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la conservazione in situ non è una questione tecnica. è la riflessione sul progetto sociale che primeggia
(M. Colardelle 2000)
La conservazione dei ruderi non può essere improvvisata ma deve essere prevista ancora prima delle campagne di scavo.
La conservazione del patrimonio archeologico costituisce un campo di notevole incuria dove le devastazioni apportate dal generale disinteresse sono la causa dei danni maggiori (R.Francovich, 1982)
Il restauro archeologico, inteso prevalentemente come conservazione di “reperti” provenienti da scavo archeologico, qui è utilizzato come un ampio ambito interdisciplinare di restauro (con tutte le diverse accezioni che questo termine contiene) di aree archeologiche e manufatti architettonici allo stato di rudere indipendentemente dal fatto che possano avere o meno una destinazione funzionale1
Anche se l’interdisciplinarietà è riconosciuta a livello di principio come la migliore forma di intervento, nella pratica, gli interventi su manufatti archeologici continuano a rivelarsi un campo minato di estrema complessità quando emergono i punti di vista parziali dei diversi operatori, preoccupati di non perdere presunte posizioni di privilegio ma anche quando, per altro verso, prende il sopravvento “… la fascinazione dell’obiettivo, la sindrome del seguire il leader” (C.Brunelière, 2002).
Per i ruderi2, sia quelli che provengono da uno scavo archeologico sia quelli che sono già fuori terra, si continuano a proporre parziali o totali ricostruzioni, talvolta aggiornate soltanto nell’impiego di materiali o procedure di applicazione, con maestranze non specializzate perché provenienti dall’edilizia corrente e che utilizzano capitolati derivati da quelli impiegati nella costruzione di un nuovo edificio. I risultati più evidenti sono la cancellazione delle tracce della storia costruttiva dell’edificio a causa di una omogeneizzazione di superfici diverse e a causa di una diffusa trasformazione di strutture tendenzialmente elastiche in strutture a maggiore rigidezza che presenteranno sensibilità e vulnerabilità verso futuri eventi calamitosi e/o periodi di abbandono. Nelle aree archeologiche e nei monumenti allo stato di rudere la fase 2 dell’evento calamitoso (periodo di incubazione)3 rischia di assumere
1 “L’esperienza ci ha insegnato che la tutela è efficace solo se attiva; solo, cioè, se si realizza il riscatto del monumento dallo stato di abbandono e conseguente degrado, se recupera l’opera alla funzione originaria, ovvero se le attribuisce finalità nuove, ma in armonia o almeno compatibili con le caratteristiche che danno significato al monumenti”. L’osservazione di P.Gazzola (1968) è certamente condivisibile ma diventa di difficile applicazione nel caso di molti ruderi per i quali il riutilizzo risulta impossibile.
2 “È necessario differenziare il rudere dalla emergenza archeologica. Quest’ultima infatti necessita di cautele conservative e preventive nel momento stesso del disinterro, per prevenire i danni, rapidi e irreversibili che seguono la messa in luce dei materiali archeologici. Per rudere preferisco intendere quelle strutture che hanno già superato, presumibilmente con danni di vario tipo, la fase critica della messa in luce, ed hanno poi subìto un degrado più lento (ma non meno grave) ad opera di fattori ambientali, antropici, chimici e fisici” (S.Pulga, 2008).
Le risposte a esigenze turistiche poco attente agli aspetti conservativi può provocare interventi condizionati da soluzioni prevalenti di “immagine”.
Un monitoraggio costante può costituire un efficace strumento di interpretazione del progressivo deperimento e anticipare le migliori strategie conservative e di valorizzazione.
3 Per un monumento allo stato di rudere è possibile applicare lo schema delle fasi di un disastro: fase 1- punto di partenza (normalità apparente), fase 2- periodo di incubazione, fase 3- evento precipitante, fase 4- innesco, connotazioni ancor più delicate perché gli “eventi premonitori” possono risultare naturalmente meno avvertibili a causa della naturale o acquisita labilità ma anche perché il pericolo viene meno sentito a causa di un diffuso atteggiamento di riluttanza nei confronti del rischio.
Le architetture antiche presentano frequentemente la paradossale condizione di essersi conservate in forme quasi originarie per tempi lunghi e costituire, proprio per questo, giacimenti ad alto potenziale. di informazione. Ma succede di frequente che monumenti che pure si erano adeguati a condizioni naturali esasperate non possano sopravvivere se subentrano estreme cause esterne, spesso antropiche. Una delle cause più ricorrenti è lo stesso scavo archeologico quando non è condotto con una adeguata attenzione ai problemi conservativi immediati e alle successive azioni manutentive4.
Il manufatto interrato raggiunge un certo equilibrio con l’ambiente che lo circonda. Questo vuol dire che delle ogni mutazione del sistema ambientale provoca variazioni dell’equilibrio e conseguenti reazioni strutture nel tentativo di raggiungere una nuova stabilità.
Cause di deperimento nelle aree archeologiche
fase 5- soccorso e recupero (primo stadio di adeguamento), fase 6- adeguamento completo.
4 Non possiamo ignorare il fatto che, soprattutto in regioni ritenute a vario titolo marginali e perciò ricattabili, lo scavo archeologico possa assumere anche il ruolo di palestra di addestramento per operatori che sono, così, autorizzati ad operare in maniera sensibilmente più disinvolta di quanto non sarebbe permesso fare nelle loro nazioni.
Le cause di deperimento nelle aree archeologiche sono le stesse che si trovano in altri siti e monumenti ma si presentano in forme e frequenza diverse. In molti casi si presentano con evidenze improvvise e drammatiche (crolli di murature e fronti di scavo, soprattutto, ma anche allagamenti) più spesso, però, in maniera continua e subdola i cui effetti si renderanno manifesti soltanto a distanza di tempo. Quando, ormai, la situazione generale è degenerata al punto da non permettere più valutazioni ragionevoli e interventi fattibili, se non al prezzo di rilevanti impegni scientifici e costi esorbitanti. È evidente come i primi meccanismi degenerativi si attivino proprio a seguito delle operazioni di scavo archeologico se non sono attivati accertamenti diagnostici preventivi e procedure di cantiere attente ai problemi conservativi. I limiti sembrano essere costituiti dal fatto che gli eventi vengono considerati prevalentemente in sé come se fossero indipendenti dalle cause che possono averli provocati. In molti casi sembra non sia possibile nemmeno definire il limite tra cause naturali e responsabilità umane. Bisogna ammettere che una vera cultura del rischio, efficacemente definita «un aspetto culturale fondamentale della modernità, per il quale la consapevolezza dei rischi sostenuti diventa un mezzo per colonizzare il futuro» (A.Giddens, 1991) è ancora lontana nelle pratiche del restauro, e ancor più nel restauro archeologico, pur a fronte di formulazioni teoriche generali.
Il progressivo degrado dell’area di scavo: in primo piano lo scavo di due anni prima, al centro lo scavo di un anno prima di quello in corso.
Un “pre-consolidamento” di cautela diventa d’obbligo prima delle operazioni di scavo.
Situazioni particolarmente difficili avrebbero potuto essere contenute con interventi conservativi in corso di scavo.
La protezione delle creste può essere determinante per la salvaguardia del nucleo murario.
Avviene non di rado che ci si accorga del patrimonio storico solo per costatarne la perdita o, comunque, per denunciare danni ormai irreparabili. Le segnalazioni si moltiplicano in occasioni di disastri di maggiore impatto e che sempre più frequentemente rischiano di diventare una normalità a causa di una sciagurata politica di sfruttamento che peggiora già precarie condizioni naturali. Tali denunce sono destinate a non avere alcun seguito apprezzabile (a parte improvvisate risposte emozionali) se non quello di aprire nuove vie di investimento straordinario destinato, nella maggior parte dei casi, a causare ulteriori peggioramenti. Il risultato più evidente di molte campagne archeologiche è di avere aree lasciate in abbandono, fronti e sezioni di scavi non protetti e destinati a degradarsi ancor prima della ripresa della campagna successiva. La componente antropica non è assolutamente marginale; non raramente rappresenta la più frequente e grave causa di deperimento del patrimonio culturale, direttamente (guerre, vandalismo, furto …) o indirettamente (abbandono, cattivo uso …). Strutture già naturalmente labili diventano ancor più vulnerabili quando vengono escluse da programmi di manutenzione ordinaria oppure quando sono soggette a un pesante e incontrollato riuso. È il caso di edifici da spettacolo antichi (gli unici che possono essere riutilizzati con funzioni congruenti con quelle originarie) che sono sottoposti a sollecitazioni sproporzionate e adeguate a una normativa di sicurezza che non sembra attenta ai problemi del restauro. Strutture già naturalmente labili possono acquisire una forte vulnerabilità quando sono soggette a una sovraesposizione funzionale o d’immagine che ne stravolge l’aspetto e la logica costruttiva. Gli effetti degenerativi possono presentarsi con meccanismi veloci ed evidenti ma, più spesso, con meccanismi lenti e subdoli i cui effetti si rendono evidenti soltanto in fasi avanzate. È probabile che siano i monumenti classificati come “minori” (spesso sulla base di dubbie e pretestuose categorie di merito) a subire i danni più pesanti per una generalizzata minore attenzione nei loro confronti e perché più facilmente vengono forzati a rispondere ad aspettative fortemente condizionate da interessi imprenditoriali. Altre volte possono essere i monumenti più importanti a rischiare di subire azioni degenerative (graffitismo, per esempio) quando non si tratti di vere azioni terroristiche mirate proprio al loro valore simbolico. L’unica soluzione sembra essere quella di un consapevole crescita civile attraverso l’educazione e il coinvolgimento. Un passo importante può essere non considerare i cantieri di scavo e di restauro aree chiuse ed esclusive ma piuttosto come luoghi di educazione permanente, archivi da tutti consultabili attraverso l’organizzazione di percorsi didattici, segnaletiche e attività formative capaci di coinvolgere i visitatori e provocare risposte adeguate5.
5 “La conservazione in situ non è una questione tecnica. È la riflessione sul progetto sociale che primeggia” (M.Colardelle, 2000).
Meccanismi degenerativi nelle aree archeologiche
Il rilevamento diagnostico dei meccanismi degenerativi più ricorrenti in un’area archeologica e/o struttura muraria mira a evidenziare le forme patologiche e dimensionarne le incidenze anche in relazione alla velocità con cui tali fenomeni si presentano eccezionalmente o, più frequentemente, si ripropongono in maniera ciclica. In particolare si possono indagare fenomeni relativi a:
• perdita di verticalità delle strutture edili: differenze dei materiali lapidei, differenze di apparecchio, rovesciamento di cresta, slittamento al piede, spinta mediana, cedimento di base, degenerazione per scavi non protetti;
• perdita di orizzontalità: smembramento degli elementi di piccola taglia, rovesciamento degli elementi di grande taglia, spostamento di elementi per calpestio o lavorazione, erosione della terra, differenza dei materiali lapidei, degenerazione per scavi archeologici non protetti;
• perdita di allineamento: differenze di comportamento dei muri (spessori, materiali, leganti…), sollecitazioni esterne;
• vegetazione: vegetazione diffusa o concentrata non controllata, differenze di apparato radicale, presenza di alberi isolati o concentrati, vegetazione su terreni di riporto;
• presenza di acqua: acque meteoriche diffuse e aree di ristagno, linee e superfici di concentrazione di acqua, acque ritenute da piante o terreni smossi, inefficaci sistemi di raccolta e smaltimento;
• presenza di vento: effetto vento dominante, vento a raffica e incanalato, effetto Venturi ed effetto vela sotto le tettoie.
La parete in posizione di crollo rappresenta una nuova singolare cresta di non facile protezione.
Le osservazioni saranno estese a
Fenomeni erosivi si rendono maggiormente evidenti dopo una sospensione stagionale non adeguatamente protetta.
• superfici delle terre e delle rocce: terreno vegetale non controllato, terreno lavorato, terreno di scavo non orizzontale, differenze di terreno e contato con materiali diversi, presenza di materiali di accumulo, differenza di consistenza delle stratificazioni, pareti di scavo verticali o non verticali;
• lle situazioni più ricorrenti nelle aree archeologiche:
• strutture murarie parzialmente o totalmente scavate: perdita di geometria in verticale e/o orizzontale, erosioni concentrata e/o diffusa in cresta, erosione o scalzamento al piede a causa di acque meteoriche di ruscellamento e di infiltrazione, degradazione/dissesto a causa di vegetazione pericolosa o potenzialmente pericolosa, perdita di parti a causa di scavi archeologici non protetti, quadri fessurativi riconoscibili e plessi fessurativi estesi, espulsione di parti in cresta, al piede o mediane;
• aree di scavo: erosione diffusa e per ruscellamento delle superfici verticali e orizzontali, perdita di geometria e stondamento degli spigoli, accumuli di materiali di erosione, allagamenti in aree impermeabili o rese tali, fenomeni di espulsione di materiali, vegetazione infestante, fronti di scavo abbandonati.
Le sistemazioni protettive devono tener conto delle future opere di manutenzione dei ruderi e della eventuale estensione degli scavi.
Le patologie da abbandono sembrano rappresentare una comune causa di deperimento di aree archeologiche e monumenti allo stato di rudere. Una delle singolarità che questi presentano è la dinamica con cui gli eventi si sviluppano e la variabilità costante delle condizioni in cui i manufatti si trovano a vivere. La difficoltà di conservazione di manufatti edili archeologici non dipende tanto dal fatto di essere stati per molto tempo sotto terra quanto piuttosto dai bruschi cambiamenti delle condizioni a cui sono soggetti durante lo scavo, alla variabilità delle condizioni ambientali che troveranno in seguito e al frequente stato di abbandono in cui verranno spesso lasciati prima di interventi che diventeranno, pertanto, inadeguati. Il danno diretto è destinato ad ampliarsi quando, alla ripresa dei lavori (sia che si tratti di interruzioni stagionali sia che si tratti di periodi molto più lunghi), lo stato di deperimento giustificherà interventi più pesanti, spesso resi necessari dalla intenzione di rendere comprensibili siti e monumenti che una politica più attenta avrebbe potuto conservare in originale. Infiltrazioni di acque meteoriche, microtraumi strutturali, forzature ad ambienti inadatti e non protetti, utilizzi parziali incongrui, piante a sviluppo incontrollato, ma anche atti di vandalismo, conducono a una ciclicità di sollecitazioni che, pur se di modeste proporzioni, possono mettere in moto meccanismi nuovi e più pericolosi che, quasi sempre, si renderanno manifesti solitamente quando porre rimedio sarà più difficile e costoso. I fenomeni di degrado dei materiali e dissesto delle strutture in siti lasciati senza protezione hanno decorsi solitamente subdoli, difficilmente controllabili. Il rinvio a tempi successivi è imputato, nella quasi maggioranza dei casi, a mancanza di mezzi economici anche quando per le campagne di scavo si sono resi disponibili rilevanti finanziamenti. La pretestuosa impossibilità di prevedere gli esiti di uno scavo archeologico e delle parziali demolizioni di strutture murarie conduce spesso a giustificare l’abbandono del sito/monumento nella convinzione che a conservare ci sarà sempre tempo. In molti casi, di fatto, si assiste alla progressiva perdita di parti originali che azioni conservative e manutentive tempestive avrebbero potuto contribuire a conservare a costi ragionevoli.
Ricerche recenti indicano che le dinamiche di danneggiamento seguono curve caratterizzate da periodi di relativa stabilità (nei quali i manufatti sembrano adeguarsi alle condizioni locali) seguiti da improvvisi picchi di peggioramento e, poi, da un nuovo ciclo di apparente stabilità. Se non si possono assicurare procedure di efficiente manutenzione nei periodi di interruzione dei cantieri si dovrebbero, almeno, predisporre programmi di monitoraggio che possano suggerire interventi di riparazione mirata e provocare azioni di pronto intervento. Questi dovranno svolgersi secondo un calendario che tenga conto delle dinamiche degenerative più frequenti e la velocità con cui si sviluppano.
La procedura che prevede il rinterro delle strutture rimesse in luce non sempre è vantaggiosa perché non annulla i rischi di perdite di parti 6 .
6 All’art. 4 della Carta di Venezia (1931) si legge: “Quando invece la conservazione di rovine messe in luce in uno scavo fosse riconosciuta impossibile, sarà consigliabile, piuttosto che votarle alla distruzione, di seppellirle nuovamente, dopo beninteso, averne preso precisi rilievi. È ben evidente che la tecnica di scavo e la conservazione dei resti impongono la stretta collaborazione tra l’archeologo e l’architetto”.
Le strategie conservative adottate durante gli scavi possono risultare determinanti per la futura conservabilità dei reperti mobili e quelli destinati a restare in situ.
L’efficienza del sistema di raccolta e smaltimento delle acque meteoriche è legata alla efficacia della manutenzione ripetuta nel tempo.
La vulnerabilità dei resti è strettamente legata alle operazioni di cautela adottate durante gli scavi.
Edifici riscavati a distanza di tempo mostrano comunque nuove e non meno pericolose forme degenerative. Progetti basati su soluzioni tecnologiche ritenute (erroneamente) affidabili e prodotti edili ritenuti inalterabili, nella pratica, pur risolvendo momentaneamente alcuni problemi, sono destinati al fallimento nel giro di pochi anni quando le evidenze di degenerazione possono ripresentarsi, non di rado, in forme più dannose. La conoscenza del costruito antico, se vuole essere efficace e utile, non può fare a meno di indagini sui materiali edili e sulle tecnologie costruttive, sulle economie delle risorse, sulle fonti di approvvigionamento delle materie prime e le procedure di trasformazione, sulle modalità di impiego su vasta scala o con eccezionalità di soluzioni, sulle procedure di produzione e posa in opera, sulla gestione del cantiere antico, sulle dinamiche di uso e di riutilizzo (compresi i correttivi e gli inevitabili adattamenti apportati in epoche antiche) e di abbandono (istantaneo o progressivo, voluto o forzato), sulle trasformazioni avvenute nel tempo, sull’esistenza di soluzioni protettive o conservative antiche, sulla permanenza di procedure costruttive impiegate fino a tempi recenti. Importanti, però, possono risultare gli avvenimenti dall’epoca del rinvenimento o della presa in carico a oggi per cause naturali oppure per cattivo uso (compresi restauri sbagliati e scavi non attenti ai problemi conservativi), abbandono o vandalismo.
In estrema sintesi si può affermare che il restauro archeologico sia costituito da atteggiamenti protettivi nei confronti di manufatti edili allo stato di rudere e di aree archeologiche e la messa in atto di procedure conservative che ne permettano la sopravvivenza in condizioni non inferiori a quelle in cui sono arrivati a noi, per un tempo sufficiente (durabilità). La conservazione e la loro manutenzione sistematica hanno anche lo scopo di salvaguardare il potenziale di informazioni che i manufatti (ma solo se conservati “in originale”) potranno dare in futuro. La durabilità potrà variare in maniera determinante in conseguenza delle procedure di scavo7 e conservative adottate.
Un aspetto non secondario da tenere in considerazione è la compatibilità che non può essere riferita soltanto ad aspetti fisico-chimici ma deve comprendere ambiti che riguardano la compatibilità storica, ambientale, socio-culturale, operativa (procedure di intervento). Si tratta di organizzare una specifica catena operatoria che sia capace di rapportare ogni decisione e ogni azione tecnica, anche se isolata, al complesso di decisioni e azioni tecniche nelle quali ha senso. Analizzare la sequenza di un processo produttivo equivale a individuare i singoli sottosistemi che lo costituiscono e definire lo schema delle relazioni che intercorrono tra loro e i relativi condizionamenti.
7 È ovvio che lo scavo vada condotto nel rispetto delle regole dell’archeologia; il restauratore, però, può suggerire alcune strategie cautelative che in conseguenza delle diverse vulnerabilità che caratterizzano siti e monumenti possono ridurre i rischi a livelli accettabili. Si pensi, per esempio, alla utilità di scavi “a cantiere” in alternativa a scavi “open area”.
Lo stesso sito a distanza di circa venti anni (oggi è scomparso).
Lo smembramento delle murature è stato facilitato dalla mancanza di una efficace opera di manutenzione.
Rischio E Vulnerabilit
•Tra i motivi che si portano a giustificazione del ritardo o incompletezza degli interventi conservativi ci sono anche quelli che si basano sulla idea che non sia possibile prevedere quali situazioni potranno incontrarsi durante gli scavi e, quindi, la pratica impossibilità di porre in atto le necessarie procedure conservative. Nella pratica se dal punto di vista del “rischio archeologico”1 le variabili possono essere numerose, per quanto riguarda lo stato di conservazione le variabili si riducono spesso a una casistica limitata di patologie conosciute o comunque riconducibili a classi note di degrado dei materiali e dissesto delle strutture. Il rischio2 definisce le conseguenze che si attendono, in termini di incertezza dei tempi in cui un fenomeno potrebbe avvenire, la gravità ed entità dei danni che un evento può determinare. Le carte di rischio sono, allora, mappe di pericolo. Nei cantieri di restauro e ancor più in quelli di scavo archeologico (caratterizzati da occupazioni temporanee, tempi ristretti e scadenze capestro, modalità esecutive singolari e impiego di mezzi non sempre adatti a fornire livelli di sicurezza adeguati nonché la presenza di operatori non sempre o non adeguatamente avvertiti dei rischi) non è infrequente addirittura un atteggiamento di “negazione del pericolo”. Le misure preventive, e soprattutto quelle a cui si ricorre solo dopo che si è verificato -e non di rado, ripetuto- un disastro, possono essere percepite spesso come una passiva ottemperanza alle normative piuttosto che un mezzo attivo per scongiurare, o almeno limitare, i rischi reali.
Una scheda di certificazione preliminare del rischio ha lo scopo di definire il/i tipo/i di rischio a cui il sito o il manufatto possono essere soggetti. Deve tener conto delle fonti di rischio che derivano dalla localizzazione e dal contesto ambientale. La vulnerabilità va valutata in relazione alle caratteristiche dei singoli manufatti e alle possibili interazioni tra essi (anche alla luce delle informazioni che si possono avere sulla “storia dei danneggiamenti” e delle riparazioni), la individuazione e indicazione dei possibili peggioramenti nel tempo per cause naturali e quelle indotte dalle lavorazioni che vi si compiono, le informazioni necessarie per migliorare l’efficacia delle operazioni, identificazione dei mezzi, delle risorse e del personale (livelli di competenza e abilità operative, singole e di squadra a disposizione).
1 Va segnalata la non marginale differenza di significato che l’espressione “rischio archeologico” contiene in ambito archeologico (eventualità che si rinvenga qualcosa) e in quello conservativo (rischio che il rinvenuto vada in malora).
2 Alla definizione del rischio (UNESCO, 1984) concorrono i seguenti fattori: pericolosità H (probabilità che un fenomeno potenzialmente dannoso -hazard- si verifichi in un dato periodo di tempo, in una data area e per determinate cause di innesco), elementi a rischio E, vulnerabilità V e rischio specifico Rs (grado di perdita atteso a causa di un dato fenomeno).
Non esiste un modello standard di scheda diagnostica, utilizzabile in ogni occasione, per il rilevamento dei danni di un monumento archeologico. Le valutazioni vengono fatte sulla base di criteri personali e delle esperienze dei singoli operatori. Una scheda di vulnerabilità non avrebbe molte possibilità di essere esauriente e, soprattutto, condivisibile da tutti poiché non esiste un linguaggio comune nella descrizione del danno e degli
Rischio nelle aree archeologiche
La definizione rischio archeologico viene riferito, nella quasi totalità dei casi, alla segnalazione di aree archeologiche e al potenziale di rinvenimenti. Le carte del potenziale archeologico sono uno strumento, facilitato dalle procedure che l’informatica mette a disposizione, certamente utile per la pianificazione territoriale ma ancora non del tutto attento ai problemi conservativi e ai rischi di deperimento più o meno rapido a cui le aree archeologiche fuori terra e/o ancora interrate possono essere esposte. La Carta del rischio Archeologico redatta dall’ISCR è “un sistema informativo territoriale di supporto scientifico e amministrativo agli Enti statali e territoriali preposti alla tutela del patrimonio culturale”. A scala locale la carta del rischio permette di formare quadri conoscitivi a scale diverse e più adatte alle singole realtà e, quindi, la successiva elaborazione delle più adeguate politiche di gestione dei rischi e di corretto uso del territorio. Tra i rischi più frequenti che possono riguardare un’area di scavo archeologico, oltre a quelli direttamente connessi alla presenza di un cantiere edile in generale, si ricordano: i rischi che dipendono dalla mobilità, quelli di natura igienico-sanitaria, presenza di canalizzazioni e condutture (gas, elettricità …) aeree o sotterranee, impianti di terra e di protezione contro scariche elettriche, rischi di seppellimento, di annegamento, caduta dall’alto, lavori in galleria o contatto con strutture labili …; le aree di scavo archeologico potrebbero entrare in pericoloso conflitto con scavi di sbancamento (o saggi archeologici già effettuati e non protetti, aree di deposito, postazioni fisse di attrezzature, recinzioni …). La presenza occasionale nel cantiere di figure atipiche (p.e. il fotografo o il topografo che operano in maniera meno sistematica) può complicare ulteriormente l’organizzazione della sicurezza. Nel cantiere di scavo un problema può essere rappresentato dai “volontari” (soprattutto studenti) che, impegnati in una non facile attività di apprendimento, potrebbero presentare una personale minore capacità di autotutelarsi e una ridotta attenzione nei confronti del manufatto su cui stanno operando. La “Carta del danno archeologico” non va riferita soltanto allo stato di conservazione ma, partendo dalle cause di danneggiamento, può essere utilizzata come strumento di monitoraggio dei siti e dei monumenti e fornire dati per una previsione di danno futuro. La tecnica detta “l’albero dei guasti” (Fault Tree Analysis) bene si presta alla individuazione e registrazione degli scenari incidentali.
elementi che caratterizzano i singoli fenomeni degenerativi da cui dipenderanno, in pratica, le definizioni dei livelli di vulnerabilità. Uno schema di massima per la valutazione del rischio deve comprendere i seguenti punti:
• comprensione della minaccia e saperla “confinare” in un ambito controllabile e gestibile;
• valutazione del livello di pericolosità e della velocità con cui gli eventi si potrebbero evolvere fino a raggiungere punti di irreversibilità;
• previsione di quali potranno essere i danni e di quali potranno essere i livelli di recuperabilità;
• conoscenza delle procedure necessarie per limitare i danni e/o di quelle necessarie alla gestione della documentazione.
Documentazione dinamica
Il restauro archeologico presenta la singolarità di essere condizionata dalle dinamiche con cui gli interventi avvengono e alla costante variabilità delle condizioni in cui il sito e i manufatti si troveranno a vivere. È evidente come a questa variabilità di condizioni (a sviluppo lento o improvviso, prevedibile o non prevedibile) debba inevitabilmente corrispondere un costante aggiornamento delle indagini e la continua registrazione dei dati che progressivamente emergono. Vanno registrate le differenze tra fenomeni ciclici a breve sviluppo (alternanza giorno-notte), medio sviluppo (variazioni stagionali) o lungo sviluppo così come vanno registrate le variazioni omogenee e lineari nel tempo e quelle “a salti”. La ripetizione delle indagini, gli aggiornamenti costanti su situazioni per le quali normalmente si crede di avere tutte le informazioni possono rappresentare un utile strumento per ridurre le complicazioni che si possono avere in un cantiere a causa dei tempi di cui i singoli gruppi di specialisti hanno bisogno; tempi diversi a seconda delle finalità con cui vengono eseguite. D’altra parte, la richiesta di tempi diversi per completare un saggio di scavo è spesso diversa da quelli che invece servono per indagini sui materiali. Si capisce quanto importante possa essere riscontrare e differenziare fenomeni presenti da lungo o breve tempo; fenomeni antichi ma ormai stabilizzati e altri ancora attivi, fenomeni più recenti attivi o (almeno apparentemente) già fermi. Si tratta di accertare gli elementi più rappresentativi della dinamica delle trasformazioni avvenute. Non di rado e soprattutto nei siti/ monumenti con storia di lunga durata, è possibile che alcune delle tracce relative al degrado di lunga durata, trasformazioni, reimpiego, degrado e dissesto (cause naturali o antropiche) possano essere documentate a causa di riparazioni, asportazioni, demolizioni che diventano, così, tracce guida per le interpretazioni anche delle stratificazioni costruttive e delle relative correlazioni cronologiche. Importante è l’accessibilità alla documentazione; la pratica di “deposito” in archivi consultabili potrebbe facilitare l’ampliamento e il miglioramento delle informazioni sui monumenti di una certa area. Le singole esperienze potrebbero costituire un capitale comune e rappresentare un vero ed efficace strumento per la redazione di una carta del rischio di valore territoriale. È come se si definisse un quadro delle patologie complessive di una Comunità (e quindi dei rischi collettivi possibili) basandosi sull’analisi delle singole cartelle cliniche.
Il rinterro, solitamente considerata una pratica efficace, spesso risulta nociva a causa delle differenti condizioni di compattezza e idrauliche dei terreni.
In pochi mq di muratura si notano diverse soluzioni di protezione delle creste (diversamente accettabili). Il loro “collaudo” può orientare scelte successive.
Di grande utilità può risultare la disponibilità di un indirizzario di personale specializzato3 e addestrato a cui far riferimento sia in condizioni “normali” che, in particolare, quelle di “emergenza”. Il permanere di condizioni di instabilità o peggioramenti più o meno improvvisi potrebbero far precipitare la situazione a livelli ancora più gravi4. La definizione di uno scenario di danni avvenuti e di quelli potenziali (più o meno prevedibili) diventa prioritario perché può costituire la base di partenza di qualunque intervento. In un’area archeologica si possono organizzare campagne di indagini finalizzate che, come nel caso di eventi sismici (studi di zonazione sismica del territorio) siano in grado di determinare la severità dei fenomeni attesi in una regione estesa o in un sito specifico. In una scala ridotta e in conseguenza degli obbiettivi delle indagini si possono avere studi di microzonazione, allo scopo di valutare le condizioni normali e le eventuali modifiche (protezioni, puntellamenti, riempimento di lacune, coperture …), più o meno stabili, adottate a contrasto delle sollecitazioni che derivano dalla singolarità delle condizioni locali, dalla predisposizione (naturale e/o acquisita) a subire danni che territorio e manufatti hanno (catalogo degli eventi significativi). La valutazione probabilistica della pericolosità locale e l’individuazione dei fenomeni (scenario degli effetti attesi) può condurre alla definizione dei possibili peggioramenti o mitigazioni. In condizioni di necessità le indagini possono basarsi su accertamenti speditivi sulla vulnerabilità (metodologia adottata, modalità di svolgimento del censimento, determinazione dell’indice di vulnerabilità degli edifici…).
Il rinvio di operazioni conservative può innescare meccanismi degenerativi che sarà difficile e costoso contenere a distanza di tempo.
3 Il ricorso a specializzazioni non di rado può costituire solo un pretesto. Su un altro versante, altrettanto delicato per il restauro, avviene la stessa cosa, quando si ritiene che basti avere una stazione totale per autonominarsi un buon rilevatore.
4 Per avere un riferimento si consideri la scala dei livelli ed estensione dei danni agli elementi strutturali basata sulla scala macro-simica europea EMS98 che prevede danni nulli, leggeri, medi, gravi, gravissimi e crolli. Interessante è la definizione del danno medio-grave che pur senza arrivare al limite di perdita di parti del manufatto provoca comunque un cambiamento in maniera significativa la resistenza della struttura. Le cause che rendono difficile l’utilizzo di una scheda diagnostica proveniente da altri contesti riguardano la difficoltà di riconoscimento delle numerose tipologie e materiali variabili in maniera sensibile anche all’interno dello stesso manufatto, la variabilità dei comportamenti di strutture fortemente frammentate; le condizioni ambientali del contorno; le difficoltà di previsione del comportamento delle strutture in relazione alla complessità del sito e delle strutture; la variabilità dei livelli di approfondimento che è possibile assicurare in conseguenza del tempo, dei mezzi e del personale di cui si dispone.
È evidente come una stessa sollecitazione o uno stesso tipo di incidente possano produrre conseguenze di volta in volta diversificate. Sulla base di una maggiore o minore predisposizione al collasso (basata su confronti con situazioni-tipo più o meno generalizzabili) si costruisce un indicatore di vulnerabilità. Nel caso di rischi di esondazione, per esempio, le valutazioni probabilistiche si basano sull’analisi di serie storiche e valutazioni di gravità per mezzo di scale empiriche. Nella valutazione della pericolosità dovute a scavi archeologici o cantieri di restauro risulta difficile eseguire valutazioni sui “tempi di ritorno” e, quindi, valutazioni sul ripetersi degli eventi. La situazione è destinata a complicarsi quando non si tratta di manufatti scavati da tempo (e che in qualche modo sono entrati in sintonia con l’ambiente circostante) ma di aree e monumenti ancora coinvolti in dinamiche ambientali (per esempio le sollecitazioni termo-igrometriche, le variazione dei carichi statici e dinamici). Al concetto di pericolosità è opportuno, allora, sostituire quello di pericolo che non ha alcuna valenza probabilistica. È evidente come anche un esame speditivo possa dare dei buoni risultati ma è ovvio che, in tal caso, determinante diventa la capacità e l’esperienza di chi esegue le perizie pur se condizionate da limitate percezioni soggettive. In un altro ambito disciplinare si tratterebbe di una sorveglianza sanitaria che comprende visite mediche ripetute e accertamenti specialistici5. Nella valutazione dello stato di conservazione di un sito e dei livelli di rischio presenti/prevedibili, a fronte di un insicuro quadro di conoscenze e la difficoltà di definire realistici scenari futuri, si dovrebbe adottare una strategia che è riconducibile proprio al principio di precauzione.
5 “troppo spesso un paziente viene curato da più medici che non dispongono di informazioni sul suo stato di salute o sulle medicine che prende […] l’edificio sopravvive all’insapienza del suo terapeuta, ma solo con il tempo è in grado di raccontare il suo disagio” (Treccani 2000).
In un fronte di scavo lasciato senza protezione si possono innescare meccanismi di vulnerabilità soprattutto in presenza di murature di piccolo apparecchio.
La protezione delle creste murarie, insieme alle integrazioni delle lacune, costituisce la più frequente categoria di intervento su manufatti architettonici ridotti allo stato di rudere al punto che, non di rado, si tende a identificarla in toto con lo stesso Restauro Archeologico. La definizione cresta di muro identifica la parte sommitale orizzontale di un muro e soggetta, se non protetta, all’azione di diversi agenti degenerativi. La definizione collo del muro identifica, invece, lo strato sottostante la cresta e interessa generalmente superfici solitamente verticali di paramento per 15-20 cm. Non manca, però, chi estende il termine collo fino a comprendervi anche la cresta e viceversa. Per comodità e con le necessarie cautele si possono utilizzare gli stessi termini per i fronti rocciosi o terrosi di scavo. I fronti sono la parte degli scavi che presenta la maggiore instabilità. Le zone più vulnerabili sono proprio gli “spigoli” che le superfici orizzontali formano con quelle verticali dove si evidenziano le azioni di erosioni concentrate e/o diffuse, espulsioni angolari di parti, trasporto di materiali… Gli interventi sulle creste vengono utilizzati come principale elemento di giudizio sugli interventi post scavo sulla base di valutazioni di carattere prevalentemente estetico e dell’efficacia immediata diventando, frequentemente, un modello di riferimento da riprodurre, quasi meccanicamente, in altri esempi. La protezione delle creste ha lo scopo pratico di impedire le infiltrazioni di acque meteoriche dei muri smembrati e non protetti da tettoie evitando allo stesso tempo ribaltamenti ed espulsioni degli elementi di apparecchio a causa dell’indebolimento delle parti sommitali delle murature. L’area di interesse può riguardare azioni locali (azioni concentrate che non di rado costituiscono l’innesco per meccanismi destinati a estendersi ad aree più ampie) oppure azioni estese che, anche se solitamente meno gravi, possono creare difficoltà diagnostiche e terapeutiche proprio a causa della loro estensione. Si deve ritenere che la classe degenerativa più frequente e pericolosa sia rappresentata dall’acqua che può essere presente in varie forme. Questa può agire direttamente (p.e. infiltrazioni più o meno concentrate che provocano azioni meccaniche) oppure diventa veicolo per altre forme degenerative che da essa possono dipendere (p.e. percolazioni che provocano una proliferazione di vegetazione infestante).
Dinamica di degrado/dissesto di una cresta muraria a causa dell’azione di acque meteoriche.
Le pareti di scavo, soprattutto se destinate a restare più o meno a lungo all’aperto, rappresentano un elemento di grande delicatezza che è ben riconosciuta, sia pure con motivazioni non proprio corrispondenti alle esigenze archeologiche, dalla normativa sulla gestione di un cantiere che prevede procedure di sicurezza, anche per fronti ridotti di scavo, con l’obbligo di scarpature1, inclinate in relazione alle condizioni d’attrito dei terreni e tagli a gradoni. Si tratta di soluzioni “di sicurezza” che non sempre sono in sintonia con le richieste degli archeologi che preferirebbero, invece, pareti di scavo verticali e libere. Evidentemente la delicatezza degli interventi sulle creste aumenta in siti nei quali coesistono strutture architettoniche e fronti di scavo che presentano grandi differenze di vulnerabilità come può succedere quando si riapre un cantiere di scavo e ci si trova a operare contemporaneamente su fronti e strutture già rimesse in luce in precedenza con quelli che si vanno via via scoprendo2. Le opere di consolidamento provvisorie o defini- in contesti archeologici tendono ad assumere connotazioni particolari a causa dello stato di conservazione in cui si trovano siti e manufatti all’atto del rinvenimento. Oltre a contenere le spinte dei fronti di scavo e pareti devono permettere il massimo dell’agibilità del sito per adeguarsi alla costante e sensibile variabilità delle condizioni di lavoro. Il consolidamento, spesso fortemente condizionato dalle necessità di calcoli e verifiche strutturali, rappresenta un campo molto delicato. Rivendicato dall’architetto e dall’archeologo, di fatto, viene gestito dallo strutturista al quale si chiede soltanto di far stare in piedi il muro. I problemi di rischio immediato vengono risolti dagli operai con soluzioni solitamente efficaci per l’immediato ma, spesso, destinati a rivelarsi meno validi nel giro di poco tempo. Tra gli interventi di consolidamento3 precauzionale più frequenti si ricordano quelli che si rendono necessari per assicurare una maggiore distribuzione dei carichi a terra (con il rischio, però, di non tenere conto che si interviene su suoli archeologici potenzialmente molto delicati), quelli necessari a riportare in verticale i muri (con il rischio di non riconoscere e rispettare muri nati fuori piombo da quelli che invece lo sono diventati in epoca antica o più recentemente); quelli necessari per il ricarico di strutture a causa del brusco cambiamento delle condizioni di equilibrio delle spinte dovute alle operazioni di scavo (con il rischio di sovraccaricare parti della fabbrica o dei fronti di scavo, a labilità estesa o vulnerabilità concentrata); quelli che si rendono necessari per reintegrare parti murarie andate perdute e quelle che, invece, sono necessarie per motivi strutturali (con il rischio di inventare cortine mai esistite). Sempre più frequentemente si pone la necessità di operare interventi di consolidamento precauzionale, destinato a un lavoro a termine, da revocare appena saranno cambiate le condizioni che l’avevano provocato.
1 Nel terreno vergine (e in quello archeologico stabile da tempo) gli strati sono normalmente in equilibrio ma quando non sono più sostenuti lateralmente hanno tendenza a slittare o rovesciarsi. La casistica più ricorrente riguarda: tagli inclinati a circa 45° e pareti tagliate a gradoni; pareti a scarpa, la pendenza dello scavo aumenta con il diminuire della consistenza del terreno variando tra 1/2 e 1/5 della profondità della trincea di scavo mentre per terreni più compatti può arrivare anche a 1/8 ÷ 1/10; banchine, per profondità superiori a 2 metri; puntellamenti, per pareti fragili che devono rimanere verticali. Gli elementi di sbadacchiaturacomponente base del consolidamento precauzionale - non lavorano solo a compressione semplice; quando sono apparecchiati in posizione orizzontale o inclinata subiscono sforzi di flessione e di pressoflessione, indotta anche dal peso proprio.
2 La cresta di un fronte di scavo, come punto di inizio del degrado/dissesto, risulta particolarmente esposta a fenomeni erosivi più o meno concentrati. La geometria del fronte può essere determinante nel caso di pareti inclinate a scarpa (inclinazione di sicurezza). I fenomeni di degrado dei fronti di scavo non orizzontali e delle strutture adiacenti sono assimilabili a quelli franosi e di instabilità dei terreni erosi per i quali si può parlare di situazioni in atto o quiescenti in base alle variabili in gioco (dalla geometria del fronte di scavo alla piovosità del contesto climatico). I meccanismi degenerativi che si innescano (erosione concentrata, variazioni di umidità, crolli di porzioni e zolle o di elementi lapidei aggettanti) tendono a far perdere la configurazione originaria con un graduale sconvolgimento degli strati del fronte. Ulteriori complicazioni possono determinarsi qualora diversi aspetti negativi si sovrappongano nello stesso fronte di scavo come avviene per stratigrafie molto articolate. Alcune operazioni di cautela (monitoraggio, semplici accorgimenti protettivi come teli o tettoie provvisorie) possono ridurre la vulnerabilità in attesa di adeguati interventi protettivi delle creste.
3 Consolidamento coesivo (sostituzione con un nuovo legante parti decoese) realizzato di solito con impregnazioni, consolidamento adesivo (ripristino dell’aderenza tra supporto e rivestimento) realizzato di solito con iniezioni, consolidamento funzionale (mira alla stabilizzazione della riutilizzabilità), consolidamento strutturale
I fronti di scavo in terra risultano particolarmente vulnerabili a causa delle diverse locali compattezze (talvolta a breve distanza, per condizioni naturali o esiti di lavorazioni), geometria (più o meno verticali), condizioni termo-igrometriche (esposizione, ristagni o ruscellamenti di acque), elementi lapidei presenti (taglia, condizioni di infissione), procedure conservative (in atto stabili o stagionali). Differenze sensibili possono dipendere dal fatto che si prevedano riprese degli scavi oppure li si considerino completati.
Manutenzione dei ruderi urbani
Il rischio maggiore che corrono i ruderi collocati in ambito urbano è quello che deriva dall’abitudine a convivere con i resti e alla progressiva riduzione di interesse e impegno nella loro manutenzione. Fenomeno questo che risulta più evidente per gli edifici allo stato di rudere ritenuti di minore valore o non utilizzabili immediatamente. Uno strumento efficace di conoscenza per la tutela attiva dei ruderi urbani è l’organizzazione e la gestione di un osservatorio dal quale si possano monitorare, in continuo e per un tempo adeguato, i cambiamenti, naturali (condizioni ambientali) e indotti (sollecitazioni del traffico, sovraesposizione …) che avvengono. Le soluzioni possibili dovranno dipendere inevitabilmente dalla risoluzione di una serie di osservazioni e accertamenti mirati:
• le forme patologiche e la velocità con cui i fenomeni degenerativi si presentano eccezionalmente o, più frequentemente, si riproducono ciclicamente;
• i rischi in atto e quelli potenziali dovuti alle condizioni naturali e quelli indotti da mancanza di manutenzione e/o cattivo uso;
• analisi delle soluzioni adottate finora e la valutazione della loro validità nel tempo;
• analisi degli elementi “esterni” che possono concorrere al progressivo deperimento dei ruderi (presenza di attività commerciali, aree di sosta e/o forte traffico …) e valutazione di quegli elementi che potrebbero contribuire a risolvere il problema;
• valutazione della naturale capacità dei ruderi di sopravvivere rispondendo al quesito: cosa (e fino a quando) succederebbe se non si facesse nulla?
I risultati delle rilevazioni possono rappresentare uno dei componenti necessari per la redazione di un progetto caratterizzato prevalentemente su procedure di manutenzione ordinaria, complete delle direttive di valore generale e schede operative specifiche, e adattabili caso per caso, per un controllo nel tempo. Eventuali estensioni potranno essere avviate se necessarie. Le operazioni più importanti da prendere in considerazione sono:
• raccolta di materiali relativi ad altre esperienze che possono essere riferite al progetto;
• verifica delle catene operatorie caratteristiche (di carattere generale e “locale”) in altri cantieri di scavo e di restauro;
• allestimento di stazioni di osservazione tra loro confrontabili (cantieri riferibili a situazioni simili, sequenze stratigrafiche raffrontabili, tipologie di reperti e strutture destinate a restare in situ, condizioni e caratteri dell’intervento …);
• definizione di atlanti diagnostici e di intervento specifici;
• definizione di procedure di intervento e di controllo specifici (capitolati specifici e schede tecniche dei prodotti e delle procedure);
• organizzazione di un archivio complessivo consultabile, basato sulla carta archeologica urbana, da tenersii costantemente aggiornato e tale da costituire patrimonio comune e sempre consultabile.
Gli interventi integrativi alla cortina muraria in opus reticulatum sono riconoscibili per regolarità di apparecchio, bordi delle parti nuove, stilatura tra i cubilia (di riciclo), trattamento delle superfici.
In molti casi la protezione delle creste può coinvolgere lacune nelle parti più alte delle murature. Quando si devono predisporre strati “preparati” a reggere le copertine ma anche quando le integrazioni si rendono utili perché i ruderi siano “comprensibili” da parte del pubblico1. La perdita di parti di murature può essere “suggerita” da ricostruzioni più o meno ampie di volumi capaci di alludere in maniera semplificata alle parti perdute. Le soluzioni adottate per le interazioni e completamenti prevedono un trattamento della muratura in addentellato (per far capire che il muro antico proseguiva) e a spigoli in facciavista (per suggerire che si tratta di un nucleo in vista).
La scelta delle integrazioni volumetriche può avere anche finalità documentarie e didattiche associando ai diversi volumi indicazioni strutturali e di apparecchio, cronologie e sequenze stratigrafiche, evidenze dello stato di conservazione.
Si tratta di soluzioni giù adottate tra le due guerre (con soluzioni, però, solitamente poco reversibili) ma sviluppate in particolare a partire dagli anni ’80 nella sistemazione di allestimenti museali e in aree archeologiche al coperto.
Le soluzioni più ricorrenti per la chiusura di lesioni e brecce di maggiore ampiezza (a causa di perdite di cortine superficiali o parti del nucleo interno) possono prevedere l’impiego di materiale diverso oppure il reimpiego di materiale simile antico più o meno trattato per renderlo riconoscibile:
• materiale diverso:
– materiale tradizionale “gerarchicamente meno nobile”: L’impiego di laterizi a integrazione di cortine lapidee è il sistema più impiegato, assicura una buona protezione e riconoscibilità;
– materiale tradizionale intonacato, laterizi o scaglie lapidee intonacati. Impiegato fin dal
XVII secolo ma ha bisogno di rinnovamenti periodici;
1 Il rapporto conservazione-divulgazione costituisce uno dei temi più importanti e ricorrenti nei dibattiti sul restauro con posizioni sempre più articolate con l’ampliarsi (forse talvolta incontrollato) dei nuovi strumenti informativi. Non è difficile verificare quante iniziative siano basate su elaborazioni di realtà aumentata che, in realtà, partono da una scarsa conoscenza della realtà
Interventi di completamento e regolarizzazione di cortine in opus vittatum in laterizio e opus reticulatum in tufo (tufelli) con soluzioni diverse e sottosquadro.
Integrazioni di parti in laterizio poste a suggerire, in maniera sintetica, volumetrie non più esistenti.
– conglomerato cementizio con inerte estraneo o graniglia/polvere dello stesso tipo litologico del supporto originale. Può essere spazzolato o lavato, presenta facilità di realizzazione ma rischia di risultare difficilmente reversibile;
– pannelli prefabbricati, elementi allestiti in situ o costruiti fuori opera possono svolgere anche una buona funzione strutturale;
– resine mescolate con polvere di pietra o laterizio. Rischiano incontrollabili variazioni di resistenza ed estetiche e incompatibilità con i materiali originari.
• materiale simile: diverso apparecchio murario. Si utilizza lo stesso materiale, o simile, ma con una tessitura diversa; regolarizzazione dell’apparecchio originale impiegando lo stesso materiale apparecchiato su piani di posa resi regolari o variato (p.e. a 45°); rilavorazione superficiale del materiale originario tramite graffiatura, scalpellatura, martellinatura, bocciardatura, sabbiatura;
Sistemazione delle sommità dei muri con integrazione in laterizio (3-4 filari) e malta con caementa infissi.
“Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”: la partecipazione del pubblico al cantiere può rappresentare una privilegiata occasione di maturazione di nuovi interessi e di crescita di un senso civico.
– variazione della taglia degli elementi di apparecchio con l’impiego di pezzature più grandi o piccole;
– diversificazione dei giunti di malta con allargamenti o restringimenti, arretramento dei punti, diversificazione composizionale delle malte, coloritura delle malte;
– variazione della geometria delle superfici con arretramenti (avanzamento) di tutta l’area integrata;
– semplificazione delle masse. Allestimento di cornici, capitelli, trabeazioni con sagome semplificate e senza ornati.
L’evidenziazione del contorno può essere realizzato con:
– delimitazione del bordo dell’integrazione con nastro continuo o a tratti di materiali diversi (nei mosaici, tessere di colore o taglia diversi);
– delimitazione del bordo con un solco;
– giunti dilatati lungo i bordi.
Le principali classi di intervento, caratterizzate dai materiali disponibili, dalle direttive date dai direttori dei lavori e soprintendenti (ma più spesso dagli assistenti di cantiere che soprattutto in un certo periodo sono stati i veri gestori di aree e monumenti) sono il risultato di procedure diventate localmente abituali. Si potrebbe quasi dire che mentre per il trattamento di superfici verticali, che si tratti di interventi conservativi o strutturali, è sempre richiesta la competenza di un progetto adeguato, per interventi sulle creste dei muri si è spesso ritenuto che fosse sufficiente la pratica di muratori che di volta in volta hanno adottato la soluzione ritenuto più efficace prendendo a modello esempi già noti e utilizzando i materiali disponibili in loco, compresi quelli di risulta. D’altra parte gli stessi capitolati-contratti d’appalto non sempre forniscono indicazioni specifiche per la protezione delle creste considerandole, forse, come categorie di lavorazioni semplici che non hanno necessità di tanti chiarimenti2. Alcune soluzioni, ripetute per tempi sufficientemente lunghi, sono diventate tradizionali e, perciò, riproposte solo con piccole modifiche. La predisposizione di voci attente e adeguate alle esigenze del restauro archeologico deve essere supportata da specifiche schede operative che derivano soprattutto da sperimentazioni mirate in situ. Sempre più frequentemente le Soprintendenze e altri Enti di tutela si dotano di propri modelli di capitolato capaci di assicurare una chiarezza di comportamento altrimenti difficile e una maggiore certezza nei preventivi, con vantaggi anche delle Imprese addette ai lavori. Non è raro, infatti, che molte Imprese concorrano alla realizzazione di opere di scavo archeologico e restauro spinte dalla forte riduzione di cantieri di edilizia e di restauro monumentale.
2 Che siano considerati lavori di routine e non meritevoli di maggiori attenzioni è dimostrato dalla scarsità della documentazione disponibile. La consapevolezza che ogni intervento non sia l’ultimo ma soltanto uno che sarà seguito nel tempo da altri (manutenzione ordinaria) dovrebbe spingere a una maggiore e più corretta documentazione. L’impegno a documentare sia soluzioni positive sia negative è una procedura che in altre discipline è regola perché anche errori sistematici e incidenti di percorso possano ridurre il rischio che si ripetano.
Tra le voci previste in capitolato particolare attenzione deve essere data a quelle che si riferiscono agli scavi (sc. in genere, sc. di sbancamento e scotico, sc. di fondazione, sc. archeologici in estensione o a sezione obbligata) e le demolizioni (d. andanti, d. sistematiche, smontaggi, opere di stonacature…) per le quali bisognerà prevedere il massimo della cautela e il preventivo assenso di un D.d.L. specializzato prima dell’allontanamento dal cantiere (stivaggio cautelativo, trasporto a discarica). Allo stesso tempo, importanti saranno le norme di accettabilità dei materiali edili (materiali nuovi, materiali di reimpiego) e i prodotti per il restauro (consolidanti, prodotti per la pulizia, collanti, impermeabilizzanti) per i quali potrebbero essere opportuni preventivi collaudi in laboratorio e/o in opera. Le voci che contengono aumenti del prezzo unitario per far fronte a difficoltà di esecuzione dovranno essere controllate e monitorate con particolare attenzione dalla D.d.L.
Indagini per il restauro
Per il restauro archeologico è determinante che gli interventi siano preceduti da esaurienti e corrette indagini diagnostiche che potranno addirittura limitare le necessità di interventi di restauro che, nella maggior parte dei casi, sono proprio dovute all’arretratezza diagnostica. Di rilevante importanza è la ricerca storica; in particolare quella che riguarda lo sviluppo dei meccanismi degenerativi post-scavo. Dal momento della riscoperta possono essersi attivati processi degenerativi quasi sempre evidenti ma, non di rado, a sviluppo subdolo i cui effetti potrebbero evidenziarsi soltanto in momenti successivi, quando i livelli patologici potrebbero aver superato la soglia di tollerabilità. Raccolta di una documentazione relativa. Studio e realizzazione di una scheda strategica di catalogo e organizzazione di un archivio. Un programma conoscitivo generale, adattabile alla specificità delle diverse situazioni, prevede:
• Indagini sugli interventi pregressi. Verifica dello stato delle conoscenze delle realizzazioni di altri interventi nello stesso sito e in un’area congruente. Redazione di un atlante tematico degli interventi eseguiti in altre occasione con indicazione dei materiali e le tecnologie adottate, valutazione dei risultati ottenuti. Nella valutazione dei risultati bisognerà tener conto della compatibilità (criteri di compatibilità a livello tecnico e operativo, valenza di fattori tecnici e funzionali, criteri di compatibilità a livello estetico, criteri di campatibilità a livello chimico-fisico, criteri di compatibilità tra materiali tradizionali e moderni, criteri di compatibilità a livello socio-culturale).
• Rilievi ed accertamenti di emergenza. Hanno l’obiettivo di fornire strategie per la registrazione e la interpretazione dei fenomeni che altrimenti rischiano di andare perduti o di non essere sufficientemente compresi.
Di volta in volta gli interventi possono essere catalogati secondo la riconoscibilità delle parti modificate a quelle originarie: distinguibilità minima e massima diversificazione con la periodica rivalutazione del criterio minimale e, infine, ricostruzioni didattiche reversibili ma anche interventi di nuova architettura (non di rado la pericolosità è proporzionale alla risonanza del nome della archistar che l’ha progettata).
• Rilievi dinamici. Il confronto tra due rilievi dello stato di conservazione di un manufatto, a distanza di tempo, può contribuire a chiarire e dimensionare fenomeni degenerativi in atto.
• Indagini non distruttive. Le attuali tecniche non invasive (prospezioni sismiche, misure di tipo elettrico e indagini con la tecnica del georadar, prospezioni magnetiche) applicate alle analisi diagnostiche risultano le più adeguate a effettuare indagini per il restauro in quanto aggiungono all’integrità dell’oggetto anche l’eseguibilità direttamente in situ potendo offrire risultati in tempi brevi e controlli immediati.
• Interventi distruttivi. Lo scavo archeologico, innanzitutto, e saggi esplorativi come carotaggi, tasselli in profondità crescente, transetti esplorativi. Si può ridurre l’incidenza distruttiva adottando procedure di cautela e strategie adeguate.
• Interventi per campioni. Accertamenti “per campioni” significativi e rappresentativi possono costituire un valido strumento per tenere sotto controllo situazioni più ampie e permettere estensioni controllate.
• Indagini sui meccanismi degenerativi. Rilevamento diagnostico dei meccanismi più ricorrenti allo scopo di evidenziarne le forme patologiche e dimensionarne le incidenze in relazione alla velocità con cui tali fenomeni si sviluppano.