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i princìpi della protezione delle creste

L’interesse per la protezione delle creste, per molti aspetti dipendente da quello preminente per le integrazioni delle lacune, comincia ad articolarsi alla fine del diciannovesimo secolo in documenti che, pur non avendo autorità di legge, hanno permesso una definizione moderna dei princìpi del restauro1. Personalità fondamentali per la maturazione del concetto di restauro sono G.Boni e G.Giovannoni (1913). Giovannoni considera i monumenti come documenti da restaurare seguendo i valori storico-artistici dell’ambiente in cui si collocano valorizzando principalmente quelle stratificazioni storiche ritenute più importanti2. Gli interventi sui ruderi rientrano tra “i restauri di consolidamento3, cioè di: rinforzo statico e di difesa dagli agenti esterni (che) sono provvedimenti tecnici affini ai lavori di manutenzione e di riparazione, rappresentano lo stadio più umile dei restauri, che non accende la fantasia, ma che appunto per questo è più utile e dovrebbe essere oggetto delle massime cure”. In particolare per i ruderi propone interventi minimi suggerendo interventi riconoscibili “per forma e materiali (che) denotino chiaramente di essere nuovi e non vogliono contraffare gli antichi“ solo dove strettamente necessari.

1 Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione, 21 luglio 1882 (G.Fiorelli); III Congresso degli Ingegneri e degli Architetti, Roma 1883 (C.Boito). In un anno l’idea di un intervento prevalentemente mimetico si trasforma in quella di un intervento riconoscibile (“i monumenti architettonici, quando sia dimostrata incontrastabilmente la necessità di porvi mano, devono piuttosto essere consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati, evitando in essi con ogni studio le aggiunte e le rinnovazioni”). I ruoli del tecnico sono ben definiti nelle consegne che Fiorelli, direttore degli scavi a Pompei dal 1860 al 1875, dà all’ingegnere P. La Vega: “Si occuperà della continuazione delle piante di Pompei, ponendo né propri luoghi gli edifici, che si vanno tratto tratto scoprendo. Resterà incaricato di disporre le riparazioni, che giudicherà necessario che debbano farsi per la manutenzione delle fabbriche…”. Nel 1893 C.Boito sintetizza in maniera incisiva i princìpi della sua idea”…per mostrare che un’opera d’aggiunta o di compimento non è antica, voglio suggerire nientemeno che otto modi da seguire secondo le circostanze: 1) differenza di stile fra nuovo e vecchio; 2) differenza di materiali di fabbrica; 3) soppressione di sagome e ornati; 4) mostra dei vecchi pezzi rimossi aperta accanto al monumento; 5) incisione di ciascun pezzo descrizione e fotografie dei diversi periodi del lavoro, deposte nell’ufficio o in luogo prossimo ad esso, oppure descrizione pubblicata per stampe; 8) notorietà”.

2 I monumenti vengono distinti tra morti e vivi: “Sono tra i primi i monumenti dell’antichità, per i quali è ordinariamente da escludersi una pratica utilizzazione e una trasformazione da rudero con essenziali opere aggiunte. Tra i secondi si hanno palazzi e chiese, per i quali può praticamente, e spesso anche idealmente, apparire opportuno il riportarli a una funzione…”.

3 Gli interventi di “semplice consolidamento” vanno considerati come una operazione “quasi completamente tecnica” la cui esecuzione può essere assegnata a maestranze non particolarmente specializzate. Le categorie di intervento previste dal Giovannoni sono: restauri di consolidamento, r. di ricomposizione (anastilosi), r. di liberazione, r. di completamento e ripristino, r. di innovazione.

Per contesti archeologici le proposte di G.Boni sono più specifiche e puntuali. Per i colli dei muri appena scavati e perciò esposti in maniera brusca agli agenti atmosferici propone “uno strato di pietre intonato per dimensione e colore ma così resistente da servire da cappello a difesa dell’opera sottostante”, l’impiego di blocchi di conglomerato per coprire una struttura di blocchi monolitici superstiti, copertine di cocciopesto e di cotto, tettoie4 e stuoie, fogli di tela oleata e cartone bitumato o, più stabilmente, l’adozione di lamiere ondulate di ferro zincato e scandole di legno foderate di piombo. Per il trattamento di intonaci e stucchi prevede, in alternativa alle “cornici di inviluppo” e alle sigillature esterne, l’uso di “grappe di rame a testa piatta, che si faranno penetrare in forellini trapanati”. Una geniale anticipazione dei più recenti concetti di “minimo intervento e reversibile”. G. Boni, influenzato da J.Ruskin, sviluppa l‘idea di integrare le lacune e proteggere le creste dei muri con l’utilizzo di elementi vegetali. Le essenze vegetali non hanno solo il compito di mascherare le murature ma possano aiutare a ricostruire mentalmente i profili delle parti mancanti. Per proteggere le creste dagli agenti atmosferici suggerisce l’impiego di “pellicce erbose fatte crescere su di un sottile strato di humus alla sommità dei ruderi (che) li proteggono dall’arsura e dal gelo, formando un tessuto di radichette. La cresta dei muri, d’opera testacea e cementizia, facile a disgregarsi per le intemperie, viene tutelata dalle infiltrazioni mediante cocciopesto, sul quale si stende il terriccio misto a seme di fieno, per agevolare il formarsi d’una verde pelliccia; ottime a tal uopo le poae, tra le graminacee a radice fibrosa, e la lippia repens, graziosa verbenacea resistente alla siccità”.

Questi atteggiamenti di grande rispetto per gli originali rappresentano per l’epoca un novità e senza dubbio non da tutti condivisi se, nella pratica, si opera con interventi mirati a trasformare una “mutile informe rovina” in un “accento e ritmo di bellezza nella cornice del paesaggio pompeiano” come sosterrà pochi anni dopo A.Maiuri. In analogia con quanto si va facendo a Pompei (V.Spinazzola) e a Roma (C.Ricci) e, dopo gli interventi di D.Vaglieri e R.Paribeni, G.Calza è impegnato a Ostia “nella vasta e complessa opera di reintegrazione e sistemazione delle rovine”, operazioni queste su cui “converge il progresso archeologico e dalle quali s’esprime il valore dell’archeologo” (Calza 1916). Gli interventi ostiensi sono molto impegnativi anche per le numerose implicazioni estetiche ma soprattutto quelle d’ordine tecnico. In particolare le preoccupazioni del Calza sono riferite a problemi statici e a quelli della protezione dei ruderi dagli agenti atmosferici. Per la protezione delle creste dei muri al posto delle ormai usuali copertine di calcestruzzo propone di coprire le superfici esposte con una sottile pelliccia erbosa controllandone lo sviluppo per evitare flora parassitaria. Più in generale preferisce lasciare i muri senza protezione perché “il sacrificio di qualche centimetro di muro che si perderà ogni decennio nelle mura ad altezza d’uomo, non è nulla di fronte allo sgradevole effetto di quella orribile corteccia uniforme che sostituisce le linee movimentate delle rovine, monotone e convesse superfici biancastre” (Calza 1917). Una dozzina di anni più tardi a fronte di bauletti protettivi usualmente realizzati con malta cementizia, sabbia di fiume e brecciolino, a Ostia propone: “la copertina dei muri e cioè la protezione della sommità delle murature si ottiene efficacemente ed esteticamente, rivestendoli, dopo averli accuratamente puliti e lavati, di uno strato di 15 cm. di malta (calce e pozzolana pura) e pezzetti di mattoni e tufo. Questo sistema che è quasi un’imitazione dell’interno delle murature non solo le ripara dagli agenti atmosferici, ma conservando intatta la movimentata linea di rottura dei muri, è molto migliore dell’altro sistema di ricoprire le murature con una camicia di cocciopesto biancastro” (Calza 1929). Solo raramente la reversibilità dell’intervento è possibile; la sola separazione tra collo e cresta è una superficie di sacrificio costruita a imitazione del paramento antico in sottosquadro in maniera da essere riconoscibile. Nel caso di distacco del paramento la protezione del nucleo interno è realizzata con lastre di eternit.

4 Al VII Congresso di Archeologia Classica (1958) P.Romanelli interverrà con la proposta di usare tettoie mettendo in guardia dal pericolo dei falsi, comunque sempre riconoscibili e talvolta giustificabili; il vero rischio è costituito secondo lui dalla tecnica costruttiva moderna e dalla “audacia e intelligenza degli architetti” che possono progettare “le strutture più geniali, ma anche le più audaci” con il rischio che le protezioni possano attrarre l’attenzione del pubblico più delle cose protette.

Al III Convegno Nazionale di Storia dell’Architettura lo stesso Calza rivedrà almeno in parte le sue posizioni. Per le creste dei muri proporrà l’adozione di “uno strato di pietre intonato per dimensione e colore, ma così resistente da servire da cappello a difesa dell’opera antica sottostante” ma anche copertine di cocciopesto e di cotto, lamiere di ferro zincato e scandole di legno foderate di piombo.

Nel 1931 vede la luce la Carta di Atene, documento conclusivo dei partecipanti alla Conferenza internazionale (Atene, 21-31 ottobre 1931). Giovannoni suggerisce che per gli interventi più impegnativi si faccia ricorso “ai più svariati mezzi della tecnica e della scienza moderna” arrivando a proporre “l’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”5. L’uso talvolta incontrollato di malte di cemento provocherà negli anni successivi non pochi danni legati soprattutto alla facilità di impiego e di posa in opera nella illusione di avere risultati efficaci e definitivi6. Va constatato che interventi con l’uso di malte di cemento e di strutture di calcestruzzi armati (che pure dovrebbero essere vietati per principio) in alcuni casi, possono aver dato buoni risultati. Contano le caratteristiche delle murature, le condizioni ambientali, le dinamiche stagionali delle sollecitazioni, la qualità delle malte e, ovviamente, le capacità professionali degli operatori. Le istanze della Carta sono riprese e puntualizzate nella Carta del Restauro Italiana (1932) allo scopo di uniformare le metodologie di intervento nelle diverse Soprintendenze. Le indicazioni metodologiche e operative hanno carattere generale mentre per gli interventi di minuta manutenzione si lascia che siano gli operai a prendere le decisioni che di volta in volta si rendono necessarie ricorrendo a soluzioni in grado di assicurare “un carattere di nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo”. Un elemento di novità è costituito dalla raccomandazione (art. 10) che “negli scavi e nelle esplorazioni che rimettono in luce antiche opere, il lavoro di liberazione debba essere metodicamente e immediatamente seguito dalla sistemazione dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d’arte rinvenute, che possono conservarsi in situ”. Si tratta di quel restauro contestuale che, accettabile in alcuni casi di scavi in condizioni di emergenza e applicato soprattutto nella protezione delle creste, più frequentemente provoca falsificazioni che la presenza di più operatori applicati sullo stesso cantiere e scarsamente coordinati tra loro rischia di peggiorare.

5 All’articolo 5 della Carta di Atene gli esperti “esprimono il parere che ordinariamente questi mezzi di rinforzo debbano essere dissimulati per non alterare l’aspetto e il carattere dell’edificio da restaurare; e ne raccomandano l’impiego specialmente nei casi in cui essi permettono di conservare gli elementi in situ evitando i rischi della disfattura e della ricostruzione”.

6 Per utili considerazioni sull’uso del cemento e rischi conseguenti: A.Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa, (Paris 2020) Milano 2022. “Il cemento ha cancellato tutte le peculiarità locali, tutte le tradizioni, e si è imposto come unica legge fin negli angoli più remoti del pianeta dove l’arte di edificare un tempo rispondeva a una pluralità di tecniche e di immaginari”.

In analogia con quanto era già successo dopo il Convegno di Roma, gli interventi di cantiere, però, contraddicono i princìpi teorici assecondando i piani di sventramento “d’ordine d’imperio” in previsione delle celebrazioni del Bimillenario della Romanità con disinvolte demolizioni, massicci consolidamenti nei quali il cemento giocherà il ruolo più importante per infiltrazioni, colature, e cuciture armate. Si tratta di interventi fortemente condizionati da ideologie che privilegiano l’effetto scenografico. La scelta di utilizzare materiali più resistenti di quelli antichi si rivelerà non sempre giusta, talvolta controproducente per i frequenti casi di rigetto dei materiali originali che può provocare. Allo stesso tempo fallisce il proposito “che sia tenuto ogni anno a Roma un convegno amichevole […] nel quali i singoli Sovraintendenti espongono i casi e i problemi che loro si presentano per richiamare l’attenzione dei colleghi, per esporre le proposte di soluzione”. Nel 1938 vengono emanate le Istruzioni per il Restauro dei Monumenti che confermano la validità delle Carte di inizio decennio suggerendo atteggiamenti di cautela mentre, nella pratica, tutta l’Italia e buona parte del bacino del Mediterraneo si trasformano in un vasto cantiere di restauro archeologico che consentirà di sperimentare, nel bene e nel male, tutte le soluzioni di intervento che all’epoca si possono immaginare anche se con una preminenza di progetti di immagine piuttosto che realmente conservativi.

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