Uomini e Sport n.31

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IL VOLO CON PARAPENDIO:

Uomini e Sport - numero 31 | Ottobre 2019 | Pubblicazione periodica gratuita

per assaporare inebrianti emozioni tra terra e cielo, sorretti dai venti

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EDITORIALE

Potrei dire di essere nato in mezzo a un mare di scarpe, e certamente il prodotto scarpa ha costituito uno dei più caratteristici elementi che mi hanno accompagnato nel proseguimento della mia attività lavorativa nel settore del commercio. E se la scarpa richiama ovviamente la parte corporea in funzione della quale viene fabbricata, il piede a sua volta si presenta non soltanto come il suo destinatario, ma addirittura come l’importante protagonista e perfino il simbolo del camminare. È forse per questo che, se ripercorrendo le tracce del mio cammino esistenziale, reale e metaforico, ormai assai lungo, non faccio fatica ad individuare che molta parte della strada l’ho percorsa a piedi. Non pretendo certamente di accreditarmi la prerogativa di essere stato uno spettacolare esemplare sotto questo aspetto: conosco bene quante persone si sono dedicate e si dedicano continuamente a questa attività. Se poi scorriamo il lungo corso dell’umanità nelle varie memorie che ci rimangono scritte, sono innumerevoli i riscontri, prima mitologici e poi storici, che ci parlano di personaggi che hanno iniziato le loro imprese avventurose a partire proprio da tante e faticose camminate. Di strada in seguito ne è stata fatta a non finire, in senso assoluto, naturalmente, ma anche sotto l’aspetto dello spostarsi da un luogo all’altro, grazie al progresso evolutivo dell’uomo, che è passato dalla possibilità di servirsi di diverse specie di animali, alla conquista dei mezzi meccanici e, alla fine, di quelli motorizzati. Il semplice camminare, in modo più o meno veloce, ivi inclusa in certo modo anche la corsa, è rimasto però una prerogativa alla quale l’uomo non può e non deve rinunciare: e come potrebbe diversamente continuare a conservare la sua posizione eretta, quella che lo distingue da tutti gli altri animali, se poi non se ne servisse per muoversi verso ogni direzione? Camminare per me ha sempre avuto più di una motivazione e di un solo significato: anch’io l‘ho scelto sì per gli abituali spostamenti sulle brevi o non eccessive distanze, però ne ho fatto pure un’attività sportiva. Ma il camminare in modo lento, specialmente in ambienti dove la natura ha diffuso più intensamente le sue incantevoli realtà, come nei vellutati sentieri dei boschi o lungo le solitarie rive baciate dalle onde dei laghi, ha segnato i miei momenti di massimo relax, che inducono a riflettere e approfondire tutto ciò che nel trambusto quotidiano non ci riesce di afferrare. Questo arricchimento interiore, dovuto al camminare, trova la sua espressione più significativa quando si frequentano i lunghi cammini che sono stati tracciati in tempi lontani e sono poi diventati come un patrimonio dell’umanità, quali per esempio la Via Francigena o il Cammino verso Santiago di Compostela. Mi ritengo fortunato di aver potuto vivere proprio, abbastanza recentemente, se pur per un tratto limitato, una di queste straordinarie esperienze, e posso confermare che sono di quelle che incidono come poche altre a favorire la riscoperta dei valori essenziali della propria esistenza. È stata davvero un’esperienza utile e indimenticabile, che non esiterei a consigliare a tutti coloro che me ne richiedessero la ragione.

Certamente altri cammini meno noti sono stati nel frattempo riscoperti e riadattati da persone appassionate, e pure qui non dubito si possano sperimentare sensazioni altrettanto valide e vitali. Ma si può comunque interpretare l’importanza del camminare anche nella forma più comune, sia andando da soli che in compagnia: si incontrano sempre altre persone sul medesimo percorso, con cui facilmente si iniziano delle conversazioni e si aprono dei rapporti di amicizia. Camminare all’aperto consente di immergersi negli spazi più armoniosi della natura e di trovarsi di fronte a panorami incantevoli e ogni volta sorprendenti, ma nello stesso tempo non se ne può trascurare l’importanza che ne deriva sotto l’aspetto di cui beneficia il proprio fisico e la stessa salute. È ormai consolidata l’opinione scientifica secondo la quale sarebbe sufficiente una camminata quotidiana di almeno mezz’ora per rilevarne i seguenti effetti: riduce la frequenza di malattie croniche – migliora la mineralizzazione ossea – migliora la funzione digestiva – aumenta il dispendio energetico – aiuta la salute mentale – riduce stress e ansia – migliora la qualità di sonno e autostima – favorisce la partecipazione e l’integrazione sociale – produce un effetto positivo sulla funzione immunitaria. Si tratta senz’altro di prospettive allettanti, che si aggiungono a quelle che vengono donate nella forma interiore, di cui ho fatto cenno più sopra. Se ne parla non poco sui vari mezzi di informazione, ma all’atto pratico ne ho avuto una concreta conferma in un recentissimo incontro. È successo un paio di mesi fa, quando una sera, nel recarmi dal luogo dove lavoro alla mia abitazione, mi sono improvvisamente imbattuto in un gruppo di persone vocianti ed esuberanti, che procedevano insieme, certamente uniti dall’appartenenza a quelli che vengono ora definiti “gruppi di cammino”. Fui talmente colpito dal loro aspetto gioioso e soddisfatto, che volli esprimere subito la mia simpatia e condivisione assicurandoli che avrei fatto pervenire loro un’ottantina di zainetti. Avevo già sentito accennare a questi gruppi di cammino, ed anzi avevo avuto anche modo di leggere un trafiletto che riguardava la Sottosezione CAI di Ponte San Pietro che, in collaborazione con ASL e Comune, ha costituito cinque “gruppi di cammino”, i cui “Walking Leader” (così sono chiamati dall’ASL i conduttori), nel 2018, hanno organizzato 30 uscite settimanali con un totale di 450 partecipanti (285 donne e 165 uomini). Questo lo sapevo, ma il fatto di incrociare inaspettatamente un simile gruppo mi ha fatto poi riflettere se non fosse il caso di allinearmi a questo fenomeno sociale, attuando ciò che già avevo avuto in mente di fare a Milano per supportare un nucleo consistente di “gruppi di cammino”, con un paio di appuntamenti settimanali. Come DF Sport Specialist non potevamo estraniarci da un’iniziativa che collimava pienamente con lo spirito sportivo della nostra azienda. Ci siamo pertanto messi allo studio per giungere al più presto alla realizzazione di ciò che potrà dare vita effettiva proprio ad un nostro “gruppo di cammino”.


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26 Fondatore: Sergio Longoni Coordinamento della pubblicazione: Giuseppe Zamboni Redazione: Renato Frigerio Grafica: Martina Lagorio, Margherita Moretti Hanno collaborato: Alberto Castagna, Valentina d’Angella, Cristina Guarnaschelli, Sara Sottocornola Numero chiuso in redazione: 18/10/2019 Diffusione: 8.000 copie Distribuzione nei negozi DF Sport Specialist

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“Uomini e Sport” è consultabile e scaricabile online sul sito www.df-sportspecialist.it Posta e risposta: Angolo dei lettori uominiesport@df-sportspecialist.it DF Sport Specialist Redazione “Uomini e Sport” Via Figliodoni, 14 - 23891 Barzanò - LC

Editoriale

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Il punto di vista Paolo Godina

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Sport per passione: Tor des Géants®

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“Un nome”: da non dimenticare Marco Perego

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Accadeva nell’anno... 1980 - Sofferta esperienza

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I consigli degli esperti Sci da discesa

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Sport a tutto campo Parliamo di parapendio

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Anche qui c’è DF Sport Specialist

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Interviste ad alpinisti Jim Reynolds

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Mario Panzeri

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Un ruolo sportivo dell’Esercito Sport invernali e scialpinismo

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Abbiamo letto per Voi

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A proposito delle serate “A tu per tu” Uno sguardo sulle ultime affollate serate

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Eventi DF Sport Specialist

1° invernale via Vinci al Pizzo Ligoncio

Amici in corrispondenza... I prossimi appuntamenti alle nostre serate In copertina: Nazionale Italiana di Parapendio esultante sul primo gradino del podio, conquistato ai Campionati Mondiali nell’agosto 2019 in Macedonia. In alto, da sinistra: Marco Busetta, Christian Biasi, Joachim Oberhauser, Biagio Alberto Vitale. Sotto, da sinistra: Silvia Buzzi Ferraris, Alberto Castagna. [Foto: FAI / Marcus King - Fonte: flickr.com]


IL PUNTO DI VISTA

Sport e salute: un intreccio che sta prendendo sempre più piede e che interessa sempre di più, anche quando lo sport non significa solo competizione. La felice intuizione di Paolo Godina sugli sviluppi di questo binomio gli ha consentito di realizzare un’autentica impresa nel creare CAB Polidiagnostico con sede a Barzanò in via IV Novembre e GLAB per analisi cliniche, aperti e operativi in Brianza e nel Lecchese. intervista di Valentina d’Angella

Sei Centri CAB che si occupano di visite specialistiche e radiologia e due GLab, che sta per Godina Laboratori, e si occupano solo di analisi chimiche. Uno staff che comprende oltre 300 medici e due nuove strutture in via di apertura. Quello di Paolo Godina è un piccolo grande impero, messo in piedi in soli nove anni grazie a lungimiranza imprenditoriale e a una grande passione per lo sport, che ha fatto da molla per partire e da carburante per continuare negli anni, ampliando sempre più l’attività.

Come è cominciata l’avventura dei centri CAB? Sono nato come Laboratorista, poiché mio padre nel 1976 ha aperto uno dei primi laboratori di analisi cliniche privati del territorio e fin da piccolo sono stato coinvolto nell’attività di famiglia. Ho una laurea in biologia e mi sono specializzato in patologia clinica e fino a circa vent’anni fa mi sono occupato esclusivamente di medicina di laboratorio. Intorno al duemila ho iniziato ad occuparmi di nutrizione e dietologia e ho cominciato a svolgere la professione di nutrizionista in uno studio piccolissimo in via dei Mille a Barzanò, dove mia madre già faceva la pediatra. Volevo mettere insieme la mia passione per lo sport con i miei studi in ambito nutrizionale, e così pian piano ho cercato di inserire nella mia piccola struttura dei professionisti che si occupassero di sport: prima un medico sportivo, poi un fisioterapista specialista in riabilitazione dello sport, un ortopedico, uno psicologo dello sport, scegliendo specialisti che avessero esperienza nella gestione degli sportivi e passione per lo sport. L’obiettivo era fare consulenza agli atleti e creare una struttura di supporto per tutti i miei pazienti sovrappeso o obesi. A un certo punto la struttura era diventata piccola e avevo l’esigenza e il sogno di avere una piccola palestra utile, sia per i pazienti obesi che hanno bisogno di fare attività fisica per dimagrire, e sia

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per l’atleta che ha bisogno di uno spazio per la preparazione atletica o per fare test prestativi. Così, tra il 2010 e il 2011 ho fatto il passo lungo e abbiamo aperto questa struttura di 700 mq, dotata anche di una palestra, di una radiologia e dove collaborano oltre trecento specialisti di tutte le discipline mediche. Oggi CAB non si occupa solo di sport, ma offre la quasi totalità delle prestazioni medico specialistiche che si possono erogare a livello ambulatoriale. Quanto conta oggi, nell’insieme dell’attività la medicina dello sport? La medicina dello sport per me è il fiore all’occhiello ma dal punto di vista aziendale rappresenta una piccola percentuale della nostra attività: attualmente rappresenta circa il 10% del fatturato, dove la gran parte è rappresentata da visite per la certificazione agonistica e non agonistica. Le attività di consulenza nutrizionale, psicologica, traumatologica ecc. sono una parte contenuta, ma comunque rilevante. Personalmente in questi anni mi sono sempre più dedicato alla nutrizione sportiva, facendo dei corsi professionali e prendendo la certificazione di nutrizionista sportivo della Società Internazionale di Nutrizione dello Sport e mi piace ritagliarmi del tempo per partecipare alle attività delle società scientifiche e ne tengo alcune lezioni al CONI e alle Scuole di nutrizione dello

sport. Quindi la tua è una storia che intreccia passione e lavoro… Sì, la mia è la storia di un imprenditore e di uno sportivo. Dal punto di vista professionale il grosso del mio lavoro è fare il nutrizionista e un po’ l’imprenditore, perché l’attività è diventata molto impegnativa. Pratico sport fin da quand’ero piccolo, e per me lo sport è sempre stato agonismo: ho iniziato con il karate, dove gareggiavo nei 65kg fino all’età di 32 anni e poi come tutti invecchiando mi sono avvicinato agli sport di resistenza e pratico running triathlon. Lo sport però non è solo agonismo, è molto di più, ogni giorno dico ai pazienti che lo sport è prima di tutto benessere, salute e prevenzione. Durante la mia attività di nutrizionista passo molto tempo per stimolare le persone a fare attività fisica o sport e mi piace organizzare delle attività di promozione della salute, come per esempio, gruppi di cammino, o camminate e corse all’alba. Questo seguito lo riscontrate anche a livello lavorativo sul territorio? Noi vediamo una costante crescita nella richiesta di certificati di idoneità per praticare l’attività agonistica nella corsa, nel triathlon e per il ciclismo. Sicuramente c’è una crescita nella richiesta di consulenza, in particolare da parte del triatleta, che è un atleta molto esigente. L’atleta


Godina Paolo, Camisasca Stefano, Varoli Davide squadra CAB al triathlon internazionale di Mergozzo (classificati al 3° posto)

Godina Paolo, Teresa Mustica, Davide Varoli, squadra CAB e DF Sport Specialist alla Monza-Resegone 2018 (classificati al 2° posto nelle squadre miste)

che fa sport individuale sa che tutto ciò di cui ha bisogno: ce l’ha dentro di sé e quindi è molto sensibile a tutti quegli aspetti, che in qualche maniera possono migliorare o compromettere la prestazione e l’alimentazione ed il benessere in generale, che sono la base per una prestazione ottimale. Sicuramente tra le richieste principali degli sportivi c’è la consulenza nutrizionale e per fortuna negli ultimi anni la sensibilità nell’argomento è aumentata tantissimo. Le persone si stanno sempre più rendendo conto che la prevenzione non è tempo perso e uno spreco, ma è uno dei migliori investimenti per il futuro. Fare prevenzione per un atleta vuol dire per esempio avere un peso ideale, seguire una dieta corretta, fare periodici controlli ematochimici e medici, fare periodicamente trattamenti fisioterapici ed osteopatici. È aumentata la consapevolezza anche da parte dello sportivo della domenica dell’importanza della corretta alimentazione? Non c’è dubbio, ma allo stesso tempo è aumentata anche la confusione. Ognuno dice la sua e sul mondo della nutrizione tutti ne sanno una pagina più del libro. Chiunque si sente autorizzato ad esprimere il proprio parere, anche per colpa dei social e di riviste poco qualificate, che martellano l’opinione pubblica e condizionano molto le scelte delle persone. Quindi noi professionisti facciamo molta fatica a diffondere regole vere, ovvero evidenze scientifiche, e a contrastare false credenze. Ci sono delle regole generali che valgono per tutti, che sono regole di grande buon senso e che vengono dalla letteratura scientifica: ma poi ogni fisico risponde alla sua maniera, per cui un regime alimentare va quindi tarato sulla singola persona. Hai scritto anche il libro “Mangia bene, corri forte” che tratta dell’alimentazione nel running. Ce ne parli? Tanti anni fa un mio caro amico e mentore, il direttore del Dipartimento di farmaco-biologia a Pavia Prof. Fulvio Marzatico, mi aveva chiesto di scrivere un capitolo sugli sport di resistenza per un libro che stava preparando sulla nutrizione nello sport. Purtroppo l’amico Fulvio è scomparso improvvisamente e mi è rimasto nel cassetto quel capitolo che mi aveva chiesto di scrivere e che ho scritto con grande passione e impegno. Non potevo buttare via il mio lavoro e non potevo lasciar perdere l’idea di Fulvio e ad un certo punto ho pensato di rendere il capito più semplice e leggibile anche agli atleti e non solo ai tecnici e l’ho completato con altri capitoli sempre in tema di nutrizione. Ne è uscito così un libro pratico che raccoglie tutto

ciò che si sa ad oggi nello specifico sull’alimentazione e l’integrazione per la corsa, che probabilmente è anche la disciplina più diffusa, sia come disciplina in sé, sia come strumento di allenamento di tante altre discipline sportive. Il libro, che è stato pubblicato da Correre editore, si trova sullo store dell’editore stesso, su Amazon e le più grandi librerie online. Quali obiettivi avete per il futuro? L’obiettivo è quello espanderci sul territorio per poter offrire i nostri servizi avvicinandoci il più possibile alla popolazione e nei prossimi due anni apriremo due nuove strutture, che offriranno tutti i nostri servizi e ovviamente tutti i servizi rivolti agli sport. Da dove nasce il vostro impegno nel sostenere molte manifestazioni sportive? Sicuramente da un’esigenza dell’azienda di farsi conoscere, ma anche dal piacere di dare una mano alle attività del territorio e promuovere l’attenzione alla salute e allo stile di vita sano, che non può prescindere dallo sport. Quando ero giovane andavo da Sergio Longoni e gli chiedevo di aiutarmi ad organizzare un evento sportivo, fornendoci magari delle magliette, dei materiali. È bello vedere che oggi con Sergio facciamo molte attività insieme con lui e con il suo staff. Il successo di queste manifestazioni è dato dalle tante persone che vengono e partecipano: alle camminate come alle serate di prevenzione alla salute con gli specialisti. A proposito di Sergio Longoni: da diverso tempo DF Sport Specialist organizza in collaborazione con i Centri CAB delle serate per il ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport”. Alcune sono state in passato dedicate alle atlete donne, altre alle grandi distanze, altre ancora agli sport estremi. E poi da quattro anni organizzano insieme in memoria di Claudio Capelli la “5:45”, una corsa che parte alle 5:45 del mattino e che ogni anno raccoglie tanti partecipanti, quest’anno erano oltre 800. Che rapporto hai con Sergio Longoni? Beh innanzitutto siamo compaesani, sono suo cliente da sempre e siamo amici di famiglia. Con lui condivido sicuramente la passione per lo sport e anche per il lavoro. Credo che ci accomuni anche la voglia di fare e far fare agli altri quello che ci piace, cioè di promuovere le iniziative sportive, di condividere lo sport con le persone.

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SPORT PASSIONE SPORT PER PASSIONE

TOR DES GÉANTS® 2019

Patrizia Pensa durante le premiazioni a Courmayeur [Foto: Giacomo Buzio]

Alla decima edizione del Tor Des Géants®, DF Sport Specialist festeggia con Patrizia Pensa il 1° posto nella classifica donne categoria V2 e 44° in classifica generale intervista di Cristina Guarnaschelli Il Tor des Géants®, quest’anno alla decima edizione, è definito come l’endurance trail tra i più famosi al mondo: 330 Km di percorso, con 24.000 metri di dislivello positivo, con partenza da Courmayeur alle ore 12.00 di domenica 8 settembre e tempo massimo fino alle ore 18.00 di sabato 14 settembre, in un percorso ad anello, seguendo all’inizio l’Alta Via n°2 verso la bassa valle e ritornando per l’Alta Via n°1, al cospetto dei 4.000 valdostani. “Il fascino di questa importante manifestazione ci ha conquistato anche quest’anno – afferma Sergio Longoni, presidente DF Sport Specialist –: essere presenti sui monti della Valle d’Aosta ci apre nuovi orizzonti e ci consente di rafforzare la notorietà del nostro brand nel mondo del trail running. Conosco Patrizia Pensa e Mario Panzeri da molti anni, siamo legati dalla passione per la montagna: sono felice che quest’anno siano stati i nostri ambasciatori sui sentieri del Tor, entrambi rappresentano al meglio il nostro motto aziendale sport per passione”. Patrizia Pensa, in partenza tra i top runner della manifestazione, ha concluso la gara con un ottimo 6° posto nella classifica donne, con un tempo di 100 ore e 11 minuti (suo miglior tempo nelle varie edizioni a cui ha partecipato), un 44° posto in classifica generale e il 1° posto nella categoria Veterane 2 (atlete tra i 50–60 anni); per Mario Panzeri la gara purtroppo si è conclusa al termine della prima giornata per problemi fisici. Per Patrizia, che vanta una grande esperienza nelle gare di ultra trail, ed ha al suo attivo numerosi risultati di prestigio è stato un ritorno al Tor, dopo la presenza nel 2011, dove ha ottenuto un 2° posto in classifica femminile, e nel 2012, anno che l’ha vista sul terzo gradino del podio. Prima di questo viaggio, così è definita dagli atleti la partecipazione al Tor, Patrizia ci aveva detto: “La montagna e la corsa sono le mie passioni, ben venga se poi arrivano anche dei buoni risultati ma non è con l’obiettivo di fare il tempo che partecipo alle gare: scelgo le manifestazioni a cui partecipare per il percorso, mi affascinano i passaggi in alta montagna e i paesaggi maestosi che si aprono all’orizzonte.” Dal racconto che Patrizia ci ha fatto dopo l’arrivo, invece, vedremo che si è aggiunto un fattore che ha vivacizzato il finale della sua gara, un’ultima parte svolta in un vero e proprio crescendo, a dispetto della stanchezza dopo quattro giorni di corsa e più di 300 chilometri nelle gambe. Facciamo un percorso a ritroso: partiamo dalla fine, dal messaggio che mi hai mandato dopo l’arrivo in cui mi scrivevi “oggi mi sono sentita particolarmente in forma”. Ci vuoi spiegare cosa è successo, cosa ti ha dato la spinta per il rush finale? “Come prima cosa ci tengo a ricordare di questa esperienza l’aspetto emotivo che già conoscevo dalle mie precedenti partecipazioni ma che ogni volta è bello rivivere: le emozioni che il Tor sa suscitare sono uniche e sono date da tanti elementi, i paesaggi mozzafiato, la bellezza di trovarsi da soli soprattutto in certi momenti della giornata come l’alba e il tramonto, momenti di rara bellezza che ti fanno amare sempre di più la montagna. Quest’anno però, rispetto alle mie precedenti partecipazioni, si è aggiunto un elemento, quello della competizione, che mi ha fatto scattare una molla e che mi ha fatto capire che quando pensi di non averne più, di non farcela non è vero: se ci credi fino in fondo ed hai i giusti stimoli puoi tirar fuori delle energie che non pensavi neanche di avere: così è successo nel tratto finale della gara, dal rifugio Frassati all’arrivo ho impiegato poco più di tre ore e mezza, un tempo a mio avviso strepitoso.”

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Patrizia Pensa, 1° posto nella categoria V2 [Foto: Giacomo Buzio]

Le borse aspettano i concorrenti alla base vita di Donnas [Foto: Giacomo Buzio]

Mario Panzeri, Sergio Longoni, Patrizia Pensa [Foto: Cristina Guarnaschelli]


Arrivo a Courmayeur [Foto: Nadir Balma]

Raccontaci cosa è successo al tuo passaggio al rifugio Frassati “È stato un vero e proprio rifornimento di energia mentale e di carica che mi è stato dato da una cara amica, Lisa Borzani: è stata capace di risvegliare in me lo stimolo, la mia voglia di provare a raggiungere la concorrente che mi precedeva di poco. E così sono uscita dal rifugio, è scattato qualcosa nella mia mente e mi sono detta “perché no, proviamo”! Ero stanca ovviamente, erano passati quasi quattro giorni di gara, sono riuscita a raggiungerla al Col Malatrà e l’ho superata: da lì è iniziata la discesa verso Courmayeur e mi sono detta: vado! Ed è incredibile l’energia che mi sono ritrovata in corpo che mi spingeva ad andare veloce. Ho fatto gli ultimi 20 chilometri come se fossero quelli di una gara di 30 e non di 330 km! ” Lo sprint finale, con questa carica di energia e vitalità, è stato un aspetto insolito di questo Tor per Patrizia Pensa, una scoperta che anche per lei, con la lunga sua esperienza nelle gare di ultra trail, ha rappresentato una novità. Come lo definiresti il tuo Tor 2019? “Forse direi quello in cui ho avuto una maggiore consapevolezza che mi ha dato tranquillità anche nella fase preparatoria dei materiali da portare con me nello zaino e quelli invece da mettere nella borsa che ritrovavo ad ogni base vita. Sapevo quali erano le difficoltà che avrei incontrato, quelle che definisco difficoltà “standard”: problemi muscolari, vesciche – che quest’anno mi hanno risparmiata per fortuna – il sonno e la meteo. Un aspetto di cui sono fiera, e che mi è stato riconosciuto da altre atlete, è la mia scelta di non avere accompagnatori lungo il percorso, alle basi vita e ai ristori: sapevo di contare sulle mie forze.” Il tuo obiettivo per il sonno, rispetto ad una precedente gara che avevi fatto in Francia, era quello di raggiungere indicativamente quaranta ore consecutive di gara e poi di fermarti a riposare: sei riuscita a rispettare quello che avevi pianificato? “Sì, anche se non è stato semplice perché ho dovuto superare dei momenti in cui mi veniva voglia di fermarmi e di mettermi a dormire: sono riuscita a resistere, la mia prima pausa lunga, di un’ora e un quarto, è stata dopo 36 ore di gara. Poi ho deciso di sperimentare i micro sonni di cui avevo sentito tanto parlare: non li avevo mai provati e devo dire che hanno funzionato con successo. È stata una buona strategia: dormire solo un quarto d’ora ma più spesso, sempre in un rifugio o una base vita dove ero sicura che qualcuno mi avrebbe svegliato.” Siete partiti da Courmayeur e subito al Col d’Arp avete preso una fitta nevicata, le temperature sono state molto basse e verso la fine è tornato il tempo bello e caldo. Quanto ha influito la meteo nella tua gara? “Ho gestito bene questo aspetto, cercavo di coprire bene la parte superiore del corpo mentre per tutti i giorni della gara ho mantenuto la gonnellina corta, conosco il mio corpo, i miei limiti: ero molto tranquilla anche da questo punto di vista. Prima di uscire dalle basi vita poi mi sono sempre fatta fare dai fisioterapisti un massaggio ai quadricipiti per alleggerire le gambe e ripartire.”

Oliviero Bosatelli, vincitore del Tor des Géants® [Foto: Stefano Jeantet]

Luca Papi, vincitore del Tor des Glaciers: [Foto: Roberto Roux]

E i momenti più emozionanti lungo il percorso quali sono stati? “L’alba, il sorgere del sole: ecco in quel momento mi piaceva fermarmi a guardare il panorama, non che non lo facessi in altri momenti, ma le albe sono state magiche, di una grande bellezza. E poi gli incontri mattutini con gli stambecchi addormentati sul sentiero, i contorni delle montagne illuminati dalla luce delle prime ore del giorno e le notti con la luna piena: attimi emozionanti che ti ripagano dalla fatica e dalla stanchezza. E poi un grande grazie ai Volontor e ai “massaggia Tor”, persone davvero speciali capaci di trasmettere lungo tutti i 330 km il “bene” semplice, vero, quello che non ha bisogno di parole ma che si trasmette con i gesti che poi non si cancellano e restano con te.” Chiudiamo la chiacchierata con Patrizia con la domanda se nel suo futuro vede un altro Tor: “Appena arrivata mi sono detta di no ma poi mi è venuta subito la voglia di rimettermi in gioco l’anno prossimo: quest’anno posso dire che è stato il Tor della consapevolezza e della maturità, ho fatto una buona preparazione, misurata, senza strafare e tutto è andato nel verso giusto.”

I due testimonial DF Sport Specialist: Patrizia Pensa e Mario Panzeri, prima della partenza. [Foto: Cristina Guarnaschelli]

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Gilberto Panisi, sci di fondo, entra nel Team dei Testimonial Nato e cresciuto a Paderno Dugnano, Gilberto Panisi a 15 anni lascia casa per trasferirsi in montagna e seguire la sua passione per lo sci di fondo. Dall’Italia alla Svezia, Gilberto ci racconta la sua vita da “nomade sugli sci”: ci piace il suo approccio semplice ma determinato, sia nello sport che nello studio. “Ahimè non sono (ancora) il miglior sciatore del mondo, ma ora ci sto lavorando su. E nella vita ci vuole sempre un piano B... quindi studio e parlo tre lingue”. Raccontaci dei tuoi inizi di carriera: è stato “amore a prima vista”? Ho sempre avuto un forte richiamo per la natura e la montagna, oltre ad avere un carattere competitivo. Credo che lo sci sia stato semplicemente un modo per esprimermi. I miei genitori mi hanno messo gli sci ai piedi già da piccolo ed è stata la mia attività delle vacanze invernali per tanti anni. Poi qualcosa è cambiato attorno ai quattordici anni, quando ho preso per la prima volta una lezione di sci. A quel tempo, il mio sport principale era l’atletica, ma la maestra di sci mi disse che avevo delle qualità e avrei dovuto provare a disputare qualche gara di fondo. La ascoltai, presi contatto con Carlo Salvioni e la Polisportiva Team Brianza e feci la mia prima stagione. Alla fine di quell’anno, capii che per tenere il passo dei montanari avrei dovuto allenarmi anche durante la settimana, vivere a Milano e allenarmi di corsa non era abbastanza. Così iniziò la mia nuova avventura, a Tarvisio al liceo Bachmann. Dall’Italia alla Svezia, sempre inseguendo la tua passione per lo sci Alla mia ultima stagione nelle categorie giovanili, che coincideva anche con il mio anno conclusivo al liceo Bachmann, mi trovai di colpo senza una squadra. Avevo intenzione di proseguire gli studi e così sposai il progetto sportivo dell’università di Trento, trasferendomi lì. Le cose, però, non andarono come mi aspettavo e così decisi di cambiare ancora. Lì è nata l’idea della Svezia. Grazie a una bella prestazione alle Universiadi, sono entrato nel gruppo di allenamento di Falun. Ovviamente mi è dispiaciuto lasciare l’Italia ma ho scelto di partire. Qual è la tua specialità? E la distanza che preferisci? Mi piace sia il classico che lo skating, cerco di gareggiare sia nelle sprint che nelle gare più lunghe. Poi i risultati migliori della mia carriera sono arrivati per la maggior parte in tecnica classica e va da sé che sia diventata la mia tecnica preferita. Mi piacciono le 15 km a partenza individuale, perché sono la vera espressione della forza di uno sciatore. Sei da solo in pista, è pura fatica, non c’è tattica, bisogna solo andare forte. Quest’anno hai esordito in Coppa del Mondo a Cogne: te lo aspettavi? A inizio stagione, con il mio allenatore, abbiamo cerchiato quella gara in rosso ed è stato uno degli obiettivi principali. Ho lavorato duro per esserci, le cose sono andate bene e mi sono qualificato. Purtroppo la gara non è andata alla grande, ma è stato importante rompere il ghiaccio. Adesso so che ritmi ci sono e voglio arrivare più preparato la prossima volta.

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Vivi in Svezia ma sei tesserato FISI con il Team Brianza: quanto riesci ad allenarti in Italia e a gareggiare? Il mio club principale al momento è il Falun Borlänge SK e sono tesserato per loro con la Federazione Svedese, però per quanto riguarda la Federazione Italiana (FISI) e in Federazione Internazionale (FIS) sono a tutti gli effetti un atleta del Team Brianza. È stato il mio primo sci club e due anni fa ho fatto la scelta di tornare a correre per loro. Per le gare di Coppa del Mondo, la mia nazionale è e sarà sempre quella italiana. Per qualificarmi devo gareggiare con gli altri italiani e così sono spesso sulle Alpi. Ogni due/tre mesi con il mio allenatore, Alberto Bucci, mi alleno una decina di giorni in Trentino. Sport e studio: un binomio non semplice da mantenere per un atleta. La tua storia dimostra invece il contrario, ci racconti qual è la tua “ricetta vincente”? Non è sempre facile mantenere le due cose. È un discorso di energie che mancano, perché in realtà il tempo c’è sempre. La ricetta vincente credo sia avere le priorità giuste, non si può essere perfetti in tutto. La mia scelta è sempre stata di mettere lo sport al primo posto e la scuola al secondo. Negli anni mi è capitato di saltare dei corsi perché ero impegnato in raduni o semplicemente troppo stanco per studiare. In altri periodi invece, quando lo sport richiedeva meno energie, ho recuperato quello che avevo perso a scuola. Quali sono gli obiettivi per la prossima stagione? Non ci saranno Olimpiadi e Mondiali, quindi ci sarà maggior attenzione alla Coppa del Mondo. Al momento so che inizierò la stagione in Svezia, ma non ho ancora deciso esattamente a quali gare puntare. Sicuramente mi piacerebbe tornare in Coppa del Mondo e fare qualche esperienza in più nello Ski Classic (le grandi classiche delle lunghe distanze). Sarà una stagione importante per vedere se sono riuscito a fare un ulteriore passo in avanti. Sei entrato a far parte del team degli atleti DF Sport Specialist: qual è il tuo legame con l’azienda? Non voglio farvi troppi complimenti perché questa è la vostra rivista! No, a parte gli scherzi, sono molto contento. Vi racconto un aneddoto: a 15 anni, quando mi sono trasferito a Tarvisio mi mancavano delle calze da sci che sono andato a comprare in un vostro negozio, ne ho prese dodici paia. Mi piacevano talmente tanto che ho preso tutte quelle che erano in esposizione. DF Sport Specialist è stata un azienda presente nella mia infanzia e adolescenza e quasi non mi sembra vero di poterne far parte ora.


OGNI VOLTA “UN NOME”: DA NON DIMENTICARE

a cura di Renato Frigerio

Marco Perego Alpinista vissuto in un rapporto di profonda passione con la montagna, dove ha trovato impegnative motivazioni e molti significati di Giuliano Soldati

Un articolo che, a differenza di altri, non intende ravvivare la memoria di qualcuno che, a suo tempo, si è distinto per spiccati successi in ambito sportivo. Marco Perego è stato alpinista ad un livello che non lo ha portato ad importanti ribalte, ma comunque ragguardevole, tanto da venire ammesso tra i soci di un prestigioso sodalizio lecchese, il gruppo alpinistico Gamma. Qui certamente primeggiò per la sua immensa passione per la montagna, per le sue qualità umane e per l’impegno con cui si dedicò alla crescita del suo gruppo. La sua inclinazione gli favoriva la pratica dell’alpinismo nel segno dell’amicizia sincera e del consolidamento del rapporto con i componenti del gruppo, con i quali si accompagnava specialmente sulle salite classiche delle Alpi. Una sola volta lo troviamo a far parte di una spedizione extraeuropea, quando nel 1997, nella spedizione dei Gamma all’Himalaya, dedicata a Giorgio Anghileri, riuscì a raggiungere la vetta del Cho Oyu dall’altopiano tibetano. Toccando, il 26 settembre 1997, gli 8201m di quel colosso himalayano avrebbe anche potuto gloriarsi di essere stato il primo cittadino di Merate, dove era nato nel 1960, a vincere uno dei quattordici ottomila. Pur accettando con riconoscenza il premio del Comune di Merate, come “Sportivo dell’anno 1997”, nella sua innata modestia, nemmeno lo sfiorò il pensiero di farsene un vanto: che contava per lui era unicamente la montagna e il modo di avvicinare ad essa e al suo gruppo i giovani che incontrava, e che gli riservavano poi simpatia e riconoscenza. È sintomatico il ricordo nostalgico e particolarmente affettuoso che si evidenzia nelle parole dell’autore di questo articolo, con il quale si era costituito un rapporto singolare, come si può recepire dalla seguente motivazione con cui Marco Perego proponeva al consiglio direttivo dei Gamma la sua ammissione al gruppo. “Sono a presentarvi un candidato a far parte del nostro gruppo: Giuliano Soldati, nato a Cimadera (CH) il 26 gennaio 1984 e residente a Ponte Capriasca (Lugano). Ha partecipato all’iniziativa del “gemellaggio” con Bellinzona, capoluogo del Canton Ticino, dell’anno scorso e si è dimostrato un talento nell’arrampicata: cosa che poi abbiamo approfondito, arrampicando ulteriormente assieme al gruppo. Inoltre ho potuto valutare positivamente le sue doti anche in alta montagna, grazie ad una naturale predisposizione ed intuizione di come muoversi in quell’ambiente. Dall’attività allegata occorre considerare la giovane età (17 anni), ma ciò non gli ha impedito di realizzare alcune belle salite, e sono sicuro che gli anni a venire saranno sempre meglio. Penso che possa essere un socio più che valido anche dal punto di vista dello spessore umano, perché, avendolo frequentato, sono stato piacevolmente sorpreso di trovare in una persona così giovane una maturità non comune”. La premessa risulta un po’ più lunga di quello che ci si aspetta, ma consentirà certamente di introdurci meglio alla comprensione di Marco Perego, e insieme a lui a quella dell’autore dell’articolo.

Quando mi hanno chiesto di scrivere di te ho accettato con facilità, forse superficialità. Mi sono detto: che ci vuole a scrivere due pagine su di te. Certe persone hanno avuto delle vite che sembrano fatte apposta per scriverci dei pezzi. Quindi anche per te sarebbe stato un gioco da ragazzi, un lavoro di un pomeriggio. Ma questo pezzo non veniva, più scrivevo e rileggevo e più mi rendevo conto che stavo solo banalizzando quello che sei. Elencare le imprese alpinistiche non sarebbe certo difficile. La memoria storica del Gruppo Gamma e degli amici che hanno condiviso con te qualche salita sarebbe sufficiente. Ma raccontare di te, di quel che davvero sei è tutt’altra cosa. Mi sono presto reso conto di essermi sbagliato, di aver peccato di leggerezza nell’accettare questa richiesta. Certo è un onore, ma è anche e soprattutto un onere. Ho troppo spesso letto articoli che non rendevano giustizia alla persona di cui narrano. Tengo a sottolineare che sto parlando di te come una persona e non (solo) come un’alpinista. Certo eri anche questo, ma non solo. Le tue doti alpinistiche sono state eccezionali, ma non sono que-

Ai piedi della sua Grignetta, frequentata e amata fin dagli anni giovanili, e dove nel 1980 è stato allievo del corso roccia del gruppo alpinistico lecchese Gamma.

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Soddisfatto a conclusione di una spettacolare traversata delle Torri del Vajolet, che lo ha portato sulla cima della Delago, nel gruppo del Catinaccio.

ste a dover essere ricordate e sottolineate. Non ti nascondo che sono stato più volte tentato di desistere. Di abbandonare il testo e l’impegno preso. Non per mancanza di rispetto, ma quanto più proprio per rispetto, di te e di quel che eri, di quel che sei. Poi ad una cena di fine marzo del Gruppo Gamma, gruppo di cui facevi parte e nel quale mi hai fortemente voluto, ho capito che probabilmente ero il meno indicato per scrivere questo articolo, ma che ero quello a cui davvero spettava questo compito. Dico questo perché non sono più un alpinista, forse non lo sono mai stato. Le generazioni di oggi fanno sulle pareti e sulle montagne cose che noi non solo non avremmo mai potuto realizzare, ma nemmeno ci saremmo mai potuti immaginare. Ho presto dovuto accettare che questo magico mondo che abbiamo condiviso non facesse più per me. La montagna mi ha insegnato molto: mi ha insegnato prima di tutto il valore della vita. Questo insegnamento è stato crudele, perché è proprio nel toglierla la vita che le montagne mi hanno insegnato quanto vale. Ho perso troppi amici e punti di riferimento per non capirlo, per non impararlo ed accettarlo. Il tuo modo di andare in montagna mi ha insegnato che non puoi stare bene con gli altri, se prima non stai bene con te stesso. Se prima non trovi il tuo vero equilibrio. Il silenzio, con l’introspezione che ti insegna ed impone la montagna, è un maestro di vita senza pari. Tu più di altri mi sei sempre sembrato un uomo più che un alpinista. Non ti ho mai sentito parlare dei tuoi raggiungimenti e dei tuoi successi. Ti ho sentito parlare spesso di te e delle tue emozioni. Sappiamo tutti che eri di poche parole, per questo esse assumevano un valore

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ancor più importante. Di te, Marco, ricordo in particolar modo l’eleganza e l’equilibrio che ti contraddistinguevano, sempre. L’eleganza nei modi, nei comportamenti e nelle parole. Mai fuori luogo, mai sopra le righe. Sempre ponderato e attentamente controllato nel tuo incedere. Non credo di averti mai visto davvero oltre ai limiti, oppure gridare contro niente e nessuno. La tua unicità abbracciava ed era riconducibile anche ai tuoi gusti musicali. Ricordo in particolare due album che spesso giravano sulla tua radio: Gommalacca e L’imboscata di Franco Battiato. Probabilmente il più originale, complesso ed elegante cantautore italiano. Tutt’oggi, a oltre 15 anni di distanza, ogni qualvolta che mi capita di sentire questi pezzi non posso non pensare ai lunghi viaggi in auto sulla tua Fiat Multipla. Mi hai presto insegnato che non ero e non sarei mai stato il più forte. Avevo 16 anni e ancora ci credevo. Solo ora capisco quel che intendevi. Mi dicevi che ci sarebbe sempre stato un alpinista, una montagna, una malattia (purtroppo anche) che sarebbe comunque stata più forte di me. E questo credo valga per tutti. Non voglio denigrare l’alpinista che eri e le tue prestazioni (certamente degne di nota), voglio però sottolineare che queste sono solo la conseguenza di una forza molto più importante: la persona che ci sta dietro. Sono molti gli aneddoti che ricordo e potrei raccontare, ma per gelosia e pudore i più preferisco tenerli per me, per noi. Lasciami solo brevemente narrare di quella volta che, scendendo dalla via normale dell’Obergabelhorn (4000 Svizzero), caddi stupidamente. Salimmo velocemente e di conserva come sempre, con massima e silenziosa sintonia la Nord. Ricordo che piantai solo una vite all’uscita ghiacciata della parete (una parete di 800m di ghiaccio a 75 gradi). Scendendo dalla cresta Nord (la via normale appunto), a quota 3200m circa, inciampai come uno sciocco con il rampone nel pantalone e caddi rovinosamente. Dopo una scivolata di qualche metro, tu fosti prontamente in grado di fermarmi. Complice la mia giovane età e la sana ignoranza che la contraddistingueva, stavo scendendo con le maniche rimboccate sopra i gomiti. Inutile dire come uscirono le mie braccia da quella breve scivolata! Ricordo però, più del dolore e del sangue, che tu mi dicesti solamente: “scendiamo ora?” Io, ovviamente un po’ risentito e frastornato risposi, con un secco sì. Per ore, fino all’auto, non ci scambiammo più una parola. Una volta giunti a valle e levato gli scarponi e la giacca (che avevo ritirato fino ai polsi), ti dissi: “comunque sto bene, grazie!”. E tu ti limitasti a dirmi: “lo so che stai bene; e che non scenderai più da una montagna con le maniche rimboccate”. Qualcuno potrebbe leggere questa situazione come mancanza di sensibilità e premura da parte tua. La realtà era invece opposta. Nei tuoi silenzi e nei tuoi sguardi c’erano tutte le parole che cercavo e di cui necessitavo. Dovevo solo imparare a capirle. Gli ultimi momenti condivisi non sono certo di carattere sportivo o alpinistico. Credo sia comun-

Amava le salite in cordata con gli amici che condividevano con entusiasmo la sua medesima passione per la montagna: qui, a destra, con Eugenio Manni.


que importante ricordarli, perché mostrano un’immagine di te coerente ed integra. I nostri incontri spesso si sono tenuti in una piccola e asettica camera d’ospedale a Bergamo, centro specializzato per la cura della tua malattia. Senza volermi perdere in frasi scontate o sconfinare nella banalità, voglio sottolineare come anche in questo frangente non hai perso la tua forza ed eleganza. Mai ti ho sentito lamentarti o maledire qualcuno o qualcosa. Hai accettato e vissuto con serenità quest’ultima salita, più impegnativa di qualsiasi altra affrontata in vita tua, che ti ha purtroppo portato ad una meta senza ritorno. Certo vederti così deperito fisicamente, senza più capelli, non é stato facile. L’immagine del tuo fisico sempre in perfetta forma, grazie alla continua attività fisica che sempre ha caratterizzato la tua quotidianità, era ormai solo un ricordo. Ci ho messo del tempo ad accettare questo epilogo. Ho faticato pure ad accettare, o meglio capire, gli ultimi giorni della tua vita. Non hai più voluto contatti con il mondo esterno, me compreso. Pochi giorni prima della tua morte, hai probabilmente capito che la cima (che in questo caso è corrisposta con la fine della tua vita terrena) era vicina. Hai accettato di uscire dall’ospedale e tornare nella tua amata casa. Nemmeno quarantotto ore dopo hai smesso di vivere (il 16 luglio 2005, ndr). Circondato dall’amore di chi hai voluto tenerti vicino. Mi è mancato poterti dire alcune ultime parole, non so nemmeno quali sarebbero potute es-

sere. Ma sono certo che non sia stato casuale e che dietro a queste scelte ci saranno state delle riflessioni accurate, come eri solito fare. Probabilmente quello che avevi da dirci e da mostrarci ormai lo avevi fatto e hai ritenuto che non ci fosse altro da aggiungere. Non lo so se queste parole ti dipingano per quello che eri, non so nemmeno se offendano il ricordo di qualcuno. Ovviamente non è mia intenzione. Spero invece di riuscire a dare a chi si è preso qualche minuto per questa lettura un’immagine più vera e completa di chi tu sia. Sono passati venti anni da quando ci siamo conosciuti. Ho frequentato molti alpinisti. Ho scalato con alcuni di essi. Conosco tutti i Gamma e alcuni Ragni, così come tanti altri alpinisti. Tu sei stato diverso dalla maggior parte di loro. Non mi permetto di dire migliore, ne tanto meno peggiore. Ma diverso sì. Originale. Unico. Lascio che in questi aggettivi ognuno di noi ci metta l’immagine di te. Io ero molto giovane quando ci siamo conosciuti. Ero molto giovane quando abbiamo scalato assieme la prima volta; e quando, grazie soprattutto a te, sono diventato un Gamma. Forse troppo giovane per capire alcuni aspetti, solo alcuni aspetti della montagna. Ma soprattutto alcuni aspetti delle persone. Ero troppo giovane anche quando sei mancato, per capire il valore della tua persona. Per capire l’importanza che hai avuto su di me come alpinista, ma non solo. Oggi sono cresciuto e forse riesco a capire ed apprezzare maggiormente alcuni aspetti. Non

mi illudo di riuscire ancora a capire veramente le montagne, gli alpinisti, le persone. Avrei tante cose da raccontarti e da chiederti. Domande che però resteranno sempre senza una risposta, oppure quella risposta la cercherò nei silenzi delle montagne che tanto hai amato e ti hanno amato. Grazie a te per quel che sei stato e ancora sei! Ndr – Riteniamo importante valorizzare le qualità alpinistiche di Marco Perego tracciando le fasi più significative della sua attività sfortunatamente interrotta troppo presto dalla sua rapida fine terrena. In Dolomiti: prima ripetizione della via della Sorpresa alla Brenta Alta; in Val di Zocca: prima ripetizione invernale della via dei Camosci al pilastro Speckenhauser alla Punta Allievi, gruppo del Masino; in Sierra Nevada, California (USA): sulle varie big wall nella Yosemite Valley, ripetizione di vie storiche, per arrampicatori di grande esperienza o di difficoltà impegnative, con permanenza prolungata in parete; in Patagonia (Argentina): prima ripetizione italiana e quinta ascensione assoluta dello sperone Est dell’Aguja Antoine de Saint-Exupéry, gruppo del Fitz Roy, il 21 gennaio 1991; in Himalaya: vetta del Cho Oyu, il 26 settembre 1997, via degli austriaci, salendo da Nordovest, lungo il ghiacciaio Gyabrag, per la cresta Ovest e la parete occidentale. Le foto sono state recuperate dall’archivio di Marco Perego

Riconoscibile sulla destra, insieme a Fabio Valseschini, con il quale in Val Bregaglia ha salito in cordata le entusiasmanti vie del Pizzo Badile e del Pizzo Cengalo.

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ACCADEVA NELL’ANNO...

1980

a cura di Renato Frigerio

Pubblichiamo un articolo che ci riporta al tempo in cui gli alpinisti che anelavano all’abituale ritrovo nella sede del loro gruppo di appartenenza, potevano sempre trovare dei compagni con cui condividere, con estrema naturalezza e spontaneità, le loro iniziative, e realizzare insieme importanti e soddisfacenti arrampicate, sul tipo di quella che qui viene descritta. Nonostante siano ormai passati quasi quarant’anni da quel periodo, non tanto per la descrizione particolareggiata di [foto: archivio Mario Sertori]

quella difficile invernale, quanto per il rapporto umano in cui predominano la sincerità dei sentimenti, il riconoscimento della qualità degli amici, lo stile mentale con cui si andava in montagna, veniamo posti di fronte ad una situazione attuale nella quale i protagonisti di questa prima invernale difficilmente avrebbero potuto riconoscersi. È facile e utile allora pensare ad un confronto che, se anche non può prescindere dall’inarrestabile progresso che contraddistingue la storia dell’uomo, ci farà pure riflettere se, anche in seno dell’alpinismo, in questo rapido cammino non si sia lasciato per la strada qualcosa che gli era fondamentalmente caratteristico, e che adesso ci manca. Si tratta evidentemente di quei valori che nel racconto rimangono pudicamente nascosti, ma come sottintesi, e che pure si intravedono in una lettura attenta che ci consente di individuare, insieme a dimenticate forme di amicizia sincera e durevole, l’esposizione genuina di quella passione per l’alpinismo che rendeva accettabile, come sua parte integrante, qualsiasi adattamento alla durezza ed alla sofferenza, in ogni imprevedibile circostanza.

SOFFERTA ESPERIENZA di Annibale Borghetti Una giornata di lavoro come tante altre: sono assorto nei miei pensieri, quando Luca, il fratello minore che lavora con me, mi chiede: “verresti a fare una invernale?”. – “Accettato” dico io. L’obiettivo è il Pizzo Ligoncio (3032m), nel massiccio del Masino. È una salita invernale di tutto rispetto, perché affronta una “via” tracciata nel 1938 dal celebre Vinci, in una zona caratteristica per l’asprezza e il senso di solitudine dell’ambiente. Per di più si tratta di una prima invernale, che noi tentiamo su una via tanto severa, che anche nella bella stagione viene ripetuta non più di tre o quattro volte. È la classica invernale del tipo più rigoroso, dove l’itinerario estivo di alto interesse alpinistico, anche se non di estrema difficoltà, richiede il massimo impegno: evidentemente non dal punto di vista tecnico, quanto da quello della resistenza e della sicurezza, per la presenza di difficoltà tipiche, quali ghiaccio e vetrato. Questi insidiosi elementi mancano, a parità di condizioni, sulle vie di sesto grado, con verticalità assoluta della roccia. Si sapeva soltanto che nell’agosto del 1959 gli alpinisti lecchesi Riccardo Cassin, Casimiro Ferrari, Antonio “Pioppo” Invernizzi e Giulio Milani, effettuarono una delle prime ripetizioni di questa via. Luca l’ha fatta nell’estate di quest’anno e ne è stato completamente sedotto. Penso che la consideri un banco di prova, per poter fare un confronto con gli altri alpinisti che da tempo ammira. Era già dall’anno scorso che pensavo alle invernali, ma non avevo mai avuto l’occasione di cimentarmi. Trovandoci poi il venerdì in sede con i Gamma, avremmo chiesto a Maurizio

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Annibale Borghetti, con alla sua sinistra, Maurizio Villa, in una delle soste in cui si rinsalda la reciproca amicizia. [Archivio: Renato Frigerio]

Villa e Mario Valsecchi di completare le cordate. I compagni ci sono: ora bisogna pensare al materiale che servirà, e così iniziamo a domandare consigli ad amici più esperti di noi. Dopo tutti gli impegnativi preparativi, non mi sembra vero di essere in macchina con Maurizio per dare l’avvio a questa esperienza. Arrivati a Novate Mezzola (212m), lasciamo la macchina a Mezzolpiano (300m) e proseguiamo a piedi in Val Codera. La nostra mèta per oggi è l’osteria del Baffo a Codera (825m), dove ci fermeremo a cenare e dormire, per ripartire il mattino seguente e raggiungere Luca e Mario all’attacco della parete. Strada facendo, ad Avedè, un fantastico gruppo di baite, incontriamo un pastore che avevamo conosciuto un paio di domeniche prima, durante la ricognizione alla parete. Parlando assieme, arriviamo a Codera, un grosso paese, costruito di sasso, ed abitato anche d’inverno da 30-40 persone, dove l’accoglienza di questa gente semplice è delle più cordiali. Il signor Emilio ci avrebbe svegliato alle 6: ma chi avrebbe dormito quella notte?


I pensieri erano rivolti alla parete: ce l’avremmo fatta? Non è un’impresa troppo grande per noi? Il tempo resterà bello? Sono interrogativi che però non mi tolgono la tranquillità. La preparazione di un alpinista ad un’impresa difficile comincia e continua oltre l’allenamento atletico e le previsioni logistiche. Il colloquio con gli amici, i consigli dei più esperti, perfino la comprensione della ragazza che si ama, servono a dare la sicurezza e la certezza della riuscita, senza le quali sarebbero troppo frequenti gli insuccessi e gli abbandoni. Ci avviamo che è ancora buio, con le pile frontali. Conosciamo già la strada e questo ci facilita il compito. Si raggiunge il rifugio Brasca (1304m), all’Alpe Coeder, proprio sotto le aspre e selvagge vette delle Cime dell’Averta, del Ligoncio e della Sfinge. È una valle che offre un paesaggio di rara bellezza, che si fa ammirare in continuazione, rendendo così meno dura la lunga a faticosa marcia di avvicinamento. Qui bisogna calzare i ramponi per superare una cascata di ghiaccio. “Ma sì, vedrai che li prendiamo presto Mario e Luca”. Arriviamo al bivacco Valli, posizionato a fianco del Sass Carlasc, nell’ampia Val Spassato, dove i due hanno lasciato quasi tutto il materiale. “Come facciamo a portare su tutto in due?”. – “Va bene, proviamo a fare gli zaini pieni, poi vedremo”. Lasciamo il bivacco Valli (1920m), e la marcia verso la parete è faticosa: si affonda nella neve e il ritornare a galla è una frustrante sofferenza fisica. Intanto possiamo osservare la parete del Ligoncio nella sua completa e stupenda realtà: la sua bellezza si svela completamente là sulla parete, dove il vento ed il gelo hanno, con rara maestria, scolpito arabeschi strani e bizzarri: si alternano dei tratti di ghiaccio a speroni di granito scuro. “Strano, non li vediamo ancora quei due, non rispondono neppure alle nostre chiamate”. – “Giuro che se non ci hanno aspettato… dovranno sentirci, e poi… dovranno vedersela con noi”. Finalmente sentiamo battere un chiodo e questo ci fa subito sentire meglio. Purtroppo loro non ci sentono ancora, perché il vento probabilmente disperde le nostre voci. Non pesa più nemmeno lo zaino, affondare nella neve non dà più fastidio; eccoli sono lì, hanno già superato il canale di neve e stanno attrezzando la traversata che porta sotto le difficoltà. Dopo vari richiami, riusciamo a parlarci: ci dicono di fermarci sotto a dormire perché dove stanno loro non c’è spazio. È un dialogo concitato per sapere qualcosa sulla loro avanscoperta. Ci sentiremo la mattina dopo, quando ci saremo ricongiunti. Sono appena le 14, la sete comincia a farsi sentire, il fornello per scaldare il the l’hanno loro. Non berremo qualcosa di caldo che la sera del giorno successivo, ora ci accontentiamo di bagnarci le labbra con la neve. Non ci resta quindi che metterci al riparo sotto un sasso e entrare nel sacco a piuma a riposare, nell’attesa dell’alba. Ci addormentiamo quasi subito, anche per non pensare alla sete. Vengo svegliato da Maurizio che vuole sapere l’orario. Immagino di intravvedere i primi bagliori dell’alba, ma il responso dell’orologio è tremendo: sono appena le 17,30’! Come faremo ad arrivare alla mattina? – “Toh bevi… una sigaretta” dico a Maurizio. Si vedono le luci delle pile e la fiamma del fornello sopra di noi. – “Guarda, Luca e Mario stanno facendo la loro piccola fiaccolata”. Oggi è la vigilia di Natale, la nottata è splendida; ci sarà senz’altro la fiaccolata sulla ferrata del Pizzo d’Erna, con “buseccata” finale. Pensa che bello essere anche noi con le nostre donne e gli amici! Ma perché sono qua, se quando sono in queste situazioni vorrei essere a casa e viceversa? Non so neanche io quello che voglio! Non vado in montagna per sapere fin dove possono arrivare i miei limiti, come ho letto su qualche libro, ma ci vado perché mi piace come attività, come lezione di vita, come amicizia, per provare esperienze formative e costruttive. Il giorno in cui non sentirò più niente di tutto questo non avrò nessun ripensamento per smettere. Personalmente sentivo la necessità di provare l’esperienza di una salita in invernale, dopo aver gustato, attraverso relazioni, confidenze, diapositive e film, momenti di gioia e di sofferenza provati dai miei amici. Finalmente la notte è passata, il tempo è bello, possiamo muoverci anche noi. Risaliamo il canale di neve e, dopo una traversata abbastan-

La squadra dell’invernale si completa con Luca Borghetti: accanto, alla sua sinistra, Mario Valsecchi. [Archivio: Mario Valsecchi]

za pericolosa, ci uniamo a Luca e Mario, – “Buon Natale” – gridiamo a Mario impegnato in un tiro sopra le nostre teste. Luca, che aveva salito questa via in estate, consigliava di raggiungere una cengetta. Le ore scorrono veloci ed è già buio quando riusciamo a raggiungerla. Salgo sui jumar, non senza un po’ di paura. L’imponenza delle pareti che ci circondano, il silenzio profondo di questa valle, le previsioni, che danno brutto per stanotte e domani, sono preoccupazioni più grandi di noi. Arrivo in fermata e il fornello sta già assolvendo la sua funzione. Mario come al solito è già pronto per bivaccare. Il momento del bivacco rappresenta per tutti una gioia per il fatto di ritrovarci assieme e poter parlare e scherzare con tranquillità. Si crea attorno un’atmosfera di familiarità più che amicizia, che infonde un senso di sicurezza e di padronanza della situazione. Che giochi di contorsionismo ed acrobazie per metterci nell’amaca! Ho una sete feroce, ma il deglutire mi provoca il vomito. Penso che la causa sia lo stare così tanto tempo senza bere. Stiamo parlando di momenti vissuti durante la giornata, quando mi sento cadere nel vuoto: un chiodo dell’amaca si è staccato. Mille pensieri passano per la mente, ma non riesco a fissarne nella memoria uno per materializzarlo e passare all’azione. Sento un strattone, il metro di corda che avevo lasciato molle per muovermi meglio è andato in tiro e mi fermo, bloccato provvidenzialmente. Perdo una buona mezz’ora per risistemare tutto quanto, ma anche questo serve per far passare il tempo. Fa un freddo terribile: quando siamo tutti a posto sono ormai le 23. Penso a tanti appassionati dell’alpinismo, che in simili condizioni hanno dovuto bivaccare in parete per due o tre notti consecutive, e la loro passione e la loro grandezza mi appare di una misura quasi irreale. Passano solo 2 ore, quando sento Luca che si muove e si lamenta per la scomoda posizione: ha degli spuntoni di roccia sotto la schiena. Mi giro nel sacco per consentirgli di cambiare posizione, quando vedo delle nubi avvicinarsi. Bisogna prendere subito una decisione: tornare indietro o proseguire? Non vale la pena di aspettare l’alba: decidiamo di proseguire. Io scaldo del the, Mario e Luca preparano le corde, Maurizio schioda la fermata. Anche questa piccola organizzazione serve per affrettarci. Luca parte deciso: ci sono tre tiri ancora prima di uscire dal pilastro nero.

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La catena montuosa mette in risalto l’improvviso sbalzo del Pizzo Ligoncio. La via Vinci sulla parete Ovestnordovest era stata aperta l’11 luglio 1938 da Alfonso Vinci, che aveva superato il dislivello di 600m, dopo 1 bivacco, utlizzando 40 chiodi. [Archivio: Mario Sertori]

Dopo alcuni metri perde la pila frontale, la luna piena è nascosta tra le nubi: mi chiedo come faccia ad arrampicare al buio. La paura di cambiamento repentino del tempo mi spinge a ricordare anche le più piccole caratteristiche della parete per trarne vantaggio nell’eventualità di un ritorno con le corde doppie. Mi danno la voce: è il mio turno per salire. Risalgo sui jumar lentamente, per il freddo. Sono contento di muovermi: l’azione e il superamento delle difficoltà mi distolgono dai pensieri. L’attesa prolungata nelle soste a volte è più difficile di un passaggio duro, chiaramente preferisco l’azione all’inedia forzata. Mario sta superando l’ultimo tiro del pilastro: mi fa ridere la sua maniera di imprecare contro gli occhiali che gli si appannano e contro i chiodi che non entrano bene. Dopo poco sento che informa Luca di essere arrivato in sosta: io, senza nascondere il mio entusiasmo, lo riferisco a Maurizio. Ora si prosegue più velocemente, la parete si corica, è meno verticale, ed è più articolata morfologicamente. Tengo d’occhio l’orologio e le nubi minacciose che scorrono veloci sopra di noi; in cima ci deve essere vento forte. Grido a Luca di mettere qualche rinvio di corda e di non rischiare per niente, anche per non dover fare sempre dei pendoli per le corde penzolanti quando bisogna risalire. Noto che la corda comincia ad avere dei punti di lesione. Ogni tanto io e Maurizio ci fermiamo a fumare una sigaretta, approfittandone anche per riposare un po’. Le spalle cominciano a farmi male perché lo zaino pesa maledettamente e così anche le braccia sono indolenzite, dovendo recuperare lo zaino dopo aver superato ogni tiro.

12 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Siamo ormai alti e penso che usciremo in giornata. Ci proponiamo già di ritornare quest’estate, quando il clima sarà più mite e distensivo. Sono le ore 16, è già da stanotte che non bevo più: non ricordo chi mi abbia insegnato a tenere in bocca una pastiglia di Enervit mentre mangio la neve. Sembra proprio una aranciata. Mario mi avverte che Luca sta superando l’ultimo tiro. La notizia mi fa quasi male perché, non avendo gustato i tiri precedenti, vorrei che la salita si prolungasse di più per poterla godere meglio. È assurda questa sensazione, quasi contraddittoria. La certezza di essere arrivato in cima mi dà sicurezza, lucidità e raziocinio. Raggiungiamo Mario sull’ultima sosta. Mancano pochi metri, viviamo questi momenti trepidando tutti e tre nell’attesa che Luca raggiunga la vetta. Finalmente un richiamo ci risveglia da questi attimi fantastici, la conferma dell’esito positivo della nostra avventura. Partiamo, prima Maurizio poi io, salendo sulle corde che Mario ha bloccato in sosta per farci evitare pericolosi pendoli. Pochi attimi più tardi anche Mario arriva e tutti e tre ci indirizziamo verso la cima: sono le 16.45’ del giorno di Santo Stefano. La sommità del Pizzo Ligoncio si trova sotto i nostri piedi, la via Vinci in invernale ce la siamo lasciata alle spalle, l’abbraccio che ci scambiamo è di vera amicizia, fratellanza, dopo una via che abbiamo sentito profondamente ancora prima di averla fatta. Mentre preparo la prima doppia, penso al Ligoncio, un nome che resterà sempre impresso nella mia mente, un’esperienza maturata e vissuta che mi servirà per tutta la vita.

Ora, a posteriori, sento di poter dire che ripeterò una simile esperienza, questo come volontà soggettiva, e speriamo solo che me ne venga posta l’opportunità.

In marcia di avvicinameto dal bivacco Valli, osservando l’impressionante via Vinci, nell’incognita rappresentata da ogni prima invernale. [Archivio: Mario Valsecchi]

L’articolo viene ripreso dall’annuario “Con noi in montagna” del gruppo alpinistico lecchese Gamma, pubblicato nel 1981


I CONSIGLI DEGLI ESPERTI a cura di Andrea Marazzato, responsabile reparto Sci al punto Vendita DF Sport Specialist di Olgiate Olona

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SPORT A TUTTO CAMPO

LE GENERAZIONI IN ATTESA DEL FUTURO TERMINE DI CONFRONTO Prendere il volo con il parapendio: ci vuole tanto coraggio, che è premiato da altrettanta soddisfazione, per guardare il mondo dall’alto di Renato Frigerio le interviste a cura di Valentina d’Angella

Impegnati nel nostro obiettivo di accostarci allo “Sport a tutto campo”, ci troviamo ora di fronte ad una disciplina di ultima e recentissima generazione, almeno per quello che la riguarda nel suo rapporto indirizzato allo svolgimento di manifestazioni competitive. Ci accorgiamo ancora una volta che l’evoluzione umana, che si sviluppa con un ritmo sempre più veloce, si impone anche nell’ambito dello sport, dove compaiono delle forme nuove e inattese, che si fanno però subito strada e acquisiscono numerosi seguaci che le interpretano in modi indiscutibilmente affascinanti e attraenti. Tutto ciò si traduce presto nel passaggio dall’aspetto semplicemente sportivo a quello competitivo in senso autentico, tanto da riuscire a coinvolgere nello stesso tempo mezzi di informazione, mercato e soprattutto un gran numero di appassionati. È il caso tipico che riguarda il “parapendio”, una vera disciplina sportiva che non ci aspetteremmo di considerare tale ogni volta che non esitiamo ad interrompere qualsiasi attività che stiamo svolgendo all’aperto, per rivolgere gli occhi verso la volta del cielo, dove abbiamo scorto delle vele multicolori che trasportano nel volo minuscole sagome che, allontanandosi verso l’alto, si fanno sempre più piccole. Sono uomini esattamente come lo siamo noi tutti, ma che hanno quel di più che a molti manca: il coraggio e l’abilità di affidarsi alla semplicità di un mezzo di poco pregio, per riuscire a volare, come invano aveva tentato Icaro, nel tragico racconto del mito. Il parapendio è per eccellenza il mezzo da volo libero – cioè senza ausilio del motore – più semplice e leggero, che si avvale appunto di un’attrezzatura elementare, composta da un’ala, chiamata generalmente vela, alla quale, tramite dei fasci funicolari, è sospesa la selletta del pilota, detta anche imbrago. I “fasci funicolari” terminano sugli “elevatori”, che rappresentano anche il punto di congiunzione tra la vela e l’imbrago, all’interno del quale è seduto

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il pilota. L’ala del parapendio, fabbricata in tessuto particolarmente resistente e professionale, non è rigida: la forma è mantenuta dalla pressione interna, creata dinamicamente dal flusso dell’aria sulle bocche anteriori dell’ “ala” o “vela”. Il pilota controlla il volo tramite due comandi, i freni aerodinamici. Tutte le vele sono dotate di un dispositivo di accelerazione, da controllare con i piedi, detto comunemente acceleratore, che, variando l’angolo di attacco, consente una miglior performance di velocità o efficienza, a seconda della regolazione, e comunque in base alle condizioni aerologiche. Trascuriamo una complessa descrizione tecnica della struttura e dei rispettivi comandi, ritenendo che il tutto appartenga soprattutto all’indispensabile conoscenza dei piloti, evidenziamo però la robustezza del mezzo, in funzione della sicurezza, nel precisare che l’intero fascio funicolare può sostenere facilmente un peso superiore alla tonnellata. Lo svolgimento del volo si presenta in tre fasi ben definite: il decollo, il volo e l’atterraggio. Il decollo si effettua sempre da un pendio sufficientemente inclinato: questo perché il parapendio ha una traiettoria di volo che punta sempre verso il basso, e se l’inclinazione del pendio è minore di quella della traiettoria di volo, non sarà possibile staccarsi da terra. Vi sono due tecniche principali di decollo: dando le spalle alla vela (decollo all’italiana), e decollo fronte vela, noto anche come decollo alla francese. Qualsiasi tipo di decollo si effettui, è fondamentale osservare sempre con cura le condizioni meteo e la loro evoluzione, in quanto è estremamente pericoloso decollare con un vento di intensità pari o superiore a 25 km/h, o in prossimità di cumulonembi. Una volta in volo, il parapendio necessita di una forza esterna per poter vincere la forza di resistenza e mantenere il moto. Durante la semplice planata in area colma, l’ala perde quota scendendo su un piano inclinato, e que-

sto le permette di utilizzare una componente della forza peso, appunto forza esterna, come forza propulsiva in direzione uguale e contraria a quella della resistenza. Per potere poi proseguire nel volo, il pilota deve imparare a sfruttare le correnti ascensionali presenti in natura. A seconda dell’origine della corrente ascensionale, il volo si divide in due tipi: il volo in termica, che sfrutta le correnti ascensionali generate dal riscaldamento delle masse d’aria, e il volo in dinamica, che utilizza invece le correnti ascensionali che si generano quando un vento meteorologico incontra un ostacolo opportunamente conformato. A questo punto spetterà al pilota determinare e controllare la velocità, agendo sui freni e sull’acceleratore, e intervenire opportunamente nella virata. La fase di atterraggio diventa particolarmente critica a causa della vicinanza al terreno. Inizia con la manovra di avvicinamento, partendo da una quota che contempli le caratteristiche del terreno e delle condizioni metereologiche, per riuscire a toccare il suolo nel punto desiderato e con un vento frontale. Sarebbe infatti pericoloso atterrare con il vento alle spalle, che causerebbe di toccare il suolo ad una velocità eccessiva, non compatibile con la velocità di corsa del pilota, che solo eccezionalmente corre oltre i 25 km/h. Esistono comunque varie tecniche per l’atterraggio finale, che consentono di smaltire quota e velocità con opportune virate. Sia del mezzo tecnico, del suo uso e dell’effettuazione del volo, è chiaro che sono state qui esposte delle semplici informazioni elementari, in base alle quali forse non si riesce a percepire che queste macchine volanti senza motori sono in grado di coprire distanze considerevoli, riuscendo a sfruttare più zone di ascendenza durante il volo, spostandosi decine di chilometri dal decollo. I record di distanza effettuati con deltaplani e parapendio moderni sono ormai di alcune centinaia di chilometri. E qui si comprende che quello che


Spettacoli che non hanno confronto vengono profusamente donati da chi si dedica appassionatamente al parapendio. In questo caso contribuisce certamente la spettacolare concentrazione delle bellezze naturali del territorio lecchese, nelle foto a pagina 15 e 16.

[Foto: Giorgio Sabbioni]

aveva avuto inizio come un bellissimo e audace divertimento, con il passare di pochi anni sia diventato anche oggetto di competizione. Le gare moderne di queste specialità si chiamano Cross-Country, e consistono nel coprire un determinato percorso nel minor tempo. Sono quindi gare di velocità, dove i concorrenti devono percorrere la prova definita da una sequenza di punti GPS da raggiungere, fino alla meta finale, che normalmente si trova nell’area di atterraggio ufficiale della zona di volo in cui si svolge la competizione. Le distanze delle prove variano in base al livello della competizione, partendo da circa 30 km per le gare regionali, fino ad oltre 100 km per le gare nazionali e internazionali. La durata di una prova è comunque compresa tra 1 ora e 4 ore, mentre in particolari occasioni si possono superare le 5 ore di volo. L’Italia è una delle nazioni con il livello dei piloti più alto: siamo sempre sul podio sia nei Campionati Mondiali che nella Coppa del Mondo. Le nostre competizioni nazionali sono tra le più interessanti al mondo come livello tecnico dei partecipanti e come aree di volo. Il volo libero si pratica comunque in tutte le zone con conformazione piuttosto montuosa: da noi è molto praticato sulle Alpi, su tutta la catena degli Appennini e su alcune isole, in particolare Sicilia e Sardegna. Tutti i componenti delle squadre nazionali sono soci dell’AeC Lega Piloti, che è un Aero

Club Locale, nato per sostenere le attività sportive del volo libero in Italia, e in particolare le competizioni a livello nazionale e internazionale, oltre allo sviluppo e alla promozione di questo sport. La sede è a Suello, in provincia di Lecco, ma si occupa di eventi che si svolgono su tutto il territorio nazionale, in prevalenza sull’arco alpino e nelle zone appenniniche. Ad oggi, l’AeC Lega Piloti ha organizzato direttamente gli eventi di Coppa Italia delle specialità Deltaplano e Parapendio, oltre ad aver collaborato nella realizzazione dei Campionati nazionali e ad altri eventi FAI classe 2. Vi sono poi i circuiti “regionali”, che hanno lo scopo di avvicinare i giovani piloti al mondo delle competizioni, gestiti dalla Asd Fivl (Federazione Italiana Volo Libero). A livello nazionale ed internazionale non vi sono classifiche per Club. Si calcola che in Europa siano ormai 98.000 i praticanti del volo libero, di cui 22.000 in Germania e 18.000 in Francia, che sono le nazioni più rappresentative. In Italia i praticanti sono 8.500: 30.000 sono stati brevettati negli ultimi 25 anni. Ogni anno si annoverano circa 500 nuovi allievi, istruiti nelle 50 scuole attive. Sull’intero territorio nazionale sono 180 i Club esistenti, che hanno principalmente la funzione di gestione dei siti di volo, decolli e atterraggi, e di aiuto ai piloti iscritti nell’espletamento degli obblighi di legge annuali, quali assicurazioni, rinnovo attesti di volo, visite mediche. Nessun pilota/atleta italiano vive di competi-

zioni: tutto il sistema che gira intorno all’atleta è basato sulla passione di chi ci lavora. Questo non esclude in nessun modo che ci sia un altissimo livello professionale, da parte di atleti e tecnici, tale da aver portato l’Italia ai più alti vertici delle competizioni internazionali, vincendo Campionati Mondiali, Europei, Coppe del Mondo. Il percorso formativo dell’atleta parte dal suo stesso Club, dove si allena volando il più possibile. Ogni anno vengono poi organizzati degli stage di volo nazionali, dove vengono selezionati ed invitati diversi piloti, suddivisi per livello agonistico. Gli incontri sono teorici, con argomenti su tecniche di volo, meteorologia, preparazione mentale, e altro: ma anche pratici, in volo, in vere e proprie gare dove vengono maggiormente focalizzati gli argomenti trattati nella teoria. A questi stage partecipano mediamente 30/40 atleti provenienti da ogni parte d’Italia, seguiti dal Team Leader della nazionale (sarebbe il ct degli altri sport) e da altri tutor, scelti in funzione degli argomenti da trattare. Inoltre vengono gestiti degli “allenamenti” per i piloti Top, facenti parte della Squadra Nazionale, propedeutici alla partecipazione a gare di altissimo livello, come i Campionati Mondiali, Europei, o Coppa del Mondo. [Fonte: Wikipedia]

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[Foto: Red Bull]

[Foto: Giorgio Sabbioni]

Aaron Durogati

Uno sguardo storico Per rintracciare l’aspirazione dell’uomo a librarsi audacemente nel volo, è necessario ritornare a tempi non storici, addirittura all’antica mitologia greca, che narrava di Icaro che aveva tentato di avvicinarsi al sole, sorretto da due ali di piume trattenute insieme dalla cera d’api, che purtroppo non avevano potuto reggere al calore della stella a noi più vicina. Nella storia, invece, il primo emulo del personaggio della leggenda si chiama Otto Lilienthal, che nella seconda metà dell’Ottocento, dopo numerosi tentativi, riuscì a sollevarsi da terra con una specie di aquilone. Passeranno ancora due secoli prima che, nel 1951, un ingegnere aeronautico californiano, Francis Melvin Rogallo, brevettasse un’ala volante simile al moderno deltaplano. Risale comunque attorno alla metà degli anni Ottanta la diffusione del parapendio, un mezzo più facile da praticare, che ha trasformato il volo in un’attività prevalentemente agonistica, che esige un’adeguata preparazione tecnica e una buona dose di coraggio. In effetti la sua storia comincia nel 1965, con la messa a punto della Sailwing da parte di Dave Barish, che chiamò questa nuova disciplina “slope soaring” (volo da pendio). Dave Barish e Dan Poynter nel 1966 e nel 1968 effettuarono numerose dimostrazioni di slope soaring su un trampolino da Salto con gli sci. Numerosi alpinisti cominciarono ad interessarsi a questa pratica, che consentiva di planare, dopo una salita in montagna, in modo rapido, efficace ed anche divertente. Nel 1978 tre paracadutisti francesi, Jean Claude Bétemps, Gèrard Bosson e André Bohn, decollarono con i loro paracadute rettangolari dal Monte Pertuiset, presso Mieussy in Alta Savoia: furono i primi di molti altri paracadutisti che cominciavano ad interessarsi al volo di pendio. Nel 1985 Laurent de Kalbermatten inventò il primo parapendio concepito specificamente per il volo, che da allora non cesserà più di evolversi, tanto come materiali utilizzati che come tecniche di costruzione, diventando uno sport a sé stante. Il primo Campionato del Mondo si tenne a Verbier, nel Vallese, nel 1987, anche se come prima edizione viene considerata quella del 1989 di Kössen, nel Tirolo. Il primo Campionato del Mondo di acrobazia si è svolto nell’agosto del 2006 a Villeneuve in Francia. [Fonte: Wikipedia] 16 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Atleta Red Bull, maestro di sci e soprattutto fuoriclasse del parapendio, è nato il 6 giugno 1986 a Merano. Aaron Durogati ha iniziato a volare a 6 anni con il padre in tandem, poi a 15 ha preso il volo da solo, e da allora non si è proprio più fermato, esplorando tutte le potenzialità che la vela gli offre. È stato due volte campione del mondo, nel 2012 e nel 2016; nel 2018 ha sfiorato il record mondiale di volo libero in parapendio volando per 509,6 chilometri tra gli Stati brasiliani del Rio Grande del Nord e quello del Piauì, dove ha toccato terra dopo oltre 11 ore di volo. Ha combinato il parapendio con lo sci alpinismo, con la corsa, con l’arrampicata su roccia e su ghiaccio. La scorsa estate australe è stato persino in Patagonia, dove, dopo scalate impegnative, è decollato da alcune delle pareti più famose del mondo.

Partiamo dalle ultime cose: quest’anno hai portato il parapendio in Patagonia. Com’è andata? Il mio grande sogno era di provare a fare il Cerro Torre salendo dalla via dei Ragni. Ma in Patagonia, si sa, bisogna avere una grande fortuna con il meteo, e quindi eravamo molto flessibili sugli obiettivi. Nella prima finestra di bel tempo abbiamo salito la Poincenot: in realtà il meteo favorevole è durato solo un giorno e si è rivelato molto ventoso. Per me è stata un’esperienza estrema, mi è sembrato di scoprire solo allora cosa sia il vento: quando siamo arrivati sulla parete Ovest ho sperimentato delle raffiche pazzesche, che quando arrivano, ti obbligano a tenerti molto bene ancorato alla roccia per non volare via. Avevo con me anche la vela, ma non ho pensato neanche lontanamente di aprirla. La finestra di bel tempo successiva è durata un giorno e mezzo: di nuovo, per il Torre non era neanche da considerare, ma per la Saint-Exupéry era sufficiente. Siamo partiti in due cordate e ho portato la mia vela da para-alpinismo che


mi occupa circa 20 litri, tra vela e imbracatura, e pesa poco più di 2 kg, e quindi me la porto sempre dietro. La via di salita era bella, l’abbiamo fatta in circa 13 ore. Dopo un paio di tiri di misto iniziali comincia la roccia, ma è un continuo passare dalle scarpette agli scarponi, ai ramponi e alle piccozze. Poi quando siamo arrivati in cima, che il sole era già tramontato ed erano circa le 9.30 di sera, sulla cima vera c’era troppo vento per decollare. Così ci siamo calati per 50m verso Est e a quel punto eravamo sottovento, il che implica sì meno vento ma, una volta spostati dalla montagna, anche le turbolenze. Lì ho trovato un piccolo balconcino che dava su 800m di parete verticale e le condizioni erano perfette per volare: ho potuto gonfiare la vela da fermo e una volta che ho la vela sopra la testa posso fare quello che voglio. Ho fatto un passo saltando fuori dalla parete e ho volato: è stato un decollo tecnico perché non si poteva sbagliare ovviamente, però a quel punto avevo tutto sotto controllo. È stato un volo corto ma super emozionante, tra i più belli della mia vita. Dopo tante ore di scalata impegnativa, aprire la vela e rimanere concentrato per volare da queste pareti di roccia sembra uno sforzo immane…è così? Io mi sento molto più a mio agio e tranquillo se posso decollare piuttosto che fare quelle calate bruttissime su quelle soste terrificanti, con le corde che si incastrano praticamente ogni due calate. In 5 minuti, volando da sotto la cima della Saint-Exupéry, ero nel posto in cui abbiamo bivaccato prima della salita, i miei soci sono arrivati alle 3 di mattina dopo aver fatto 30 calate. Tornerai a tentare il volo dal Cerro Torre? Direi di sì, però non so quando. Mi è piaciuto tantissimo, in Patagonia, ai satelliti del Fitz Roy, sono stato un mese e sono riuscito a fare tanto per il posto: la parete Nord della SaintExupéry, l’Aguja de la S, il Mojon Rojo, da cui ho anche volato e che è super easy, e l’ho fatta da solo. E poi ho fatto un giro dietro il Fitz Roy verso la Est del Torre, e anche lì sono riuscito a volare. È stato veramente bello, ma mi spaventa l’idea di avere molta sfortuna e finire per andare in Patagonia e stare per un mese ad El Chaltén. Non credo che tornerò l’anno prossimo: devo prima dimenticarmi che esiste l’ipotesi di andare fin lì e poi non fare niente. Sei arrivato alla combinata parapendio e scalata dopo altre combinate. Penso allo speed-riding, volo e sci, o al progetto Red Bull Peaks Trilogy che combinava la vela allo sci alpinismo, oppure all’Hike and fly, il Cross Country del Red Bull X-Alps. Qual è il mix che ti piace di più? Non ne ho uno preferito, dipende dalla stagione. D’inverno adoro la neve e quindi combinare il volo con la sciata in speed-riding, o, come lo scorso inverno, dopo aver salito due vie di misto o cascate in Dolomiti. D’estate ci sono le termiche più forti e le giornate che permettono voli molto lunghi, quindi ogni stagione ha il suo.

Una suggestiva immagine di Aaron Durogati nel trasvolare le guglie e le torri della catena patagonica. [Foto: Red Bull]

Quando parli di voli molto lunghi cosa intendi, perché l’anno scorso in Brasile hai quasi raggiunto il record di volo libero in parapendio volando per 509,6 chilometri… In Brasile ci sono condizioni particolari perché voli a vento a favore e quindi la tua velocità è più alta: se il vento è a 30 km/h riesci a tenere delle medie a 50 o 60 km/h. Sulle Alpi le condizioni sono diverse, si vola facendo dei triangoli su tre punti. Oltre all’Hike and fly tu hai strappato grandi risultati anche in Coppa del Mondo. Sì, la Coppa del Mondo è un po’ come una regata: si vola ma non hai la parte iniziale di salita a piedi. In base al meteo e al luogo le singole task (ndr, le tappe) variano tra i 60 e i 160km e a partire ci sono 130 piloti. Una Coppa del Mondo dura una settimana; dopo si svolge la finale di Coppa del Mondo da cui esce poi il Campione del mondo. Sei stato campione del mondo per 2 volte: ti interessano ancora le gare? Si, voglio vincere ancora e tenterò di nuovo. Il livello è altissimo però ed è sempre molto difficile. Quest’anno in realtà c’è già stata la super finale che valeva per il 2018, perché si fa quasi sempre in Sud America, ed io sono arrivato quarto: non avevo volato male, ma per vincere devono incastrarsi tante cose. Che ci dici dell’Hike and fly? Nell’Hike and fly ci sono in realtà due discipline: una più lenta che è quella del Red Bull X-Alps e una più veloce, con gare del tipo Red Bull Dolomitenmann (si tratta di una delle più dure competizioni a squadre, ndr), che sono in genere gare a staffetta con altri atleti che svolgono altre discipline (come la corsa, la bicicletta, il parapendio e la canoa). La sezione del parapendio prevede una parte di corsa, un volo lungo ma planato, poi un’altra parte di corsa e poi un altro volo. E questi tipi di gare sono come degli sprint, come un vertical: le parti di corsa sono molto veloci e ripide, e così pure il volo. Pensa per esempio che normalmente il

decollo si svolge in 10/15 minuti, compreso il tempo per imbragarsi. Nella Dolomitenmann i miei tempi di decollo variano tra i 6 e i 10 secondi, però hai già l’imbrago leggerissimo addosso mentre corri, la vela è piegata come un paracadute da paracadutismo e ha un sistema per cui ti cade la vela fuori e hai già il freno in mano. E poi ci sono le gare di Hike and fly più di endurance, com’è chiaramente l’X-Alps, la più famosa e la più dura. Quante volte hai gareggiato nell’X-Alps? (L’adventure race più dura al mondo, con la massacrante traversata delle Alpi a piedi e in parapendio, da Salisburgo fino al Principato di Monaco, per 1.138 Km totali, ndr). Quattro volte, ma non ho mai vinto. Sono arrivato settimo la prima volta, sesto la seconda, ritirato la terza e quest’anno nono. La ritenterai? Di sicuro, se il mio ginocchio me lo consente. Il tuo curriculum dimostra che, se un domani volessi, potresti tranquillamente lasciare il parapendio e metterti a fare l’alpinista professionista o la guida alpina. Ci hai mai pensato? Credo di avere un livello abbastanza alto in tanti sport, però dovendo scegliere se guadagnarmi da vivere volando, facendo il maestro di sci o la guida alpina, sceglierei comunque il volo, perché è la cosa che so fare meglio di tutte. Come maestro di sci e allenatore ho già lavorato: l’ho fatto, e anche volentieri all’inizio, per pagarmi le gare e i voli durante l’estate, ma non è un mestiere che mi piace. Invece non mi dispiacciono i voli commerciali. Del resto, se fai volare qualcuno, alla fine del volo tutti sono contenti: o perché gli è piaciuto tantissimo o per il solo fatto di essere tornato a terra sano e salvo. Quando invece insegni a sciare, l’allievo avrà quasi sicuramente male ai piedi per gli scarponi a cui non è abituato, avrà freddo, dovrà fare lo spazzaneve, che non è mai una posizione naturale: in sostanza non è felice. Discorso simile se fai l’allenatore. A me piace fare le cose di persona.

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È il campione del mondo di parapendio. Joachim Oberhauser, altoatesino di Termeno di 43 anni, oltre a vincere la medaglia d’oro con tutta la squadra azzurra, ai campionati di Krushevo in Macedonia, conclusi il 18 agosto, ha vinto anche il titolo individuale, dopo una straordinaria performance che lo ho catapultato direttamente nella storia di questo sport.

[Foto: archivio Joachim Oberhauser]

[Foto: archivio Joachim Oberhauser]

Ti sei appena laureato campione del mondo di parapendio, sia con il titolo individuale, sia di squadra con la nazionale italiana: come sono stati questi mondiali e cosa significa per te questo titolo? È una storia incredibile essere campione del mondo, una cosa molto speciale. È il titolo più importante nel parapendio, un sogno da sempre! In questo campionato mondiale c’erano tanti tasselli e tante storie che come squadra siamo riusciti a comporre insieme come in un puzzle, per un grande risultato: e questa vittoria è un’enorme pubblicità per il nostro sport. Torniamo indietro alle origini: come è cominciata la tua passione per il volo? Avevo degli amici che praticavano questo sport, e a 17 anni ho cominciato a frequentarli: mi hanno fatto vedere come si vola e poi ho fatto la scuola. Il parapendio è diventato una passione. Quando sono arrivate le prime gare? Più di 10 anni dopo. Prima con le gare regionali, poi con le nazionali, poi la Coppa del Mondo: insomma ho proceduto a step e, man mano che miglioravo nella categoria, passavo a quella successiva. Ormai sono più di 10 anni che sono in nazionale. Sei un veterano delle gare, immagino avrai tanti momenti bellissimi da ricordare… Sono tanti i momenti belli. Sicuramente quando vai bene nelle gare sei più contento di quando vai male, però nella mia carriera ci sono state anche competizioni in cui il risultato non è stato così buono, ma non per questo non sei contento. E poi ci sono i momenti esterni alle gare. L’altra sera per esempio siamo partiti alle 18 in Val Gardena e abbiamo fatto un volo strepitoso, toccando quota 3.800m. Voli di questo tipo ti rimangono proprio dentro. È il bello di questo sport: ci sono tanti modi per viverlo, ognuno secondo la propria inclinazione. Ti piace la competizione? Sì, molto. Mi piacciono le gare di alto livello in cui partecipano anche le altre nazioni forti, come la Francia o la Spagna, o l’Austria e la Germania, perché in quelle occasioni riesci a misurarti. In questo momento della vita mi piace soprattutto questo, poi magari fra 5 anni ti dirò altro. Ti riesce molto bene poi… Sì, devo dire che sono ormai diversi anni che sono sempre tra i primi 10 al mondo, una volta secondo, terzo o quarto, e quest’anno primo. Mi riesce bene in proporzione a quanto mi dedico allo sport, perché noi non siamo piloti professionisti, in Italia non è possibile. Infatti, di cosa ti occupi? Io vendo trattori, un lavoro che è compatibile con il parapendio: mi dà tanto da fare in inverno, perché il contadino compra in inverno per avere la consegna del trattore in primavera, e invece d’estate ho più tempo libero che uso per le gare. Tutto gira un po’ intorno al parapendio nella mia vita, e poi c’è la famiglia ovviamente che occupa un ruolo importante. Hai figli? Quattro.

Joachim Oberhauser

Non è un azzardo iniziare al parapendio i figli ancora fanciulli: c’è più rischio sulle strade che negli spazi del cielo.

Hai paura a farli avvicinare a questo sport, visto i pericoli che implica? Una volta ti avrei detto di sì, poi un giorno un istruttore mi ha chiesto: preferiresti che andassero in giro in moto? E allora ho cambiato idea. Io per lavoro faccio 50.000km all’anno con la macchina e devo dire che ho più paura di fare un incidente in strada che in parapendio. Naturalmente i primi anni di volo sono da affrontare con molta attenzione, è necessario seguire i piloti giusti, con esperienza e fare un passo dopo l’altro, non due alla volta. Però io credo che nella vita in tanti settori si corrano dei rischi. Quindi i tuoi figli li porti a volare? Sì, certo, la più piccola aveva tre anni quando l’ho portata la prima volta. Ci sono nazioni come la Francia in cui il volo con la vela, in tutte le sue declinazioni, è molto più praticato, ed esiste un livello proprio professionale di questo sport. È un peccato secondo te che in Italia non si abbia la stessa situazione? Negli ultimi anni mi sembra che tutto sia diventato più professionale, come credo anche in altri sport. Ma in Francia quando tu riesci come sportivo a raggiungere un certo livello sei sotto il Ministero dello Sport e ricevi un budget da gestirti per le gare e gli allenamenti, hai un numero di ore di volo calcolato, insomma è tutto più professionale. In Italia no, per cui è più difficile. Credo che, considerando il budget che abbiamo a disposizione e il tempo che mettiamo negli allenamenti, l’Italia dimostri di avere un livello e un potenziale altissimo. Se avessimo le risorse che impiegano nello sport le altre nazioni, chissà dove arriveremmo…


[Foto: archivio Marco Busetta]

L’atleta qui intervistato si gode le maestose immagini del vulcano siciliano che contrasta con lo splendido azzurro di mare e cielo. [Foto: archivio Marco Busetta]

Marco Busetta Marco Busetta è nato nel 1982 a Catania. Geologo, è pilota di parapendio dal 2003, e dal 2006 collabora con la scuola nazionale di volo sportivo Etna Fly. Professionista del volo abilitato al trasporto di passeggeri dall’Aeroclub d’Italia, è pilota della nazionale italiana di parapendio dal 2016. È detentore di diversi record regionali di volo di distanza, nonché vincitore della competizione “XContest Sicilia” dal 2011 al 2016. Ma è sicuramente anche per lui il 2019 l’anno d’oro: non solo perché ha contribuito significativamente alla vittoria degli italiani ai mondiali di parapendio vincendo la penultima task, ma anche perché al rientro dalla Macedonia si è portato a casa il titolo nazionale, vincendo il Campionato Italiano di parapendio inserito nella Valcomino Cup 2019. Lo abbiamo intervistato proprio nei giorni in cui si è disputata la gara, nell’omonima località in provincia di Frosinone.

Marco dove hai iniziato a volare e a che età? Ho iniziato in Sicilia orientale, all’età di 21 anni. Qualcuno ti ha avvicinato al volo oppure è stata una tua iniziativa? Sono sempre stato attratto dagli sport estremi, e personaggi come Angelo D’Arrigo e Patrick de Gayardon sono stati per me molto ispiranti. Dei quattro atleti che abbiamo intervistato per questo speciale di “Uomini e Sport” tu sei l’unico che vive lontano dalle Alpi. Il parapendio è uno sport molto praticato in Sicilia? Assolutamente no. Il volo al Sud è davvero uno sport di nicchia. Ma negli ultimi anni, anche grazie alle mie performance, stiamo assistendo ad un exploit di siciliani promettenti, che saranno certamente dei vincenti. Di solito da dove ti lanci? Volo principalmente nell’area di Taormina, dai decolli di Gallodoro e Castelmola, sopra Letojanni. Lo reputo un ottimo sport perché tecnico, e che mi permette di lavorare (scherzosamente “lavolale”), accompagnando in volo i turisti o i locali che richiedono di provare questa esperienza in tandem. Una domanda da profana: il mare e le caratteristiche climatiche marine implicano un uso diverso della vela rispetto alle condizioni alpine o d’alta montagna, oppure non cambia nulla? È una domanda molto intelligente. È notevolmente diverso dalle condizioni alpine. E questa la reputo una fortuna. Perché volando dal mare verso l’entroterra dell’isola posso allenarmi in un ampio spettro di condizioni termiche. Amo volare in Sicilia anche per questo.

E invece l’Etna, quindi la presenza del vulcano, può condizionare le caratteristiche di volo? Il distretto di Taormina risente tantissimo delle interferenze di Etna, stretto di Messina e persino dalla Calabria. È stato entusiasmante per me capire le dinamiche del vento: la qualità dell’attività termica risultante da questa interazione. Di solito quando viene vietato il volo intorno all’Etna, con quali condizioni? Viene vietato specialmente in caso di attività eruttive rischiose. Deve essere uno spettacolo incredibile poter volare intorno alla montagna e vedere al contempo il mare…. È indescrivibile. Sono felice di essere nato in questa specialissima isola. Qual è il posto più bello in cui hai volato? Amo in particolare le isole Eolie, che nel 2016 sono riuscito a traversare in volo, da Vulcano a Salina, ma anche tutti i siti di volo isolani. Per la loro varietà. Si diceva che è molto difficile in Italia per un atleta di parapendio poter vivere questo sport come professione. Tu cosa fai per vivere? Sono geologo, ma da tempo il volo è diventato anche il mio lavoro. Volo in biposto ed invento accessori per il parapendio. Ti piace la dimensione delle gare o preferisci il parapendio sulle lunghe distanze? Ho sempre considerato le gare uno strumento per migliorare nel volo di distanza. Ma da quando ho cominciato a vincere sono confuso su quali siano realmente le motivazioni. A vincere ci si prende gusto e non è facile smettere. Ma verrà il momento di lasciare spazio ai giovani... L’ultima gara a cui hai partecipato e la prossima? I campionati mondiali 2019 con la nazionale in Macedonia. Siamo riusciti a conquistare la medaglia d’oro! Sia in squadra che in singolo. Che soddisfazione! Mentre proprio in questo momento sto partecipando ai campionati italiani. A proposito dei mondiali: un momento importante per l’Italia è stato quando hai vinto la penultima prova per portare alla squadra i punti necessari per prendere il comando della classifica: come hai vissuto quella giornata, come è andata? E cosa ricorderai di più di questi magnifici mondiali? Sono arrivato ai mondiali giù di tono ma consapevole delle mie capacità. Vincere una task in un evento di questo livello è abbastanza raro per la maggior parte dei piloti che vi partecipano. Ho volato un po’ male per la maggior parte delle manches ma quando ho avuto l’occasione, assecondando il mio istinto, sono riuscito a staccare gli altri 149 partecipanti di 13 minuti (tantissimi, con quel livello) e portare la squadra sul gradino più alto del podio. Incredibile ma vero. Mi sento felice come se avessi vinto nella individuale, come il nostro Joachim.

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[Foto: Silvia Buzzi Ferraris]

Silvia Buzzi Ferraris

Milanese, 52 anni, Silvia Buzzi Ferraris in Italia è la donna del parapendio. È stata campionessa italiana per una dozzina di volte, ma a questo numero bisognerebbe aggiungere le annate come quella in corso, in cui è arrivata prima, ma il titolo non le è stato consegnato in quanto il numero di concorrenti femminile non era sufficiente a determinarne l’assegnazione. Nel 2017 ha vinto la medaglia di bronzo ai campionati mondiali, e soprattutto quest’anno ha fatto parte della magica nazionale, incoronata per la prima volta campione del mondo. Il suo contributo è stato determinante: nonostante un infortunio che le impediva di poggiare un piede a terra, ha volato per quasi tutte le giornate aiutando la squadra azzurra nella storica impresa.

Silvia, che lavoro fai per vivere e come riesci a conciliare lavoro e passione? Insegno matematica e fisica. Purtroppo il parapendio è un hobby non una professione, così nei ritagli di tempo, quando non lavoro riesco a fare ogni tanto qualche gara. Con ottimi risultati, però immagino che vorresti dedicartici a pieno… Diciamo che le atlete, quelle vere, volano e volano e ancora volano e poi i risultati si vedono. All’estero in alcuni Paesi la situazione è molto diversa. Pensa che nell’ultima Coppa del Mondo c’era una ragazzina francese che aveva solo 17 anni e come altre sue colleghe, viene pagata per andare in giro a volare, così in Francia – è impressionante – le atlete sono una più forte dell’altra e riescono a vivere di questo sport. Da Milano al Monte Cornizzolo la strada non è tanta: è sempre stata la tua base di partenza? No, in realtà ho girato un po’ di club. La mia prima scuola è stata in Valsassina a Pasturo, poi sono stata un po’ nella bergamasca, adesso mi sono iscritta nel club trentino di mio marito. Com’è cominciata la tua storia con il parapendio? Il volo è sempre stato una passione solo mia, che mi sono andata a cercare. Mia madre è un’amante del mare, apneista fortissima all’epoca. Mio padre istruttore nazionale di scialpinismo al CAI, quindi amante della montagna. Io ci ho messo del mio.

20 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Come hai iniziato a volare? Quanti anni avevi? Una ventina. Ho cominciato completamente da sola: ho cercato sulle riviste, ho trovato una scuola vicina, sono andata a provare ed è stato amore a prima vista. Quanto tempo è passato da quando hai preso le prime lezioni a quando ti sei sentita sicura da andare in giro da sola? Ho fatto la scuola in Valsassina che è un’oasi abbastanza fortunata perché non c’è il minimo pericolo, essendo tutta prati e quindi atterrabile. L’istruttore da subito, come ho cominciato a fare le prime termiche, mi ha dato il via libera a spostarmi lungo la valle. Già al Cornizzolo è molto più “tecnico“ spostarsi, perché hai vicini i laghi, la città e le strade. Come sono arrivate le competizioni? Dall’esterno il parapendio non sembra uno sport come può essere per esempio la corsa, che fa pensare cioè subito alla competizione… Ho iniziato a fare gare per imparare da quelli più bravi di me: volare con piloti più forti in posti non noti è l’unico modo per ampliare le proprie conoscenze, capire le strategie ed essere spronati. All’inizio quindi è stato quello, adesso invece è il gusto di andare in giro per il mondo e ritrovarsi con gli amici. Poi mi piace sentirmi in gara, mettermi in gioco e confrontarmi con gli altri. Finché riesco andrò sicuramente avanti. In volo ogni situazione tocca gestirla da soli: è la cosa che spaventa di più all’inizio? Forse sì, ma dipende, è veramente soggettivo. Il bello del volo è che offre mille sfaccettature e possibilità per tutti i gusti. Per esempio c’è chi ama il decollo, chi il giretto al tramonto, chi invece deve fare per forza 3000 km se no non è contento, chi ama le gare e chi no. E per te? In passato per 2 o 3 anni ho fatto solo volo di cross, niente competizioni, perché volevo fare le lunghe distanze. E infatti in quel periodo ho vinto l’XContest mondiale e anche quello italiano. Però adesso sono tornata al sapore della gara, non ho più la testa per farmi 10 ore di volo. Anche perché immagino che dopo tante ore in volo uno arrivi al traguardo distrutto… Sì, è veramente impegnativo. È vero che nel volo di cross hai tanti momenti in cui sei rilassato, infatti mangi, bevi, ti guardi in giro e fai le foto, cosa che in competizione non riesci a fare: però 9 ore in parapendio sono molto stancanti. È bellissimo, ma quando arrivi a terra hai finito tutte le energie, spese per rimanere concentrata costantemente per tutta la durata del volo. Rispetto ad altri sport, in cui la differente prestanza fisica fa la differenza nei risultati fra uomini e donne, nel parapendio si mantiene questa distinzione? Nì, secondo me è più un fatto culturale. In Italia di donne che volano non ce ne sono, mentre in Francia o in Germania sì. Davanti a certe situazioni di solito le donne si tirano indietro, mentre gli uomini no, si buttano di più. Poi è chiaro che se ci sono più uomini bravi nel parapendio che donne è una questione statistica perché se lo praticano in 20 magari sul totale uno bravo emerge, mentre se le donne lo praticano in 2 può anche darsi che nessuna delle due emerga nel panorama internazionale. Negli ultimi anni hai visto crescere il numero di praticanti al femminile, almeno a livello amatoriale? Le donne italiane sempre poco, ma devo dire che, tolta la corsa, la cosa vale in generale per lo sport. Io faccio anche kite surf per esempio, e anche in quel caso le donne italiane non ci sono. All’estero non è così. Forse per quello nell’immaginario italiano il parapendio è più uno sport da uomini? Sì, anche se in realtà non c’è niente che lo rende uno sport maschile. Anzi per sensibilità è uno sport più adatto alle donne. La fisicità certamente c’è, la fatica si fa durante il volo, però alla fine è più quasi una stanchezza mentale che fisica. Tanto che nel parapendio mi è capitato di vedere certi fisici veramente improbabili.


È anche una festa di colori per chi assiste all’impagabile spettacolo di una manifestazione di parapendio. [Foto: archivio Silvia Buzzi Ferraris]

Consiglieresti a un giovane, uomo o donna, di provare il parapendio? Volare è la cosa più bella che esista al mondo, ma a differenza di altri sport è anche pericoloso, e per questo non mi sento più di spingere sull’acceleratore nel consigliarlo a tutti. Io ho due figlie e mi sono ben guardata dallo spingerle a fare parapendio. Mentre nel kite le ho esortate a provarlo, con il parapendio mi sono detta “anche no, grazie”. Perché c’è sempre una parte di pericolo: io ho perso degli amici, non posso negarlo. Certo, so che vale anche per altri sport, come può succedere di farsi male anche sulle piste da sci. Qui l’unico vantaggio è che se hai un incidente non potrai mai dire che è colpa di qualcun altro. Ti sono capitate situazioni in cui ti sei molto spaventata? Ho distrutto la schiena e subito due operazioni, quindi ho dato anch’io. Per questo so che bisogna fare grande attenzione. Detto questo, ho ripreso a volare due anni dopo l’incidente, perché per me è come “droga pesante”. Mentre degli altri sport posso anche fare a meno, del parapendio no.

Durante la seconda giornata dei Campionati mondiali, ti sei fatta male in fase di atterraggio: cosa è successo? In atterraggio ho fatto un fuori campo con un vento che girava molto e nel momento in cui sono atterrata è arrivata la raffica da dietro, per cui anziché mettere giù le gambe, all’ultimo momento ho alzato i piedi, solo che oramai ero raso terra, e si devono essere impigliati nel prato. In sostanza ho un’inclinatura del malleolo e una leggera distorsione. Come sei riuscita ad andare avanti nella gara? Un giorno mi sono fermata per capire cosa fare. Per fortuna non c’è stata la rottura dell’osso e ho potuto usare un tutore molto stretto quasi come un gesso, in più in quella zona c’è sempre molto vento e poi Alberto Castagna (teamleader della Squadra nazionale Italiana Parapendio, ndr) mi ha aiutato tantissimo posizionandomi la vela. Anche l’organizzazione mi ha dato il permesso di decollare quando volevo, senza mettermi in fila, e al decollo avevamo sempre dei tappeti sintetici. Alla fine sono decollata su un piede solo, cercando di correre il meno possibile. Tecnicamente dovevo tenere il piede sollevato per una settimana...un giorno c’era un bel vento e sono atterrata in punta dei piedi su una gamba sola. E poi tutta la squadra mi ha sempre aiutata. Certo, a un dato punto mi sono chiesta se non stessi sbagliando, ma col senno del poi sono stata proprio felice.

E alla fine è stato necessario il tuo aiuto… Sì, se mi fossi fermata saremmo finiti sicuramente giù dal podio, forse quinti o sesti. Cosa ricorderai di più di questo magico mondiale? Quello che mi è piaciuto tantissimo è stato il pari merito con la Francia. All’inizio ero dispiaciuta perché avrei voluto vincere in assoluto, ma poi loro si sono comportati da signori, anche perché la Federazione, siccome non aveva abbastanza medaglie, sembrava volesse imporci un unico vincitore e per una serie di cavilli noi saremmo stati i secondi. Alberto Castagna però ha ricordato loro che nei mondiali precedenti c’erano stati due terzi posti a pari merito e che quindi avevamo diritto anche noi a fare altrettanto. E poi i francesi ci hanno sostenuto e hanno avuto loro l’idea di metterci un italiano e un francese sul podio: mi hanno addirittura caricata su una sedia e portata a spalle sul podio. È stato davvero emozionante. Oro ai mondiali… è il primo! E abbiamo avuto un Joachim straordinario, che ha fatto un capolavoro, una gara che non si era mai vista, sempre al massimo, l’ultima task avrebbe anche potuto non farla.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 21


ANCHE QUI C’È DF SPORT SPECIALIST

a cura di Cristina Guarnaschelli

Una stagione di straordinari risultati al Team Pavan Free Bike Due gare del più grande evento di mountain bike nel mondo, la Roc d’Azur, 53 chilometri con 1.100 metri di dislivello, l’11 e 13 ottobre, hanno chiuso definitivamente la stagione 2019 di Pavan Free Bike, sponsorizzata da DF Sport Specialist, Bicimania e Blufrida. Un grande palcoscenico internazionale, che ha fatto da epilogo ad un’altra stagione di straordinari risultati per i ragazzi diretti da Claudio Cossa e Guido Colombo che si presentavano al via con un paniere di tutto rispetto: 47 successi, 50 medaglie d’argento e 37 medaglie di bronzo, per un totale di 134 podi in appena 47 giornate di gara. Numeri di assoluto valore che comprendono i titoli di Campionessa Europea Cross Country di Karin Tosato, quello tricolore individuale di Renato Cortiana e quello a squadre Team Relay, senza dimenticare le medaglie d’argento di Paola Bonacina agli europei in Repubblica Ceca e quelle di Karin Tosato e Ivan Zulian ai mondiali Master in Canada. Il presidente Antonio Pavan ha tracciato un primo bilancio: “Con la Roc d’Azur possiamo tirare le somme su questa stagione che reputiamo estremamente positiva. Sapevano di essere competitivi, ma non certo ci aspettavamo tutti i successi di quest’anno. I nostri ragazzi hanno fatto grandi numeri e chiudiamo davvero bene la stagione anche in una grande manifestazione come la Roc d’Azur che per noi è diventata la festa di fine anno. Siamo veramente felici e speriamo che sia di buono auspicio per la prossima”

Renato Cortiana alla Roc d’Azur all’inizio della salita de l’Origan [Foto: Archivio Pavan Free Bike]

Ivan Zulian durante la Verona MTB International [Foto: Alessandrio Billiani]

22 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Cristian Vaira in gara [Foto: Roberto Astrelli]

Cristian Boffelli in azione nella vittoriosa gara di Ello [Foto: Foto Gare MTB]


73ª Coppa Agostoni Lo Sport Club Mobili Lissone è stato fondato nel 1946 da un gruppo di appassionati cultori del ciclismo per seguire giovani talenti del luogo ed organizzare gare. Fra le manifestazioni che organizza sicuramente spiccano Coppa Agostoni–Giro delle Brianze e Coppa Agostoni Criterium. Coppa Agostoni, con il suo percorso di quasi 200km, è una corsa mitica. Il cuore della gara, un durissimo circuito da percorrere 4 volte, infatti si snoda fra le più famose salite della “Brianza”, ma non solo, della storia del ciclismo italiano: Sirtori, Colle Brianza ed infino il temibile Lissolo su quale si sono dati battagli tutti fra i più grandi campioni del ciclismo anche durante il Giro d’Italia e il Giro di Lombardia. Giunta alla 73° edizione Coppa Agostoni, sabato 14 settembre, è stata vinta dai più grandi campioni della storia del ciclismo, italiano e mondiale: da Gimondi a Merckx, a Zilioli, Bitossi, De Wlaeminck, Moser, Saronni, Battaglin, Fondriest, Konyshen, Bugno, Cassani, Tafi, Ullrich, Casagrande, Jalabert. Visconti, Gavazzi, Modolo, Pozzato, Moscon e nel 2019 l’astro nascente Alexandr Riabushenko. Tra gli sponsor il nostro marchio BICIMANIA.

5ª Coppa Agostoni Criterium Coppa Agostoni Criterium, svoltasi sabato 21 settembre, è un gara di scatto fisso, ovvero prevede l’utilizzo di bici tipo pista (quindi con un unico rapporto), senza freni. Questa spettacolare disciplina, nata negli USA con i bike messenger, da qualche anno, grazie alla notorietà della Red Hook e del lavoro svolto da Enrico Biganzoli, è diventata a tutti gli effetti una disciplina della Federazione Ciclistica Italiana. La Coppa Agostoni Criterium, grazie al suo circuito cittadino nel cuore di Lissone, è una delle gare più spettacolari del circuito “Fixed”: ultima gara del Italian Fixed Cup. Nel 2018 è stata Campionato Italiano e nel 2019 Campionato Lombardo. Oltre alla partecipazione dei migliori atleti del panorama fixed quest’anno ha avuto come padrino d’eccezione Gilberto Simone. La gara maschile è stata vinta da Facundo Lezica, Olimpionico Argentina, mentre quella femminile da Martina Biolo sulla sfortunata Francesca Selva (anch’essa astro nascente del ciclismo italiano).

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 23


INTERVISTE AD ALPINISTI

Jim Reynolds Climber fortissimo, star… a sua insaputa a cura di Sara Sottocornola

“Le montagne non mettono in pericolo la tua vita, ti danno la vita”. Così parla dell’alpinismo Jim Reynolds, classe 1993, climber californiano che lo scorso anno ha stupito il mondo con la sua salita in free solo della via Afanassief del Fitz Roy (3.405m) in Patagonia. Il suo rispetto e la sua gioia nel vivere la montagna, uniti all’esperienza maturata sulle pareti dello Yosemite, gli hanno permesso di compiere salite straordinarie non per ambizione o per soddisfare qualche sponsor, ma semplicemente perché sapeva di poterlo fare. Laureato in economia, guida escursionistica e poi membro effettivo dello YOSAR, il soccorso alpino della Yosemite Valley, Reynolds è stato ospite il 18 luglio, nella serata di punta dell’estate 2019 per il ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport” di DF Sport Specialist, dove lo abbiamo incontrato per farci raccontare, in questa intervista esclusiva, com’è diventato uno dei climber più ammirati del mondo a soli 26 anni.

Jim, com’è nata la tua passione per l’arrampicata? Vengo da Weaverville, una piccola città di montagna nel Nord della California, e sono cresciuto esplorando boschi, facendo trekking e guadando fiumi. Le mie scalate sono diventate sempre più verticali, poi è arrivato il desiderio di toccare le cime e di essere più veloce. Tutto è arrivato per gradi, in modo naturale. Quando ho scoperto lo Yosemite, mi sono innamorato del posto e sono tornato stagione dopo stagione, mese dopo mese, finchè ho trovato lavoro lì. Hai praticato molti sport: cosa ti dà in più l’arrampicata? Scalando conosci meglio il tuo corpo e anche la tua parte interiore. Devi compiere movimenti consci, intenzionali e non solo camminare in modo automatico o casuale. Ti porta a conoscere meglio il tuo corpo e le tue reazioni. Impari a prenderti cura anche della mente, perché tutto ciò che fai deve avere un senso. È una specie di arte, che combina la capacità umana con lo splendore della natura, dandoti la possibilità di riempire la tua “coppa della gioia”, per poi distribuirla al resto del mondo. Nell’ottobre 2017 hai compiuto a El Capitan con Brad Gobright il record di velocità al Nose, salendo in 2 ore e 19 minuti. Come ci sei arrivato? È stato il traguardo di un lungo percorso. Salire il Nose è desiderio di ogni alpinista: è al centro dello Yosemite, lo vedi ogni giorno e diventa per forza un obiettivo. Ma è una via lunga e complicata: la prima volta, con un amico, ci abbiamo messo 3 giorni. La seconda un giorno solo. Allora abbiamo iniziato a chiederci se potevamo farlo meglio e più velocemente. A 18 anni siamo stati i più giovani a compiere il concatenamento con l’Half Dome: un piccolo record che mi ha spinto a desiderare di essere più veloce e a cercare un partner che facesse per me. La prima volta che ho scalato con Brad Gobright sul Nose, siamo stati talmente veloci che siamo arrivati al top in poco più di 6 ore invece che in oltre 10, e abbiamo iniziato a pensare che sarebbe stato possibile avvicinarci al record. Abbiamo ripetuto e ripetuto la via finchè abbiamo toccato il tempo dei fratelli Alexander e Thomas Huber. Poi Brad ha avuto un incidente e abbiamo dovuto ritardare. Ma alla fine ci siamo riusciti! Qual è stato il momento più memorabile? Quando abbiamo battuto il tempo di Dean Potter e Sean Leary. Ho grande rispetto per loro, che ora non ci sono più, e per me è stato come rendere onore a loro. Purtroppo, il giorno dopo, un’amica ha avuto un grave incidente in parete mentre tentava il record femminile sul Nose, ed è rimasta paralizzata dal petto in giù. Io sono andato in crisi e mi sono preso una settimana per pensare se tentare il record era quello che davvero

24 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

volevo. Poi ho deciso di sì. Ero consapevole delle possibili conseguenze e le ho accettate. Il giorno del record sono salito senza mai riposare, è stato un po’ come correre più che scalare. Quando abbiamo capito di essere nei tempi giusti, 200m sotto la cima, è partito uno sprint finale per toccare il prima possibile l’albero sulla vetta. Io sono arrivato primo, e ho iniziato a urlare: “Brad, run!” Alla fine abbiamo fatto un tempo di 4 minuti inferiore al record di Alex Honnold e Hans Florine. Un risultato raggiunto con allenamento e molta determinazione. Il Fitz Roy, invece, è stata un’impresa che ha stupito tutti e a quanto pare anche te stesso… In un certo senso sì. Non ho fatto quella salita per farmi notare, volevo salire in cima e mi sentivo semplicemente nella mia “comfort zone”: sapevo che potevo salire e scendere in sicurezza anche da solo. Ho ritenuto che fosse una cosa che ero pronto a fare, nessuna retorica sullo stile di scalata. È una via molto lunga, con neve e ghiaccio, che hai salito e sceso senza corda in circa 15 ore e 50 minuti (difficoltà di 5.10c della scala decimale Yosemite). Quando hai capito che potevi farcela? Era la mia prima stagione in Patagonia: non ero andato lì per il free solo. Il primo mese mi sono guardato in giro, il secondo ho scalato bene, ma non avevo ancora trovato il mio ritmo. Al terzo mi sono sentito finalmente a mio agio con quelle montagne. Avevo mille cartine e volevo salire ciò che mi ispirava. Ho scalato molto con Jason Lakey, poi verso fine stagione ho scalato alcune cime da solo: l’Aguja Rafael, l’Aguja SaintExupéry, l’Aguja Guillaumet, poi ho provato il Fitz Roy dalla via dei francesi Guy Albert, Jean e Michel Afanassief. Al primo tentativo sono tornato indietro dopo 400m, forse ho risentito dei giorni di riposo passati a fare festa con gli amici argentini a El Chaltén… Poi ho detto: è la mia ultima possibilità. Il tempo teneva e stavolta la salita è riuscita. (La via Afanassief, sulla parete Nordnordovest del Fitz Roy, è stata aperta in cinque giorni tra salita e discesa: in vetta il 27/12/1979. Dislivello1700m dall’attacco, sul ghiacciaio alla base della Supercanaleta. Sviluppo 2300m. Difficoltà fino V+ e A2. ED -, ndr). Hai compiuto una salita che ha destato l’attenzione del mondo intero… Io volevo solo salire in vetta al Fitz Roy. Non avevo un compagno, fare la solitaria era l’unica strada per scalarlo. Quando sono tornato in città, mi ha chiamato Rolando Garibotti che rappresenta un po’ la storia della Patagonia e che io non avevo mai incontrato. Mi ha detto: “devi venire immediatamente a casa mia, tu non sai cosa hai fatto”. Mi ha detto che


Jim Reynolds sullo spigolo “The Nose”, pilastro Sud, via storica della Yosemite, sull’impressionante profilo granitico di El Capitan, in un’impresa che nel 2017, stabilendo il nuovo record di velocità, contribuì a diffondere il suo prestigio di climber. [Foto: archivio Jim Reynolds]

avevo compiuto una delle più grandi salite di sempre in Patagonia e così è iniziato il mio rapporto coi media. Io pensavo di tornare alla mia vita di sempre, mai mi sarei aspettato che dopo pochi mesi avrei tenuto una conferenza stampa in Italia, ad esempio. Come è cambiata la tua vita? Ho più lavoro, ma anche più opportunità. Presentazioni, incontri, viaggi, interviste: è tutto nuovo per me, ma mi piace condividere le mie esperienze con le altre persone. La montagna non è egoismo: è un luogo che ti dona una positività che devi portare nel mondo e condividere con le persone. È grandioso avere l’opportunità di restituire un po’ di ciò che la montagna mi ha dato. Per il resto il mio lavoro, i miei interessi e i miei amici sono rimasti gli stessi. Preferisci scalare con gli amici o solo? Credo che sia più bello scalare solo, anche se molti pensano sia troppo pericoloso. Amo le persone e amo stare con gli amici, ma è più questione di scalare senza interruzioni, senza doversi fermare. È noioso fare sicura, è più divertente solo scalare. Queste salite e il tuo lavoro nel soccorso alpino hanno cambiato la tua percezione del rischio? Molti pensano che in montagna ci sia più rischio che nella vita normale. Io credo che la gente non si renda conto che sia pericoloso in generale vivere. Le montagne non mettono in pericolo la tua vita, ti danno la vita.

Trovo che senza montagne si rischi la morte spirituale. Ho pensato molto a queste cose, soprattutto dopo soccorsi molto importanti. Mi sono chiesto: è peggio il rischio di morire o di non vivere? Meglio vivere, e scalare. Ci sono dei soccorsi che ti hanno coinvolto più di altri? Due in particolare. Uno in Patagonia lo scorso anno, quando io e Jason abbiamo portato in salvo un alpinista caduto sull’Aguja Rafael: hanno detto sia stato il primo soccorso riuscito con successo in Patagonia, dove solitamente o te la cavi o resti in parete. L’altro è quello della mia amica Queen sul Nose, rimasta paralizzata dopo una caduta di 35m mentre tentava il record di velocità femminile. Cadendo ha colpito una portaledge, quando siamo arrivati sul posto ho pensato fosse morta. Ho fatto tanti soccorsi in condizioni critiche, con tempeste in arrivo, senza elicottero, di notte. Quando capisci di aver salvato una vita, è davvero speciale, ti rendi conto che qualsiasi sforzo hai fatto, ne è valsa la pena. C’è un feeling con le persone che salvi, c’è un’emozione che rimane e ti fa andare avanti a vivere, e a salvare altre persone. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? L’inverno prossimo voglio tornare in Patagonia. Per il resto, non ho alcun progetto. Il mio primo passo è sempre esplorare in libertà: devo passare del tempo nei luoghi dove mi reco e parlare con le persone locali prima di definire dei progetti.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 25


Mario Panzeri, e il trail running: quando nasce una nuova passione

Da alpinista himalayano ad atleta della corsa in montagna

Ce lo ricordiamo tutti, con la tuta d’alta quota e le mani alzate, sulla vetta di qualche ottomila. Ora invece corre in calzoncini e canotta, incanalando la sua inesauribile energia sui percorsi più impervi delle Alpi con skyrace e ultra-trail. Mario Panzeri, 55 anni, autore di una pagina indimenticabile della storia dell’alpinismo con le sue salite ai 14 ottomila senza ossigeno: oggi ha una nuova passione, quella del trail running. Ha messo alla prova la sua determinazione e la sua resistenza in diverse manifestazioni, ultima in ordine cronologico il Tor des Géants®, ma non gli interessano notorietà e nuovi successi. Umile, come sempre sorridente e un po’ schivo, Panzeri ha solo voglia di cambiare modo di vivere l’alta quota: sempre con passo silenzioso, imponente, sicuro, ma stavolta in cerca di leggerezza e libertà. In questa intervista ci racconta, con la sincerità e l’immediatezza che gli sono caratteristiche, come lo ha conquistato questo sport e che emozioni gli regala.

Mario, com’è nata la tua passione per il trail running? Ho iniziato a correre qualche anno fa grazie al mio amico Marco Rusconi, atleta lecchese già noto per lo skyrunning. Mi aveva invitato a fare una serata a Fornovolasco, dove lui avrebbe partecipato alle “Alpi Apuane Skyrace”. È una gara che lui ha fatto circa una decina di volte, e ormai aveva molti amici sul posto. “Sono andato, ma gli ho detto: però corro anch’io, altrimenti cosa faccio tutto il giorno?” Era una montagna come il nostro Grignone, un bellissimo posto, la gente molto simpatica: mi è piaciuto tanto e da quella volta ho continuato a correre. Tu avevi da poco concluso la scalata ai 14 ottomila senza ossigeno, quindi eri abituato a tutt’altro modo di vivere la montagna. Cosa ti è piaciuto in particolare della corsa? Prima di tutto l’ambiente, completamente nuovo rispetto all’alpinismo d’alta quota, e le persone. È fantastico viaggiare leggero: nello skyrunning non hai lo zaino pesante nè tempi lunghi di preparazione. Un’altra vita, anche se ci sono pro e contro in ogni sport. Dopo qualche gara conosci quasi tutti, fai nuovi amici e ne ritrovi di vecchi. In una recente gara a Gressoney mi è capitato di ritrovare ragazzi conosciuti alla spedizione “K2 2004 Cinquant’anni dopo” organizzata da Agostino Da Polenza: Paolo Comune, Sergio Minoggio e Claudio Bastrentaz. A quanto pare la passione per la corsa è una cosa che abbiamo in comune… Piace la facilità di praticare questo sport. Puoi allenarti con qualcuno, ma anche da solo: non sei legato ad un compagno come nell’arrampicata. Metti calzoncini, canottiera e scarpe, poi vai dove vuoi. L’esperienza però non è del tutto nuova per te: per allenarti alle salite in Himalaya hai sempre salito di corsa la Grigna … È vero, però non è la stessa cosa. Quando vai in montagna, cerchi sempre di spingere di più in salita, ma in discesa non corri mai. Chi ha fatto alpinismo, ha un po’ questo limite: non è abituato a correre in discesa e in pianura, e in qualche modo la “paga”. Io magari in salita supero molti che in discesa mi riprendono … comunque non fa niente, non lo faccio per competizione. Corro perché mi piace: se riesco a migliorarmi sono contento, se non riesco pazienza. Può essere divertente confrontarsi con chi conosci, più che guardare la classifica, ed è comunque un’emozione arrivare all’arrivo. Ci vuole concentrazione, e velocità, perché devi stare attento ai cancelli. Quest’anno ho fatto per la prima volta anche gare di scialpinismo come il Sellaronda, Mezzalama. Con gli sci, dopo la salita ti puoi lanciare senza spaccare le ginocchia, è divertente.

26 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Foto: Gianmario Besana

a cura di Sara Sottocornola

Ultimamente sei attratto dalle ultra-trail, è vero? Sì, mi incuriosiscono molto. Mi sono iscritto alla “Valmalenco UltraDistance Trail” e alla “Monterosa Walser Trail”, ma ho dovuto purtroppo ritirarmi a metà per un problema fisico. Da Gressoney si parte facendo una prima salita 1400m di dislivello: sembrava di fare il km verticale in Grigna, solo che poi ti aspettano altri 7000m di dislivello… sono gare incredibili, devi saperti regolare bene, ci vuole fisico, ma soprattutto testa ed esperienza. C’è gente che dopo due giorni di corsa senza sonno ha le allucinazioni, le stesse che hai anche sugli 8000, quando sei disidratato e non dormi da molte ore. Provi il percorso prima di fare la gara? No, è meglio non saperlo! Com’è andata al Tor des Géants®? Ho voluto provarlo ugualmente anche se avevo una tendinite al ginocchio che sto ancora curando. Ho dovuto ritirarmi, come immaginavo, ma spero di riprovarlo l’anno prossimo. Voglio ringraziare Sergio Longoni che è tra gli sponsor del Tor e mi ha permesso di partecipare, insieme a Patrizia Pensa, lei è tra le migliori skyrunner della zona, una cara amica con cui mi alleno sempre, e nell’ultima edizione ha ottenuto un risultato straordinario. Entrambi corriamo per il Team Pasturo ASD. Ci tengo a ringraziare anche Alberto Zaccagni, Presidente del Team Pasturo, che ha inventato la ZacUP in memoria di suo fratello morto sul Cervino. È anche grazie a lui che mi sono appassionato a queste gare, e ho potuto partecipare al Kima. E grazie a lui rifaremo il “Trofeo Scaccabarozzi” l’anno prossimo. Come ti alleni per queste gare? Ci sono programmi di allenamento specifico con tabelle e ripetute, percorsi progressivi ed esercizi, ma io non sempre li seguo molto: a 55 anni, anche se non arrivo primo, non è un problema. Di solito sono verso metà classifica, qualche volta va meglio e qualche volta peggio, ma a me piace l’esperienza. Non vuol dire che non mi impegno, ci tengo a sottolinearlo: però non sono professionista, ci sono altri molto più bravi di me. Non mi piace quando alle corse si accorgono che ci sono e vogliono farmi partire davanti perché sono “quello dei 14 ottomila”. Ci sono atleti e professionisti che davvero meritano, come Franco Collè, è impressionante la sua velocità, o Daniel Antonioli, che abita ai Resinelli… solo per fare due esempi. Ora è il loro momento.


Le due passioni sportive che alternativamente riempiono la vita di Mario Panzeri. Nella sua attività lavorativa includono però anche gli impegni come guida alpina e come operatore nell’esposizione e nella messa in sicurezza di pareti rocciose e nel ripristino di vie alpinistiche e falesie. [Foto: Gianmario Besana e Alberto Locatelli, nell’ordine]

La corsa in montagna è sempre più amata, sia dagli sportivi che dalle persone normali… Sì è vero, anche qua in zona abbiamo l’esempio della ResegUP. Incredibile come faccia oltre mille iscritti in poche ore. È speciale perché è caratteristica, parti da Lecco e sali in cima al Resegone, torni in città nel pomeriggio, prendi un caldo bestiale, ma fa tanto spettacolo. Altre gare non hanno niente da invidiare come percorso o ambientazione, ma la ResegUP è ormai una gara irrinunciabile: c’è gente che non va mai in montagna, ma quella gara deve farla. È una sfida, è bello che la gente si faccia prendere. Ci hai portato una foto storica con Sergio Longoni. Raccontaci quando è stata scattata… Quarant’anni fa. Avevo 15-16 anni ed ero con mio cugino Federico Panzeri e Sergio Longoni al corso di scialpinismo, sulla Cima di Grem in Val Serina. Niente di difficile, ma Sergio aveva dimenticato le racchette e ridevamo perché ne aveva un negozio pieno. Nel bosco ha preso due bastoni, le ha costruite di fortuna ed è andato in cima. Alberto Locatelli invece ha scattato le foto in cui mi vedete impegnato, appena sotto il Rifugio Brioschi, nello skyrunning. Longoni è sempre stato un amico. Non era un mio sponsor o fornitore di materiale, eravamo troppo amici per andargli a chiedere queste cose. Nelle ultime spedizioni è venuto lui ad offrirci supporto, ma per me è prima di tutto un grande amico e una grande persona.

Qual è stata la gara più bella che hai fatto? Sicuramente il “Trofeo Kima” lo scorso anno, soprattutto per la leggenda che rappresenta questa gara. Ha fatto la storia dello skyrunning. Ci sono molti passaggi impegnativi e cancelli abbastanza stretti, è molto dura, ma sono arrivato al traguardo e sono stato contento. Ho fatto anche la Skyrace sul “Sentiero 4 luglio”, un altro percorso storico. Non ti manca un po’ l’Himalaya, non rimpiangi il periodo degli ottomila? No assolutamente, è stato bello ma è stato un periodo. Ogni tanto mi viene voglia di andare ad arrampicare, ma per adesso mi piace di più correre. I ghiacciai li vedo quando corro… ad esempio quando ho fatto la “Monterosa Sky Marathon”. Il percorso parte da Alagna Valsesia, 1192m, passa da Punta Indren e sale alla Capanna Margherita 4554m, con ritorno per lo stesso itinerario: sono d’obbligo i ramponcini di gomma sotto le scarpe, imbrago e corda … ed era già troppa attrezzatura per i miei gusti di adesso: ormai solo a sentir parlare di ramponi e scarponi mi viene male (ride). Scherzi a parte, sugli ottomila l’attrezzatura è molto pesante e ora mi piace viaggiare leggero. È bello cambiare, nella vita. Non sei più tornato in Nepal o Pakistan? Ho finito gli 8000 nel 2012, sono passati sette anni ormai. Sono tornato solo una volta con Daniele Bernasconi al Talung. Ma non avevo più voglia, mi sono reso conto che mancava la motivazione: star lì a 5000m con una tendina, impiccato su sassi e ghiaccio… basta, ho fatto il mio tempo. Ma mi piacerebbe tornare in Nepal per correre. Ho conosciuto Mira Rai, trail runner nepalese nominata Adventurer of the Year 2017. Abbiamo fatto insieme le ferrate in Erna e Resegone, non aveva mai arrampicato e saliva come un gatto. È simpaticissima e so che sta organizzando una gara di trail running in Nepal: penso che parteciperò e poi magari farò un trekking. Non seguo più di tanto nemmeno l’alpinismo, io sono uno a cui piace fare, non parlare (sorride).

È la foto storica che documenta quanto raccontato nell’ultimo punto dell’intervista. [Foto: Gianmario Besana]

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 27


DF Sport Specialist per AREU Da settembre, in tutti i negozi DF Sport Specialist sono presenti i cartelli e i video informativi “112 - Where ARE U”. È il frutto di una partnership tra l’Azienda Regionale Emergenza Urgenza (AREU) e DF Sport Specialist, per sensibilizzare le persone sull’importanza della geolocalizzazione della chiamata in caso di emergenza per un soccorso tempestivo. Grazie all’APP 112 di AREU (scaricabile gratuitamente), in caso di emergenza, basta premere sull’icona per essere localizzato in tempo reale. L’occasione del primo incontro tra il dottor Alberto Zoli (Direttore Generale dell’Azienda Regionale Emergenza Urgenza) e Sergio Longoni è stato un pranzo organizzato dal Soccorso Alpino della Valsassina in un alpeggio vicino a Pagnona, un paio di mesi fa. Uno di quei pranzi, di cui ci si porta appresso il ricordo dell’ospitalità e dell’amicizia (e, anche, della polenta taragna fumante). Lì, in quella cornice festosa, si è parlato di emergenza, di AREU, del numero unico 112, ed è nata la voglia di collaborare per diffondere la cultura del soccorso, complice anche un “passaggio” dell’elicottero del soccorso sanitario, che ha “fatto visita” all’alpeggio di Pagnona. E così siamo arrivati alla stretta di mano tra Sergio Longoni e Alberto Zoli, che sancisce la firma di un progetto di collaborazione per la diffusione della conoscenza del numero Unico 112, dell’app salvavita Where ARE U e della cultura del soccorso in generale. È un esempio virtuoso di SCOPRI L’APP sinergia tra pubblico e privato che ha come unico obiettivo CHE TI SALVA L A V I T A la sicurezza del cittadino e dimostra ancora una volta 112 Where ARE U che si può e si deve fare squadra per lavorare insieme e contribuire a salvare vite umane.

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Daniel Antonioli, testimonial DF Sport Specialist, si aggiudica il 3° posto alla ZacUP 2019 La skyrace del Grignone, prova delle Migu Run Skyrunner® World Series, si conferma come un evento sempre più importante, prestigioso e di grande richiamo: domenica 15 settembre alla partenza erano presenti 430 atleti provenienti da 21 nazioni, che hanno corso lungo i 27.5 km (2650m di dislivello positivo) della skyrace, con partenza da Pasturo fino alla cima del Grignone e ritorno in paese. L’edizione 2019 verrà ricordata per i record conquistati in entrambe le corse maschile e femminile: Jean Baptiste Simukeka ha vinto, dopo il successo del 2018, stabilendo un nuovo primato della gara con il tempo di 2h49’21” e Denisa Dragomir ha concluso con 3h12’50”, nuovo tempo da battere. Per Daniel Antonioli un ottimo 3° posto e record personale (2h53’01”), a conferma della grande forma di questa stagione per l’atleta del Pian dei Resinelli che ha commentato così la sua gara: “Per me è sempre una grande emozione gareggiare sui sentieri di casa, ma questa edizione della ZacUP lo è stata ancora di più, ho corso pensando a due amici, Gabriele e Davide, che in questa gara hanno creduto e dato tanto. Il momento più emozionante è stato il passaggio al Rifugio Brioschi, non avevo mai visto così tanta gente in cima alla Grigna Settentrionale. Ho veramente dato tutto quello che avevo, nel tratto di discesa più tecnico, dal Rifugio Brioschi al bivacco dei Comolli sono riuscito a guadagnare un breve vantaggio, ma non mi è stato sufficiente avendo alle spalle due forti corridori (Simikeka e Malek) che nei successivi tratti più corribili sono riusciti a fare la differenza. Sono comunque soddisfatto ed il cronometro dimostra che quest’anno sono riuscito a dare qualcosa in più”. Daniel conferma così il grandioso 2019 che lo ha visto primeggiare: Campione Italiano assoluto di Skyrunning (ZacUP), Campione Italiano assoluto di Winter Triathlon, 1° class. Pizzo Stella Sky Race, 1° class. International Veia Sky Race, 1° class. Trofeo Rollandoz Sci Alpinismo, 1° class. Vertical K2000 - Courmayeur, 1° class. Matterhorn Ultraks Extreme a Zermatt (CH), 1° class. La Maratona del Cielo - Val di Corteno (BS), 2° class. International Rosetta Sky Race, 2° class. Skylakes, 2° class. Val Brevettola Sky Race, 2° class. Campionati mondiali di Winter Triathlon, Mixed Relay, 2° class. Livigno Skymarathon, 3° class. Giir di Mont - Premana (LC), 3° class. Circuito La Sportiva Mountain Running Cup, 3° class. Giir di Mont, 3° class. Skylakes, 3° class. Bellagio Sky Race, 3° class. ZacUP Sky Race del Grignone - Pasturo, 3° class. Ledro Sky Race, 5° class. Campionato Mondiale Elite di Winter Triathlon, 7° class. Campionato Europeo di Skyrunning (Veia Sky Race).

28 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

QUANDO CHIAMI UN NUMERO DI EMERGENZA CON WHERE ARE U, LA CENTRALE OPERATIVA DEL 112 PUÒ RILEVARE LA TUA POSIZIONE CON GRANDE PRECISIONE.

QUESTO PERMETTE L’INVIO DI SOCCORSI IMMEDIATI ANCHE NEI CASI IN CUI NON CONOSCI LA TUA POSIZIONE O NON SEI IN GRADO DI FORNIRE DATI PRECISI.


IL RUOLO DELL’ESERCITO NELLE DISCIPLINE SPORTIVE DELLA MONTAGNA

a cura di Renato Frigerio

L’Esercito Italiano come fucina di grandi campioni Li vediamo vestiti nel loro abbigliamento multicolore, caratteristico per chi pratica le diverse discipline sportive della montagna. Li osserviamo, guardandoli per lo più nelle sporadiche riprese televisive, partecipando all’alternarsi delle loro forme di entusiasmo o di rammarico, ma forse non ci siamo mai chiesti chi fossero veramente, interessandoci alle loro vicende personali. Eppure non era cosa da poco vedere le loro impressionanti esibizioni che non potevano non farci riflettere che tutto ciò richiedeva indispensabilmente lunghi impegni di preparazione a tempo pieno. Sapevamo vagamente che questi giovani erano persone inserite tra le fila dell’Esercito per potersi dedicare senza riserve alle discipline sportive di cui si erano innamorati e nelle quali avevano già dato segni certi di una particolare attitudine e di una abilità non comune. Ci riferiamo agli atleti che finora ci hanno tanto appassionato per le loro prestazioni negli sport invernali, gareggiando in discesa e in salita, con sci e snowboardcross, nelle varie specialità, mentre ancora praticamente siamo all’oscuro degli atleti alpinisti che già sono in grado di puntare verso importanti obiettivi e di quei climbers che si stanno allenando per esordire nella prima gara olimpica di questa disciplina. Avevamo la sensazione che molte delle cose che ci sfuggivano riguardo a ciò avrebbero potuto risultare interessanti e soddisfare nello stesso tempo la curiosità di tutti coloro che seguono gli avvenimenti sportivi invernali che si svolgono in montagna. Per essere precisi e credibili anche in questo caso non c’era altro da fare che ricorrere alla fonte, e siamo così giunti nientemeno che al Centro Sportivo Esercito di Courmayeur, dove le nostre corrispondenti sono state ricevute con grande disponibilità e cordialità sia dal Tenente Colonnello Remo Armano che dal Maggiore Davide Dallago. Si è così scoperto che l’organizzazione sportiva dell’Esercito non è un’entità statica, ma una forza in continua evoluzione, tanto che ora si presenta con ben tre diverse ramificazioni operative. Ci siamo resi subito conto che per approfondirne la conoscenza in modo appena sufficiente non sarebbe stato opportuno presentarle tutte e tre in un unico servizio. Abbiamo preferito allora illustrare un singolo argomento su tre numeri consecutivi di “Uomini e Sport”, così che nell’ordine troveremo – “Sport invernali”, Sezione Sci Alpinistico – SSA; “Alpinismo” Sezione militare di Alta Montagna – SMAM; “Formazione e Arrampicata Sportiva”.

Perché un Centro Sportivo Esercito Intervista al Ten. Col. Remo Armano

Ten. Col. Remo Armano, Capo Dipartimento Agonistico CSE RAS Courmayeur

Ai piedi del Monte Bianco, nel cuore di Courmayeur, c’è una caserma intitolata a Luigi Perenni: scialpinista italiano della Scuola Militare di Alpinismo, nel 1936 vinse la medaglia d’oro ai Giochi olimpici invernali di Garmisch nella specialità della “pattuglia militare”, disciplina progenitrice del biathlon, insieme a Enrico Silvestri, Sisto Scilligo e Stefano Sertorelli. Quella caserma oggi ospita l’eccellenza italiana dello sport di montagna, il Centro Sportivo Esercito di Courmayeur – Reparto Attività Sportive, che inquadra da diverse generazioni i migliori atleti provenienti da tutta Italia, in particolare nelle discipline su neve, ghiaccio e montagna, sostenendoli passo dopo passo nella loro carriera sportiva. Gran parte di loro fa parte delle squadre nazionali e partecipa alle principali competizioni nazionali ed internazionali. “Possiamo affermare che lo sport italiano ai livelli più alti vive grazie all’Esercito – afferma il Ten. Col. Remo Armano, già capo dipartimento agonistico del Reparto Attività Sportive – che permette agli atleti di dedicarsi a questa attività come lavoro. Per gli sport cosiddetti “minori” e individuali, il modello degli atleti professionisti completamente spesati da sponsor privati non funziona a livelli tali da garantire loro di dedicarsi a tempo pieno agli allenamenti”. Ma, seppur lodevole, non si tratta di semplice sostegno all’attività sportiva. Il cuore di questo gruppo sportivo militare, il traino che li porta verso l’eccellenza in campo nazionale ed internazionale, è la passione che unisce comandanti, tecnici ed atleti per lo sport e per i valori che esso rappresenta, insieme all’impegno verso la formazione, il rispetto delle regole e del prossimo, e la diffusione della conoscenza della montagna. “All’Esercito si può riconoscere sicuramente un ruolo di fondamentale importanza nella promozione delle attività sportive – aggiunge Armano – ma soprattutto nella diffusione dei valori di correttezza e impegno sportivo a livello nazionale e internazionale”.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 29


La Scuola Centrale Militare di Alpinismo fu fondata ad Aosta nel 1934 per soddisfare l’esigenza della preparazione sci-alpinistica di Ufficiali e Sottufficiali delle Truppe Alpine, del loro armamento ed equipaggiamento. Da allora l’attività si è evoluta ed ampliata fino a comprendere, oltre al Reparto agonistico, altre due realtà che approfondiremo con interviste e notizie nei prossimi due numeri di “Uomini e Sport”: la Sezione Sci Alpinistica (SSA) e la Sezione Militare di Alta Montagna (SMAM). La strada percorsa è stata lunga e ricca di soddisfazioni: ogni anno vengono formati centinaia di professionisti tra ufficiali, sottufficiali e civili, e vengono reclutati in media una decina di giovani atleti che si affacciano al mondo dello sport professionista. Oltre il 90% degli atleti e tecnici azzurri appartengono ad uno dei Gruppi Sportivi Militari e Nazionali di Stato. Ben 16 medaglie olimpiche sono state conseguite dagli atleti del Centro Sportivo Esercito. Citiamo Marco Albarello, leggenda dello sci di fondo, l’incontenibile Mirco Vuillermin, le cugine Zini e più di recente il Caporal Maggiore Lucia Peretti nello short track; il Caporal Maggiore Capo Giuliano Razzoli, oro dello sci alpino a Vancouver, il Caporal Maggiore Scelto Dominik Windisch plurimedagliato nel biathlon, una volta in staffetta con il Caporal Maggiore Scelto Karin Oberhofer e prima storica medaglia individuale nella specialità sprint ; per finire con il 1° Caporal Maggiore Michela Moioli, recente oro nello snowboardcross femminile.

L’evoluzione verso Nuovi Sport Gli ottimi risultati degli atleti dell’Esercito negli sport più innovativi hanno spinto il Centro Sportivo Esercito di investire fortemente nello sviluppo dei settori così detti “minori”, attuando un piano chiamato “Sochi 2014”, attraverso il quale sono avvenuti arruolamenti ad hoc per i settori dello snowboardcross e lo scialpinismo. In particolare la squadra di scialpinismo, disciplina in cui affonda le radici la nascita della scuola militare alpina, è orgoglio storico del Reparto. Attualmente, il 1° Caporal Maggiore Michele Boscacci, 1° Caporal Maggiore Robert Antonioli, Caporal Maggiore Capo Matteo Eydallin, Caporal

Spedizione SMAM La Sezione Militare Alta Montagna è composta da alcuni tra i migliori alpinisti del panorama italiano, Guide Alpine Militari e civili capaci di rappresentare la più elevata espressione tecnica in quota, su montagne di casa o in territori extra-europei. Attualmente è in corso una spedizione al Nemjung (7140m, Nepal), che vede protagonisti il Caporal Maggiore Capo Marco Farina ed il Caporal Maggiore Capo Marco Majori con l’aspirante guida alpina Federico Secchi, avendo anche come obiettivo la salita dell’inviolata cresta Nordovest in stile alpino. Nel prossimo numero di “Uomini e Sport” parleremo della spedizione e dei suoi risultati, con interviste ai protagonisti.

30 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport

Montagna e ambienti estremi La Sezione Sci Alpinistica inquadra i migliori istruttori di sci e alpinismo dell’Esercito Italiano, che hanno il compito di formare tutti i quadri delle Truppe Alpine, con la partecipazione sempre più numerosa di Ufficiali e Sottufficiali di altre specialità dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e di personale appartenente a Forze Armate di Nazioni estere. La sezione forma professionisti del mondo dello sci, dell’alpinismo, del soccorso alpino e dei ricercatori impegnati in missioni in ambienti estremi, come l’Antartide. Nel numero di “Uomini e Sport” della prossima primavera conosceremo la storia, l’attività e gli obiettivi di questo reparto d’eccellenza i cui servizi sono richiesti anche all’estero.

Maggiore Alba De Silvestro sono costantemente in lotta per la vittoria delle gare internazionali, sia nel circuito ISMF che nelle grandi classiche, come il Trofeo Mezzalama, alternandosi stagione dopo stagione alla laurea di Campioni del Mondo. Nello snowboardcross, la vittoria della storica medaglia d’oro a PyeonChang 2018 lo scorso febbraio della bergamasca 1° Caporal Maggiore Michela Moioli ha stravolto positivamente tutto il Centro Sportivo dell’Esercito. Da segnalare anche la crescita del biathlon, grazie alla doppia medaglia olimpica conquistata dall’azzurro di Anterselva Caporal Maggiore Scelto Dominik Windisch. Già capace di un bronzo nella staffetta mista di Sochi 2014, l’alpino si è riconfermato ai vertici internazionali, conquistando la prima medaglia della spedizione italiana in Corea, con il bronzo nella gara sprint, ripetendosi poi nella staffetta mista qualche giorno più tardi.

Reparto Attività Sportive La Sezione Sport Invernali sostiene 95 atleti e 35 tecnici che fanno parte delle Squadre Nazionali Italiane, con un peso determinante all’interno delle Federazioni. Le discipline coinvolte sono: Sci Alpino, Sci di Fondo, Biathlon, Sci Alpinismo Snowboard (alpino e boardercross), Ski Cross, Salto, Sci d’Erba, Skiroll, Slittino su pista artificiale (per la FISI); Short Track (per la Federazione Italiana Sport del Ghiaccio); Lead, Boulder, Speed (per la Federazione Italiana Arrampicata Sportiva); Winter triathlon per la Federazione Italiana Triathlon. Per la nuova stagione agonistica invernale, l’Esercito concentra le energie sulla preparazione olimpica, che terminerà con l’evento internazionale della XXIV Edizione dei Giochi Olimpici a Pechino 2022. Per gli sport estivi, l’attenzione è puntata sulle XXXII Olimpiadi di Tokyo 2020, dove l’Arrampicata Sportiva farà parte per la prima volta del programma olimpico.


Dalla semplice attività sportiva alla funzione di supplenza nel professionismo Intervista al Maggiore Davide Dellago

Maggiore, in che cosa consiste il suo ruolo? Tutte le squadre sportive dell’Esercito (dal fondo allo sci alpino, dal biathlon allo scialpinismo) fanno capo a me per la pianificazione degli allenamenti e delle trasferte. Con il mio team organizziamo i futuri arruolamenti, cercando di capire quali sono le carenze di una squadra e di colmarle con dei nuovi arrivi, e definiamo la direzione che deve prendere il Centro sportivo nei confronti dei vari sport. È un lavoro a 20 mani, perché dallo Stato Maggiore riceviamo 10 o 15 posizioni all’anno per gli atleti e dobbiamo scegliere noi come distribuirle. Qual è il ruolo dell’Esercito nell’ambito dello sport professionistico? Gli sport olimpici, che sono sport minori in Italia, vivono di Forze armate. Nel nostro Paese, fare l’atleta professionista in uno sport che non sia motoristico o di squadra, è praticamente impossibile senza vivere con gruppi sportivi militari. Nelle ultime Olimpiadi, forse solo uno o due atleti sul totale non appartenevano a gruppi militari. Da questo punto di vista l’Esercito oggi può essere definito una società sportiva a tutti gli effetti: siamo la Juventus degli sport invernali. È un grosso investimento per l’Esercito… Molto grosso. Nell’Esercito, a differenza per esempio di Carabinieri e Finanza che offrono subito un lavoro a tempo indeterminato, c’è un contratto temporaneo iniziale di 4 anni, che significa un investimento di circa 100.000 euro per ogni atleta, a cui si somma il costo della struttura che lavora per le squadre. L’impegno economico si basa su un accordo ConiForze armate per il sostegno agli sport minori. Esaurito il periodo agonistico, alcuni atleti lasciano l’Esercito, donando solo il lustro che gli hanno procurato nel corso della loro carriera, ma molti rimangono e diventano istruttori o tecnici. Che cosa insegna l’esperienza nell’Esercito, a livello personale? Personalmente ritengo che gli atleti militari siano – o debbano essere – dei cittadini modello, capaci di darsi degli obiettivi, autodisciplinarsi, essere rigorosi con se stessi, un ottimo esempio per le giovani reclute e per la società. Con la scomparsa della leva obbligatoria abbiamo un po’ perso quel passaggio formativo che accomunava tutti i giovani: comunque si voglia valutare quell’esperienza, era un momento di forte disciplina per i ragazzi, che insegnava a cavarsela da soli e a rispettare le regole. Quando c’era la leva facevate reclutamento interno: è cambiato qualcosa da allora ad oggi? Con la cessazione della leva obbligatoria e con l’entrata delle donne nell’Esercito è cambiato tutto. Prima chi eccelleva in qualche sport, quando riceveva la cartolina di chiamata alla forza armata veniva mandato qui ad Aosta: alla fine del servizio militare, poteva scegliere la carriera oppure no. Dal 2000 in avanti invece sono diventati atleti professionisti a tutti gli effetti, coloro che entrano con bando di concorso come volontari.

Foto: Stefano Jeantet

Il Maggiore Davide Dallago, 37 anni, trentino, è capo dipartimento agonistico al Centro Sportivo dell’Esercito. Di stanza in Valle d’Aosta da 4 anni, ha compiuto tutta la carriera militare a Modena e in Alto Adige. È stato istruttore di sci e sci alpinismo nella sezione sci alpinistica del Centro di Courmayeur, da circa 7 mesi si occupa degli atleti a tempo pieno al fianco del Ten. Colonnello Remo Armano. Voi siete “l’offerta” sul mercato. La domanda supera l’offerta di questi tempi? Se parliamo di sport importanti e molto seguiti, come lo sci alpino o il biathlon, la risposta è sì: la domanda supera l’offerta. Negli sport minori, ad esempio lo slittino, no. A livello complessivo quest’anno abbiamo aperto 15 posti e abbiamo ricevuto circa 70 domande. C’è concorrenza tra i vari gruppi sportivi? I nostri competitor sono i Carabinieri a Selva di Val Gardena, le Fiamme Gialle a Predazzo e le Fiamme Oro a Moena: ci contendiamo gli atleti più forti. La visibilità della Forza armata è molto importante. Quali sono gli sport che vi hanno dato maggiori soddisfazioni negli ultimi tempi? Sicuramente lo snowboardcross, soprattutto grazie all’oro di Michela Moioli: è una squadra molto solida in uno sport giovane, con grande potenziale per il futuro. La squadra dell’Esercito è di fatto diventata la nazionale italiana al 100%. La stessa situazione l’abbiamo nello scialpinismo, dove la nostra squadra, che coincide praticamente con quella italiana, è un punto di riferimento a livello mondiale. Servizio e interviste di Valentina d’Angella e Sara Sottocornola Tutte le fotografie ci sono state assegnate dal Centro Sportivo Esercito di Courmayeur

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 31


La parola di atleti plurivittoriosi

Orgogliosi e soddisfatti della loro scelta di vita Marta Bassino: 1° Caporal Maggiore, 23 anni, atleta sci alpino, 5 podi in Coppa del Mondo, 5^ posto alle Olimpiadi di Pyeongchang.

MARTA BASSINO sci alpino “Sono entrata nell’Esercito a 17 anni, dopo aver ottenuto buoni risultati nella categoria aspiranti. Il fatto di essere stata scelta mi ha resa consapevole delle mie capacità, dandomi così una spinta in più a migliorarmi, cercando di arrivare ad obiettivi sempre più alti. Il valore che più mi ha insegnato questa esperienza è il rispetto, degli altri ma soprattutto di me stessa. Il mio obiettivo è cercare ogni gara di dare il mio massimo per tentare di salire sul podio più volte possibile”.

Michela Moioli: 1° Caporal Maggiore, 24 anni, atleta snowboardcross, campionessa olimpica nel 2018, 2 Coppe del Mondo generali, (10 vittorie in Coppa del Mondo, nel periodo 2013-2019).

MICHELA MOIOLI snowboardcross “Lo sport è sempre stato al centro della mia vita, mi ha insegnato a credere nei miei sogni, a lavorare sodo per realizzarli. Mi ha insegnato che dopo una sconfitta si deve tornare a lavorare meglio di prima, e dopo una vittoria ancora di più, perché i tuoi avversari sono pronti dietro l’angolo per cercare di superarti. Entrare nell’Esercito è stato come entrare in una grande famiglia, sempre presente e disponibile. Inoltre il sostegno economico è stato fondamentale per permettermi di fare solo l’atleta”.

Robert Antonioli: 1° Caporal Maggiore, 28 anni, atleta scialpinismo. 2 Coppe del Mondo overal, 3 coppe di specialità, campione mondiale, Trofeo Mezzalama, Pierra Menta, Patrouille des Glacier.

ROBERT ANTONIOLI scialpinismo “L’Esercito mi ha formato tanto, ho aperto gli occhi sul mondo. Lo sport mi ha insegnato che se si trova un ostacolo o imprevisto sul percorso bisogna usarlo come cavallo di battaglia, e non come scusa per mollare. L’emozione più grande della mia vita da atleta è stata al Mezzalama, quando per la prima volta mio papà è venuto a vedermi ad una gara importante. Per la nuova stagione mi aspetto che nevichi tanto, che i ghiacciai si ricoprano e confido nelle gambe per fare un altro anno di successi”.

Francesco De Fabiani: 1° Caporal Maggiore, 26 anni, atleta sci di Fondo. 1 bronzo ai Mondiali 2019 specialità Team Sprint, 4 podi in Coppa del Mondo (stagione 2019).

FRANCESCO DE FABIANI sci di fondo “L’Esercito e lo sci di fondo richiedono grande costanza negli allenamenti, fiducia negli allenatori e nelle tue capacità. Lo stesso allenamento fatto con convinzione funziona diversamente. La cosa più importante è credere in se stessi, sapere che puoi farcela con il supporto che hai la fortuna di avere: mezzi, allenatori, skimen, prodotti, e compagni di squadra. L’ambiente del fondo è molto competitivo, ma la nostra squadra offre un bell’ambiente ed è molto importante passare 200 giorni all’anno insieme. Resta però uno sport individuale, quindi c’è competizione. Questo aiuta: competizione è motivazione, capacità di cogliere le opportunità”.

Dominik Windisch: Caporale Maggiore scelto, 30 anni, atleta biathlon, bronzo staffetta mista Olimpiadi Sochi 2014; bronzo sprint Olimpiadi PyeongChang 2018; bronzo staffetta mista Olimpiadi PyeongChang 2018; oro Mass Start Campionati mondiali Östersund 2019, bronzo staffetta mista Campionati mondiali Östersund 2019.

DOMINIK WINDISCH biathlon “Chi si arrende non vince mai, e i vincitori non si arrendono mai. Lo sport è il miglior istruttore anche per la vita al di fuori di esso. Anche al di fuori dello sport non ci si deve arrendere mai, e sempre combattere per ciò che si vuole. Le tre medaglie olimpiche sono state un’emozione fortissima, ma darei la stessa importanza a quelle provate da bambino e poi da adolescente, quando iniziavano ad arrivare piccole vittorie personali: sono i momenti che ti danno la motivazione per proseguire e non arrendersi mai”.

32 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport


ABBIAMO LETTO PER VOI

a cura di Renato Frigerio

“L’ASSASSINIO DELL’IMPOSSIBILE – Grandi scalatori di tutto il mondo discutono sui confini dell’alpinismo ” di Reinhold Messner A cura di Luca Calvi e Sandro Filippini

Le caratteristiche: 256 pagine – copertina rigida a colori – fotografie a colori, con altre foto e ritratti b/n – formato 22 x 17 cm – Euro 24,90 – Case editrici: Rizzoli/Mondadori Electa di Milano e BQE Bi Quattro di Trento

Il volume prende lo spunto e il titolo dal cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’articolo di Reinhold Messner, riportato sulla rivista mensile del CAI nell’ottobre del 1968, che si presentava appunto con il titolo clamoroso “L’assassinio dell’impossibile”. Non si può negare che l’articolo, insieme fonte di provocazione e atto di denuncia, abbia avuto lo scalpore che si aspettava e che in effetti non ha perso di vigoria nemmeno ai nostri giorni. Aveva senso ritornare su un’affermazione tanto problematica, che implica di assumersi una risposta responsabile per definire fino a che punto sia lecito ed etico ricorrere a strumenti tecnici per superare ciò che viene ritenuto impossibile. Una corposa pubblicazione diventava opportuna e giustificata, a distanza di tempo, per consentire una risposta ampia e non a senso unico, anche se l’impegno maggiore se lo veniva ad assumere lo stesso alpinista altoatesino. È così che viene realizzato questo importante volume, che è stato praticamente suddiviso in due parti, dove nella prima si possono leggere le sempre interessanti testimonianze di alcuni di coloro che hanno scalato montagne dai primordi dell’ultimo secolo fino alle seguenti due generazioni, Messner compreso, che anche qui ricopre il ruolo di protagonista. Più impegnativa la seconda parte, per il compito di aver dovuto interpellare un cospicuo numero degli esponenti dell’alpinismo degli anni più recenti. Il problema ovviamente è stato inquadrato sotto molteplici e differenti punti di vista, che potranno in diversi modi venire condivisi o meno dai lettori, ma che meritano comunque di venire tutti apprezzati per la lucidità dell’approfondimento e la passione con cui l’argomento è stato affrontato. Nelle risposte dei 42 alpinisti, tutti di alto livello se non addirittura di fama mondiale, si potrà scorgere tanto l’atleta ammirato per le sue doti eccezionali, quanto anche l’aspetto umano, sensibile e razionale, che spesso ci sfugge quando rimaniamo stupefatti dalle loro imprese, ma ci manca la possibilità di conoscere il loro pensiero profondo.

“LA MIA SCELTA - Vita e imprese di una leggenda dell’alpinismo polacco” di Krzysztof Wielicki con Piotr Drozdz Traduzione e adattamento di Luca Calvi

Le caratteristiche: 242 pagine – copertina a 2 ante – fotografie b/n – formato 23 x 15,5 cm Euro 24,90 – Collana “Stelle Alpine” Ulrico Hoepli Editore SpA – Milano

“La mia scelta” è un libro che viene proposto con particolare convinzione ai lettori di “Uomini e Sport”, anche perché ad averci messo molto più di uno zampino è stato Luca Calvi, una persona ben conosciuta ed apprezzata per la sua conduzione e come interprete di diverse serate “A tu per tu”, oltre che per la speciale intervista che gli è stata riservata nella nostra rivista. Ma non è tanto per l’abilità con cui Luca Calvi è riuscito a tradurre alla perfezione il testo polacco, adattandolo nella forma del racconto diretto, che il libro, reso ancora più vivo e interessante, si raccomanda per una lettura che soddisferà pienamente gli appassionati d’alpinismo, trascinandoli in una storia carica di emozioni e di suspense. Il volume si presenta ora come una vera autobiografia di Krysztof Wielicki, uno dei protagonisti di quegli entusiasti polacchi che, a partire dagli anni settanta del novecento, avevano portato la scuola alpinistica del loro paese ai massimi livelli internazionali. Non era stato facile per loro, diventati in seguito personaggi di fama mondiale, come Jerzy Kukuczka, Wojtek Kurtyka e Wanda Rutkiewicz e lo stesso Wielicki, dover partire dal nulla, non avendo a disposizione né una tradizione di riferimento e meno ancora quelle attrezzature d’avanguardia che già agevolavano i grandi alpinisti occidentali. Vedere come lo stesso siano riusciti ad emergere, costituisce già un elemento sorprendente nella narrazione di Wielicki, che di quella pattuglia è stato l’autentico caposcuola. I suoi 14 ottomila himalayani gli appartengono solo come vertice di una collezione di conquiste che si sono alternate tra episodi esaltanti e altri dolorosamente drammatici. Altrettanto significativa della sua scelta è stata la decisione che, a 33 anni, lo portò a lasciare una situazione di benessere e tranquillità economica come ingegnere dirigente in una fabbrica automobilistica, per dedicarsi integralmente alla sua passione per l’alpinismo. In questo caso veniva comunque confermata soltanto la sua scelta originaria, quando non aveva dubbi di come orientarsi verso l’aspetto più severo e proibitivo della montagna, quello che si riferisce alle vette inaccessibili dell’Himalaya, prese prevalentemente di mira come meta di conquista nelle più temute avversità della stagione invernale. La sofferenza e il rischio che lì albergavano, gli fecero scrivere una volta: “Attaccare in inverno una montagna così grande, sconosciuta, con appena una piccola tenda a disposizione, è una cosa che solo un polacco può fare”. Con la sua autobiografia potremo addentrarci in una delle storie più lunghe, più diverse e più avvincenti di quelle che siano mai state vissute e narrate da un alpinista, che ha scelto questa professione per farne l’espressione di una passione innata, che non pone limiti per arrivare fin dove sembra impossibile.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 33


EMOZIONI CHE CONTINUANO: DALLE SERATE DI GIUGNO, LUGLIO E SETTEMBRE

“Arrampicare in Iran”, con Nasim Eshqi Una serata fuori dal comune, che non solo ha raccontato di montagna ma che ha messo a confronto culture diverse, scoprendole più simili di quanto si possa pensare. L’incontro di giovedì 13 giugno con la climber iraniana Nasim Eshqi, per il ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport” di DF Sport Specialist, ha emozionato il folto pubblico accorso al punto vendita di Bevera di Sirtori. di Sara Sottocornola Volitiva, piena di energia, sorridente, ma rispettosa delle regole. Nasim Eshqi, l’unica climber professionista iraniana, non vuole essere definita “rivoluzionaria”, ma considerata semplicemente una donna libera e capace di realizzare i propri progetti. “Non mi occupo di politica, vado in montagna e cerco sempre di seguire le regole dell’ambiente in cui mi trovo –ha detto–. Per me è motivo di orgoglio aver alzato l’asticella delle difficoltà nell’arrampicata del mio Paese, e vedere che ciò che ho fatto attira sia uomini che donne sulle mie orme”. La serata, presentata e tradotta da Luca Calvi, è stata introdotta da Matteo Della Bordella, che ha parlato di Nasim dicendo “ciò che mi colpisce di lei è la voglia di scoprire e di esplorare. Chiodare vie nuove è raro nelle nuove generazioni, che hanno un approccio più sportivo. Lo scambio di complimenti tra Sergio Longoni e Nasim Eshqi ha preceduto i numerosi interventi delle persone che hanno manifestato all’alpinista iraniana la loro ammirazione e le hanno richiesto di approfondire alcuni temi della sua conferenza.

E lei lo fa in stile trad, cioè senza spit, uno stile che comporta un approccio psicologico molto diverso verso la montagna”. Nasim Eshqi ha scalato alcune tra le vie più impegnative in Iran, come “Mr Nobody” (8b+), “Pink Panter” (8b), “Iran-Swiss” (8°+) e ha aperto, in particolare nella provincia di Kermanshah, oltre 70 vie con tecnica trad. Nata a Teheran, capitale della Repubblica islamica presidenziale, nel 1982, ex campionessa iraniana di kickboxing, ha raccontato di aver conosciuto l’arrampicata come nuova sfida, dopo aver raggiunto i massimi livelli nello sport precedente. E di come le abbia cambiato la vita. “Per me è molto importante aver iniziato con l’arrampicata in montagna, e solo dopo quella sportiva in palestra. Si crea un contatto naturale con la roccia, che ha la sua massima espressione nei bambini. Insegnare a loro è la cosa che preferisco: devono iniziare sulla roccia vera: se provano, vorranno continuare per sempre. Toccare la roccia in tenera età è la cosa più naturale”. Nasim Eshqi ha avviato un progetto speciale per insegnare arrampicata ai bambini molto piccoli, superando le difficoltà che molte famiglie iraniane hanno nel trovare materiale come imbraghi e scarpette, organizzando donazioni benefiche. “È importante trovare persone disponibili a starti vicino nella realizzazione dei tuoi progetti e ad accompagnarti per la tua strada –ha detto Nasim–. So che è quella giusta, perché ho visto che altri uomini e altre donne, prima e dopo di me, l’hanno percorsa”.

Immagini veramente accattivanti hanno colpito un pubblico intervenuto anche con un fondo di giustificata curiosità per conoscere quali fossero le prestazioni alpinistiche di una donna giovane e proveniente da un paese con cultura e tradizioni che si prestano a facili pregiudizi.

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Il racconto di Nasim Eshqi ha trovato in Luca Calvi il traduttore ideale per trasmettere con la maggior sensibilità il significato originario delle sue espressioni.


Nasim ha fatto scoprire al pubblico di DF Sport Specialist i luoghi dell’arrampicata in Iran, la cultura, le tradizioni, il territorio e il turismo. “La passione per la scalata è nata qui, poi mi ha portato in altri Paesi per potermi migliorare. Ho iniziato scalando nei paesi vicini come Turchia, Oman, Emirati Arabi. Poi, grazie ad un invito di Stefan Glowacz, ho ottenuto un visto per la Germania: era di un mese, e io ho scalato 27 giorni su 30 spostandomi di notte per non perdere tempo prezioso”. Poi, Nasim ha scalato in Francia, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera, Austria, Italia. È stata anche in Himalaya, dove per ora ha fatto solo boulder e piccole scalate, ma non nasconde il sogno di fare qualcosa di più lungo e impegnativo. “Ringrazio Sergio Longoni per la possibilità che mi ha offerto – ha detto Nasim – e questo pubblico che vedo formato da diverse generazioni: è una cosa buona, vuol dire che c’è un prezioso incontro, uno scambio che fa crescere”. “Una serata diversa, con un una persona che meritava di essere conosciuta. Nasim ha dimostrato cosa possono fare le donne con la forza di volontà, anche nel rispetto delle regole, e che la sua cultura in molti tratti non è così diversa dalla nostra”, ha detto Sergio Longoni consegnandole la piccozza ricordo di DF Sport Specialist.

“Il tempo fa il suo giro”, con Robi Chiappa di Renato Frigerio

C’era da aspettarselo che quell’alpinista affabile, da tutti noto nell’ambiente di montagna, Robi Chiappa, non avrebbe avuto bisogno di un gran tempo per accaparrarsi l’interesse e la simpatia di un pubblico già ben disposto ad entrare nel mondo dell’alpinismo. Un po’ più di immaginazione e uno sforzo di fantasia risultava però indispensabile per individuare nell’aspetto fisico, distinto e venerando, lo stesso alpinista, ormai vicino all’ottantina, che man mano apparirà nelle immagini giovanili e nel racconAi trofei simbolici conquistati sulle vette, to emozionante delle sue innumereRobi Chiappa aggiunge quello reale che gli voli arrampicate. Si è dimostrato una è stato attribuito da un pubblico che lo ha volta di più che non occorre disporre acclamato in una bella serata. della fama di un Messner o di tanti altri alpinisti illustrati da biografie che sono andate a ruba, per conquistare con la narrazione di più modeste imprese tutti coloro che comunque non intendono rinunciare a nessun appuntamento quando si tratta di montagna. Se, forse un po’ scettici, sono però accorsi con fiducia, sono stati pienamente ripagati con la soddisfazione di una serata che rimarrà a lungo nella loro memoria e nel loro cuore. È raro infatti che accada di ascoltare un alpinista che abbia accumulato per tanto tempo i valori che fanno crescere umanamente, lontani dall’applauso e dalle ricompense. Per questo è sintomatico e positivo il fatto che siano state così numerose le persone ad intervenire giovedì 20 giugno presso il negozio di DF Sport Specialist a Lissone, invogliati non tanto da un nome, per i più quasi non ancora accertato, ma certamente da un tema che riesce a incuriosire quando un alpinista si presenta per far considerare “Il tempo fa il suo giro”. Chi si aspettava di ascoltare una storia lunga ed interessante non è stato certo deluso: questa storia è stata ripercorsa in tutta la sua durata di quasi sei decenni. Per di più, stando alle parole del protagonista, si è avuta l’impressione che non sia ancora terminata. Non si può nemmeno pretendere che un’esperienza così prolungata negli anni potesse venire sviscerata nell’ambito di una conferenza: ma un paio d’ore sono però bastate a Robi Chiappa per fornire almeno un’idea di quello che è stata una vita dedicata in tutto e per tutto alla montagna. L’alpinista lecchese del Gruppo Gamma non si é limitato a illustrare soltanto le sue avventurose arrampicate che lo hanno visto attraversare tutti i versanti delle Alpi, da oriente a occidente, per proseguire più volte in impegnative spedizioni extraeuropee, sia nell’ America Settentrionale e Merdionale che in Himalaya. Innamorato com’è di fotografia, le immagini gli hanno continuamente propiziato applausi ed esclamazioni di ammirazione. Proseguendo nel suo racconto, Robi Chiappa ha ribadito anche il suo impegno dedicato alla promozione dell’alpinismo, la sua dedizione nell’ambito del soccorso alpino, il suo assiduo e appassionato contributo per l’affermazione e la crescita del suo Gruppo Gamma, dove si è distinto come uno dei fondatori e del quale ha avuto l’onore di essere stato votato per guidarlo attualmente come presidente. La sua conferenza ha avuto anche momenti di cordiale colloquio con il pubblico, che interveniva con vivace interesse, tanto da farla tramutare come in un festoso raduno, dove l’alpinismo e la montagna si manifestano nella loro genuina e coinvolgente realtà. La serata si è conclusa con un forte, interminabile applauso, che il protagonista potrà difficilmente dimenticare.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 35


“Record di velocità in Yosemite, free solo sul Fitz Roy”, con Jim Reynolds Ha compiuto una delle salite più ammirate e difficili dell’alpinismo moderno, senza quasi rendersene conto: voleva semplicemente andare in cima. Jim Reynolds, 26 anni, ospite il 18 luglio alla serata del ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport” nel negozio DF Sport Specialist di Bevera di Sirtori, con la prima presentazione in Europa della sua salita in free solo sul Fitz Roy in Patagonia. È quanto di più lontano si possa immaginare dai “soliti” climber: non vive di sponsor, lavora nello YOSAR (Yosemite Search and Rescue); non parla solo di roccia, ma ama la montagna a 360°, dall’esplorazione alla bici, dalla cultura al paesaggio. di Sara Sottocornola

Jim Reynolds al centro è affiancato da Sergio Longoni e Luca Calvi: insieme per salutare il pubblico numeroso, all’inizio di una serata che risulterà avvolta da una speciale atmosfera di afferrante commozione.

Una rara intensità di emozioni si è palesemente rivelata sul volto degli intervenuti, che hanno potuto cogliere spunti di interessanti novità nel protagonista che ama la montagna al di là del suo aspetto di climber fuori classe.

Anche le parole di commiato di Sergio Longoni hanno contribuito a lasciare un ricordo particolare di questa serata, dove alla viva simpatia acquisita dal giovane alpinista si è aggiunto l’orgoglio per averlo potuto avere come ospite in anteprima in Italia.

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La sera del 18 luglio, Reynolds, con la sua simpatia, il suo entusiasmo e la sua concretezza, ha letteralmente conquistato i moltissimi appassionati di alpinismo e arrampicata intervenuti alla serata presentata e tradotta da Luca Calvi. Reynolds ha raccontato cinque storie di alpinismo e di soccorsi, dall’amicizia con Dave con cui ha scoperto l’arrampicata, alle prime salite in Yosemite, fino al record sul Nose compiuto con Brad Gobright, per concludere con le salite patagoniche e all’eccezionale soccorso sull’Aguja Rafael (2.482m) compiuto con il “coach” Jason Lakey, poco prima della salita in free solo sul Fitz Roy. “Le prime salite in Yosemite erano emozioni uniche – ha detto Reynolds. Vedevo che riuscivo a scalare gradi sempre più difficili senza cadere, e quasi non ci credevo. Ho continuato a tornare lì finchè non ho deciso di trovarmi un lavoro per poterci vivere”. Prima guida escursionistica, poi membro effettivo dello Yosar, Reynolds conosce per esperienza ogni lato della montagna, da quello più rischioso a quello più romantico. Questa consapevolezza gli permette di affrontare con uno spirito incredibile anche le salite più difficili. “Ho cercato gente dispersa, recuperato feriti, a volte persone senza vita. A volte con i miei colleghi abbiamo rischiato la nostra per dei soccorsi, come dopo la frana su El Capitan del 2017. Mi sono reso conto di quanto possa essere pericoloso sia scalare che soccorrere, e io so di voler diventare anziano, forse anche vivere per sempre. Ma queste riflessioni non mi hanno fermato, mi hanno aperto nuove prospettive: non voglio rischiare di morire, ma nemmeno di non vivere”. I suoi record sono frutto di questo atteggiamento, non nascono da colpi di testa o ambizione eccessiva ma solo dall’amore per la montagna. “Il record sul Nose è arrivato dopo una lunga preparazione e 11 salite in cui abbassavamo il tempo sempre un po’ di più”, racconta Reynolds. La salita in solitaria, lungo la via Afanassief sul Fitz Roy, è avvenuta il 21 marzo 2018 in circa 15 ore e 50 minuti: Reynolds è salito e ridisceso lungo lo stesso itinerario, un dislivello di quasi 1600 metri, senza corda e sempre in libera, suscitando lo stupore dell’intero ambiente alpinistico. “Volevo semplicemente andare in cima, ma non avevo un compagno: la finestra di bel tempo era breve e non potevo fare altro che andare da solo. Sapevo che era difficile, ma sapevo anche di poterlo fare. Conclusa la salita, pensavo di tornare alla mia vita normale, invece al rientro mi hanno detto “tu non sai cosa hai fatto”. E nella mia vita c’è stata una piccola rivoluzione: mai avrei pensato che dopo pochi mesi sarei stato chiamato per una serata in Italia, ad esempio”. Alla fine della serata Sergio Longoni ha donato a Reynolds la piccozza firmata DF Sport Specialist. “Questa piccozza per noi è segno di progressione – ha detto Longoni – te la doniamo con l’augurio di andare avanti sulla tua strada, già così brillante. Siamo orgogliosi di averti qui da DF Sport Specialist e in Italia: sei un ragazzo speciale per la tua simpatia e per la tua bravura”.


“Non abbiate paura di sognare”, con Nicola Tondini Arrampicata di alto livello, panorami mozzafiato e un profondo excursus sull’etica delle salite. È stata una serata di grande successo quella che si è svolta giovedì 19 settembre, presso DF Sport Specialist a Bevera di Sirtori, con la guida alpina Nicola Tondini. Per il ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport”, l’alpinista veronese ha presentato alcuni spezzoni del docufilm “Non abbiate paura di sognare” scritto e prodotto con Sergio Rocca, con la regia di Klaus Dell’Orto. di Sara Sottocornola Tondini, Rocca e Dell’Orto, tutti e tre presenti nel negozio di Bevera di Sirtori, hanno presentato e commentato alcuni spezzoni del film dedicato dell’apertura e ripetizione della “Direttissima” alla Cima Scotoni, sulla parete Sudovest della montagna, che si specchia nel laghetto di Lagazuoi: una via tra le più difficili delle Dolomiti Ampezzane, che raggiunge una difficoltà massima di X (8b) ed un obbligatorio di IX- (7b+). “Ho lasciato tanto di me su quella parete – ha detto Tondini, raccontando perché ha voluto narrare quest’avventura –. È un film dedicato a tutti, perché parla di un sogno da realizzare. Per me era l’apertura di quella via”. Il film, ancora in tour tra i Filmfestival, uscirà nei cinema in inverno. I temi affrontati con sapiente uso di immagini, racconti e parole, toccano ogni appassionato di montagna: il fascino delle pareti dolomitiche e il rispetto dell’etica, la capacità di superare i propri limiti, la rinuncia che fa diventare lo scalatore sempre più forte, la salvaguardia dei territori di montagna. Tondini pone l’accento sulla storia, senza la quale non si può guardare al futuro. “L’etica è rispettare la montagna, ma anche chi è passato prima di noi su quelle pareti – spiega –. La mia idea era salire in libera già in apertura, e abbiamo affrontato tanti insuccessi prima di concludere il progetto. Aprire la via è un’arte, la sincerità è essenziale nel mio alpinismo”. Nel film, i contributi di tre grandi dell’alpinismo: Reinhold Messner, Christoph Heinz e l’indimenticato Hansjorg Auer. “Heinz cominciò a farmi sognare a 18 anni – dice Tondini – con la sua via aperta sulla Cima Scotoni, una delle prime che portavano in parete i gradi di difficoltà delle falesie. Mi ha dimostrato come superare i propri limiti. Auer rappresenta per me l’alpinista completo, e nelle sue parole risalta il lato spirituale dell’alpinismo che ha la stessa importanza di quello fisico e mentale. Messner ci ha regalato un’intervista che tocca il profondo di ognuno di noi”. “Ognuno di noi ricerca le sue emozioni – dice Messner nel film –. Ma le trova solo se è capace di superare le incognite che incontra. Il sogno è la base di ogni attività: solo se qualcuno sogna forte diventa forte”. “Abbiamo visto qualcosa di straordinario e coinvolgente – ha detto Longoni a fine serata ringraziando i suoi ospiti e consegnando la piccozza d’oro a Tondini –. Il racconto di tre campioni di arrampicata che realizzano un sogno. DF Sport Specialist ha organizzato oltre 210 serate, ma ogni volta c’è qualcosa che ci sorprende”. La serata, organizzata in collaborazione con Climbing Technology, era stata preceduta da un simpatico riconoscimento riservato con uno spazio particolare all’atleta DF Sport Specialist – Patrizia Pensa, skyrunner brianzola che ha partecipato all’appena conclusa edizione del Tor des Gèants ottenendo risultati straordinari: a 55 anni, si è classificata 44° sul totale di 980 partecipanti, 6° tra le donne e 1° tra le donne V2” (categoria dai 50 ai 60 anni). “Ringrazio DF Sport Specialist per l’opportunità – ha detto la Pensa ricevendo la piccozza d’oro dalle mani di Sergio Longoni –. Ora mi aspettano ancora un paio di gare e poi la preparazione per il prossimo anno di competizioni”.

In questi casi non si riesce a capire se il più emozionato sia l’atleta premiato o lo stesso Longoni.

Una significativa immagine del docufilm “Non abbiate paura di sognare”.

Certamente anche Patrizia Pensa è una donna che ha affrontato le gigantesche gare di corsa in montagna senza nessuna “paura di sognare”.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 37


EVENTI DF SPORT SPECIALIST

a cura di Cristina Guarnaschelli

Nuovo record di partecipanti!

9° Staffetta bike + running DF Sport Specialist “Memorial Ermanno Riva e Piero Girani” Una macchina organizzativa affiatata, la passione per lo sport e un clima di amicizia in un ambiente montano che inizia a colorarsi d’autunno, hanno caratterizzato la 9° Staffetta Bike+Running, Memorial Ermanno Riva e Piero Girani, organizzata domenica 6 ottobre, da DF Sport Specialist. La partecipazione all’evento, con partenza da Pasturo (Lc) e arrivo al Bivacco Riva–Girani (loc. Comolli), registra di anno in anno numeri sempre maggiori: 235 i partecipanti di questa edizione, 91 in singolo (maschile e femminile) e 72 in coppia (maschile e femminile o mista). La formula a staffetta della gara ha previsto una prima frazione in mountain bike, con partenza da Pasturo e arrivo all’Alpe Coa, lungo un percorso di circa 9 km. La seconda frazione è per gli appassionati di running: la partenza dall’Alpe Coa e l’arrivo al Bivacco Riva–Girani (loc. Comolli, 1850m), con un percorso in salita di circa 500 metri di dislivello. Il ricavato delle iscrizioni è stato devoluto da DF Sport Specialist in beneficenza. Un sentito ringraziamento a Cai Barzanò, Team Pasturo, Soccorso Alpino, Comune di Pasturo, Bar Sporting e a tutti i volontari.

CLASSIFICA Singolo maschile 1° Trincavelli Davide 57:11,68 2° Abate Matteo 57:55,23 3° Vittori Lorenzo 58:05,81 4° Sala Moreno (Testimonial DF Sport Specialist) 58:20,70 5° Ratti Carlo 58:38,40 Singolo femminile 1° Beretta Simona 1:11:40,68 2° Sangalli Barbara 1:13:49,91 3° Beri Paola 1:14:35,13 4° Cazzaniga Laura 1:29:58,00 5° Brambilla Alessia 1:31:14,00 Staffetta Maschile 1° Paredi Simone – Ruga Fabio (Testimonial DF Sport Specialist) 55:50,11 2° Beretta Mattia – Brivio Alessio 56:46,27 3° Panzeri Davide – Melesi Lorenzo 57:51,71 4° Brambilla Davide – Cavalleri Mattia 58:16,27 5° Tavola Stefano – Rigonelli Dario 59:56,07 Staffetta femminile 1° Guerrera Martina – David Sabrina 1:05:32,78 2° Maggioni Manuela – Casiraghi Monica (Testimonial DF Sport Specialist) 1:13:24,58 3° Colombo Martina – Cereda Marta 1:21:33,56 Staffetta mista 1° Artusi Roberto – Benedetti Debora 59:20,43 2° Bonaiti Rigamonti Stefano – Gilardi Daniela (Testimonial DF Sport Specialist) 1:04:09,41 3° Brambilla Davide – Fumagalli Chiara 1:05:20,13

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Venerdì 21 giugno: la giornata Internazionale dello Yoga, festeggiata insieme a DF Sport Specialist e Freddy Il punto vendita milanese DF Sport Specialist, in via Palmanova 65, è stato il teatro di un’emozionante serata dedicata allo yoga, organizzata in collaborazione con Freddy nell’ambito di una serie di appuntamenti aperti al pubblico, completamente gratuiti, e caratterizzati dall’hashtag MOVEYOURMIND. Praticare yoga è un’esperienza che coinvolge tutte le componenti del nostro essere, a partire dal corpo, dalla mente e dallo spirito con l’obiettivo di creare un’unione in perfetto equilibrio che ci possa permettere di raggiungere uno stato di pace interiore. In molti ad aderire all’evento che ha visto il tutto esaurito nelle due sessioni organizzate dalle ore 18.30 nell’area esterna del negozio DF Sport Specialist: le due speciali lezioni di Yoga Odaka® sono state condotte dall’insegnante Charlotte Lazzari con il magico accompagnamento musicale delle note dell’handpan di Riccardo Rea. Molte sono le tipologie di yoga che si possono praticare, in particolare lo Yoga Odaka® scelto per queste lezioni ha uno stile che deriva dalla pratica delle arti marziali unita allo spirito Zen della pace mentale: la pratica diventa energia in movimento, il tutto eseguito in modo molto fluido sempre rispettando e ascoltando il proprio corpo come Charlotte Lazzari ha ricordato all’inizio di ogni esercizio, “se puoi”. L’allestimento particolarmente curato ha permesso di creare un evento che ha regalato ai partecipanti un’esperienza unica e di grande benessere pur essendo all’aperto e in città: all’invito iniziale dell’insegnante di aprire le spalle e raddrizzare la schiena per “aprire il cuore”, da qui in poi la lezione è stata un susseguirsi di movimenti dinamici ma fluidi in cui il respiro si è fatto più lento e più consapevole. Al termine della lezione a tutti i partecipanti è stato regalato lo Yoga Mat by Freddy e un buono sconto DF Sport Specialist per l’acquisto di articoli Freddy.

DF Sport Specialist e CAB uniti nel progetto “Gruppi di cammino” L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che uno stile di vita sedentario aumenta tutte le cause di mortalità, raddoppia il rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari e diabete, favorisce sovrappeso e obesità, e aumenta il rischio di alcuni tipi di tumore, fa aumentare la pressione, aumenta rischio di osteoporosi, ma peggiora anche l’umore promuovendo l’insorgenza di depressione e ansia. I dati evidenziano che oltre la metà della popolazione mondiale conduce uno stile di vita sedentario, e la sedentarietà è diventato uno dei problemi di salute pubblica più gravi e più sottovalutati di questi anni. Secondo l’OMS, per “attività fisica” si intende “qualunque movimento determinato dal sistema muscolo-scheletrico, che si traduce in un dispendio energetico superiore a quello delle condizioni di riposo”. L’OMS raccomanda di svolgere almeno 30 minuti di attività fisica moderata al giorno per combattere la sedentarietà e prevenire l’insorgenza di malattie croniche. Per godere dei benefici del movimento, non è necessario raggiungere subito i 30 minuti al giorno ma basta iniziare gradualmente a muoversi, facendo diventare questo nuovo stile di vita una sana abitudine quotidiana. Uno stile di vita corretto è il modo migliore per promuovere la salute e ridurre il rischio di ammalarsi e l’esercizio fisico è uno strumento efficace a disposizione di tutti. Il cammino è un gesto naturale, fisiologico, ben tollerato, non richiede particolari abilità, né equipaggiamento tecnico, bastano indumenti comodi ed una scarpa adeguata. Camminare regolarmente contribuisce fortemente a contenere e prevenire diverse patologie, inoltre camminare in compagnia di altre persone, stimola la socializzazione e favorisce l’autostima portando benefici a livello psicofisico.

Uomini&Sport | Ottobre 2019 | 39


“I miei cammini” verso Santiago de Compostela In viaggio come i pellegrini di una volta: zaino in spalla e via con tanta voglia di mettersi in cammino per giorni e giorni, lungo un percorso ricco di storia, di significato, di incontri che emozionano, di paesaggi che tolgono il fiato. L’esperienza del cammino è sudore, fatica, stanchezza ma soprattutto tanta bellezza, gioia e serenità, tutto condensato spesso nella stessa giornata in un vortice di emozioni vissute intensamente lungo un cammino che non è solo fatto di passi sul sentiero ma che è anche un cammino interiore, per rimettersi al centro e ritrovare i valori autentici. Per Eugenio Zappa, Buyer Bicimania – DF Sport Specialist, il Cammino di Santiago è diventato un appuntamento ricorrente negli ultimi anni, un momento di stacco del quale ci dice di sentirne il bisogno per ritrovarsi e per dare il giusto peso ai fatti della vita. “Ho iniziato con il primo cammino nel 2013 durante il quale ho percorso il tratto finale da Ponferrada, che si trova negli ultimi 200km del cammino francese, fino a Santiago dove ho ricevuto la Compostela, un documento religioso in latino, rilasciato dall’autorità ecclesiastica di Santiago de Compostela, che certifica il compimento del pellegrinaggio per motivi spirituali, religiosi, culturali o per semplice divertimento. Il primo cammino mi ha conquistato e coinvolto molto a livello emotivo: e così mi sono rimesso in viaggio nel 2015, decidendo questa volta di partire dall’inizio del percorso a Saint Jean-Pied-de-Port per arrivare fino a Burgos percorrendo 280km; nel 2017 ho rimesso lo zaino in spalla, i chilometri sono aumentati, raggiungendo quota 300, così come le emozioni che questo viaggio mi ha donato, da Burgos sono arrivato a Ponferrada. Quest’anno invece ho deciso di fare il tratto che viene definito “il cammino inglese” da Ferrol a Santiago de Compostela, 118km, circa una metà con vista oceano per poi passare attraverso paesaggi dove la natura la fa da padrona insieme alla pace e al silenzio.” Da solo o in compagnia di un amico, Eugenio è partito ogni volta dedicando l’esperienza ad una persona a lui cara e lasciandosi trasportare dalle emozioni, dalla bellezza interiore e dalla spiritualità che si sprigiona dal semplice gesto del camminare e della contemplazione delle meraviglie della natura. “Lungo la strada capita di camminare da soli, dipende molto anche dal periodo dell’anno in cui lo si percorre, ma capita raramente: molto spesso si incontrano persone provenienti da ogni parte del mondo e si cammina insieme, fianco a fianco, non ci si conosce ma, con la naturalezza che si ha quando ci si confida con un amico, ognuno racconta la sua storia, il suo perché di questo percorso. Questi incontri sono di una ricchezza straordinaria, ti fanno capire il valore della condivisione delle esperienze e che le difficoltà della vita ti aiutano a riportarti all’essenziale, all’autentico, ai valori. E così lungo il percorso succede di ricevere dei segni, sta a noi saperli cogliere e ricevere un significato: questa è la magia del cammino.”

40 | Ottobre 2019 | Uomini&Sport


AMICI IN CORRISPONDENZA...

Da Giuliano Fabbrica di Seregno Nella giornata del 12 maggio si è svolta una delle uscite programmate per l’anno 2019 dalla Rete Passaggio Chiave (rete per la cura delle dipendenze composta da servizi pubblici, comunità terapeutiche e scuola di alpinismo regionale ALPITEAM). La nostra destinazione è stata la Valsassina, e precisamente Pasturo, per risalire poi verso la “Baita Comolli”, poco sotto la cima del Grignone. Ad aspettarci abbiamo trovato Sergio Longoni, che ancora una volta con la sua attenzione e la sua ospitalità ha riconfermato l’attenzione verso la nostra Rete. Il suo sostegno è andato oltre l’importante ruolo “tecnico” che in questi anni si è espresso attraverso la generosa e costante fornitura di materiale per l’attività: in questa occasione ha aperto le porte della sua bellissima baita ai Comolli accogliendo, ospitando e rifocillando tutti i componenti del gruppo “Passaggio Chiave”. Dopo una significativa camminata ad una temperatura ben al di sotto della media stagionale, abbiamo potuto giovarci del calore di un ambiente famigliare, che ha saputo mettere al centro i bisogni degli escursionisti, ai quali il caro Sergio ha risposto ottimamente! Insieme a DF Sport Specialist, Longoni ha dimostrato di essere oramai un nodo fondamentale nella Rete, condividendone i principi e le motivazioni, valorizzando l’ambito montano come strumento di supporto ai processi di cura nei problemi di dipendenza. Siamo ancora confortati di questa bella esperienza che ci è stato consentito di vivere, con l’auspicio di una duratura prosecuzione della collaborazione tra DF Sport Specialist e Rete “Passaggio Chiave”.

Da Ugo Ranzi di Peschiera Borromeo Quest’anno Don Agostino Butturini compie 80 anni. Il grande merito dello sviluppo dell’arrampicata nelle zone comprese tra la Rocca di Baiedo e l’Angelone va senz’altro attribuita al suo intuito e alle sue attività col gruppo dei Condor da lui creato. Oggi è normale pensare a falesie, spit, salite di fondovalle, ma negli anni ’70 l’idea della vetta era ancora predominante. Don Butturini è stato un precursore e grazie a lui gioielli come la Lama, la Solitudine, Anabasi sono a disposizione di tutti gli appassionati di arrampicata. Ho trovato spesso su quelle pareti stranieri provenienti da parecchi paesi europei: quelle salite sono conosciute anche all’estero. (Don Agostino Butturini è stato un sacerdote per lungo tempo impegnato nell’educazione dei giovani come responsabile della scuola media del Collegio Arcivescovile Alessandro Volta di Lecco. Avendo incluso nella sua spiritualità la montagna e l’arrampicata come componenti di rilevante importanza, ha saputo trasmettere la stessa passione ai suoi ragazzi, sui quali ha sempre tenuto un rapporto di accattivante simpatia. Grazie a questa situazione sono scaturite le condizioni che hanno consentito negli anni ’70 la costituzione del gruppo Condor, dove i suoi alunni hanno trovato l’ambiente ideale per una reale formazione umana con la pratica dell’arrampicata a contatto con la montagna, ndr).


I PROSSIMI APPUNTAMENTI ALLE SERATE “A TU PER TU CON I GRANDI DELLO SPORT”

STORIE DI SOCCORSO ALPINO

DESENZANO DEL GARDA (BS) Centro Commerciale Le Vele Via Marconi, angolo Via Bezzecca Tel. 030-9911845

ore 20.30

Bevera di Sirtori

MAPELLO (BG) Centro Commerciale Il Continente Via Strada Regia, 4 Tel. 035-908393

MATTEO DELLA BORDELLA

ore 20:30

Saronno - Gerenzano

“La mia vita tra zero e 8000”

ore 20:30

28/11/2019

Milano - via Palmanova

“Dalla Paganella a Pechino, con gli sci sulle nevi della Via della Seta”

A TUTTI I PRESENTI

SKIPASS OMAGGIO

ore 20:30

05/12/2019

MEDA (MB) Outlet by DF Sport Specialist Via Indipendenza, 97 Tel. 0362-344954 MILANO Via Palmanova, 65 (Ampio parcheggio) MM2 UDINE/CIMIANO Tel. 02-28970877 OLGIATE OLONA (VA) Via Sant’Anna, 16 a fianco di Esselunga e Brico Tel. 0331-679966

HERVÉ BARMASSE

FRANCO GIONCO

GRANCIA / LUGANO (Svizzera) Parco Commerciale Grancia Via Cantonale, Grancia Tel. 0041-919944030 LISSONE (MB) Multisala UCI Cinema Via Madre Teresa / Via Valassina Tel. 039-2454390

“La via meno battuta”

21/11/2019

BELLINZAGO LOMBARDO (MI) Centro Commerciale La Corte Lombarda Strada Padana Superiore, 154 Tel. 02-95384192 CREMONA Centro Commerciale Cremona Po Via Castelleone, 108 Tel. 0372-458252

“Nell’ombra della luna”

14/11/2019

I NEGOZI DF SPORT SPECIALIST:

Desenzano

A CONCLUSIONE DEL NOSTRO RAPPORTO ANNUALE CON I LETTORI DI “UOMINI E SPORT” DF SPORT SPECIALIST SI AUGURA CHE PER TUTTI FINISCA IN FORMA FELICE E AUSPICA CHE L’ANNO 2020 SIA PRODIGO DI GIOIA E SERENITÀ www.df-sportspecialist.it info@df-sportspecialist.it sede tel. 039 921551

ORIO AL SERIO (BG) Via Portico 14/16 in prossimità del Centro Commerciale Orio Center Tel. 035-530729 PIACENZA Centro Commerciale Galleria Porta San Lazzaro Via Emilia Parmense Tel. 0523-594471 SAN GIULIANO MILANESE (MI) Centro Commerciale San Giuliano Via Emilia angolo Via Tolstoj Tel. 02-98289110 SARONNO (VA) c/o Centro Commerciale Bossi Via del Malnino, 5 - GERENZANO Tel. 02-09997330 SIRTORI (LC) - località BEVERA Via Delle Industrie, 17 (Provinciale Villasanta Oggiono) Tel. 039-9217591

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