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Speciale - Olivotto

Il soft-proofing, ovvero la prova di stampa a monitor, è una soluzione affidabile?

Da sempre, le prove colore si realizzano con stampanti e carte certificate. Oggi però esistono anche monitor certificati Fogra, capaci di simulare con precisione la stampa

di Marco Olivotto

Abbiamo esaminato recentemente il ruolo della funzione Prova colori in Photoshop, illustrandone le caratteristiche. Il problema affrontato da questo articolo si riduce a una domanda: è possibile simulare con accuratezza a monitor l’aspetto finale di una stampa? “Con accuratezza” significa “in modo da sostituire una prova colore certificata”. La risposta è articolata, e vale la pena di indagare ciò che si nasconde dietro questo problema solo apparentemente semplice.

Uno standard di osservazione

Ipotizziamo di produrre due prove colore certificate identiche, su carta. Se le affianchiamo su un tavolo e le illuminiamo in maniera uniforme, ci appaiono uguali. Spediamo la prima a New York, dove si trova un ipotetico art director, mentre la seconda rimane a Milano, nelle nostre mani. Quando la prova giunge a destinazione, ci mettiamo in contatto telefonico con New York e iniziamo a parlare della resa cromatica. L’art director è soddisfatto, ma ritiene che i rossi siano un po’ troppo saturi e ci chiede d’intervenire.

Domanda: siamo certi che l’art-director stia vedendo gli stessi colori che vediamo noi? La risposta è negativa: non possiamo esserlo, a meno che non ci accordiamo preventivamente sulle condizioni di visualizzazione. Sarebbe bello se una stampa apparisse identica indipendentemente da come viene illuminata. In tal caso, potremmo osservare la prova colore davanti a una finestra con la luce diurna, mentre l’art director potrebbe utilizzare un tubo a fluorescenza montato nel suo ufficio. Il problema è che ci sono elevate probabilità che in condizioni simili le due stampe appaiano diverse, a causa del fenomeno chiamato metamerismo. In senso stretto, il termine descrive il fenomeno per cui due stimoli di colore diversi in origine danno luogo alla stessa sensazione di colore. Quando invece si ha a che fare con un unico colore il cui aspetto varia al variare degli illuminanti, si dovrebbe parlare di incostanza di colore. I due concetti non vanno confusi, ma la radice del problema è la stessa. Da qui in poi utilizzermo, sia pure in maniera impropria, la parola “metamerismo”, che è entrata nell’uso comune.

La temperatura di colore non basta

Se osserviamo una stampa alla luce del sole o alla luce di una candela il suo aspetto sarà diverso, a causa della diversa temperatura di colore delle due sorgenti. La candela, in particolare, illuminerà la stampa con una luce molto calda, che falserà la visualizzazione. Sarebbe più corretto utilizzare l’espressione temperatura di colore correlata (CCT): se affermiamo che la CCT di un illuminante a LED è, ad esempio, pari a 5.000 K, non stiamo in realtà dicendo nulla di preciso sulla resa cromatica degli oggetti illuminati da quella sorgente. In generale, una sorgente la cui CCT sia uguale o molto simile a quella della luce diurna non fornisce garanzie a priori.

Un illuminante non è caratterizzato dalla sola CCT, che possiamo considerare come un’informazione sintetica sull’aspetto del “bianco” che produce. Bisogna tenere conto anche del suo spettro, ovvero della distribuzione delle lunghezze d’onda emesse all’interno del range della luce visibile. Il nostro occhio percepisce come “luce” le lunghezze d’onda comprese tra (circa) 400 nm e 700 nm. In questo piccolo intervallo si manifestano tutti i colori spettrali, dal violetto al rosso. A lunghezze d’onda diverse corrispondono sensazioni di colore diverse. Il bianco non è un colore spettrale: si manifesta sovrapponendo onde luminose di lunghezze d’onda diverse tra loro. Esistono infinite combinazioni di lunghezze d’onda in grado di produrre una certa luce “bianca”, ovvero una luce con una determinata CCT.

Un problema di spettro

A titolo di esempio, la figura 1 riproduce lo spettro solare, ovvero la distribuzione delle varie lunghezze d’onda presenti nella luce del sole. Le lunghezze d’onda sono espresse in nm, e il grafico mostra anche le aree dell’ultravioletto (sotto i 400 nm) e dell’infrarosso (sopra i 700 nm), invisibili al nostro occhio. Più alta è la curva, maggiore è la presenza della lunghezza d’onda corrispondente. Possiamo quindi affermare che le lunghezze d’onda attorno ai 580 nm (picco nel giallo) sono molto più intense di quelle a 420 nm (indaco). Una delle caratteristiche più importanti dello spettro solare è che risulta privo di “buchi”: la curva è continua e non ci sono lunghezze d’onda che non contribuiscano, in qualche misura, al colore bianco della luce solare.

La figura 2 riproduce invece schematicamente lo spettro di emissione del “bianco” di un monitor RGB a LED. I tre picchi isolati corrispondono all’emissione dei LED di colore blu, verde e rosso rispettivamente. Scegliendo opportunamente la cromaticità dei tre LED, è possibile produrre un bianco la cui CCT sia uguale a quella della luce solare, che a mezzogiorno si aggira attorno a 5.000 K (con piccole variazioni causate da stagione, latitudine, limpidezza dell’aria). La differenza tra le due figure è però eclatante: così come lo spettro della luce solare è continuo, quello della luce emessa da un monitor presenta tre picchi isolati senza nulla in mezzo. Questo significa che la maggior parte delle lunghezze d’onda è completamente assente: il fatto che riusciamo a visualizzare a monitor i colori non presenti nello spettro è dovuto al fenomeno della mescolanza additiva, la meravigliosa sintesi che avviene nel nostro sistema visivo – e non nel mondo esterno, come talvolta si crede.

Continuo, discreto

In generale, lo spettro emesso da un illuminante può essere continuo, come quello della luce solare, o discreto (ovvero non-continuo), come quello di un monitor. Un tubo a fluorescenza, ad esempio, presenta picchi e avvallamenti molto pronunciati, che rendono il suo spettro discreto. In parole povere, se ci sono “buchi” nelle lunghezze d’onda, lo spettro è non-continuo.

Questo è un punto fondamentale, perché illuminanti con spettri diversi interagiscono diversamente con le superfici che illuminano, e pur mostrando di norma colori simili (un rosso non diventerà un verde) non ci sono garanzie che mostrino colori indistinguibili, anche a parità di CCT.

Se vogliamo definire accuratamente il colore di un oggetto che riflette la luce, dobbiamo misurare la sua curva di riflettanza. In sostanza, si illumina l’oggetto con un illuminante avente un certo spettro e si misura lo spettro della radiazione riflessa alle diverse lunghezze d’onda. Come è intuitivo, illuminanti con spettri diversi daranno risultati diversi. Questo è visibile in figura 3: le due curve A e B hanno colori diversi e sono curve di riflettanza generate da due diversi illuminanti. L’illuminante A viene riflesso con ben poche componenti tra il violetto e il verde (fino a 550 nm circa). Da 550 nm in avanti, ovvero dal giallo al rosso, le componenti sono invece ben presenti, e il rosso predomina. L’illuminante B si comporta in maniera simile, ma è il giallo-arancio, attorno a 600 nm, a predominare. La componente rossa verso i 700 nm è più bassa che nel caso dell’illuminante A.

L’illuminante A farà quindi apparire l’oggetto osservato più marcatamente rosso; l’illuminante B gli farà assumere un aspetto tendente all’arancio. Tuttavia, i due illuminanti possono avere la stessa CCT: che da sola, come abbiamo detto, non rappresenta una garanzia di uniformità di visualizzazione. Di norma, si considera che quando due illuminanti diversi danno luogo a curve di riflettanza che si intersecano in tre o più punti, il metamerismo influenzerà in maniera significativa la visualizzazione di certi colori.

Lo standard D50

Per questo motivo, quando si deve confrontare un colore con un altro comparandone l’aspetto, è necessario stabilire delle condizioni di osservazione standard. Nel campo delle arti grafiche, lo standard comunemente accettato si chiama “D50”. Il nome si riferisce a uno degli illuminanti standard definiti dalla CIE e rappresenta una fase della luce diurna. La CCT di un illuminante D50 pari a 5.003 K (di solito approssimata a 5.000 K) e lo spettro è continuo, simile a quello visibile in figura 1.

Questo fatto viene spesso ignorato: quando si parla di “illuminante D50” non ci si limita a specificare una temperatura di colore correlata, ma si specifica implicitamente anche la sua distribuzione spettrale. Una sorgente luminosa con una CCT di 5.000 K e una distribuzione spettrale diversa non garantisce l’aderenza allo standard.

Per tornare all’esempio iniziale, il nostro confronto telefonico con l’art director ha senso soltanto sulla base di uno standard condiviso e applicato da entrambe le parti. In caso contrario, la garanzia che l’aspetto del colore sia lo stesso viene meno.

E la soft-proof?

Queste considerazioni si applicano anche all’annoso problema di realizzare una prova di stampa a monitor, ovvero una soft proof. Non basta impostare il software di visualizzazione in maniera da fornire un’anteprima del risultato di stampa, simulando un output per mezzo di un profilo ICC: è anche necessario calibrare il monitor in modo che esso sia allineato alle condizioni di visualizzazione della stampa, partendo dal presupposto che queste siano condizioni standard.

Lo standard D50 non è molto difficile da implementare. Bisogna rispettare diverse prescrizioni, e una soluzione canonica (ma costosa) è quella di dotarsi di una cabina che garantisca condizioni di osservazione certificate. In casi meno critici, però, esistono degli illuminanti le cui caratteristiche simulano lo standard in maniera sufficientemente accurata. Uno dei produttori più accreditati di tali illuminanti è SoLux, ma non è l’unico ad offrire soluzioni vantaggiose.

Un altro punto critico relativo alla realizzazione di anteprime di stampa a monitor è legato al gamut dello spazio colore coperto da quest’ultimo. Un monitor che si limiti a coprire sRGB non è sufficiente, perché molti colori riproducibili in stampa nell’area del ciano (anche nell’offset tradizionale CMYK) non sono compresi in questo spazio colore. Una copertura pari ad Adobe RGB migliora le cose: rimangono ancora dei colori disponibili in stampa che il monitor non è in grado di riprodurre, ma sono un’esigua minoranza.

I monitor adatti a simulare una prova di stampa certificata secondo lo standard UGRA/FOGRA non sono molti. Uno di questi è il modello CG319X prodotto da EIZO, un display di fascia elevatissima, il cui prezzo di listino sfiora il limite di 5.000 €. Un investimento del genere ha senso nel momento in cui la qualità dell’output sia davvero un’esigenza primaria, e la certificazione della prova sia vincolante. Più in generale, un pannello in grado di coprire Adobe RGB (o, come spesso si dice, il 99% di Adobe RGB, vista la difficoltà di arrivare a riprodurre il verde più intenso messo a disposizione da questo spazio colore) è un ottimo punto di partenza per la realizzazione di una soft-proof degna di questo nome. A patto, però, che il pannello venga calibrato e profilato opportunamente al fine di simulare uno standard di visualizzazione noto e riproducibile come può essere lo standard D50.

In tutti gli altri casi, laddove un display di alta fascia non sia disponibile o ci siano oggettive difficoltà di calibrazione e allineamento del display a uno standard, la buona e cara prova colore certificata su carta rimane la scelta migliore. Non realizzare una prova colore certificata, nei casi critici, è una falsa economia: il riferimento visivo è cruciale per chi stampa, sia nella stampa tradizionale che in quella digitale. Il divario tra display e supporti cartacei (e non), tra luce diretta e luce riflessa, rimane problematico da colmare, nonostante ci siano segnali incoraggianti.

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