Uomini e Sport n.33

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33 Uomini e Sport - numero 33 | Novembre 2020 | Pubblicazione periodica gratuita

ARRAMPICATA SPORTIVA: di slancio e senza respiro su aridi appigli in verticalitĂ pura

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EDITORIALE

Ci siamo lasciati con il trentaduesimo numero di “Uomini e Sport”, l’ultimo, impostato quando il Covid non aveva ancora colpito duramente il nostro Paese. Guardandoci alle spalle, sembra quasi incredibile tutto quello che è successo, fino al punto di cambiarci la vita, soprattutto per chi è stato duramente toccato dalla perdita di una persona cara. Ci ritroviamo ora, a distanza di molti mesi, con questo esile contatto, che ci tiene comunque legati per la comune condivisione dell’interesse che abbiamo per ogni tipo di attività sportiva. Con la ripresa dell’uscita di “Uomini e Sport” intendiamo contribuire a diffondere uno dei tanti segni che motivano a sperare in un graduale ritorno alla normalità della vita sociale, senza però dimenticare il dolore di chi più ha sofferto e senza ignorare la preoccupazione di chi si trova in situazioni difficili a causa lockdown, che ha penalizzato tanti settori della produzione, della distribuzione e della ristorazione. Questa imprevedibile pandemia è riuscita a farmi ricredere dall’opinione che, come avevo espresso nel mio ultimo editoriale, nell’ambito del settore del commercio bastasse una gestione oculata e previdente per prevenire tante chiusure di esercizi, quali recentemente si sono verificate. L’arrivo dell’epidemia non era stato messo nel conto, ed è per questo che ho subito compreso che in questo caso la situazione avrebbe potuto facilmente sfuggirmi di mano, sia per la riduzione degli incassi, sia per i 400 dipendenti occupati in azienda. In un primo tempo comunque la preoccupazione più viva proveniva dal pensiero che il contagio potesse colpire me e i miei familiari. È un pensiero che non lascia dormire notti tranquille, tanto più che a questo subentrava poi l’incubo della sorte che minacciava anche i dipendenti nei miei negozi, e di cui mi sono sentito responsabile sotto ogni aspetto. Non potendo rimanere a lungo in questo stato di incertezza, ho pensato che non c’era altro da fare che rimettersi in gioco, decuplicando impegno ed energia.

Dentro di me è stato subito chiaro l’imperativo di salvare tutto e tutti ad ogni costo, nonostante i dubbi e le incertezze che venivano accentuate dal dover ottemperare ordinanze che si susseguivano, incidendo anche sui costi di gestione. Ho sempre cercato anche nei momenti di sconforto di vedere il lato positivo di questa terribile situazione, pensando che in ogni settore dell’azienda avremmo tutti disposto abbondantemente di quel tempo che ci era sempre mancato per ripensare e riorganizzare tutto ciò che avevamo lasciato correre a causa di un lavoro svolto ininterrottamente nella concitazione. In questo impegno vedevo coinvolto tutto il personale. Abbiamo dato spazio alla remunerativa riorganizzazione del magazzino e del nostro e-commerce e ad una nuova impostazione gestionale, sia per quanto riguardava una ponderata valutazione degli acquisti, sia per assicurare una più accurata conduzione nei negozi, per migliorare la visibilità degli articoli, l’accoglienza e la presentazione delle offerte specifiche di ogni singolo punto vendita. Anche se da qualche mese è terminato il lockdown, non possiamo abbassare la guardia: è fin troppo evidente che si è verificato un cambiamento nelle abitudini del pubblico, per cui non ci si può aspettare che si torni tanto presto alla situazione di prima. Sorprendentemente c’è stata una ripresa importante nel nostro settore, trainata dal mondo del ciclo e dall’outdoor, mentre hanno sofferto gli sport di squadra, come il calcio e il basket, per la ovvia mancanza delle competizioni sportive, agonistiche e amatoriali.

Mi rendo conto di essermi diffuso in una chiaccherata dove c’è tanto di personale: vi invito a prenderla però non come uno sfogo, ma come una riflessione, senza essere superficiali. Dinanzi ad una situazione epidemica ancora “calda”, guardo al futuro con speranza e ottimismo, certo che ne usciremo. Un caro saluto a tutti gli amici di DF Sport Specialist che spero di rivedere presto alle nostre serate “A tu per tu con i grandi dello Sport”.


SOMMARIO NOVEMBRE 2020 - ANNO XI - N° 33 Editoriale

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[Foto: Danilo Valsecchi]

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[Foto: Luca Lozza]

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[Foto: Vladek Zumr]

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[Foto: Mauro Lanfranchi]

[Foto: Stefano Jeantet]

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Fondatore: Sergio Longoni Coordinamento della pubblicazione: Giuseppe Zamboni Redazione: Renato Frigerio Grafica: Margherita Moretti Hanno collaborato: Cristina Guarnaschelli, Sara Sottocornola Numero chiuso in redazione: 23/10/2020 Diffusione: 8.000 copie Distribuzione nei negozi DF Sport Specialist

38 “Uomini e Sport” è consultabile e scaricabile online sul sito www.df-sportspecialist.it Posta e risposta: Angolo dei lettori uominiesport@df-sportspecialist.it DF Sport Specialist Redazione “Uomini e Sport” Via Figliodoni, 14 - 23891 Barzanò - LC

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Il punto di vista Massimo Panzeri

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“Un nome”: da non dimenticare Carlo Pedroni

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Accadeva nell’anno... 1987 - Inverno al Fitz Roy

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Sport a tutto campo Parliamo di Arrampicata Sportiva

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Il ruolo del CAI Nazionale Intervista al Presidente Generale

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Anche qui si trova DF Sport Specialist

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Per conoscere i testimonial del team DF Sport Specialist

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Tentazioni alpinistiche Pilone Centrale del Frêney

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I consigli degli esperti Arrampicata sportiva

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Interviste ad alpinisti Marco Ballerini

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Rosa Morotti

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Un ruolo sportivo dell’Esercito Centro di Addestramento Alpino

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Alla scoperta di vie nuove Zuccone Campelli

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Abbiamo letto per Voi

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Evento di luglio “A tu per tu” Serata con Manolo In copertina: nella foto grande, Marcello Bombardi, sull’ultima presa. Sotto, la Nazionale Italiana di Combinata Olimpica 2019: Ludovico Fossali, Michael Piccolruaz, Laura Rogora, Marcello Bombardi, Francesco Vettorata, Stefano Ghisolfi. Laura Rogora a fine agosto ha vinto la tappa di Briançon nella Coppa del Mondo, Lead. [Foto: Matteo Pavana]


IL PUNTO DI VISTA

Ing. Massimo Panzeri, CEO di Atala

Se stiamo assistendo ad un boom vero e proprio nel mercato delle biciclette assistite da motore elettrico, come rileviamo dalla comparsa esplosiva nelle nostre strade e sui percorsi una volta proibitivi per chi non era dotato di una buona dose di potenzialità muscolare, è naturale che ci chiediamo perché e come si è sviluppata questa rivoluzionaria evoluzione del più antico mezzo di locomozione ad uso personale. A questi interrogativi ci ha risposto con un pizzico di orgoglio e con tanto entusiasmo l’ingegnere Massimo Panzeri, CEO di Atala, che con coraggio e lungimiranza aveva Atala è un marchio storico per il mondo delle biciclette. Fondata nei primi anni del 900, vanrilevato lo storico marchio, ta nel suo palmares la vittoria del primo Giro d’Italia del 1909. Ha attraversato oltre cent’animprimendo subito una ni di storia e oggi, grazie al boom delle bici elettriche, vanta uno sviluppo a doppio zero. nuova marcia produttiva “Il ritmo di crescita sfiora il 300%, e sono convinto che si stabilizzerà, perché è un percorso verso il livello naturale del mercato che il Covid ha solo accelerato” spiega Massimo di proporzioni impensabili Panzeri, CEO di Atala. per un’azienda che si tro“La bicicletta è uno sport sicuro, che permette di socializzare e stare all’aria aperta, manvava in difficoltà tali per tenendo le distanze richieste in questo momento”. cui nessun altro avrebbe Per rispondere alla richiesta crescente e sempre più attenta al dettaglio, Atala ha puntato tutto sulle competenze specializzate e sul Made in Italy: “Ogni fase della produzione è scommesso qualcosa. sotto controllo: vogliamo progettare e realizzare prodotti di assoluta qualità in termini di

intervista di Sara Sottocornola

Ing. Panzeri, parliamo della straordinaria storia di Atala, fondata oltre cent’anni fa. Come siete arrivati ad oggi? È un percorso che vede tre macrofasi di crescita. Il fondatore, nei primi anni del ‘900, era un ex-dipendente della Bianchi, che ha fondato Atala Milano. La seconda fase si apre nel 1921 con Cesare Rizzato, artigiano di Padova che la fa diventare il marchio leader in Italia: e non solo delle bici, perchè si afferma come il secondo produttore italiano di motorini dopo Piaggio. A causa di un passaggio generazionale che non funziona si apre una crisi negli anni Novanta: l’azienda non si adegua al mercato e rischia di scomparire. Qui entro in scena io, che poco dopo la laurea in ingegneria elettronica e un primo lavoro in Bianchi, mi sono occupato della ristrutturazione industriale per la Banca che allora deteneva la proprietà. Quando l’ha messa in vendita, con un altro socio l’ho rilevata e mi sono lanciato in quest’avventura, anche se molti mi sconsigliavano. Dal 2005 Atala ha ricominciato a crescere e ha subito prodotto utili. Abbiamo iniziato ad investire sulle bici elettriche prima di tutti gli altri, sviluppando competenze specifiche e

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tecnica e prestazioni”. “Mettiamo il cuore nei pedali” è il loro pay-off, e leggendo questa intervista, il perché è chiaro.

assumendo ingegneri con competenze elettriche elettroniche, affermandoci come leader italiani del mercato. Siamo anche i maggiori esportatori verso la Comunità Europea. Oggi quanto conta per voi questo mercato? L’80% del nostro fatturato arriva dalle biciclette a pedalata assistita. Produciamo solo mezzi di altissima qualità, con motori AM80, cambio Shimano, Bosch, telai in carbonio, alluminio e via dicendo. Quando ha rilevato l’azienda aveva già previsto la crescita del segmento a pedalata assistita? Ni. Sapevo che in Olanda nel 2002 aveva preso piede il mercato della bici elettrica, molto prima che nel resto d’Europa, ma non sapevo se e come si sarebbe diffuso negli altri Paesi. Comunque ho voluto subito puntare su quello, ma ci sono voluti due anni e mezzo per essere pronti con prodotto nostro. Il primo anno abbiamo venduto 25 bici elettriche, quest’anno circa 50.000. I primi anni facevamo grossi investimenti e avevamo scarsi ritorni: è stata una scommessa perché vedevamo che quel mercato era in grossa crescita, anche se per l’Italia era un grosso punto di domanda.

Inizialmente il prodotto era “NordEuropeo”, adatto solo nelle città o per gli anziani, ma con l’avvento dei motori Bosch è comparsa la mountain bike elettrica, e a quel punto era chiaro che si sarebbe sviluppato ovunque. Quando c’è stata la svolta? Nel 2011. Quello delle mountain bike elettriche è stato un vero boom. Ha aperto il mercato ai giovani, lo scopo non è più stato solo lo spostamento casa-lavoro o una comodità per gli anziani: è diventato l’uso sportivo, il divertimento. Poi ha iniziato a diffondersi in Italia come mezzo per andare a lavorare. Qui è stato fondamentale l’uso delle mountain bike, anche per la conformazione del territorio, che vede rilievi sulla maggior parte del nostro Paese. Siamo stati tra i primi a cogliere le potenzialità di questo mercato, e la diffusione delle Mtb elettriche ci ha consentito di tornare ad essere esportatori verso gli altri Paesi, principalmente l’Europa. Oggi le bici elettriche stanno vivendo un altro boom, spinto dalle necessità di limitare gli spostamenti coi mezzi pubblici e stimolato dagli incentivi del Governo. In questo momento, fa quasi impressione dir-


lo, abbiamo una crescita del 300%. Si stabilizzerà, e non tornerà indietro: sono certo che non è una bolla, ma stiamo andando verso il livello naturale del mercato di questo prodotto. Solo che questi fattori stanno spingendo la crescita con maggior velocità. Oltre al discorso dello spostamento casa-lavoro in bici, c’è anche il discorso sportivo: la bici dà possibilità a tutti di fare performance importanti con una preparazione media, non da atleta professionista. Se vogliamo forzare un paragone, è come quando sono stati inventati gli sci carving rispetto agli sci di una volta: per tutti, sciare è diventato più facile, divertente e sicuro. Il lockdown e la pandemia vi hanno messo in difficoltà? Durante la pandemia abbiamo vissuto le stesse incertezze e le stesse crisi degli altri. Alla riapertura però, tutti si sono buttati sulle bici, perché è uno sport che consente di stare all’aria aperta, di mantenere la distanza sociale, anche se viene praticato in squadra. La bici aiuta con questo tipo di regole che limitano tanti altri sport al chiuso o di contatto. Bici e sci vivranno un momento di gloria, solo che per lo sci ci vuole la neve, mentre per la bici basta che non piova: in media abbiamo 250 giorni l’anno di sole, quindi la bici ha un utilizzo potenziale altissimo. Molte persone sono forse frenate dal costo elevato di una bici elettrica? Il costo è più alto rispetto a una bici tradizionale, ma oggi esistono opzioni che forse non sono basse ma sicuramente abbordabili, e hanno il vantaggio di bassi costi di manutenzione. Le bici elettriche partono da 800 Euro e per un modello medio-alto ne spendi circa 2.000 Euro. Rispetto ai motorini non ci sono tasse, non ci vuole l’assicurazione, diciamo che l’investimento si ripaga tranquillamente con l’uso. Oggettivamente ha dentro tanta tecnologia: motori, batterie, materiali che nelle auto sono presenti solo in modelli da centinaia di migliaia di Euro (carbonio, telai alluminio). Una batteria oggi dura centinaia di cicli di ricarica, vuol dire decine migliaia di km, e comunque anche dopo questo tempo non vanno a zero, ma semplicemente riduce la sua capacità di chilometraggio. Che strada avete scelto per far conoscere il prodotto al mercato? La bici elettrica è un prodotto impossibile da proporre attraverso cataloghi o siti internet. Sin dall’inizio, ma anche adesso, abbiamo puntato tutto sulla prova pratica per far conoscere i dettagli al cliente. Abbiamo promosso tantissimi eventi nelle piazze italiane: solo provare le bici ti fa capire quanto è fantastico usarle, solo col bike-test puoi comprendere le potenzialità che ha e quale modello è più adatto a te. Esistono diversi tipi di motore, e peculiarità specifiche se devo usare la bici in montagna, in città o per altri scopi.

L’azienda moderna e perfettamente attrezzata di Atala: capannoni funzionali e in stile aderente ai tempi attuali, lasciano subito immaginare l’efficienza che si sviluppa negli ampi spazi che consentono la massima produttività.

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Il modello B-Rush-C7.1 di Atala, con telaio full carbon realizzato con tecnologia 3D, motore Bosch Performance CX con batteria PowerTube 625 WH, con un ottimo rapporto qualità prezzo tra i migliori della categoria.

A livello di produzione, fate tutto in Italia? Tutte le bici elettriche sono progettate e costruite al 100% in Italia. È una scelta precisa: servono competenze tecniche, informatiche, ingegneristiche e produttive molto elevate, e tutto il processo deve essere seguito passo passo per ottenere un prodotto di elevata qualità. Quelle muscolari sono prodotte parzialmente all’estero. In Italia quante sedi avete? Abbiamo tre siti produttivi: due tra Bergamo e Brescia e uno a Monza-Brianza, poi una sede a Monza e una a Padova. In totale abbiamo 45 dipendenti, ma arriviamo a un centinaio di collaboratori, per 50 milioni di fatturato. Stiamo assumendo, e lo stavamo facendo anche nel periodo pre-Covid: riteniamo che la crescita del mercato sia strutturale, perciò stiamo ampliando la struttura a livello di tutte le funzioni. Qual è il vostro vantaggio competitivo? Il primo è che prima di tutti abbiamo investito nelle bici elettriche, costruendo una storia e delle competenze specifiche, che pochi in Europa hanno. Secondo, abbiamo deciso di produrre tutto in Italia. Ma non per un discorso di Paese: servono competenze tecniche elevate in produzione e a livello di software, ed è meglio lavorare insieme sul prodotto dall’inizio alla fine. Cito anche i fornitori: fin dall’inizio ci

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siamo appoggiati solo a marchi leader per le batterie ed i motori come Bosch, Yamaha, Shimano, Samsung. Sono tutte scelte che durante gli anni hanno dato i loro frutti. Oltre alle bici elettriche avete altri prodotti in commercio? Oggi siamo concentrati sull’elettrico, che riscuote un interesse pazzesco tra gli adulti, ma Atala produce qualunque tipo di bicicletta, anche quelle da bambino e le storiche BMX. Anzi, direi che il boom delle bici elettriche sta facendo da traino anche per le bici muscolari, anche loro sono in crescita. Abbiamo poi la produzione di attrezzature per il fitness, un settore in cui Atala era presente da tempo. Il mercato però è andato in diminuzione, sostituito dalle palestre. Col Covid, devo dire che sta aumentando la richiesta, ma penso che sia in realtà un rimbalzo. Mentre con le bici sono certo che sia strutturale perché stiamo ripercorrendo ciò che è accaduto in mercati più maturi del nostro, per il fitness ci sono delle questioni culturali che mi fanno pensare sia solo una crescita temporanea. Fare sport in casa è poco divertente, ecco il punto debole: ora c’è una necessità sanitaria, ma non credo durerà più di un paio di anni. La bici invece è sicura e ti fa socializzare: è questo che porta la maggior parte della gente

a fare sport oggi. La voglia di socializzare oltre che restare in forma. Come mai ha scelto la Brianza come sede dell’azienda? Io sono brianzolo, e volevo riportare l’azienda vicino a dove era nata. Ma al di là di questioni romantiche, qui ci sono competenze di elevato livello in ogni campo: ingegneri del bacino del Politecnico, assemblatori esperti. C’è un contesto di imprenditori molto innovativo con idee all’avanguardia e c’è un mercato forte nella zona. La scelta di “tornare a casa” è quindi anche una scelta industriale. Come ha conosciuto Sergio Longoni? Come tutti qui nella zona: da piccolo andavo a comprare da lui le bici, i moschettoni, gli sci insieme a mio papà! Con Atala lavoriamo con lui da molto tempo, ed è un binomio che funziona molto bene. Sergio ha fatto della competenza e della preparazione il punto di forza dei suoi negozi, e questo per le bici è fondamentale: la scelta non è semplice e il prodotto dev’essere spiegato per fare in modo che il cliente sia contento.


OGNI VOLTA “UN NOME”: DA NON DIMENTICARE

a cura di Renato Frigerio

Carlo Pedroni, ovvero il “Kung fu” dell’alpinismo di Giuseppe “Popi” Miotti

Carlo Pedroni in un’immagine simbolo e presagio della privilegiata passione che lo legava al Pizzo Badile: forse conscio che proprio sulla montagna più amata avrebbe avuto fine la sua attività alpinistica insieme alla sua stessa vita.

Forse più ancora che un uomo da non dimenticare, sarà tutto da scoprire, almeno per buona parte di coloro che sono vivamente interessati alle pagine dell’alpinismo, questo Carlo Pedroni, che con evidente affetto e ammirazione ci viene qui presentato da un altro noto alpinista come Giuseppe Miotti. Anzi la reciproca stima e amicizia tra il protagonista e l’autore dell’articolo, come bene traspaiono nel testo, costituiscono per se stesse un valido elemento positivo, di cui ai nostri giorni si sono perse le tracce. Il ricordo inizia invece evidenziando come, da un tragico episodio, in tempi passati si ritornava su se stessi con sincera umiltà, e con senso di responsabilità si prendevano radicali decisioni: come fece Pedroni che non esitò a lasciar perdere la baldanza giovanile con cui stava attuando la sua passione alpinistica. Giova a tutti che ritorni alla ribalta sotto tutti gli aspetti questo straordinario innamorato della montagna, perché rimangano come fonte di ispirazione le sue numerose qualità. Oltre all’eccezionale livello delle sue arrampicate, possiamo prendere nota qui della sua meticolosa preparazione di ogni aspetto prima delle sue scalate, dell’accettazione dei più improbi sacrifici, dell’intelligente lungimiranza con cui ha individuato valide soluzioni tecniche: tutte cose che ce lo fanno considerare come una persona che vorremmo conoscere nella sua completa realtà, oltre la pur pregevole e incisiva descrizione che ne ha fatto Giuseppe Miotti.

“Kung fu” significa risultato ottenuto con fatica, con applicazione, tecnica che ben si addice all’alpinismo di Carlo Pedroni, l’uomo che più di tutti ha cercato di creare in Valtellina una forte e solida tradizione alpinistica. Quasi certamente il suo modo di affrontare le vette è stato profondamente segnato dalla terribile esperienza vissuta sulla parete Nord del Pizzo di Prata il 15 settembre 1963: la vicenda occorsa ai giovanissimi Antonio Del Giorgio, Carlo Pedroni e Aristide Zoanni è da annoverarsi fra le più tragiche di quegli anni. Fidando troppo nelle loro forze, i tre attaccarono decisi la parete, per accorgersi subito dopo di non essere assolutamente in grado di proseguire. Iniziarono quindi la ritirata che fu fatale: privi della necessaria esperienza, si trovarono a dover calare lo Zoanni in modo che potesse raggiungere una cengia. Un errore nella valutazione della manovra portò il giovane sotto uno strapiombo, lontano dalla cengia e fuori dalla vista dei compagni. In questa posizione il poveretto si trovò completamente appeso alle corde, senza poter scaricare il suo peso dalla legatura che gli serrava sempre più fortemente il torace. Più in alto, gli amici, ignari dei sistemi di autosoccorso, assistevano impotenti alla lotta di Aristide per alleggerire l’implacabile stretta. Non conoscendo i sistemi

di risalita sulle corde, incapace di issarsi a braccia, lo Zoanni, forse anche il più debole dei tre, perdeva via via le forze. Alla fine, dopo una lunga e straziante lotta per sopravvivere, spirava a poche lunghezze di corda dalla base della parete, quando ormai la salvezza sembrava a portata di mano. Dopo questo episodio Pedroni improntò il suo alpinismo verso il massimo rispetto per la montagna, dando ad esso un’impostazione quasi scientifica. Egli non lasciava mai nulla al caso: preparava con cura e meticolosità ogni sua scalata, anche la più banale. La viveva già prima, a casa, con molta intensità. Studiava tutte le numerose variabili che avrebbero potuto verificarsi e, per ognuna, cercava di predisporre la soluzione migliore. Ogni suo passo era ponderato, improntato alla maggiore riduzione possibile del rischio. Tempi di percorrenza, condizioni meteorologiche, temperatura, materiali e attrezzatura, abbigliamento, alimentazione, tutto era rigidamente previsto e calcolato. Con lo stesso spirito, l’alpinista, nato a San Carlo di Chiavenna il 29 giugno 1943, affrontava gli allenamenti e la preparazione invernale. Ogni uscita, anche la più banale, era vissuta con l’impegno di una grande salita; ogni scalata, specie quelle sulla sua palestra preferita, la Corna di Medale, era un mettere alla prova

fisico e bravura. Rapidità di esecuzione, velocità di salita e di discesa, dimestichezza massima con i materiali e le tecniche di scalata: queste erano le armi vincenti di Carlo. Ricordo ancora le corse verso il Medale lungo la statale del lago: credo di aver rischiato la morte più sulla sua auto lanciata a folle velocità che in parete. Una volta giunti, senza un attimo di respiro si partiva per la Boga o per la Taveggia che andavano salite a tempo di record, per poi tornare d’un fiato a casa. A dispetto di ciò, Pedroni era celebre per la grande prudenza, che spesso poteva sembrare eccessiva, ma che, per lunghi anni, lo guidò in sicurezza nei più difficili momenti. Affinando queste qualità, studiando e impiegando concezioni rivoluzionarie per quegli anni, ‘Pedro’ riuscì a compiere un gran numero di ascensioni di alto livello. Era un vero fissato della leggerezza dei materiali che, con lungimiranza, vedeva strettamente legata al futuro dell’alpinismo, soprattutto invernale ed extraeuropeo. Fu tra i primi ad adottare il goretex, a usare due corde da otto millimetri, anziché da nove, per le ascensioni invernali e su ghiaccio, e a studiare spesso improbabili soluzioni per sacchi a pelo ultraleggeri, ma sufficientemente caldi. Ma per un’altra caratteristica era famoso: la sua quasi masochistica accettazione di sacrifici

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Era una sua caratteristica anche l’ambizione di essere il primo a superare in invernale le vie più impressionanti, come questa del tentativo al Pilastro ENE del Badile, che sta effettuando insieme a Tiziano Nardella.

incredibili, forse persino eccessivi, e giustificati solamente dalla sua divorante passione per la montagna. Come ho scritto, ogni più piccola gita o scalata erano per Carlo un allenamento: ma per averlo conosciuto bene, oserei dire che considerava anche le scalate più impegnative una preparazione verso un’irraggiungibile meta ideale. Ricordo salite fatte con tempo umido e uggioso in Val Torrone, solo per fare due lunghezze di corda sulla parete della Meridiana dove pendevano nel vuoto dei mazzi di chiodi, forse abbandonati da Taldo, Nusdeo e compagni. Ricordo una salita sulla parete del Torrione Porro sotto la neve e innumerevoli altre “scampagnate” quasi sempre sotto la pioggia, perché in quegli anni... pioveva sempre. Forse questo modo di vivere la montagna, piuttosto stressante, toglieva all’amico parte del piacere che dona la scalata: ma pareva che un fuoco inestinguibile alimentasse questo atteggiamento. Anche oggi, guardando le foto che ritraggono ‘Pedro’, è difficile trovarne qualcuna in cui lo si veda in atteggiamento rilassato e sorridente. Carlo Pedroni è stato il mio vero maestro d’alpinismo e naturalmente, come fanno tutti gli allievi, l’ho più tardi lasciato. Con lui, oltre alla prima invernale della via Bramani alla Rasica, feci la prima ripetizione della via Nardella sulla parete Sud del Cavalcorto. Qui l’amico mostrò tutta la sua tempra, oltre che la validità delle sue idee. Il secondo giorno di scalata, nel grande camino sommitale fummo investiti da un fulmine, che paralizzò il mio braccio, cui seguì subito una intensissima nevicata. Sulla cengia finale, coperta da trenta centimetri di

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neve, un muro compatto e liscio di 15-20 metri ci separava dalla cima. La visibilità era quasi azzerata, la neve e la sottile patina di lichene che ricopriva la roccia rendevano impossibile la scalata. Usando tutte le sue magie d’artificialista e sfruttando alcuni funghetti di roccia, passandoci attorno il cordino delle staffe, Carlo riuscì tuttavia ad arrivare a tre metri dall’uscita per poi arrestarsi impotente di fronte a un tratto liscio e compatto. Fedele all’attenzione verso i minimi particolari, fortunatamente aveva portato un paio di chiodi a pressione per rendere più sicure le calate lungo il camino Est, e grazie ad uno di questi, piantato sotto l’infuriare della tempesta, riuscimmo a fuggire da lì. Oltre che diabolico arrampicatore con chiodi e staffe, Pedroni era anche un ottimo scalatore libero, e per molti anni fu il compagno preferito da Pietro Ghetti, alpinista poco noto ai più, ma in quel periodo fra i migliori d’Italia. Sul finire degli anni 60, un forte gruppo di scalatori, fra i quali spiccavano Tullio Speckenhauser, Franco Gugiatti, Pietro Ghetti e lo stesso Pedroni, si era separato dalla Sezione Valtellinese del CAI, creando il Gruppo Rezia, espressione dell’eccellenza alpinistica locale. Proprio negli anni d’oro del Rezia, Pedroni fu fra i principali protagonisti di importanti imprese. Voglio rimarcare quanto egli tenesse a quel mitico 1969, quando, fra le altre scalate, la sua attività annuale culminò con la terza salita alla via Nusdeo-Taldo sulla parete Sud-est del Picco Luigi Amedeo, la prima alla parete Sud-est di Quota 3225, e la prima traversata invernale Roseg-Scerscen-Bernina (effettuata

da Antonio Forni, Pietro Ghetti, Franco Gugiatti e Carlo Pedroni), quest’ultima per certi versi un’impresa d’avanguardia assoluta. Accanto ad un’intensissima, quasi “maniacale”, attività alpinistica che lo vedeva impegnato su ogni tipo di terreno e in ogni stagione, Pedroni seppe anche dedicarsi, con passione e altruismo, a tutte le iniziative della Rezia prima e del CAI Valtellinese poi. La sua presenza, nei corsi di alpinismo e sci alpinismo, come INSA e nelle esercitazioni di Soccorso Alpino, era sempre garantita. La serie impressionante delle sue scalate proseguì per tutti gli anni 70 del Novecento, con la ripetizione di vie importanti su tutto l’arco alpino: la Ratti-Vitali all’Aiguille Noire de Peutérey con Franco Gugiatti, lo sperone Walker alle Grandes Jorasses, la Ovest delle Petites Jorasses, la Carlesso e la Cassin alla Torre Trieste col giovanissimo Gianpietro Scherini, sono solo alcune. Ma l’autentico pallino del “Pedro” era l’alpinismo invernale. Lo testimoniano le prime dello spigolo Gervasutti alla Punta Allievi salito con Franco Gugiatti nel 1971; della parete Nord-ovest del Badile, via Castiglioni, con Franco ed Ermanno Gugiatti nel 1974; della via Bramani alla Punta Rasica con il sottoscritto nel 1975. Sono poi innumerevoli i tentativi invernali a salite impressionanti come: la via del Centenario alla Punta Ferrario, il pilastro Est-nord-est del Badile tentato con Tiziano Nardella (che poi lo salì d’estate con Daniele Chiappa, Giulio Martinelli e Elio Scarabelli), la Sud del Pizzo Argent, con Gugiatti e Ghetti, o l’integrale alla Cresta di Peutérey sempre con Nardella. Si affacciò anche sul mondo dell’alpinismo extraeuropeo,


A fianco: il suo piacere di vivere la montagna nel pieno dell’inverno gli consentiva di riuscire a cogliere anche le più impensate opportunità, come fece con la prima traversata invernale di Roseg-Scerscen-Bernina, realizzata assieme a Franco Gugiatti e Antonio Forni nel 1969. (Da sinistra, nella foto di Pietro Ghetti).

La conquista in prima invernale della via Bramani alla Punta Rasica, realizzata nel 1975 insieme all’autore di questo articolo, può essere considerata una delle più significative espressioni della sua attitudine per le invernali.

con una spedizione del CAI Valtellinese al Nevado Rasac Principal, assieme a Vincenzo Fagioli, Franco Gugiatti, Edgardo Gazzi e la milanese Elena Bordogni. Più tardi, compì diverse esperienze, meno impegnative, sui monti himalayani. Con una simile attività, nel 1976, Carlo Pedroni sarà il quinto valtellinese a diventare Accademico del CAI, titolo che però non considerava un traguardo, ma un nuovo punto di partenza. Il mondo alpinistico di Pedroni, però, restava particolarmente legato alle Alpi, che ogni estate percorreva in lungo e in largo per ripetere le vie più importanti. Era invece meno interessato all’apertura di nuovi itinerari, ma riuscì a legare il suo nome alla montagna che forse amava di più, il Pizzo Badile. Nell’estate del 1984, con Camillo Selvetti e Alberto Rossi, tracciò una via direttissima sulla parete Sud-est, oggi considerata una delle vie classiche sul versante meridionale della montagna. Purtroppo, sulla montagna che gli aveva dato tante soddisfazioni, l’alpinista perdeva tragicamente la vita l’anno successivo. Risalendo il canalone del Cengalo, fra la Est del Badile e la Nord-ovest del Cengalo, al ritorno da un tentativo alla via Kosterlitz, Carlo veniva colpito da una scarica di sassi staccatasi a causa del caldo intenso. Scompariva una delle figure alpinistiche più rappresentative del panorama alpinistico valtellinese, un ottimo arrampicatore, completo su tutti i terreni, un uomo buono e sensibile, forse a volte troppo preso dalla sua stessa passione che raramente, in vetta, gli concedeva spazio per la gioia e per qualche attimo di pace, trascinandolo immediatamente verso altri traguardi. Le fotografie sono state recuperate dall’archivio di Carlo Pedroni.

A parte la sua nota preferenza per le montagne di casa, non disdegnava conoscere e conseguire importanti esperienze su ogni tipo di terreno: se poi si trattava delle Dolomiti, si vede con quanto ardore e passione sta affrontando la classica via Carlesso sulla Torre Trieste.

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ACCADEVA NELL’ANNO...

1987

a cura di Renato Frigerio

Se, come è stato affermato, la storia è maestra di vita, è opportuno non dimenticare questa massima specialmente quando, piuttosto che di guerre e battaglie, ci parla delle consuetudini e della mentalità di coloro che ci hanno preceduto. Non può essere una forzatura riferirci in questo senso all’articolo che segue, solo perché i fatti riportati risalgono solo a tre decenni fa: nelle nostre ultime generazioni, per la supersonica velocità dei ritmi che ci stiamo imponendo, la percezione degli anni che passano li allontana sempre più considerevolmente da noi. Leggeremo allora negli avvenimenti e nelle considerazioni qui raccontate l’aspetto diverso di come allora veniva inteso e praticato l’alpinismo, trovandolo semplicemente nella passione autentica dei tre giovani alpinisti che si erano decisi di affrontare un’impegnativa spedizione extraeuropea senza lasciarsi intimorire né dai costi proibitivi che si stavano accollando né dalle difficoltà logistiche insite nell’organizzazione. Che contava era poter raggiungere l’importante obiettivo alpinistico che li aveva attirati: ed è sintomatico che poi la descrizione della loro arrampicata proceda nell’essenzialità che la rende certo un po’ scarna, quando neppure accenna ai gradi della scala di difficoltà che si succedevano nella progressione, ma che proprio così evidenzia come nella loro mente fosse fissata Un suggestivo momento di relax, al riparo dalle intemperie e riscaldati dalla fiamma che illumina il bivacco al Campo base Rio Blanco: si riconoscono, da sinistra, Dario Spreafico, Paolo Crippa, Danilo Valsecchi.

soltanto la meta che albergava nel loro cuore. È la nostalgia di questa passione soprattutto che ci fa riflettere e un po’ rimpiangere un articolo scritto con grande ma profonda semplicità,

INVERNO AL FITZ ROY di Dario Spreafico In una città come Lecco, dove il solo nome richiama alla mente immagini di montagna e di arrampicatori, la grande tradizione alpinistica ha ancora il potere di spingere dei giovani ad affrontare fatiche, rischi e sacrifici per la semplice soddisfazione di ottenere una conquista in montagna. Forse in questo momento particolare della pratica dell’alpinismo, chi come noi si richiama all’alpinismo di altri tempi costituisce un capitolo a sé: ma per me rischio, fatica e sacrificio sono tre componenti essenziali dell’andare in montagna, affascinato dallo spirito d’avventura e con la voglia di andare sempre avanti. È proprio questa voglia che ti spinge a tentare avventure sempre diverse e, quando ti riesce, qualitativamente migliori: ed è anche per questo che si decide di partire in pochi, con il minimo di materiale, sorretti in cambio da una preparazione fisica e psicologica molto forte. Dopo aver meditato di orientarmi ad una montagna dell’Himalaya, dissuaso soprattutto dalle previsioni delle difficoltà di ordine burocratico che qui si incontrano, la mia scelta cade sulla Patagonia ed in particolare sul Fitz Roy. Il pilastro Est, aperto da amici lecchesi e ancora inviolato d’inverno, mi attirava per la sua linea esteticamente perfetta e certamente mi avrebbe consentito di misurarmi con qualcosa di diverso, qualcosa che non avevo ancora sperimentato. 17 luglio 1987: sono con me, Paolo Crippa e Danilo Valsecchi. Partiamo da Linate con l’intenzione di tentare la ripetizione del pilastro Est, lungo la via dei Ragni, aperta nel ’76. Dopo i soliti problemi di viaggio, ma, tutto sommato considerata la stagione, molto rapidamente, il 23 siamo al Campo base Rio Blanco. Sistemiamo il Campo, sostituiamo il telo del tetto e facciamo tutti quei piccoli lavori che ci permettono di trascorrere nel miglior modo possibile la nostra permanenza qui. Nei giorni successivi effettuiamo parecchi viaggi di rifornimento alla base del pilastro, dove scaviamo una truna come campo avanzato. Il tempo è mediocre e le condizioni del terreno e della montagna sono buone. Verso il 26 purtroppo il tempo cambia e per alcuni giorni nevica. Quando

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Già da lontano, provenendo dalla Laguna de los Tres al Paso Superior, la tipica sagoma del Fitz Roy appare nella sua imponente maestosità, sovrastando le spettacolari guglie della Patagonia.


il primo di agosto, con tempo variabile, risaliamo al campo avanzato, il paesaggio è molto cambiato. È caduta molta neve, e pur avendo gli sci (tra l’altro essenziali per muoversi) facciamo molta fatica. Una volta arrivati al punto della truna, constatiamo che purtroppo una slavina dalla parete o il lavoro del vento hanno coperto la truna stessa e la corda di segnalazione. Scaviamo per delle ore e, pur avendo dei riferimenti su roccia e la certezza di scavare nel punto esatto, l’enorme quantità di neve non ci permette di ritrovare il materiale. Dopo un bivacco d’emergenza, sfiduciati e con brutto tempo, torniamo al Campo base, dove nei giorni successivi, fatto il punto della situazione e valutato il materiale a disposizione, decidiamo di tentare la salita per la via Franco-Argentina dello Sperone Sud, sempre del Fitz Roy. Il giorno 5 il tempo migliora, l’altimetro (contrariamente a quanto succede d’estate, d’inverno funziona) si abbassa notevolmente e per la famosa legge matematica il nostro morale sale. Prepariamo tutto e il 6 alle 3 di mattino siamo già in cammino: raggiungiamo la base del canale che porta alla “Brecha de los Italianos” verso le 11. Subito ci rendiamo conto dell’enorme quantità di neve accumulatasi nel canale; salire di lì sarebbe troppo pericoloso e faticoso. Quindi, dopo un paio d’ore trascorse a nuotare e battagliare per superare la crepaccia terminale, saliamo sulle rocce a destra del canale con delle lunghezze di misto e artificiale e solo alla 1 di notte troviamo un terrazzino per bivaccare. Il giorno 7 riprendiamo la salita appena fa chiaro (le 9), raggiungiamo l’intaglio a Sud della cima, 2627m, indicato come “Brecha” e, valutate le buone condizioni del tempo e della parte verticale della via, ci alleggeriamo un po’ lasciando un piccolo deposito d’emergenza. Attacchiamo la parte verticale e nuovamente solo alle 23 riusciamo a trovare un piccolo pendio di ghiaccio, dove intagliare una ridotta cengia per poter piazzare la tendina da bivacco. 8 agosto: è ancor buio quando, sistemato tutto, ci prepariamo a partire. Continuiamo la salita per diedri e fessure su roccia stupenda, con qualche problema per il ghiaccio e la neve che intasa alcune fessure. Verso le 16 arriviamo al punto dove la parete comincia a perdere la sua verticalità e, trovata una cengia, abbandoniamo lì tutto il materiale da bivacco. Saliamo ora più veloci e leggeri verso la cima, 3405m, che raggiungiamo alle 18.15’. Il tempo per le foto e un attimo di felicità, poi il freddo e la preoccupazione per la discesa ci riportano alla realtà: scendere. Dopo tre calate si è già fatto buio. Abbiamo due pile, e con quelle continuiamo a scendere. Dopo un po’, una pila si esaurisce: ancora due calate e anche l’altra per solidarietà si spegne, e ci fa passare un paio d’ore di paura. È solamente verso l’una, più per fortuna che per abilità, che mi ritrovo sulla cengia dove abbiamo il materiale da bivacco. Grido a Paolo e Danilo la mia felicità e, appena mi raggiungono, dico loro che una “bife de lomo” con patatine fritte una volta giunti a Calafate me la devono proprio offrire. Siamo contenti e sollevati mentre, preparato qualcosa di caldo, ci infiliamo nei sacchi piuma. L’idea di un bivacco senza sacco con una temperatura di -20°, senza poter bere e mangiare niente, proprio non ci entusiasmava. Appena fa chiaro riprendiamo a calarci, raggiungiamo la “Brecha” e continuiamo sino alla base, dove arriviamo verso le 16. Il tempo è peggiorato e c’è un vento degno del luogo: sembra che il Fitz Roy prima di salutarci voglia mostrarci ancora una volta la sua faccia peggiore. Infiliamo gli sci e nella bufera scendiamo verso la Laguna de los Tres al Paso Superior. Alle 19, stravolti ma felici ci possiamo stringere la mano al Rio Blanco. I giorni successivi sono la storia di tre amici contenti e soddisfatti che hanno avuto la fortuna di vivere questa avventura grazie al loro affiatamento, alla fiducia e a tutti gli aiuti ricevuti da amici e sponsor. Soprattutto grazie al Fitz Roy, che ci ha fatto sì qualche sgambetto, ma è anche stato e diventato un grande amico.

Un altro ostacolo che si oppone al loro tentativo viene superato da Danilo Valsecchi in traversata alla Brecha de los Italianos.

Dario Spreafico in arrampicata nel cuore della parete, alle prese con la solidità del granito di questa splendida via.

Paolo Crippa in una fase impegnativa, forse critica, della progressione finale sulla granitica parete.

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Dopo l’impegnativa ascensione lungo la parete Ovest, percorsa in stile alpino, i tre alpinisti meritano di gustarsi sulla vetta del Fitz Roy l’incontenibile soddisfazione per la conquista di un prestigioso obiettivo. Nello splendido scenario della Patagonia, dominato dal mitico Cerro Torre, Paolo Crippa e Dario Spreafico esultano nella foto scattata da Danilo Valsecchi.

L’esperienza vissuta al Fitz Roy è stata certamente dura, ma per me sarebbe un enorme piacere poterla ripetere in modo simile. Passare tanti giorni su una montagna d’inverno, con due soli compagni, lontani da casa qualcosa come 15.000km, e coscienti del fatto, che qualunque cosa fosse successa, nessuno ci avrebbe potuto aiutare, mi ha fatto provare sensazioni profonde, come l’amicizia e la dipendenza dai miei compagni. In quelle distese di neve e di ghiaccio, il ricordo di chi aveva avuto fiducia in noi e ci aveva dato il suo aiuto (il Gruppo Ragni, il Gruppo Gamma, il CAI Lecco, la concessionaria FIAT di Colombo Pisati, le aziende Ciesse Piumini, Koflach, Abrio, Vaude, Trezeta, Barba Sport) ci offriva la sicurezza e ci spronava a non desistere. Sacrifici, pericoli e rischi hanno rafforzato l’amicizia e l’affiatamento di noi tre: e tuttavia credo che sarebbe bello affrontare altre esperienze anche con amici diversi, per riscoprire nei momenti difficili il comportamento di persone che si conoscono ed aumentare così il proprio bagaglio di esperienze umane.

L’articolo è tratto da “Alpinismo” – Bollettino numero 90 – Annuario 1989 del Club Alpino Accademico Italiano. Le fotografie ci sono state offerte da Danilo Valsecchi.

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Si è ormai avviata la discesa dalla Supercanaleta in corda doppia, ma il cuore rimarrà a lungo ancora su questa vetta che ha segnato una tappa significativa della loro vita.


SPORT A TUTTO CAMPO

LE GENERAZIONI IN ATTESA DEL FUTURO TERMINE DI CONFRONTO Arrampicata Sportiva:

l’arte di arrampicare, sapendo che il premio che ti aspetta non è una vetta più vicina al cielo, ma la soddisfazione di poter sfidare anche le pareti più lisce e verticali di Renato Frigerio Le interviste a cura di Sara Sottocornola

Nel lungo percorso attraverso il quale abbiamo incontrato numerose discipline sportive, dove si distinguono le differenti scelte che accendono il tifo e l’interesse di tanti appassionati, si sono più volte presentati degli spazi che avevano un’evidente origine dalle normali esigenze e abitudini dell’uomo. Esistono certamente anche delle attività sportive che sono state introdotte a partire da precedenti elementi ludici che un tempo venivano praticati per passatempo o gioco, a scopo di divertimento e poi di sfida: li vediamo per esempio in tutte le specialità dove si usa la palla, nelle varie dimensioni e forme, come la troviamo nel calcio, nel basket, nel tennis, nel rugby, nella pallavolo. In altri casi la disciplina si è invece sviluppata partendo addirittura dalla costituzione fisica e dalle abitudini dell’uomo, e la troviamo evidente nella gare di marcia e di corsa, nelle regate e nel nuoto, nella stessa bicicletta. Ciò che era stato un mezzo per raggiungere uno scopo preciso assume il ruolo autentico di fine a se stesso. Non è difficile vedere che sotto questo aspetto si può inquadrare anche l’Arrampicata Sportiva: arrampicare quando era indispensabile per raggiungere una vetta, costretti spesso a superare pareti vertiginose e repulsive, è diventato ora anche uno sport a tutti gli effetti. È successo attraverso passaggi progressivi, distribuiti in un lungo spazio temporale, ma ora è stato accreditato come una reale disciplina sportiva, che attira sempre più numerosi praticanti, sempre più stimolati nel reciproco confronto. Le competizioni iniziali, che immaginiamo si siano svolte come gioco tra amici, sono culminate rapidamente in gare autentiche, che sono state prese in considerazione dai massimi organismi competenti e opportunamente

Anche i semplici allenamenti non mancano di richiamare appassionati e curiosi: qui si svolgono all’interno del Palazzo a Vela di Torino, dal 1987 la prima e la più grande palestra di arrampicata d’Europa.

catalogate e dotate di normative giuridiche e regolamentari, formule e appositi calendari. È una disciplina tipica delle più recenti generazioni, e come tale non può trovare nessun confronto con atleti datati: questo il motivo per cui nella nostra rubrica “Sport a tutto campo” verrà a mancare il consueto riscontro con gli atleti del passato. Poiché questa verifica si renderà possibile non prima di una decina d’anni, anche l’arrampicata sportiva subisce la sorte toccata al Parapendio, venendo considerata tra “Le generazioni in attesa del futuro termine di confronto”. Che cosa si intende poi per “Arrampicata Sportiva” lo possiamo specificare con i semplici ed essenziali termini con cui viene definita da Wikipedia, l’enciclopedia libera: “L’arrampicata sportiva è uno stile di arrampicata che

si basa su ancoraggi permanenti fissi alla roccia come protezione/sicurezza. Il termine è usato in contrapposizione all’arrampicata tradizionale o trad, facente uso invece di protezioni amovibili come nut e friend. Poiché l’equipaggiamento è usato esclusivamente per l’assicurazione, e non per aiutare la progressione, l’arrampicata sportiva è considerato un tipo di arrampicata libera. Per quanto riguarda le competizioni l’arrampicata sportiva è regolamentata a livello internazionale dall’International Federation of Sport Climbing”. In Italia il punto di riferimento dell’Arrampicata Sportiva si identifica nella FASI, la Federazione dell’Arrampicata Sportiva Italiana, ammessa ufficialmente al CONI, dotata di apposito statuto, regolamento e strutture. La FASI, dopo il rinnovamento delle ultime vo-

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tazioni che hanno portato all’elizione di Davide Battistella come Presidente e un consiglio Federale compatto e operativo sta intraprendendo un percorso di rinnovamento e sviluppo che la porta a diventare Federazione Sportiva, in quanto attualmente è Disciplina Sportiva Associata. Ad oggi conta più di 250 Società affiliate e 43.000 tesserati suddivise in tutte le regioni d’Italia. Le società sportive operano sul territorio per la promozione e lo sviluppo dello Sport dell’arrampicata: al loro fianco la Federazione supporta le società stesse con la formazione dei tecnici, istruttori, allenatori, giudici, al fine di rendere la crescita della disciplina strutturata e conforme ai regolamenti CONI. La FASI ha al suo interno le squadre nazionali che portano i suoi atleti a competere nei circuiti internazionali, quali la Coppa Europa e la Coppa del Mondo, con i relativi Campionati Europei e Mondiali. Gli atleti delle squadre nazionali sono affiliati alle società sul territorio e hanno solitamente propri allenatori che ne seguono la preparazione. La Nazionale accoglie al suo interno gli atleti che nel corso della stagione e secondo i criteri di selezione risultano averne le caratteristiche. Vengono poi organizzati raduni di allenamento collegiale o selezione per poter preparare gli atleti stessi alle competizioni internazionali. A partire dallo scorso giugno la FASI ha firmato un accordo con il Comune di Arco per la gestione del Climbing Stadium di Arco per utilizzarlo quale Centro Federale mettendolo a disposizione della squadra olimpica e delle squadre nazionali Senior e Junior, un Centro Tecnico Federale all’altezza del fabbisogno dei suoi atleti azzurri. Le competizioni si suddividono in ambito regionale, o nazionale. Nei cui circuiti si vanno a misurare gli atleti stessi suddivisi per diverse categorie giovanili sino alle competizioni Senior. In ambito giovanile ogni stagione parte con i circuiti regionali da cui verranno selezionati i migliori atleti che potranno così accedere alle finali nazionali che eleggono i Campionati Italiani giovanili delle varie categorie e specialità. Le competizioni Senior sono strutturate su circuiti di Coppa Italia per le tre specialità (Boulder-Lead-Speed) e con le finali nazionali che aggiudicano i titoli di Campioni Italiani. Quest’anno, come sappiamo tutti è estremamente particolare e i Campionati Ita-

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liani giovanili non si sono potuti svolgere ma si è riusciti a ripartire con tre importantissimi appuntamenti, quali i tre Campionati Italiani senior di specialità (Lead, 12-13 settembre a Brunico, Speed, 26 settembre a Mezzolombardo, Boulder, 17-18 ottobre a Roma). In questi giorni estivi al Centro Federale di Arco si sono svolti i raduni di preparazione per le squadre senior e dal 27 agosto al 6 settembre si sono tenuti collegiali di allenamento e selezione per le squadre giovanili. Sta partendo inoltre un progetto più ampio al fine di preparare i futuri atleti con obiettivo Olimpiadi 2024 a Parigi, dove, se confermato, il nuovo format prevede l’assegnazione di due medaglie, una per specialità Speed e una per la combinata Boulder e Lead. Sulla base di questo nuovo format è partito un progetto guidato dal Commissario tecnico, Tito Pozzoli, al fine di preparare gli atleti stessi nel miglior modo possibile. Il progetto prevede di iniziare a lavorare a partire dagli atleti di categorie U14 e U12 con l’obiettivo di intraprendere un percorso strutturato per la formazione degli atleti ancor prima di poter accedere alle squadre nazionali. Le gare si svolgono nelle diverse specialità di: Difficoltà (Lead). La specialità di difficoltà, detta comunemente Lead, consiste nell’effettuare una scalata su vie che aumentano di difficoltà progressivamente fino a raggiungere

gradi di difficoltà al limite delle capacità umane, come del resto si verifica in tutte le discipline dell’arrampicata e come pure in tutti gli altri sport. Ad ogni presa viene assegnato un punteggio progressivo e ha due valori: “tenuta” se viene impugnata; “utilizzata” se, dopo averla impugnata, si inizia un movimento che però non permette di raggiungere la presa successiva. Il massimo punteggio si ha nell’arrivare con entrambe le mani all’ultima presa: il “top”. Si può effettuare con la corda di sicurezza dall’alto, nei giovanissimi, o con corda dal basso. Velocità (Speed). La specialità di velocità, detta comunemente Speed, consiste nel completare una via (normalmente di grado medio/ basso) nel minor tempo possibile. Dal 2007 la IFSC ha omologato un muro di arrampicata di 15m dove effettuare le competizioni. La via da competizione è fornita di un sistema di cronometraggio alla partenza e all’arrivo, un sensore in cima alla via che permette agli atleti di fermare il tempo. La via viene salita in moulinette, cioè con corda dall’alto, in modo che l’atleta possa concentrarsi solo sul tempo di salita. Boulder. La specialità chiamata Boulder consiste nel dover arrampicare su vie basse, massimo 4 m, dove il punto più basso del corpo non deve superare i 3 metri, di diversa difficoltà, senza l’uso dell’imbragatura (l’incolumità è


assicurata da materassi para cadute). Richiede uno sforzo di breve durata ma di massima intensità e prevede una serie limitata di movimenti, 7-8 di media. Bisogna partire con tutti e quattro gli arti appoggiati su prese obbligate di “start” per completare il percorso che culmina con un “top” (presa finale), che dev’essere tenuto dall’atleta per almeno tre secondi consecutivi. Vengono contati il numero dei tentativi impiegati nel raggiungere il “top” in un tempo determinato. Si ha, inoltre, una presa intermedia chiamata “zona”, che attribuisce un ulteriore punteggio, sempre a seconda del numero di tentativi impiegati per raggiungerla.

Sono previste competizioni specifiche in ordine di età: Senior. Campionato del mondo: competizione biennale, a cui possono partecipare atleti di ogni nazione, in cui sono presenti le tre discipline ufficiali (Lead, Speed e Boulder), più le gare paraolimpiche. Campionato europeo: competizione, che si effettua ad anni alterni rispetto al mondiale, a cui possono partecipare solo atleti di nazionalità europea, in cui sono presenti le tre discipline ufficiali. Campionato nazionale: competizione annuale svolta in ogni nazione, in cui sono presenti le tre discipline ufficiali. Coppa del mondo: cir-

cuito internazionale di gare che si svolge ogni anno per ogni singola disciplina. Giovanili: Campionato del mondo giovanile, competizione annuale riservata ai ragazzi under20 di ogni nazione. Campionato europeo giovanile: competizione annuale riservata ai ragazzi under20 di nazionalità europea. Coppa Europa giovanile: circuito internazionale di gare, riservata ai ragazzi under20 di nazionalità europea, che si svolge ogni anno per ogni singola disciplina. Nella pagina a fianco, sempre da sinistra, in alto: Stefan Glowacz, Catherine Destivelle e Luisa Iovane; in basso: Patrick Edlinger e Roberto Bassi.

Uno sguardo storico

Non necessita di commenti l’impressionante affollamento degli appassionati accorsi a Bardonecchia per seguire le gare di Sport Roccia ’85.

Nel 1985 si svolge Sport Roccia, sulla parete storica dei Militi, nell’Alta Valle Stretta sopra Bardonecchia, la prima competizione internazionale di arrampicata della storia. In questa occasione, le gare che si sono svolte dal 5 al 7 luglio, sono state vinte nel settore maschile dal tedesco Stefan Glowacz, davanti al francese Jackie Godoffe. Primo tra gli italiani si classificò Roberto Bassi. Nell’ambito femminile la francese Catherine Destivelle vinse davanti alla nostra Luisa Iovane. Nel 1986 imponente fu la manifestazione organizzata sulle pareti del Colodri ad Arco di Trento e Bardonecchia, dove in rappresentanza di 14 Nazioni, 192 iscritti si dettero battaglia dal 4 al 6 luglio ad Arco e dall’11 al 13 a Bardonecchia. Per la categoria maschile nell’ordine: vinse il francese Patrick Edlinger, secondo si classificò l’inglese Ben Moon: sempre Roberto Bassi primo tra gli italiani. Nella classifica femminile Catherine Destivelle si piazzò al primo posto davanti all’americana Lynn Hill. Nel 1985 e 1986 Sport Roccia viene anche utilizzato per proclamare il Campione italiano, conferendo il titolo agli atleti italiani meglio piazzati. Dato il grande successo delle prime competizioni di arrampicata nel 1987 viene fondata a Torino la Federazione Arrampicata Sportiva Italiana. Nel 1989 si svolge la prima Coppa del mondo Lead di arrampicata organizzata dall’UIAA, circuito di gare organizzato annualmente. Nel 1990 la FASI viene riconosciuta dal CONI Disciplina Sportiva Associata. Nel 1991 si svolge il primo Campionato del mondo di arrampicata, evento a cadenza biennale, e solo dal 1992 si svolge il primo Campionato europeo di arrampicata (sempre a cadenza biennale). Dal 1998 si introduce la prima Coppa del Mondo Speed di arrampicata, circuito di gare organizzato annualmente e un anno dopo vede la luce la prima Coppa del mondo Boulder di arrampicata, a cadenza annualmente. Nel 2007 nasce l’International Federation of Sport Climbing (IFSC) staccandosi dall’UIAA (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche), passo fondamentale per arrivare al sogno olimpico. Infatti nel 2010 l’IFSC viene riconosciuta dal CIO e solo un anno dopo viene inserita l’arrampicata in una rosa di otto sport, uno dei quali parteciperà ai Giochi olimpici del 2020. Nel 2016 il Comitato Olimpico comunica ufficialmente che l’arrampicata sportiva parteciperà alle Olimpiadi. Le Olimpiadi di Tokjo 2020 segnano l’ingresso ufficiale dell’Arrampicata Sportiva, per questa “prima volta” il CIO ha deciso di attribuire una sola medaglia a questo Sport. L’IFSC per non penalizzare nessuna delle tre discipline ufficiali, ha deciso di partecipare con una competizione in cui tutti gli atleti si devono confrontare in tutte, nasce così la Combinata Olimpica. Come prima prova c’è la Speed, seguita dal Boulder e a chiudere è la Lead. Alle Olimpiadi partecipano 20 uomini e 20 donne selezionate attraverso un complicato meccanismo del regolamento. Dopo una fase di qualifica i primi otto si confronteranno nella finale ripetendo tutte e tre le discipline per aggiudicarsi le medaglie. Siamo vivamente grati a Roberto Capucciati e Davide Manzoni per la loro competente e preziosa collaborazione, e a Gianmario Besana per il totale contributo fotografico.

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Stefano Alippi Stefano Alippi è venuto al mondo avendo nel sangue l’arrampicata, ma non propriamente l’alpinismo, come lo era stato per il padre Gigi, uno dei più forti alpinisti lecchesi della sua generazione. Come il padre però ha avuto l’onore di venire ammesso al prestigioso gruppo dei Ragni della Grignetta, nel 1992, dopo che dal 1989-1990 era entrato nel circuito delle gare fino a venire riconosciuto come arrampicatore sportivo a livello internazionale. La sua ammissione tra i Ragni deve essere considerata un privilegio degno di nota, perché fino ad allora il loro Statuto non prevedeva nessuna ammissione per gli arrampicatori sportivi. Proprio nel periodo degli anni ’90, le falesie e i massi del territorio, dal lago alla Grigna, grazie a lui e al nucleo di pionieri dell’arrampicata sportiva cui si è unito, sono diventati palestre per scalatori puri che si dedicavano esclusivamente alla ricerca del gesto e del limite di difficoltà, aprendo a poco a poco la via alla nascita di una nuova disciplina sportiva. Nonostante suo padre, il noto alpinista Gigi Alippi, Stefano non ha ereditato la passione per la montagna, ma ha sempre guardato la roccia in ottica sportiva: “quello che mi è piaciuto sono stati il gesto, l’arrampicata pura, la ricerca della difficoltà. Non ho una visione romantica come molti”.

Stefano, nella tua famiglia l’alpinismo è una tradizione. Qual è stata la prima volta che hai messo le mani sulla roccia? È stato al Nibbio, ai Piani Resinelli, avrò avuto all’incirca una decina d’anni, con mio papà. Penso si trattasse di un satellite del Nibbio, il Sasso Rossi, un torrione a punta alto circa 15 metri. Da quel giorno, che percorso hai fatto per arrivare ai livelli più alti dell’arrampicata sportiva? Sono andato qualche volta a scalare, poi ho fatto altri sport. Non ci pensavo proprio alla montagna, andavo con le moto da trial, a correre o in bici. La passione ce l’hai oppure no. La montagna classica non mi piaceva: ho ripreso solo verso i 17, 18 anni, insieme a degli amici. Tra i primi con cui ho scalato c’è Marco Ballerini, uno dei precursori dell’arrampicata sportiva. Era un po’ un ambiente di ribellione, quindi era facile essere più coinvolti. Con loro vivevo la roccia in modo diverso: mi è piaciuto il gesto, l’arrampicata pura. Cosa ricordi delle tue prime scalate? Ho scalato quasi sempre al Nibbio perchè lavoravo nell’albergo di famiglia. Poi, da maggiorenne avevo maggior autonomia e avevo la macchina che mi ha permesso di iniziare la parte agonistica. Da allora è stata un’altra storia. Le mie prime gare sono state a Bardonecchia nel 1986, ma all’inizio era più un ritrovo per mettere a confronto i grandi campioni del tempo. Man mano è cresciuta la visione professionale dell’arrampicata come disciplina sportiva, sono cambiate le strutture, dall’outdoor si è passato all’indoor. È cambiata l’arrampicata da allora? L’arrampicata in sé non è molto dissimile da ciò che c’è adesso. È cambiato più che altro il contesto. In un breve periodo di tempo si è passato da una visione naif a una visione professionale, più inquadrata, anche se non è una disciplina facilmente comprensibile a chi non la conosce. È cambiato anche l’approccio: una volta se portavi un bambino a scalare eri un pazzo, mentre oggi te li portano in palestra così piccoli che quasi devi dirgli di tornare dopo qualche anno. Siete stati i primi a richiodare e liberare le vie in Grigna: come avete iniziato? Per sfida o per un progetto preciso? Non proprio sulla Grigna, ma al Nibbio. In quegli anni c’era una forte spinta degli americani e dei francesi a cercare di salire le vie tradizionali in libera, senza usare mezzi artificiali per proteggersi, ma solo per progredire. Per alcune vie si pensava fosse impossibile: oggi invece, dopo 35 anni, sono considerate facili.

14 | Novembre 2020 | Uomini&Sport

[Foto: Gianmario Besana]

I PERSONAGGI CHE HANNO APERTO LA STRADA ALL’ARRAMPICATA SPORTIVA

C’è ancora spazio per salti simili nell’arrampicata? Difficile prevederlo, perché è uno sport che non ha parametri ben precisi: non è come sui 100 metri, dove tutto il mondo si misura sempre sulla stessa distanza e la stessa difficoltà. Nell’arrampicata, man mano che arrivano atleti meglio preparati, la difficoltà si alza di un pezzettino. Se parliamo poi di outdoor, il limite dipende anche dalla struttura, dalla roccia. Non c’è omologazione, è difficile definire un limite del corpo umano. Sembra che l’arrampicata sia più una ricerca interiore che un’esplorazione, come in alpinismo. Mah, io non ho queste visioni romantiche. Vedo l’arrampicata come uno sport dove cerchi di fare il meglio che puoi. È un’attività sportiva in un bell’ambiente. Le idee sull’esplorazione, la ricerca, sono un retaggio degli anni Ottanta, quando cerca quel movimento un po’ “naif” in cui sentivi alcuni climber dire che vedevano le pareti respirare, e altre cose simili… Io scalo per piacere di scalare la difficoltà massima: se oggi fai come quelli, mi riferisco ad atleti come Ondra, pensano che sei matto. Per l’alpinismo è diverso, c’è tutto un altro contesto, ad esempio il percorso che ti porta in vetta. In arrampicata, alla fine, quello che fai è la ricerca del massimo grado che riesci a fare, e c’è poco di romantico.

Il Sasso Alippi, luogo di allenamento di Stefano, come richiamato in un passo nella sua intervista. [Foto: Gianmario Besana]


[Foto: Richard Felderer]

Cristian Brenna

Stefano Alippi impegnato sulla falesia del Forcellino, in una delle vie da lui preferite, per un tracciato di carattere strettamente sportivo, di alta difficoltà e con uno sviluppo massimo di tre tiri. [Foto: Gianmario Besana]

La via più difficile che hai scalato? Les Sindacalistes, la via di 8c+ a Cornalba (Bergamo), perché è quella che mi ha impegnato di più. Sono circa 40 movimenti: per salirla ci ho messo una marea di tentativi. I posti più belli in cui ho scalato sono stati le pareti rocciose a Buoux nella Francia meridionale, una delle falesie di riferimento e l’area montuosa a Kalymnos in Grecia per l’ambiente che la circonda. Noi vivevamo molto sotto l’influenza francese, anche se sono stati gli americani a lanciare la moda. Se volevi confrontarti coi migliori e le massime difficoltà dovevi andare in Francia. Ti viene voglia di cimentarti ancora su quelle vie o su vie più difficili? No, non mi viene più voglia di provare, perché non mi muoverei più come allora. La nuova generazione dell’arrampicata ha un’altra preparazione, un altro gesto. Se non ce l’hai, non ti muovi. Salire a vista: non hai mai avuto paura? No, mai. In falesia non rischi come in alpinismo. Hai un maestro, un modello a cui ti sei ispirato? Il maestro ispiratore è Marco Ballerini. Quando l’ho conosciuto io avevo 16 anni e lui forse 23-24: era uno spirito ribelle, tipo rockstar dell’arrampicata. Era facile seguirlo. Poi ci sono tantissimi nomi che ho ammirato, soprattutto francesi, per la loro visione agonistica dell’arrampicata. Quanto al livello Brenna, Zardini, Gnerro forse erano anche meglio di molti altri, ma non hanno avuto lo stesso riconoscimento internazionale. Il Sasso Alippi, sul sentiero che parte dal dodicesimo tornante della strada verso Pian Resinelli, era uno dei tuoi luoghi di allenamento e porta il tuo nome… Mi fa un po’ specie questa storia del sasso, che è una cosa insignificante su un sentiero. Prima di me ci hanno scalato altri, molti altri, ci sono vie di quindici metri, venti metri. Forse nessuno ci ha visto le potenzialità come arrampicata sportiva. Comunque è nato tutto dal fatto che in quel periodo dovevi fare anche una ricerca per trovare posti nuovi, perchè tutto il salibile in Grigna era stato fatto. Oggi dove ti piace arrampicare? Mi piace scalare se c’è un buon gruppo e sono in compagnia. Poi va tutto bene. Come divertimento preferisco l’indoor, però anche fuori vado volentieri. Non ne faccio una malattia, ma preferisco vedere posti nuovi piuttosto che tornare sempre nei soliti che conosco.

Cristian Brenna, classe 1970, è stato uno dei più brillanti atleti su roccia, pioniere dell’arrampicata sportiva, e uno dei pochi capaci di lasciare il segno anche nell’alpinismo e sulle big wall. Entra a far parte del Gruppo Ragni nel 2004. Tre volte sul podio della classifica finale di Coppa del Mondo di arrampicata, secondo nel 1998 , terzo nel 1996 e nel 2000. È stato il primo italiano a vincerne una tappa nel 1998. Capace di eccellere nelle diverse specialità, dal Lead alla Velocità dove ha conquistato il secondo posto nel Campionato Europeo del 1992, ha chiuso la carriera agonistica 2005 per dedicarsi ad esperienze di alpinismo extra-europeo, con la spedizione in Pakistan “UP-Project” ideata da Luca Maspes. Portano la sua firma la libera della via Up & Down aperta nel 2005 durante la spedizione sullo scudo del Chogolisa (800 m, 7a/A1) in Karakorum a 5.000m di quota, superando difficoltà fino al 7c, e nel 2008 con Hervè Barmasse la prima salita alla parete Nord del Cerro Piergiorgio, sulla via La Routa de l’Hermano (950m, 6b+/A3) in Patagonia.

Cristian, come ti sei avvicinato all’arrampicata sportiva? Avevo 17 anni. Ho iniziato arrampicare su roccia insieme a un gruppo di ragazzi del CAI Bollate, vicino a Milano. A quei tempi non c’erano palestre in città quindi si cominciava sulla roccia e poi pian pianino per migliorare abbiamo cominciato a costruirci qualche muretto casalingo per poterci allenare anche durante la settimana. Oggi spesso si conosce l’arrampicata in palestra prima che in ambiente. È diverso iniziare sulla roccia? Sì. Oggi molti ragazzi iniziano in palestra e si fermano lì, mentre per noi era soltanto un mezzo per allenarsi e la vera arrampicata era all’aperto. Costruivamo piccole palestre a casa per allenarci, ma per noi era solo un mezzo con cui migliorare le prestazioni in ambiente. Oggi l’arrampicata è molto cambiata, non c’è più un legame stretto con l’alpinismo, anzi molti non sanno nemmeno cosa sia. Lo vivono come una forma di fitness, e non solo in Italia: oramai in tutto il mondo esiste un buon numero di praticanti che arrampica esclusivamente su strutture artificiali. È una cosa positiva o negativa? Ci sono degli aspetti positivi e alcuni negativi, positivo è il fatto che un gran numero di persone può appassionarsi a questo bellissimo sport e trovare dei talenti, che magari non essendo nati in luoghi dove si arrampica, possono comunque avvicinarsi all’arrampicata sportiva. Tra i lati negativi, uno che mi sembra particolarmente importante è il sovraffollamento delle falesie. Io vivo ad Arco, dove ci sono zone con problemi di posteggi e infrastrutture che provocano diversi disagi anche alla popolazione locale, sporcizie alla base delle falesie e escremeti lasciati qua e là. Bisognerebbe che nelle sale da arrampicata,

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Per Cristian Brenna è una parete repellente che si è prefisso di domare sul Monte Colt, ad Arco (Trento). [Foto: Giordano Garosio]

oltre all’arrampicata e alla sicurezza nella manovre di corda, si dovrebbe insegnare un po’ di norme comportamentali nei siti naturali: per esempio, portarsi una paletta da giardinaggio e fare una buca per sotterrare i propri escrementi, mettendo la carta in un sacchettino e buttarla una volta poi tornati a casa. Sei stato uno dei pionieri dell’arrampicata sportiva, cosa ti ha attratto in questo sport? La voglia di confrontarsi e lo spirito competitivo. Ho voluto provare le gare, all’inizio con risultati non proprio eccellenti, per le sensazioni che provavo. Il bello della competizione è che devi dare il 100 per cento in quel momento, non puoi dire oggi non me la sento la provo domani, devi sparare la tua cartuccia: è un atteggiamento mentale molto diverso dal fare delle prestazioni in falesia o sui blocchi. Mi sono impegnato, e alla fine sono arrivati i risultati: ci vuole sì talento, ma anche molta determinazione e non abbattersi quando si prendono delle bastonate a livello psicologico. Qual è stato il traguardo che ti ha reso più orgoglioso? Difficile scegliere. Forse vincere la gara di Coppa del Mondo a Courmayeur, un’esperienza unica perché ero il primo italiano a riuscirci, e la vittoria al Master Serre Chevalier (Francia) nel 1999. Devo citare anche il Rock Master ad Arco: una delle gare più storiche e più sentite, almeno a quei tempi. Oggi ha perso un po’ di fascino, ha cambiato la formula e si è standardizzato ad un format tipo Coppa del Mondo: gli atleti non vedono più nessuna differenza con le altre gare. Prima era una gara ad invito, dove solo i migliori 15 arrampicatori del ranking mondiale potevano essere invitati e poi aveva formula unica con due vie in due giornate: la prima giornata con formula a vista e la seconda giornata con una via lavorata nei giorni precedenti. Prima era considerata “la gara” da tutti i climber, ed essere invitato rappresentava un po’ il coronamento della carriera. Com’è cambiato l’ambiente dei climber oggi? Molto. È diventato uno sport di massa, le gare si sono evolute, prima era uno sport giovane. Il gesto, la tracciatura sono cresciuti negli anni e oggi sono molto spettacolari. Cambiare è naturale, ora è uno sport a sè stante, diciamo che si è scrollato negli anni prima l’ombra di sport derivato dall’alpinismo e ora come gestualità anche dall’arrampicata su roccia. Anche se sono convinto che i nuovi movimenti dinamici che vediamo nelle gare adesso, tra qualche anno li rivedremo proposti sui boulder e sulle vie. Quindi un trait d’union tra i due mondi continuerà ad esserci. Arrampicata alle Olimpiadi: cosa ne pensi? È un grande traguardo che ha pro e contro. Darà molta visibilità allo sport, e più considerazione per gli atleti che saranno più appagati, perché con le Olimpiadi non si tratta di vincere una gara ma di realizzare un sogno. Però entrerà nel business degli sport popolari: vedremo come sarà gestito.

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Il grado cosa rappresenta per te? È l’asticella, fa la differenza in arrampicata, anche se molti dicono che non è importante. Cerchi sempre di fare quel pizzico in più per migliorarti, e la scelta si basa su quello. È vero che l’arrampicatore può scegliersi la linea che lo appaga di più e che spesso sono bellezza e storia che ti attraggono nelle vie, ma è il grado, che ti porta lì, la sua presenza è una costante. Oggi che climber sei? Ormai io arrampico per diletto, con due bimbi piccoli è difficile programmare allenamenti, o spedizioni. Provo magari vie più difficili, vie alpinistiche. Sono più poliedrico, d’inverno vado molto con le pelli. L’arrampicata non è più totalizzante per me. Non mi è più venuto in mente di tornare su una via che avevo fatto: bisogna anche un po’ distaccarsi dal personaggio quando si cresce. Se dovessi descriverti con una delle tue vie, quale sceglieresti? Ogni via è un tassello della mia vita di arrampicatore. Forse Mortal Kombat, 8b+ a vista. In montagna, invece, magari è la prossima… Tra arrampicata e alpinismo, cosa preferisci? Nel 2005 ho avuto l’invito da Luca Maspes a partecipare alla spedizione UP Project, e la curiosità di provare cose nuove mi ha spinto ad accettare. Quell’anno ho smesso di fare le gare, volevo provare le grandi pareti. Non avevo molta esperienza, ma mi è piaciuto un mondo. Poi ho fatto i corsi guida e ho iniziato ad arrampicare in montagna in modo più frequente. Preferisci le montagne di casa o viaggiare? Preferirei essere sempre in giro! Con la famiglia l’organizzazione è diversa, ma una volta l’anno andiamo, tutti insieme a fare un viaggio. Siamo stati in Norvegia, nel Sud Italia, con i bambini andiamo a fare vie plasir, ferrate, salite di diverso genere. Cerco di dar loro orizzonti ampi. Un consiglio a chi si avvicina all’arrampicata? Dico di non pensare solo al grado: all’inizio va messo in disparte. Il grado arriva da sé, bisogna avere una visione allargata. È come una piramide, più hai una base larga, più puoi farla alta. La base è la tecnica delle diverse discipline, la conoscenza di diverse rocce. Se non hai questo bagaglio, sei un arrampicatore limitato. Un passaggio arduo e intrigante non riuscirà a bloccare l’arrampicata di Cristian Brenna impegnato sulla via Gelbe Mauer (Muro Giallo 7a+), aperta nel 1996 da Stefan Glowacz e Kurt Albert, sulla Sud di Cima Piccola di Lavaredo. [Foto: Richard Felderer]


DUE ATLETI CHE MIRANO A PRIMEGGIARE NELLA CLASSIFICA DI UNA NUOVA DISCIPLINA

Stefano Carnati Movimento elegante, fluido, snodato. Determinazione oltremisura e una inconfondibile aria da bravo ragazzo. Stefano Carnati, nato a Como il 12 giugno del 1998, è ai massimi livelli di questo sport sin da quando era adolescente: a 15 anni ha conquistato il titolo mondiale nella categoria Lead Youth B in Canada. È uno dei climber più affermati a livello internazionale, uno dei membri più giovani e più stimati del Gruppo Ragni della Grignetta, e fa parte della Nazionale B di arrampicata sportiva. Vive a Erba e vanta nel suo curriculum una lunga serie di successi nazionali e internazionali, sia a livello agonistico sia in termini di salite al limite dell’irripetibile. Dal 2011 ha realizzato oltre 450 vie superiori all’8a, raggiungendo il grado di 9a+, prima fino all’8c+. Quest’anno ha chiuso il primo 9a post lockdown con la prima ripetizione di The party’s here, nel Triangolo Lariano.

Già da adolescente eri una celebrità nell’arrampicata sportiva. Come hai vissuto questa esperienza a quell’età? Grazie per questa così grande considerazione dei miei successi passati. Ho vissuto quel periodo con molta naturalezza. Sicuramente ho gioito dei bei risultati che mi hanno entusiasmato e, in qualche modo, mi hanno dato quella serenità e motivazione utili per affrontare gli impegni successivi con più costanza e determinazione. Come ti sei avvicinato a questo sport? E cosa ti ha attratto successivamente? Ho un padre alpinista, e il mondo della scalata ha sempre fatto parte della mia vita. Fino ai 12 anni ho praticato ginnastica artistica, senza mai pensare seriamente all’arrampicata. Capitava talvolta che, recandomi con mio padre nelle diverse falesie, mi divertissi a stare appeso sulle corde dondolandomi: non andavo oltre. Poi, accompagnandolo alla palestra indoor dei Ragni, ho pian piano compreso che il gesto dell’arrampicata mi divertiva e così ha avuto avvio la mia avventura in questa realtà. Qual è stata finora la soddisfazione maggiore che ti ha dato questo sport? È uno sport che regala stimoli sempre forti e diversi. Per praticarlo occorre spesso viaggiare e frequentare luoghi sconosciuti, conoscendo persone con cui allacciare nuove amicizie e relazioni. Credo che questo costituisca la soddisfazione maggiore, più importante anche della realizzazione di una particolare via o di una vittoria in una gara. Quanto ti alleni per arrivare a questi risultati? L’agonismo richiede più talento o più determinazione? Solitamente mi alleno in palestra tre volte durante la settimana e dedico il sabato e la domenica all’arrampicata in falesia, meteo permettendo. L’agonismo richiede entrambi: il talento aiuta ma, se non si lavora “duro” e con grande impegno, da solo non basta. Hai un sogno nel cassetto? Ci sono molte vie che sogno di poter salire, alcune in luoghi interessanti ma lontani, che spero un giorno di avere l’opportunità di visitare! Hai mai pensato che gli impegni sportivi fossero troppi, o al contrario hai mai pensato di mettere da parte un po’ lo studio per dedicarti solo allo sport? Spesso ho sognato di poter solo arrampicare, ma purtroppo non posso permettermelo, almeno nella situazione attuale. Per carattere sono piuttosto razionale e concreto e, ormai da tempo, ho compreso che devo pensare al futuro e, soprattutto, a come mantenermi. Per questo cerco di portare avanti sia l’università da un lato e l’arrampicata dall’altro. Non è sempre facile, soprattutto quando si hanno progetti arrampicatori lontano da casa che richiedono un notevole investimento in tempo ed anche denaro. Pertanto, mi capita spesso di accantonare, fra i sogni, tiri che vorrei realizzare, magari anche quando sono vicino alla loro conclusione. Come in ogni situazione è necessario trovare i giusti equilibri, accettare compromessi e sperare in nuove e più opportune occasioni. Non posso

nascondere di aver avuto periodi difficili, che ho superato facendo un passo indietro e ricordando a me stesso che in ogni caso potevo comunque arrampicare, ovvero fare ciò che più mi diverte! Provare e fallire, provare e fallire, provare e finalmente riuscire. Il gioco dell’arrampicata richiede molta pazienza, cosa ti fa tenere duro fino all’obiettivo? Avere un obiettivo chiaro e definito è il primo passo per poter trovare la giusta motivazione. A questo si deve aggiungere una buona sopportazione dei fallimenti, momenti duri ma fondamentali per comprendere lacune nella preparazione sia fisica sia mentale. Arrivando dal mondo della ginnastica artistica, fin da piccolo ho capito l’importanza degli allenamenti e della continua ripetizione del gesto per guadagnare in precisione ed efficienza. Questo è entrato nel mio modo di pensare e, dunque, di praticare anche l’arrampicata sportiva.

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Come scegli le tue sfide? Quali sono i tuoi prossimi progetti? In genere mi piace scegliere vie estetiche, magari con una particolare storia. Anche l’apritore conta molto: ci sono dei nomi che sono una sicurezza. Inoltre, preferisco vie con movimenti inusuali e su roccia con formazioni particolari. Di progetti e di sogni, come dicevo prima, ce ne sono davvero molti nella mia testa. Purtroppo, nella zona in cui abito ci sono poche vie di alta difficoltà rimaste da realizzare, e ciò mi costringe a spostamenti continui. Spero che la situazione attuale, provocata dal Covid, migliori presto e che si possa tornare a viaggiare liberamente e spensieratamente come in passato. È stato importante per te il Gruppo Ragni? Appartenere ad un gruppo di alpinisti e arrampicatori così importante è un grande stimolo ed orgoglio. La loro mentalità, sempre aperta verso novità ed esperienze diverse, mi ha permesso di sentirmi ben supportato nelle scelte effettuate e nella loro conseguente attuazione. Come vivi le competizioni? Pur non essendo un professionista, cerco di affrontarle con grande impegno e preparazione. In genere, quando mi rendo conto che il mio stato fisico non è al top, l’ansia, presente sempre e comunque in una gara, sale e, nella maggior parte dei casi, risulta incontrollabile. Quando invece so di essermi preparato al meglio, perché ho avuto le occasioni e il tempo per farlo, ciò che più mi stimola è trasformare quest’ansia in sensazioni positive che mi permettono di raggiungere lo stato di concentrazione migliore ed avere il massimo rendimento. Da queste esperienze traggo grande soddisfazione e stimolo per mantenere lo stile di vita che pratico, fatto spesso di rinunce e qualche piccolo sacrificio. Molti delle giovani generazioni si avvicinano all’arrampicata solo in palestra e non la praticano in ambiente. Tu che alpinista sei? Che terreno e che stile preferisci? Direi innanzitutto che il termine corretto per identificarmi è arrampicatore. Mi dedico all’arrampicata in falesia, al Boulder e alle competizioni. Per ora sono solo questi i campi in cui mi pongo degli obiettivi. Arrampicare in palestra significa soprattutto prepararmi alle uscite su roccia o alle competizioni. Noto, inoltre, che, almeno nelle mie zone e nelle palestre che frequento, anche per chi inizia indoor, il passo successivo e naturale è quello di dedicarsi alla falesia. È qui che è possibile passare delle belle giornate all’aperto e in compagnia, porsi degli obiettivi e confrontarsi in maniera non agonistica. Hai un alpinista che ritieni sia il tuo punto di riferimento? Sì, anch’ io ho dei personaggi di riferimento. Sono climber che hanno contribuito alla storia dell’arrampicata sportiva, riuscendo a trasmettere la loro passione e mentalità. Scalare sulle vie da loro liberate e/o anche chiodate significa per me apprendere sempre qualcosa di nuovo ed importante per progredire. Tra questi personaggi, ad esempio, mi piace ricordare Chris Sharma: i video delle sue vie mi hanno avvicinato all’arrampicata quando ero piccolo e continuano ancor oggi a essere fonte di stimolo.

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Giorgia Tesio [Foto: Fabio Fin]

Lo stile inconfondibile di Stefano Carnati, che manifesta il suo impegno di ricercare un valore aggiunto nella scelta dei suoi progetti, si evidenzia nelle due foto che lo ritraggono su “Moon Landing”, 9a, al Passo della Presolana (foto a lato) e su “The party’s here”, 9a, nel Triangolo Lariano, nella pagina precedente. [Foto: Adriano Carnati]

Classe 2000, piemontese di Mondovì, Giorgia Tesio è tra le più promettenti climber del momento a livello internazionale e la prima atleta femminile a portare i colori del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur nelle competizioni di arrampicata sportiva. Specializzata nel Boulder, ma capace di eccellere anche nelle altre specialità, ha già nel suo palmares titoli di Coppa Italia, Coppa Europa e Coppa del Mondo. “Il mio sogno sono le Olimpiadi di Parigi 2024, dato che per Pechino non ho potuto qualificarmi a causa di un infortunio”.

Giorgia, come ti sei avvicinata all’arrampicata e cosa ti ha spinto a diventare agonista? L’arrampicata c’è sempre stata nella mia vita. Ho iniziato sulla roccia con mio padre, che ha sempre amato scalare: la domenica andavamo in montagna per arrampicare, sciare o camminare. Da piccola ho praticato altri sport, nuoto, ginnastica ritmica e altro, ma l’arrampicata è sempre stata una passione. Quando ha aperto la palestra di roccia nel 2009 vicino casa mia, mi sono iscritta al corso agonistico e non ho più smesso. L’agonismo richiede molto tempo e molti sacrifici, ti è mai pesato? Ho provato a fare le gare e mi sono piaciute da subito. Ho trovato un bell’ambiente, tanti ragazzi della mia età con cui condividere sport e momenti belli. No, non mi è mai pesato, forse anche perché ho trovato un bel gruppo di amici. Poi è bello sapere che a mio padre fa piacere avermi trasmesso questa passione, anche se non mi ha mai forzato nella scelta dello sport. I risultati in gara sono arrivati subito? Sì, il primo anno di gare, il 2009, ho vinto il campionato italiano giovanile, quindi è stata una bella spinta a continuare. Poi sono entrata in Nazionale giovanile nel 2014 e ho iniziato a competere anche in Europa: anche lì sono andate subito bene. Nell’Esercito mi sono arruolata solo l’anno scorso e questo mi ha permesso di diventare professionista. È stata una bella soddisfazione vince-


re il concorso in un anno un po’ sfortunato a causa di un infortunio. Io sono l’unica ragazza del CSE della squadra di arrampicata, ma mi trovo molto bene in particolare con Marcello Bombardi e Ludovico Fossali. Ci alleniamo insieme, sono atleti molto forti ed è molto stimolante. Quest’anno siete stati bloccati diversi mesi per l’emergenza Covid. Come hai ricominciato la stagione? È stato difficile trovare la motivazione per allenarsi, perché cancellavano gare ogni settimana. Poi però, finito il lockdown, sono tornata a Trento con gli altri ragazzi della Nazionale per riprendere gli allenamenti, e la tappa di Coppa del Mondo Lead a Briançon di agosto è stata una buona occasione per allenarmi nel Lead, considerando che negli ultimi anni mi ero dedicata quasi soltanto al Boulder in vista delle Olimpiadi. Per me è stata la prima volta in finale di una Coppa del Mondo Lead senior. A settembre sono arrivata seconda al 36° Campionato Italiano Lead, dietro Laura Rogora. Quali sono le vie che preferisci salire? La mia specialità preferita era il Boulder, che prevede percorsi corti e intensi. In gara preferisco questi tracciati, con passaggi selettivi, piuttosto che lunghe serie di movimenti semplici che richiedono maggiore resistenza. Invece in falesia, potendo scegliere, prediligo vie con tiri piuttosto corti. La scalata che ricordi con più emozione? Sicuramente la via che mi ha dato più soddisfazione è Hyaena, 8b+, nella falesia di Monte Sordo a Finale Ligure, prima ripetizione femminile. È una linea bellissima, sia da vedere che da scalare. Mi sono divertita tanto a salirla e non mi ha richiesto troppi tentativi. Poi c’è stata una cosa strana: la notte precedente ho sognato di farla, mi sono svegliata coi movimenti nella testa e mentre salivo era come ripercorrere il sogno. Come Boulder la linea la più emozionante è stata Noi, ad Andonno, il mio primo 8b, anche se non è stata la più bella via che ho fatto ero col mio migliore amico, e ho potuto condividere con lui un grande traguardo. È stato lo scorso inverno. Quanto ti alleni per arrivare a questi risultati? L’agonismo richiede più talento o più determinazione? Dipende, ma di solito nel periodo di carico o tutti i giorni o almeno sei giorni a settimana almeno per quattro ore in una giornata. Tutto questo compatibilmente con l’università: sto facendo studi internazionali a Trento, mi piace molto studiare e voglio continuare la mia formazione, perché nel mio futuro vedo anche altro, oltre l’arrampicata.

Ti manca casa tua? Mi piace tanto vivere da sola ed essere autonoma negli spostamenti, nell’organizzazione del tempo e degli allenamenti. Però ovviamente la famiglia e la casa mancano, torno abbastanza di frequente. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Nel futuro imminente il campionato italiano a Roma, sperando che non sia cancellato. Tengo molto al titolo italiano di Boulder. E poi mi allenerò per la stagione successiva, nell’ottica delle prossime Coppe del Mondo. Hai un sogno nel cassetto? Magari una via da salire? Non ho una via in particolare. Quest’estate ho fatto il mio primo 8c in Francia vicino Briançon, “Mieux vaut une petite bien dure” a La Saume, e poi il secondo, ripetendo “Cinque Uve” nella falesia i Narango, ad Arco, in Trentino. Vorrei fare il mio primo 8c+ o 9a ma non ho ancora scelto una via cui puntare. Cosa ti ha insegnato l’arrampicata? La cosa più importante è la resilienza. Mi ha insegnato a non mollare mai e a non scendere a compromessi: se vuoi, puoi fare tutto. Non ho mai dovuto scegliere se studiare o arrampicare, sono sempre riuscita a trovare la soluzione per conciliare tutto. Il fatto di riuscire a rialzarmi dopo le delusioni, di non giustificarmi di fronte alla difficoltà, ma di provare a risolverle nel modo migliore, è un atteggiamento alla base dell’arrampicata che si applica tutti i giorni nella vita.

Anche se il fermo immagine non consente di rendere comprensibile la difficoltà e l’impegno dell’atleta, con un po’ di immaginazione in entrambe le foto risaltano le eccezionali qualità di Giorgia Tesio. [Foto: Jean Schenk]

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IL COVID NON HA FERMATO IL CAI NAZIONALE Provvedimenti, iniziative e programmi assunti dal CAI Nazionale al tempo dell’epidemia nell’intervista concessaci dal suo Presidente Generale Vincenzo Torti di Sara Sottocornola

Progetti concreti, positività e cambio di mentalità nel vivere la montagna. È ispirata a questi valori la risposta del Club Alpino Italiano all’emergenza Coronavirus, dalla quale il mondo della montagna sta uscendo più forte di prima, con nuovi frequentatori, nuove proposte e nuovo entusiasmo. Il CAI è stato in prima linea sul fronte dell’informazione e del rispetto delle regole prima, e nella ripresa poi, con diversi progetti. “In un momento come questo siamo un punto di riferimento per la montagna” – dice l’Avv. Vincenzo Torti, Presidente Generale del CAI, in questa intervista. “Lo dimostrano i numeri dei tesseramenti e gli investimenti che stiamo facendo. L’attività delle Sezioni, la formazione, gli eventi sono ripresi, e stiamo lavorando per il rilancio della montagna italiana, dalla promozione di nuovi itinerari, come il Sentiero Italia e le vette meno conosciute, ad azioni concrete post-pandemia come l’acquisto di autovetture per l’assistenza domiciliare nei paesi di montagna”.

Presidente, parliamo del ruolo sociale del CAI durante e dopo l’emergenza Coronavirus. Qual è la sua visione? Mai come in questo periodo il ruolo del CAI è marcato e fondamentale. Il confinamento ha costretto le persone a casa, senza possibilità di uscire, generando discussioni sulla possibilità di andare in montagna. Non è stato facile far capire al mondo della montagna che per far funzionare il distanziamento in città dovevamo fare la stessa cosa in tutti gli ambienti, anche sui sentieri dove normalmente se si va a camminare si è comunque distanti almeno uno o due metri. Il CAI ha voluto dare, durante il lockdown, un messaggio forte di esempio di rispetto delle regole. Subito dopo, il ruolo del CAI è stato fondamentale nell’informazione e nella comunicazione rivolta alle persone che andavano in montagna. Abbiamo capito che sarebbe stata “invasa” da gente che normalmente andava in spiaggia e ci siamo dati da fare attraverso tutti i canali possibili: stampa nazionale, radio, dirette Tv, Rai, per diffondere i principi di prudenza e conoscenza della montagna e raggiungere un pubblico più vasto possibile. Qual è stato il risultato di questo sforzo di comunicazione? Ritengo che sia stato molto positivo all’interno dell’Associazione, e in parte, anche all’esterno, se si considera il grande incremento di frequentatori della montagna, mossi dalla scelta di vacanze di prossimità e dal fatto che la montagna appare un ambiente più aperto e sicuro rispetto ad altri. L’indice di valore da considerare, però, per comprendere

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l’importanza di avvicinarsi alla montagna attraverso il CAI, è dato dalla percentuale dei soccorsi che solo in rarissimi casi – e per di più in situazioni alpinistiche – ha riguardato soci CAI. Come vede il futuro dell’Associazione dopo questo anno di emergenza? Ne avete sofferto? Siamo una delle Associazioni che sta confermando presenza sul territorio e successo nei tesseramenti. Nel 2019 abbiamo toccato il record di soci con 327.148 tessere. A febbraio avevamo 5000 soci in più dell’anno precedente nello stesso periodo, a conferma anche della bontà di tante scelte fatta nei mesi passati. Non nascondo che cinque mesi di Sezioni e attività chiuse ci avevano fatto temere una perdita, ma oggi abbiamo oltre 302mila soci ed è come se il lockdown non fosse esistito. A Codogno abbiamo registrato un aumento di soci CAI. In un momento come questo, siamo un punto di riferimento di una montagna non solo turistica, ma da vivere. Una conferma arriva anche dalla frequentazione dei rifugi: a maggio erano tutti disperati e assillati da domande tipo: come faremo con la sanificazione? il distanziamento? I pranzi e i pernottamenti? Riusciremo ad aprire? Ci sono state anche diverse richieste di abbassamento dei canoni di affitto in previsione di un anno di crisi. A consuntivo, invece, l’estate 2020 è stata una delle più floride, anche se il tipo di frequentazione è cambiata, abbiamo più pranzi e meno pernottamenti. Cosa avete fatto per supportare i vostri rifugi? Abbiamo dotato tutti gli oltre 300 rifugi CAI di “kit anti-Covid” per la misurazione della

temperatura, saturimetro e sanificazione degli ambienti. Abbiamo fatto un grande lavoro per aiutarli con le nuove normative e con le nuove esigenze, e posso dire che abbiamo ottenuto risultati straordinari. Ma non abbiamo pensato solo alle nostre strutture, noi lavoriamo per la montagna in generale. Abbiamo destinato 500mila Euro delle nostre risorse provenienti dal tesseramento all’acquisto di 53 Panda per l’assistenza domiciliare da parte di ANPAS nelle valli di montagna. E ricordo che ad Amatrice abbiamo costruito e messo in funzione con la stessa ANPAS la Casa della Montagna che viene usata dalle istituzioni locali ed è una delle poche strutture funzionanti in quei luoghi. Una delle principali attività del CAI è la formazione. Che conseguenze ha avuto la pandemia sui corsi organizzati dalle Sezioni? Abbiamo sempre fornito indicazioni graduali e tempestive, rispettando di volta in volta le indicazioni contenute nei provvedimenti legislativi: ad esempio prima i corsi potevano avere solo 4 persone, poi 10, oggi 20. Ovviamente, con gli imperativi di mascherina, distanziamento, sanificazione e divieto di assembramento. Nel rispetto delle regole, le singole Scuole hanno potuto ripartire e molti corsi sono attivi già da settembre. Che disposizioni ci sono per sentieri attrezzati e vie ferrate? Abbiamo suggerito di evitare questo tipo di percorsi attrezzati. Non ci è parsa possibile una indicazione diversa nel momento in cui la regola fondamentale anti contagio è quella di lavarsi frequentemente le mani e, in questi contesti, con un uso promiscuo elevato,


I rifugi alpini del CAI

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Realizzazioni di grande capacità e impegno, rappresentano il regalo più concreto ed apprezzato che gli amanti della montagna ricevono come stimolo per la loro passione e come meta dove si trova ristoro, convivialità e riposo. Studiati per un inserimento in posizioni strategiche, dove ambiente e panorami suscitano sensazioni indicibili, già averli potuti raggiungere dona soddisfazione piena e gratificante. Sono però determinanti anche nella loro potenziale funzione di una specie di campo base, da cui un breve percorso consente agli alpinisti di arrivare ai piedi delle splendide pareti che normalmente li sovrastano. Nella carrellata delle fotografie che proponiamo abbiamo preso in considerazione un settore delle Prealpi e tre zone delle Alpi a noi più vicine per presentare per ognuno le corrispondenti illustrazioni fotografiche di rifugi storici. Nell’ordine passeremo dalle Prealpi lecchesi, gruppo delle Grigne, alle Alpi Retiche Occidentali in Val Masino, in Val Chiavenna e in Val Malenco.

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Rifugio Rosalba al Pertusio, 1730m, in Grignetta: separa la Val Monastero dalla Val Scarettone. Rifugio Luigi Brioschi, 2403m, sulla vetta del Grignone, con vista sulla Grignetta. Rifugio Arnaldo Bogani, 1816m, al Moncodeno, località Poiat, nell’ampio anfiteatro settentrionale del Grignone. Rifugio Cesare Ponti, 2559m, in Val Preda Rossa, nel gruppo del Disgrazia. Rifugio Luigi Gianetti, 2534m, in Val Porcellizzo, nel gruppo del Castello. Rifugio Antonio Omio, 2100m, all’Alpe dell’Oro, nel gruppo del Ligoncio. Rifugio Chiavenna, 2044m, ad Angeloga, alla testata della Val Rabbiosa, nel gruppo del Platta. Rifugio Carate Brianza, 2635m, alla Bocchetta delle Forbici, nel gruppo del Bernina. Rifugio Damiano Marinelli e Luigi Bombardieri, 2813m, in Alta Valle dello Scerscen, nel gruppo del Bernina. Le bellissime foto dei nove rifugi sono opera di Mauro Lanfranchi.

Uomini&Sport | Novembre 2020 | 21


non sarebbe possibile farlo. Ho sentito che circolavano indicazioni, del tipo passare il gel sulle catene, ma questo, al di là della praticabilità, avrebbe generato altre criticità. Noi vogliamo che chi va in montagna lo faccia per stare bene effettivamente e non potevamo dimenticare che vi sono asintomatici che, inconsapevolmente, potrebbero andare in montagna senza saperlo, con quanto ne deriverebbe in caso di uso multiplo di attrezzature che non si possono sanificare dopo ogni utilizzo. Siamo consapevoli che la libertà dei singoli può sconfinare fino alla discoteca senza mascherina, ma quello non è di nostra competenza. L’emergenza ha costretto a cancellare numerosi eventi, e rende complessa l’organizzazione di quelli futuri. Come vede il futuro su questo fronte? Rispetto a nuove situazioni, si ricercano e adottano nuove soluzioni. La nostra risposta è stata tempestiva e flessibile, vi cito un esempio: il Trento Film Festival è stato realizzato a fine agosto, con una nuova modalità, distribuito sul territorio. Ho partecipato ad una serata dedicata alla montanità, con Mauro Corona e Luca Mercalli, con il pubblico distanziato nel prato del MUSE, e con oltre 5500 persone collegate in streaming. In modo coraggioso abbiamo riaperto le assemblee delle nostre Sezioni, da svolgersi con prudenza e rispetto delle regole, ed abbiamo convocato la nostra Assemblea Nazionale, perché un’Associazione

Anche la cura dell’arredamento rivela con quanta passione e dedizione per gli ospiti venga sempre più migliorata e aggiornata l’accoglienza nei rifugi del CAI. Nella foto sopra: il Rifugio Carlo Porta (1.426m) ai Resinelli, gruppo delle Grigne; sotto: il Rifugio Marco e Rosa De Marchi – Agostino Rocca (3.609m) alla Forcola di Cresta Guzza, nel gruppo del Bernina. [Foto: Mauro Lanfranchi]

22 | Novembre 2020 | Uomini&Sport

come la nostra, con oltre trecentomila soci, deve avere necessariamente dei momenti di verifica e progettualità condivise. Certo, per le distanze e il non assembramento, abbiamo affittato un Palazzetto dello Sport… Quali progetti avete in cantiere per il futuro? Il 29 settembre alle 11 firmeremo col Ministro Franceschini al MIBACT un nuovo protocollo per la valorizzazione della sentieristica Nazionale e del Sentiero Italia, che collega attraverso i suoi oltre 7.000km, tutte le regioni italiane e vede molte attività culturali per la promozione dei territori, e con il Ministero dell’Ambiente il Vicepresidente Montani sta curando un progetto che unirà tutti i Parchi nazionali d’Italia con una rete di sentieri. Abbiamo in programma l’uscita di volumi che illustreranno puntualmente tutti questi percorsi. E questi sono solo alcuni dei numerosi progetti in campo. Parliamo di spedizioni alpinistiche. Come vede il futuro dell’esplorazione? Dalle coperture assicurative rileviamo le attività internazionali dei soci. Ci sono alpinisti che hanno i loro progetti e siamo felici di supportarli quando possibile, ma a causa delle limitazioni di viaggio questo settore si trova in pesante riduzione. Tengo però a dire che non bisogna necessariamente andare dall’altra parte del mondo per fare esplorazione. Quest’estate abbiamo lanciato l’iniziativa “Scopriamo nuovi sentieri” per coinvolgere le persone attraverso i social e

proporre escursioni lungo sentieri meno noti, per scoprire la bellezza delle valli e dei versanti meno conosciuti, favorendo il rispetto del divieto di assembramento. Ci sono una ventina di mete abusate, in Italia, quando le nostre montagne sono stracolme di posti sconosciuti e meravigliosi. Ho una casa che si affaccia sul Monte Bianco e accanto c’è una montagna di 3.500m che non viene mai salita da nessuno. Quest’estate per la prima volta ho visto 30 persone in quella valle: avranno sicuramente potuto godere di esperienze uniche, come passare in mezzo a prati di stelle alpine o incontrare animali selvatici, esperienze che si possono vivere solo là dove la natura ha riguadagnato i suoi spazi. Questi luoghi esistono, ma bisogna scoprirli: desideriamo promuovere un cambio di mentalità in questo senso. Torno a citare il Sentiero Italia perché è uno strumento per conoscere paesi, culture, usanze oltre che cime. Come la via Francigena o il Cammino di S. Benedetto: lungo questi itinerari si passa dalla montagna isolata a bellissimi borghi e questo significa scoprire il proprio Paese in un modo unico.

La gestione dei rifugi viene spesso affidata a personaggi che hanno brillato nel passato nella pratica degli sport di montagna, che ora diventano un richiamo illustre e simpatico per chi raggiunge il loro punto ospitale. Nella foto: Giancarlo Lenatti, detto Bianco, “capanàtt” della Marco e Rosa, maestro di sci e guida alpina, conosciuto per i suoi grandi exploit di sci estremo, e per superbe scalate in Africa, in Alaska e nella Yosemite Valley. [Foto: Mauro Lanfranchi]


Nasce in collaborazione con le guide alpine svizzere dello Swiss Alpine Club, per soddisfare le necessità degli amanti della montagna più esigenti come gli alpinisti Tamara Lunger, Roger Schaeli e Federica Mingolla, endorser ufficiali. Il design incontra la funzionalità senza compromessi in una collezione strutturata su 4 capsule pensate per 4 modi diversi di vivere la montagna. Apine Guide Series Sviluppata appositamente per le guide alpine e adottata ufficialmente dallo Swiss Alpine Club. Nessun compromesso, pura funzionalità per chi lavora quotidianamente in montagna. Classic Series Dedicata agli alpinisti più tecnici che devono raggiungere le vette più alte delle Alpi (4000 m). Ambition Series Dedicata agli alpinisti esigenti per escursioni dinamiche e sportive di un giorno in avvicinamento alle vette delle Alpi. Utilizzo consigliato tra 3000 e 4000 metri di altezza.

ALPINE GUIDE GTX PANT L’Alpine Guide GTX Pant combina GORE-TEX ProShell e GORE-TEX ActiveShell, assicurandone la resistenza alle intemperie mantenendo, allo stesso tempo, un comfort ottimale. Questi pantaloni offrono la migliore protezione nella pratica dell’alpinismo. Comfort e robustezza sono stati testati da guide alpine professionisti. Plus: + 2 tasche frontali con zip + 1 tasca posteriore con zip + aree rinforzate delle ginocchia, glutei e parte inferiore delle gambe con Gore-Tex Pro Shell + ghette regolabili + aperture laterali per la ventilazione + cerniere YKK Flat-Vislon + Cintura integrata, clip per bretelle

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La collezione Alpine Tech di La Sportiva: la linea di abbigliamento tecnico dedicata agli alpinisti più esigenti, è in vendita in esclusiva nei negozi DF Sport Specialist di Bevera di Sirtori, Orio al Serio, Lissone.

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IN ESCLUSIVA nei negozi DF Sport Specialist, Bevera di Sirtori, Lissone, Orio al Serio

ALPINE GUIDE SOFTSHELL JKT Giacca versatile e funzionale, adatta alla vita quotidiana di una guida alpina o di un alpinista in alta montagna. Il mix di materiali altamente tecnici con soluzioni innovative sono studiate su misura per le esigenze di un alpinista attivo. Plus: + Gore Windstopper abbinato a tessuto elasticizzato 4 direzioni + 2 tasche facili da raggiungere quando si indossa uno zaino, imbracatura da arrampicata + tasca piatta sul petto con zip + tasca in rete applicata + ventilazione ascellare con zip + polsini e orlo regolabili + cappuccio regolabile con coulisse

Authentic Series Nato per i backpacker che amano muoversi velocemente in montagna, nelle traversate di ghiacciai e catene montuose alpine. Alcuni tra i capi della collezione Alpine Tech di La Sportiva

Uomini&Sport | Novembre 2020 | 23


ANCHE QUI SI TROVA DF SPORT SPECIALIST

#LIBERI DI CAMMINARE: DODICI TAPPE LUNGO LA VIA FRANCIGENA Un progetto sociale finalizzato a rendere un mondo libero dalla Sclerosi Multipla “Liberi di Camminare” è un progetto sociale nato con l’obiettivo di diffondere un messaggio di incoraggiamento e sostegno a coloro che sono affetti da sclerosi multipla per dimostrare, a più voci, l’importanza che una pratica motoria corretta e supervisionata può avere sui pazienti affetti dalla patologia. È dimostrato infatti come il movimento possa rallentare ed alleviare i sintomi, oltre ad essere un supporto psicologico insostituibile, aumentando la sicurezza e l’autostima del paziente. Ideato dal dott. Gabriele Rosa, a capo di Associazione Lamu e Rosa Running Team ASD, in collaborazione con l’avvocato Maria Luisa Garatti, presidente dell’Associazione Sevuoipuoi, “Liberi di Camminare” è a favore di AISM e per un mondo libero dalla Sclerosi Multipla. Teatro dell’iniziativa è stata la Via Francigena con 12 tappe, da Siena a Roma, dal 26 agosto al 7 settembre. Da anni il Gruppo Rosa realizza progetti sociali che vedono protagoniste persone con patologie e disabilità, offrendo loro l’opportunità di partecipare a grandi eventi sportivi internazionali. La pandemia da Covid-19 ha bloccato le manifestazioni sportive ma non l’energia e la voglia di fare: è nato così il progetto “Liberi di Camminare”, con l’obiettivo di evidenziare come dalla pratica di questo gesto semplice e naturale, tutti possano trarre notevoli vantaggi dal punto di vista psicofisico, in particolar modo le persone con patologie o disabilità.

a cura di Cristina Guarnaschelli

Lungo le tappe della bellissima Via Francigena, i protagonisti hanno accolto chi desiderava condividere e sostenere il messaggio di “Liberi di camminare”, un messaggio di speranza per coloro che soffrono di sclerosi multipla e che contemporaneamente intendeva infondere un segnale di Ri-partenza e Ri-nascita per tutti. Le parole del dott. Gabriele Rosa: “Il cammino rappresenta la storia dell’uomo. Le grandi migrazioni hanno permesso alla specie umana di diffondersi ovunque e di popolare il pianeta. Se il cammino è stato fondamentale nella storia nell’uomo, esso è anche di estrema importanza nella vita contemporanea, perché permette a chi lo compie di continuare a rendere omaggio a questo meraviglioso gesto. Camminando, vediamo il mondo con lentezza, e ciò ci consente di ammirare paesaggi meravigliosi e di ricevere dai medesimi grandi sensazioni di conforto, anche in momenti difficili, facendoci riscoprire il piacere del vivere. Questo progetto mi dà enorme emozione! Attraverso i chilometri percorsi dagli ammalati di sclerosi multipla e dai loro accompagnatori intendiamo diffondere un grande messaggio di speranza per tutti. Con questo progetto, inoltre, invitiamo tutti a camminare, ovunque, da soli o in compagnia, aumentando il piacere di vivere e migliorando la propria condizione di benessere psicofisico. Camminatori del mondo e nel mondo seguiteci tutti. Uniti possiamo formare una rete che renda migliori noi e il mondo in cui viviamo”. Le parole di Maria Luisa Garatti: “Durante una delle mie giornate difficili, in cui ero rinchiusa in casa, ho pensato a questo progetto: un modo per far conoscere la malattia di cui soffro da 14 anni, raccogliere fondi per la ricerca e muovere le mie gambe anche per chi non può ... un cammino dentro i meandri della mia anima per rendere ancora più forte la mia voglia di vivere. Perché io non mi arrendo e, anche se ogni giorno mi sento stanca e spossata, come se avessi uno zaino di 20kg costantemente sulle spalle, so che c’è una vita da vivere, ci sono corse da fare, obiettivi da raggiungere, sorrisi da trasmettere.”

È nata la WEB TV! Raccontare le novità di prodotto con le figure autorevoli e competenti dei venditori dei punti vendita DF Sport Specialist e Bicimania: questo è il nuovo progetto di video content marketing ideato dall’azienda per essere ancora più vicina ai suoi clienti con un nuovo strumento di comunicazione. L’idea ha preso avvio durante gli ski test dello scorso inverno con le prime riprese video degli sci presentati dai responsabili dei brand presenti all’evento. Da lì, il progetto si è evoluto fino a diventare un tour settimanale nei punti vendita dei negozi DF Sport Specialist e Bicimania: una nuova modalità, fruibile online direttamente sul sito o attraverso il canale youtube DF Sport Specialist, per presentare con brevi video le novità di prodotto arrivate in negozio, dall’abbigliamento, alle calzature, all’attrezzatura e alle biciclette. Dalle voci dei venditori dei reparti nasce così, ogni settimana, un video racconto delle caratteristiche tecniche del prodotto, una breve anteprima che permette ai clienti di avere le prime informazioni per prepararsi alla visita in negozio o all’acquisto online. Dai brand nazionali ed internazionali distribuiti nei negozi fino alle marche proprie, come DF Mountain, la web TV accende le sue luci sulle novità del settore.

24 | Novembre 2020 | Uomini&Sport


DF SPORT SPECIALIST insieme a “Officina della Corsa” per gli allenamenti del gruppo milanese delle Pink Ambassador Pink is Good è un progetto della Fondazione Umberto Veronesi, nato a Milano nel 2014 e oggi attivo in 14 città italiane: dal capoluogo meneghino fino a Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Monza e Brianza, Napoli, Palermo, Perugia, Roma, Torino, Varese, Verona. Chi sono le Pink Ambassador? Sono donne, runner che si fanno portatrici di un forte messaggio: dopo la malattia si può tornare a vivere più forti di prima, anche grazie alla corsa, dimostrando, a se stesse e al mondo, che il tumore non ha vinto. Si può correre per dimostrare che si è capaci di lottare anche se la malattia può segnare nel profondo. Ma la vita è sempre lì, da apprezzare anche più di prima. Le Pink Ambassador condividono la propria esperienza di malattia a sostegno della ricerca scientifica e della prevenzione, per dimostrare l’importanza della diagnosi precoce e dei corretti stili di vita nella lotta contro i tumori. Correndo, parlano a tutti di coraggio, di ricerca, di prevenzione. A “Officina della Corsa”, con gli allenatori FIDAL Elena Griffa e Pier Bergonti, il compito di seguire le 25 donne, di età diverse, che hanno aderito all’iniziativa in previsione della staffetta che si è svolta il 3 ottobre al parco Nord di Milano: il gruppo milanese delle Pink Ambassador è stato il primo gruppo che ha dato il via a questa staffetta virtuale che si è tenuta poi anche in altre città italiane.

Gli allenamenti delle Pink Ambassador milanesi con “Officina della Corsa”, sostenuta da DF Sport Specialist, sono bisettimanali: si svolgono il lunedì al campo XXV Aprile, Montagnetta di San Siro, ed il venerdì al Parco Nord, con base all’Officina della Corsa, e prevedono lavori di tecnica di corsa, ripetute, fartlek con spiegazioni tecniche sulla corretta postura e appoggio del piede, senza trascurare esercizi di potenziamento e insegnamenti sulla respirazione diaframmatica. Le Pink Ambassador sono seguite da un team tecnico d’eccellenza: medici, nutrizionisti, psicologi e allenatori. La scienza ha ormai provato i benefici dell’attività fisica a tutti i livelli di prevenzione, non solo quella primaria che previene dall’insorgenza delle malattie. Secondo numerosi studi scientifici fare movimento in modo costante nel tempo riduce il rischio di recidive e favorisce il recupero psicofisico dei pazienti oncologici. Per questo motivo Fondazione Umberto Veronesi recluta ogni anno donne operate di tumore al seno, utero o ovaie, che accettano una nuova sfida: allenarsi per partecipare a una corsa podistica di alto livello.

6 Comuni Presolana Trail Domenica 4 ottobre si è svolta la 6 Comuni Presolana Trail: 24 km al cospetto della Regina delle Orobie, la Presolana. Quasi duecento atleti hanno ricevuto il pacco gara con lo zaino DF Sport Specialist personalizzato con il pittogramma della manifestazione, presentandosi alla partenza nella medievale piazza di Fino del Monte. Grande soddisfazione per l’organizzatore Mario Poletti: è stata una bella giornata di sport alla scoperta dei sei borghi all’ombra del massiccio della Presolana, e un’occasione per ricordare Danilo Fiorina, socio fondatore di Fly-Up venuto a mancare nell’ottobre di quattro anni fa. La gara è stata vinta da Antonio Lollo, atleta prevalentemente stradista e pistard, ha mostrato a tutti le sue doti da mezzofondista dominando dall’inizio alla fine i 24 chilometri del percorso che unisce i comuni di Fino, Rovetta, Songavazzo, Cerete, Onore e Castione. L’ex ciclista, ora portacolori dell’Atletica Bergamo 1959 ha stoppato le lancette sotto l’arco di arrivo di DF Sport Specialist, su 1h39’17”. In campo femminile la gara è stata vinta dalla skyrunner comasca Paola Gelpi del team La Sportiva: 1h56’15” il crono che le è valso la vittoria. [Foto: Cristian Riva e Diego Degiorgi]

Uomini&Sport | Novembre 2020 | 25


BANFF CENTRE MOUNTAIN FILM FESTIVAL WORLD TOUR ITALY DF Sport Specialist è fedele partner di alcune tappe del prestigioso Banff Centre Mountain Film Festival World Tour Italy. Avventura e sport sono protagonisti della rassegna cinematografica internazionale di medio e cortometraggi dedicati al mondo della montagna e dell’outdoor. L’evento, alla sua all’ottava edizione italiana, ha visto quest’anno 41 tappe nazionali, con Bergamo, Casatenovo, Como, Lecco, Milano, Saronno, realizzate grazie anche al supporto di DF Sport Specialist.

Salomon Running: una corsa vera, una corsa sicura Non fermate Milano ora, ma anche ‘non fermatemi ora’, questo è il nuovo slogan della Salomon Running Milano che si è svolta domenica 27 settembre. Salomon Running Milano, è stata la prima vera competizione running del capoluogo lombardo post coronavirus, il primo vero ritorno a quella normalità che davamo per scontata ed invece quest’anno abbiamo capito che è di fondamentale importanza per la nostra esistenza. Tutte le partenze si sono svolte a scaglioni di 250 persone, opportunamente distanziate lungo tutto il canale di partenza grazie a dei bolli posizionati a terra, scattate ogni 5 minuti indossando la mascherina per i primi 500 metri di gara. L’occasione per tornare a vivere la sfida, condividere emozioni, confrontarsi con avversari e ritrovare tanti amici. Una sfida nella sfida per dimostrare che Milano c’è, con tutta la sua voglia di ripartire e tornare a correre forte, con tutta la sua vitalità ed energia. E al fianco di migliaia di runner e della loro voglia di tornare ad allenarsi con un obiettivo vero e concreto, sognando una medaglia e un traguardo, non poteva che esserci DF Sport Specialist, che oltre ad essere partner della manifestazione ha anche organizzato, nel pieno rispetto delle normative sanitarie vigenti, quattro sessioni di allenamento gratuiti a Milano Via Palmanova, Bevera di Sirtori, Parco Nord, City Life. Ogni allenamento, sviluppato su 3 distanze e con la possibilità di testare le scarpe delle nuove collezioni di Salomon, ha richiamato oltre 100 partecipanti ad ogni tappa. Gli allenamenti, curati da tecnici professionisti del running, hanno visto la collaborazione del testimonial DF Sport Specialist, Renzo Barbugian e di Elena e Pier di Officina della Corsa. [Foto: Salomon Running]

26 | Novembre 2019 2020 | Uomini&Sport


DF Sport Specialist per la “Casa di Reclusione” di Milano Opera Sabato 10 ottobre presso il Centro Sportivo della Casa di Reclusione di Milano Opera, si è svolto il 1° meeting di Arti Marziali alla presenza del Comandate di Reparto di Polizia Penitenziaria Dirigente Dott. Amerigo Fusco, del sottosegretario alla Presidenza della Regione Lombardia Alan Rizzi, e di Giuseppe Zamboni, responsabile marketing di DF Sport Specialist, che ha offerto il materiale per le premiazioni degli atleti. Ad alternarsi sul tatami, i maestri di World Ju-Jitsu PMA Italia, Karate Fijlkam, Krav Maga/BJJ, Aikido AIA, Kendo CIK, in una dimostrazione che si è svolta in un piacevole clima di amicizia e sportività. Un ringraziamento particolare a Pier Robertino Cocco.

Monza Run Free DF Sport Specialist ha sponsorizzato la Monza Run free: un evento di corsa a cronometro su tre percorsi a disposizione da 21km, 10km, 5km, all’interno del Parco di Monza. Un meccanismo semplicissimo per tornare a sfidarsi in piena sicurezza: ci si iscrive sul sito scegliendo, tra quelli disponibili, l’orario in cui si vuole partire, si scarica l’app e si entra nella Community di Monza Run Free! L’evento ha avuto inizio giovedì 15 ottobre per concludersi domenica 18 ottobre e ha registrato 1.300 partecipanti.

Fondazione Costruiamo il futuro, con il sostegno di DF Sport Specialist premia chi educa attraverso lo sport La Fondazione Costruiamo il Futuro nasce nel 2009 dall’unione di due associazioni territoriali: l’Associazione Costruiamo il Futuro (con sede a Merate) e l’Associazione Costruiamo il Futuro Brianza (con sede a Seregno), e si propone di promuovere e organizzare iniziative culturali e di sostegno al mondo del volontariato, del no-profit e dell’associazionismo sportivo. All’insegna del motto “Sarà ancora più bello aiutarvi”, si è conclusa sabato 10 ottobre la quarta edizione del Premio Costruiamo il futuro Milano Città Metropolitana, nato per sostenere i progetti e la vita delle tante associazioni che operano a favore dell’educazione di bambini, ragazzi e disabili. La cerimonia ospitata al Marriott Hotel di Milano, nel pieno rispetto delle vigenti misure anti Covid, alla presenza di Maurizio Lupi, presidente della Fondazione Costruiamo il futuro e ha visto come madrina d’eccezione, Lorella Cuccarini, in collegamento da Roma. Quest’anno il Premio ha assunto un significato più che mai particolare: l’emergenza Covid 19 ha toccato profondamente le casse delle Associazioni che si ritrovano a far fronte a spese straordinarie per le sanificazioni che la pandemia ha imposto, spazi più ampi dove accogliere i ragazzi, sostegno economico alle famiglie in difficoltà per poter ridurre le quote di iscrizione e dare la possibilità a tutti di partecipare all’attività sportiva. L’iniziativa ha raccolto come sempre la generosità della Famiglia Longoni, che ha voluto mettere a disposizione otto assegni del valore di 500Euro ciascuno, per l’acquisto di abbigliamento e attrezzature sportive nei suoi negozi DF Sport Specialist. [Foto: Fondazione Costruiamo il futuro]

Uomini&Sport | Novembre 2020 | 27


L’ECLETTICO TEAM DI DF SPORT SPECIALIST GLI AMBASSADOR PER IL 2020/2021

28 | Novembre 2020 | Uomini&Sport



PER CONOSCERE I TESTIMONIAL DEL TEAM DF SPORT SPECIALIST

a cura di Cristina Guarnaschelli

DALLE ALPI PIEMONTESI AL MAR LIGURE LUNGO LA VIA DEL SALE Antonio Armuzzi, responsabile running del punto vendita di Lissone, e Luca Guglielmetti, insieme di corsa sui vecchi sentieri utilizzati dai mercanti di sale. 100 km da Limone Piemonte a Ventimiglia in poco più di tredici ore. Antonio e Luca sono amici e condividono la passione per gli ultra trail: corrono e si allenano insieme non appena il lavoro lo permette loro. La passione è forte, intensa, fatta di obiettivi e risultati: ma quest’anno, si sa, le gare che avevano programmato sono state annullate. Per chi, come loro, è abituato ad allenarsi in vista delle competizioni è difficile mantenere alte motivazione e concentrazione: la ricerca di nuove sfide diventa quindi fondamentale come stimolo per programmare gli allenamenti, per mettersi in gioco individuando nuovi traguardi personali, a volte in solitaria o in coppia, come nel caso di Antonio e Luca. Ai primi di luglio hanno concretizzato il loro primo risultato stagionale: 100km di corsa con un dislivello complessivo di 2.200m, partenza da Limone Piemonte e arrivo a Ventimiglia, con una sola e breve sosta al 78°km e un percorso complessivo compiuto in poco più di tredici ore. Scoprite con noi com’è andata la loro avventura! Com’è nata l’idea? Per noi che amiamo le ultra trail, doverne fare a meno è davvero difficile. Durante il lockdown, abbiamo iniziato a pensare come avremmo potuto compensare questa mancanza non appena avremmo avuto il via libera per tornare a correre. Così è nata l’idea di questa traversata: siamo partiti di notte, dopo aver terminato la giornata di lavoro, passando dai 30 gradi della pianura ai 12 di Limone Piemonte. A mezzanotte e mezza abbiamo iniziato a correre, frontale accesa per guidare i nostri passi sul sentiero, accorgendoci dopo poco che ci accompagnava una bellissima luna piena che illuminava il percorso così chiaramente da farci spegnere le frontali. È stata un’emozione davvero unica! Perché avete scelto la Via del Sale? Ho proposto a Luca questo itinerario – ci racconta Antonio – perché era stato fatto lo scorso anno da mio papà, in due giorni, con la mountain bike, e ne era rimasto entusiasta. Per gli appassionati della bicicletta questo è un percorso battuto, lo è molto meno dai runner, aspetto che ci ha stimolato a fare questa scelta, oltre che per la bellezza e la varietà del paesaggio che avevamo visto dalle foto e documentandoci anche online. Il paesaggio è molto bello, ma molto spoglio, - ci racconta Luca - poche segnalazioni lungo il sentiero. All’orizzonte, man mano che correvamo, vedevamo avvicinarsi il mare, la nostra meta a Ventimiglia. Come vi siete allenati considerando anche il periodo del lockdown? Siamo rimasti sempre attivi utilizzando la bicicletta da spinning, i rulli e facendo anche tanto allenamento a secco per cercare di mantenere una buona condizione muscolare, in attesa che si potesse tornare a correre in montagna, a macinare chilometri, come piace a noi. Come avete gestito le energie durante la traversata? Il primo e unico “pit stop” lo abbiamo fatto al 78°km al rifugio Gola di Gouda, a metà mattina verso le 10, per una veloce colazione prima di ripartire per gli ultimi chilometri finali. È stata dura in alcuni momenti, soprattutto di giorno, quando le temperature si sono alzate – ci racconta Luca. Erano i primi caldi della stagione e non eravamo abituati a temperature così elevate: abbiamo sofferto nella parte finale del percorso. Essere in due però ci ha permesso di sostenerci e spronarci a vicenda per tenere duro ed arrivare fino in fondo. Devo dire grazie ad Antonio: la sua lunga esperienza da professionista, è stata fondamentale per la gestione del ritmo di corsa e quindi dell’energia.

30 | Novembre 2020 | Uomini&Sport

Lungo il percorso poche possibilità di rifornimento d’acqua, fontane pressoché inesistenti. Ne abbiamo trovata una sola, la gestione dell’acqua è stata quindi parsimoniosa, consapevoli dei chilometri che ci mancavano alla meta e del gran caldo delle ore diurne. A proposito di energie – ci racconta Antonio – ne abbiamo impiegate tante, soprattutto a livello mentale, quando alle 7 del mattino ci siamo trovati, in territorio francese, circondati da sei cani, quelli utilizzati dai pastori per tenere lontani i lupi. È stato davvero un momento molto brutto, a furia di urla e tentativi di tenerli lontani con i nostri bastoncini da trekking siamo riusciti a proseguire, purtroppo però allungando il percorso di circa 20km. Il vostro prossimo obiettivo? La data c’è già, 19 settembre, e l’idea pure: questa volta giochiamo in casa, sulle montagne dell’Alta Via dei Monti Lariani con un percorso di 130 km e un dislivello complessivo di 5.500m. Partenza sempre di notte: sarà più impegnativo dal punto di vista del dislivello, ma è a nostro favore il fatto di correre su sentieri che conosciamo molto bene. Forza ragazzi!

Antonio Armuzzi e Luca Guglielmetti


QUANDO DAL TEAM DF SPORT SPECIALIST PROROMPE UN EXPLOIT:

DANIEL ANTONIOLI E IL TENTATIVO DI RECORD SUL GRAN PARADISO Martedì 14 luglio Daniel Antonioli e Nadir Maguet alle ore 6:30 sono partiti da Pont Valsavaranche con l’obiettivo di raggiungere la vetta del Gran Paradiso (4.061m) e ritornare nel minor tempo possibile. In una stagione senza gare, i due atleti si sono ritrovati insieme a tentare di battere un record che durava da 25 anni: l’ha spuntata Nadir Maguet con il tempo 2h02’32”, mentre Daniel Antonioli ha concluso l’impresa con 2h10’32”, tempo comunque inferiore rispetto al record di Champretavy. Daniel, com’è nata l’idea di tentare di tentare il record? “In questa stagione particolare, finora senza gare, la voglia di cercare nuove sfide e stimoli per allenarmi era tanta, così ho deciso di tentare questo record sul Gran Paradiso, una montagna che conosco molto bene e che aveva un record di andata e ritorno imbattuto da 25 anni. Non ero sicuro di poter battere il tempo di 2h21’36’’ fatto da Ettore Champretavy nel 1995. Per poter stare sotto quel tempo, sapevo che, oltre a dovermi trovare in un ottimo stato di forma, avrei dovuto trovare il percorso in condizioni ideali. Ma nonostante le incognite la voglia di provarci era tanta.” L’hai pensata sin dall’inizio con Nadir oppure è stata una coincidenza ritrovarvi focalizzati sullo stesso obiettivo? Raccontaci com’è andata. “Ad inizio luglio il Gran Paradiso stava “andando in condizione”: la neve che durante le ore più calde si squagliava al sole, la notte rigelava, offrendo così una superfice dura e liscia sulla quale, utilizzando dei micro ramponi, si corre veloci e sicuri. Sapevo che dovevo affrettarmi a fissare una data e trovare alcuni amici disposti ad assistermi lungo il percorso in caso di necessità. Facendo un giro di chiamate sono così venuto a sapere che anche Nadir voleva tentare lo stesso record. Lo chiamai immediatamente e ci trovammo subito d’accordo sul fatto di provarci assieme, ma individualmente: entrambi sapevamo che per poter battere il precedente record si doveva essere al 100% della forma e non ci si poteva permettere nemmeno un breve momento di crisi. Ma, non gareggiando da parecchio tempo, entrambi avevamo dei dubbi sul nostro stato di forma. Così abbiamo escluso l’idea di salire e scendere appaiati. Inoltre correndo come “avversari” sarebbe somigliata di più ad una gara, alla quali entrambi siamo più abituati: ci avremmo così probabilmente messo più grinta.” Come ti sei allenato, considerando anche il lungo periodo di stop dovuto al lockdown? “Nei mesi di gennaio e la prima metà di febbraio, ho gareggiato nel Winter Triathlon, finché si è potuto, quindi ho corso, pedalato e sciato. Mi sono quindi trovato nel periodo di stop in una discreta condizione fisica, che ho cercato di mantenere con tutte le attività che potevo svolgere tra le mura di casa: ho pedalato tanto sui rulli ed ho fatto ginnastica a corpo libero. Anche se lo sport indoor non è mai stato la mia passione, durante il lockdown è stato un valido alleato per mantenermi in forma.” I tuoi prossimi obiettivi? “In questa stagione avrei voluto seguire il circuito World Series di Skyrunning: le Skyraces, durante la stagione estiva, sono le gare che preferisco. Grazie ai tre podi del circuito mondiale conquistati l’anno scorso, quest’anno ho ricevuto l’invito a molte gare. Purtroppo però il circuito è stato annullato, ma in alcuni paesi le gare che ne facevano parte si svolgeranno regolarmente ed io intendo andarci. Non ho ancora certezze su tutte le gare, ma quasi sicuramente ad agosto sarò al via della Matterhorn Ultraks Extreme a Zermatt, un percorso un po’ “estremo” ma di vera montagna e a me piace molto.” Sequenza di immagini di un faticoso impegno, di uno splendido successo, e di esplosioni di gioia per Antonioli, a sinistra, e Maguet. [Photo Credit ©Jeantet Stefano]

Uomini&Sport | Novembre 2020 | 31


LUCA MANFREDI NEGRI, ULTRARUNNER, E LA SUA “RIPARTENZA” CON UN RECORD DEL MONDO È venuto a trovarci in azienda, con la maglia che ha indossato per la sua impresa sportiva, dopo il record mondiale di dislivello positivo e negativo, Luca Manfredi Negri, atleta del Team DF Sport Specialist. Tanta era la voglia di tornare a correre sulle sue montagne che Luca Manfredi Negri, trail runner di livello internazionale, di Oliveto Lario, ha pensato di ripartire con una sfida: il tentativo di battere il record mondiale di dislivello positivo e negativo compiuto nell’arco di 24 ore. Sabato 13 giugno, Luca ha centrato l’obiettivo con 17.000m di dislivello positivo, strappando il precedente record di 16.054m, realizzato, proprio qualche giorno prima in Finlandia dall’ultra runner Juha Jumisko, che aveva a sua volta superato il francese Ugo Ferrari con 15.467m. La 24 ore Up&Down di Luca Manfredi Negri si è svolta lungo il percorso della pista da sci “C” del Palabione all’Aprica, località di cui Luca è originario: 34 giri per 149,6km, con ogni giro da 4,2km, corso spesso ad una media inferiore ai quaranta minuti. “Ho pensato a questo record durante il periodo di lockdown tra marzo e aprile – ci ha raccontato Luca Manfredi Negri - per cercare nuovi stimoli e motivazioni per continuare gli allenamenti al chiuso. Essermi dato questo obiettivo mi ha aiutato a mantenere la concentrazione e una preparazione atletica quotidiana”. Per Luca è stata una sfida per ripartire, per dare una svolta a questi mesi senza gare e soprattutto per tornare alla propria passione, quella delle lunghe distanze che, da un paio d’anni, lo vedono al vertice delle ultra maratone in montagna con prestazioni di rilievo, come il secondo posto all’Adamello Ultra Trail nel 2019. “Il dislivello è il parametro che tutti noi atleti utilizziamo per gli allenamenti in montagna – afferma Luca – e il ricordo che all’AUT avevo percorso 11.500m in ventiquattro ore mi ha fatto scattare la scintilla e il desiderio di provarci”.

Da quel primo seme di idea, la 24 ore Up&Down, così fortemente voluta e pensata da Luca, è diventata un evento all’Aprica che, con tutte le dovute cautele legate all’emergenza sanitaria, ha visto il sostegno di tanti amici e parenti del runner, i quali in effetti hanno accompagnato e incitato lo stesso atleta lungo il percorso. Un primo passo verso una ripartenza, un riappropriarsi della natura e un ritorno alle proprie passioni outdoor.

Luca Manfedi con Sergio Longoni, che si compiace, condividendolo con affettuoso sorriso, per ogni successo dei suoi testimonial.

UN’ALTRA IMPRESA PER ANTONIO ARMUZZI E LUCA GUGLIELMETTI: UN TRAIL DI 113 KM IN QUOTA SULL’ANELLO CANTÙ - VARENNA Dopo la Via del Sale, raccontata nelle precedenti pagine, Antonio Armuzzi e Luca Guglielmetti si sono cimentati in un’altra avventura, questa volta sulle montagne di casa, da Cantù a Varenna. Anche questa volta i due runner hanno scelto una partenza in notturna, sabato 19 settembre alle ore 23 per un percorso che si è svolto in 14 ore e 42 minuti per un totale di 113 km e 4.000m di dislivello. Il giro è partito da Alzate Brianza, Como, Monte Bisbino, lungo la dorsale

fino a scendere a Menaggio, dove i due hanno preso il battello per Bellagio; da qui la ripartenza tutta in salita lungo i sentieri del Triangolo Lariano: San Primo, Sormano, Rifugio Riella (per una breve sosta di ristoro), Capanna Mara, Alpe Vicerè, Albavilla e ritorno ad Alzate Brianza. Il messaggio della loro impresa sportiva è di ottimismo, di voglia di continuare a fare sport, inseguendo le proprie passioni sul terreno di nuove sfide personali.

Antonio Armuzzi e Luca Guglielmetti

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FABIO RUGA SI AGGIUDICA IL TRACCIOLINO TRAIL Fabio Ruga vince il Tracciolino Trail, domenica 27 settembre: la gara di trail running only up, con un tempo di 55’28”. Organizzata dal Team Valtellina A.S.D., la gara si è svolta con partenza da Verceia, sul lungolago di Mezzola, con arrivo nel tipico borgo di Frasnedo, in Val dei Ratti, per un percorso di 8,9 km e un dislivello positivo di 1050m. Fabio Ruga, Team La Recastello Radici Group, ha tagliato il traguardo a mani alzate staccando Giuseppe Molteni dell’Atletica Desio di 1’22”. Terzo posto per Mattia Gianola del Team Premana Crazy a 1’36” dal vincitore.

MONICA CASIRAGHI E IL SUO “EVERESTING” DEDICATO ALLA SORELLA ALESSANDRA Un’altra impresa sportiva di Monica Casiraghi nel ricordo di sua sorella Alessandra, nota alpinista, scomparsa tre anni fa. E proprio in corrispondenza del giorno dell’anniversario, dalle ore 17 di sabato 26 settembre 2020 alle 17 di domenica 27 settembre 2020, Monica e Federica Vernò hanno affrontato il Muro di Sormano (pendenza massima del 25 per cento) percorrendo 113 chilometri, per un dislivello positivo di 9.179m, salendo per 32 volte il muro e percorrendolo in discesa per 31 volte. L’obiettivo degli 8.848m dell’Everest, traguardo che permette di etichettare l’impresa come “Everesting”, è stato ampiamente superato dalle due atlete, che hanno corso per 24 ore, con brevissime pause di qualche minuto per non prendere freddo e perdere il ritmo. Vento e temperature basse hanno messo a dura prova le due ultramarotonete che non hanno mollato, resistendo e alternando la corsa alla camminata veloce per non sovraccaricare muscolatura e piedi, specialmente in discesa. Molti sono stati gli amici (oltre all’immancabile mamma di Monica, Pinuccia), che, quasi compiendo una staffetta, non hanno fatto mai mancare il supporto e la presenza. “È stata molto dura ma non ho mai avuto dubbi di non farcela – ha affermato Monica Casiraghi – al termine dell’impresa: sicuramente il Muro di Sormano ora non lo voglio più vedere per i prossimi dieci anni!”

Federica Vernò e Monica Casiraghi sul Muro di Sormano

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DANIEL ANTONIOLI, UNA STAGIONE RICCA DI SUCCESSI: VITTORIA ALLA LATEMAR MOUNTAIN RACE, SECONDO POSTO ALLA DYNAFIT TRAIL RUN3 E TEMPO DA RECORD AL TRAIL DEL NEVEGAL Daniel Antonioli, team DF Sport Specialist, è davvero in ottima forma e i risultati delle sue ultime gare lo confermano. Partiamo dalla vittoria alla 13° edizione della Latemar Mountain Race, domenica 13 settembre, che si è svolta con partenza da Pampeago, a quota 1.750m, con un percorso di 25 km e un dislivello positivo di 1.680m, in gran parte immerso nella catena montuosa ubicata tra il Trentino e l’Alto Adige. Daniel Antonioli si è aggiudicato la vittoria, in una giornata caratterizzata da condizioni meteo ottimali, con un tempo di 2h18’50”, precedendo di 2 minuti e 18 secondi l’atleta che lo tallonava, Jean Baptiste Simukeka. Dalle Dolomiti al Tirolo! La settimana successiva, da venerdì 18 a domenica 20 settembre, è stata la volta della Dynafit Trail Run3, una tre giorni di gare austriaca che ha visto Daniel Antonioli gareggiare in team con il campione di scialpinismo Jakob Herrmann. La coppia si è classificata al secondo posto con due successi di tappa (3h22’30”). Antonioli ha registrato il miglior tempo nella vertical iniziale ed è arrivato secondo in volata nella tappa intermedia. E il mese di settembre si è chiuso domenica 27 con la 6° edizione del Trail del Nevegal, nelle prealpi bellunesi, un percorso di 21 km circa e un dislivello positivo di circa 1.700m. Un’edizione caratterizzata da un sole tiepido che ha accompagnato gli oltre 330 concorrenti presenti alla partenza. Daniel Antonioli si è subito messo in evidenza spingendo sul ripido del muro della Grava e dando filo da torcere ai diretti avversari che hanno potuto recuperare un po’ di terreno in discesa, senza però riuscire ad anticipare il forte atleta, originario dei Piani dei Resinelli, che si è imposto con il tempo record di 1 ora 55 minuti e 21 secondi. Daniel Antonioli ha dichiarato: «Una bellissima gara con un percorso alla portata di tutti. Quest’anno ho preferito partecipare a gare italiane e sono stato contento di esserci al Trail del Nevegal, perché ne ho sentito parlare molto bene! Devo dire che le voci hanno rispecchiato la realtà. Il livello era molto alto. Fortunatamente ne avevo di più in salita e nelle disceso ho stretto i denti per mantenere la posizione. E’ stata una gara bellissima, complimenti agli organizzatori». Fonte della dichiarazione Trailrunning.it

Due passaggi della Latemar Mountain Race. In alto, Antonioli in zona Agnello / Cornon; sopra in Latemar. [Foto: latemarun.com]

Sopra un momento del Trail del Nevegal con Antonioli, impegnato sul muro della Grava. [Foto: trailrunning.it]

Podio della Latemar Mountain Race. [Foto: latemarun.com]

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Daniel Antonioli durante Dynafit Trail Run3, dove si è classificato secondo. [Foto: Maurizio Torri - sportdimontagna.com]


TENTAZIONI ALPINISTICHE PER UN CARNET DA SOGNO

Le più importanti ripetizioni delle vie classiche proposte per un magico curriculum

Sul Pilone Centrale del Frêney …come se nulla fosse Testo e foto di Tommaso Lamantia

Non ci ha sorpreso che un giovane alpinista abbia subito irresistibilmente il fascino di una montagna splendida e invitante, come del resto a tutti appare il Pilone Centrale del Frêney. Si tratta però di una montagna insidiosa, quasi un retaggio esclusivo di coloro che l’alpinismo riescono a praticarlo ai più alti livelli. Sorprendente diventa allora che l’attrattiva di questo Pilone, che sorge tra i mari dei ghiacciai che caratterizzano il Monte Bianco, si sia tramutata nella decisione di farne una propria meta di arrampicata. Altrettanto singolare può venire considerata anche la facilità con cui l’autore dell’articolo è riuscito a coinvolgere senza problemi in questa audace iniziativa altri tre amici, che non hanno esitato a dare una risposta affermativa con identico entusiasmo. Confessiamo che tutto questo ci ha fatto riflettere, fino al punto di prendere in considerazione l’opportunità che l’impresa di questi quattro

tramutata nella decisione di fare in modo che proprio questi obiettivi

alpinisti potesse venire esposta come un evento paradigmatico per altri

alpinistici prendessero visibilità, come sembrava suggerirci l’arrampicata

giovani che, praticando l’alpinismo, bramerebbero confrontarsi con vie di

sul Pilone Centrale del Frêney: aprire su Uomini e Sport una nuova rubrica,

arrampicata di importanza storica o comunque rilevante, ma si sentono

indicata “Tentazioni alpinistiche per un carnet da sogno”. Sappiamo che

frenati, o imbarazzati nella scelta, per la mancanza di un riferimento reale

è una rubrica che potrà avere un seguito soltanto se, come contributo

e rassicurante.

di generosità, altri alpinisti come Lamantia vorranno indirizzare alla

La semplicità verbale con cui la salita su una famosa parete al Monte

redazione di Uomini e Sport le relazioni di loro gratificanti arrampicate

Bianco è stata raccontata da Tommaso Lamantia è in grado di indicare

con la semplicità accattivante del presente articolo.

che anche una meta prestigiosa può divenire appannaggio di ognuno che,

Ce lo auguriamo, proprio per il bene dell’alpinismo e per il bene che

dotato della debita formazione alpinistica che comprende le cognizioni

proviene dall’alpinismo, e saremo grati, anche a nome di tanti giovani

su sicurezza e prudenza, fino a quel momento non si era immaginato

alpinisti ancora incerti e titubanti, e a nome di tutti i lettori della nostra

potesse essere alla sua portata. La nostra riflessione si è per questo

rivista, agli alpinisti che vorranno accogliere il nostro invito.

I primi messaggi con Mirco (Grasso, ndr) ad inizio settimana scorsa sono molto diretti e decisi. Nei prossimi giorni ci sarà alta pressione in quota: andiamo a scalare qualcosa di bello? Io sono in parola con un amico e pensavamo di andare sul Monte Bianco. Entrambi siamo sulla stessa linea e già pensiamo al Pilone Centrale del Frêney. Mirco e Francesco (Rigon, ndr) però preferiscono non andare soltanto in tre, per cui per me comincia la ricerca del compagno adatto alle fatiche del viaggio che si prospetta. Non sono molte le persone cui rivolgersi per una salita del genere, ma subito dopo mi risponde Michele (Zanotti, ndr), dicendomi di avergli cambiato la giornata con la richiesta e confermandoci di esserci.

Durante la settimana ci scriviamo e sentiamo più volte confrontandoci con le varie notizie che avevamo sul meteo e sulle condizioni sia del ghiacciaio sia del Pilone stesso. Le notizie in nostro possesso non sono tutte ottimiste, infatti ci arrivano commenti che descrivono la via non in condizioni e molto sporca di neve ancora dall’inverno. Ma non ci perdiamo d’animo, e intanto organizziamo la logistica e con fare molto punk decidiamo di sbatterci il muso di persona!! Ci troviamo il venerdì pomeriggio a Courmayeur al piazzale della panoramica Skyway, dove lasciamo una macchina, e con l’altra saliamo in val Vény, dove comincia il nostro viaggio. Dopo una cena abbondante al rifugio Monzino (2.560m), cominciamo a scrutare verso l’alto per cercare di capire se avevano ragione i

In alto, del tutto motivata l’esplosione di orgogliosa soddisfazione che si evince dal volto di Tommaso e Michele giunti sulla cima del Monte Bianco. Sotto, non poteva presentarsi più invitante l’aspetto del prestigioso obiettivo alpinistico che aveva stregato i quattro amici: qui Tommaso Lamantia, che si trova in arrampicata nella parte bassa del Pilone, può sperimentare quanto sia irresistibile affrontare verticalità ed esposizione in un ambiente di stupenda bellezza.

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pessimisti oppure noi. Non si vede molto, ma la vista della parte alta del Pilone stesso ci ricarica le idee. Ci mettiamo nei letti e trascorriamo giusto qualche ora prima che la sveglia suoni all’una di notte, e dopo colazione e ultimi preparativi, alle due ci incamminiamo verso il ghiacciaio e i bivacchi Eccles (Lampugnani 3.852m e Crippa 3.837m). Il rigelo è buono, e in meno tempo del previsto, dopo aver zizzagato tra i vari crepacci, siamo all’interno del bivacco nuovo a farci un the e mangiare qualcosa. L’idea è di andare fino al Colle Eccles (4.021m), e prima di calarci nel ghiacciaio del Frêney (punto di difficile ritorno) valutare bene se proseguire verso il Pilone Centrale oppure optare per il piano B. Ma, giunti al Colle, la voglia di salire uno dei pilastri più belli del Monte Bianco e la motivazione ci fa trovare in poco tempo alla base del Pilone, con ormai un’unica via di uscita. Siamo tutti e quattro molto tranquilli e ci stiamo muovendo con fluidità, visto che abbiamo tutto quello che ci serve per affrontare un bivacco in parete. Così, trovato il punto migliore per attraversare la crepacciata terminale, ci fiondiamo verso l’attacco della via. Le informazioni sulla via non sono eccessive e dettagliate, ma seguendo il proprio fiuto alpinistico saliamo bene tutta la prima parte, che in realtà si dimostra non proprio in ottime condizioni e ci costringe a fare qualche cambio di assetto (scarpette/scarponi) oppure ad affondare i piedi con le scarpette direttamente su neve o ghiaccio. Dopo parecchie ore dalla nostra partenza notturna, arriviamo finalmente alla parte più dura e verticale di tutta la salita, sotto alla “Chandelle”. Decidiamo di fermarci a sciogliere la neve e mangiare qualcosa, e visto che comunque erano le cinque di pomeriggio e il sole era già sparito nel versante opposto decidiamo di bivaccare. Trovati gli unici centimetri disponibili, ci prepariamo i nostri bivacchi: Mirco e Francesco in cima al pilastro all’attacco del tiro artificiale, mentre io e Michele ripuliamo dalla neve la cengia dove Bonatti e compagni vissero la tragedia del 1961 durante la prima salita. Il bivacco, anche se scomodo e molto aereo, non può che essere una delle esperienze più intense vissute, e tutto il freddo patito durante la notte viene subito dimenticato al sorgere del sole. Da quel punto siamo i primi in tutta Europa a vedere e prendere i suoi raggi. Alba magnifica a quasi 4.500m. Con calma ci prepariamo e cominciamo a scalare la sezione dura della via, e in qualche ora siamo in cima al Pilone, soddisfatti e felici di esserci goduti ogni singolo metro, ma consapevoli che adesso dopo una breve calata, ci aspettano ancora qualche tiro di misto non banale: la parte finale della Cresta del Brouillard che porta in vetta al Monte Bianco, e poi la discesa.

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Il caldo e la stanchezza accumulata durante i due giorni di scalata non ci fanno trovare velocissimi e, visti i tempi, dopo le foto di rito in vetta, andiamo diretti al rifugio Tête Rousse, consapevoli che ormai dovremo scendere a piedi fino a Chamonix. Per festeggiare beviamo la birra più costosa d’Europa e con molta pazienza piano piano perdiamo quota e arriviamo alle nove di sera a Chamonix, dove poi troviamo un passaggio per rientrare in Italia e rifocillarci seriamente con un pizza enorme a Courmayeur! La salita, anche se non in condizioni ottimali, è stata fantastica e ci ha impegnato il giusto per ripagare la nostra motivazione intrinseca nel porci un obiettivo di un certo livello e, anche se i consigli e le informazioni non erano dalla nostra parte, ci abbiamo creduto e abbiamo vissuto un’avventura unica in uno dei posti più selvaggi del Monte Bianco. ______________________________________________ Nota di redazione sul Pilone Centrale del Frêney L’aura del Pilone Centrale del Frêney al Monte Bianco sul versante italiano è una tra le vie più classiche e sognate del massiccio, con verticalità ed esposizione in un ambiente mozzafiato. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso sul suo percorso si sono consumate conquiste e tragedie da parte di uomini che hanno scritto la storia dell’alpinismo mondiale e che, forti della loro tenacia e volontà, riuscivano a superare ostacoli giganteschi. La prima ascensione, che ha dovuto superare una parete di 800 metri di sviluppo, alta 500, con difficoltà 7a+ (V+ e A2 obbl.), è stata appannaggio della cordata anglo-polacca formata da Chris Bonington, Don Whillans, Ian Clough e Jan Djuglosz.

La via alterna tratti puliti e zone abbondantemente innevate che costringono il ricorso ai cambi di assetto che rallentano l’arrampicata. Sullo sfondo si intravedono il ghiacciaio del Freney, l’Aiguille Noire e l’Aiguille Blanche.

Tommaso Lamantia in arrampicata sopra la Chandelle, ai cui piedi si estende ben visibile il ghiacciaio del Freney.

Ancora l’autore dell’articolo che, giunto sulla cuspide terminale del Pilone Centrale, può godersi in premio uno scenario impagabile, che compensa tutti i disagi e i rischi affrontati.


I CONSIGLI DEGLI ESPERTI a cura di Giuseppe Caligiore e Paola Radice, buyer DF Sport Specialist

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INTERVISTE AD ALPINISTI

foto: Luca Lozza

Marco Ballerini,

figura tipica dell’alpinismo lecchese di un’intera generazione, ha portato nell’arrampicata l’agonismo sperimentato con lo sci. a cura di Sara Sottocornola

Marco Ballerini. O semplicemente “Ballera”. Basta il nome, a Lecco, per evocare strapiombi ed equilibri al massimo grado, per pensare all’arrampicata sportiva e alla sua storia, che lo vede protagonista già nei primi anni 80 quando timidamente faceva capolino come nuovo sport, accanto all’attività principe dell’alpinismo. Maestro di sci, guida alpina e maestro di arrampicata, classe 1957, Ballerini è stato pioniere dell’arrampicata sportiva nella zona del lecchese e vanta una grande esperienza internazionale, dal Verdon alla Patagonia fino a El Capitan. Luoghi dove ha conosciuto un modo di scalare lontano anni luce da quello a cui si era abituati in Italia, e che ha contribuito a diffondere sul territorio facendosi pioniere di un nuovo stile, forse un nuovo sport. Insieme ad altri nomi noti come Dario Spreafico, Norberto Riva, Paolo Crippa, Antonio Peccati, porta ai massimi livelli di difficoltà le vie in falesia, prima viste soltanto come un “allenamento” per le salite alpinistiche. Oggi, è direttore sportivo della palestra d’arrampicata di Lecco e svolge con passione l’attività di maestro di sci ai Piani di Bobbio. Ma nessuna intenzione di lasciare le falesie, dove torna per allenarsi quasi ogni giorno della settimana.

Marco, quando è iniziata la tua carriera? Quando hai iniziato ad andare in montagna, se c’è un inizio? Il mio rapporto con la montagna dura da troppo tempo! Scherzo. Dura da tutta la vita e non finirà mai, anche se parlare di “montagna” è forse una parola grossa, perché vado quasi esclusivamente in falesia. Quando ho iniziato non esisteva nemmeno l’arrampicata sportiva, è arrivata dopo. Come tutti i lecchesi, ho iniziato in montagna. Ero incuriosito dal monto alpinistico, ma in realtà vivevo la montagna d’inverno: ero sciatore agonista, in Nazionale, ma mi sono rotto due o tre volte la gamba e ho dovuto smettere. Durante la formazione come maestro di sci, a 18 anni, ho conosciuto Adriano Trincavelli detto “Moss”, guida alpina, che mi ha fatto provare a scalare in Grigna, e mi è piaciuto subito. Cosa, in particolare, ti è piaciuto? Cosa ti ha tenuto così legato alla montagna per tutti questi anni? Mi ha affascinato subito tutto il mondo legato alle scalate. All’inizio, soprattutto, il gesto sportivo, forse perchè arrivavo da uno sport agonistico. Qui a Lecco si respirava un clima alpinistico particolare, vivevamo con leggende viventi come Riccardo Cassin, Carlo Mauri. Io ho iniziato subito a scalare in modo sportivo. Non salivo per il piacere di andare in montagna, mi ha sempre attratto la difficoltà, la performance. Diciamo che ho portato l’agonismo dello sci nell’arrampicata, guidato dalla voglia di innalzare i propri limiti e le difficoltà in parete.

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Ti attraeva la competizione? Nonostante sia stato uno dei primissimi a partecipare alle gare di arrampicata, inventate con “Sport Roccia” nel 1985, non sono mai stato particolarmente motivato dal confronto con altri. Partecipavo per gioco, era un mondo nuovo e interessante. Ma nel mio modo di andare in montagna lo stimolo è la sfida con me stesso per alzare il livello. Difatti di gare ne ho fatte ben poche. Ero già comunque troppo vecchio, occorrevano allenamenti troppo specifici per l’agonismo e facendo anche l’alpinista, all’epoca andavo spesso anche in spedizione, non avevo tempo. Avresti mai pensato allora che l’arrampicata sarebbe sbarcata alle Olimpiadi? Non mi ha meravigliato. Subito, già all’epoca di Sport Roccia ’85, avevo previsto o comunque capito, che la direzione sarebbe stata quella, che l’arrampicata sportiva si scostava molto dall’alpinismo e avrebbe preso una strada tutta sua, con livelli che si alzavano così tanto, sia indoor sia outdoor, da risvegliare interesse nel mondo agonistico. Preferisci la roccia o la neve? L’attività di guida o di maestro di sci? Fare la guida non mi è mai piaciuto tantissimo, anche se ho avuto dei clienti molto importanti e di alto livello con cui ho fatto grandi esperienze, ad esempio El Capitan, nello Yosemite. Preferisco di gran lunga fare il maestro di sci. Prima facevo l’allenatore dello Sci Club Lecco, oggi faccio il maestro ai Piani di Bobbio, quasi solo con bambini e principianti e mi piace tan-

tissimo. Pensavo di annoiarmi, perché io sono un tipo che la pazienza non sa dove sta di casa, invece con i bambini entro in un’altra dimensione, non mi pesa, anzi mi piace molto. C’è una delle tue salite che ricordi con maggior orgoglio o emozione? Non c’è una in particolare, mi ricordo con piacere la spedizione dell’86 in Patagonia con i Ragni Norberto Riva, Carlo Besana, Renato Da Pozzo e Dario Spreafico. Aprimmo una via nuova in condizioni proibitive alla parete Sud della Torre Centrale del Paine e arrivammo in vetta la sera di Natale, dopo due mesi di tentativi tipicamente patagonici. Fu un regalo bellissimo. Quanto ha contato il Gruppo Ragni nella tua storia? Molto, nella mia vita, nel bene e nel male. Perché ne facevo parte ma ne sono anche uscito, per opinioni diverse col Direttivo che c’era all’epoca ho deciso di dare le dimissioni. Non son più rientrato, ma mi sono riavvicinato. Oggi collaboro con la palestra, li frequento e faccio diverse cose con loro. Ti hanno affidato la Direzione Tecnica della Palestra d’arrampicata di Lecco. Che esperienza è? Mi ha dato tanta soddisfazione perché quando è iniziato il progetto era una vera incognita, una scommessa. Mi dà orgoglio, perché oggi è frequentata da tantissimi giovani. I primi anni ha fatto un po’ fatica, il target era diverso, ma grazie al lavoro fatto con le scuole, i corsi, oggi abbiamo molto successo con loro. Essere riusciti – insieme agli altri Ragni che collaborano


L’intensa espressione dal viso del “Ballera”, a sinistra impegnato sulla via “McKinley”, 7c, a destra sulla “Un coin a Ben diretta”, 7b+, sulla parete Est del Corno settentrionale del Nibbio, traduce perfettamente il suo concetto di affrontare l’arrampicata con spirito agonistico, per innalzare i propri limiti. [Foto: Luca Lozza]

come istruttori - a trasmettere questa passione è importante. Quest’anno anche noi abbiamo dovuto chiudere per il lockdown, ma abbiamo già moltissime iscrizioni per i prossimi mesi e svolgeremo come sempre la nostra attività nel rispetto delle regole anti-Covid, con mascherina, distanziamento e disinfezione. Si può scalare in maniera sicura. Oggi che alpinista sei? Oggi scalo 4-5 giorni alla settimana cerco di rimanere al mio livello top: provarci mi stimola, mi motiva. Faccio quasi esclusivamente falesia perchè mi diverto, devo dire che le spedizioni non mi mancano. Come vedi i giovani climber oggi? Scalano a livelli altissimi. Fare dei nomi è difficile perché dimentichi sempre di citare qualcuno. Qui a Lecco, più che speranze abbiamo delle certezze, come Stefano Carnati che quest’anno ha compiuto un’attività in falesia strabiliante. E abbiamo 4-5 ragazzini dell’agonistica a un livello nazionale/internazionale molto alto. Com’è cambiata l’arrampicata da quando hai iniziato? Non si può dire sia meglio o peggio di prima. L’attività che si fa è completamente diversa: le prime gare erano eventi, meeting, esperimenti, ritrovi simili a una Woodstock dell’arrampicata. Ora invece è una disciplina che ha livelli altissimi, atleti che seguono programmi e regole come negli altri sport. Questa è l’evoluzione delle cose. Ora non è più Woodstock, ma è il Festival di Sanremo.

Questo fa perdere un po’ di passione, di istinto? No, la passione non si perde. Ma ora se vuoi farla, è così. È molto cambiata. I top climber internazionali hanno toccato livelli inimmaginabili qualche anno fa. Si può andare ancora oltre? Siamo al 9c, con Adam Ondra su Silence, al grottone di Flatanger, nel Nord della Norvegia, e il tedesco Alex Megos su Bibliographie nella falesia di Céüse, in Francia. Parliamo di solo due persone al mondo. Presumo che si potrà andare oltre, è difficile dire che abbiamo raggiunto il limite, piano piano faranno forse il 10°. Venti anni fa pensavamo che i limiti fossero quasi raggiunti, e oggi siamo a livelli ben diversi, qualche anno fa impensabili. Ma tra 15 anni magari scaleranno gradi più difficili ancora. Quali sono stati i tuoi migliori compagni di cordata? I miei ricordi più belli di alpinismo e arrampicata sono legati alle persone con cui ho condiviso le esperienze. Antonio Peccati è stato il mio

compagno di cordata storico. Poi ci sono Dario Spreafico, Norberto Riva, per non parlare di quelli che non ci sono più come Benvenuto Laritti, Marco Pedrini, Paolo Crippa. Purtroppo capita di perdere amici in montagna, abbiamo visto anche molto giovani, ultimamente. La montagna purtroppo lascia tante cose belle, ma a volte si perdono persone care. Ti fa vivere, ma ti fa anche tanto male. Cosa ti ha insegnato la montagna? Ti insegna a dare il giusto valore alle cose, a darlo alle cose importanti. Vivi esperienze gioiose e divertenti, ma profonde: si costruiscono amicizie. Magari perdi un amico, ma sai che se capita, se ne sono andati facendo le cose che amavano. La montagna ti dà questo equilibrio di capire quali sono i veri valori nella vita.

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Rosa Morotti, una donna dalle risorse irresistibili, ammirevoli e invidiabili, che nell’alpinismo ha trovato la sua ragione di vita, ma anche di più, la gioia di ritornare a vivere serenamente al di là delle prove esistenziali più dolorose che nulla le hanno risparmiato con la perdita, ogni volta tragica, delle persone più amate. a cura di Sara Sottocornola

Chi nasce a Bergamo la montagna ce l’ha nel sangue: Rosa Morotti non fa eccezione. Forse il suo nome non è mai stato alla ribalta delle cronache alpinistiche, ma la sua attività sulle Alpi e sulle montagne extraeuropee la registrano sicuramente tra gli alpinisti di più ampia esperienza attualmente in circolazione. Schietta, dinamica e determinata, lavora come tecnico di radiologia, ed è membro del Club Alpino Accademico Italiano. A 54 anni ha all’attivo scalate in Patagonia, Canada, Perù, Groenlandia, Norvegia, Sud Africa, Marocco e California, molte delle quali vissute con il marito Sergio Dalla Longa, tragicamente caduto sul Dhaulagiri nel 2007. Qualche anno fa si è trasferita in Svizzera con l’alpinista Norbert Joos, 13 ottomila scalati senza ossigeno: ma quattro anni fa ha perso anche lui durante una salita sul Pizzo Bernina, parete Ovest. L’amore per le grandi pareti non è stato scalfito di un millimetro, e negli ultimi anni Rosa è stata protagonista dell’apertura di nuove vie insieme al giovane e ben conosciuto climber Tito Arosio, una delle quali dedicata a Norbert.

Rosa, una vita dedicata alla montagna. Quanto è grande e quando è iniziata questa passione? L’ho ereditata da mio zio che era una guida alpina, che purtroppo è morto in Bolivia quand’era ancora giovane. Sono sempre stata una tipa sportiva: facevo atletica e sci, ma a fare alpinismo vero ho iniziato nell’88, quando ho conosciuto Sergio Dalla Longa, che poi è diventato mio marito. Abbiamo iniziato a scalare su Dolomiti e Monte Bianco, dove ho salito tantissime vie, e abbiamo poi viaggiato in tutto il mondo. Abbiamo dedicato la nostra vita a questo: con la montagna hai sempre tanti sogni da realizzare, leggi tanto e immagini sempre nuove avventure. Siamo stati all’Isola di Baffin, Groenlandia, Alaska, El Capitan, ma amavamo particolarmente i viaggi in posti poco conosciuti. Non avevamo possibilità di ferie lunghe, quindi non facevamo spedizioni, fino a quando nel nostro paese hanno organizzato una spedizione al Broad Peak, e abbiamo deciso di sposarci per avere le settimane del viaggio di nozze. Siamo arrivati sull’anticima. Tra tutti i posti che hai visitato, qual è stato il più bello? L’Himalaya è molto bello, ma non mi ha entusiasmato: preferisco fare vie più impegnative dove riesco a godermi ogni momento, soprattutto quando arrivo in cima. In quota soffri, sei stanco, non vedi l’ora di tornare giù perché sei stremato, e la discesa non è mai facile. Preferisco godermi le salite, possibilmente in compagnia di persone che amo. Per questo motivo ab-

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biamo sempre un po’ scartato l’Himalaya fino al 2007, quando ci siamo ritornati per salire il Dhaulagiri. Una spedizione che è finita in tragedia, con la morte di Sergio… Sì, lui è caduto e io per problemi di congelamento ho perso 9 dita delle mani, parzialmente recuperate con 9 mesi di terapia iperbarica. D’inverno soffro un po’, ma per fortuna posso ancora arrampicare. Ho voluto recuperare subito e continuare ad andare avanti. Dopo due anni e mezzo ho conosciuto Norbert sotto il Pizzo Badile, e dopo un anno mi sono trasferita in Svizzera con lui, senza nemmeno sapere il tedesco: tra noi parlavamo in inglese. Poi ho trovato un posto di lavoro. Con lui ho viaggiato tantissimo, quando ha smesso di fare spedizioni abbiamo scalato in Alaska, Yosemite, e altrove. Purtroppo anche lui è scomparso, cadendo mentre scendevamo dalla Biancograt al Pizzo Bernina. Sono salita due domeniche fa a vedere dove è caduto. Avevo da quattro anni questo groppo nello stomaco, volevo tornare su per rendermi conto, anche se ero a cinque metri da lui e ho visto tutto. Mi sono liberata di un peso, e mi sento più leggera. Anche se nessuno me lo potrà portare indietro. Dopo queste tragedie, hai mai avuto un momento di rifiuto verso la montagna? Mai. Finora la montagna è l’unica cosa che mi ha fatto andare avanti: io senza montagna non posso vivere. Ho realizzato tutti i sogni che avevo, come quello di salire le grandi Nord, e ora tutto ciò che viene in più me lo godo.

Che scalate preferisci ora? Scalate di misto, creste. In generale mi piace andare dove c’è poca gente. Tornerei in Himalaya, dove c’è frequentazione di massa, magari su un 6000. Sono già tornata in Himalaya, a fare dei trekking, ma ci sono troppi turisti che vanno lì perché è di moda e non conoscono niente della montagna. Così non c’è avventura. Andare in posti poco frequentati ed esplorare, per quanto possibile, ti soddisfa molto di più. La tua salita più emozionante? Sicuramente la Nord dell’Eiger, una parete che ho sempre avuto nella testa. Sono andata tante volte a Grindelwald con Norbert, volevo fare la Nord in inverno. Abbiamo sempre dovuto rinunciare per il brutto tempo, il freddo faceva soffrire le mie mani congelate e così ho detto basta alle invernali. Alla fine sono salita nell’ottobre 2014 con Tito Arosio, ed è stata una grandissima emozione. In parete rivivi tutto quello che hai letto sulla storia di quella via, sai tutto ciò che è successo e hai comunque timore. Invece noi eravamo tranquilli. Abbiamo fatto due bivacchi, ma è andato tutto bene: è come se la montagna ci avesse accolto, è stata una soddisfazione enorme. Due mesi fa sono salita dalla lunghissima cresta Mittellegi con mio cognato, e quando sono passata dove esce la Nord, mi sono commossa al ricordo di quell’emozione. Oggi c’è qualche parete in particolare che desideri scalare? Avrei ancora un sogno, il Cerro Torre. Sono stata sei volte in Patagonia, ma ho sempre trova-


Rosa Morotti, in cima alle sue preferenze ha sempre incluso le vie più impegnative, sia in Alaska (foto a fianco), che sulle Dolomiti (foto sotto). [Foto: Archivio Rosa Morotti]

to brutto tempo. Oggi ho 54 anni, e malgrado due protesi all’anca e tutto quello che mi è successo – questa primavera ho perso entrambi i genitori per il Covid-19 nel giro di sei giorni – sto bene e vado ancora. Nei giorni scorsi ero in Dolomiti a scalare con Ennio Spiranelli, e in parete mi diverto, mi sento viva. E mi permetto di inseguire ancora dei sogni. Ti manca l’Italia? Sì, tante volte dico che vorrei tornare, perché qui, nella Svizzera tedesca, tutti sono freddi. Ormai il mio lavoro è qui, non voglio buttar via questi anni. Ma tornerò appena avrò la pensione. Non voglio parlar male degli svizzeri: quando è morto “Noppa” mi hanno aiutato molto, ma mi pesa stare qui. La gente è chiusa nei suoi progetti, pensa al lavoro e a poco altro. Socializzare davvero è difficile. Noi siamo molto più socievoli, aperti e uniti. Ho riscoperto la mia Bergamo soprattutto con il Covid. Sono stata lì tre settimane quando sono morti i miei genitori, e ho visto le persone che soffrivano per me, con me, anche se a loro non era successo nulla. Hanno un cuore. La gente ama, anche se non lo fa vedere. Com’è stata l’emergenza Covid in Svizzera? A Bergamo sembrava una guerra. Invece qui in Svizzera, dico qui nei Grigioni, è stata abbastanza tranquilla, ma devo anche dire che hanno avuto anche la possibilità di organizzarsi, perché i contagi sono arrivati dopo. Avevano predisposto stazioni pandemiche in ospedale, erano preparati. In ogni caso il numero di contagi è stato basso e gestibile. Qual è il momento della giornata che preferisci quando sei in montagna? Le albe e i tramonti. Soprattutto le albe, quando parti di notte e i primi raggi di sole ti scaldano. E poi, sicuramente, l’emozione di arrivare sulla cima. Negli ultimi anni hai scalato molto con Tito Arosio… Sì, Tito ha 33 anni, siamo molto uniti, è come se fosse mio figlio. È molto bravo, abbiamo scalato molto insieme ed è bello condividere con lui tanti sogni. È bello anche scalare con una persona che conosci bene: siamo a nostro agio, sai che anche in caso di emergenza puoi contare sull’altro. Hai mai pensato di diventare guida alpina? Sì, ho provato il corso 30 anni fa poi però, Sergio mi aveva detto “se diventerai guida non faremo più tante cose insieme, perché non avrai tempo”. Ho pensato quindi che non fosse la mia strada. Col senno di poi posso dire che aveva ragione, perchè non avrei avuto la vita che ho avuto con lui. Avrei dedicato a mio marito meno tempo e non avrei potuto fare tutti i viaggi e le esperienze che abbiamo fatto.

Preferisci le montagne italiane o qualche altra zona del mondo? Mi piace viaggiare e conoscere culture diverse, ma alla fine ho sempre voglia di tornare in Italia. Ci sono posti meravigliosi come l’Alaska: ci sono stata sei volte, ma non ci vivrei mai. Mi basta avere degli amici e dei conoscenti in giro per il mondo che vado a trovare. Invece sulle Alpi hai la possibilità tutto l’anno di fare qualcosa: io faccio anche tanto scialpinismo in inverno. La montagna, cosa ti ha insegnato nella vita? Io non sono mai stata una professionista, per me la montagna è la conquista di una cosa tutta mia, che mi sono guadagnata. È soddisfazione personale, è un desiderio che hai dentro e riesci a realizzare. Mi ha insegnato a fare le cose per me, e non per gli altri. A lei ho dedicato la mia vita, il mio tempo libero e i miei risparmi li investo nei miei viaggi: qualcuno non capisce, ma per me è una scelta ben precisa. Tanti anni fa ho fatto questa scelta con Sergio, per questo non abbiamo avuto figli e non ho rimpianti. Sono contenta della mia vita. Me la godo fino alla fine, e spero che finalmente arrivi anche un po’ di fortuna. Anche se incontro ostacoli, però, trovo sempre la forza per superarli. Bisogna sempre guardare avanti, senza farsi troppe domande e tenendo nel cuore le cose belle. Testa dura, volontà di ferro… e come pura bergamasca, “la mola mia”.

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IL RUOLO DELL’ESERCITO NELLE DISCIPLINE SPORTIVE DELLA MONTAGNA

a cura di Renato Frigerio

EFFICIENTI IN MONTAGNA, MA ANCHE IN ZONE DOVE SI DEVONO AFFRONTARE LE CONDIZIONI CLIMATICHE E AMBIENTALI PIÙ ESTREME Servizio e interviste a cura di Sara Sottocornola

Siamo giunti alla conclusione di un ampio servizio in tre puntate con il quale abbiamo cercato di offrire almeno un punto di partenza per approfondire un tema che nella sua complessa organizzazione ed operosità è quasi totalmente ignorato dall’opinione pubblica. Pur ritenendo di aver chiarito precedentemente molte cose su cui non avevamo mai riflettuto, pensiamo che questa ultima puntata sia ancora più importante per il fatto che offre visibilità ad uno degli impegni fondamentali che l’Esercito si è assunto, quello di formare professionisti della montagna e di preparare gli atleti delle discipline invernali. Al termine di tutto, sentiamo doveroso rivolgere un sentito ringraziamento agli Ufficiali ed ai militari dell’Esercito che ci hanno consentito di realizzare questo insolito servizio, augurando loro di continuare a mietere i successi sportivi dei quali si sentono giustamente orgogliosi, e che noi pure potremo da adesso considerare sotto un aspetto più appassionato e obiettivo.

L’obiettivo principale del Centro Addestramento Alpino – Scuola Militare (Ce. Add. Alp.) è da sempre la formazione del personale in ambito alpinistico e sciistico. Nato nel 1934, con il nome di Scuola Centrale Militare di Alpinismo, con lo scopo di formare Ufficiali e Sottufficiali delle Truppe Alpine alle asperità e all’ambiente estremo delle montagne, persegue tutt’oggi queste finalità, mirando da un lato all’eccellenza sportiva e dall’altro alla formazione di specialità per le Forze Armate e in altri ambiti professionali nei quali è richiesta a vari livelli una preparazione specifica in ambiente montano. Dopo aver conosciuto, negli ultimi due numeri di “Uomini e Sport”, l’attività del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur - Reparto Attività Sportive (RAS) e le attività alpinistiche d’eccellenza della Sezione Militare di Alta Montagna (SMAM), oggi avremo l’occasione di scoprire di cosa si occupa la Sezione Sci Alpinistica (SSA) che inquadra i migliori Istruttori di Sci e Alpinismo dell’Esercito Italiano con il compito di formare tutti i quadri delle Truppe Alpine, di altre specialità dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e il personale appartenente alle Forze Armate di nazioni straniere. La Sezione Sci Alpinistica qualifica professionisti militari in ambito alpinistico, sciistico e del soccorso alpino; si occupa inoltre della formazione dei ricercatori dell’Enea (Ente Nazionale delle Energie Alternative) impegnati in missioni scientifiche in ambienti estremi come l’Antartide. _______________________________________________________________________ Nell’intervista che ci è stata concessa dal Capo Sezione Scialpinistica, Maggiore Valerio Stella, ci viene svelata l’attività intensa e preziosa, del suo Reparto, per lo più sconosciuta al vasto pubblico.

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Maggiore Stella, ci racconta a grandi linee di cosa si occupa la Sezione Sci Alpinistica? “L’Esercito non deve soltanto difendere i confini Nazionali, ma ha tra i suoi compiti più importanti il soccorso e l’intervento in caso di pubbliche calamità. In questo contesto l’attività svolta dalla Sezione Sci Alpinistica è estremamente importante in quanto ha l’obiettivo di formare professionisti capaci di operare in ambienti e situazioni climatiche estreme. La SSA è focalizzata sulla formazione tecnica di specialità, dedicandosi prevalentemente alla formazione di personale proveniente da altri Reparti delle Truppe Alpine; storicamente tutti gli Ufficiali e Sottufficiali alpini devono passare da questo Reparto per il loro iter formativo alpinistico e sciistico. Nell’ambito del Centro Addestramento Alpino – Scuola Militare, la Sezione Sci Alpinistica dal 1999 fa parte del RAS; la sede di questo Reparto che si occupa di sport e montagna a 360° è a Courmayeur. Com’è nata la Sezione? Quando è scoppiata la prima guerra mondiale, il Corpo degli Alpini era stato creato da poco, con un reclutamento di soldati provenienti dalle regioni alpine, ottimi conoscitori del territorio montano e capaci di muoversi agevolmente anche in condizioni ambientali e climatiche tipiche dell’alta quota. Al contrario, gli Ufficiali superiori, non erano stati adeguatamente formati e non conoscevano l’ambiente montano in maniera approfondita. Questo fatto ha causato enormi perdite di uomini nel primo conflitto mondiale rendendo necessaria, al termine della guerra, la costituzione della Scuola Militare Centrale di Alpinismo con sede ad Aosta. Il principale obiettivo di questa Scuola, è sempre stato quello di formare e qualificare gli Ufficiali e Sottoufficiali alpini alla conoscenza dell’ambiente montano e ad acquisire elevate capacità di muoversi in sicurezza sulle Alpi.


Oggi come funziona? Attualmente la Sezione Sci Alpinistica è composta da un Comandante, un Vice Comandante e sedici Istruttori, tutti in possesso delle massime qualifiche militari e civili in ambito alpinistico e sciistico. I Corsi di formazione svolti dalla SSA si sviluppano su tre livelli di difficoltà ed impegno crescenti: corsi basici, avanzati e qualificativi. Il superamento di tutto l’iter formativo, con esiti positivi, porta al conseguimento dei diversi brevetti che caratterizzano il professionista della montagna. Gli allievi dei corsi della SSA, oltre che dai Reparti delle Truppe Alpine, affluiscono anche dai Reparti delle Forze Speciali, dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e dei Carabinieri per un volume di frequentatori di circa 600/700 persone all’anno. Quanto durano i Corsi di formazione? I Corsi, sia per la parte sciistica che alpinistica, sono strutturati su una durata di tre settimane per i corsi basici e quattro settimane ciascuno per i corsi avanzati e qualificativi. Oltre a queste tipologie di corsi, la SSA svolge anche corsi formativi di alto livello tecnico riguardanti le problematiche inerenti alla neve e valanghe, il Soccorso Alpino e il Soccorso su piste da sci. Il personale qualificato nei suddetti corsi è inserito anche in Squadre di Soccorso dedicate al pronto intervento in caso di pubbliche calamità, come ad esempio nei casi delle emergenze di Ovindoli e Rigopiano. Su cosa verte la formazione? La formazione alpinistica e sciistica che diamo ai frequentatori dei nostri corsi, verte su tutti gli aspetti tecnici, metodologici e didattici riguardanti i diversi settori di attività. Nel periodo invernale la formazione riguarda lo sviluppo delle capacità tecniche sciistiche in pista e fuori pista ed all’ approfondimento di tutte le nozioni necessarie a comprendere ed interpretare il fenomeno valanghivo. Nel periodo estivo la formazione è finalizzata allo sviluppo delle tecniche di arrampicata su roccia, ghiaccio e misto, sulle procedure tecniche di progressione e sulle manovre di soccorso e autosoccorso della cordata. È vero che vi occupate anche della formazione di militari stranieri e personale civile? Storicamente il Centro Addestramento Alpino – Scuola Militare è considerato, anche in ambito internazionale, una delle migliori Scuole Militari di montagna. Per questo motivo spesso ai corsi organizzati dalle SSA affluiscono, come frequentatori, militari stranieri di Paesi amici ed alleati tra i quali gli Stati Uniti d’America, Paesi dell’ex Unione Sovietica, Oman, Qatar o di Nazioni nelle quali l’Italia è impegnata in missioni internazionali come il Libano. La Sezione Sci Alpinistica inoltre collabora da oltre 30 anni con l’Ente Nazionale Energie Alternative (ENEA) per formare i ricercatori che partecipano a programmi di studi scientifici in Antartide presso la Base Italiana “Mario Zucchelli” a Baia Terranova. In funzione dei progetti scientifici che dovranno sviluppare in Antartide, gli scienziati possono partecipare a due diverse tipologie di corso di formazione e ambientamento alla montagna: un corso soft, della durata di una settimana svolto nella zona del Piccolo San Bernardo e un corso hard, per i ricercatori che dovranno affrontare condizioni ambientali e climatiche più estreme, svolto normalmente in alta quota nella zona del Colle del Gigante, nel gruppo del Monte Bianco. Come si svolge il vostro anno di lavoro? In base al periodo e alle tipologie di corsi programmati, gli istruttori della SSA svolgono la loro attività prevalentemente in Valle d’Aosta, soprattutto nelle sedi di Courmayeur, La Thuile ed Aosta. Per alcuni corsi di aggiornamento o di qualificazione la Sezione Sci Alpinistica, o parte dei suoi istruttori, operano anche in alcune tra le più belle zone dolomitiche.

Corso di Soccorso Alpino Foto: Stefano Jeantet Corso Qualificativo Sci/Sci Alpinismo Foto: Stefano Jeantet

Corso Qualificativo Sci/Sci Alpinismo Foto: Stefano Jeantet

Corso Qualificativo Alpinismo Foto: Stefano Jeantet

Nelle foto: Militari dell’Esercito nelle diverse fasi di addestramento e di Soccorso in montagna.

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Dopo aver scalato “Energia Cosmica” 9a+ su un muro impossibile alla falesia del Bilico, in Val Canali, presso Fiera di Primiero, si ripete in Svizzera risolvendo con “Cryptography” un altro enigma di 9b La magia è riuscita al 1° Caporal Maggiore degli Alpini Alessandro Zeni, che ha salito, nella falesia di Saint Loup, una delle placche più dure al mondo, decifrando una linea nuova, pensata, immaginata e sognata per anni. Zeni, uno dei pochissimi atleti al mondo a poter realizzare questi progetti su placca, è riuscito a creare un’opera d’arte nella storica falesia di Saint Loup, una delle prime nate in territorio elvetico. Il nome della via “Cryptography” svela tutto il lavoro di preparazione e ricerca che sta alla base di questo progetto. L’impresa di Zeni, atleta della Sezione Militare di Alta Montagna del Reparto Attività Sportive del Centro Addestramento Alpino e nuovo Ambassador di Karpos, è stata resa nota all’inizio di maggio, pur essendo stata realizzata l’11 gennaio 2020, prima dell’emergenza Covid-19. “Abbiamo atteso per pubblicare questo sensazionale risultato di Zeni perché, in accordo con il Reparto Attività Sportive, volevamo dare la visibilità che meritava un risultato del genere. Siamo stati al contempo molto combattuti nel dare la notizia in un momento tanto delicato per il nostro Paese ed il mondo intero. Sono proprio imprese di questo tipo però che ci possono aiutare a trovare l’energia per pensare a nuovi progetti e superare le difficoltà che oggi viviamo”, dice il Brand Manager di Karpos. L’arrampicata su placca al giorno d’oggi è un po’ fuori moda, non perché meno interessante, ma piuttosto perché non è sufficiente essere allenati per riuscire a salire. Per quanto tu sia forte non hai la certezza di riuscire a salire in libera, semplicemente tirando le prese, perché è uno stile di scalata fatto di equilibri precari che a volte sembrano spezzarsi con il solo peso di un pensiero di troppo.

Foto: Stefano Jeantet

Alessandro Zeni, un atleta dell’Esercito Italiano che si trasforma in mago nell’arrampicata su placca

“Per me è la massima espressione della scalata” - dice Zeni - “perché su questi specchi di roccia verticale si cela il dubbio dell’incertezza. Non c’è parte del corpo che possa essere dimenticata, il solo movimento di un piede, del bacino, delle spalle, del viso possono fare la differenza. Anche quando tutto sembra essere perfetto e ogni tassello al proprio posto, puoi essere trascinato verso il basso dal vuoto ritrovandoti a pensare dove hai sbagliato e più ci pensi più ti convinci che era tutto davvero perfetto. Forse proprio per questo motivo la scalata su placca viene ripudiata, perché a volte, come nella vita, per quanto tu sia preparato può comunque arrivare una sconfitta. Questa non dipende da te, ma semplicemente qualcuno ha deciso che non era il tuo momento. Credo che questa danza verticale sia qualcosa che va oltre al semplice raggiungimento del risultato, diventando per me un importante insegnamento. Combattere fino in fondo, con la consapevolezza di essere accompagnato dall’incertezza del dubbio, colora ogni movimento e ogni mio più piccolo passo”. La componente mentale in un progetto come questo è la base per poter avere ragione della gravità; bisogna accettare il fatto che ci vorranno molto tempo e allenamento, che si dovranno curare tutti gli aspetti nel dettaglio fino a ricostruire in palestra i passaggi chiave della via. Un ultimo aspetto, per nulla scontato e assolutamente da non sottovalutare, riguarda il meteo. Infatti solo con condizioni meteorologiche particolarmente favorevoli è possibile tenere prese tanto piccole e taglienti senza cadere.

Non si vedono appigli che consentano ad Alessandro Zeni di progredire nelle sue incredibili scalate sulle placche. Nella sua ricerca dell’essenza dell’arrampicata ha dimostrato di essere uno dei “placchisti” più forti al mondo.

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ALLA SCOPERTA DI NUOVE VIE

Valsassina, Prealpi Lombarde, Gruppo dei Campelli, Zuccone Campelli 2161m

“WIVA LA FORTUNA”

Adriano Selva, Lorenzo Negri e Federico Besana Testo e foto di Federico Besana

Ci è pervenuta la relazione di una nuova via individuata e tracciata allo Zuccone Campelli ai Piani di Bobbio da tre giovani alpinisti e ci siamo chiesti se non fosse l’indizio per dare spazio ad una nuova rubrica sulla nostra rivista. Del resto sono ormai numerosi i giovani che si avvicinano all’alpinismo, e tra essi non mancano quelli che sono ansiosi di fare esperienze personali anche nella ricerca di nuove e interessanti proposte di autentico valore nell’ambito dell’arrampicata. Esperienze che riempiono maggiormente di soddisfazione, ed anche di orgoglio, se possono venire apprezzate e condivise da altri che vivono la medesima passione. Allora accettiamo il suggerimento, con la fiducia che una volta accolta l’iniziativa, si possa instaurare una specie di amichevole collaborazione tra che fa da apripista e chi ne approfitta per provare nuovi incentivi per praticare l’arrampicata.

Adriano Selva in apertura su L1

Wiva La Fortuna Zuccone Campelli, Piani di Bobbio, LC 25/01/2020 • Avvicinamento: dalla funivia dei Piani di Bobbio dirigersi verso il Rifugio Lecco, da dove ci si porta verso l’anfiteatro dei Campelli: da qui verso l’attacco della via Comici-Cassin. • Attacco: a sx del pilastro ComiciCassin. • Difficoltà: VI, M4+, ghiaccio e neve a 65/70° • Sviluppo: 110 mt. • Primi salitori: Adriano Selva, Lorenzo Negri e Federico Besana. • Materiale per ripetizione: 2 mezze corde da 50 mt., friends da 03 a 3, dadi medi e piccoli, 3-4 chiodi. • Relazione: • L1: 25mt, IV+, M4 Attaccare sulla sx del camino, su muro tecnico fino ad un buco, poi attraversare a dx verso il canale innevato, una volta entrati, con passaggi di misto, si arriva in sosta posta nella grotta. Chiodo universale + friend 3BD; • L2: 40mt, VI, M4+ Salire il diedro fessurato a sx della sosta fino ad un chiodo, breve tratto su neve, rimontare uno strapiombino tecnico che immette nella paretina verticale che si supera tenendo la dx. Con un breve tratto su neve di circa 10 mt si arriva alla sosta. Friend 04 + 075 Totem • L3: 35mt Tratto di collegamento su neve e roccette fino alla ferrata Minonzio, non banale. Da qui seguire la ferrata fino in cima. • Discesa: per il canale dei Camosci. • Note: la via di misto nella parte bassa condivide la linea con una via storica di roccia, la ‘Basili-Ferrari’ del 1933. Durante la salita abbiamo seguito i passaggi più logici per la progressione con piccozze e ramponi, senza aver trovato alcun segno di passaggio.

Lorenzo Negri su L3

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Da sinistra: Federico Besana, Adriano Selva e Lorenzo Negri.

Lunedì 20 Gennaio 2020 Tra una sessione di studio e l’altra apro Facebook e vedo il report di una nuova via di misto ai Piani di Bobbio, ‘Zero Peones’ aperta da Cristian Candiotto. Pertanto decido di scrivere ad Adriano, proponendogli di andare a vedere com’è. Decidiamo per sabato 25, ma mancano ancora ben cinque giorni e non sappiamo come saranno le condizioni per sabato. Venerdì 24 Gennaio Chiamo Adriano per aggiornamenti relativi a sabato. Le condizioni non sappiamo come si presentano: sono passati cinque giorni e saranno sicuramente cambiate. Nel dubbio, portiamo materiale per qualsiasi evenienza, e soprattutto tanto abbigliamento pesante, perché saremo sempre a Nord e le previsioni dànno neve. Sabato 25 Gennaio In Brianza alle 5 fa molto caldo: non è una buona cosa, ma la voglia è tanta e parto carico! Il ritrovo è a Valmadrera alle 6.15. Passiamo a prendere Lorenzo a Lecco, e poi ci dirigiamo verso il parcheggio dei Piani di Bobbio, dove capiamo che l’abbigliamento pesante è stata la scelta giusta. Saliamo ai Piani in funivia e ci dirigiamo verso il Rifugio Lecco. Da qui iniziamo a incamminarci nel vallone dei Camosci. Fuori dal rifugio troviamo una cordata di alpinisti bergamaschi, anche loro diretti al Dente dei Camosci per salire la via ‘Zero Peones’. Noi, ancora incerti sul da farsi, decidiamo di valutare da vicino; quindi, una volta entrati nel vallone, ci ramponiamo, imbraghiamo e saliamo fin sotto i Pilastri Ovest per avere un’idea più chiara delle condizioni. Qui Adriano ci propone: “andiamo a vedere Zero Peones? facciamo il canale SEM? oppure potremmo salire lì (indicando una linea a sinistra della via Comici-Cassin): è un po’ che l’ho individuata, e secondo me non è male” e poi aggiunge “però non sappiamo cosa troveremo: a occhio saranno 2 tiri, forse 3”. A questo punto la scelta ci è parsa obbligatoria…andiamo a curiosare la linea nuova! E meno male che abbiamo deciso così!

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PERCHÉ ‘WIVA LA FORTUNA’? Una volta in cima allo Zuccone Campelli, felici ed entusiasti della nostra riuscita, dopo qualche selfie ci nasce un dubbio che ci porteremo dietro fino al Rifugio Lecco…come chiamiamo la via? Abbiamo poche idee, finché, davanti ad un piatto di tagliatelle, ci si accende una lampadina. WLF, Wiva La Fortuna… forse il nome più azzeccato: siamo partiti con tutt’altra idea, abbiamo deciso all’ultimo di salire questa linea, senza alcuna certezza! Non sapevamo cosa avremmo trovato e soprattutto se saremmo usciti in cima o meno. Alla fine la Fortuna,(o forse l’occhio di Adriano ad individuare questa linea) è stata dalla nostra parte e ne è uscita una bella linea di misto, tecnica e in ambiente quasi dolomitico! IMPRESSIONI A CALDO Federico: “Quando Adriano propone una linea nuova, si sa già che sarà una linea interessante e di soddisfazione: diciamo che avevo le mie certezze! Durante l’apertura sono tanti i pensieri, la roccia sarà buona? La neve? Riusciremo a uscire? Però alla fine mentre sali pensi solo a scalare al tuo meglio, a goderti i passaggi, ad incastrare le piccozze e i ramponi tra neve, ghiaccio, roccia e zolle di erba ghiacciate. Una volta raggiunta la cima tutti i dubbi e i pensieri svaniscono e sei dominato dalla felicità, perché è il momento in cui realizzi cosa abbiamo appena fatto insieme! Il gruppo dei Campelli non delude mai, “Wiva La Fortuna” è la seconda via che apro con Adriano qui, dopo “Cucciolo d’Uomo” sulla Nord del Barbisino. Sono un parco giochi in tutte le stagioni: si può scalare al fresco in estate, in quanto offrono una gran varietà di vie sportive e trad, in inverno sono un “paradiso” per l’arrampicata su misto con un avvicinamento comodo e breve”. Lorenzo: “Quando abbiamo deciso insieme a Federico e Adriano di cambiare programma e aprire una nuova via ero molto contento perché non avevo mai provato questa esperienza, e quindi per me sarebbe stato tutto una novità. Quando Adri ci ha indicato la linea che aveva individuato, sembrava davvero bella e soprattutto logica: una volta arrivati all’attacco abbiamo preparato il materiale e siamo partiti. I primi tiri erano di misto, non banali, tecnici e molto divertenti. Il bello però è arrivato quando siamo arrivati in cima allo Zuccone Campelli, dopo aver recuperato Adri e Fede: ci siamo guardati ed eravamo tutti e tre super gasati per la nuova via appena aperta! Esperienza fantastica con squadra top! I Campelli per me rappresentano le montagne di casa, come d’altra parte tutte le montagne del Lecchese, perché sanno sempre regalare emozioni uniche a Km0!”

Federico Besana su L1


ABBIAMO LETTO PER VOI

a cura di Renato Frigerio

“ROCK’N’ROLL ON THE WALL – Autobiografia di una leggenda” di Silvo Karo

296 pagine – copertina b/n con risvolti – foto b/n e a colori – formato cm. 23x15,5 – Euro 19,90 – Collana “I Rampicanti” – Edizioni Versante Sud

“Il nome di Silvo Karo suscita nella maggioranza degli alpinisti di tutto il mondo una sorta di timore reverenziale. Come può una persona normale fare cose simili? Dopo più di trent’anni le sue vie più pericolose e impegnative rimangono tutt’oggi irripetute. Questa non è un’autobiografia di un uomo comune: è la storia di un lottatore che ha portato dall’altra parte qualcosa di prezioso”. Dopo queste parole di recensione di un alpinista del prestigio di Paul Pritchard che dalla tremenda disgrazia in montagna ha avuto in cambio la dote di diventare uno straordinario e profondo scrittore, potrebbe sembrare superfluo aggiungere oltre per valorizzare questo volume autobiografico. Ma non si finirebbe mai di parlare della lunghissima carriera alpinistica di Silvo Karo, che prende l’avvio nel lontano 1978, appena sedicenne, e si conclude nel 2017, dopo un cammino intenso e ininterrotto. Nel libro da lui scritto prendono risalto imprese e avventure addirittura sbalorditive, alleggerite dal racconto di aneddoti curiosi e piacevoli, descritti con avvincente semplicità e freschezza. La trasparente sincerità di quanto trasmette non consente di mettere in dubbio che qui ci sia qualcosa di falso o esagerato, anche se spesso le impressionanti vicende che hanno caratterizzato molte di queste arrampicate e conquiste hanno dell’incredibile. Tutto quello che viene raccontato, con una lucidità che fa avvertire gli episodi come fossero appena accaduti, si riferisce ad imprese che hanno colpito ed entusiasmato gli appassionati di ogni generazione, malgrado lui li esponga come la normalità della comune attività di ogni alpinista. Ma intanto riscontriamo che, non appena l’alpinista sloveno percepisce che il suo tipo di alpinismo, nonostante le indubbie soddisfazioni guadagnate nell’affrontare ogni impresa senza guardare al rischio, ai sacrifici e all’immensa fatica, potrebbe trasformarsi in normale routine, riesce sempre a trovare nuovi ambienti, nuove modalità e nuovi stili per esprimere pienamente tutte le sue eccezionali potenzialità. Come racconto autobiografico, il libro ci consente di conoscere Silvo Karo sotto tutti gli aspetti umani, a partire dalla sua origine familiare, di gente povera, legata al duro lavoro della campagna, e di vedere come nasce la sua passione per la montagna, che fin dall’adolescenza prende spunto dal particolare ambiente sociale. Nel libro trovano spazio anche interessanti considerazioni legate al periodo storico e politico del suo paese, e, proseguendo di volta in volta, acute valutazioni critiche delle diverse situazioni territoriali, senza tralasciare quelle che gli premeva addossare agli enti e alle persone che avevano avuto a che fare con l’alpinismo e le sue vicissitudini. È innegabile che il volume si presti ad una lettura interessante e piacevole, ma nello stesso tempo offre opportunità e motivazioni concrete che inducono alla riflessione e alla condivisione.

“OROBIE TRAIL – 52 itinerari di Trail Running dalle Grigne al Lago d’Iseo” di Claudio Regazzoni Il trail running è un’attività sportiva che, come poche altre e come del resto viene qui presentata dall’autore, oltre che giovare e rinvigorire le doti fisiche, serve ad aprire e ad alimentare lo spirito. Non ci vuol molto a rimanerne convinti, dopo che si abbia presa visione anche solo dalla prima pagina dal volume di Claudio Regazzoni, che ci ha prima tentati con la descrizione di allettanti percorsi, e ci rende poi irrinunciabili le sue proposte spalancandoci fantastiche illustrazioni fotografiche degli incantevoli luoghi che vengono attraversati e degli stupendi panorami che si aprono di continuo alla vista. Pur limitando la spazio previsto tra le “Grigne e il Lago d’Iseo”, l’autore ha composto un circuito formato da 52 itinerari, uno per ogni settimana dell’anno, cosicchè la passione degli atleti non venga privata nemmeno nella stagione invernale della bellezza di un’attività che li appaga sotto ogni aspetto. 452 pagine – copertina a colori con risvolti – fotografie e cartine a colori – formato cm. 21x15 – Euro 33,00 – Collana “Luoghi Verticali” – Edizioni Versante Sud

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“I RAGNI DI LECCO – Una storia per immagini” di Serafino Ripamonti

256 pagine – copertina rigida a colori – fotografie b/n e a colori – formato cm. 22,5x17 – Euro 24,90 – Edito da Rizzoli/Mondadori Libri SpA – Milano

Lo scopriamo amaramente che gli anni scivolano via troppo in fretta e che le generazioni si rincorrono allo stesso modo, lasciandosi così spesso alle spalle anche le esperienze più belle, che rimangono avvolte come in una scia di fumosi ricordi, per finire poi per essere del tutto dimenticate. Ad una di queste storie straordinarie che, pur proseguendo tuttora, corre il rischio di perdere il filo del suo importante passato, ha voluto ridare piena intensità di memoria Serafino Ripamonti, che dei Ragni di Lecco ha completa conoscenza per averne seguito buona parte del loro cammino come giornalista e vivendone poi da quasi un ventennio le stesse vicende come componente del gruppo. Si risale al 1946, quando alcuni alpinisti di spicco della Sezione del CAI di Lecco, particolarmente appassionati ed entusiasti, decidono di dar vita ad un gruppo elitario, che si darà presto la denominazione di “Ragni della Grignetta”. Con questo suo libro, che non è il primo che traccia la storia dei Ragni, l’autore riesce a riattivare l’interesse, oltre che a colmare la lacuna per questo ultimo non breve periodo in cui il cammino dei Ragni è proseguito. Serafino Ripamonti comunque ritiene importante riprendere la loro storia dall’inizio, perché l’influenza determinante dei Ragni per l’alpinismo lecchese e non solo, è in grado di offrire una solida forza propulsiva soltanto se viene considerata a partire dalle vicende che hanno originato il gruppo, lanciandolo poi ai vertici dell’alpinismo mondiale con un’attività sbalorditiva, che ha avuto seguito per un lungo periodo. Questo percorso nel libro viene individuato e descritto in forma briosa e accattivante e con meticolosa precisione, in linea con l’impressionante realizzazione di tante e superbe imprese, che non meritano ora di finire irresponsabilmente in una vacua dimenticanza. Saremo forse sorpresi nel leggere che il cammino di un gruppo, pur composto da alpinisti di eccezionale profilo, non sempre è proseguito con un profilo ideale, intervallando momenti di slancio e di esaltazione a periodi in cui si accendevano accalorate discussioni e si arrivava alle note sconvolgenti lacerazioni. Il bello di questa lunga storia narrata per intero sta nell’abilità dell’autore che riesce a farci comprendere come i comuni ideali della passione per la montagna e l’alpinismo possano fare di un insieme di persone un gruppo affiatato, dal quale ognuno riceve più forti stimoli e autostima. È per questa sensazione di orgogliosa appartenenza che i singoli alpinisti si riferiscono e si richiamano al loro gruppo anche quando la loro attività si svolge a livello personale o unitamente ad alpinisti estranei al gruppo. Lo spazio preponderante del libro offre comunque il più vistoso interesse negli avvincenti ed esaurienti racconti delle grandi conquiste dei Ragni, che sono però intessute di qualche inevitabile sconfitta e di dolorosi tragici eventi. Troveremo che, dopo settantaquattro anni, il gruppo “Ragni di Lecco” può guardare fiducioso al suo passato per continuare una gloriosa tradizione che si adegua all’evoluzione dell’alpinismo: e certamente, anche la lettura di questo libro, oltre che soddisfare gli appassionati della montagna, contribuirà ad infondere entusiasmo e impegno ai giovani che praticano l’alpinismo, guardando ai Ragni.

“DOLOMITI SENZA CONFINI – L’alta via ferrata dolomitica che annulla i confini” di Daniel Rogger

96 pagine – copertina a colori con risvolti – fotografie e cartine a colori – formato cm. 21x15 – Euro 19,50 – Collana “Luoghi Verticali” – Edizioni Versante Sud Prefazione di Reinhold Messner

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Originato da un impegno ideale inteso a valorizzare la montagna come parte di unione tra i vari stati Europei, “Dolomiti senza confini” è il nome con cui si è voluto indicare il percorso dell’alta via ferrata dolomitica che annulla i confini nazionali. Il nome è stato ripreso da Daniel Rogger per realizzare un interessante volumetto in cui descrive in modo tecnico e perfetto sotto il profilo logistico questo che è il più lungo percorso continuo di vie ferrate al mondo. L’autore si è impegnato ad indicare come percorrere l’intero tracciato circolare, nel quale si incontrano 12 vie ferrate e 17 rifugi alpini, superando confini provinciali, nazionali e linguistici. La lunghezza di 125km totali, con 12.000m di dislivello, è stato suddivisa in 9 tappe giornaliere ben definite, seguendo le vie storiche lungo il fronte della prima guerra mondiale: e in effetti il progetto è stato intenzionalmente inaugurato a 100 anni dalla sua fine. Nel volume, cui è annessa a parte una bella carta topografica escursionistica, scala 1:25.000, delle Dolomiti di Sesto, si precisa che le difficoltà impegnative del percorso, dal punto di vista tecnico e fisico, escludono che possano prendervi parte persone non dotate e inesperte, e nemmeno ferratisti principianti.


“LA VIA DEL TARCI – Tarcisio Fazzini, genio del granito” di Giuseppe “Popi” Miotti

176 pagine – copertina a colori con risvolti – foto a colori e in b/n – formato cm. 23x15,5 – Euro 19,90 – Collana “I Rampicanti” – Edizioni Versante Sud

Un libro nuovo e diverso ritorna a farsi notare nell’ambito biografico della letteratura alpinistica, inconsueto per il fatto che il personaggio di cui si parla, scomparso ormai da trent’anni non è mai stato alla ribalta sulle maggiori fonti d’informazione. Più che di personaggio si dovrebbe allora dire di un uomo, un ragazzo che, a differenza di tanti giovani della stessa età, è vissuto con una passione in più rispetto agli abituali interessi. La sua si è distinta come una passione smisurata per l’arrampicata e l’alpinismo, un’attività che lui ha praticato ai più alti livelli della tecnica, dell’intuizione e dell’intelligenza, indispensabili per individuare gli obiettivi di grande prestigio, oltre al modo di superarli, come lui ha fatto con uno stile e una capacità inconfondibile. La sua storia dimostra comunque che anche nel caso dell’alpinismo non basta essere sopra anche più di una spanna rispetto alla compagine di tutti quelli che lo praticano: per farsi notare su larga scala bisogna in certo senso farsi largo senza andare per il sottile, e lui ammirevolmente non lo ha fatto. Di Tarcisio Fazzini si sarebbe rimasti al punto comprensibile di un vago ricordo, anche per coloro che a suo tempo gli erano stati amici affezionati ed entusiasti ammiratori: che però, interpellati dai suoi familiari, hanno generosamente contribuito alla realizzazione del suo percorso biografico. Autore del libro, pubblicato in occasione del decimo anniversario della morte, è stato un altro grande e famoso esponente dell’arrampicata, Giuseppe “Popi” Miotti, che di Tarcisio fu amico, ammiratore e anche compagno di cordata in una delle sue più straordinarie imprese. A distanza di vent’anni della prima edizione, quasi subito esaurita, i familiari di Tarcisio, d’accordo con lo stesso autore, ripropongono questa nuova ristampa, che risponde certamente all’interesse di tutti coloro che si muovono o guardano al mondo dell’arrampicata. Avvicinandosi a questa avvincente storia, anche prescindendo momentaneamente dal nome del protagonista, di pagina in pagina si resterà sorpresi nel sentirsi coinvolti e partecipi di una passione vissuta senza riserve e senza secondi fini. Alla fine rimarrà però un soffocato rimpianto per l’assurda e precoce scomparsa dalla scena della vita di un giovane “genio” dell’arrampicata, che avremmo voluto conoscere senza dover attendere tutto questo tempo.

“MONTE BIANCO – Tutte le vie su roccia – versante italiano” di Fabrizio Calebasso e Matteo Pasquetto

448 pagine – copertina a colori con risvolti – fotografie e cartine a colori – formato cm. 21x15 – Euro 37,00 – Collana “Luoghi Verticali” – Edizioni Versante Sud

La biblioteca dell’alpinismo si arricchisce di un importante contributo grazie all’intenso lavoro di due giovani alpinisti, colti e fortemente innamorati entrambi della stessa montagna, che nel Monte Bianco appunto trova la sua massima espressione per come si presenta nell’insieme della sua imponente struttura e per come è diventato nel tempo la fonte inesauribile delle più emozionanti vicende alpinistiche. L’opera presentata ora da Fabrizio Calebasso e Matteo Pasquetto è frutto di un impegno che li ha uniti in una riuscitissima collaborazione, tanto che adesso possono avere la meritata soddisfazione di presentare una valida guida di quasi 450 pagine, nella quale, oltre alla descrizione completa di tutte le vie su roccia e misto del versante italiano, si aggiunge un’incantevole raccolta fotografica su cui è piacevole e rilassante soffermarsi a non finire. Gli autori, che nutrono per questo massiccio un’incredibile passione, arrampicando lì insieme da parecchi anni, ne possono parlare con perfetta cognizione. Inoltre si sono dedicati a questo lavoro con rara acribia e con uno studiato metodo scientifico, così che si è realizzata una guida particolare che facilita notevolmente anche la consultazione. Pur dichiarando che le loro descrizioni si avvalgono della lettura critica di precedenti guide e dei siti internet specializzati, si preoccupano di affermare che l’aspetto essenziale dell’opera è basato principalmente sulla loro possibilità di aver esplorato come fatto predisposto un massiccio montuoso che avevano frequentato da sempre. Per questo assicurano i lettori che di tutte le vie descritte, tante sono quelle che hanno loro stessi scalate e che tutti i luoghi di cui si parla nella guida sono stati da loro personalmente visitati. Si comprende che il libro che ne è uscito diventa un affidabile compagno di viaggio di chi si accinge a cercare dove scalare in uno dei posti più spettacolari del mondo, ma che comunque non mancherà di deliziare anche chi semplicemente intende soffermarsi nella contemplazione di indescrivibili immagini delle tante facce di una grandiosa montagna.

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EVENTO DI LUGLIO

“Risucchiato verso l’alto” con Maurizio “Manolo” Zanolla Il Covid non ha interrotto il tradizionale evento di luglio. Un fuoriclasse dell’arrampicata e una virtuosa di fama mondiale del violino hanno reso emozionante la serata del 30 luglio nel piazzale di DF Sport Specialist a Bevera di Sirtori. di Sara Sottocornola

Ospiti straordinari e grandi emozioni il 30 luglio 2020 da DF Sport Specialist per la 227° serata del ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport”, la prima dopo l’emergenza Covid-19. Nel pieno rispetto delle normative sanitarie vigenti, il punto vendita di Bevera di Sirtori ha ospitato nel piazzale all’aperto centinaia di persone che hanno potuto incontrare, dal vivo, un atleta leggendario come Manolo e Matteo Della Bordella, alpinista e Presidente dei Ragni di Lecco, che nell’introduzione ha presentato il libro “I Ragni di Lecco. Una storia per immagini” edito nel 2020 e scritto da Serafino Ripamonti. Giuseppe Zamboni, Marketing Manager DF Sport Specialist, ha introdotto la serata, chiedendo un minuto di silenzio per le vittime del Coronavirus e un grande applauso di incoraggiamento e sostegno per tutte le persone impegnate a fronteggiare il virus. ““Ci vuole coraggio. Ecco perché siamo ripartiti. Con noi c’è Manolo, uno che nella vita ha avuto certamente molto coraggio, per questo è lui il protagonista stasera”. Manolo, classe 1958, è un climber d’altri tempi, un autentico artista della roccia, ispirato da un romanticismo che l’ha tenuto sempre lontano dalle competizioni e dai canoni moderni dell’arrampicata sportiva ma capace, ai suoi tempi, di performance senza paragoni. Conosciuto fuori e dentro il mondo dell’alpinismo, è stato il primo italiano a salire una via d’arrampicata di difficoltà 8b (Ultimo Movimento in Totoga nelle Pale di San Martino, 1986) e ha portato il free solo fino all’8a con Masala Dosa sulla falesia di San Silvestro nel 1992. “Non so perché io abbia iniziato a scalare evitando chiodi e cercando la qualità – ha raccontato al pubblico –. Ma provo rispetto anche per chi saliva piantando i chiodi, perché il fatto che fossero lì mi permetteva di osare di più. Ciò che so per certo è che quella passione mi ha tolto dalla strada, mi ha fatto superare un periodo difficile negli anni del ‘68. Amavo toccare la roccia, lei mi indicava la strada e mi permetteva di scegliere, ho provato per la prima volta interesse a risolvere un problema. La roccia mi dava la libertà da un mondo che mi opprimeva. Il primo passo per stare bene è sognare qualcosa, immaginare la linea. Poi realizzarla. In montagna ci sono tempi diversi dalla vita normale, la montagna mi ha dato capacità di equilibrare le cose”. Maurizio Zanolla, chiamato Manolo, in questa ricerca personale, ha compiuto salite oltre ogni limite, lontano dai riflettori ma suscitando lo stupore di tutto il mondo alpinistico dal quale comunque si teneva piuttosto a distanza. Luca Castaldini, giornalista di Sportweek, che ha condotto l’intervista e moderato l’intera serata, ha chiesto a Manolo: “Hai mai cercato la morte, su quelle pareti?”. Immediata la risposta del climber: “No assolutamente, sono sempre andato per vivere. Devo ammettere che ho avuto anche molta fortuna. Il percorso che facciamo fa parte di noi, compresi gli sbagli: accumulare errori serve a crescere. La prima volta che ho scalato da primo ho avuto paura, ho avvertito un vuoto enorme sotto di me, mai provato prima. Volevo vincere questa mia battaglia mentale. Ho trasformato il vuoto da terrore a punto di appoggio e ho cercato il mio equilibrio attraverso gli eccessi. La paura del vuoto è anche una forma di rispetto per gli ambienti naturali e mi ha permesso di sopravvivere e fermarmi da-

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vanti ai pericoli. Gli incidenti, comunque, succedono ovunque e io non do mai giudizi in questi casi”. Coraggio nella vita, nella scalata e oggi anche nel nuovo impegno come scrittore. Manolo ha parlato molto del suo libro “Eravamo immortali”, scritto di suo pugno con fatica ed emozione. “Quando aprivo le vie, non le progettavo: ero così in armonia da essere risucchiato verso l’alto – ha detto Manolo – . Per me è stata un’esperienza molto personale. È stato difficile metterla nero su bianco in un libro, ci ho messo mesi, anni. Era quasi una sofferenza rivivere cose già vissute per me che ho sempre vissuto in avanti. Ma con le parole affioravano le emozioni, pure, anche se alcuni fatti non li ricordavo più. Questo libro è un omaggio alla fortuna che ho avuto nella vita, sulle montagne. Ed è un pezzo di storia perchè racconto il mondo di allora, un mondo che ricordava ancora la guerra, in cui la montagna era vista come pericolosa e inutile, in cui si scalava con gli scarponi e non ci si allenava mai. Si saliva e basta”.

L’atmosfera irreale, dovuta anche al fatto di essere stata per molti la prima uscita pubblica dopo il lockdown, ma soprattutto per l’intervento di tanti ospiti famosi e sempre sorprendenti, come Manolo e Matteo Della Bordella, e di una eccelsa violinista, Saule Kilaite, la cui figura si stagliava illuminata sullo sfondo scuro della notte, resterà indimenticabile per il pubblico che ha riempito il piazzale di Bevera di Sirtori.

Nell’introduzione alla serata, Giovanna Canton di Solferino ha presentato il libro “I miei ricordi” di Walter Bonatti. Un altro grande mito dell’alpinismo, che non passerà mai di moda perché ha avuto un modo di pensare e scalare moderno e sempre un passo avanti. “Ho iniziato a scalare in un ambiente lontano da queste figure – ha detto Manolo –. Poi ho raggiunto le loro tracce e l’ho conosciuto attraverso quelle, non attraverso la sua fama, rimanendo affascinato. La vedo così: l’arrampicata è una forma di cultura da donare ad altri”. Ora Manolo è lontano dalle solitarie in libera, dalle pareti verticali. “Non mi mancano l’alpinismo e l’adrenalina, ci sono cose più importanti – ha detto –. Non riesco nemmeno più a vedere uno che scala slegato. Un incidente mi ha fatto sentire poco a mio agio sulla roccia e lì ho smesso. Ora mi piace guardare le montagne e pensare alla vita che c’è alla loro base”. Un pensiero che gli ha permesso di trovare lati positivi anche nel lockdown: “Per noi che viviamo in montagna, in paesi isolati, è stato quasi bello, e lo dico con il massimo rispetto per le vittime del virus e i loro cari. Ho fatto legna, vissuto il bosco, visto i galli cedroni che non vedevo da vent’anni, rispolverato la cantina, rimesso le prese di arrampicata alle pareti di casa”. La serata del 30 luglio, all’insegna del grande alpinismo, ha avuto l’onore di ospitare nella parte iniziale uno dei personaggi più apprezzati dell’epoca odierna, Matteo Della Bordella, Presidente del Gruppo Ragni della Grignetta. Della Bordella, ha presentato il volume appena uscito sulla storia del Gruppo. “La storia dei Ragni inizia nel 1946 e le cose da scoprire non finiscono mai – ha detto –. Per esempio che il simbolo è un Ragno a sette zampe perché si pensava portasse fortuna, e che il Gruppo all’inizio si chiamava i “Sempre al verde”: erano dei giovani che unendosi volevano comprare l’attrezzature per esplorare la Grignetta negli anni ‘40”. Dalla nascita alle spedizioni odierne, il libro passa attraverso i decenni svelando curiosità e foto inedite di salite sulle montagne lecchesi e delle spedizioni internazionali che hanno fatto la storia del gruppo, come il McKinley nel 1961, che ha dato visibilità mondiale al gruppo, e parimenti la Ovest del Torre nel 1974, coronamento di molti tentativi sulla celebre montagna della Patagonia. “Il gruppo Ragni è partito ed è sempre ripartito dai giovani e dalla loro voglia di esplorare e fare cose nuove insieme - ha detto Della Bordella -. Anche se cambia lo stile nel tempo, non cambia lo spirito”. Della Bordella, cancellata la spedizione in programma a causa della pandemia, è reduce da una nuova difficile via, aperta sul Monte Bianco con François Cazzanelli e Francesco Ratti: “Incroyable” sul Pilastro Rosso di Brouillard, aperta a fine giugno. Oltre al racconto della salita, è stato commovente e intenso il ricordo dedicato a Matteo Bernasconi, “Berna”, con cui ha affrontato tante pareti. “Non è facile parlare della sua scomparsa perché ci ha toccato molto da vicino ed è troppo recente. È un amico con cui sono cresciuto, è difficile da superare”. Memorabile, in questa serata, il break musicale d’alta classe offerto al pubblico con la violinista Saule Kilaite, performance artist, compositrice e scrittrice di origine lituana. Capace di incantare il pubblico con le note del suo violino e con le parole, ha esordito con la musica del “Gladiatore” paragonando la serata ad una “scalata in musica” e dedicandola “ai grandi uomini della montagna capaci di affrontare avversità del cielo e della terra. Musica e montagna sono passioni che vanno al di là dell’aspetto sportivo e tecnico e permettono di entrare in contatto profondo con se stessi”. I brani successivi, Palladio, Libertango e Irish reel hanno avuto un crescendo di ritmo che simboleggiava il ritorno alla vita dopo il lockdown. “Festeggiamo la vita, oggi” - ha detto la violinista. Orgoglioso Sergio Longoni, che ha definito “incredibile” la serata estiva, realizzata contro ogni previsione possibile nei mesi precedenti nel rispetto del DPCM, delle ordinanze regionali e delle linee guida per la prevenzione del Covid, per salvaguardare la salute di operatori e pubblico. Longoni si è augurato di poter organizzare altre serate da inizio autunno in avanti, e di poter continuare a donare la simbolica piccozza dorata a tanti ospiti, come ha fatto a fine serata con l’applaudito climber Manolo. Durante la serata, si è realizzata la vendita benefica di t-shirt DF Sport Specialist con devoluzione del ricavato alla Protezione Civile per l’emergenza Covid-19 e a Suor Rita per i suoi progetti ad Haiti con bambini orfani e abbandonati. L’evento si è svolto in collaborazione con Peregolibri.

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La completa poliedrica collezione di “UOMINI E SPORT”

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d i r e tt i alla vetta

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Inverno alle porte, riparti alla grande con la tua stagione sportiva

È lo sci alpinismo la meravigliosa fonte di sensazioni pure e profonde

ARRAMPICARE: LO SPORT PIÙ ECCITANTE ALL’ARIA APERTA

FORTI EMOZIONI DI FRONTE ALL’ARRAMPICATA SPORTIVA

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LO SPORT CHE HA FATTO MOLTIPLICARE E GREMIRE LE PISTE INNEVATE

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LA FOLLA MULTICOLORE CHE INVADE COMUNQUE I CAMPI DI GARA RAPPRESENTA UNO SPETTACOLO MERAVIGLIOSO

Uomini e Sport - numero 19 | Settembre 2015 | Pubblicazione gratuita

Uomini e Sport - numero 18 | Maggio 2015 | Pubblicazione gratuita

Uomini e Sport - numero 12 | Settembre 2013 | Pubblicazione gratuita

SCI ALPINO:

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RITORNA ALLE STELLE IL TIFO CON VINCENZO NIBALI Uomini e Sport - numero 17 | Gennaio 2015 | Pubblicazione gratuita

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LO SPORT CHE SEMPRE HA FATTO SOGNARE

LO SPETTACOLO NELLO SPORT

28 TUTTO SULLO SKYRUNNING Verso il cielo, di corsa: è un fascino che afferra, a prima vista

Uomini e Sport - numero 28 | Ottobre 2018 | Pubblicazione periodica gratuita

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IL FASCINO DELLA SFIDA Uomini e Sport - numero 11 | Maggio 2013 | Pubblicazione gratuita

Uomini e Sport - numero 10 | Febbraio 2013 | Pubblicazione gratuita

Uomini e Sport - Periodico bimestrale - numero 9. Novembre 2012. Pubblicazione gratuita

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È possibile sfogliare e scaricare il contenuto dei 32 numeri: www.df-sportspecialist.it/uomini-e-sport/

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SPORT E DIVERTIMENTO

Uomini e Sport - numero 13 | Dicembre 2013 | Pubblicazione gratuita

l’arrivo della nuova stagione invernale ci offre un piacevole binomio sulla neve

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BASKET, uno sport per atleti con statura di giganti: ma all’estro e doti sportive vanno aggiunte qualità mentali per azioni di singolare rapidità

NEL SEGNO DEL RUGBY

Uomini e Sport - numero 32 | Maggio 2020 | Pubblicazione periodica gratuita

Uomini e Sport - numero 29 | Febbraio 2019 | Pubblicazione periodica gratuita

Uno sport solo in apparenza rude

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CAUSA COVID, SIAMO IN ATTESA DI POTER PROGRAMMARE LE DATE DEGLI ATTESI APPUNTAMENTI CON LE NOSTRE SERATE “A TU PER TU CON I GRANDI DELLO SPORT” Anche l’ultima pagina della rivista, con cui normalmente si evidenziano le presentazioni sociali di DF Sport Specialist relative all’uscita di “Uomini e Sport” e all’anticipazione delle serate del nuovo anno, è contrassegnata dalle conseguenze del Covid-19, di cui ancora non ci siamo liberati. Ci rammarichiamo, sconsolati che le succitate iniziative abbiano subito un contraccolpo come mai ci saremmo aspettati, e ancor peggio ci sentiamo preoccupati per non poter prevedere come e quando potremo ritornare alle nostre consuete cadenze. Per DF Sport Specialist è stato un dato di fatto che il rapporto con coloro che ricorrono con fiducia all’acquisto presso i suoi negozi non si limita al momento della vendita, ma diventa un motivo di reciproca stima e amicizia personale. Sotto questo aspetto la pandemia ci ha tolto il modo di esternarle proprio per la brusca frenata delle periodiche iniziative che consentono le simpatiche occasioni di incontrarci anche al di fuori dei diversi negozi. Ciò che più conta di questi nostri sentimenti nulla è cambiato, e non ci lasceremo sfuggire in nessun modo l’opportunità di riprenderci le nostre antiche abitudini, anche in forza della stessa ardente passione con cui ci interessiamo ad ogni sport ed agli atleti che lo praticano.

I NEGOZI DF SPORT SPECIALIST: BELLINZAGO LOMBARDO (MI) Centro Commerciale La Corte Lombarda Strada Padana Superiore, 154 Tel. 02-95384192 CREMONA Centro Commerciale Cremona Po Via Castelleone, 108 Tel. 0372-458252 DESENZANO DEL GARDA (BS) Centro Commerciale Le Vele Via Marconi, angolo Via Bezzecca Tel. 030-9911845 GRANCIA / LUGANO (Svizzera) Parco Commerciale Grancia Via Cantonale, Grancia Tel. 0041-919944030 LISSONE (MB) Multisala UCI Cinema Via Madre Teresa / Via Valassina Tel. 039-2454390 MAPELLO (BG) Centro Commerciale Il Continente Via Strada Regia, 4 Tel. 035-908393 MEDA (MB) Outlet by DF Sport Specialist Via Indipendenza, 97 Tel. 0362-344954 MILANO Via Palmanova, 65 (Ampio parcheggio - ingresso da Via Cesana, 4) MM2 UDINE/CIMIANO Tel. 02-28970877 OLGIATE OLONA (VA) Via Sant’Anna, 16 a fianco di Esselunga e Brico Tel. 0331-679966 ORIO AL SERIO (BG) Via Portico 14/16 in prossimità del Centro Commerciale Orio Center Tel. 035-530729 PIACENZA Centro Commerciale Galleria Porta San Lazzaro Via Emilia Parmense Tel. 0523-594471 SAN GIULIANO MILANESE (MI) Centro Commerciale San Giuliano Via Emilia angolo Via Tolstoj Tel. 02-98289110 SARONNO (VA) c/o Centro Commerciale Bossi Via del Malnino, 5 - GERENZANO Tel. 02-09997330 SIRTORI (LC) - località BEVERA Via Delle Industrie, 17 (Provinciale Villasanta Oggiono) Tel. 039-9217591

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