriamente - la chiave d’ingresso quando racconta a Camille d’aver fatto come lei. Le altre vogliono partecipare all’avventura, e durante una festa tra ragazzi, si mettono “all’opera”. Curiosamente i ragazzi non sono predatori: uno chiede se la ragazza è sicura di andare avanti. «Puoi cambiare idea

La censura è stata decisa per pericolo di “emulazione di comportamenti trasgressivi”, spesso assai più evidenti in bombardamenti mediatici normalmente tollerati gli fatti con intenzione, spericolata ma consapevole, come espressione di libertà, di libero arbitrio, con desiderio. Si vieta proprio a chi dovrebbe vederlo un episodio successo davvero a Gloucester nel Massachusetts nel 2008.

Le registe debuttanti, Delphine e Muriel Coulin, ambientano la storia a Lorient, cittadina marinara una volta con fiorente industria ittica e ora in declino, proprio come Gloucester. Camille (Louise Grinberg) è la capa di un clan di amiche di estrazione sociale medio-bassa, la più colpita dalla disoccupazione. Hanno dimore semplici e dignitose e i pasti sono regolari, ma magari mancano i soldi per il cinema e un futuro. La storia inizia con l’anno scolastico. Le ragazze sono nel corridoio in indumenti intimi (immagini stupende e pudiche) in attesa della visita medica di routine. Alla fine Camille dice all’infermiera: «Credo di essere incinta». Il test di gravidanza accerta che è di due mesi. Dopo il primo sconcerto, Camille sente che questo bambino è la sola cosa tutta sua, e lei lo vuole. La madre (Florence Thomassin) fa l’infermiera di notte,

Le protagoniste del film “17 ragazze” delle sorelle Delphine e Muriel Coulin. Al loro debutto da registe, hanno ambientato un episodio realmente accaduto a Gloucester nel Massachusetts nel 2008, nella cittadina francese di Lorient. In basso a destra, Ellen Page, la protagonista del film “Juno”

Da “Juno” a “Vita segreta di una teenager americana”

Giovani mamme senza se e senza ma Altri casi cinematografici di maternità accettate anche in condizioni estreme di Gloria Piccioni i storie di donne abbandonate coi loro neonati o nascituri è piena la letteratura ed è anche costellata la cinematografia del passato. È che nel presente relativista dove si disquisisce molto sui se, i quando e i come della maternità, i film in cui le gravidanze impreviste e problematiche sono accettate con coraggio se non con felicità finiscono col diventare un caso. Il primo a sorprenderci nel 2008 (anno d’uscita nelle sale italiane) è stato Juno, convincente, originale e delicato film antiabortista con una perfetta Ellen Page nei panni della protagonista quindicenne che resta incinta alla sua prima esperienza sessuale con il timido Paulie, compagno di scuola che da sempre le fa il filo. Sceneggiato dall’anticonformista Diablo Cody e diretto dal figlio d’arte Jason Reitman (il cui padre, Ivan, ha firmato la regia di

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Ghostbusters), ha avuto significativi riconoscimenti: l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, svariate nomination anche ai Golden Globe e il premio Marco Aurelio come miglior film al Festival di Roma. Il modo in cui Juno porta avanti, dopo una iniziale indecisione, la sua gravidanza, determinato seppur a tratti emotivamente difficile, la convinzione di voler trovare la famiglia giusta per l’adozione del suo “fagiolino”, la solidarietà dei suoi familiari, dell’amica del cuore, del padreragazzo che si sottomette amorevole a ogni sua decisione, la capacità di trovare in questa esperienza un filo d’Arianna per seguire una via nel labirino della crescita, sono profondamente commoventi. Come madre adottiva, ho desiderato che un giorno mio figlio potesse individuare in questa “commedia” di vita un tratto della sua verità. Il sentimento della commozione,


spettacoli

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se vuoi». Ma sono determinate. Vanno in riva al mare a sognare il futuro. Se mettono insieme gli assegni del welfare, potranno affittare una grande casa dove condividere tutto. Non intendono interrompere gi studi. Ragionano: faranno a turno i mestieri seccanti, come pulire, lavare, stirare, cucinare. E faranno a turno le babysitter quando ci sono le interrogazioni in classe. Una di loro che non ha aderito al progetto chiede se anche lei potrà partecipare a questa “comune hippie” onirica.

Le ragazze non sono santarelline: bevono alcolici e fumano spinelli anche quando sono incinte. Davvero la commissione censura teme “il cattivo esempio” delle adolescenti nel film? Ma le giovani registe non militano e non condannano: sono equanime. Rimostranze e preoccupazioni di genitori e professori sono esposte con la stessa partecipazione dei sogni fanciulleschi. E la conclusione del film non nasconde che i loro progetti più utopici non si sono realizzati. È demenziale che i minorenni possano vedere violenze, brutalità e scemenze d’ogni sorta quando vogliono, ma si nega loro la possibilità di informarsi e riflettere su qualcosa di assai importante che potrebbe riguardarli nel prossimo futuro, e sulle decisioni anomale, anticonformiste di un pugno di teenager. Certo, la ribellione adolescenziale crea

anche se con toni più duri ed estremi, non abbandona lo spettatore di Precious (2009, diretto da Lee Daniels), basato sul romanzo di Sapphire Push - La storia di Precious Jones. La protagonista, adolescente obesa e semianalfabeta (Gabourey Sidibe, Oscar come miglior attrice protagonista) che vive in povertà ad Harlem negli anni Ottanta, subendo i maltrattamenti della madre e l’abuso del padre che la mette incinta di una bambina che nasce con la sindrome di Down, resta incinta una seconda volta e per questo viene allontanata dalla scuola. Ma con l’aiuto della direttrice troverà la sua occasione di riscatto e potrà affrontare una vita più umana e felice. A differenza di Juno, il tratto principale del film non è rinunciare o meno a una gravidanza, che verosimilmente viene accettata anche con rassegnazione, tuttavia si percepisce nella volontà di riscatto di Precious, che vediamo spesso arrancare col suo fagottino in braccio, il desiderio di trasmettere alla sua progenie qualcosa di meglio. Nel 2000 fu Natalie Portman, oggi

celebre Cigno nero, a dar vita sullo schermo (diretta da Matt Williams in Where the Heart is, Qui dove batte il cuore) al personaggio di Novalee Nation, una giovane di origini modeste con un doloroso passato, già abbandonata dalla madre a soli cinque anni e, incinta di sette mesi, anche dal fidanzato in un centro commerciale. Non sapendo dove andare, si rifugia nel supermercato dove vivrà fino al momento del parto. In seguito trova accoglienza da una suora e l’amicizia dell’infermiera Lexie (madre di cinque figli avuti da tutti uomini diversi) l’aiuterà a rifarsi una vita, fino ad accettare l’amore del bibliotecario Forney che l’aveva aiutata a partorire. Anche le serie tv non trascurano il tema delle gravidanze precoci: Vita segreta di una teenager americana, creata da Brenda Hampton e trasmessa in Italia dal canale di Sky Fox (la quarta stagione è del 2011), narra le vicende della gravidanza di Amy Juergens e delle ripercussioni provocate sulla sua vita dalla nascita del bambino. Segno che qualcosa è cambiato?

Anche nella volontà di riscatto di “Precious” è palpabile l’amore per la propria creatura

Riflettere, come in altri Paesi è stato possibile fare, su una scelta spericolata ma coraggiosa sarebbe un’opportunità educativa identificazione, data l’insofferenza classica dei ragazzi contro regole, regolette, divieti e rompimenti vari dei genitori, giusti e ingiusti. Sentirebbero ragazze dell’età delle sorelle maggiori giubilare perché saranno più vicine ai loro figli per età, più fratelli che genitori, e quindi li comprenderanno meglio, sapranno essergli vicini senza tediarli. Incombe il “dopo”, però. Quando il fratello di Camille chiede «Allora cosa aspetti? Una piccola disoccupata o un soldatino?», il significato è chiarissimo: il futuro non è roseo. Sarebbe una disgrazia se gli adolescenti più giovani vedessero le scene delle ecografie, con il nascituro che prima sembra un “pompelmo”, poi prende sembianze umane, con testolina, gambe e braccia? Imparerebbero che a quattro mesi al non-nato «si bucano gli occhi e le orecchie», e subito si sente forte il tum-tum del suo cuore. È brutto questo? È diseducativo? Gli spinelli circolano liberamente in ogni dove perciò bisogna evitare di farlo vedere sullo schermo? Nel film c’è una scena nell’auditorium dove proprio a causa del fenomeno dilagato, proiettano una di quelle classiche pellicole di “educazione sanitaria”. Si vede una donna in sala parto e i particolari della nascita, dallo spuntare della testa all’uscita del corpicino appiccicoso, coperto di liquami e sangue. Gli studenti non sono entusiasti. Il film non esibisce delle Lolite: è delicato e onesto il gesto folle e splendido delle ragazzine, un argomento da sviscerare. La commissione censura ha cambiato idea perfino sul divieto ai minori di Quando la notte, film in difesa di una madre esaurita che fa violenza al suo bambino. Coraggio, aboliscano anche la censura verso mamme che respingono la legalissima strage dei loro innocenti.

e di cronach

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ULTIMAPAGINA A novantadue anni è morto Tonino Guerra. Una vita in versi, compresi quelli scritti per Fellini

Addio al poeta della di Francesco Napoli orse neppure il più raffinato degli sceneggiatori poteva sancire con la data della sua scomparsa un suggello così significativo.Tonino Guerra è morto ieri, 21 marzo, a 92 anni, nella sua Santarcangelo di Romagna ma soprattutto nella Giornata internazionale della poesia. Ha un senso? Sì, almeno credo, perché imprime a questo poliedrico protagonista della cultura italiana del Novecento un’indelebile fisionomia. Sceneggiatore formidabile e compagno d’avventure cinematografiche di alcuni grandi registi Deserto rosso con Antonioni, Matrimonio all’italiana con De Sica, Kaos con i fratelli Taviani per ricordarne alcuni tra i tanti ha saputo trasporre nel suo scrivere per la Settima arte l’epos poetico della sua terra. E questo accade soprattutto quando con Federico Fellini, più che amico e più che sodale, ha saputo strappare alla realtà della loro terra la magia dell’universo mondo. Nascono dalle loro mani, da Amarcord a Ginger e Fred, alcuni capolavori assoluti e indimenticabili della cinematografia mondiale.

F

Ma Tonino Guerra è sempre stato poeta, prima d’ogni cosa. Un poeta che arriva alla letteratura nell’immediato Secondo dopoguerra quando pubblica I scarabocc. Siamo nel 1946, negli anni in cui l’opzione esclusiva del dialetto romagnolo, così identitaria per Tonino Guerra, è una scelta di coraggio, certo, ma anche di sintonia con quel clima neorealista che aleggia anche in poesia (e si pensi almeno alle coeve scelte degli ermetici come Quasimodo e Gatto). Opzione certamente attribuibile a un istinto mimetico, alla necessità di adottare una lingua estratta dagli ambienti della natia Santarcangelo di Romagna,

fondo che potremmo definire “neocrepuscolare”, se quel prefisso non lasciasse una qualche ombra critica. Un registro che peraltro “schioppetta”, tanto nella gioia che nel dolore, al sopravanzare di rilievi sociali, di secche rappresentazioni del “tipo” umano, con un carico di sorprendente inconsapevolezza. E se quell’inconsapevolezza è all’origine dell’angosciosa tristezza che talvolta pervade la sua poesia, ma forse più il suo personaggio, è anche di lì, da quell’umore instabile, che partono quelle illuminazioni fantastiche concretizzate in ataviche iterazioni rituali e consolatorie e che talvolta scatuririscono dalla voce di uno dei tanti “strambi” aggirantisi nella pianura fra Santarcangelo e il mare. Quando poi l’accensione poetica vira verso il visionario e il fantastico, e in Tonino Guerra non mancano questo tipo di illuminazioni quasi rimbaudianamente infernali, ma di un inferno giocoso, ebbene visioni e fantasie poggiano la loro filigrana su una limpida matrice realistica, o almeno di quel realismo, come ha ben notato Pier Vincenzo Mengaldo, «fra crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo, lo stesso da cui ha preso le mosse un Pagliarani e in cui insiste il Fellini memoriale». Ma dopo un fluido inizio alla poesia, Tonino Guerra sembra voler riflettere, deporre per un attimo quella penna così felicemente incline alla musica del verso e che l’aveva condotto, con facilità direi, a un’essenzialità espressiva assoluta, riducendo al minimo o addirittura azzerando l’aggettivazione, e abbreviando il più possibile le misure ritmiche. Si arriva, dopo un decennio di silenzio, a Il miele (1981): alla brevità epigrammatica degli Éultum vérs subentra qui l’ampio respiro del poema (che Attilio Bertolucci abbia dettato un indirizzo non è da escludere) sia pure originalmente organizzato per frammenti, racchiusi ognuno in uno dei trentacinque canti (Cantède) che lo compongono. Ma

MEMORIA Protagonista della cultura italiana del Novecento, è scomparso proprio nella Giornata internazionale della poesia. Dalle sue mani, come co-sceneggiatore, nacque «Amarcord» e che ancora oggi trova più occasionali adesioni in poeti di stretta osservanza italiana, e penso al mistilinguismo impiegato da Davide Rondoni, tra il serio e il faceto, nei suoi recenti Rimbambimenti. In effetti la prima produzione vernacolare di Guerra - proseguita con La sciuptèda (La schioppettata) (1950) e Lunario (1954), e poi raccolta, con l’aggiunta di Éultum vérs (Ultimi versi), nel volume complessivo I bu (I buoi) del 1972 - si pone in una relazione diretta col “territorio” romagnolo e con la sua popolazione, con i tratti ancestrali e contadini che, come giustamente ha osservato Franco Brevini, sono da Guerra avvertiti come «un rifugio dalle tempeste della storia... raffigurato con l’accorante nostalgia dell’esiliato o del reduce». Resta però impressa e viva una tonalità di

tali frammenti sono decisamente narrativi, distesi in un’articolazione che vorrebbe essere oggettiva, vorrebbe recuperare pallide schematizzazioni di una visione del mondo. Ma l’orizzonte di Tonino Guerra è ancora dominato dal “paese”, in un alternarsi di voci narranti ora intente alla celebrazione di una straniata età dell’oro identificata nei passati fasti della cultura contadina (Pasolini avrà voluto dire qualcosa), ora ripiegate sull’osservazione delusa e un po’ rancorosa dell’emarginazione presente e dell’insensatezza della propria collocazione nel mondo industriale, ora perse nell’evocazione lunare e visionaria di miti e riti che si originano da una fantasia vagamente “gotica”, ma anche da un intelletto “altro”, confinato in una dolce e talora salvifica follia.

Sana per certi aspetti la follia di Guerra che però nel prosieguo dell’attività poetica non riesce più a nascondere un sopravanzante senso di dolenza per la fine di un mondo e l’irrecuperabilità dell’uomo d’oggi a una dimensione “totale” della propria esistenza: una dimensione fondata sulla profonda e naturale sintonia fra l’io e il mondo e di cui solo il dialetto sapeva ancora detenere una traccia sensibile, almeno per Tonino Guerra.


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