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Speciale - Olivotto
from Italia Publishers 04/2021
by Density
Non bastano gli strumenti per gestire correttamente il colore: bisogna saper vedere
Nel color management, un ingrediente fondamentale, e spesso trascurato, è la visione, cioè il processo grazie al quale i nostri occhi percepiscono la luce e i colori
di Marco Olivotto
La gestione del colore (color management) è necessaria per ottenere una riproduzione accurata del colore su un dispositivo. C’è però un retroscena che non riguarda le immagini digitali, i monitor o le macchine da stampa, ma noi esseri umani: si tratta della visione, argomento spesso trascurato. La visione è un processo molto complesso innescato da uno stimolo (la luce che colpisce il nostro occhio), che genera una sensazione (lo stimolo viene acquisito dai fotorecettori presenti nell’occhio) per trasformarsi infine in percezione (l’organizzazione, l’interpretazione e l’esperienza cosciente della sensazione). In molti casi, ciò che percepiamo è ben diverso da ciò che i numeri suggeriscono, e questo può rappresentare un problema. Comprendere il funzionamento della visione è importante al fine di prevenire sorprese che possono eludere anche la gestione del colore più avanzata e raffinata. Per introdurre l’argomento, partiamo dalla materia prima: la luce.
Anatomia della luce
Verso la metà del XIX secolo, il fisico James Clerk Maxwell formulò una teoria dell’elettromagnetismo basata su quattro equazioni che portano il suo nome. La teoria fa due affermazioni fondamentali: i fenomeni elettrici e magnetici sono riconducibili a un’unica causa, ed esiste una radiazione elettromagnetica in grado di trasportare energia propagandosi nello spazio. La luce è una piccola parte della radiazione elettromagnetica, talvolta indicata anche con l’espressione onde elettromagnetiche.
La radiazione elettromagnetica ci permette di ascoltare una stazione radio a migliaia di chilometri di distanza, di riscaldare una pietanza nel forno a microonde, di indagare l’interno del corpo per mezzo di radiografie, di intervenire chirurgicamente in aree difficili da raggiungere direttamente. Tutte queste onde sono riconducibili a un unico fenomeno fisico, e si differenziano solo per alcune caratteristiche, la più importante delle quali è la lunghezza d’onda, indicata dalla lettera greca λ (lambda).
L’onda più semplice possibile ha forma sinusoidale. In un’onda di questo tipo, la lunghezza d’onda è la distanza che intercorre tra due picchi successivi (figura 1). L’insieme di tutte le lunghezze d’onda possibili prende il nome di spettro elettromagnetico e ha un’estensione enorme: dai raggi gamma più estremi, caratterizzati da un valore di λ inferiore a 10-16 metri (circa un millesimo della dimensione media di un nucleo atomico), fino alle onde radio lunghe, in cui λ può essere dell’ordine di centinaia di migliaia di chilometri.
In mezzo a questo oceano di lunghezze d’onda, si trova la minuscola regione dello spettro visibile, delimitata da due valori di λ molto piccoli se rapportati alla scala umana: 400 nm e 700 nm (figura 2). La sigla nm sta per nanometro, e corrisponde a un miliardesimo di metro, ovvero un milionesimo di millimetro. Per dare un’idea, un’onda elettromagnetica con λ = 500 nm compie circa 150 oscillazioni attraversando lo spessore medio di un capello. Lo spettro visibile confina con le aree dell’ultravioletto (UV, λ < 400 nm) e dell’infrarosso (IR, λ > 700 nm).
Quando un’onda elettromagnetica di lunghezza d’onda compresa nello spettro visibile colpisce il nostro occhio, la percepiamo come luce. Se λ cade al di fuori di tale intervallo, il sistema visivo non viene stimolato dalla radiazione. In sostanza, possiamo “vedere” la radiazione elettromagnetica nell’intervallo di lunghezze d’onda comprese tra 400 e 700 nm, ma siamo ciechi a tutte le altre lunghezze d’onda.
La lunghezza d’onda è il colore?
La risposta breve è: no. La lunghezza d’onda è una grandezza fisica che caratterizza la radiazione elettromagnetica, ma di per sé non ha nulla a che fare con il colore. Il colore è una percezione che si manifesta nella nostra mente: non è un fenomeno fisico, bensì psicologico. È vero però che lunghezze d’onda diverse stimolano in noi sensazioni che si manifestano come percezioni di colori diversi. La lunghezza d’onda, quindi, non è il colore in senso stretto, anche se per semplificare affermiamo, ad esempio, che una sorgente luminosa che emetta onde con λ = 600 nm è “arancio”, confondendo la percezione con lo stimolo.
Per la radiazione elettromagnetica vale il principio di sovrapposizione: se sommiamo due onde otteniamo una nuova onda, che però non avrà un valore definito di λ. Uno stimolo caratterizzato da un singolo valore di λ prende il nome di stimolo monocromatico, e si può ottenere isolando una porzione dello spettro visibile per mezzo di una fessura in un materiale opaco. Se la fessura è sufficientemente sottile, l’onda che la attraversa è caratterizzata con buona approssimazione da un singolo valore di λ. La figura 3 rappresenta schematicamente l’isolamento di uno stimolo con λ = 520 nm, che viene percepito come una luce verde. Spostando la fessura, la lunghezza d’onda cambia.
I colori visibili nello spettro sono generati da stimoli monocromatici e vengono chiamati colori spettrali. È importante osservare che alcuni colori mancano all’appello: nello spettro non troviamo, ad esempio, il magenta. Il motivo è che la maggior parte dei colori che percepiamo non sono generati da stimoli monocromatici, ma dalla sovrapposizione di più stimoli. Se a uno stimolo monocromatico (A) ne sovrapponiamo un altro di lunghezza d’onda diversa (B), in base al principio di sovrapposizione otteniamo un nuovo stimolo (A+B) che non è più sinusoidale (figura 4). Tale stimolo deriva dalla sovrapposizione di due colori spettrali, e genera la percezione di un colore non spettrale, non monocromatico. Il magenta ne è un esempio.
L’occhio è un’antenna
Dal momento che la luce è un’onda elettromagnetica, alla stregua delle onde radio, possiamo affermare che il nostro occhio sia un’antenna. Dal punto di vista fisico, l’occhio è un trasduttore, ovvero un apparato in grado di trasformare una grandezza fisica in un’altra. In particolare, l’occhio trasforma l’energia veicolata da un’onda elettromagnetica in un potenziale elettrico. L’energia dello stimolo si trasforma grazie ai fotorecettori presenti nella retina, all’interno dell’occhio. Il potenziale elettrico che ne deriva si trasmette al cervello attraverso il nervo ottico, raggiungendo la corteccia visiva, dove si formano le immagini che percepiamo.
I fotorecettori sono cellule sensibili alla luce. Nell’occhio umano ne esistono due tipi, di forma diversa: i bastoncelli e i coni. I bastoncelli si attivano in condizioni di luce scarsa (visione scotopica), i coni si attivano invece quando l’intensità della luce è più elevata (visione fotopica). Tra i due tipi, i coni sono per noi i più interessanti: lunghi circa 50.000 nm (circa 100 volte in più della lunghezza d’onda al centro dello spettro visibile), sono i responsabili della visione cromatica, grazie a una differenziazione non presente nei bastoncelli.
I bastoncelli sono di un unico tipo, mentre i coni esistono in tre varianti, identificate dalle lettere L, M, S. Le iniziali di “long”, “medium” e “short”, alludono alle aree di sensibilità di ciascun tipo di coni. I coni L sono sensibili soprattutto a lunghezze d’onda lunghe (area del giallo-rosso), i coni M a lunghezze d’onda intermedie (area del verde), i coni S a lunghezze d’onda corte (area del blu). Tutti i coni hanno la stessa forma, e si differenziano grazie a una proteina chiamata opsina. Le opsine differiscono tra loro per pochi amminoacidi, e questo sposta il loro picco di sensibilità alla lunghezza d’onda della luce. Come si può vedere in figura 5, l’idea che i singoli coni rispondano in maniera perfettamente selettiva a stimoli rosso, verde e blu è errata. I coni M, ad esempio, vengono stimolati anche dalla luce gialla e rossa (da circa 580 nm in su), anche se in misura minore rispetto alla luce verde.
Quando uno stimolo luminoso colpisce l’occhio, i coni vengono eccitati in maniera differenziata a seconda delle lunghezze d’onda presenti nello stimolo, generando dei potenziali elettrici che si propagano lungo il nervo ottico. Il cervello elabora il rapporto tra questi potenziali generando così la percezione del colore, in base a meccanismi che sono oggetto di indagine da parte delle neuroscienze e non ancora compresi fino in fondo.
Non siamo lineari
Sembrerebbe ovvio che due stimoli identici debbano produrre la stessa percezione, ma le cose non sono così semplici. In figura 6, il rettangolo piccolo di sinistra appare più chiaro di quello di destra. Dal punto di vista numerico (e quindi dal punto di vista di uno strumento di misura) i due rettangoli sono però uguali e producono lo stesso stimolo. Appaiono uguali anche a noi se li affianchiamo sullo stesso sfondo (figura 7). Il motivo della differenza visibile in figura 6 va ricercato nel contrasto simultaneo: uno stimolo produce una sensazione diversa a seconda dello stimolo a esso adiacente.
Nelle parole di Michel Eugene Chevreul, uno tra i primi studiosi del fenomeno: “Due colori adiacenti, quando vengono visti dall’occhio, appaiono quanto più dissimili possibile”. L’affermazione significa che il nostro sistema visivo farà tutto ciò che è in suo potere per separare i colori, anche quando sono simili o addirittura identici, come nel caso appena visto. La ragione è evolutiva: il sistema visivo non deve necessariamente essere preciso, quanto utile. I due concetti sono ben diversi.
Se non avessimo imparato a distinguere la forma di un leone mimetizzato nella savana, la razza leonina avrebbe avuto molte più probabilità di sopravvivere rispetto a noi. Il nostro sistema visivo esaspera le differenze cromatiche (comprese quelle nella chiarezza) perché questo è utile alla specie umana e fa parte del nostro patrimonio evolutivo. Uno spettrofotometro non è in grado di mettere in atto questo meccanismo: se misuriamo i valori che caratterizzano i due rettangoli più piccoli di figura 6 otteniamo due risultati identici. Il nostro sistema visivo la pensa diversamente, a seconda di ciò che circonda i due rettangoli.
Da qui nasce un dilemma: i due rettangoli più piccoli di figura 6 sono uguali o no? Per lo spettrofotometro, sì; per il nostro sistema visivo, no. Questo è sconcertante: se utilizziamo degli strumenti di misura per stabilire se un colore è “giusto”, che peso dobbiamo dare alle letture se la visione fa ciò che vuole?
La risposta è sottile. Lo spettrofotometro misura uno stimolo, e i due stimoli generati dai rettangoli in esame sono identici. Il sistema visivo elabora uno stimolo, e la percezione non è una misura. Basta però un cambio terminologico per porre fine alla discussione sull’identità o meno del colore dei due rettangoli. La frase più semplice in grado di risolvere la diatriba è questa: “I due rettangoli di figura 6 non hanno lo stesso aspetto”.
Teoria e pratica
La questione è tutt’altro che filosofica. Se un cliente non è convinto dell’aderenza di un certo colore a un campione dato, il fatto che le misure dimostrino che due stimoli sono uguali non risolvono l’obiezione. Convincerci che le due stelle di figura 8 abbiano lo stesso colore è impossibile: nessuno ha tale percezione, neppure i daltonici. Tuttavia, dal punto di vista dello stimolo e dei numeri, le due stelle sono identiche.
L’unico approccio sensato consiste nell’appoggiarsi ai dati strumentali, che descrivono con precisione un fenomeno fisico, tenendo però presente che la visione spesso si beffa delle affermazioni di uno strumento. Dan Margulis diede una risposta molto arguta a questo problema durante un suo corso. A qualcuno che sollevava la questione della necessità di una corrispondenza numerica tra due colori, rispose: “Se vuoi vivere, qualcuno deve pagare le tue fatture. Un colorimetro ti ha mai pagato una fattura?”
È un’ottima domanda, la risposta alla quale è ovviamente negativa. Il messaggio è che gli strumenti di misura sono un punto di partenza fondamentale, proprio per la loro oggettività. Allo stesso tempo, dobbiamo tenere presenti i loro limiti ed essere pronti a modificare un’immagine, se necessario tradendo le letture effettuate, per rendere soddisfacente la sua riproduzione.
Non è questione di pratica: un occhio esperto è soggetto al fenomeno quanto un occhio non allenato. La reale differenza tra un esperto e un non-esperto, in questo caso, è che il primo è in grado di prevedere una discrepanza e, se possibile, di prevenirla. Il secondo ne ignora le cause e rischia di non mettere a fuoco il problema.
Il risultato finale è che chiunque affermi di poter valutare il colore in maniera oggettiva e indipendentemente dalle modifiche indotte dal nostro retaggio evolutivo, afferma il falso. Le modifiche legate alla percezione non sono eludibili.