Regola | Stefano Moscini

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stefano moscini Regola
Sulle tracce del Borgo Fantasma di Celleno
tesi | architettura design territorio

Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “L'uso del disegno a mano come strumento della conoscenza e l'attenta analisi tipologica di una struttura urbana minore, fanno della tesi un caso di approccio esemplare all'attualissimo tema dei borghi abbandonati”.

Commissione: Proff. A. Volpe, F.V. Collotti, F. Fabbrizzi, A. Brodini, C. Piferi, G. Pancani, L. Barontini, Arch. E. Martinelli

Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare va al mio relatore Francesco Collotti, e correlatrice Eliana Martinelli, che mi hanno seguito sin dall’inizio, trasmettendomi conoscenza e consigli fondamentali per la stesura della tesi.

Ringrazio i miei genitori e mio fratello, sostenitori di un percorso difficile, a cui loro per primi hanno creduto. Il loro supporto morale ha permesso il raggiungimento di questo traguardo.

Ringrazio Alessia, figura indispensabile, collega e compagna. Con te ho condiviso il mio percorso, con te ho superato ogni ostacolo, con te ho raggiunto questo obiettivo. Grazie a tutta la famiglia, a chi non c’è più, e a chi è appena arrivato. Grazie agli amici, ai colleghi che ci sono sempre stati.

Grazie a tutte le persone di Celleno per il materiale fornito, e per la disponibilità dimostrata.

in copertina

Disegno prospettico di progetto dell'autore.

progetto grafico

didacommunicationlab

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

Susanna Cerri

Gaia Lavoratti

didapress

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

© 2023

ISBN 978-88-3338-182-4

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset

Stefano Moscini Regola Sulle tracce del Borgo Fantasma di Celleno

pagina precedente Fotografia da levante. da sx: palazzina rinascimentale, casa Castellani, chiesa San Donato.

Riabitare e Comunità: sono queste le due parole chiave che hanno guidato il lavoro di tesi qui esposto, sviluppatosi secondo modalità “artigianali” di analisi e disegno a mano, quasi anacronistiche in un periodo in cui la distanza, obbligata dalla pandemia di Covid 19, sembrava imporre il digitale come unica soluzione per studiare, lavorare e stare insieme. Due parole che non possono non richiamare alla mente l’importante contributo di Pietro Clemente e della rete Riabitare l’Italia nel portare all’attenzione pubblica il tema del reinsediare le aree interne, i nostri piccoli paesi. Piccoli paesi, e non borghi: perché dobbiamo allontanarci dall’idea di un sistema insediativo finito nella sua bellezza perfetta, ridotto troppo spesso a mero oggetto di marketing turistico e territoriale, per riscoprire, invece, la forma collettiva, esito del lavoro dell’uomo nel tempo. Dobbiamo anche allontanarci dalla retorica del “riscoprire la campagna” in antitesi alla città come fenomeno piccoloborghese, comprendendo, piuttosto, che i piccoli paesi possono diventare veri e propri laboratori di comunità, di cui possiamo costituire, come architetti, parte attiva.

Il lavoro di Stefano Moscini si è configurato fin da subito sì come ricerca, ma anche come esperimento pedagogico, scegliendo di seguire orme già tracciate e di attraversare varchi già aperti, in particolare da Giorgio Grassi ed Ernesto Nathan Rogers, approfondendo, con il progetto, i temi della tradizione, della regola in architettura, delle preesistenze ambientali. Si è potuto così riflettere sui compiti e sul mestiere dell’architetto-cittadino, capace di incidere nella trasformazione della realtà.

La tesi di laurea di Moscini rappresenta un progetto condiviso, in senso ampio. Da un lato, propone un progetto di recupero urbano strutturato come operazione di ricostruzione, sia dei manufatti architettonici, sia di un sistema di pratiche collettive, indagando una possibile attualizzazione dei tipi edilizi e delle tradizioni costruttive. Dall’altro, è il risultato di un confronto, reale e continuo (anche attraverso lo strumento del disegno) tra studente e docenti, tutti facenti parte di un’unica comunità universitaria, nella quale lo stare e il lavorare insieme costituiscono azioni imprescindibili per la trasmissione di un insegnamento. Ed è forse questo il principale risultato raggiunto.

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Presentazione

Le regioni di natura vulcanica son però molto più basse degli Appennini e soltanto l’acqua che le ha corrose ne ha formato a capriccio le rocce e le montagne, ché i paesaggi, così vivaci, così pittoreschi, e quelle cime a picco, e tutte le altre accidentalità del suolo, son formate a caso.

( J.W. Goethe, 1991)

Territorio montuoso, caratterizzato dal gioco cromatico di campi coltivati che, come tessere di un mosaico, contribuiscono a comporre il quadro d’insieme della valle del Tevere, tra il Lago di Bolsena e l’Appennino centrale. Luogo incontaminato, valle fertile, basata su un’economia fatta di agricoltura e allevamento, modus operandi che accomunava gli insediamenti coevi. Laghi vulcanici e rilievi tufacei qualitativamente perfetti per ospitare l’insediamento di promontorio1, modello insediativo nato dall’occupazione del crinale, tipico di questa terra. Luogo diffici-

Il luogo

le da attaccare e meno da difendere, in cui gli abitati si espandono plasmando la superficie di crinale e da cui emergono gli elementi fondamentali della città: il castello e la chiesa. Case di pochi piani si addossano l’una all’altra creando un agglomerato urbano. Opere di fortificazione, palazzi signorili, monumenti, denunciano indubbiamente la presenza di importanti famiglie e avvenimenti che si sono succeduti nel tempo. Terra di scontri e di conquiste, un terreno segnato dalle acque del fiume e dalle forre che solcano il terreno creando i calanchi. Complessi sistemi viari collegano i promontori, principale veicolo di scambio tra i popoli, divenuti poi percorsi consolari, realizzati dai romani, che permettevano di raggiungere ogni parte del territorio2. Terra etrusca che, proprio per le sue tipiche alture, rappresentava “perfettamente la topografia degli abitati etruschi del VII-VI secolo a. C.”3 Diversi sono i ritrovamenti di necropoli in questa zona,

che ne determinano quindi la grande importanza dal punto di vista economico-commerciale, confermata dalle notevoli presenze storiche di cui abbiamo dati certi nelle epoche successive: dai viterbesi ai Signori di Orvieto, dai romani ai longobardi. Ma anche terra fragile, caratterizzata da terreni tufacei, sedimentati sopra un tenero strato argilloso, che ne provoca i continui dissesti idrogeologici. L’erosione diviene un aspetto tipico di questi luoghi, un problema comune che tende ad aumentare con il passare del tempo, decimando interi borghi fino all’abbandono. Tra questi rientra sicuramente il comune di Celleno, luogo abitato fino alla metà del Novecento, per poi cadere in uno stato di oblio profondo, fino a tornare di interesse verso la fine del secolo. Di ciò rimane solo l’impianto planimetrico parzialmente leggibile, sovrastato dai rovi spontanei della collina, che ne denunciano il cruciale abbandono causato dal luogo stesso. Così la vasta popolazione, pian piano, si sposta tra il borgo e la zona nuova, a due chilometri o poco più, di distanza. Nessuno farà più ritorno al castrum.

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1 Zampilli M. Magazzù M. 2020, Borghi abbandonati della Tuscia: una proposta di metodo per riconoscere i caratteri identitari da conservare e restituire, in ArcHistoR EXTRA 7/2020, p. 872.
2
ivi p. 874.
3 Crocoli G. B. 1989, Celleno dalle origini al 1870, p. 16. pagina a fronte Valle del Tevere vista da Celleno.

Ma col tempo la città cresce su sé stessa; essa acquista coscienza e memoria di sé stessa. Nella sua costruzione permangono i motivi originali ma nel contempo la città precisa e modifica i motivi del proprio sviluppo.

(A. Rossi, 2018)

È il 10261 quando il Castello di Celleno appare su uno sperone tufaceo a circa 341 m s.l.m. in un luogo di grande importanza dal punto di vista del controllo sulla strada di collegamento tra il Lago e il Tevere. Sulla sommità del crinale il castello si mostra in tutta la sua monumentalità, unico erede di un iniquo destino. La storia lo ha consegnato a diversi proprietari, dalla sottomissione al Comune di Viterbo nel 1180, alla conquista degli orvietani, e nuovamente a Viterbo nel 1198. Mutato nel tempo, fino ad assumere lo splendore in cui oggi si mostra, già alla fine del XIII secolo risulta una seconda fase di costruzione, che trasformò e ampliò il progetto iniziale, generandosi intorno alla tor-

Il castrum

re grande, realizzando la torre piccola e collegando queste con dei camminamenti di ronda ad oggi non visibili a causa dei seguenti stravolgimenti 2. Sarà intorno al 1331 la successiva modifica al castello, testimoniata da uno scritto conservato presso l’Archivio di Stato a Roma, in cui Raniero de Alessandrini “si impegna a migliorare il complesso architettonico.”3 Del XVII secolo sarà invece la costruzione della rampa parallela al castello che porta alla piazza. Poco tempo fa, il restauro del suo ultimo proprietario Enrico Castellani, che scopre e riscopre il valore di quel luogo dimenticato, minuziosamente lo riporta al dovuto splendore. D’impianto irregolare, oggi mostra il suo carattere con solo la torre piccola a sud, probabilmente sbassata nel tempo, e con una severa facciata rivolta verso la piazza del paese, continuando a svolgere il suo importante compito di simbolo all’interno del tessuto urbano: domina sull’altura, e come un monumento, si costruisce tutt’intorno al

costruito, “ne influenza la forma urbana nella classica disposizione a fuso e la sua conseguente fortificazione.”4Diverse saranno le conquiste al castello, dovute principalmente alla “...lotta tra Orvieto e Viterbo che, alternando alleanze e ribellioni contro la Chiesa, mettevano a ferro e fuoco la Valle del Tevere…” 5. Una strada che solca il crinale lo collega alla chiesa di San Donato, a rimarcare il costante rapporto tra potere profano e potere sacro. La chiesa, posta a nord del paese, si presenta come rovina, ma ancora carica di potere spirituale. Di essa rimane l’impianto a croce greca, con un alto campanile posto all’ingresso della piazza, su una parete in cui ancora oggi si legge il vecchio ingresso, spostato poi a est. Da queste due condizioni, castello e chiesa, il castrum si sviluppa seguendo l’andamento dello sperone, con edifici su fronte, a creare una cortina muraria di protezione. La forma dell’intero abitato, condizionato da una manovalanza lombarda,6 è dunque irregolare, con

4 ivi p. 81.

5 ivi p. 83.

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1 Crocoli G. B. 1989, Celleno dalle origini al 1870, p. 21. 2 Camerano A. Fordini Sonni M. Macculi G. 1986, Feudi e fortificazioni della Teverina, p. 84. 3 ivi p. 85. 6 Baciariello G. 2011, Forestieri a Celleno nel XVI secolo, in Studi in ricordo di Attilio Carosi, p. 120. pagina a fronte Castello Orsini. Rampa di accesso al castrum.

edifici di due o tre piani, aggregati e disposti in linea sul fronte, o a corte nelle zone interne. Passaggi stretti e angusti caratterizzavano il tessuto viario, un saliscendi continuo per assecondare la topografia del colle. Uno sperone cedevole, che a causa della sua morfologia ha determinato il deterioramento non solo di Celleno ma anche di altre città simili della Tuscia. Uno strato duro che poggia su una tenera argilla, che erosa dall’acqua tende a far scivolare le pendici della collina: un destino segnato ormai da tempo. Già nel Liber statutorum comunis castri Celleno veniva indetta una pena per chi “scava nelle rupi di Celleno per fare una colombaia”7 nonostante fino ad allora il rapporto con lo sperone era di tutt’altro avviso: esso non doveva solo sorreggere gli edifici sovrastanti, ma diventava talvolta edificio esso stesso.

“La grotta era scavata per impieghi diversi: abitazione, ricovero animali, deposito di foraggio e legna, riparo dei

temporali”8. Cavità scavate nella roccia che con buona probabilità hanno dato il nome a questo luogo9. Esempi importanti di abitazioni scavate e abitate fino agli anni ’60 del Novecento ci arrivano dalla vicina città di Bagnoregio10. Questo fa intuire lo stretto rapporto tra gli abitanti e il luogo stesso che li ospita. Uno dei più importanti eventi traumatici fu il terremoto che colpì duramente la Teverina nel 1695, che portò ai primi sgomberi e demolizioni di edifici. Mentre una perizia del 1757 evidenzia le situazioni critiche del lato nord dello sperone, che ancora oggi ne risulta il lato più colpito e con un maggiore rischio idrogeologico11. Le avversità del luogo, aggiunte alla mancanza di manutenzione negli edifici sui versanti, dello scavo di grotte sotto le fondazioni degli edifici, e della costruzione di edifici sulle mura di cinta pre-

esistenti12 hanno compromesso questa relazione, tanto da dover prendere la dura decisione da parte degli abitanti di dover abbandonare le loro case natali per trasferirsi in un luogo più sicuro, nonostante alcuni interventi di manutenzione e consolidamento avvenuti negli anni Trenta del novecento. È il XVII aprile del 1939 quando la cittadina di Celleno veniva immortalata in una delle prime foto aeree in bianco e nero. Già allora la situazione, seppur diversa da oggi, si mostrava in tutta la sua criticità. Un centro abitato orfano dei suoi quartieri più a nord nel suo confine affusolato. Il terremoto, lo spopolamento, il decadimento: un destino scritto che diventa questione di stato. Era il 1952 quando sulla Gazzetta Ufficiale, giovedì 6 marzo, viene pubblicato il Decreto del Presidente della Repubblica che determinava il trasferimento dell’abitato di Celleno. Già nel 1935 venne posata la prima pietra del nuovo abitato, nominato

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7 Baciariello G. Allegretti P. 2004, Liber statutorum comunis castri Celleni. Lo Statuto di Celleno del 1457, p. 143. 8 Baciariello G. 2009, La comunità cellenese nel tardo medioevo (1300-1400), p. 106. 9 Lussignoli M. Piccini R. 1982, Centro Comunitario ex Convento San Giovanni, pp. 23-24. 10 Baciariello G. 1988, Un castello viterbese nel basso medioevo. Celleno e lo Statuto del 1457, in Atti delle giornate di studio per la storia della Tuscia, p. 67. 11 Carta delle microzone omogenee in prospettiva sismica Comune di Celleno. 12 Fordini Sonni M. 1995, Il centro antico di Celleno. Una ricerca, un progetto per lo sviluppo, pp. 22-33. pagina a fronte Castello Orsini. Prospetto in Piazza E. Castellani.

successivamente Borgata Luigi Razza, in onore del ministro che intuì subito i problemi del paese. I Cittadini sapevano ormai che il loro abitato presentava un’insidia difficile da gestire, e in piena epoca fascista viene realizzato il nuovo centro cittadino a circa due km di distanza dal Castello. Si narra oralmente, che alcuni proprietari di casa disfacevano appositamente il tetto della propria abitazione, per accaparrarsi una residenza nella zona nuova. Da allora il castro cellenese visse un periodo buio, caratterizzato da fatiscenza e crolli. Ad oggi solo il castello e pochi altri edifici hanno resistito al destino inevitabile dell’oblio. In quegli anni i Cellenesi non hanno mai perso la voglia di vivere le loro pietre natali, e ancora oggi i bimbi di una volta, mascherando gli occhi lucidi di una nostalgia velata, rivivono Celleno, recandosi nella vecchia piazza, e raccontando le loro storie migliori ai visitatori.I-VI secolo a. C.”3 Diversi sono i ritrovamenti di necropoli in questa zona, che ne determinano quindi la grande importanza dal punto di vista economico-commercia-

le, confermata dalle notevoli presenze storiche di cui abbiamo dati certi nelle epoche successive: dai viterbesi ai Signori di Orvieto, dai romani ai longobardi. Ma anche terra fragile, caratterizzata da terreni tufacei, sedimentati sopra un tenero strato argilloso, che ne provoca i continui dissesti idrogeologici. L’erosione diviene un aspetto tipico di questi luoghi, un problema comune che tende ad aumentare con il passare del tempo, decimando interi borghi fino all’abbandono. Tra questi rientra sicuramente il comune di Celleno, luogo abitato fino alla metà del Novecento, per poi cadere in uno stato di oblio profondo, fino a tornare di interesse verso la fine del secolo. Di ciò rimane solo l’impianto planimetrico parzialmente leggibile, sovrastato dai rovi spontanei della collina, che ne denunciano il cruciale abbandono causato dal luogo stesso. Così la vasta popolazione, pian piano, si sposta tra il borgo e la zona nuova, a due chilometri o poco più, di distanza. Nessuno farà più ritorno al castrum.

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pagina a fronte Castello Orsini. Fossato.

I pozzi da butto sono cavità naturali o artificiali, scavate o costruite allo scopo di gettare al loro interno rifiuti vari. Molto utilizzati nel Medioevo fino al Rinascimento, hanno poi visto decadere il loro uso all’interno della città per questioni legati all’igiene e alla salubrità degli abitati. Terminata la loro funzione, vengono chiusi e messi nel dimenticatoio, fino al momento in cui vengono ri-scoperti. Al loro interno possiamo trovare oggetti di ogni tipo, in cui si celano preziose informazioni sulle precedenti generazioni e, riprendendo le parole del Professor G. Romagnoli sul vicino butto di Graffignano, costituiscono una straordinaria fonte di informazione su molteplici aspetti della vita quotidiana del passato, riflettendo piuttosto fedelmente le pratiche di uso, consumo riuso e scarto dei manufatti, nonché i cambiamenti di gusto, e lo stile di vita di coloro che vi abitavano.1 Nel 1975 cinque persone vengono sorprese dalla Soprintendenza a scavare tra i ruderi di un edificio ormai demolito da anni. Ciò che ne uscì in

quel momento fu probabilmente una delle più grandi notizie che potesse capitare alla comunità cellenese. Venne riportato alla luce un pozzo di scarto di materiale, detto butto. Questa cisterna ricavata dallo scavo del banco tufaceo aveva una circonferenza di massimo 4 mt, e al suo interno conteneva quella che comunemente viene chiamata maiolica arcaica ossia quel tipo di prodotto che veniva realizzato nel viterbese, nell’orvietano e nel Lazio centrale più in generale. I primi a darne la notizia furono Joselita Raspi Serra e Franco Picchetto che pubblicarono nella prestigiosa rivista Faenza, le schede di 39 esemplari di questa preziosa maiolica. Dall’analisi ne risulta che queste maioliche hanno una provenienza e un periodo di produzione differente. Questo può essere stabilito dal tipo di colore della ceramica, della decorazione e dalla qualità dell’impasto, determinando tre zone differenti di produzione: Orvietano, Viterbese e Toscano. Ciò si collega alla grande influenza avuta dalle diverse città, in particolare proprio Orvieto e Viterbo, che hanno avu-

to tra i loro possedimenti proprio la città di Celleno. Il materiale è tutto databile tra la seconda metà del XIV secolo e la prima metà del XV secolo. Seppure i caratteri decorativi siano ricorrenti tra i vari frammenti, risulta però difficile poter fare un confronto decorativo, a causa della mancanza di studi in quest’ area. Inoltre, una documentazione storica mancante, rende complicata la determinazione della provenienza dei pezzi, che seppur risultano essere omogenei, rimane valida l’idea che possano essere stati importati, proprio per i motivi precedentemente citati. Quindi difficile determinare una scuola anche per caratteristiche relativamente eclettiche dei materiali. Interessante è però il recente ritrovamento di alcuni utensili da infornamento delle ceramiche, che potrebbero far pensare alla presenza di una fornace nelle vicinanze. Il pozzo potrebbe comunque essere chiuso dal 1450, ossia il periodo in cui si datano i pezzi più recenti, nonché il periodo di decadimento della produzione della maiolica arcaica.

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1 Romagnoli G. 2020, Graffignano. Frammenti di vita quotidiana dai butti del Castello Baglioni, p. 9.
Il butto
pagina a fronte Al centro dell'immagine il butto con la sua nuova copertura. Vista dall'alto.

Ogni architettura, si sa, è sempre prima di tutto una risposta a un problema, a un problema pratico definito.

(G. Grassi, 2000)

Salendo dalla valle, costeggiando il crinale, saltano all’occhio le rimanenze delle vecchie mura di cinta della città. Sopra di esse la natura ha preso il sopravvento a causa del lungo abbandono. Una promenade che accompagna dolcemente l’osservatore fino alla piazza principale, dedicata all’artista Enrico Castellani. La macchina urbana era così fatta: una piazza, una via principale che, solcando il crinale, la collega alla chiesa di San Donato, un reticolo viario secondario, e delle abitazioni ora più centrali, ora più a confine. Ma là dove tutto iniziava, oggi si conclude. Le lunghe diramazioni, strette, tortuose e buie, sono stroncate dal tempo. Il luogo perde così il suo carattere, le sue suggestioni, mostrando un altro aspetto di sé: vuoto, debole, incompreso. La città gotica, si spoglia delle sue vesti e lascia intravvedere tutte le sue debolezze, consumandosi nel tempo

Le ragioni d'essere

in un indomabile declino. Monumenti atemporali con tenacia mantengono ancora il loro splendore, delimitano l’agorà, la proteggono da un destino insidioso: piazza di una non città. Luogo di scambio, di politica e soprattutto luogo di socialità di una società contadina. Tutt’intorno nobili rovine, cristallizzate nel tempo, lasciano all’osservatore la possibilità di comprenderle. Non banali macerie, ma il ricordo di un racconto lasciato a metà. Le cantine tornano a prendere luce, quei sotterranei scavati nella pietra raccontano al mondo che prima degli alti edifici, spettava a loro il compito ora di dimora, ora di stalla, ora di magazzino. È da qui che inizia il pensiero sulle ragioni d’essere. Motivi economici, culturali, naturali, climatici, ingegneristici sono solo parte delle ragioni che portano il popolo cellenese a edificare qui (dove), e proprio in quel modo(come). Se è vero che difficilmente possiamo arrivare a capire chi furono i primi abitanti di questo promontorio, dovuto forse ad una poca attenzione di cui ha goduto finora questo territorio, è altrettanto vero che la

posizione risulta ottimale per il controllo sulla zona, potendo sostenere la teoria che sul colle potesse sorgere un abitato etrusco 1, da cui tutto sarebbe iniziato. Da allora anni e anni di stratificazione, e ricostruzione hanno portato alla forma attuale, di cui leggiamo solo la minima parte. E se Eladio Dieste sosteneva che l’architettura è la musica dello spazio2 ecco che tutto intorno, risuona il vuoto della città, i frammenti lasciano tracce di un passato che ritorna. Ed è qui che riusciamo a conoscere quelle che Grassi chiama condizioni materiale dell’architettura l’essenza del costruire, i motivi che portano alle scelte costruttive in questo luogo. Non solo forme, a volte ingannevoli, quanto soluzioni necessarie ai problemi intrinsechi del luogo. Composizioni minimali, essenziali, semplici e mai banali, costruite seguendo le più importanti regole dell’arte, date dall’esperienza dei costruttori. Un’architettura spontanea come definirebbe

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Crocoli G. B. 1989, Celleno dalle origini al 1870, p. 16. 2 Marti Aris C. Pierini S. 2002, Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, p. 147. pagina a fronte Valle del Tevere. Rapporto tra città e paesaggio.

Pagano, ma pur sempre dettata dallo zeitgeist del luogo, e che rappresenta in modo onesto “il legame vivente fra la terra e l’uomo che la coltiva.”3 Il prodotto di questi due fattori genera l’eidos basilare da cui tutto nasce, e a cui tutto ritorna. Nuclei rettangolari di minime dimensioni, sviluppati per uno o due piani, sono le primigenie abitazioni, in superficie, di cui ci arriva notizia verso la fine del 1400. Al loro interno le funzioni fondamentali: cellaio, granaio, camini, camera, orciolai, porte e finestre.4 E se è vero che le prime abitazioni costruite, più nobili, prendevano luogo in prossimità del Castello, ecco che pian piano tutta la superficie collinare viene colmata.

Una città sopra la città cresciuta sopra le abitazioni scavate nel tufo. Ed ancora l’innalzamento degli edifici stessi per ospitare l’enorme crescita demografica, in cui l’unica direzione di sfogo possibile era quella verticale a causa

delle condizioni stesse della collina. Molte furono le disgrazie naturali che colpirono Celleno, quindi difficilmente possiamo sostenere l’originalità delle soluzioni, ma di sicuro le attuali costruzioni hanno ereditato i caratteri e continuato una tradizione costruttiva, conservando i valori fondamentali del fare architettura. “Niente è affidato al caso o all’improvvisazione.” 5 Le case assecondano il rilievo, collaborano in un costante rapporto architettura-natura, al fine di creare un connubio indissolubile. Il luogo è architettura, il progetto è suggerito dal luogo, è già dentro al luogo, spetta all’architetto tirarlo fuori, così come Michelangelo liberava la scultura dal materiale inerte. Da esso dipende Celleno, e non vi è Celleno senza collina. Essa è luogo, è città, esso è generatore e collaboratore. Le accidentalità del luogo vengono assecondate dalla città, talvolta adattate, escludendo qualsiasi preci-

sione geometrica o modulo ma senza perdere mai i principi fondamentali di fondazione della città. Celleno “…è alla scala umana. Si armonizza con lui: è l’essenziale.” 6

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3 Pagano G. Daniel G. 1936, Architettura rurale italiana, p. 24. 4 Baciariello G. 2011, Forestieri a Celleno nel XVI secolo, in Studi in Studi in ricordo di Attilio Carosi, p. 125. 5 Grassi G. 1988, Architettura lingua morta, p. 23. 6 Le Corbusier. 1973, Verso una architettura, p. 54. pagina a fronte Celleno. Rapporto tra città e paesaggio.

Tipologia come guida per la restituzione

Partendo dalla convinzione che l’architettura esiste come frutto di opere ed esperienze che si sono nel tempo sedimentate e ripetute, il dibattito alimentato sul concetto di tipo serve per comprendere le motivazioni più profonde di determinate scelte progettuali. La casa a torre come residenza, un insieme di blocchi semplici e basilari diviene fulcro del progetto, archetipo in grado di dare risposta a molteplici questioni. Presenta la propria adeguatezza per la crescita della città di pendio, impossibilitata ad estendersi per vie orizzontali, non può che sfogarsi verso l’alto. Piano su piano, di dimensioni essenziali, con luci quasi modulari dettate dalle risorse a disposizione del costruttore ma soprattutto dalle finanze del committente. Casa massiva, con poche aperture, ora piccole poi grandi, che seguono una regola di simmetria e allineamento non scritta. Ma essa porta con sé anche un altro carattere tipologico: la casa di pendio. L’abitazione sfruttando la pendenza dello sperone,

si innesta al suo interno guadagnando un piano interrato o seminterrato dove possibile. È ora il pendio stesso a fungere da distributore degli ambienti ipogei. Le due tipologie, comunque, non differiscono: presentano sempre un rustico al pian terreno o seminterrato nel caso della residenza di pendio. La casa è rappresentata sempre con scala esterna, mai coperta, con ballatoio a creare il tipico profferlo: tipica scala dell’architettura viterbese, caratterizzata da una rampa che sbocca su un pianerottolo in cui è presente la porta d’ingresso all’abitazione, mentre sotto di esso trova luogo l’ingresso alla bottega. Possiamo ritenere che le tipologie consolidate in un determinato luogo geografico sono estremamente conservative. Difficilmente troviamo modifiche tipologiche. Per questo l’esistente è la strada per la progettazione, il progetto è la preesistenza stessa. Il progetto è dettato dalle rovine, così l’idea Rossiana di “… non disegnare più l’architettura ma di riprenderla dalle

cose della memoria.”1 vale solo dopo un attento ascolto e analisi nella preesistenza che permette di ritrovare “…gli aspetti essenziali che sono già impressi nell’architettura del passato e a partire dai quali, di nuovo, ugualmente, ripetutamente, ora l’architetto deve operare seguendone la traccia.”2 Frammenti apparentemente insignificanti, ma che assumono il loro significato nella forma finale. Una composizione logica e consapevole del manufatto, che trova come suo tracé régualteur il segno lasciato dal tempo, di una rovina senza tempo. La conclusione di un disegno lasciato a metà legando il progetto con continuità alla tipologia dell’architettura in cui si innesta. La naturale conseguenza è la creazione di un nuovo corpo, diverso, che guarda gli esempi della storia, ma intenzionato ad appartenere al tempo in cui viene prodotto, il proprio. Una rovina che non vuol essere celata, una frammentazione in cui risiede la chiave di lettura che permette di distinguere

nettamente gli elementi che si sono andati ad aggregare durante la storia. Gli edifici crescono, si addossano gli uni agli altri e lasciano dei vuoti, essenziali ai fini della funzione. Queste rimanenze assumono a volte il valore di strada, a volte quelle di piazza e garantiscono un equilibrio inconsapevole alle logiche compositive. I tessuti viari si mischiano, si incrociano, salgono e scendono talvolta creando una cordonata. Luoghi di socialità, di gioco e di crescita. Vuoti che non separano ma uniscono. Un gioco di chiaro-scuri che permette di passare da una realtà all’altra con continuità, vivere l’interno come un esterno, mantenendo sempre la distinzione tra sfera pubblica e quella privata, e di conseguenza l’idea di città, alla quale l’architettura ritorna.

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pagina a fronte Ruderi. Piazza E. Castellani.
1 Rossi A. 2009, Autobiografia scientifica, p. 79. 2 Grassi G. 1988, Architettura lingua morta, p. 11.

L’ eterogeneità del territorio italiano ha portato, negli anni, alla conoscenza e conseguente sviluppo di materiali e tecniche costruttive sempre più nuove ed innovative, diverse da luogo a luogo. Periodo storico, contesto geografico, economico, politico e sociale, sono solo alcuni dei fattori che da sempre condizionano le scelte progettuali e che, seppur apparentemente secondari, hanno strutturato l’architettura locale dell’intera penisola. Mentre la materia prima dipendeva fortemente dalle risorse reperibili in loco, il processo costruttivo e le soluzioni tecnologiche venivano selezionate su base esperienziale, al fine di garantire un ottimo livello prestazionale per ogni situazione. Con il tempo ed il progresso tecnologico la regola dell’arte cede il posto ad un modus basato sulla teoria esigenziale-prestazionale, come continua ricerca del soddisfacimento di un bisogno attraverso l’utilizzo di tecniche evolutive e di una maggiore conoscenza, anche se superficiale, della materia. Risultato di ciò è stato lo sviluppo di una relazione sincera tra

tecnica e forma, tale che l’una non prescinde dall’altra: un equilibrio fondamentale per la riuscita dell’opera.

Murature

Unità tecnologica del sistema che dalle fondazioni si sviluppa in verticale raggiungendo altezze utili. Staticamente si fa riferimento ad un comportamento scatolare, questo per resistere alle sollecitazioni di qualsiasi genere. Sebbene le testimonianze risultino decimate rispetto all’intero abitato, queste ci forniscono delle informazioni fondamentali dal punto di vista delle malte e degli intonaci utilizzati e delle tessiture. A tal proposito, la molteplicità delle stesse, ritrovate a Celleno, confermano la necessità di continue ricuciture dovute ai cedimenti del terreno e ai terremoti. Anche se ciò potrebbe mettere in dubbio l’originalità della soluzione tecnologica, non viene pregiudicata l’autenticità della tecnologia. La materia prima per eccellenza viene a connotarsi da sempre con il tufo di colore rosso, ben lavorato e tagliato secondo un modulo specifico. È

possibile riconoscere nell’intera Tuscia filari di dimensione diversa quasi in ogni paese, tanto che Celleno ricade nell’utilizzo di filari alti tra i 26-28 cm1, con uno spessore vario tra i 40 e i 60 cm. Una particolarità della muratura è la presenza di piccole scaglie di materiale differente, solitamente ceramica, nella parte superiore del corso verticale. La ceramica presenta generalmente una resistenza maggiore rispetto all’elemento tufaceo, tanto da pensare che quest’ultimo servisse da coprigiunto per proteggere la malta sottostante.2 Nelle tessiture più irregolari troviamo l’inserimento di scaglie di altro materiale, quali mattoni in cotto, peperino e raramente travertino. È possibile vedere aree di intonaco presenti in entrambi i lati della muratura, a dimostrazione che le pareti venivano rivestiste con uno strato di pochi centimetri come rifinitura esterna.

Solai

La quasi totale assenza di solai nelle poche strutture rimaste non permet-

25 pagina a fronte Tracce. Interno di un edificio.
Chiovelli R. 2007, Tecniche costruttive murarie medievali. La Tuscia, p. 99-101. 2 ivi p. 471.
Caratteri compositivi

tere di avere una conoscenza esaustiva di come tali elementi dovessero essere fatti. Tracce di trave protese, irrompono nelle murature, lasciando intuire una partitura primaria di elementi lignei di diversa dimensione, per una luce che si aggira tra i 4 e i 5 metri. Questi elementi non solo sorreggono il solaio, ma danno la misura all’abitazione. Alcuni solai e coperture vengono ricostruite negli anni recenti grazie agli interventi di restauro iniziati nel borgo abbandonato. Alcuni scritti storici però ci offrono notizie essenziali su come dovessero essere realizzati i solai di copertura: la copertura viene fatta in legno con travi, travicelli, tegole3 e probabilmente pianelle o tavole. Si intuisce così l’uso di un tipico solaio ligneo che, analizzando le tracce sulla muratura, poteva aver uno spessore tra i 15 e i 20 cm. Per quanto riguarda il rivestimento del pavimento, sempre dal precedente scritto, si legge di una specifica richiesta di pavimento in battuto 4

Porte e finestre

Solitamente di piccole dimensioni, caratterizzano le facciate dell’intero abitato seguendo delle simmetrie irregolari. Elementi fondamentali per l’ingresso della luce e delle persone, ma critiche dal punto di vista della continuità strutturale in un contesto in cui il pieno ha sicuramente la meglio sul vuoto. Possono avere dimensioni varie: larghezza compresa tra 70 e 100 cm e altezza tra 200 e 250 cm per le porte, mentre per le finestre una larghezza compresa tra 45 e 100 cm, e un’altezza tra 60 a 140 cm. La loro realizzazione prevede spesso dei pezzi speciali che vanno a formare i piedritti, mensola e architrave, tanto da poter fare delle distinzioni tra le diverse tecniche utilizzate. Nello specifico:

• Piedritto in tufo con architrave in tufo

• Piedritto in tufo con arco in tufo

• Piedritto in tufo con architrave in legno

• Piedritto in mattone con piattabanda in mattone

• Piedritto e architrave in peperino

È interessante notare la varietà di porte e finestre aperte o chiuse nelle murature preesistente, in base alle necessità del committente, che lasciano un segno indelebile di come si dovessero sviluppare i piani e le facciate degli edifici. Esse ci indicano quale dovesse essere l’altezza del piano di calpestio, o ancora se una parete era di facciata o condivisa con un altro fabbricato. Espediente caratteristico, per impedire al freddo di entrare nell’abitazione, era solito proteggere le finestre con delle impannate, telai in legno in cui venivano aggrappati dei panni.5

27
3 Baciariello G. 2011, Forestieri a Celleno nel XVI secolo, in Studi in Studi in ricordo di Attilio Carosi, p. 124. 4 ivi p. 125. 5 ivi p. 129. pagina a fronte Tracce. Sezione di un muro.

La misura che ogni opera, inevitabilmente, stabilisce con quanto l’ha preceduta è non soltanto uno dei suoi caratteri più specifici[...], ma anche l’incentivo più straordinario che abbiamo a disposizione nel progetto.

(H. Tessenow, 2003)

L’approccio progettuale alla rovina segue un processo di scomposizione e conseguente analisi sul piano geometrico, morfologico, compositivo, partendo dal concetto di incastellamento, come lenta trasformazione di ciò che prima rappresentava il tipo di insediamento rurale sparso, a concepire una nuova forma di habitat compatto o villaggio fortificato, introiettato, autosufficiente a sé stesso, figlio delle logiche comunali e del potere “temporale”. Un nucleo urbano che tende a svilupparsi attorno alla massiva presenza del castello, fulcro dell’intera composizione, cuore nevralgico ed introverso per eccellenza, a cui vanno ad annettersi diverse funzioni fondamentali per gli equilibri del sistema castrum. Abitazione, bottega, luogo di

culto. Tre condizioni da cui parte la Regola, nell’intento di riconsegnare alla città un territorio strappato dal tempo, attraverso l’analisi e il disegno degli spazi sulla base delle oneste tracce lasciate dal tempo. Un processo di progettazione che punta alla riattivazione di un brano di città tutt’oggi esistente, ridando forma all’ organismo smembrato del castro. In un contesto che appare per frammenti, l’intenzione con il progetto di far coesistere vecchio e nuovo non si risolve nella riproposizione di forme ormai svuotate dei propri significati o nella mera imitazione, ma tende all’interpretazione dei caratteri eminenti del luogo, sedimentati nella memoria collettiva. Quattro nuovi edifici ridisegnano il fronte insistendo sulle tracce del passato: ne reinterpretano i volumi e le forme, riconsegnando alla città quegli austeri prospetti tipici delle costruzioni in muratura. Vengono ristabiliti i rapporti tra i pieni e i vuoti, tra il costruito e il non costruito, fondamentale quest’ultimo come percorso distributivo, che, calcando l’orografia del terreno, si adatta creando

un’alternanza tra chiari e scuri, vie e piazze. Piccoli affacci sulla Valle del Tevere, terminano sospesi sulle coste del pendio, mediando tra la sfera naturale e quella artificiale; sul fronte opposto di questa arteria, lacerti attendono invano il completamento e ne suggeriscono la soluzione. Qui la sfera artigianale del vivere quotidiano è ancora viva e gli spazi destinati a bottega per l’arte della ceramica ne sono testimonianza, fino al percorso museale, un procedere dall’alto verso il basso tra i ritrovamenti di notevole importanza del vicino butto. Ad un livello superiore si impostano ambienti per la ricerca e l’approfondimenti di questa materia: ecco l’arte non fine a sé stessa, ma oggetto di studio, ricerca, e costante lavoro, per essere poi regalata agli altri. A sinistra del percorso museale, un antico forno viene rivitalizzato con l’annessione di uno spazio per la mensa in comunità, e ancora al di sopra, spazi destinati all’esposizione. La Regola culmina con il luogo di culto, il congelamento di un fatto che cerca e trova il tipo nella rovina stessa. Una piazza aperta ma pro-

29
Progetto
pagina a fronte Progetto. Vista a volo d'uccello.

tetta rovine inermi che segnano e narrano una storia che necessita di essere ricordata, mostrando tutta la voglia di essere ancora scritta. Vengono così a verificarsi tre differenti approcci: una nuova costruzione nel caso delle residenze che, nel confronto con la storia, reinterpretano una condizione del passato senza il timore di istaurarsi nel presente; un approccio di tipo aggregativo nel caso del museo, in cui è la preesistenza stessa che guida la nuova costruzione secondo un gioco non di opposti ma di integrazione, a creare un unicum in cui le parti rimangono comunque distinguibili; infine, la chiesa, in cui la rovina viene congelata nel tempo e continua a parlare di sè.

Residenza

Destinati agli studenti sono i quattro edifici a torre ad altezza variabile che, sfruttando il pendio, trovano locazione per gli ambienti di servizio, biblioteca e aule studio, negli interrati e semi-interrati. Planimetricamente semplici, talvolta ad ambiente unico, nascono seguendo le tracce preesistenti

e le curve di livello, che ne determinano la profondità: sfruttando al massimo il terreno, i blocchi pieni si spingono ora più avanti, ora più indietro. Ai piani più alti due ambienti: la grande stanza viene divisa in due parti portando alla creazione di una loggia che affaccia sul paesaggio circostante attraverso piccole aperture. Disegnate per ospitare due persone, le camere assolvono alla funzione di studio e riposo. I collegamenti verticali avvengono attraverso una torre, nel caso delle residenze a ovest, coronata ancora una volta da una loggia che affaccia sulla Valle del Tevere; a est un sistema di scale e ballatoi permette la distribuzione verticale e orizzontale. Prospetti austeri richiamano il costruire logico di questi luoghi, con poche e piccole aperture, a dichiarare quella massività, riservatezza, introspezione tipica dell’incastellamento. Il fronte interno, in opposizione a quello sulla valle, mostra invece tutta la sua leggerezza, criterio fondamentale a cui il progetto ha dovuto rispondere con prontezza a causa della grave fragilità del pendio e dall’insidiosa si-

tuazione sismica: la torre viene innalzata per permettere l’ingresso al corpo scale, i ballatoi vengono svuotati e una struttura lignea dichiara la sua essenza. Questa si sviluppa per tre piani in alzato, rivestita con intonaco arricchito di pigmenti tufacei, si poggia su un basamento in calcestruzzo armato rivestito con lastre di tufo. La differenziazione dimensionale delle aperture contribuisce a esplicare le diverse attività ospitate all’interno delle stanze, riprendendo quell’inequivocabile sincerità dell’architettura rurale. Cornici segnano le aperture sulla parete intonacata, mentre saltano sui rivestimenti in tufo rafforzando il tema dell’incompiuto, mostrando una costante ricerca tra finito e non finito.

Bottega

La bottega dell’arte della ceramica trova spazio al termine di un percorso in discesa, che attraversando il museo, porta i visitatori all’interno del laboratorio, diventando esso stesso spazio espositivo dinamico, in cui avviene il processo di creazione. La struttu-

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pagina a fronte Progetto. Nuovo fronte sul pendio.

ra, precedentemente di quattro piani, viene consolidata con la ricostruzione di due solai mancanti e l’edificio viene completato utilizzando una struttura in legno collaborante con una parete in tufo. Ciò permette di avere una struttura sismicamente leggera e prestante, ma con una tessitura tufacea che riprende il carattere della preesistenza e ne connota una continuità materica, valorizzando così la scatola muraria e i suoi processi di aggiunta e sottrazioni. Il percorso museale diventa esso stesso oggetto espositivo: velatamente mostra tutte le cicatrici del tempo, mettendo a nudo le diverse tessiture murarie, che possono essere viste, toccate e confrontante. Le stanze dialogano attraverso la riapertura delle porte preesistenti, e lo spazio espositivo viene sempre affiancato da un laboratorio tematico. Il collegamento verticale è garantito da una scala in pietra che richiama le tipiche scale rurali, costituite da un’unica pietra sagomata. Alla bottega sono affiancate due aule di ricerca, realizzate al di sopra del butto, una mensa, costruita sopra al vec-

chio forno e infine un’ulteriore stanza espositiva realizzata sopra a quest’ultima, in cui si può accedere dalla Ex chiesa di S. Carlo. Per conferire leggerezza e prestazioni sismiche la struttura portante è sempre realizzata in legno: si svela in prossimità delle pareti preesistenti, mostrando la propria collaborazione con la parete in muratura. Lo sfalsamento tra le finestre della mensa e quelle della sala espositiva ne indica la diversità delle funzioni ospitate. Sulla copertura si apre una terrazza, accessibile esclusivamente da Piazza Castellani, da cui è possibile godere del panorama circostante.

Chiesa

La chiesa di San Donato vede attuare un approccio diverso dai precedenti. Qui la memoria viene congelata, esposta e valorizzata. La pianta a croce greca si presenta ora come un’unica aula aperta al cielo. L’abside, posto prima a nord, poi ruotato verso ovest viene irrimediabilmente cancellato, così come la copertura, le colonne, il pavimento. L’unica colonna superstite por-

ta con sé il valore intrinseco della regola che ha generato la chiesa, e ancora oggi evoca quei tracciati eloquenti impressi nel tempo. Poche tracce di inesplicabile comprensione, si caricano di quei valori esaustivi che solo un finito è in grado di rappresentare. La (in)compiutezza, affiancata dalla necessità di non agire con interventi ingiustificati ha prediletto la scelta di un intervento conservativo della rovina, valorizzato solo dalla creazione del solaio di calpestio. Tre blocchi in pietra e l’altare posto a est rappresentano gli unici gesti a cui è affidato il compito di evocare il valore spaziale e spirituale, tra il ricordo e la memoria.

33
pagina a fronte Progetto. Nuovi volumi, strada, piazza.
Elaborati
Inquadramento 1:2000.
37 Sezioni ambientali 1:500.
Rilievo
tipologico 1:200
39 Planivolumetrico 1:200.
Piano interrato 1:200.
41
Piano terra e prospetti 1:200. Piano primo e prospetti 1:200.
43 Piano secondo e sezioni 1:200.
1:100.
Piano interrato
45
1:100.
Piano terra
Piano primo 1:100.
47 Piano secondo 1:100.
1:100.
Sezioni
49
Prospetti 1:100. Pianta, sezione, assonometria residenza 1:50.
51 Vista torre.
Vista biblioteca.
53
Vista scala museo.

Impazienza. È quella che fa chiedere a Stefano Moscini la tesi al professore all’inizio del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura V, quando di solito semmai è dopo aver sostenuto l’esame che si può cercare di capire se il percorso fatto nel corso del semestre possa diventare un approfondimento da portare avanti come lavoro finale. Inattualità. È questa sequenza di disegni come una volta, tracciati a mano, col bianco che tira avanti i piani, e le ombre a dare profondità ai corpi. Questa tesi fa seguito a un Laboratorio di Progettazione del quinto anno e a una serie di lezioni tenute come una volta, svolte di ritorno dal lockdown per Covid e col sincero desiderio di tornare in aula ad ascoltarsi e guardarsi. Ostinazione. È quella che ci fa insistere, caparbiamente, nel recuperare un antico paese abbandonato negli Anni Trenta del Novecento a causa di un cedimento della collina che ne ha, per pezzi, eroso e sbranato l’integrità. Il tempo e le mutate condizioni ci consentono di non ritornare sui luoghi perduti, ma almeno di riconsiderarne una parte, la sua storia sospesa.

Irrequietezza. È quella che non ha fatto fermare l’autore di questi bei disegni, ridiscutendo passo passo l’agibilità di ogni muro, di ogni balza, di ogni cantina scoperchiata e di ogni volta collassata, ritrovando una ragione su cui si fondasse un allineamento, una platea più solida e sicura, un orizzontamento di solaio a ricercare senza sosta un’antica trama che sapevamo, sotto, pure doveva esserci.

Sfrontatezza. È il modo con cui abbiamo dovuto spesso dare delle risposte a chi ci tacciava di nostalgia o gusto per il vintage, andando invece dietro a certezze fatte di muri che c’erano, platee dove la terra era soda e sicura, curve di livello che davano la quota di imposta di muri di sostegno. Tutti fatti spaziali che un tempo erano stati calda vita. Messe in fila in questi capoversi, sono apparentemente caratteristiche negative.

Alla prova dei fatti un tentativo condiviso di tiepida speranza.

55
Postfazione

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57 Bibliografia
Presentazione 7 Eliana Martinelli Il luogo 9 Il castrum 11 Il butto 17 Le ragioni d'essere 19 Tipologia come guida per la restituzione 23 Caratteri compositivi 27 Progetto 31 Disegni e modelli 39 Postfazione 57 Francesco Collotti Indice

Finito di stampare per conto di didapress

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Maggio 2023

Il progetto parte da un’attenta analisi architettonica per ricostruire il tessuto urbano attraverso la lettura delle tracce dalle rovine. La ricerca di un nesso coerente tra il vecchio e il nuovo, porta il progetto verso la conclusione dell’incompiuto. Invocazione al tipo, come idea che genera e a cui tutto ritorna, punto di partenza per tre diverse condizioni funzionali/progettuali: le case a torre realizzate sul pendio, sfruttano l’aspra orografia; aule didattiche ed espositive come (ri)completamento di edifici preesistenti; consolidamento e conservazione allo status quo della chiesa di San Donato. Recuperare, mantenere, progettare: operazioni attraverso le quali il monumento, testimone del tempo e del susseguirsi degli eventi, ritorna alla quotidianità e diviene funzionale alla comunità.

Stefano Moscini si laurea nel 2021 all’Università di Firenze con una tesi sulla rigenerazione di Celleno, superata con lode. Nel 2019 viene selezionato per una missione universitaria in Algeria. Nel 2022 ha collaborato con lo studio ARCHEA ASSOCIATI, per poi seguire un master in Architecture for Heritage a Bologna.

ISBN 978-88-3338-182-4

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