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he di cronac
Quando la speculazione avrà fatto del suo peggio, due più due farà ancora quattro.
9 771827 881004
Samuel Johnson di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 6 GIUGNO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La magistratura contabile vede nero sulla ripresa: la crisi economica ci è costata il 12% della nostra ricchezza
Italiani, corrotti e tassati Dura denuncia della Corte dei Conti. Gettito fiscale sotto le previsioni C’è un circolo vizioso: più crescono le imposte più aumenta il malaffare più sale l’evasione. Il Parlamento cerca un accordo sulla legge-Severino. Ma intanto mancano 3,4 miliardi di introiti LA VERA CRESCITA
L’operazione «Brontos» e la frode fiscale
Tra imbrogli e sprechi, adesso basta!
Matrioska Unicredit: Profumo a processo
di Osvaldo Baldacci l paragone che mi viene in mente è quello del calciomercato.Tutti ne parlano tutto l’anno, e tanto più in questa stagione. E cosa dicono i tifosi? Che le squadre, i presidenti, devono spendere di più, devono tirar fuori i soldi per comprare nuovi campioni di primo livello, per alimentare le ambizioni più grandi.Tutti vogliono che si tirino fuori i soldi, ma questi soldi da dove dovrebbero venire? Una sana gestione, anche calcistica, prevede un rapporto tra entrate e uscite. Se non si può spendere, bisgona fare dei piani saggi, adeguati, e sopperire in altri modi. Se si spendono i soldi che non si hanno, può venire una breve stagione di gloria, ma è un fuco di paglia dopo il quale c’è il fallimento. a pagina 5
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La conferenza sui neutrini
Gli scienziati chiedono scusa a Einstein
Il G7 sull’Euro in difficoltà
I Governatori: Le famiglie? «Difendiamo Da consumatori Grecia e Spagna» a produttori In teleconferenza i vertici Bisogna ribaltare l’idea finanziari d’accordo: che vuole i nuclei «Non abbandoniamo esclusivamente come nessuno». In attesa del 28 titolari di “elargizioni” Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 3
Un presunto “sconto” di 245 milioni di euro: «Ho fiducia nella giustizia perché sono stato corretto», dice il banchiere Marco Scotti • pagina 10
Luigino Bruni • pagina 4
Il numero due di al Qaeda resta uno degli obiettivi principali dell’antiterrorismo
Fuoco sul delfino di al Zawahiri Un drone Usa attacca Abu Yahia al Libi: giallo sulla sua sorte
di Maurizio Stefanini
di Antonio Picasso
cusaci, Einstein! Potrebbe essere così sintetizzato il tema della 25esima Conferenza sulla Fisica dei Neutrini, che è iniziata nella giapponese Kyoto domenica scorsa. Ieri due differenti gruppi di ricerca hanno presentato il frutto di ricerche dalle quali si ricava che non è vero che i neutrini sono a massa zero come finora ritenuto, ma hanno invece una minima consistenza. a pagina 14
er Obama la guerra ad al Qaeda è più di policy che sul terreno. Perché questa seconda parte, volendo essere sintetici, si riduce al successo o meno della singola operazione. Che poi siano i droni piuttosto che le forze speciali a intervenire poco importa. Quando il comandante in capo dà l’ok, si parte. Le conclusioni da trarre, ovvero il risultato, vengono dopo. No, gli ostacoli più ostici Obama li sta incontrando nello sta-
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La rivoluzione possibile
bilire la lista dei target, come gestire i singoli personaggi e soprattutto controllare le onde anomale provocate dal fallimento di un raid. Il caso al-Libi è indicativo. A neanche sei mesi dalle elezioni, la Casa bianca non ci fa una bella figura nell’affrontare le smentite dei talebani sull’uccisione del loro numero due. E tanto meno nel sostenere le proprie ragioni di fronte al Pakistan che critica gli interventi dei droni che colpiscano anche la popolazione civile. a pagina 12
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
107 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Le imposte così alte hanno un effetto recessivo: dal 2009 al 2013 avremo perso il 12% della nostra ricchezza
Il circolo vizioso
Più crescono le tasse più aumenta la corruzione più sale l’evasione: la denuncia della Corte dei Conti mentre diminuiscono le entrate di Marco Palombi
ROMA. La Corte dei Conti ci prova per l’ennesima volta ad inserire il minimo sindacale di razionalità nel dibattito pubblico. Lo fa, stavolta, nel suo Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica presentato ieri al Parlamento, e probabilmente lo fa ancora una volta invano. Cosa dice, in sostanza, la magistratura contabile analizzando i famosi conti pubblici? Il rientro del deficit in corso fino al 2010 blandamente ma con buone prospettive di medio periodo, l’anno scorso ha subito una accelerazione improvvisa dovuta alle turbolenze sui debiti sovrani e alla successive decisioni in sede europea e ha finito per scaricarsi in uno spettacoloso aumento della tassazione, che adesso è ad un livello tale che sta strangolando l’economia. Prove? Intanto, le entrate fiscali sono al di sotto del previsto per il 2012, all’appello mancano la bellezza di 3,4 miliardi di euro: se continua così, il documento economico e finanziario del governo va riscritto. Poi, a livello statistico, dall’inizio della crisi economica a fine 2013 avremo perso il 12% della nostra ricchezza: è quella vecchia storia dell’operazione riuscita e del paziente morto di cui si sente parlare da qualche tempo. A questo quadro drammatico si aggiunge l’anomalia tutta italiana dell’evasione fiscale che, al momento, continua a restare altissima e finisce per scaricare il peso di una spesa pubblica calcolata sull’intero prodotto (sommerso compre-
so) solo su chi in tutto o in parte le tasse le paga. Insomma, la guerra all’evasione è la priorità, concentrarsi su altro rischia di essere pericolosissimo per le nostre prospettive future. Capitolo a parte per la spesa sanitaria (regionale), che pur a strattoni e con qualche ente in controtendenza, pare avviata verso un percorso virtuoso: certo il conto è ancora alto (112 miliardi l’anno), soprattutto a fronte di servizi non proprio eccelsi in larga parte del paese, anche a causa di corrotti e corruttori che in questo settore sono sempre al lavoro.
Cominciamo dalle tasse: «Il 2011 ci ha consegnato la realtà di un sistema impositivo ancora distante dal modello europeo – spiega la relazione della Corte dei Conti - segnato dalla coesistenza di un’elevata pressione fiscale e di un elevatissimo tasso di evasione». Di più: s’era detto di aumentare la pressione fiscale su consumi e patrimonio per abbassarla sui redditi da lavoro e da impresa. Ebbene, tra l’aumento dell’Iva di Tremonti e l’Imu di Monti sui primi l’aumento c’è stato e ormai il prelievo è su medie europee, mentre sui secondi le tasse non sono state abbassate affatto e sono le più pesanti dell’intera Unione. È appena il caso di ricordare, dicono i magistrati contabili «gli impulsi recessivi che una maggiore imposizione trasmette all’economia reale» e sarebbe dunque il caso di tenere d’occhio «il pericolo di
avvitamento» nel «circolo vizioso» recessione-tasse-recessione (che poi è un altro modo per alludere all’operazione riuscita e al paziente morto). La Corte, bontà sua, ha voluto fare i conti per mostrare quanto costerebbe ridurre le tasse sui redditi di dipendenti e imprenditori ad un livello europeo: «Gli sgravi necessari per riportare a livello europeo il prelievo dovrebbero aggirarsi attorno ai 47 miliardi di euro (38 per i redditi da lavoro e 9 per quelli dell’impresa)».
Attilio Befera dell’Agenzia delle Entrate. In alto, il presidente della Corte dei Conti Giampaolino ieri insieme al ministro Giarda
Insomma, ridurre le tasse è l’unica via, ma come? Di margini esterni per riequilibrare «il sistema di prelievo», dice il presidente delle sezioni riunite Luigi Mazzillo, non ce ne sono più se ci si vuole ancora attenere al quadro «rigore, equità e crescita» e per questo «si rafforzano le ragioni per puntare sulla soluzione dell’ampliamento della base imponibile, assegnando alla lotta all’evasione il compito di assicurare margini consistenti per un riequilibrio del sistema di prelievo». La «lotta all’evasione, all’elusione e al ridimensionamento dell’erosione» fiscale, ha spiegato, è una priorità e lo dicono i numeri «che ci collocano ai primi posti nelle graduatorie internazionali»: «L’evasione fiscale resta una piaga pesante per il sistema tributario e per l’economia del nostro paese», tanto che solo per Iva e Irap - due imposte su cui esistono più dati per fare proiezioni scientificamente credibili - si parla di un manca-
prima pagina
6 giugno 2012 • pagina 3
G7, prove di accordo su Eurolandia I ministri delle Finanze: «Cooperiamo, ma le decisioni vere solo al vertice del 28 giugno» di Vincenzo Faccioli Pintozzi ministri delle Finanze e i governatori delle Banche centrali del G7 «hanno rivisto gli sviluppi dell’economia globale e dei mercati finanziari, e hanno preso in considerazioni alcune politiche possibili per arrivare all’unione fiscale e finanziaria in Europa. Si sono accordati per controllare da vicino gli sviluppi della situazione in vista del Summit del G20 previsto a Los Cabos previsto a fine mese».
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Questo brillante comunicato – con un ringraziamento speciale al Tesoro americano che l’ha reso pubblico – è il prodotto della teleconferenza fra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti), che hanno discusso ieri della crisi del debito della zona euro e dei rischi sulla ripresa economica globale via telefono “per risparmiare”. I lavori – che hanno preso all’incirca un’ora e mezzo – erano stati convocati per preparare il summit dei leader del G20, in agenda il prossimo 18-19 giugno in Messico. Secondo il ministro delle Finanze canadese, Jim Flaherty, «la vera preoccupazione in questo momento è l’Europa, la debolezza di alcune sue banche e il fatto che gli altri Paesi europei non hanno agito in modo sufficiente per rispondere a questa crisi». Una simile osservazione e un invito a fare di più è arrivato due giorni fa anche dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, quando non era ancora terminato l’incontro
a Berlino tra il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso. Un vertice, quello berlinese, che ha suggellato la necessità di aumentare l’integrazione europea per contrastare la crisi. Il fiscal compact sarebbe solo un primo passo per raggiungere nel medio-lungo termine una unione politica, oltre che economica e monetaria. Il duo BarrosoMerkel ha ribadito anche l’importanza di una unione bancaria e una specifica vigilanza europea. Per il breve termine i due leader europei hanno ribadito la necessità di proseguire sulla strada del consolidamento fiscale e del rigore dei conti a cui si dovranno però affiancare misure per la crescita, attraverso riforme strutturali e investimenti mirati. Un piano per gli obiettivi e le misure di breve e
che l’uscita dall’euro potrebbe essere determinata dal rifiuto da parte di Atene delle riforme richieste dalla Troika (Unione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea) e dalla conseguente interruzione del sostegno finanziario esterno. Tuttavia, S&P minimizza il rischio contagio sugli altri Paesi periferici ed esclude nuovi downgrading di altri Paesi che compongono la zona euro.
La teleconferenza di ieri non ha – come era prevedibile – sortito alcun risultato degno di nota. Mentre la comunità politica non prende in considerazione neanche l’ipotesi di lasciar perdere questa concertazione improduttiva, i big del campo economico e finanziario e in particolar modo gli investitori “pesanti”sembrano essersi stancati dell’indecisione e delle chiacchiere a vuoto, sia pure se pronunciate al telefono e non vis-avis, con conseguente sperpero di denaro. Rick Meckler guida la LibertyView Capital Management di New York, una delle maggiori società di investimento finanziario al mondo. Parlando con la Reuters, ha sottolineato che «le cose così non vanno. I ministri delle Finanze non possono pensare di calmare la situazione semplicemente chiacchierando». Per rendere ancora più chiara la situazione, il manager ha affondato la lama: «Siamo arrivato a un punto in cui i mercati hanno un chiaro bisogno di azioni concrete, di piani lineari. I leader mondiali si sono riposati
I mercati aspettano una posizione chiara, un piano di salvataggio. Un boss di Wall Street: «Il tempo delle chiacchiere è finito, servono subito azioni concrete» lungo periodo, a cui sta lavorando Consiglio europeo, Eurogruppo e Bce, verrà illustrato a fine mese, nel summit di Bruxelles (28 e 29 giugno).
Intanto i mercati rimangono scettici, con la prospettiva di una Grecia fuori dall’euro sempre più concreta. Secondo Standard & Poor’s, la Grecia ha almeno una probabilità su tre di abbandonare la zona euro nei prossimi mesi, dopo le elezioni in programma domenica 17 giugno. Nel rapporto pubblicato ieri, l’agenzia di rating spiega
to incasso di 138 miliardi di euro nel triennio 2007-2009, 46 miliardi l’anno (il tasso è pari al 29,3% nel caso dell’Iva e al 19,4% per l’Irap). A livello territoriale nessuna sorpresa: il Sud e le isole - conferma la Corte dei Conti – «si presentano come le aree a più alto tasso di evasione (40,1% per l’Iva e 29,4% per l’Irap) a fronte di una ‘devianza’ pressoché dimezzata nel Nord del Paese», anche se in termini assoluti l’evaso del nord è il doppio di quello del Mezzogiorno.
nomia. Un fenomeno non occasionale, ma destinato a protrarsi per alcuni anni (come dimostra il rosso di 3,4 miliardi nei primi quattro mesi dell’anno, ndr), dal momento che il vuoto di prodotto apertosi dopo la crisi finanziaria è lungi dall’essere recuperato», anzi, sembra perpetuarsi: «In termini nominali, lo
Recuperare l’evasione e tagliare le tasse non è solo un fatto di giustizia e nemmeno un riflesso condizionato di adesione ai parametri di bilancio europei, quanto una necessità per rilanciare la crescita “asfittica” del nostro Pil: «Anche l’anno scorso come nel 2010 - spiega la magistratura contabile - il gettito fiscale è rimasto al di sotto delle previsioni, penalizzato dalla mancata ripresa dell’eco-
scostamento dai livelli di Pil nominale previsti a inizio legislatura, ossia prima dell’avvio della crisi finanziaria internazionale, era superiore a 160 miliardi, denotando una perdita permanente di prodotto nell’ordine del 9%. Sulla base delle previsioni governative, è possibile stimare che questa perdita supererà il 12 per cento alla fine del 2013 (oltre 230 miliardi)». Anche la sanità, croce e delizia
abbastanza nei tempi passati: questa volta devono iniziare a risolvere le cose». Un piano concreto per la risoluzione della vicenda è difficile da prevedere. Le posizioni in campo sono troppo diverse e la reale situazione dei conti di alcuni inquilini morosi dell’Unione Europea non è ancora troppo chiara. Jun Azumi, che guida il ministero delle Finanze nipponiche, ha gettato i giornalisti giapponesi nello sconforto quando ha dichiarato che «la possibilità che la Grecia esca dall’Eurozona non è stata presa in considerazione».
D’altra parte sono finiti anche i giorni in cui l’espulsione di un membro dell’Unione europea era vista come un’ipotesi irrealizzabile. E il “peccato capitale” del Vecchio Continente – la mancanza di rappresentatività democratica – si fa sempre più evidente man mano che la situazione precipita. Chi ci assicura, si chiede uno sherpa, «che le popolazioni ratifichino quello che accade a Bruxelles?». E in effetti le piazze greche sembrano dare ragione all’anonimo funzionario. Il voto che si appresta a ratificare del tutto l’ingovernabilità della Grecia è soltanto l’antipasto di quello che, via via, si dimostrerà un male endemico di tutti gli Euromembri. Senza una riforma reale del sistema di rappresentanza europea, è impossibile pensare che la situazione si risolva con telefonate o con gite in Messico.
dei bilanci regionali, aveva avviato un (forse troppo) lento percorso di riduzione delle spese, ma «continua a presentare fenomeni di inappropriatezza organizzativa e gestionale che opportunamente ne fanno un ricorrente oggetto ai fini di programmi di tagli alla spesa», ha scandito Mazzillo, che ha ricordato an-
nuovi strumenti di contrasto previsti dal ddl in discussione alla Camera. Forse non sanno, alla Corte, che la discussione a Montecitorio è fin troppo animata e la Guardasigilli Paola Severino è costretta a barcamenarsi tra l’implosione del Pdl che lascia libero il “partito degli avvocati”di provare ad affossare la legge, le sparate polemiche della Lega supportate dagli avvocati di cui sopra, l’assenza drammatica di una vera maggioranza politica capace di portare a casa il provvedimento. Non è un problema di dettagli tecnici, ma di sopravvivenza parlamentare: in mancanza del centrodestra, atomizzato nel dopo-amministrative e allo sbando quasi quanto il suo leader-fondatore, è possibile fare riforme incisive? È su questa domanda che si gioca il futuro e dunque anche la possibilità che le razionali e documentate indicazioni della Corte non restino chiuse in una relazione che nessuno legge.
Mentre la magistratura contabile punta l’indice sul costo del malaffare, il Parlamento non riesce a varare la legge che lo combatte. Il ministro Severino costretto a rispondere continuamente alle richieste del “partito degli avvocati” che i «frequenti episodi di corruzione a danno della collettività che continuano ad essere segnalati».
E qui, per così dire, la razionale e informata relazione della Corte dei Conti si scontra con la realtà. I fenomeni corruttivi ci sono ancora e bene fa il Parlamento – hanno detto i giudici contabili – a dotare magistrati e forze dell’ordine dei
l’approfondimento
pagina 4 • 6 giugno 2012
Ripubblichiamo un estratto dell’intervento dell’economista al Forum di Milano, dedicato al rapporto con le tasse
Fabbrica Famiglia
Da consumatori di beni a creatori di ricchezza: a questa rivoluzione dovrebbe ispirarsi il rapporto tra Stato e nuclei. Cambiando sistema di tassazione. E smettendola di considerare le detrazioni come delle “elargizioni” di Luigino Bruni n’operazione culturale importante perché la famiglia ritrovi oggi un nuovo e fecondo rapporto con l’economia e col lavoro, è rivendicare per la famiglia il ruolo di soggetto economico globale: non solo agenzia di consumo, risparmio e ridistribuzione del reddito, come viene normalmente vista dalla cultura e dalla teoria economica.
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La visione del ruolo economico della famiglia è obsoleta, e con essa anche il sistema fiscale e retributivo in molti, troppi, Paesi. Una tale visione è quella nata nella società cosiddetta “fordista”, quando il confine privato e pubblico era ben stagliato: la famiglia offriva “lavoro” alle imprese (sfera pubblica), la quale forniva reddito alle famiglie con cui consumavano e risparmiavano. La famiglia, quindi, non produceva nulla di economicamente rilevante in quanto istituzione famigliare, ma consumava, of-
friva lavoratori (essenzialmente maschi), e risparmiava (favorendo, così, anche gli investimenti delle imprese). La sfera interna della famiglia, tutto ciò che accadeva all’interno delle mura domestiche, non era di rilevanza economica (né, sostanzialmente, politica). L’interesse economico per la famiglia si arrestava sull’uscio della porta di casa. Da qui anche tutto il sistema fiscale: si tassava il consumo (Iva), il reddito o il patrimonio individuale, poiché la famiglia come “comunità” e come nesso di relazioni non aveva rilevanza economica. Da qualche decennio, in realtà, questa visione basata su tale separazione tradizionale del lavoro e di sfere, è entrata in crisi, sebbene la cultura istituzionale, economica e fiscale sia sostanzialmente rimasta quella del primo dopoguerra. Si continua, infatti, a vedere la famiglia come agenzia di consumo, risparmio e redistribuzione, come fornitrice di lavoro (ancora troppo “ma-
schile”). Non si vede invece la famiglia anche come produttrice. In quale senso?
Sul lato del consumo: ci stiamo accorgendo che affinché i beni acquistati sul mercato diventino benessere e vita buona, non bastano gli acquisti, poiché c’è bisogno di un ulteriore passaggio che avviene prevalentemente all’interno della famiglia. È quanto messo in luce soprattutto dal Nobel per l’economia Gary Becker, che negli anni Set-
Le imposte andrebbero pagate non sui ricavi ma sui costi
tanta parlava di famiglia come “produttrice”di valore economico. Far diventare pasta e verdura un pranzo, dei capi di abbigliamento dei “vestiti”, e di quattro mura e mobili una casa abitabile, richiede lavoro di trasformazione che non è solo “consumo” ma produzione, che crea valore, anche economico (come è facile constatare se vogliamo farlo). Da qui il bisogno di un nuovo riconoscimento di questo tipo di lavoro (prevalentemente femminile), un lavoro che non viene conteggiato dalla contabilità nazionale (Pil) perché non passa attraverso il “mercato”del lavoro, e forse sarebbe opportuno iniziare a farlo.
Esistono ormai diversi studi che mostrano una forte, sistematica e significativa correlazione tra vivere rapporti famigliari stabili e felicità soggettiva (vita buona). Al tempo stesso, esistono studi che mostrano come persone relativamente più felici rispettano di più le istituzioni e le leggi, partecipa-
no di più alla vita civile e al volontariato, e hanno anche migliori performance economiche. Essere sposati ha un effetto netto rilevante e significativo sulla soddisfazione individuale, così come, specularmente, il divorzio e, ancor più, la separazione sono associati a livelli significativamente inferiori di felicità. Credere nella famiglia è associato a un aumento della soddisfazione individuale maggiore rispetto agli effetti legati al credere nell’importanza di amici, tempo libero, politica, lavoro e religione; in particolare, credere nel matrimonio come istituzione e nella figura dei genitori è associato a un significativo aumento della soddisfazione individuale. Una maggiore frequenza dei rapporti con genitori e familiari ha un effetto netto positivo sulla felicità, di entità maggiore rispetto ad altre attività relazionali.
Sul lato della produzione: infine, da diversi decenni sappia-
6 giugno 2012 • pagina 5
La denuncia della Corte dei Conti e la strada stretta della crescita economica
Serve un’operazione verità su evasione e sprechi È inutile usare il tema dell’abbassamento delle imposte a puri fini demagogici: è arrivato il momento di voltare pagina tutti insieme di Osvaldo Baldacci l paragone che mi viene in mente è quello del calciomercato. Tutti ne parlano tutto l’anno, e tanto più in questa stagione. E cosa dicono i tifosi? Che le squadre, i presidenti, devono spendere di più, devono tirar fuori i soldi per comprare nuovi campioni di primo livello, per alimentare le ambizioni più grandi.Tutti vogliono che si tirino fuori i soldi, ma questi soldi da dove dovrebbero venire? Una sana gestione, anche calcistica, prevede un rapporto tra entrate e uscite. Se non si può spendere, bisgona fare dei piani saggi, adeguati, e sopperire in altri modi. Se si spendono i soldi che non si hanno, può venire una breve stagione di gloria, ma è un fuco di paglia dopo il quale c’è il fallimento e la Serie C. Si devono spendere i soldi che ci sono, e con questi fare il massimo ben individuando i settori dove occorre investire e quelli dove si può lasciar perdere.
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Abbassare le tasse è stato finora tema di demagogia. Un punto su cui non c’è stata verità. Oggi è il momento di scegliere se guardare avanti o indietro. Guardare avanti vuol dire cominciare a porsi come obbiettivo l’abbassamento della pressione fiscale, ma nella verità. Guardare indietro è continuare a prendere in giro la gente parlando di tasse più basse creando nel frattempo le condizioni per alzarle ancora o fallire. Che la pressione fiscale in Italia sia enorme, eccessiva, non è certo una novità. E anche le cause sono note. Il problema è che si finge di non conoscerle perché affrontarle è difficile e doloroso, e non porta certo consensi immediati. Ma nella verità bisogna dire che è necessario, e che se non si affrontano quelle cause non si potrà abbassare le tasse: ma anche questo è necessario, per cui non c’è via di uscita. Ieri anche la Corte dei Conti ha affrontato questo tema, mettendo il dito su molte piaghe. Il forte aumento della pressione fiscale innesca «impulsi recessivi» per l’economia reale, con il rischio di un «avvitamento» in cui si potrebbe restare «intrappolati», ha lanciato l’allarme il rapporto sul coordinamento della finanza pubblica. Il problema ha una serie di colpevoli con nome e cognome: evasione fiscale con elusione ed erosione, corruzione, sprechi, ma anche errata concezione dei compiti statali. Continuare ad avere tasse così alte manda in rovina il Paese. Ci sono costi che la comunità non può più reggere e che privano di ogni competitività, attrattiva e capacità di sviluppo il Paese. Togliere così tanti soldi dalle tasche dei cittadi-
ni vuol dire toglier loro una parte di libertà, una parte di capacità di scegliere. Abbassare le tasse ma con serietà è una necessità inderogabile, in prospettiva. Bisogna avere l’obiettivo di creare le condizioni per abbattere le aliquote, in modo da rilanciare l’energia del sistema
La revisione della spesa in questo contesto acquisisce un’importanza fondamentale: da lì si deve partire produttivo, favorire la crescita e lo sviluppo, far circolare più denaro e restituire ai cittadini speranza e libertà.
Per fare questo occorre un nuovo patto fiscale. Occorre una rivoluzione. Le tasse sono alte perché si è creato un meccanismo perverso nel funzionamento dell’Italia, perverso ma apparentemente funzionante. Si era raggiunto un punto di equilibrio, il lavoro
pubblico e l’assistenza erano usati come ammortizzatore sociale, l’evasione era diffusa e diventava un mezzo di difesa in parte persino necessaria, lo Stato distribuiva aiuti e prebende, gli appalti erano distribuiti secondo criteri di cui molti si giovavano, piovevano sostegni, incentivi, detrazioni, aiuti di ogni genere a questi e a quelli. Inutile ribadire che un sistema del genere era di per sé sbagliato. Ma stava in equilibrio. Finché c’erano soldi. Ora i soldi non ci sono, e questo sistema sta soffocando il Paese. Lo dissangua. Ne lega le energie vitali. E penalizza gli onesti continuando a difendere le rendite di posizione dei disonesti.
Abbattere le tasse vuol dire liberare una quantità di energie positive. Ma qualcuno ne deve pagare il conto. Chi? Due sono le grandi categorie su cui incidere. Far pagare i colpevoli e responsabilizzare gli altri. Far pagare i colpevoli è fondamentale: bisogna dire una parola chiara. Se anche finora c’è stato un sistema scorretto, perfino disonesto, ma tollerabile e in parte funzionante, ora si deve voltare pagina. Se le tasse sono così alte è anche perché in troppi non le pagano. L’evasione fiscale italiana è altissima. Decine e decine di miliardi all’anno. Le tasse che non pagano i disonesti (ma non pensiamo solo ai grandi elusori miliardari, l’evasione è anche nelle tante piccole cose di ciascuno) le pagano maggiorate gli onesti. E a proposito di disonesti, altre decine di miliardi sono collegate alla corruzione. Ne ha parlato per l’ennesima volta la Corte dei Conti. La corruzione, e anche in questo siamo tra i primi, non è un fatto solo di disonestà, è anche un problema di bilancio. Se si paga una tangente per ottenere non limpidamente qualcosa, è perché non si è l’offerta migliore: si vuole avere un prezzo più alto o fornire una qualità più bassa o entrambe le cose. Un danno economico per la collettività. I partiti politici non possono ogni tre secondi gridare contro le tasse e poi difendere gli evasori, i corrotti, i furbetti. Poi c’è il secondo grande blocco: lo Stato costa. Quindi per avere servizi occorre pagare le tasse. Ma è proprio necessario avere tutti i servizi? Questa deve essere la revisione della spesa: siamo sicuri che lo Stato deve fare tutte le cose che fa? Deve dare tutti gli incentivi che dà? O ci sono incentivi, detrazioni, deduzioni che non sono più strategici? Ci sono servizi che lo Stato può lasciar fare ad altri, a privati, a cooperative, a comunità intermedie, risparmiando soldi e magari aumentando l’efficienza e la soddisfazione? Questa è la sfida, diminuire le tasse migliorando l’efficienza.
mo che l’economia cresce non solo quando ha capitali umani, finanziari e fisici, ma anche quando possiede capitale sociale e beni relazionali. Un paese che non ha fiducia diffusa, rispetto delle regole, cultura civica, non cresce economicamente. Ma chi “offre” questo tipo di capitale intangibile ma preziosissimo anche per lo sviluppo economico? Non solo, ma prevalentemente la famiglia, dove le persone sono educate alla cooperazione, alla fiducia, al senso civico. Quando in una famiglia si formano persone che hanno queste capacità (e ciò richiede famiglie con certe caratteristiche di stabilità e di relazioni), questa famiglia sta contribuendo all’economia offrendo una forma di capitale non meno preziosa di tecnologia e credito. Oggi la crescita eccessiva e sbagliata del Pil ha deteriorato molte forme di capitali o patrimoni naturali e civili, senza i quali, però, non riparte alcuna crescita, nemmeno quella economica. Se l’economia vuole uscire da queste crisi c’è bisogno di custodire, e in certi casi di ricreare, capitali civili ormai troppo logori: e in questo compito la famiglia ha un ruolo fondamentale. Solo riconoscendo questa natura economica globale della famiglia è possibile passare da un sistema “concessorio”, basato sulla richiesta allo Stato da parte della famiglia di interventi di aiuto e di assistenza, ad un’alleanza dove alla famiglia si riconosce il ruolo che già di fatto svolge nella nuova economia: riconoscere, cioè, il valore che queste forme di capitale hanno già per l’economia. La famiglia non deve chiedere favori allo stato, ma solo il riconoscimento, civile ed anche economico, di quanto già fa senza riconoscimento. È una questione di giustizia, non di più o meno generose elargizioni.
Per tutte queste ragioni, credo che qualsiasi discorso sulla sussidiarietà economica, sul regime fiscale della famiglia, debba partire da una nuova “teoria” della famiglia come soggetto economico post-consumo/risparmio. Se infatti alla famiglia viene riconosciuto lo status di istituzione economica, allora diventa fondato e naturale riconoscere che le tasse vadano pagate non sul reddito lordo (ricavi), ma sul reddito al netto dei costi per produrre beni relazionali, capitale sociale, trasformazione dei beni, ecc. Questi beni vanno in parte a vantaggio della stessa famiglia (mutuo supporto, vita buona, felicità …), ma in parte anche a beneficio di una cerchia sociale molto più ampia (come ogni “bene meritorio”, meritgood). Oltre al valore civile e morale di crescere la prole (valore infinito), esiste anche un più diretto valore economico che richiede di essere più riconosciuto.
pagina 6 • 6 giugno 2012
Oggi in Parlamento il voto sull’Authority
Accordo sull’Agcom Solo il Pdl non ci sta Da oggi anche il centrista Posteraro nel consiglio. Ancora nell’incertezza il vertice per la Privacy di Franco Insardà
ROMA. Il gentleman agreement sui candidati all’Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) è stato rispettato. Ma solo, dal Partito democratico. Il Pdl, invece, ha cambiato idea sull’accordo sancito in occasione della scelta di ridurre i membri dell’Agcom a quattro. Si decise allora che a Pdl, Pd,Terzo polo e Lega spettasse un candidato. Ma così non è stato. Da via dell’Umiltà, e secondo alcuni dallo stesso Berlusconi, è arrivato un secco no e la designa-
tratta di Maurizio Decina, professore di comunicazioni al politecnico di Torino. Grazie a questa decisione non ci sono stati problema sull’indicazione da parte del Terzo Polo di Francesco Posteraro.
Una carriera, quella di Posteraro nato a Cosenza nel 1950, tutta all’interno di Montecitorio dove è entrato nel 1979 come consigleire parlamentare. Attualmente è vice segretario generale della Camera, dopo aver maturato una lunga espe-
Maurizio Decina sarà il candidato del Pd, mentre da via dell’Umiltà si insiste, tra le polemiche interne, su due nomi: Antonio Martusciello e Antonio Petro zione di due nomi per il consiglio di amministrazione di Agcom: Antonio Martusciello, attuale commissario ed ex manager Fininvest, e Antonio Preto, tecnico d’area, ex capo di gabinetto prima ai Trasporti e poi all’Industria alla Commissione europea con Antonio Tajani e ora di nuovo all’Europarlamento.
Uno strappo, quello del Pdl, che poteva rappresentare un ulteriore ostacolo a tenere in piede la composita maggioranza che sostiene il governo Monti. Così non è stato e i gruppi parlamentari di Camera e Senato del Pd hanno votato nel seggio allestito durante l’Assemblea dei gruppi, scegliendo tra le varie candidature all’Agcom il loro uomo. Si
rienza nel settore delle commissioni bicamerali e d’inchiesta e nel settore legislativo presso il servizio commissioni, è stato nominato capo servizio nel 1997 ed ha diretto l’Ufficio per il Regolamento, il servizio rapporti internazionali e il servizio Assemblea. Per sciogliere il nodo per le nomine nella mattinata di ieri si è svolto un incontro a Montecitorio tra il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e il leader Udc Pier Ferdinando Casini. Alla riunione hanno partecipato anche Benedetto Della Vedova e i due presidenti dei gruppi parlamentari Democratici, Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. I parlamentari democratici si sono riuniti e hanno svolto delle vere e proprie primarie per
Frange della maggioranza vogliono staccare la spina a Monti. E dopo?
Il tiro al governo dei dissidenti dei partiti Bersani chiude a ogni ipotesi di elezioni prima del 2013. Stop anche dal Pdl . Ma la spinta per rompere è forte di Riccardo Paradisi l voto anticipato non è uno scandalo” dice l’ex ministro della cultura Sandro Bondi. Il problema è cosa c’è dopo il voto. È questo il nodo che obbliga da un lato il segretario del Pd Bersani dall’altro Berlusconi e Alfano a tenere a freno le spinte interne che nel Pd come nel Pdl vorrebbero andare a elezioni e far saltare il governo.
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Uno stato d’animo ben rappresentato dal quadro offerto dal vicepresidente dei deputati del Pdl Osvaldo Napoli: «Immaginare oggi, 5 giugno, a pochi giorni dal G8, dalle nuove elezioni in Grecia e dal vertice Ue di invocare le elezioni in autunno è un esercizio che trovo sadomaso. Lo dico con tutto il rispetto e la stima che ho per gli amici del PdL che aspirano a emulare Stefano Fassina in una corsa verso il nulla, cioè verso la catastrofe nazionale». Napoli incarna il pensiero che in parte è anche dei vertici decisionali del Pdl: il governo Monti è inadeguato e insoddisfacente e mette in imbarazzo il Pdl con il proprio elettorato ma da un lato non si deve sottovalutare la congiuntura internazionale drammatica dall’altro l’incapacità di ereditarne la funzione. Insomma la linea ufficiale è ancora quella di sostenere Monti incalzandolo sui temi già cari al centrodestra. Evidentemente non la pensa così Sandro Bondi secondo il quale le riflessioni di Fassina han-
no posto “un problema serio che non si può eludere”, tanto più che il governo sarebbe colpevole di «provvedimenti molto discutibili e pasticciati, da un accademismo astratto che non coincide con una effettiva competenza tecnica, dalla congenita incapacità di essere in sintonia con i drammi sociali del Paese». Insomma meglio tornare ai governi politici e poco importa che l’ipotesi più probabile potrebbe essereun governo di sinistra-centro con Di Pietro e Vendola. Nel Pdl tra gli ex An è il vicepresidente dei deputati Pdl Massimo Corsaro a dare l’affondo in tandem con Bondi: «Continuo a lavorare perché cresca nel Pdl la consapevolezza che dobbiamo togliere definitivamente l’appoggio a questo governo».
Tra i realisti del Pdl è l’ex ministro dell’attuazione del programma Rotondi a tentare un compromesso tra la volontà di rottura e la prosecuzione con altri mezzi del montismo: «Bondi e Fassina rompono un tabù: meglio elezioni a ottobre che una rissa semestrale con un finale antipolitico. Sono pronto a sostenere un bis di Monti con Alfano e Bersani nel governo. E sono certo che a ottobre l’Italia voterebbe questa maggioranza». Nel Pd Bersani ribadisce che l’ipotesi di Fassina semplicemente non esiste. Per noi si vota nel 2013: come si capirà me-
politica Bersani e Casini ieri hanno trovato un accordo per la nomina del centrista Francesco Posteraro e del candidato del Pd Maurizio Decina nel consiglio dell’Agcom. Oggi è atteso il voto in Parlamento. Più incerta, invece, la situazione per i vertici dell’Authority sulla Privacy. Nelle frange della maggioranza, comunque, continua il tiro al governo Monti: molti chiedono di «staccare la spina» prima della scadenza del 2013 e di andare alle elezioni in autunno. Ma i leader dei partiti hanno detto di no
Monti, altro è farlo cadere... Mi sembrano due cose ben diverse. Il Pd deve incalzare il governo, stimolarlo a fare di più». Anche se non mancano i fiancheggiatori della dottrina Fassina.Velina Rossa si schiera al fianco del consigliere economico di Bersani per dire: «Meno male che ci sono i Fassina, quei dirigenti che non si possono zittire con risposte polemiche visto che chiedono un ripensamento politico di fronte al fallimento del governo Monti».
L’esecutivo rischia di venire usurato dal continuo tira e molla delle forze politiche. Il rischio concreto è quello di una rissa semestrale con un finale antipolitico glio dalla proposta che faremo venerdì alla direzione. Non tutto è nelle nostre mani, non siamo maggioranza in Parlamento, ma per quel che ci riguarda noi ribadiamo la nostra assoluta lealtà e manteniamo il patto».
Anche Massimo D’Alema contribuisce alla sua maniera a stroncare l’ipotesi Fassina sulla possibilità di elezioni anticiptate sostenuta anche dall’esponente Pd Matteo Orfini: «Mi pare una sciocchezza. Non credo sia ragionevole puntare a elezioni ad ottobre. Mi aspetto che la Direzione di venerdì rilanci l’impegno del Pd per la riforma elettorale e quelle costituzionali già avviate al Senato Una cosa è stimolare
Un gioco pericoloso. Per il governo e per gli stessi partiti. Pericoloso per l’esecutivo che potrebbe prima o poi scivolare non resistendo allo stillicidio di ostacoli e ostruzionismi posti dai partiti a cui si aggiungono gli incidenti interni alla sua compagine. Il duello a distanza ieri tra il ministro alla Funzione pubblica Patroni Griffi e il ministro del welfare Elsa Fornero, goffamente ricomposto con un comunicato congiunto, è abbastanza esemplificativo degli infortuni dell’esecutivo. Dove assieme alla competenza tecnica si trovano anche narcisismi individuali che certo non agevolano il faticoso lavoro dei moderati che lavorano a mantenere equilibri e condizioni per il suo sostegno. Ma questo tentennare continuo dei partiti è pericoloso anche per le stese se forze politiche il cui credito già residuale è ulteriormente eroso da un atteggiamento che appare pavido e irresponsabile. Tanto più che se la situazione dovesse precipitare si arriverebbe ad elezioni con l’esecrato Porcellum e senza un percorso di riforme istituzionali condiviso e avviato. L’Italia insomma cammina sul filo del rasoio. Per questo a chi gli chiede se il governo si occuperà della legge sulla cittadinanza Monti taglia corto: ”no”dice. Perchè si rischierebbe la crisi
scegliere i loro candidati, 19 all’Agcom e 14 quelli alla Privacy. Così oltre a Maurizio Decina hanno indicato per il Garante della privacy Antonello Soro, sardo, ex capogruppo dei deputati del Pd, e Licia Califano docente di Diritto costituzionale all’Università di Urbino, eletta sulla base della pari rappresentanza di genere. I parlamentari pd hanno anche scelto Giuseppe Lauricella come successore di Sergio Mattarella al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. «Quello seguito è stato il metodo più trasparente possibile. Il voto limitato - ha commentato Dario Franceschini - era stato concepito per garantire la rappresentanza di tutti. Il Pdl ha cambiato linea ma noi, rispettando il principio concordato, abbiamo deciso di attenerci alla parola data». Mentre Anna Finocchiaro ha sottolineato la scelta di una donna: «Quando c’è competizione spesso le donne prevalgono. È una bellissima candidata».
Il clima che si respira all’interno del Pdl è tutt’altro che tranquillo e si ripercuotono anche sulle nomine per le Authority sulle quali è previsto oggi il voto in Parlamento. Ma il voto segreto non fa altro che rendere il quadro più confuso e rischioso per la linea del partito. I candidati per il consiglio di amministrazione di Agcom, Martusciello e Preto, e per l’Autorità sulla privacy Augusta Iannini, capo dell’Ufficio legislativo del ministero di Giustizia, o in alter-
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guro, in un momento di crisi della politica, che maturi la consapevolezza che alcune questioni riguardanti la trasparenza delle decisioni relative alla professionalità dei candidati e alla presenza di genere non possano continuare ad essere eluse». Disagio è stato espresso anche dal senatore Vincenzo Vita, vicepresidente del Pd della commissione Cultura a Palazzo Madama, per il metodo seguito per «la scelta dei membri dell’Agcom e dell’autorità sulla Privacy. Dopo aver avviato giustamente la procedura delle candidature con l’invio dei curricula sarebbe stato doveroso prendersi un po’ di tempo per una discussione di merito sui criteri da seguire per le scelte. Andava chiesto un lieve slittamento delle sedute di Camera e Senato per permettere ai parlamentari di confrontarsi sulle ipotesi nominative. Così come andava discussa nell’intero centrosinistra la scelta delle personalità da eleggere. A questo punto vanno davvero rivisti i criteri di nomina, figli di una stagione politica che non c’è più».
L a de ci si one sarà pr esa questa mattina dal Parlamento, prima in Senato e poi alla Camera. Mentre per la scelta del presidente, che dovrà sostituire Corrado Calabrò, e che si ritroverà tra le mani dossier molto caldi, a partire dall’asta per le nuove frequenze del digitale terrestre, Mario Monti sembra orientato a indicare Marcello Cardani, docente alla Bocconi e già suo collaborato-
Gianfranco Fini ha auspicato: «È essenziale una modifica della legge che stabilisca requisiti e modalità delle candidature. Mi auguro che maturi una nuova consapevolezza» nativa Enzo Savarese rischiano di non avere il sostegno compatto dei parlamentari pidiellini. La decisione di rinviare il rinnovo delle cariche delle Authority, inizialmente previsto per il 23 maggio, è stata una scelta presa nel segno della trasparenza. Ieri pomeriggio sono scaduti i terminiper la presentazione dei curricula, inviati dai partiti e dal mondo della rete. Le poltrone in palio sono quelle dell’Autorità delle comunicazioni e dell’Authority per la tutela della privacy. Non sono mancate le polemiche sia dal mondo della rete che dalle associazione dei consumatori. Mentre l’Idv ha annunciato che usciranno dall’aula al momento del voto. Gianfranco Fini, incontrando una delegazione del gruppo pro-quote rosa all’Authority per le comunicazioni, ha auspicato: «È essenziale una modifica della legge che stabilisca requisiti e modalità delle candidature all’Agcom. Mi au-
re a Bruxelles. Cardani è stimato e conosciuto dal premier che con lui ai tempi della Commissione europea ha gestito dossier molto delicati come quello di Microsoft. Nato nel 1949, Cardani si è laureato alla Bocconi dove, dopo una specializzazione alla London School of Economics, ha intrapreso la carriera universitaria. Nel 1995 ha seguito Mario Monti alla Commissione europea. Prima è stato nel suo gabinetto quando era commissario al Mercato Interno. Poi, dal ‘99 al 2004, è stato vice capo di gabinetto dell’ex rettore della Bocconi commissario europeo alla Concorrenza. Cardani a novembre era accreditato tra i fedelissimi che avrebbero seguito il neo presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. La cosa non andò in porto e ora potrebbe essere l’uomo giusto per guidare l’Agcom. L’alternativa a Cardani potrebbe essere Enzo Portarollo, professore di Economia alla Cattolica di Milano.
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il paginone
La solidarietà, il coraggio, l’attenzione alla famiglia e ai suoi problemi non sono di destra né di sinistra: sono valori cristiani che vanno difesi sempre con l’esempio e con l’impegno i sono segnali che è difficile ignorare in un momento in cui il compulsare continuo delle scosse del terremoto sta mettendo in ginocchio l’economia del Paese e il suo morale. Il primo segnale con cui dobbiamo confrontarci è il crescente malessere della gente nei confronti della politica e di ogni altra forma di istituzione e di autorità. Il secondo segnale, legato al precedente è la disaffezione progressiva verso questo governo, perché all’indiscutibile aumento della pressione fiscale non ha ancora fatto seguito la capacità di rimettere in movimento lo sviluppo del Paese. E poi l’incomprensibile altalena di uno spread, che i sacrifici e le fatiche virtuose del paese avrebbero dovuto addomesticare già da molte settimane, mentre ciò non è avvenuto.“Se con tutti i sacrifici lo spread non si riduce, vale davvero la pena farne o bisogna cercare un’altra strada?”. Ci sono però anche segnali positivi in questo clima carico di preoccupazioni e di tensioni. Dalle zone del terremoto emerge l’immagine di gente forte, coraggiosa, solidale. Gente che sa guardare in avanti senza autocompatirsi e senza farsi schiacciare neppure dalle lungaggini burocratiche di aiuti promessi ma ancora lontani. Gente che vuole ricominciare a lavorare subito, per evitare che l’economia della zona, perdendo di competitività, sia messa definitivamente fuori gioco. E poi il segnale che viene dal VII Congresso internazionale sulla famiglia: la gioia spontanea dell’esser famiglia e del far famiglia, che dà un’immagine di profonda solidarietà tra le famiglie. C’è la sensazione che questo sia il tessuto sano della Nazione, con la sua coesione generosa e creativa e che ci siano molti, moltissimi valori condivisi tra persone che provengono da oltre 86 Paesi diversi, Famiglia e lavoro sono coordinate essenziali per immaginare una dignitosa possibilità di uscire dalla crisi, soprattutto quando entrambe reagiscono in modo solidale davanti alle difficoltà e danno prova di quel principio di sussidiarietà così essenziale per chi è efficacemente impegnato in area sociale e pre-politica.
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Intorno alla crisi che stiamo vivendo si addensano giudizi e valutazioni di natura etica graffianti ed incisivi. La crisi finanziaria, scatenata su di uno scenario globale, da banche e banchieri con pochi scrupoli, rivela una macchinazione speculativa di cui non è facile individuare i mandanti, ma che certamente ha il suo epicentro nell’Europa, nei suoi valori e nel suo stile di vita. Si è creato un sistema sociale corrotto, in cui la complicità diffusa, è sembrata
Quando la polit
di Paola dal recente Rapporto Istat mostrano quale enorme spreco di risorse umane si stia verificando oggi in Italia, con una percentuale di giovani, tra disoccupati e inoccupati, che si aggira intorno al 39%. Per questi giovani senza lavoro non c’è neppure la possibilità di pensare a spazi di autonomia, conquistati andando a vivere fuori di casa, e meno ancora alla possibilità di far famiglia. Difficile per loro aver fiducia nelle istituzioni e meno ancora nella politica. I
no, soprattutto politica, incompetenza professionale e mancanza di rigore sul piano morale, mancanza di etica e democrazia, per questo ne chiedono “democraticamente” la destituzione. La speranza è che l’antipolitica, che con le sue invettive ha assediato la politica in modo rabbioso, sia in realtà il segnale di un fenomeno che si sta esaurendo, sempre che i politici siano capaci di dare segnali concreti di cambiamento efficace nel loro agire al servizio del Paese.
Dalle zone del terremoto emerge l’immagine positiva di gente “forte” che sa guardare in avanti senza autocompatirsi e senza farsi schiacciare neppure dalle lungaggini burocratiche degli aiuti promessi dallo Stato, ma ancora lontani legittimare certi comportamenti, con la scusa che “così fan tutti”; una corruzione che non ha risparmiato neppure un gioco popolare come il calcio. Sembra che niente si sia sottratto alla logica di un mercato immorale che pensa di poter comprare tutto: dalla salute della gente, a volte perfino la sua vita, fino alla sua dignità e al suo senso dell’onore. Basta citare da un lato l’incompetenza tecnologica in materia di costruzioni antisismiche, rivelata dal crollo dei capannoni in Emilia, dall’altro l’asfittica organizzazione delle procedure di assunzione, ancora fortemente clientelari e così poco aperte a selezionare il merito e l’impegno delle nuove generazioni. Gli indici di disoccupazione confermati
giovani oggi non considerano affatto democratico il modo in cui vengono trattati ed espropriati del primo tra tutti i diritti a cui aspirano: il diritto al lavoro. E fanno ciò che possono: protestano con un voto di protesta o con un astensionismo amaro. Il grillismo nella sua affermazione progressiva si rivela come un enorme raccoglitore dell’insoddisfazione generale, a cui concorrono vizi e difetti di un intero sistema politico e sociale, incapace di ritrovare il senso morale del suo agire ma anche in forte difficoltà davanti alla necessità di individuare nuove modalità concrete per affrontare e risolvere problemi a complessità crescente. Il mondo dei grillini rimprovera alla classe di gover-
La crisi complessiva che il Paese sta attraversando riflette aspetti sempre più complessi da decifrare, come conferma il diffuso senso di spaesamento che emerge in tante persone. Si stenta a cogliere le coordinate del proprio vivere in un tempo che appare decisamente più avaro di prospettive rispetto a quello precedente. In questa atmosfera si fa largo una convinzione sempre più chiara: questa crisi prima ancora che economica e finanziaria è etica e morale. Il venir meno dei valori morali, che costituiscono l’architrave strutturale del nostro sistema sociale, sta mettendo a repentaglio la nostra democrazia. Quando ci si interroga sul fine della politica è facile identificare nel bene co-
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stizia e di carità», dice Benedetto XVI nella sua ultima enciclica.
Qui accanto, la stretta di mano tra Moro e Berlinguer per il “compromesso storico”. Nelle altre immagini, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, poi Don Sturzo, De Gasperi e il cardinal Montini (futuro Paolo VI) con Pio XII
tica è vocazione
a Binetti mune il suo approdo naturale, ma è più difficile spiegare in che cosa consista il bene comune, dal momento che non si tratta di una sommatoria di bene individuali. Il bene comune appartiene a tutti e come tale va garantito e tutelato dai possibili stravolgimenti che la ricerca affannosa del proprio bene individuale potrebbe creare. Eppure questo è proprio ciò che accade, quando nel dibattito politico si affacciano e si confrontano interessi diversi, spesso configgenti. Basta pensare al tema delle discariche: tutti sono convinti della loro necessità, ma nessuno le vuole sul proprio territorio. Eppure sono ormai numerosi gli esempi virtuosi di regioni che hanno saputo fare di una discarica un luogo sicuro, e perfino piacevole e redditizio, come mostrano i recenti studi di green economy. Basterebbe integrare meglio
sione sul bene comune anche l’annoso tema della pressione fiscale: le tasse, sganciate da una prospettiva di interesse generale, sembrano a tutti un prelievo ingiusto. La democrazia per raggiungere il suo fine, che è sempre e solo il bene comune, ha bisogno di una politica fiscale eticamente corretta, e questo almeno per ora non avviene ancora.
Per i cattolici impegnati in politica la dimensione etica dell’agire politico è parte integrante della propria vocazione di cristiani, che non ha nulla di scontato o di conformistico. Nulla di clericale. Richiede una libertà creativa capace di intercettare continuamente le esigenze del tempo, senza rimanere ancorati a vecchi schemi e senza perdere di vista le proprie radi-
Per i cattolici impegnati, la dimensione etica dell’agire politico è parte integrante della loro fede: un atteggiamento che non ha nulla di scontato o di conformistico. Nulla di clericale. Richiede la libertà di intercettare le esigenze del tempo il fine della discarica con i mezzi necessari per farne una risorsa del territorio a tutto tondo e non limitarsi a considerarla la pattumiera della zona, malodorante, pericolosa per la salute e decisamente antiestetica. L’approccio democratico esige che siano tutelati gli interessi di tutti, in una filiera compatta e sinergica. Appartiene alla rifles-
ci cristiane. “Liberi e forti”, perché è solo in questo modo che si può essere fedeli e coerenti ai propri valori. La specificità del cattolico nel fare politica sta in gran parte nell’impegno sociale, che quasi sempre precede l’impegno politico; è lì dove fa esperienza personale delle difficoltà e dei problemi degli altri, mettendosi al servizio
degli altri e restando fuori dagli schemi ideologici. Non è facile rispondere alla domanda di chi chiede quali siano i valori caratterizzanti nell’impegno politico dei cattolici, perché sono tutti quei valori, nessuno escluso, che contribuiscono alla umanizzazione della nostra società, politica inclusa. Facili quindi da condividere con tutte le persone di buiona volontà, a prescindere dalla loro fede. «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giu-
Eppure c’è la sensazione che qualcuno pensi che tra i cattolici ci possano essere valori più rilevanti a sinistra o a destra. Come se le radici cristiane non fossero un tutto unico e si potesse essere interpreti e difensori delle proprie radici selezionandone alcune e accantonandone altre, oppure assumendo la tutela di alcuni valori e lasciando ad altri la tutela dei restanti. Per questo i cattolici possono apparire a fasi alterne conservatori e progressisti, più sensibili alla questione sociale o alla questione antropologica. Ribelli e difficili da gestire, ma anche preziosi per il contributo che sanno dare al dibattito e alle decisioni da prendere. Attenti al valore della persona, ma scettici a ridurla alla dimensione individuale. La Dottrina sociale della Chiesa non può essere letta ed interpretata con chiavi di lettura diverse a seconda della propria appartenenza politica. La presenza dei cattolici in tutti i partiti è una grande risorsa per gli stessi partiti, per il contributo specifico che ognuno di loro può dare al dibattito interno del partito. Ma la loro suddivisione, che a volte appare come una vera e propria dispersione, rende meno rilevante il loro ruolo sul piano concreto. Nessuno ha delle certezze in questa fase del dibattito politico, ma tutti hanno delle domande. Quali progetti politici saranno elaborati dai partiti e quali caratteristiche avranno le prossime coalizioni, quale ruolo toccherà ai cattolici: saranno più uniti o più dispersi, più incisivi o più marginali. Più coraggiosi ed incisivi, o più rassegnati ed appiattiti sulla linea dei rispettivi partiti… Quel che è certo è che ai cattolici, come agli altri, andrà chiesto un forte contributo di coerenza personale sul piano delle virtù umane, solo apparentemente passate di moda. Quelle virtù di cui si sente una acuta nostalgia non appena inciampiamo negli effetti di una corruzione diffusa, oppure quando si torna a chiedere maggiore spirito di collaborazione; o ancora quando reclamiamo più sobrietà e distacco dall’attaccamento al potere. Il dibattito che si è tenuto ieri alla Camera, in margine al mio libro su “Etica & Democrazia”, voleva essere soprattutto un pretesto per parlare di buona politica tra cittadini e parlamentari, alla luce delle comuni radici cristiane, ma nella piena consapevolezza di quanto sia difficile essere coerenti in un sistema malato. Alla presenza del Presidente Fini ne hanno discusso colleghi di diverso schieramento come Roberto Rao, Paola Frassinetti, Matteo Colaninno e Massimiliano Fedriga: C’era e c’è tutto il desiderio di valorizzare la nuova generazione di parlamentari cattolici già presenti in Aula, ascoltando dalla loro voce cosa sognassero di poter fare solo 4 anni fa, quando è iniziato il loro impegno parlamentare ma soprattutto capire perché sia davvero così difficile fare della buona politica stando al servizio dei cittadini
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Si conclude con il rinvio a giudizio di 20 persone un’inchiesta su un presunto mancato pagamento di 245 milioni di imposte
Matrioska Unicredit Profumo a processo per frode fiscale: «Ho fiducia, non ho commesso illeciti» di Marco Scotti rogetto “Brontos”, un nome che sembrerebbe evocare un placido dinosauro che bruca le foglie più tenere sulla punta di un albero e che invece cela, dietro il suo rassicurante appellativo, un sistema di scatole cinesi ideato dalla banca inglese Barclays che avrebbe permesso – il condizionale è d’obbligo – di far risparmiare al principale istituto di credito nostrano, cioè Unicredit, quasi 250 milioni di euro. E questo disegno sarebbe stato avallato da uno degli imperatori della finanza italiana: Alessandro Profumo, già amministratore delegato di Unicredit e attuale presidente di Monte dei Paschi di Siena. Per questo motivo, il gup di Milano Anna Laura Marchiondelli ha chiesto ieri il rinvio a giudizio dell’ex numero uno di Piazza Cordusio e, insieme a lui, di altre 19 persone coinvolte a diverso titolo nell’affaire Brontos. L’adesione al progetto avrebbe garantito a Unicredit un “risparmio”fiscale di 245 milioni di euro. Come? Allacciate le cinture perché il discorso si fa complicato e, soprattutto, tortuoso.
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Prima di iniziare, è bene precisare che non siamo al primo atto di una vicenda nuova: tra il 2010 e il 2011, infatti, un’indagine dell’Agenzia delle Entrate sulle attività delle principali banche italiane aveva portato a un primo patteggiamento che aveva ricondotto nelle casse
dello stato 1185 milioni di euro, attraverso una serie di accordi, così ripartiti: nel 2010, 200 milioni da Bpm, 210 dal Banco Popolare, 54 dal Credem; nel 2011, 191 milioni da Unicredit (per gli esercizi 2005 e 2006), 260 milioni da Mps, 270 da Intesa San Paolo. L’accusa mossa è di aver cercato scientemente il modo per eludere la tassazione – la più alta d’Europa – del nostro paese per generare maggiori utili. L’Agenzia delle Entrate ha, in particolar modo, concentrato le proprie attenzioni sulla fattispecie di reato chiamato “abuso di diritto”, che si concretizza nell’utilizzo di norme al solo fine di aggirare la legislazione fiscale vigente
Una controllata di Barclays (BarSub) crea una società a responsabilità limitata in Lussemburgo (LuxParent), che a sua volta ne costituisce un’altra (LuxSub). LuxParent e LuxSub sottoscrivono dei Ppi (Profit partecipating instruments, ossia i titoli oggetto dell’operazione). Intanto Barclays trasferisce 2 miliardi di lire turche alla propria filiale di Milano (Milan Branch), che le investe nei Ppi emessi. Perché le lire turche? Perché all’epoca i tassi in Turchia erano del 20%, contro il 4% europeo. Secondo gli inquirenti, sarebbe a questo punto della catena che entra in gioco Unicredit: la banca acquista i Ppi e s’impe-
Il sistema ideato per pagare meno tasse è stato progettato da Barclays e passa attraverso una serie di “scatole cinesi” con sede (ovviamente) in Lussemburgo che accumulano bond stranieri per alleggerire, pesantemente, le aliquote. Questo avveniva attraverso un massiccio investimento su bond di paesi emergenti che subivano la ritenuta fuori patria, detratta poi in Italia e attraverso la compravendita estero-Italia di azioni nostrane prima dei dividendi, in modo da ottenere anche in quel caso un considerevole risparmio fiscale.
Ma torniamo a Brontos, al cui confronto queste operazioni sembrano giochi da ragazzi.
gna a restituirli a un prezzo prefissato entro un determinato lasso di tempo. Non c’è rischio, ma un enorme vantaggio: Unicredit può camuffare gli interessi di un deposito inter-bancario facendoli apparire come dividendi azionari, che hanno una diversa tassazione. Con un consistente risparmio, tanto che il gip, nel novembre scorso, parlò di “capziosa evasione fiscale”. Se vi siete persi, non temete: siete in buona compagnia, poiché l’intero meccanismo è stato
creato per generare confusione. La questione viene alla luce nel 2009, grazie a un’inchiesta del Guardian, storica testata britannica che si comporta da autentico “watch dog” (come amano definirsi i media anglosassoni): nonostante il pesantissimo coinvolgimento di Barclays, una delle più importanti banche britanniche, il quotidiano racconta di un sistema di dimensioni considerevoli, che ha coinvolto, tra gli altri, anche il più grande istituto di credito italiano per capitalizzazione, cioè Unicredit.
Per ché il rinvio a giudizio di Profumo? L’ex amministratore delegato di Unicredit avrebbe avallato le operazioni che abbiamo cercato di raccontarvi
sopra, realizzando profitti come dividendi di operazioni finanziarie che, di conseguenza, sono soggetti ad un’aliquota più bassa. L’attuale presidente di Mps si è dichiarato sereno, sostenendo che «il Giudice per l’Udienza Preliminare non è il Giudice del merito e quindi aspetto fiducioso ed impaziente il giudizio pubblico, certo come sono della correttezza di ogni mio operato e che non potrà quindi che essere riconosciuto come tale. In questo modo si porrà anche fine al danno di reputazione che sto di fatto, inevitabilmente, pur ingiustamente, subendo». Non è di poco conto la chiusa con cui Profumo ha voluto terminare la propria dichiarazione: è un dato di fatto
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Morto ieri a Parigi l’uomo che ha guidato le Generali per 40 anni
Esce di scena Bernheim, il leone della finanza di Francesco De Felice
ROMA. Ha avuto nelle mani per anni la sorte di grandi gruppi imprenditoriali francesi e italiani, ma ieri nella sua casa parigina Antoine Bernheim non ce l’ha fatta.“Cuccia francese”, “Talleyrand degli affari”, alcune delle definizioni che hanno accompagnato gli 87 anni di vita di questo leone della finanza, stanno a dimostrare tutto il suo valore. La notizia della sua morte l’ha pubblicata Le Monde, nel cui Consiglio di sorveglianza sedeva ancora, dopo l’annuncio della famiglia del banchiere francese. Di origine ebraica, figlio di due genitori deportati e morti ad Auschwitz, Bernheim, dopo la laurea in giurisprudenza, a 43 anni è diventato socio della banca Lazard. Da quella plancia di comando Bernheim ha reso possibile la costruzione di alcuni dei più grandi gruppi finanziari francesi: da Vincent Bolloré, a François Pinault, a Bernard Arnault, il creatore del gruppo leader mondiale del lusso.
Il mondo finanziario italiano non ha mai perdonato al banchiere la sua decisione di non usare l’Istituto milanese come contenitore di operazioni di carattere puramente “politico” che l’ex numero uno di Unicredit abbia visto il proprio potere (un tempo enorme) progressivamente eroso. E questo sia per una modalità di gestione della banca che l’ha portato più volte allo scontro con il consiglio di amministrazione – fino alla turbolenta uscita di scena nel settembre del 2010 – sia per un suo (va detto, coraggioso) tentativo di non fare di Unicredit una banca di “sistema”, cioè uno di quegli istituti di credito interessati esclusivamente o quasi a garantirsi partecipazioni in questo o in quel consiglio di amministrazione (e in questo, o quel salotto buono della finanza). Una colpa da cui il cosiddetto establishment italiano non l’ha mai del tutto perdonato. Tant’è vero che un uomo della caratura, dell’esperienza e del carisma di Profu-
mo è rimasto per quasi due anni fuori dalla scena finanziaria italiana, mentre, al contrario, tutti i grandi manager hanno sempre trovato rapidamente una nuova collocazione nello scacchiere economico nostrano.
Qu esto non vuole fungere da discorso assolutorio: se Profumo ha sbagliato durante la sua gestione, è giusto che paghi per quanto di male ha commesso. Ma ci sia consentito di rimarcare il diverso trattamento cui, a più riprese, è stato sottoposto Alessandro Profumo, reo (e per di più confesso) di non aver mai voluto impiegare la sua banca come un salvadanaio per grandi gruppi in crisi. Si pensi alle vicende Ligresti, Alitalia o Air One: in nessuno di questi casi vi è mai stato il pronto intervento di Unicredit,
che ha preferito restare ai margini di una scena economica che si stava rapidamente deteriorando. Per carità, anche Profumo non è esente da colpe: la sistematica e continua “campagna d’Europa”, volta ad acquisire in rapida successione banche estere (soprattutto nella parte orientale del Continente), che tanto è costato a Unicredit dal punto di vista economico, è stata fatta non tenendo conto dell’imminente sconquasso portato dalla crisi che avrebbe piegato la redditività anche di una banca enorme com’è Unicredit.
Ora la carriera di Alessandro Profumo, uomo dotato di un’ambizione davvero rara, rischia di subire un altro brusco stop qualora le accuse mosse dai magistrati milanesi dovessero essere confermate. Tanto più che l’ex numero uno di piazza Cordusio sta vivendo un momento particolarmente difficile, dopo aver accettato di ricoprire il ruolo di presidente di Mps in sostituzione di Giuseppe Mussari. La scoperta di un buco nel bilancio, le indagini sull’acquisizione di Antonveneta, gli avvisi di garanzia per alcuni membri del precedente management rischiano di rendere ancora più difficile la sfida che Profumo ha deciso di raccogliere. La vicenda insegna una volta di più quanto oscuri possano essere i meandri della finanza internazionale.
Amico di Enrico Cuccia, al vertice della banca d’affari Lazard, è stato a lungo presidente delle Generali e vice presidente di Mediobanca. Per quasi 40 anni Bernheim ha fatto parte del Consiglio di amministrazione della prima compagnia assicurativa italiana, fino all’aprile del 2010. Entrò, infatti, nel 1973 nel consiglio di amministrazione, di cui diventò vicepresidente nel 1990 e poi presidente dal 1995 al 1999. L’influenza di Lazard negli affari italiani irritarono Enrico Cuccia che decise di “spodestare” Bernheim dalla presidenza del Leone. Grazie al suo legame con Vincent Bollorè riuscì nuovamente a essere nominato presidente di Generali nel 2002, quando già aveva 78 anni, per restare al vertice della compagnia, affiancato da Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot come amministratori delegati, fino al 2010. Alla scadenza del mandato tentò ancora una volta di mantenere la guida di Generali, ma dovette accontentarsi della presidenza onoraria e cedere la carica a Cesare Geronzi. Un’uscita di scena tra polemiche e accusa di tradimento per il suo ex mentore Bollorè. Oltre a una causa a Generali, ritirata dopo anni, con la richiesta di 20 milioni di danno dopo la buonuscita da 16 e rotti milioni concessa a Cesare Geronzi per appena più di un anno di presidenza.
Ha gestito importanti acquisizioni anche in Francia: da Vincent Bolloré, a François Pinault, a Bernard Arnault
Commosso il ricordo di Gabriele Galateri, attuale presidente di Generali: «La notizia della scomparsa di Antoine Bernheim mi rattrista molto. È stato una grande figura e un punto di riferimento per il mondo finanziario europeo. Lo ricordo come un uomo che ha sempre sostenuto con passione unica le sue idee. Bernheim ha trascorso più di 30 anni nel consiglio di amministrazione della nostra compagnia ricoprendo a lungo la carica di presiAntoine Bernheim. dente. In questo ruolo è In alto, stato una guida imporAlessandro tante e determinante Profumo per lo sviluppo internazionale delle Generali».
mondo
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Mappa ragionata di chi comanda cosa nel vecchio network del defunto bin Laden
Tutti i buchi nella Rete del Terrore
Ayman al-Zawahiri, il mullah Omar e al-Adel sembrano ancora al vertice di al Qaeda. Ma gli attacchi Usa si fanno più precisi, e la mappa dell’estremismo cambia faccia di Antonio Picasso er Obama la guerra ad alQaeda è più di policy che sul terreno. Perché questa seconda parte, volendo essere sintetici, si riduce al successo o meno della singola operazione. Che poi siano i droni piuttosto che le forze speciali a intervenire poco importa. No, gli ostacoli più ostici Obama li sta incontrando nello stabilire la lista dei target, come gestire i singoli personaggi e soprattutto controllare le onde anomale provocate dal fallimento di un raid. Il caso al-Libi è indicativo. A neanche sei mesi dalle elezioni, la Casa bianca non ci fa una bella figura nell’affrontare le smentite dei talebani sull’uccisione del loro numero due. E tanto meno nel sostenere le proprie ragioni di fronte al Pakistan che critica gli interventi della Cia e dei suoi droni, i quali sembra che colpiscano la popolazione civile. Certo, l’immagine internazionale di Islamabad è talmente screditata che le sue proteste appaiono irrilevanti sulla campagna elettorale di Obama e, a livello operativo, sulla conduzione del conflitto da parte della difesa Usa. Tuttavia, i tentennamenti della guerra contro la rete del terrore sono evidenti. Primo perché i raid non sono mai precisi. Definiti i nemici prioritari, quale sarebbe il criterio di eliminazione? Il primo che viene localizzato è anche il primo a saltare?
P
focus su come il presidente Usa affronti temi sicurezza nazionale e antiterrorismo. Da un lato, emerge un comandante in capo virtuosamente contraddittorio. Nel senso che era stato proprio Obama a porsi di traverso alle pratiche di tortura permesse dall’Amministrazione Bush e sua era stata la decisione di chiudere il carcere di Guatanamo. Una magnanimità, o meglio un ritorno al rispetto dei diritti umani – come da tradizione made in Usa – che contrastava con la fermezza nel perseguire i singoli leader di al-
una qualche maniera interminabile. Se invece la risposta è no, allora Obama sarebbe già a buon punto nello scontro con al-Qaeda. Ma la realtà, sappiamo, non è così. Basta una rapida visita al sito dell’Fbi per rendersi contro che il conflitto è pienamente in corso.
I most wanted per gli Usa sono ancora tanti. I primi tre nomi sono noti un po’a tutti: Ayman al-Zawahiri, Mohammed Omar e Saif al-Adel. Il medico egiziano vanta il primato della taglia più consistente per gli americani: 25 milioni di dollari. La sua affermazione, come leader di alQaeda nel post bin Laden però, lo rende ancora più sfuggente. Al-Libi, al confronto, vale poco. Prima di tutto perché rappresenta il braccio operativo. Al-Zawahiri invece è la mente. Quando era vivo bin Laden aveva in mano la propaganda e la politica di comunicazione. Negli ultimi mesi però non è più comparso con messaggi audio o video. Possibile che l’organizzazione abbia stretto le maglie di protezione intorno a lui? Mohammed Omar, meglio noto come il Mullah Omar, resta l’incontrastato comandante talebano: 10 milioni per stanarlo dai monti dell’Asia centrale. Non è un qaedista puro. Ma la rete di bin Laden gli deve praticamente tutto. Senza il Mullah Omar, al-Qaeda ben difficilmente avrebbe recuperato così tanto sostegno e protezione tra le valli afgano-pakistane. È questo scolaro islamico, per la verità di basso profilo intellettuale, a vantare la paternità fra jihadismo e lotta
Nella lista dei most wanted ci sono cittadini di tutti i Paesi. Non soltanto arabi, dato che l’Fbi offre 10 milioni di dollari a chi trova Adam Pearlman, nato negli States
Oppure Cia e Pentagono si mettono sulle tracce di un comandante jihadista in particolare e vanno avanti finché non lo rintracciano? Appena una settimana fa, il New York Times ha pubblicato un lungo
Qaeda. La morte di bin Laden fa scuola. A essa si associa la formulazione di una lista, la kill list, composta da quei personaggi del jihad che poco facilmente si arrenderebbero e che, realismo docet anche in casa Obama, devono essere eliminati fisicamente. Detto questo, «in un elenco di trenta nomi, se viene ucciso il numero 20, il 21 esimo prende il suo posto?» La domanda spiazza. Se infatti la risposta è positiva, si tende a pensare che la lista sia in
mondo
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Il mullah Omar. A destra Ayman al Zawahiri, successore di bin Laden. Sotto, al Libi. Nella pagina a fianco lo sceicco del terrore e, nel riquadro, Obama
Mistero sulla sorte di al-Libi, perenne delfino qaedista più volte dato per defunto talebana.Un connubio che, per gli stessi mujaheddin dell’Asia centrale, appare un aborto ideologico. Per quanto funzionale sul terreno. A lui andrebbe associato Nakimullah Mehsud, mujaheddin di efferata violenza e con un vasto seguito in tutte le Aree tribali, sia quelle afgane sia quelle pakistane. Ma soprattutto il clan Haqqani, organizzatore del l’insorgenza jihadista che si sfoga in questa stagione lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan.
C’è poi Saif el-Adel. Di questo egiziano non si sa più nulla da quasi trent’anni. È il vero ispiratore di quel terrorismo islamista che ha impegnato e che tiene ancora in allerta agenti di intelligence e della sicurezza di mezzo mondo. El-Adel ha ideato l’assassinio del presidente egiziano Sadat nel 1981. Ha portato il jihadismo in Sudan e poi in Afghanistan, lasciando a bin Laden i narcisistici quanto vani onori delle prime pagine. C’è da chiedersi cosa ne pensi del connazionale al-Zawahiri. AbuYahya al Libi.Veniamo all’uomo del giorno. Cittadino libico, nato nel 1963, comandante responsabile delle operazioni nelle regioni tribali in Pakistan e dei contatti con gli affiliati sparsi nel mondo. Fuggito dalla prigione Usa di Bagram nel 2005, è diventato il numero due di al-Qaeda dopo la morte di Atiyah Abd al-Rahman. Adam Yahiye Gadahn invece è un cittadino americano di 32 anni, battezzato con il nome di Adam Pearlman. Si è poi convertito all’Islam all’età di 17 anni, «per colmare un vuoto», dice lui. Da allora si è adoperato in prima persona per il jihad. Si è trasferito un a volta in Pakistan, dove ha sposato una profuga afgana. Poi è tornato nel suo Paese natio e lì ha cominciato a fare proselitismo. Accusato di alto tradimento e affiliazione al gruppo terro-
L’ennesima morte dell’ennesimo n° 2 ROMA. Abu Yahia al-Libi non è morto. O forse sì. Pentagono e Cia si dichiarano ottimiste sulla riuscita del raid effettuato lunedì notte, in Pakistan, nel Sud del Waziristan, vicino alla frontiera afgana. La difesa Usa dice di aver realizzato un attacco chirurgico, per mezzo di droni, che avrebbe ucciso non oltre cinque persone.Tra loro si ritiene ci sia anche l’attuale numero due di al-Qaeda. La smentita del successo giunge da due canali però. Islamabad sostiene che l’operazione abbia ucciso quindici persone. Si sarebbe trattato quindi di un intervento a più ampio raggio e non così preciso come dicono dall’altra parte dell’Atlantico. I talebani intanto negano che tra i morti via sia proprio al-Libi. Non è la prima volta che il leader terrorista fa parlare di sé e si fa passare per morto. Risorgendo improvvisamente dopo qualche giorno, a settimane addirittura, smontando così l’entusiasmo dell’Amministrazione Obama. Il primo caso risale all’inizio del 2009. L’attuale inquilino della Casa bianca si era appena insediato e, previa operazione speciale, al-Libi era stato dato per morto. Il ritorno sulla scena aveva annichilito la soddisfazione di Obama. Fortuna e illusioni da principiante. Era stato questo il commento a caldo. Poi la scena si era ripetuta alla fine dello stesso anno. Una volta creduto eliminato, al-Libi era tornato al comando. Il personaggio, più o meno cinquantenne, sta probabilmente sfruttando le sue nove vite. Ciò che merita una riflessione però è la modalità di intervento. Dopo il summit di Chicago della Nato, durante il quale si è discussa la futura strategia di operazione (exit strategy inclusa) in Afghanistan,
era sembrato che le relazioni tra Pakistan e Stati Uniti avrebbero potuto ricominciare. Tuttavia la riapertura del file prevedeva una revisione dei documenti interni. Invece né a Washington né a Islamabad nessuno si è preso l’incarico di far luce su cosa andasse salvato e cosa no delle relazioni bilaterali prima della crisi dell’autunno scorso.
«Bene, torniamo a parlarci e a stringerci la mano», si sono invece detti i due governi. Così sono ricominciati i raid dei droni in territorio pakistano. Un po’ con la buona intenzione di eliminare il nemico comune di al-Qaeda. Comune si fa per dire, visto che alcune ramificazioni dell’intelligence pakistana si ritengono colluse con la galassia jihadista. Un po’ con l’imprecisione dei raid. Così la crisi nata quando era stato ucciso Osama bin Laden – ottimo il target, discutibile il metodo – si rivelata tutt’altro che risolta. Il caso al- Libi, al di là del fatto che si abbia a che fare davvero con un gatto a nove vite, rientra anch’esso nel problema. Se i pakistani dessero maggiori e più dettagliate informazioni sulla rete del terrore che ha sede nel loro Paese, gli attacchi andrebbero a colpire solo gli obiettivi indicati. D’altra parte, se gli Usa si dimostrassero più aperti al dialogo con l’alleato locale e non lo trattassero come un Paese di terz’ordine da ingozzare di dollari, il governo di Islambad probabilmente sarebbe più disponibile. Del resto, il problema non è nell’identificare il vero colpevole. Bensì nell’ammettere che una partnership come questa, pre e post Chicago, resta sterile e del tutto vantaggiosa per il nemico.
ristico di al-Qaeda, ha una taglia sul capo pari a dieci milioni di dollari. Suleiman Abu Ghaith: imam del Kuwait di 46 anni, i cui sermoni dai toni estremisti sono banditi nel suo paese. Abdullah Ahmed Abdullah: egiziano, circa 50 anni, è sospettato di avere aiutato Saif al Adel a diffondere al-Qaeda in Africa orientale. Anche lui fa parte della lista dei 22 terroristi più ricercati dalla Fbi, con una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Nazih Abdul-Hamed Nabih al-Ruqai, o più semplicemente Anas al-Liby: libico, 47 anni, ex rifugiato politico in Gran Bretagna, è sospettato di avere partecipato agli attentati in Africa del 1998. Ali Said Ben Ali El-Hoorie: saudita, 46 anni, lo si pensa coinvolto nell’attentato del giugno 1996, contro le torri Khobar, a Dahran (Arabia Saudita). Per la sua cattura sono stati offerti cinque milioni di dollari. Khalid al-Habib è ritenuto il comandante delle operazioni di al-Qaeda nel sud-est dell’Afghanistan, ma dal 2008 si vanta di sovrintendere anche le attività nel nord del Pakistan.
E qui ci fermiamo. La lista infatti sarebbe molto lunga. Il problema, per i giornali ma soprattutto per le agenzie di intelligence, è dove mettere un punto fermo nell’elencazione. Per quanto differenti siano un alZawahiri e un al-Libi, è identico il livello di pericolosità. Per questo Obama non ha abrogato la licenza di uccidere. L’ha solo canalizzata. Il fatto è che, nel metterla in pratica, non sempre le cose vanno come nelle pellicole di Fleming. E tanto meno si rispettano alla lettera i valori e i diritti dei civili che stanno intorno all’obiettivo. Il presidente vorrebbe che i raid avvenissero nella maniera più pulita possibile. Senza vittime collaterali. La cronaca, al contrario, dice che di queste non si può fare a meno.
cultura
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A Kyoto, alla 25ma Conferenza sulla Fisica e Astrofisica dei neutrini, attesa nei prossimi giorni la smentita della rivoluzionaria scoperta del 2011
Scusaci Professor Einstein Aveva ragione lui: quelle particelle non sono più veloci della luce. L’esperimento Cern-Gran Sasso fu un’illusione di Maurizio Stefanini cusaci, Einstein! Potrebbe essere così sintetizzato il tema della 25esima Conferenza Internazionale sulla Fisica e Astrofisica dei Neutrini, che è iniziata nella giapponese Kyoto domenica scorsa, e che andrà avanti fino a sabato. Sono molte le comunicazioni attese, annunciate scoperte rivoluzionarie. Ieri, in particolare, due differenti gruppi di ricerca hanno presentato il frutto di lavori dai quali si ricava che non è vero che i neutrini sono a massa zero come finora ritenuto, ma hanno invece una minima consistenza. Ma la comunicazione più attesa verrà venerdì, e sarà quella relativa non a una scoperta rivoluzionaria, ma alla smentita di quella che era stata annunciata come la scoperta più rivoluzionaria di tutti. Ovvero, non è vero che i neutrini, allo stesso modo del Superman dei fumetti, possono correre più veloci della luce.
S
Ricordate? Proprio in Italia, il 21 settembre 2011 fu annunciato che dopo tre anni di ricerche in collaborazione, un fascio di neutrini partito dal Cern di Ginevra nell’ambito del progetto Opera (Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus) era arrivato al Laboratorio del Gran Sasso dopo 730 km di corsa, con 20 metri di vantaggio sulla luce. C’era stato il terremoto all’Aquila, e dunque erano stati fatti ulteriori sei mesi di controlli, ma il risultato finale era stato identico: il neutrino sembrava più veloce del massimo che la fisica moderna gli aveva finora imposto, quando appunto Albert Einstein aveva sentenziato che nulla può andare più veloce della luce. In Italia, alla fine, tutta la portata della vicenda di cui pure la nostra scienza era stata protagonista è andata in vacca, con la polemica e le corbellature a proposito dell’allora ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Mariastella Gelmini, il cui ufficio stampa aveva vantato lo stanziamento da parte dell’Italia di ben 45 milioni di euro per realizzare un inesistente tunnel dalla Svizzera all’Italia, attraverso il quale il fascio di particelle sarebbe stato proiettato. «Nessun tunnel ma un fascio di neutrini che è stato “sparato”dal
Cern di Ginevra per un viaggio sotterraneo che dura 2,4 millisecondi, raggiunge la profondità massima di tre chilometri per effetto della curvatura terrestre e termina al Gran Sasso, dove il fascio è “fotografato” da un rilevatore e ne viene misurata la velocità. Quindi tranquilli, soprattutto i cittadini di Firenze che si trovano sulla traiettoria: il viaggio delle particelle, perfettamente rettilineo, non impegna nessuna struttura costruita dall’uomo; e nessuno potrà usare tale esperimento per giustificare una nuova Tav sotto il Trasimeno», aveva puntualizzato ad esempio un controcomunicato della Rete 29 Aprile Ricercatori per una università pubblica, li-
Il fascio che era partito da Ginevra sembrò raggiungere l’Abruzzo con 20 metri di vantaggio sulla luce. Ma poi sono emersi due errori di misurazione in antitesi tra loro
bera e aperta. Contro-controcomunicato del Ministero, per parlare di “polemica destituita di fondamento” e “assolutamente ridicola”: «è ovvio che il tunnel è quello nel quale circolano i protoni dalle cui collisioni ha origine il fascio di neutrini che attraversando la terra raggiunge il Gran Sasso». Ma a ogni modo un portavoce della Gelmini era poi saltato.
Ma, appunto, in Italia sembra che dobbiamo sempre mandare in vacca tutto. Il neutrino è in effetti una particella elementare con una massa da 100 mila a un milione di volte inferiore all’elettrone, che a sua volta è 1/1836 di protone e neutrone, pesanti 1,6726231 \u00D7 10-27 kg. Sprovvisto sia di carica elettrica che di calore, il neutrino può però interagire attraverso la forza nucleare debole e la forza di gravità. Ma in modo così debole, che ci vorrebbe un muro di piombo spesso un anno luce per bloccare la metà dei neutrini che lo attraversano. L’idea della sua esistenza venne nel 1930 a Wolfgang Pauli, per risolvere un problema che si riscontrava nell’osservare il decadimento dei neutroni, da cui in teoria avreb-
L’acceleratore nel laboratorio del Cern a Ginevra. A destra, l’immagine ricostruita di un neutrino. A sinistra, Albert Einstein. All’epoca dell’esperimento, l’ufficio stampa dell’allora ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Mariastella Gelmini vantò lo stanziamento da parte dell’Italia di 45 milioni di euro per realizzare un inesistente tunnel dalla Svizzera all’Italia attraverso il quale il fascio di particelle sarebbe stato proiettato
bero dovuto venire un protone e un elettrone. Ma invece della relativa riga risultava uno spettro completo che partiva da 0, saliva, raggiungeva un massimo e quindi ritornava ad annullarsi, in corrispondenza di un valore massimo circa 5 volte e mezza la massa dell’elettrone. Poteva esserci un terzo corpo a impulso nullo, a complicare i dati? Nel 1934 fu dunque Enrico Fermi a coniarne il nome, che appunto è passato alla scienza internazionale in italiano: neutrino, cioè neutro come il neutrone, ma molto più piccolo. Ma solo nel 1956 Clyde Cowan e Fred Reines ne verificarono l’esistenza, quando un esperimento eseguito al reattore a fissione di Savannah River mostrò reazioni indotte proprio da neutrini liberi. Studi successivi hanno smentito che fossero i neutrini i responsabili della materia oscura, se non in proporzione insignificanti. Ma in compenso nel 1987 si sperimentò che effettivamente la gran parte dell’energia di una supernova collassante viene irradiata in forma di neutrini: prodotti in quantità notevole quando i protoni e gli elettroni del nucleo si combinano a formare neutroni. Torniamo però a Bomba: cioè, alla luce. Si imparava appunto a scuola che la sua velocità di 299.792, 458 km al secondo abi-
in tualmente arrotondati 300.000 e indicata con c, non potrebbe mai essere superata. Lo aveva detto Albert Einstein, basando su questo postulato tutte le sue teorie: in particolare, quella della relatività ristretta. Al massimo, è possibile il famoso paradosso dei gemelli. Un’astronave parte dalla Terra con a bordo un gemello, e a velocità costante raggiunge una stella a 8 anni luce dalla Terra, per poi tornare indietro e riabbracciare il gemello che invece è restato sulla Terra. Se è andato a 240.000 km all’ora, cioè 0,8 c, per via del sistema di relatività ristretta il tempo per lui è andato al 60% rispetto al tempo del fratello. Quindi per lui sono passati solo 12 anni, contro i 20 del fratello, ora di 8 anni più vecchio. E la teoria della relatività generale spiega che all’aumento dell’accelerazione che un osservatore avverte, il suo orologio rallenta in proporzione. La conseguenza? Sarebbero impossibili civiltà interstellari basate su una comunicazione continua tra i vari “nodi” dell’Universo, come quelle immaginate da Star Wars, Star Trek o Stargate.
La fantascienza aveva dunque immaginato una serie di soluzioni alternative per aggirare l’ostacolo: dall’iperspazio, un “foglio di universo”nel quale
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e di cronach
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le normali leggi della fisica non sembrano valere più; ai tachioni, per i quali la velocità della luce non sarebbe il limite verso l’alto sopra il quale non potrebbero andare, ma il limite verso il basso sotto il quale non potrebbero scendere; al wormhole,“tunnel spaziale”, spesso ma non sempre identificabile con un buco nero, che può essere usato come scorciatoia. Se no, il viaggio nello Spazio sarebbe possibile solo a patto di costruire astronavi in cui possano susseguirsi varie generazioni; o in cui si collochino astronauti ibernati; o addirittura mettendovi ovuli da fecondare in tempo per far nascere, crescere e istruire l’equipaggio: evidentemente, da robot e computer. Ma così ovviamente si colonizza, forse, lo Spazio. Non si crea una civiltà interstellare. Oppure, se l’astronave si mette a correre veramente veloce, si può verificare il Paradosso dei Gemelli, che è anch’esso un plot caratteristico dalla fantascienza: l’astronauta che parte, e torna in un mondo in cui non solo tutti i suoi coetanei sono ormai morti da tempo, ma è diventato completamente irriconoscibile. Il neutrino più veloce della luce, ovviamente, avrebbe comportato nell’immediato una completa rivoluzione della fisica. Un risultato straordinario
Neutro come un neutrone, ma molto più piccolo. Sprovvisto sia di carica elettrica che di calore, il neutrino può interagire attraverso la forza nucleare debole e la forza di gravità che spiega il perché - avevano avvertito al Cern e al Gran Sasso - non bastassero le conferme ordinarie, ma si stesse cercando una conferma straordinaria. A novembre erano stati infatti effettuati ulteriori esperimenti, nei quali a percorrere i 730 chilometri che separano il Cern dal Gran Sasso erano stati ”pacchetti” di neutrini lunghi solo 3 nanosecondi e spaziati gli uni dagli altri di 524 nanosecondi: molto più piccoli e meno distanziati rispetto a quelli uti-
lizzati nelle misurazioni di settembre, in cui i fasci avevano avuto una durata di 10.500 nanosecondi ed erano stati lanciati a intervalli di 50 milioni di nanosecondi. «Non è ancora la parola definitiva, ma i nuovi risultati ci rendono ancora più fiduciosi», aveva commentato il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica nucleare (Infn) Fernando Ferroni. In particolare, si era detto che fosse stata eliminata quell’importante fonte di dubbio rappresentata dallo ”start”: i 10.500 nanosecondi che servano ai neutrini per abbandonare l’acceleratore in cui vengono creati, nel momento in cui vengono “sparati” dal Cern. E tuttavia, ammetteva Ferroni, «una misura così delicata ha profonde implicazioni per la fisica e richiede un eccezionale livello di approfondimento. Ma la parola decisiva può arrivare solo da esperimenti analoghi in altre parti del mondo». Già a ottobre, però, il Nobel Sheldon Lee Glashow aveva detto che se la misura della velocità dei neutrini fosse stata corretta, i neutrini stessi avrebbero dovuto perdere energia prima di arrivare nel rivelatore Opera: cosa in disaccordo con l’osservazione. E lo scorso febbraio, infine, sono saltati fuori i due errori nella misurazione. Il pri-
mo legato alla cattiva calibrazione dell’orologio atomico di riferimento per calcolare il tempo di viaggio della particella; il secondo, per un cattivo collegamento di una fibra ottica con il sistema Gps. In teoria, due errori in antitesi: se l’errata calibrazione dell’orologio tenderebbe a far sembrare i neutrini più lenti, infatti, la cattiva connessione invece li accelererebbe. Ma la stima è stata che la combinazione dei due errori avrebbe potuto effettivamente aver causato un anticipo di 60 nanosecondi nella ricezione del segnale. E ciò è stato poi confermato nella conferenza del 28 marzo 2012 presso il Laboratorio del Gran Sasso.
Così come non era stata definitiva la prova, in effetti non è stata definitiva neanche la refutazione, e degli esami fatti in tutto il mondo si è detto che non avrebbero potuto affermare nulla di più solido fino al 2013. Ma lo stesso Cern dopo aver corretto i due errori ha riprovato l’esperimento a maggio, senza riuscire a riottenere lo stesso risultato. E vari esponenti dell’équipe hanno allora annunciato che avrebbero smentito la scoperta: una decisione che verrà appunto ora ufficializzata. In attesa dell’iperspazio…
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